Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2020
LA CULTURA
ED I MEDIA
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA CULTURA ED I MEDIA
INDICE PRIMA PARTE
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
In Montagna si invecchia prima.
I Nemici della Scienza.
Scienza e fede religiosa.
La contestazione…
E se il Big Bang non fosse mai esistito?
L’estinzione di massa.
Gli Ufo.
Fuori di…Terra.
Il Futuro nel Passato.
Il computer quantico.
Le Telecomunicazioni.
L’uso del Cellulare.
Un microchip sottopelle.
Cos'è un algoritmo.
Il concetto di Isocronismo.
Giaccio Bollente.
La Sfida della Scopa.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Mente sana in Corpo sano.
Il Cervello che invecchia.
Il Toccasana del Cervello.
L’Odio per i Geni.
L’Idiozia.
Il Pessimismo.
La cura dell’Ottimismo.
Passo Dyatlov. La teoria della “tempesta perfetta”: «Impazzirono per infrasuoni».
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ignoranti …e basta!
La Scuola dalla A alla Z.
La scuola degli strafalcioni.
La Laurea Negata.
Laurea…non c’è.
Cervelli in Fuga.
Studenti in fuga.
La scuola dirupata.
Concorso docenti, il grande business dei crediti e le ombre sul Concorsone.
Più bidelli che carabinieri.
Eccellenze e Metodi.
L'Università Telematica.
Università Private: Affari ed Inchieste.
I Compiti a Casa.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
"Dio, Patria, Famiglia" contro "Uomo, Mondo, Sesso".
Falsi sin dagli albori.
La crisi dei competenti.
Non è vero che…
La saggezza degli animali.
La Libertà dell’Occidente.
La Memoria: tra passato e futuro.
La prossima egemonia culturale.
Il Buonismo.
La Dolce Vita.
Gli anni Ottanta.
Il Grande Fratello.
Il Galateo.
Siamo egolatri. Ergo: Egoisti e Narcisisti.
Lo Snobbismo.
Il nostro Accento.
«Ma che dici?»
Chi uccide la Lingua italiana?
Oltre ogni ragionevole dubbio.
La libertà: uno Stato di Fatto che non è di questa Italia.
I Radical Chic.
I Tabù.
Emozione ed Amore.
Il Pianto.
Il Romanticismo contemporaneo.
Quell’irrefrenabile bisogno di costruire il nemico.
L'anziano tolga il disturbo.
Hikikomori, il fenomeno dei ragazzi che vivono al contrario e si isolano.
Gioventù del “Cazzo”.
Un popolo di Maleducati.
Fascista!
L’Odio, il Rancore, l'Invidia, l’Ingratitudine.
La Fiducia.
Gli Amici.
V per Vendetta.
Il perdono.
C’era una volta la vergogna.
Etica dell’onore.
La Cultura di Destra.
Le Figure Retoriche.
Data Palindroma.
Il 2020 è bisestile, la leggenda dietro al 29 febbraio.
I Collezionisti di…
Ladri di Cultura.
La caccia ai tesori delle navi perdute.
Per tutti Kalashnikov, per i tecnici AK-47.
La paura della “Rete”.
L'Era Digitale.
Quando si scriveva con la penna.
Le Scoperte utili ed inutili.
Fenomeno Panini.
Fenomeno Sneakers.
Il Pac-Man.
Gli Hot-Pants.
La “Gran Moda”.
La Peluria. Spettinati sopra e sotto.
Il Nome dei Marchi.
Le Righe diaboliche.
Il Mastercheff dell'800.
Cinema: Trucco ed Inganno.
Il Doppiaggio.
Il Fotoromanzo.
L'Arte e la Conoscenza.
La Storia da conoscere.
Musei. Colosseo, Uffizi e Pompei sul podio.
Arte: le 15 mostre da non perdere nel 2020.
L’Arte Nera.
I Pinocchio.
Il Mito di Zorro.
Buon compleanno, Pippi Calzelunghe.
James Bond.
I Simpson.
Artisti Anticonformisti.
Letteratura. Dal Figlio al Foglio. Il Figlio come ispirazione.
La Cultura Contemporanea? Il trash-pop-cult berlusconiano.
I Social. Lo spazio all'orda degli imbecilli.
Scrittori da Social.
Editoria: Roba mia…
Giangrande e Morselli. Quando gli editori non editano.
Cultura e /o Propaganda?
La Grafologia.
I premi Nobel.
Albert Einstein.
Alberto Arbasino.
Alberto Moravia.
Aldo Nove.
Alessandro Manzoni.
Alessandro Michele.
Andy Warhol.
Angelo Cruciani.
Antonio Ligabue.
Antonio Pennacchi.
Bansky.
Betony Vernon.
Boris Pasternak.
Bruno Bozzetto.
Charles Bukowski.
Carlo Levi.
Cechov.
Cecilia Mangini.
Cesare Pavese.
Dan Brown.
Dante Alighieri.
Diego Dalla Palma.
Dolce e Gabbana.
Donatella Versace.
Donatien-Alphonse-François de Sade.
Eduardo e Peppino De Filippo.
Emanuele Trevi.
Ennio Flaiano.
Erno Rubik ed il Cubo.
Eugenio Montale.
Eva Cantarella.
Federico Moccia.
Gabriel Matzneff.
Geco.
George Orwell.
Giacomo Leopardi.
Giampiero Mughini.
Gianni Rodari.
Gianni Vattimo.
Giordano Bruno.
Giordano Bruno Guerri.
Giorgio Forattini.
Giuseppe Peri.
Giuseppe Ungaretti.
Giuseppe Verdi.
Goffredo Fofi.
Hans Christian Andersen.
J. K. Rowling.
Johann Wolfgang von Goethe.
Leonardo Da Vinci.
Leonardo Pisano Bogollo, noto a tutti come Fibonacci.
Leonardo Sciascia.
Ludovica Ripa di Meana.
Luigi Mascheroni.
Luigi Pirandello.
Louis-Ferdinand Céline.
Malcom Pagani.
Marcella Pedone, vita da fotografa.
Marco Lodola.
Maurizio Cattelan.
Mauro Corona.
Natalia Aspesi.
Oliviero Toscani.
Oscar Wilde.
Patrizia Cavalli.
Patrizia Valduga.
Pier Filippo d’Acquarone.
Piero ed Alberto Angela.
Primo Levi.
Robert Schumann.
Roberto Capucci.
Roberto Cavalli.
Sergio Lepri.
Sibilla Aleramo.
Steinback e Silone, i punti in comune di due cantori diseredati.
Thomas Mann.
Totò.
Valentino.
Van Gogh, il modernissimo.
Vittorino Andreoli.
Vittorio Sgarbi.
Zadie Smith.
Mai dire Influencer.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Morte dell’informazione.
Siete sicuri che è informazione?
“Professione: Odio”.
La Stampa condannata.
Il quarto grado a Quarto Grado.
Il nefasto Politicamente corretto partigiano.
La Doppia Morale.
La Censura.
Ecco la Tv del nulla.
Gli Opinionisti.
Tv-Truffa: Nulla è come appare.
Sulle spalle dei contribuenti.
Le Fake News.
L’Albo della Gloria.
Le redazioni partigiane.
Emmy Awards & Company 2020. I premi dei partigiani.
La Cnn e la tv del futuro.
Dicembre 1975, così nacque Radio Radicale.
La rivoluzione mancata di TeleBiella.
Novella 2000: 100 anni.
L'Espresso, 65 anni: partigiano.
Il decimo anno di Instagram.
Il metodo Iene.
Le "signorine buonasera".
Alda D' Eusanio.
Alessandra Ghisleri.
Alessio Orsingher e Pierluigi Diaco.
Alessio Viola.
Andrea Scanzi.
Anna Billò.
Augusto Del Noce.
Barbara Palombelli.
Bernardo Valli.
Bianca Berlinguer.
Bruno Vespa.
Daria Bignardi.
Emilio Fede.
Fabio Fazio.
Fausto Biloslavo.
Federica Sciarelli.
Franca Leosini.
Francesca Baraghini.
Furio Colombo.
Gad Lerner.
Gavino Sanna.
Gianni Minà.
Giovanna Botteri.
Giovanni Floris.
Giovanni Minoli.
Giuseppe Cruciani.
Josephine Alessio.
Ilaria D'Amico.
Luca Abete.
Mario Giordano.
Maurizio Costanzo.
Michele Santoro.
Mimosa Martini.
Monica Maggioni.
Nicola Porro.
Paolo Brosio.
Paolo Del Debbio.
Paolo Guzzanti.
Roberto D’Agostino.
Rino Barillari.
Selvaggia Lucarelli.
Veronica Gentili.
LA CULTURA ED I MEDIA
TERZA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
· La Morte dell’informazione.
IL VIRUS HA FATTO FUORI PURE “LETTERA43”. Paolo Madron: Venerdì @Lettera43 sospende le pubblicazioni. Io ho lasciato la direzione. Ringrazio l'editore che mi ha dato 10 anni di assoluta libertà. E la redazione che ci ha messo grande impegno. Le storie iniziano, finiscono, talvolta si riprendono. Si vedrà. Grazie a tutti. Agli amici e colleghi per le belle parole e l'affetto. Ai "nemici", e ne avevamo molti, che hanno reso a @Lettera43 l'onore delle armi. Mi sa che, nello stesso posto o altrove, ci rivedremo presto. Da primaonline.it il 12 maggio 2020. Da qualche tempo girava come ipotesi, ora però si è concretizzata con la decisione del Cda di News 3.0 di sospendere dopo dieci anni, dal 15 maggio, la pubblicazione di Lettera43,il quotidiano online fondato e diretto da Paolo Madron. Motivo: Matteo Arpe, il finanziere che attraverso Sator controlla l’editrice non ritiene più sostenibile l’iniziativa, anche alla luce della situazione determinata dal Covid 19, dal punto di vista economico, oltre che per le ricadute di conflitto di interessi sulle altre sue attività. Con la chiusura di Lettera43 finisce anche la direzione di Madron che tanto ha investito sul giornale on line sia in termini di soldi, avendo sottoscritto una quota del capitale sociale alla fondazione dell’impresa editoriale, sia in energie professionali, impegnatosi oltre che come direttore e giornalista, anche come presidente e amministratore delegato di News 3.0. Rimangono a disposizione almeno per ora i 13 giornalisti della redazione del sito. Cosa accadrà della testata che sicuramente è un brand riconoscibile nel mondo dell’informazione su internet – a febbraio aveva 77.000 utenti unici al giorno, piazzandosi al 72esimo posto della classifica Audiweb – ancora non si sa. Si tratta infatti di trovare un acquirente interessato a diventarne l’editore. A Madron sicuramente le conoscenze non mancano, così come amici influenti. Non ci saranno invece cambiamenti nella partecipazione di News 3.0 in Studio Editoriale – editrice di Rivista Studio, Undici e VO+ –che attraverso MoSt sole un business interessante producendo contenuti per alcuni importanti brand.
Paolo Madron per lettera43.it il 15 maggio 2020. Chiudiamo, dopo aver sfiorato i 10 anni. Li avremmo compiuti ufficialmente il prossimo 7 ottobre, il giorno in cui nel 2010 Lettera43 ha debuttato. Ricordo la temperie dell’epoca, l’entusiasmo per le magnifiche sorti e progressive dell’informazione digitale, la convinzione dell’ineluttabile declino della carta stampata. Diciamo che è andata così per la seconda, mentre per la prima non è stato il pranzo di gala che allora ci si aspettava. Piuttosto, un desco frugale. Lettera43 è nata e cresciuta con una vocazione mai tradita: quella di dare notizie, retroscena, alzare il velo sui ben paludati mondi del potere economico-finanziario (e non solo) che certo non gradiscono di essere scandagliati oltre la superficie. Di questo, anche molti che sono stati bersaglio dei nostri articoli, ci hanno alla fine reso merito. Abbiamo sempre cercato di andare dentro e dietro le cose, i fatti e i personaggi, fedeli alla convinzione che l’apparenza nasconde i veri accadimenti, che la realtà è diversa dal racconto che la filtra, dalla sua versione dominante. Ho sempre considerato che dare le notizie, possibilmente scrivendole bene, fosse una filosofia che prescindeva dalla specificità del mezzo. In parte è vero, in parte mi sono sbagliato: ho capito con ritardo che sul digitale, per dirla all’ingrosso, la distribuzione conta più della produzione. Il più clamoroso scoop o la più bella inchiesta possono risultare inefficaci se non sai come immetterli nel micidiale circuito dove il combinato di indicizzazione sui motori di ricerca e social media la fa da padrone. Il non averlo da subito compreso ci ha fatto perdere treni importanti e tempo prezioso. Siamo comunque stati un giornale che nei momenti più alti poteva contare, stando alle classifiche e agli Analytics, su una media quotidiana di 250 mila lettori. Purtroppo, e questo sin dal primo anno, mai su un bilancio in pareggio per via di una struttura dei costi che, ancorché progressivamente ridotta, è risultata sempre pletorica. Crudo dirlo, ma sarebbe sciocco edulcorare. Il modello di business non ha mai trovato un equilibrio anche perché la diversificazione sulla carta con l’esperienza di Pagina99 ha aggravato la situazione. È stato un settimanale che tutti hanno riconosciuto di grande qualità, che ha vinto il premio della critica ma non quello dell’edicola e degli inserzionisti, indispensabile per la sua sopravvivenza. La gratuità dell’informazione online, unitamente ad una tanto invocata quanto disattesa riforma dell’editoria che prendesse in carico la peculiarità dei nuovi media e i mutamenti del mercato, hanno fatto il resto. Così come il passaggio della raccolta pubblicitaria dalle campagne premium al programmatico ha ridotto i prezzi e conseguentemente i ricavi. Ciò nonostante quella di Lettera43 resta una preziosa esperienza: per la precisione e autorevolezza dell’informazione che su alcuni temi le sono state riconosciute, per aver potuto contare su un editore che ad essa ha garantito grande libertà. E per l’impegno di chi, giornalisti e non, in questi anni vi ha partecipato. Ora la casa editrice prosegue la sua attività con i periodici, Rivista Studio e Undici, che hanno saputo nel tempo trovare un equilibrio economico e un modello editoriale i cui risultati confortano e fanno sperare in un futuro di ulteriore crescita. Per quanto riguarda noi, questa non vorrebbe essere una cerimonia degli addii ma degli arrivederci. E così l’abbiamo titolata. Alla notizia della chiusura abbiamo ricevuto attestazioni di affetto e stima oltre ogni aspettativa. E parevano davvero sincere, non di circostanza o piaggeria (se pensi di aver svolto un ruolo importante sei un presuntuoso, se te lo riconoscono gli altri cominci a credere che possa essere vero). Sono stati comunque, nella buona come nella cattiva sorte, 10 anni belli e intensi. Il pessimismo della ragione, unito a un po’ di stanchezza e scoramento, porterebbe a considerarla finita qui. Ma l’ottimismo, la passione, l’insano folle attaccamento a un mestiere che ovviamente è il più bello del mondo, fanno sperare e lasciano le porte socchiuse per una ripartenza. Chissà.
Sergio Carli per litzquotidiano.it il 18 febbraio 2020. Giornali in crisi nel mondo, è l’ecatombe. Cadono gli ultimi fortini sopraffatti dall’avanzata dei barbari di internet. Secondo un recente report, dal 2004 ha chiuso il 20% di tutti i giornali statunitensi, uno su cinque, e il settore ha perso il 47% del lavoro. Le ultime notizie da brivido riguardano il gruppo McClatchy (più di 30 giornali locali), che ha dichiarato bancarotta, e Advance (una quarantina di testate in tutto il continente, facente capo alla famiglia Newhouse), che ha venduto al concorrente diretto il quotidiano di New Orleans, gioiello della corona, pianificando però 10 miliardi di dollari di investimenti ben lontano dal mondo delle notizie. Per i giornali in America crolla la pubblicità, crolla anche la pubblicità su internet per le versioni online di quotidiani e settimanali. Il duopolio divora tutto. In Italia c’era il duopolio Rai-Mediaset, poi ''triopolio'' con Sky. Nel mondo ci sono Google e Facebook che controllano, in America, tre quarti del mercato pubblicitario. Nel 2010, le entrate totali per gli annunci stampa sono scese al di sotto dei livelli del 1950 e hanno continuato a diminuire. Commenta un esperto: “Tutti ritenevano che se avessi potuto semplicemente passare al digitale, le cose sarebbero andate bene. Ma il problema è che a partire dal 2015, Google e Facebook rappresentano circa il 75% di investimenti pubblicitari digitali in dollari nei mercati statunitensi”. Se non altro, in America, si presume che Google e Facebook qualche tassa la paghino. In Europa nemmeno quello. In Italia, quando il Fisco ci provò, l’allora premier Matteo Renzi si mise di traverso essendo poi ripagato col sabotaggio del suo referendum. Ora al loro fianco si è schierato anche il presidente Trump. Bella compagnia. McClatchy è un nome che dice poco in Italia ma il gruppo comprende più di 30 quotidiani in tutti gli Stati Uniti, con un fatturato complessivo di un miliardo di dollari. Il modesto utile operativo, poco sopra i 20 milioni che portava a una perdita di decine di milioni, arrivata a oltre 300 milioni con la svalutazione del goodwill delle testate, non era sufficiente a servire l’ingente debito che McClatchy si era caricato acquisendo un altro antico e importante gruppo, Knight-Ridder, che ha fatto la storia del giornalismo americano. Era il 2006, due anni prima che il fallimento della banca Lehman Brothers scatenasse la più grande crisi dopo il 1929, che da noi dura ancor oggi grazie all’intransigenza tedesca e agli errori dei governi Berlusconi e Monti. McClatchy comprò Knight Ridder ai prezzi massimi pre crisi, poi alla crisi del 2008 si è aggiunto l’irreversibile declino dei giornali e poi ancora quello della fetta lasciata ai concorrenti dall’eccessiva voracità di Google e Facebook. McClatchy ha annunciato che intende avvalersi della cosiddetta protezione prevista dalla legge fallimentare americana e nota come “Chapter 11”. L’operazione porterebbe la famiglia McClatchy a perdere il controllo, ma porterebbe anche alla eliminazione di circa il 60 per cento dei 700 milioni di dollari di debiti, come fanno notare Taylor Telford e Thomas Heath sul Washington Post. La crisi di McClatchy, nota il WP, rappresenta “un altro segnale della sempre più profonda crisi dei giornali locali”: Il capitolo 11 consentirà a McCaltchy di mantenere a galla i 30 giornali mentre ristruttura oltre 700 milioni di debito, il 60% dei quali sarebbe eliminato. Se il piano dovesse ottenere l’approvazione del tribunale, il controllo dell’editore verrebbe trasferito all’hedge fund Chatham Asset Management, il principale creditore. La società ha ottenuto 50 milioni di dollari in finanziamenti da Encina Business Credit per mantenere le operazioni mentre è sottoposta a procedura di fallimento. Il caso McClatchy, prevede il giornale di Washington, prefigura un’ulteriore riduzione dei costi e il ridimensionamento per uno dei maggiori protagonisti del giornalismo locale, in un momento in cui la maggior parte delle redazioni statunitensi si stanno già sforzando per coprire le loro comunità tra il calo delle entrate pubblicitarie e la riduzione delle risorse. McClatchy, editore del Miami Herald, del Kansas City Star e di altri quotidiani regionali, è stato gravato dai debiti nel 2006 dopo l’acquisizione per 4,5 miliardi di dollari, di un concorrente molto più grande, Knight Ridder. L’associazione ha coinciso con un boom digitale che ha interrotto il prevalente modello di business e trasformato il modo in cui le notizie vengono consumate. I sentori sui problemi riguardanti il settore sono emersi alla fine del secolo, quando i prezzi delle azioni hanno iniziato a diminuire dalla vetta raggiunta negli anni ’90. Ma McClatchy ha superato meglio della maggior parte, le prime tempeste: alla fine del 2004, la società aveva registrato 20 anni consecutivi di crescita della circolazione, e il suo stock per 10 anni consecutivi aveva rappresentato il miglior guadagno nel settore. Poi è arrivata la Grande Recessione e lo spostamento al digitale che ha alimentato l’ascesa di Google e Facebook. I giornali annaspavano, lottavano per trovare nuove strade ed essere redditizi, a decine furono costretti a ricorrere al tribunale fallimentare o venduti a prezzi stracciati a gruppi di private equity, che ricoprirono un ruolo attivo nella gestione dei giornali. Ne derivò un inarrestabile taglio dei costi, che dimezzò quasi la forza lavoro del settore, passando da 71.000 del 2008 a 38.000 nel 2018, secondo il Pew Research Center. Fondata nel 1857, McClatchy era principalmente una società di quotidiani regionali fino a quando non ha aspirato a Knight Ridder. Nel 2005, McClatchy aveva meno della metà delle entrate di Knight Ridder. “Era il pesciolino che aveva inghiottito il pesce grosso”, si diceva all’epoca. McClatchy, dunque, acquistando il vertice del mercato, ha pagato troppo per Knight Ridder e l’immenso debito assunto per l’acquisto sarebbe stata una pietra al collo della società. Inoltre, McClatchy è stato vittima di un tipico errore del clima predatorio e barbaro che troppo spesso rende cieche le grandi aziende: non ha mandato avanti nessuna divisione digitale o personale aziendale di Knight Ridder, nonostante la crescente importanza di Internet e Knight Ridder all’epoca aveva operato un rispettabile impegno.La strategia digitale della nuova compagnia sbagliò, ponendo troppa enfasi sulle notizie locali. Una delle ultime società di quotidiani regionali con uffici all’estero nel 2015 [eredità di Knight Ridder] ha sospeso le operazioni internazionali per concentrarsi sulla copertura politica e regionale. Un esperto ha detto: “Grazie al fatto che sono in inglese, una lingua conosciuta e utilizzata in tutto il mondo, il Washington Post e il New York Times hanno raddoppiato le operazioni nazionali e internazionali che hanno portato il traffico online al di fuori di quelle città. Con un vasto traffico digitale puoi guadagnare. McClatchy aveva la stessa abilità con uffici nazionali ed esteri di 30 giornali e un ufficio di Washington che ha vinto un Pulitzer. Avrebbero potuto optare per ciò che hanno fatto The Post e il Times, ma hanno deciso di non farlo. Hanno privilegiato le notizie locali e ciò sta provocando la loro fine”. Meno strazianti per gli effetti ma impressionanti per il valore simbolico sono state due notizie riguardanti il gruppo Advance Publications. Anche il nome di Advance non dice molto in Italia, anche se si tratta di uno fra i primi gruppi in America, interamente in mano a una famiglia, i Newhouse. Suona però familiare il nome di una delle loro principali società, Condé Nast, presente anche in Italia con riviste come Vogue, Vanity Fair, Wired. Del canale tv Discovery possiedono un terzo del capitale. Advance ha un fatturato consolidato di oltre 2 miliardi di dollari e occupa 12 mila persone. Nel campo dei quotidiani è fra i primi in America, con una quarantina di testate locali. Tutto ebbe inizio con lo State Island Advance, circa un secolo fa, quando un giovanissimo ragioniere figlio di immigrati ebrei dalla Bielorussia comprò dal ricchissimo datore di lavoro a prezzo di favore la testata che perdeva tanti soldi e avrebbe dovuto essere chiusa. Fra i più importanti giornali del Gruppo c’era il Times-Picayune di New Orleans, vincitore di tanti premi Pulitzer, coperto di gloria ai tempi della grande alluvione. I Newhouse furono tra i primi a spingere sul digitale, nel 2012 tagliarono le edizioni su carta, gli organici da 260 a 70 ma alla fine si sono dovuti arrendere. Hanno venduto ai concorrenti di Advocate, che hanno fuso i due giornali, continuano con la carta, e con un sito internet molto focalizzato localmente. Al tempo stesso, informa Business Insider la famiglia Newhouse ha deciso di investire dieci miliardi di dollari per diversificare sempre di più dalla carta. Fra gli obiettivi ci sono satelliti artificiali, intelligenza artificiale, produzioni teatrali. Molti si domandano che fine farà un altro gioiello di famiglia, il Celeveland Plain Dealer, un giornale da 200 mila copie al giorno, con punte oltre il mezzo milione la domenica, fra i 25 quotidiani più diffusi degli Usa. Hanno tagliato i giornalisti di un terzo, hanno ridotto la consegna a domicilio a tre giorni la settimana. Negli altri giorni edicole, che sono pochissime, distributori meccanici e versione Pdf del cartaceo da comprare on line. Basterà? O sarà un altro buco nell’acqua? Forse qualcuno dovrebbe andare a Londra a studiare la strada percorsa dal Daily Mail, oggi il primo sito di notizie del mondo.
Carlo Tecce per “il Fatto Quotidiano” il 20 gennaio 2020. Autori e dirigenti televisivi da tempo si interrogano con aria cogitabonda su cosa offrire ai giovani e pure ai giovani fuori corso dalla gioventù, su cosa inserire nei palinsesti, scusate il termine arcaico, su cosa testare di notte come ordigni nucleari e poi lentamente portare alla dignità sacrale della sera. Un sacco di fatica sprecata. I giovani appena iscritti alla gioventù o di vecchia iscrizione non guardano la televisione per come la televisione italiana la intende, prevedibile, strutturata, arrogante perché illusa di poter imporre orari, gusti e modi di fruizione. Le statistiche Auditel per il periodo con più alta utenza (autunno-inverno), rielaborate dallo Studio Frasi, certificano una diaspora dai canali classici - quelli che sul telecomando vanno da Rai1 alle emittenti locali regionali o a pagamento di Sky - verso un altrove inafferrabile di piattaforme straniere, video di pochi minuti o addirittura di pochi secondi: oltre 2,8 milioni di italiani, dai 15 ai 44 anni, hanno smesso di accendere il televisore in prima serata e chi lo accende, badate, lo fa per 29 minuti sui 120 totali e non s' assopisce davanti ai talk show che spiegano il mondo ai giovani, ma preferisce le partite di calcio in diretta e, se adolescente o ventenne, il reality Il Collegio, un prodotto di Maria De Filippi o l' eterna Striscia la notizia. Per anticipare l' obiezione: sì, l' Italia è invecchiata, gli anziani adorano la televisione e i giovani che restano sono condannati a diventare anziani. I giovani di oggi, però, sono disabituati a un rapporto superficiale, di semplice intrattenimento, con le trasmissioni e, per non scadere nella sociologia che tracima dallo schermo, non hanno motivo di cambiare approccio. Per una semplice ragione: in passato lo spettatore subiva l' imposizione autoritaria della televisione, capace di ordinare il varietà il sabato e l' informazione il martedì, adesso è lo spettatore che comanda e, di conseguenza, sceglie. Il palinsesto non ha senso con i programmi impilati dall' alba a Gigi Marzullo con intermezzi di telegiornali, se non per il pubblico - l' Auditel ha introdotto una categoria per loro - di chi ha più di 80 anni e trascorre in media 440 minuti al giorno con la compagnia di un televisore contro i 100 minuti di un adolescente. Il 65 per cento degli italiani con più di 80 anni è sintonizzato in prima serata, ma soltanto il 18 per cento degli adolescenti (-10 punti percentuali sul 2010/11), il 20 per cento dei ventenni (-4), il 26 per cento di chi ha un' età compresa fra i 25 e i 34 anni (-7) e il 32 per cento degli adulti fra 34 e 44 anni (-10). E dai pensionati in poi le oscillazioni sono minime. Allora si può desumere che la televisione generalista e a pagamento, ben piegata nei palinsesti, sia in salute con la ricarica ricostituente degli anziani: no, sbagliato, perché la popolazione televisiva - rispetto ai residenti che sono aumentati anche se da un po' sono in fase di contrazione - è diminuita abbastanza nella media di giornata (-426.000) e molto in prima serata (-3,1 milioni). In questa stagione 19/20, al momento, in media 6 italiani su 10 non hanno toccato il telecomando durante la prima serata, o almeno non l' hanno toccato per rimbalzare tra i canali tradizionali, preferiscono serie tv a basso costo e di ottima qualità che non prevedono abbonamenti oppure piluccano frammenti di informazioni dai filmati che scorrono dai social network o, per carità, s' affacciano sul terreno presidiato dai nonni se Rai1 ha la nazionale di calcio, Canale5 dà in chiaro una gara di Champions League o Sky ha l' esclusiva di Formula1 e Motogp. Ciascuna azienda televisiva ha punti di forza che interessano milioni di spettatori, ma tutte hanno un problema: sono costrette a diluire i punti di forza in palinsesti imbottiti a volte con sciatteria per la paura di lasciare vuoti in onda e così si disperdono risorse, non soltanto economiche. È inutile parlare di giovani. I giovani non possono ascoltare. Non ci sono.
Alessandro Avico per blitzquotidiano.it il 16 gennaio 2020. Vendite giornali novembre 2019. Il mercato totale nel mese di novembre 2019 è stato di 1.859.910 vendite quotidiane. Nel novembre del 2018 erano 2.011.366 al giorno. Una differenza di 151.456, che corrisponde ad un calo totale del 7,5%. Ecco le tabelle con le vendite quotidiane dei singoli giornali nel mese di novembre, comparate con il novembre dell’anno precedente.
Quotidiani nazionali: Novembre 2019 Novembre 2018
Corriere Sera 175.993 181.588
Repubblica 133.584 143.548
La Stampa 88.853 100.830
Il Giornale 40.749 45.362
Il Sole 24 Ore 38.308 43.349
Il Fatto 23.665 29.777
Italia Oggi 16.240 16.928
Libero 24.971 23.946
Avvenire 22.191 22.144
Il Manifesto 6.859 7.547
La Verità 24.201 21.763
Quotidiani locali: Novembre 2019 Novembre 2018
Resto del Carlino 76.288 83.245
Il Messaggero 66.573 71.472
La Nazione 56.501 60.318
Il Gazzettino 40.044 40.952
Il Secolo XIX 32.265 35.167
Il Tirreno 29.783 31.991
L’Unione Sarda 30.433 32.543
Dolomiten 5.144 5.595
Messaggero Veneto 31.736 34.057
Il Giorno 30.993 41.908
Nuova Sardegna 24.636 28.800
Il Mattino 22.778 25.180
Arena di Verona 20.134 19.902
Eco di Bergamo 18.408 21.039
Gazzetta del Sud 14.693 16.925
Giornale Vicenza 17.635 19.035
Il Piccolo 16.358 18.320
Provincia (Co-Lc-So) 15.400 16.670
Il Giornale di Brescia 16.219 17.131
Gazzetta Mezzogiorno 14.185 16.448
Libertà 15.335 16.443
La Gazzetta di Parma 14.647 15.912
Il Mattino di Padova 13.555 14.861
Gazzetta di Mantova 13.626 15.174
Il Giornale di Sicilia 9.943 12.114
La Sicilia 10.938 13.580
Provincia Cremona 11.207 11.822
Il Centro 10.073 10.828
Il Tempo 11.310 12.574
La Provincia Pavese 9.279 10.225
Alto Adige-Trentino 7.403 8.574
L’Adige 9.491 10.794
La Nuova Venezia 6.696 6.875
Tribuna di Treviso 8.323 9.024
Nuovo Quot. Puglia 9.064 8.393
Corriere Adriatico 10.908 11.553
Corriere Umbria 8.347 8.689
Gazzetta di Reggio 7.247 7.622
Gazzetta di Modena 6.409 6.688
La Nuova Ferrara 5.083 5.339
Quotidiano del Sud 9.222 4.868
Corriere delle Alpi 4.098 4.516
Quotidiano di Sicilia 6.499 6.256
Nell’ultima tabella mettiamo insieme i dati di vendita (sempre in edicola) dei quotidiani sportivi, separando i risultati dell’edizione del lunedì, che è sempre quella più venduta.
Quotidiani sportivi: Novembre 2019 Novembre 2018
Gazzetta dello Sport Lunedì 127.796 138.940
Gazzetta dello Sport 121.430 127.197
Corriere dello Sport 57.648 62.214
Corriere dello Sport Lunedì 67.339 71.395
Tuttosport 37.320 40.477
Tuttosport Lunedì 39.858 46.679
Perché insistiamo sulle vendite in edicola e teniamo distinte le copie digitali? Per una serie di ragioni che è opportuno riassumere.
1. I dati di diffusione come quelli di lettura hanno uno scopo ben preciso, quello di informare gli inserzionisti pubblicitari di quanta gente vede la loro pubblicità. Non sono finalizzate a molcire l’Io dei direttori, che del resto non ne hanno bisogno.
2. Le vendite di copie digitali possono valere o no in termini di conto economico, secondo quanto sono fatte pagare. Alcuni dicono che le fanno pagare come quelle in edicola ma se lo fanno è una cosa ingiusta, perché almeno i costi di carta, stampa e distribuzione, che fanno almeno metà del costo di una copia, li dovreste togliere. Infatti il Corriere della Sera fa pagare, per un anno, un pelo meno di 200 euro, rispetto ai 450 euro della copia in edicola; lo stesso fa Repubblica.
3. Ai fini della pubblicità, solo le vendite delle copie su carta offrono la resa per cui gli inserzionisti pagano. Provate a vedere un annuncio sulla copia digitale, dove occupa un quarto dello spazio rispetto a quella di carta. Il confronto che è stato fatto fra Ads e Audipress da una parte e Auditel dall’altra non sta in piedi. Auditel si riferisce a un prodotto omogeneo: lo spot, il programma. Le copie digitali offrono un prodotto radicalmente diverso ai fini della pubblicità. Fonte Ads
· Siete sicuri che è informazione?
Che fine ha fatto il vero giornalismo? Martino Bertocci, Studente e social media manager, su Il Riformista il 9 Dicembre 2020. La sera dell’8 dicembre l’onorevole Maria Elena Boschi, Presidente dei Deputati di Italia Viva, è stata ospite di Lilli Gruber nella trasmissione Otto e Mezzo su La7. Il tema in cui si è inizialmente concentrato il dibattito è quello di una possibile crisi di governo, che, secondo la giornalista, è stata minacciata da Italia Viva. La conduttrice, molto innervosita, ha subito chiesto a Maria Elena Boschi quali fossero le richieste di Italia Viva a Giuseppe Conte e se fosse davvero pronta a far cadere il governo e aprire una crisi in piena pandemia di coronavirus. La deputata ha risposto con molta pacatezza e col sorriso ciò che aveva detto in un’intervista al Corriere della Sera del giorno stesso: “Ci auguriamo ovviamente di no”. Poi ha aggiunto: “Chiediamo che i 200 miliardi siano spesi per i cittadini italiani senza intermediari e di non sostituire il governo con una task force dopo aver già rimpiazzato il Parlamento con le dirette Facebook. Chiediamo di affrontare i problemi attuali, come l’organizzazione della distribuzione del vaccino Covid”. Subito però la Gruber ha interrotto la Boschi sostenendo che Italia Viva, se avesse avuto qualche problema con il premier lo avrebbe dovuto dire prima. Giustamente l’onorevole Boschi si è rivolta con educazione alla giornalista dicendole: “Si è persa qualche puntata precedente allora. Di fronte ai problemi non possiamo far finta di non vedere e sentire. Ne abbiamo parlato anche alle riunioni di maggioranza. Abbiamo contribuito fortemente a far nascere questo governo per non dare i pieni poteri a Salvini, ma adesso non siamo disponibili a darli a Conte”. L’ex-ministra del governo Renzi pensava giustamente, esaurito questo argomento, di poter parlare dei progetti che Italia Viva ha per questo paese e delle proposte che Italia Viva ha fatto per poter gestire i soldi in arrivo dal piano “Next Generation EU”. Questo però non è avvenuto perché la Gruber ha mostrato le foto della deputata insieme al suo compagno, mentre si faceva un selfie, senza mascherina, mentre erano completamente soli. La conduttrice le ha fatto notare come, da personaggio pubblico e politico, dovesse attenersi alle regole come tutti ma con ancora maggiore attenzione. Peccato che la giornalista forse non abbia ben presente cosa è scritto sul sito del governo italiano: “I dispositivi di protezione delle vie respiratorie devono essere obbligatoriamente indossati sia quando si è all’aperto, sia quando si è al chiuso in luoghi diversi dalla propria abitazione, fatta eccezione per i casi in cui è garantito l’isolamento continuativo da ogni persona non convivente”. La giornalista, non avendo forse elementi per attaccare l’on. Boschi, grida allo “scandalo”. Brutto vedere una giornalista di grande livello, paladina della solidarietà femminile, usare foto di riviste di gossip per la sua trasmissione che dovrebbe parlare di Politica e attualità. Dopo l’incivile trasmissione Maria Elena Boschi scrive su Twitter: “Grazie a tutti per i commenti di solidarietà dopo Otto e mezzo. Quando cercavo di parlare di contenuti venivo sempre interrotta: per Lilli Gruber più importante parlare delle mie foto che non dei 200 miliardi del Recovery Fund. Mi spiace per gli ascoltatori”. Maria Elena Boschi riceve il sostegno della Ministra Bellanova e dalla titolare del dicastero per le pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, che dichiara: “L’accanimento sulla vita privata delle persone è sempre fuori luogo, soprattutto se si è chiamati a commentare le scelte politiche del paese. Da cittadina che ascoltava mi aspettavo un approfondimento politico e non sul bacio tra l’onorevole e il suo compagno”. Ma il sostegno arriva anche da destra: Guido Crosetto picchia duro con ironia su Lilli Gruber, affidando anch’egli ad un tweet il suo pensiero: “Vi sembrerà impossibile e non ci crederete ma la Gruber, anni fa, prima del passaggio in Parlamento Europeo, faceva la giornalista“. La feroce intervista condotta dalla Gruber contro Maria Elena Boschi a Otto e mezzo, che ha scatenato i social, con i telespettatori quasi tutti in difesa della deputata di Italia Viva, ha mostrato il decadimento del vero giornalismo. La conduttrice, che la scorsa settimana aveva intervistato il premier Conte senza mai interromperlo, ha provato a coinvolgere nelle accuse alla Presidente Boschi gli altri due ospiti, Mariolina Sattanino e Massimo Gramellini che però si sono elegantemente defilati dall’incredibile linciaggio, cercando di placare un po’ le acque. È stato veramente toccato un punto bassissimo di giornalismo, se possiamo ancora definirlo tale. È vergognoso vedere in un paese civile una giornalista che, avendo in studio la capogruppo di uno dei partiti di maggioranza, trascende nella vita privata delle persone, senza invece far chiarire le posizioni politiche e interrompe l’intervistata ogni poco. La trasmissione poteva essere un momento di approfondimento, mentre si è trasformata in una macchina del fango. Non mi capacito del perché si debba mischiare la vita lavorativa con quella privata. È qualcosa di assurdo e inaccettabile. Nessuno pretende che tutti condividano le stesse idee e ciò che è proposto da una parte politica. Ma alla base di tutto ci deve essere sempre essere il rispetto. E questo nella puntata di Otto e mezzo è venuto veramente a mancare.
“Burattini, venduti e servi”: perché in ogni protesta i giornalisti vengono insultati? Rossella Grasso su Il Riformista il 3 Novembre 2020. Ormai quasi ogni giorno le strade e le piazze delle città italiane si riempiono di proteste e cortei di ogni tipo. Tra i vari ci sono semplici cittadini, le categorie che l’ultimo dpcm ha messo in crisi, le mamme che si lamentano contro la chiusura delle scuole ecc. Immancabili in ogni occasione anche gruppi di negazionisti senza mascherina che inneggiano all’amore e invitano all’abbraccio. In questa pletora di persone unite per diversi motivi dalla protesta volano spesso anche insulti più o meno violenti contro i media. Spesso con spintoni e aggressioni verbali invitano i giornalisti a togliere la mascherina accusandoli di non dire la verità, di “essere asserviti”. Una scena che si è ripetuta anche durante il provocatorio “corteo Funebre” che si è svolto a Napoli la sera del 2 novembre. Il gruppo di manifestanti ha, infatti, inscenato il funerale dell’economia campana con tanto di carro funebre, necrologi e crisantemi. Ma durante il percorso i manifestanti hanno iniziato a insultare violentemente anche i giornalisti che erano lì per dare voce alla protesta e raccontare le istanze dei manifestanti. “I giornalisti ci devono sempre buttare a terra, sempre. Invece di venire a occuparsi dei nostri diritti, delle nostre difficoltà da lavoratori a partita iva, che dobbiamo chiudere le nostre attività, ci accusano solo di assembramenti”. Ha detto polemicamente una ragazza alludendo al fatto che nel racconto dei fatti non sfugge il problema degli assembramenti che queste manifestazioni comportano. Un fatto anche questo innegabile e ben visibile dalle immagini. Assembramenti a cui i giornalisti, loro malgrado si espongono, pur di dar voce alle proteste e raccontare a tutti cosa accade. Comprese quelle che sono le storture che la paura e la rabbia per la pandemia stanno generando senza freno. Gli insulti continui ai giornalisti sono una parte di questi. “Voi giornalisti dovete dire le cose giuste – continua una delle manifestanti – non quelle che convengono a voi che vi mandano a dire di dire”. Poi la manifestante prosegue asserendo di essere in primis giornalista “ma me ne sono andata dal sistema – ha continuato – paragonando l’informazione pubblica alla camorra – e quindi non vengo a fare la burattina qua in mezzo io mi sono rifiutata”. Dunque la critica viene da una “giornalista” ed è curioso anche che la manifestazione in questione fosse stata organizzata proprio da un giornalista. Un pensiero che per chi ha seguito con passione e dedizione varie proteste si è sentito ripetere spesso. Il 2 novembre la scena sotto la Regione Campania è stata ancora più violenta, magari non fisicamente, come durante gli scontri di quel primo venerdì di coprifuoco, ma verbalmente sicuramente si. Nelle immagini si vede il gruppo dei giornalisti impugnare telecamere e microfoni e dal lato opposto alcuni manifestanti gli gridano in faccia “giornalaio!”, “venduti!” e poi in coro “servo, servo, servo!”. Poi la scena tocca picchi di follia: un manifestante con la maschera di De Luca insulta uno dei cameramen accusandolo di non indossare la mascherina. Il cameraman, che invece indossa tanto di mascherina a norma, resta impassibile mentre l’uomo continua a gridargli contro: “Ti stanno filmando tutti, poi ti sputtaneranno… poi ci farai sapere se siamo noi i negazionisti o tu il prezzolato”. E parte l’applauso della folla intorno. Una scena che fa male a chi si affatica a raccontare anche questo, spesso anche mal pagato o nulla o affatto tutelato. “Giornalisti terroristi alla gogna vergogna”, recita invece un altro cartello. A portarlo fieramente al collo una donna che ne spiega i motivi: “In televisione fanno vedere cose assurde – ha spiegato – pochi giorni fa hanno fatto vedere due ospedali di due paesi differenti, poi due barelle che portavano i cuscini, uno vestito da marziano con la tuta anticovid ma che indossava gli infradito, un altro che portava un cadavere con tre dita. Quindi adesso diciamo basta”. Peccato che tutte le assurdità elencate dalla signora siano state promosse e divulgate sui social, tanto da diventare virali. Forse dei giornalisti non si può poi così tanto fare a meno.
LA NOTA DEL PRESIDENTE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI OTTAVIO LUCARELLI – Ringrazio il Riformista per questa puntuale denuncia ed esprimo solidarietà e vicinanza al collega minacciato e a tutti i giornalisti sotto tiro. In questa fase più che mai siamo in prima in linea vicini ai contagiati, ai medici, agli infermieri. E siamo in strada a raccontare il Covid. Eppure l’ignoranza dilagante continua a prenderci di mira. Per questo insisto nel chiedere a Prefetto e Questore maggiore protezione per chi ha il delicato compito di informare l’opinione pubblica.
Se adesso la Murgia "insegna" a Repubblica come fare giornalismo. Michela Murgia ha deciso di insegnare ai giornalisti come parlare del femminicidio: l'ha fatto con una lista di frasi da usare e da non usare consegnata alla redazione di Repubblica. Era necessaria? Francesca Galici, Venerdì 02/10/2020 su Il Giornale. Michela Murgia inizia a essere indigesta anche dalle parti de la Repubblica. Strano ma vero, la redazione del quotidiano pare si sia ribellata a un diktat della scrittrice, a capo di un team che si è premurato di stilare un decalogo orewlliano con le regole per trattare i casi di femminicidio in modo tale da non urtare la sensibilità altrui, in primis quella della scrittrice. "Come raccontare un femminicidio", è il titolo dell'elenco che la Murgia ha preparato per la Repubblica con la benedizione del direttore Maurizio Molinari. È un argomento insidioso quello del femminicidio, che purtroppo regala spunti di cronaca quasi quotidiani nel nostro Paese. Tuttavia, si presume che giornalisti professionisti ed esperti come quelli de la Repubblica siano capaci di raccontare i contorni di vicende così complicate anche senza la guida di una scrittrice. Non c'è da stupirsi se - come racconta il quotidiano La Verità - pare che dopo aver scorso le regole della guida, la redazione sia stata pervasa da un sentimento diffuso di nervosismo, del tutto giustificato. La Repubblica in questo periodo non naviga in acque serene. La massima espressione del giornalismo progressista del nostro Paese è sceso sotto la quota psicologica delle 100mila copie di tiratura. Il motivo? La nuova linea proposta dal direttore Molinari, che si è insediato solo pochi mesi fa, ha destabilizzato le sicurezze dei lettori, soprattutto quelli più anziani, abituati a un approccio più duro e pasionario del giornale su molte tematiche, soprattutto quelle politiche da sempre care alla sinistra pura italiana. Il nuovo corso di Molinari ha confuso anche i giornalisti, che dopo diverse novità introdotte dal direttore, ora si trovano anche a dover sottostare a un elenco scritto da Michela Murgia. Nel suo decalogo, la scrittrice sarda spazia su molti aspetti, comprese le modalità di scrittura degli articoli sul femminicidio. È comprensibile che i cronisti si siano sentiti offesi nella loro professionalità, anche per il modo in cui la scrittrice è salita in cattedra. I 7 punti della lista orwelliana sono divisi in due colonne, i sì da una parte e i no dall'altra. Rispettivamente, in ognuna delle colonne, i cronisti di Rep trovano esempi di frasi da usare e da non usare, indicazioni per lo più ovvie che riscaldano gli umori dei giornalisti del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. "Non far sembrare l'omicidio una conseguenza delle scelte della vittima", "non empatizzare con l'omicida ma con la vittima", "non patologizzare il movente", e cosi via. I cronisti de la Repubblica hanno improvvisamente disimparato il loro mestiere? Difficile crederlo, infatti il comitato di redazione sta studiando la questione e si prepara ad agire. Michela Murgia non gode di particolare stima giornalistica da parte della redazione di Rep, che non riconosce alla scrittrice doti in questo ambito. Eppure, la scrittrice sarda non è completamente estranea all'universo del quotidiano, visto che è stata assoldata tempo fa a capo del team social de la Repubblica. È vero che il tema del femminicidio è spinoso ma è altrettanto vero che un giornalista non può realizzare un articolo con il bignami delle frasi pronte di Michela Murgia. I vertici del quotidiano di Scalfari hanno fatto un passo avanti dopo i debunker e i fact check, dopo i cani da tartufo delle fake news e gli invocatori del karma. Hanno assoldato la donna del "fascistometro" per dare lezioni di politicamente corretto alla redazione che del politicamente corretto ha fatto la sua bandiera. E così, sulle pagine di la Repubblica non si leggeranno più frasi giustificatorie per gli omicidi delle donne, non si dirà più "che si trattava di un fidanzatino, che era un insospettabile, che aveva perso da poco il lavoro, che era soffocato dai debiti". Giusto, ma succederà lo stesso con le tematiche legate ai migranti?
Laura Cesaretti per “il Giornale” il 29 settembre 2020. Un tempo c'era Ernest Hemingway. Oggi c'è Dibba, e basterebbe questa malinconica parabola a dare idea della decadenza di una nobile ed antica professione. Ma c'è di più: oltre che reporter d'oltremare, l'ex deputato grillino Alessandro Di Battista si fa anche docente di giornalismo, e sale in cattedra, per spiegare a giovani di belle speranze le «linee guida per la realizzazione di un reportage dall'estero». Alla modica cifra di 185 euro, e senza spostarsi dal divano di casa perché la lectio magistralis sarà online. L'ideona didattica è venuta a quelli di Tpi, sito di informazione «senza giri di parole» (qualunque cosa ciò voglia dire) diretto da Giulio Gambino (figlio di Antonio, cofondatore dell'Espresso) e da Stefano Mentana (figlio di Enrico, direttore del Tg La7), e animato nel tempo da firme come Davide Lerner (figlio di Gad) o Sofia Bettiza (figlia di Enzo). Il sito sta lanciando questo suo «workshop» sul giornalismo online, che si svolgerà ad inizio ottobre, per dare agli aspiranti Montanelli in erba «l'opportunità di imparare dalle nostre più importanti firme», previo sganciamento di 185 euro, i segreti del mestiere. E tra queste «importanti firme» c'è per l'appunto - da un paio di mesi - anche l'egregio Dibba, che ultimamente non se la passa benissimo. Il suo tentativo di prendersi le redini del declinante M5s, come gli aveva promesso Davide Casaleggio (figlio di Gianroberto), non pare decollare. La legislatura, tanto più dopo l'improvvido taglio del numero di parlamentari, è destinata a durare fino al suo termine naturale, e se possibile oltre, quindi il miraggio della rielezione a deputato si allontana. E i committenti dei «reportage» di Di Battista dai Caraibi, dalla West Coast o dalla Persia sembrano defilarsi: Sky, dopo la trasmissione del lunghissimo filmino delle vacanze della famiglia Dibba, intitolato L'altro mondo, non pare interessatissima a nuove produzioni. Quanto al Fatto Quotidiano, primo organo di stampa mondiale a lanciare l'Hemingway di Roma Nord, con Marco Travaglio che sfidava la redazione imbizzarrita per difendere la prestigiosa firma e mantenere segreti i suoi compensi, è finita a schifio, causa contrasti politici sulle regionali pugliesi. Nel suo editoriale pre-voto, il medesimo Travaglio (che ormai ha trasferito i suoi affetti dall'aspirante Corto Maltese de noantri al più azzimato Giuseppe Conte) ha praticamente scomunicato la sua ex firma, prendendolo a pesci in faccia per la sua imperdonabile fronda contro lo statista di Volturara Appula. Certo, sul canale tv travagliesco si può ancora trovare il filmino pro-Iran intitolato Sentieri Persiani, frutto dell'ultima vacanza-studio dibbiana. Ma in futuro ci sarà ancora spazio per il suo giornalismo d'assalto e controcorrente, capace di spiegare coraggiosamente (in ben tre puntate) che «l'Islam non è un monolite ma si divide tra sunniti e sciiti» e che «l'Iran è un grande paese abitato da grandi popoli», inclusi i turcomanni? Intanto, la nomade firma è ospitata da Tpi, dove da agosto ad oggi ha lasciato tre pregevoli scampoli di prosa: uno per spiegare che la guerra in Afghanistan è fallita; uno (chilometrico) per inveire contro Mario Draghi «apostolo delle élite» e l'ultimo - datato 16 settembre - ed incongruamente rubricato «reportage», per fare un appello al «Sì» nel referendum. Se pagate 185 euro potrete farvelo spiegare di persona.
Giovanni Vasso per ilgiornale.it il 2 ottobre 2020. Sulle ceneri dell’Udeur esplode la rissa politica tra Alessandro Di Battista e Clemente Mastella. Di Battista, in un’intervista televisiva andata in onda su La7 nella prima serata di ieri, aveva evocato il Campanile per commentare, negativamente, l’evoluzione politica del Movimento Cinque Stelle. Di Battista ha affermato che se la creatura pentastellata continuerà nelle politiche attuali "si andrà verso una direzione di indebolimento del M5S e si diventerà un partito più come l’Udeur, buono forse più per la gestione di poltrone e di carriere. Non è quello per il quale ho combattuto". Profetizzandone come inesorabile la trasformazione in una sorta di piccola formazione centrista, Di Battista, in pratica, ha evocato una sorta di vero e proprio contrappasso politico per i Cinque Stelle. Le sue dichiarazioni, infatti, hanno colpito al cuore l’immaginario stesso del M5s e ovviamente hanno sollevato un putiferio all’interno della compagine pentastellata. Ma hanno sortito anche un effetto collaterale, non da poco. La reazione, furibonda, del sindaco di Benevento Clemente Mastella, per lunghi anni padre e dominus dell’Unione dei democratici per l’Europa. Non è stata, da parte del “movimentista”, una citazione innocente quella del Campanile: Clemente Mastella, infatti, era diventato negli anni scorsi una delle figure più criticate sul panorama nazionale ed era tra i bersagli "preferiti" dei pentastellati già dagli albori. Mai è corso buon sangue tra l'ex Guardasigilli e il M5s. Una sfumatura, questa, che non è certo sfuggita allo stesso Mastella il quale ha tenuto a rispondere, in un video, alle dichiarazioni di Di Battista. E lo ha fatto prendendosi la soddisfazione di restituirgli, in una videorisposta che ha pubblicato sui suoi social, i “vaffa” che gli erano piovuti in testa all’epoca del V-Day di Bologna. Un redde rationem che attendeva, evidentemente, da ben tredici anni dato che quella manifestazione "fondativa" del M5s si tenne l’8 settembre del 2007 nel capoluogo emiliano. Mastella non ha lesinato sulle definizioni e le accuse: “Questo Robespierre dei miei stivali manifesta l’intenzione di prendersela con i suoi e chiama in causa il mio Udeur. Che era una cosa molto seria a differenza di questo gruppo di personaggetti senza cultura, insignificanti e loro sì davvero legati al potere”. E dunque, non prima di aver ricordato che lui con l'Udeur aveva il peso di determinare il destino dei governi e di aver ottenere per questo risultati politici importanti, si è tolto il macigno che si portava nei mocassini da più di un decennio: "A lui potrei dire soltanto una cosa: vaffa. Come voi dicevate a me quando, con Beppe Grillo e gli altri vi divertivate a Bologna. Ora mi diverto io. Vaffa, carissimo Di Battista: sei un grande leader mondiale dell’idiozia politica”.
QUANTO VALE UNA FIRMA AUTOREVOLE DEL ''CORRIERE DELLA SERA''? DAGOREPORT il 2 ottobre 2020. Quanto vale una firma storica, e autorevole, del Corriere della Sera? Per Urbanetto Cairo 50 euro se l’articolo è commissionato dal direttore (sic!) Luciano Fontana. Ogni ulteriore proposta dell’autore va messa in pagina gratis anche on line. Nel deserto pietrificato di via Solferino gira da giorni una lettera-ultimatum firmata di proprio pugno dall’ex tuttofare di Berlusconi, che segue un percorso miserevole di risparmi a spese della redazione e della residua qualità del quotidiano. Un ukase incredibile , che – ma c’è ancora un comitato di redazione? -, fa a pugni con il contratto di lavoro. Tocca infatti al direttore responsabile non ad Arpagone Cairo, l’assunzione o la rimozione di redattori e collaboratori. E non all’editore che seduto su una montagna di debiti (vedi articolo a seguire) - coperti generosamente a tassi agevolati fino al 2022, dalle banche azioniste (in testa Intesa e Ubi) -, come tutti gli spilorci non sa nemmeno fare di conto. Da una parte, strapaga alcuni giornalisti e opinionisti, ad altri offre umilianti oboli da 50 euro. Del resto già molti giornalisti lavorano gratis per la causa di patron Cairo, costretti a fare i ciceroni nei tour turistici organizzati dall’Rcs. Ma se i tifosi del Torino calcio contestano i mediocri risultati della squadra presieduta da Cairo, da tempo in via Solferino hanno ripiegato le bandiere dell’indipendenza e della qualità. Certo, nei corridoi qualcuno, a denti stretti, si lamenta di questa pratica stracciona di Cairo: “Ormai siamo l’ house-organ della cairota La7! Nella pagina dei commenti, una volta presidiata da Sergio Romano e da altre illustri firme, è occupata ora da Myrta Merlino e Pierluigi Diaco che, senza offesa per i colleghi, non mi sembrano all’altezza dei precedenti e titolati collaboratori”. Tacciono i naufraghi aggrappati alla scialuppa di via Solferino. Silente il direttore Fontana, trasformatosi in una sorta di passacarte di Cairo che impone le sue scelte anche sulle pagine culturali. E al coro dei muti (e sordi) si uniscono il vate Abramo Bazoli, predicatore dei valori umani (altrui), che ha imposto Urbanetto al comando dell’Rcs Mediagrup, e gli azionisti forti (Nagel-Mediobanca, Della Valle-Tods, Cimbri-Unipol, Tronchetti Provera-Pirelli) nonostante il titolo in borsa abbia toccato il minimo storico perdendo metà del suo valore (-50%). Per la prima volta la Cairo Communication di Urbanetto vale meno della partecipazione da lui controllata (58,83&). Forse il bilancio si risolleverà tagliando le buste paga e dando l’elemosina ai collaboratori del Corriere.
Gianluca Zappa per startmag.it il 2 ottobre 2020. Cairo Communication vale attualmente meno della partecipazione di controllo (58,83%) detenuta in Rcs Mediagroup. E’ quello che sottolinea in un commento-analisi del quotidiano Mf/Milano Finanza del gruppo Class Editori fondato e diretto da Paolo Panerai. Il quotidiano finanziario parte da una premessa: il settore dei media è stato uno dei più colpiti dal Covid-19. “Per questo i dati e le valutazioni attuali probabilmente non sono veritieri, non rappresentano il reale valore di un business in crisi ormai dal 2008”. Comunque, guardando all’andamento di Piazza Affari – i numeri sono pur sempre i numeri – non si può non notare che, complice il nuovo minimo storico toccato ieri (1,24 euro per azione), Cairo Communication vale attualmente meno della partecipazione di controllo (58,83%) detenuta in Rcs Mediagroup, sottolinea il giornale diretto da Panerai. Questo – rimarca Mf/Milano Finanza – perché se il gruppo di via Rizzoli alla data di ieri aveva una capitalizzazione di 290,68 milioni, la market cap della società controllante, 166,68 milioni, risulta inferiore per valore (173,92 milioni) della quota detenuta della società fondata da Urbano Cairo. Il tutto senza considerare che “Cairo Communication al 30 giugno scorso presentava un indebitamento complessivo (inclusi i contratti d’affitto ex Ifrs 16) di 297,5 milioni. Il dato però tiene anche conto del debito totale di Rcs, 276,2 milioni”. Ciò significa che, in termini di equity value, il mercato per l’appunto assegna alla capogruppo quotata che fa riferimento (67,375%) al patron del Torino Calcio un valore in complesso inferiore a quello della partecipazione di riferimento detenuta nel suo principale asset, ossia la società che in Italia edita tra gli altri il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport: “Va segnalato che a fine giugno l’emittente La7 presentava i ricavi per 50,9 milioni e una perdita di 6,3 milioni e la Cairo Editore aveva un fatturato di 44,4 milioni e un utile di 1,9 milioni”.
Alberto Custodero per repubblica.it il 31 luglio 2020. La diretta, a volte, può giocare brutti scherzi. È il caso del servizio del Tg2 che, proprio in una diretta dal Senato a pochi secondi dalla chiusura delle votazioni sul caso Open Arms, ha annunciato "il colpo di scena". "Salvini non andrà a processo, non è stata concessa l'autorizzazione". La giornalista era nella sala dei Postergali, quella usata per le dirette nella quale non ci sono agenzie, non ci sono computer e non ci sono nemmeno schermi dai quali seguire i lavori in Aula. La cronista posa il telefono e prende la parola. "È proprio di ora il risultato, non è passata l'autorizzazione a procedere..." è stato l'incipit del servizio della cronista di Palazzo Madama. Pare che l'errore di interpretazione del voto dell'Aula le sia stato suggerito al telefono, pochi istanti prima della diretta, dal suo caporedattore. "Sembrava un voto scontato - prosegue lo sfortunato servizio - visto anche il sì di Iv. E invece no, ci sono stati 141 voti favorevoli ma 149 no. Quindi Salvini non andrà a processo. Questo è davvero un colpo di scena perchè tutta la maggioranza era compatta per dire che non c'era interesse generale". "Ma il centrodestra compatto ha detto no: Salvini ha fatto l'interesse generale". Protagonista della clamorosa gaffe una giornalista parlamentare con vent'anni di esperienza e scrittrice. Suo il libro "Di corsa e di carriera", edito da Macchioni, prefazione Vittorio Sgarbi. Questa volta, ironia della sorte, andare in onda di corsa ha procurato alla conduttrice un inciampo di carriera. Il suo svarione non è passato inosservato. E come avrebbe potuto non essere notato, del resto, vista tra l'altro l'enfasi con cui annunciava che "il centrodestra, compatto, ha detto che Salvini ha fatto l'interesse generale".
Le scuse della direzione del Tg2. "Nell'edizione del Tg2 delle 18.15, subito dopo l'annuncio della presidente del Senato Casellati del risultato della votazione sull'autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini, durante un collegamento abbiamo erroneamente detto che con il voto l'autorizzazione a procedere non sarebbe stata concessa, mentre il Senato ha autorizzato il processo al senatore Salvini". Così, in una nota, la direzione del Tg2. "È stato un grave errore di interpretazione del risultato, che abbiamo corretto qualche minuto dopo con un vivo del conduttore. Ci scusiamo comunque - conclude la direzione del Tg2 - per aver indotto in errore i nostri ascoltatori".
Tg2, errore su Salvini. Il direttore attacca tre giornalisti: “Dilettantismo”. Da professionereporter.eu il 7 agosto 2020. Il Tg2 delle 13 del 5 agosto ricordando le opere e le azioni di Sergio Zavoli, appena scomparso, ha detto che era “senatore a vita”. Notizia destituita di fondamento. Il grande giornalista, orgoglio dell’azienda dove viene prodotto il Tg2, è stato quattro volte senatore (eletto), nei Ds, nell’Ulivo e due volte nel Pd. Nel giro di una settimana è il secondo incidente della testata Rai dopo l’annuncio del voto negativo in Senato sul processo a Salvini. Ore 18,15, giovedì 30 luglio, il Tg2 dà la notizia che la richiesta di autorizzazione a procedere per il leader della Lega Salvini sul caso Open Arms è stata respinta dal Senato. La verità è il contrario. Il segretario delle Commissione parlamentare di vigilanza Rai, Michele Anzaldi (Italia Viva) ha chiesto la sostituzione del direttore Gennaro Sangiuliano, nominato dal governo giallo-verde Salvini di Maio, e ritenuto vicino alla Lega. Sangiuliano reagisce attribuendo le colpe della vicenda Salvini-Open Arms al vicedirettore Francesca Nocerino, al caporedattore Massimo D’Amore e alla caporedattrice Maria Antonietta Spadorcia. Scrive di “faciloneria e dilettantismo”, annuncia che, d’intesa con la Rai, valuterà “eventuali provvedimenti”. Dopo l’incidente Salvini-Open Arms, Anzaldi ha rivolto un’interrogazione al presidente e all’amministratore delegato della Rai: “Nel corso di un collegamento con il Senato, la caporedattrice Maria Antonietta Spadorcia ha dichiarato che la votazione appena conclusa aveva decretato lo stop al processo per il leader della Lega. In realtà il Senato aveva deciso a maggioranza di dare il via libera al processo. Dopo questo palese errore, nessuna correzione immediata è stata fatta né dalla conduttrice in studio, al momento di riprendere la linea dal Senato, né subito dopo. Sono passati ben 13 minuti di tg e svariati servizi, prima che la conduttrice tornasse sull’argomento e proponesse non una totale smentita della notizia falsa, ma una "parziale correzione" di quanto detto. Nell’occasione, peraltro, la conduttrice non ha rivolto nessuna scusa ai telespettatori”. Anzaldi chiede di conoscere quanti fossero i giornalisti che vigilavano sulla messa in onda dell’edizione delle 18.15 (oltre alla giornalista inviata in Senato e alla conduttrice), tra direttore, vice direttore, capi redattori e vice capiredattori, capi servizio e vice capiservizio, responsabili dell’edizione, redazione politica. E chiede se l’azienda non ritenga doveroso prendere provvedimenti. Il direttore Sangiuliano ha fatto sapere che giovedì 30 luglio era assente dalla redazione, perché convalescente dopo un’operazione chirurgica. “La responsabilità del direttore c’è sempre -dice Anzaldi- che lui sia materialmente presente o meno in redazione. E sottolineature del genere sono umilianti innanzitutto per la redazione”. Dopo il servizio con errore su Zavoli Anzaldi ha chiesto all’ad Salini, “cosa altro deve succedere per sostituire il direttore?”. La Direzione Relazioni Istituzionali Rai ha risposto ad Anzaldi che, innanzitutto, ”il direttore Gennaro Sangiuliano ha ammesso l’errore sulla notizia della non autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Salvini”. In un comunicato del giorno dopo -ricorda la Rai- Sangiuliano ha definito l’accaduto “un errore inaccettabile”. Sangiuliano era in convalescenza per un serio intervento chirurgico e non era in sede: “Sono intervenuto tempestivamente da casa per far leggere dal conduttore una nota che ristabiliva la corretta narrazione dei fatti”. Probabilmente -sostiene la Rai- la concitazione del momento, la tempestiva evoluzione dei fatti, la volontà di informare rapidamente i telespettatori, insieme alla postazione logistica della giornalista in collegamento all’interno del Senato ma lontana dal luogo degli eventi, sono fattori che hanno contribuito a rendere possibile l’errore. Così la Rai ha ricostruito i fatti: nel corso dell’edizione pomeridiana del Tg2 del 30 luglio è stato trasmesso un servizio, realizzato dalla stessa inviata al Senato, Maria Antonietta Spadorcia, che dava conto dello svolgimento dei fatti e concludeva che probabilmente, dopo le dichiarazioni del senatore Matteo Renzi, si sarebbe giunti a un esito sfavorevole al senatore Matteo Salvini. Il Tg2 si è poi collegato con la postazione a palazzo Madama, dove si trovava la giornalista in una posizione logistica dalla quale era estremamente complicato seguire l’evoluzione dei fatti e dunque l’esito delle votazioni. Contemporaneamente il caporedattore della redazione politica, Massimo D’Amore, ha trasmesso via telefono alla Spadorcia una errata informazione sull’esito della votazione e per questo la giornalista ha riferito la notizia non corretta. In tale quadro occorre sottolineare che, nel corso della stessa edizione del notiziario, è stata prontamente data ampia notizia dell’esatto svolgimento dei fatti per correggere l’errore commesso e si è cercato invano di ricollegarsi con la postazione al Senato per scusarsi dell’accaduto in diretta. “Al fine di porre rimedio alla incresciosa vicenda, con pieno senso di responsabilità il direttore Sangiuliano, d’intesa con la direzione comunicazione della Rai, ha fornito alle agenzie il comunicato suesposto in cui ha riconosciuto l’errore e ha chiesto scusa ai telespettatori, mentre il caporedattore Massimo D’Amore si è assunto la piena responsabilità dell’accaduto in una nota inviata all’amministratore delegato Fabrizio Salini”. In una lettera inviata all’amministratore delegato Salini, al Direttore del personale, Felice Ventura, al comitato di redazione e ai diretti interessati, Sangiuliano parla di “estrema gravità” di quanto accaduto al Tg2 a proposito del voto su Salvini. Ribadisce che dal 21 luglio si è allontanato dal giornale per due settimane per sottoporsi a un intervento chirurgico e poi per un’altra settimana di convalescenza. Quindi mette in fila la catena di errori da lui individuata “alla luce di un’analisi fredda e accurata”:
1) Il Tg2 delle 18.15 aveva già un servizio che dava conto della vicenda Salvini, non era assolutamente necessario fare questo ulteriore collegamento, che il vicedirettore avrebbe dovuto rifiutare, nell’attesa di precisare i termini e i numeri della votazione. Meglio dare dopo, con puntualità e precisione una notizia, che farsi prendere dall’ansia dell’immediatezza.
2) Il caporedattore D’Amore, iscritto da anni alla stampa parlamentare, ha stravolto l’esito della votazione, mentre erano giorni che agenzie e giornali chiarivano che la votazione sarebbe avvenuta sulla richiesta di non autorizzare inoltrata dalla Giunta presieduta dal senatore Gasparri.
3) La modalità con cui la giornalista Spadorcia ha annunciato un esito errato della votazione non presentavano quella sobrietà e quel distacco che dovrebbero costituire l’essenza del servizio pubblico, la terzietà del giornalismo, rispetto al quale vanno celate idee ed entusiasmi di sorta. Non solo, essendo in Senato, anche di fronte ad una comunicazione del caporedattore, avrebbe dovuto verificare la notizia.
4) Il vicedirettore Nocerino non solo non ha vigilato su quanto stava accadendo intervenendo con la sua autorità, accertando come era suo dovere prima l’esatta essenza della notizia, ma non ha organizzato una pronta reazione.
5) Sono dovuto intervenire io da casa per chiedere A) far ricollegare la Spadorcia per scusarsi e ridare i tennini esatti dei fatti; B) mandare il caporedattore D’Amore in studio, in diretta a chiarire i termini della questione; C) Dare una nuova notizia letta dal conduttore (per vari motivi tecnici che mi sono stati accampati solo l’ultima delle richieste è stata soddisfatta nella stessa edizione).
6) Per mia dignità ho dettato alle agenzie un comunicato, senza se e senza ma, di scuse, riconoscendo in tutto il clamoroso errore. Mesi di impegno, come la rubrica sui “Musei d’Italia” o “L’era del coronavirus”, che ci sono state riconosciute unanimemente come esempio di giornalismo positivo, lo straordinario impegno degli inviati nel raccontare i fronti caldi della pandemia, tutto rischia di essere vanificato in termini di immagine e credibilità da faciloneria e dilettantismo non richiesti. Valuterò d’intesa con l’azienda eventuali provvedimenti”.
Intanto, proprio nella rubrica “Musei d’Italia”, firmata da Sangiuliano e Ricci, la sera del 6 agosto, Anzaldi ha pescato un altro errore: Giosuè Carducci viene definito senatore della Repubblica. Ma correva l’anno 1890.
Quell’informazione così drogata sui migranti e le guerre. Il Mediterraneo sta esplodendo e l’Europa non se ne accorge. Per l’Italia è solo un problema di profughi. Alberto Negri il 30 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. In Italia ci sono giornalisti, come Nancy Porsia e Nello Scavo, minacciati da criminali e milizie per i loro reportage sul traffico di migranti in Libia e noi ci occupiamo di Bernard Henry-Levy che si autocelebra sulla stampa per un episodio che per qualunque inviato di guerra è al massimo due righe in cronaca. Il Mediterraneo sta esplodendo e l’Europa non se ne accorge mentre per l’Italia è soltanto un problema di profughi. Ma questa oggi è la pseudo informazione contemporanea: forse sarebbe meglio avere un corrispondente dell’Ansa a Tripoli per avere un resoconto affidabile dei fatti. Il problema è che l’informazione costa, che i giornali non hanno risorse o preferiscono investire in altri settori, che la mano pubblica di tutto si occupa tranne che di sostenere giovani giornalisti e progetti di informazione indipendenti. Quindi si deve per forza fare riferimento alla solita mazzetta di giornali dove gli esteri occupano sempre meno spazio o alla tv pubblica che pur con buone punte professionali più di tanto non fa o non ha voglia di fare. Certo ci sono anche siti web interessanti sia italiani che stranieri ma il mainstream informativo resta quello, non si scappa. Il risultato è che siamo circondati dal caos e ne sappiamo sempre di meno: per noi il mondo si ferma a Lampedusa, dove finisce il viaggio dei migranti più fortunati. Nella Libia che consideriamo un “porto sicuro”, i migranti muoiono uccisi dai colpi della Guardia costiera finanziata ed equipaggiata dall’Italia. È accaduto lunedì a Khums, città costiera della Tripolitania, dove un gruppo di 73 migranti _ partito qualche ora prima a bordo di un gommone _ è stato prima intercettato in mare e poi riportato indietro da una motovedetta libica. Al momento dello sbarco, consapevoli di cosa li aspettava, i migranti hanno tentato la fuga pur di non essere internati in uno dei famigerati centri di detenzione gestiti dal governo di Tripoli. La reazione della Guardia costiera è stata immediata ed è consistita nell’aprire il fuoco sui fuggitivi. Tre migranti morti e due feriti, tutti cittadini sudanesi. Così vanno le cose con i migranti. Ma le conseguenze anche politiche sono devastanti. In Libia abbiamo legittimato al potere dei personaggi assai discutibili che quando il generale Haftar si è presentato alle porte di Tripoli per avere aiuto militare si sono rivolti alla Turchia di Erdogan visto che noi _ Italia Usa e Gran Bretagna _ glielo abbiamo negato. Oggi il leader turco, che si fa beffe anche del Papa invitandolo a Santa Sofia tornata moschea, è quello che comanda insieme ai jihadisti assoldati in Siria. In pratica quando finanziamo la Guardia Costiera libica indirettamente appoggiamo anche Erdogan. Ovvero quella Turchia che già viene pagata dall’Unione europea per tenersi in casa tre milioni di profughi e far dormire sonni tranquilli sulla rotta balcanica alla Germania e al Nord Europa. Ecco che a cosa serve il nuovo Sultano che naturalmente non perde occasione per farsi sentire, una volta sui profughi e un’altra sul gas dell’Egeo. Essendo poi membro della Nato non possiamo neppure troppo arrabbiarci con lui se non provare a giocare dalla parte del suo nemico Al Sisi per tenerlo a bada: siamo nelle mani di autocrati e massacratori ai quali vendiamo miliardi di armi. Altro che caso Regeni, Zaki e difesa di diritti umani. Le minoranze, come i curdi che hanno combattuto contro il Califfato, le abbiamo abbandonate alla repressione di Ankara. Questa è la lezione amara che viene dall’Europa. Siamo in un mare destabilizzato e che controlliamo sempre di meno dove l’Italia comanda una missione navale europea buffonesca che dovrebbe fermare il traffico d’armi verso la Libia ma è già praticamente naufragata. Il Libano intanto esplode per la crisi economica, la pandemia e le minacce di una nuova guerra tra Hezbollah Israele. L’informazione italiana, sempre più drogata, assegna la colpa alle milizie sciite libanesi e all’Iran. Già ci siamo dimenticati che il 2020 è cominciato con Trump che il 3 gennaio ha fatto ammazzare nell’aeroporto di Baghdad il generale iraniano Qassem Soleimani. Finge di ignorare che Israele quasi tutti i giorni bombarda in Siria le milizie libanesi e i pasdaran iraniani. Insomma questi dovrebbero stare fermi a fare da bersaglio allo stato ebraico senza reagire. Forse l’anno si concluderà come è cominciato, con Trump che pur di tentare di farsi rieleggere, assesterà qualche bordata all’Iran e alla Mezzaluna sciita. E piegheremo la testa davanti al gran turco, agli israeliani che vogliono annettersi la Cisgiordania e all’Egitto di Al Sisi: questi oggi sono i nostri clienti e padroni nel Mare Nostrum.
Giornali e tv, una narrazione sugli abissi dell’ovvio. Walter Siti su Il Riformista il 29 Luglio 2020. Martedì 21 luglio la ministra De Micheli si è recata in auto a Genova e ha dichiarato all’arrivo di non aver trovato molto traffico; ha aggiunto che la “narrazione” di una Liguria irraggiungibile poteva scoraggiare il turismo. Le sue parole hanno immediatamente scatenato un vespaio di polemiche: i comitati cittadini e le associazioni degli autotrasportatori si sono sentiti umiliati e trattati da bugiardi, il vicepresidente della Camera di Commercio ha reagito duramente («la ministra ha detto che tutto quello che abbiamo vissuto è una nostra invenzione»). Poi la tempesta in un bicchier d’acqua si è placata, la De Micheli si è dispiaciuta di essere stata strumentalizzata, il traffico per la Liguria ha continuato a essere difficile ma non impossibile. L’aneddoto ci spinge a riflettere sul tema delle “narrazioni”, termine di moda per indicare quando i mass media abbandonano la fredda esposizione dei fatti, o dei numeri, a favore di “storie di vita” emotivamente suggestive. (Nel caso specifico, interviste a viaggiatori esasperati). Le “narrazioni” servono per valorizzare il fattore umano anche nella divulgazione scientifica e perfino nella pubblicità. Una situazione viene percepita diversamente a seconda della narrazione che viene scelta per illustrarla: se molti negozianti e baristi accettano senza problemi il pagamento digitale, basta mostrare due che non lo fanno (meglio se colti in castagna da una telecamera nascosta) e sembra che il rifiuto del pagamento digitale sia un’abitudine diffusa; chi sceglie il tipo di narrazione ha una grande responsabilità nel condizionare l’opinione pubblica. Certo ora, con la disintermediazione dominante, ora che tutti possono postare tutto ogni minuto sui vari social, c’è sempre la possibilità di falsificare la narrazione dell’altro opponendo la propria; ma in mezzo a un urlo contraddittorio sono poi sempre i maggiori giornali, o la tivù, quelli che dettano il clima. La scelta più razionale, e moralmente più equa, sembra essere quella dell’esemplarità di una storia: si mostra, con la narrazione, la situazione che appare statisticamente più numerosa e socialmente più tipica. Ma già il vecchio Lukàcs insegnava che scegliere il “tipico” significa scegliere una prospettiva di percorso e dunque un asse ideologico. Per questo esistono le parti politiche, e ogni lettore o ascoltatore appena un po’ avveduto sa che la medesima decisione del Consiglio europeo, a parità di numeri, può essere raccontata come un grande successo italiano o come una fregatura, e che a seconda della famiglia intervistata sembra che il reddito di cittadinanza sia stato una salvezza o uno spreco assurdo di denaro. Nascono liti senza costrutto che giovano ai media perché contribuiscono allo spettacolo. Ma, a proposito di spettacolo, il giornalismo deve affrontare anche un altro conflitto quando si tratta di narrazioni: da una parte sarebbe giusto rappresentare ciò che è comune alla maggioranza, dall’altra è noto che a fare notizia sono piuttosto il bizzarro, l’inconsueto, l’eccezionale. Il problema, da statistico ed etico, diventa allo stesso tempo estetico e commerciale. Tra commozione e informazione si apre un divario: le “storie di vita” che costeggiano la media sarebbero le più corrette dal punto di vista informativo, ma sono anche quelle che coinvolgono emotivamente di meno e fanno vendere meno copie, o scattare meno clic di condivisione. Chi se ne frega del cittadino senza qualità? Lo scarto dalla media è benedetto quando ci fa sbattere il muso contro quel che preferiamo non vedere: gli inferni che si nascondono tra le pieghe della città, la corruzione degli incorruttibili, le guerre dimenticate, gli angoli di mondo rimossi dalle egemonie geopolitiche. Ma c’è invece una eccezionalità che confina col sensazionalismo, e che si limita ad applicare un altoparlante a ciò che sappiamo fin troppo bene perché è un prodotto dei nostri pregiudizi, o dei nostri comodi miti mentali. I protagonisti delle rispettive “storie di vita”, in questo caso, non sono personaggi che ci aiutano a capire la realtà, ma stereotipi che confermano le nostre facili indignazioni: il politico ladro, il criminale affascinante, la mela marcia nelle forze armate, il migrante spacciatore o vittima (o eroe), il malato e l’infermiera, il povero dignitoso e il ricco strafottente, il cervello in fuga e il tiktoker dalla testa vuota. I personaggi di queste storie sono chiamati a confermare un ruolo, non a sorprenderci: e se la vittima, in qualche zona della propria vita, fosse anche colpevole? Se il tiktoker che balla fosse un ragazzo intelligente e ambizioso? Se l’eroe pubblico fosse un cattivo padre? Se i più interessanti, in questo tempo di pandemia, fossero i sani e gli asintomatici? Dopotutto, i cambiamenti epocali dipendono da quel che prova la gente comune, non le eccezioni. Le narrazioni dei media e dei social estremizzano e banalizzano, riducono l’individuo a maschera e gli incidenti a complotto; dell’ambiguità e complessità dell’essere gettati in questo mondo trattengono soltanto quel che è popolare in quel momento, cioè vendibile. Il guaio è che le narrazioni letterarie, colpite da improvviso complesso di inferiorità, le imitano e le seguono. I romanzi e i teatri si riempiono di problematiche à la page. Mi domando se tutta la paradossale manfrina del politicamente corretto in letteratura (per cui Il bombarolo di De André può essere scambiato per un elogio del terrorismo, e l’Otello shakespeariano per un dramma razzista) non dipenda dall’aver dimenticato che in qualunque vera narrazione, o storia di vita, la forma conta più del contenuto, anzi è il contenuto; perché la forma integra nella descrizione dei fatti il tremore di chi li racconta e tiene conto di quel che non è un semplice fatto ma un confronto col nulla, o con l’infinito; perché il punto di vista sugli abissi dell’ovvio è ciò che resta quando un fatto si esaurisce. Più che sull’esemplarità, o sulla statistica, la narrazione letteraria dovrebbe puntare sulla stratificazione dei livelli, che sola consente di durare oltre le contingenze della stagione. Forse, sotto la spinta corrosiva dei media, la letteratura dovrebbe ridiscutere il concetto stesso di “impegno”.
Pulci di Notte di Stefano Lorenzetto il 12 maggio 2020. Da “Anteprima – la spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi”.
Eugenio Scalfari su Repubblica scrive dei suoi trascorsi scolastici di quattordicenne: «Al liceo di Sanremo c’era un gruppo di giovani invaghiti dalle arti e dalla filosofia e respinti dalle materie scientifiche e matematiche. Avevano infatti voti molto alti in queste materie e, al contrario, pessimi nelle materie scientifiche». Per non parlare dei voti in italiano.
Più avanti aggiunge che il professore di Lettere (un ex prete) gli fece studiare «da Montaigne ed Étienne de La Boétie, all’Illuminismo di Diderot, d’Alembert e Voltaire. E ancora: Vico, Foscolo, Alfieri. Per proseguire con Carducci, Pascoli, D’Annunzio e poi con Quasimodo, Ungaretti e Montale. Naturalmente, c’erano anche Italo Calvino e Federico García Lorca».
Siccome Calvino era nato sei mesi prima di Scalfari, se ne deduce che quell’insegnante era un veggente: nel 1938 faceva studiare al futuro fondatore di Repubblica un autore di 15 anni che avrebbe pubblicato il suo primo libro soltanto nel 1947.
Libero intervista Silvio Berlusconi, in isolamento nella villa della figlia Marina in Provenza. Un sommario recita: «La ripresa delle scuole è più importante di quella del Campionato, ma l’esecutivo ha abbandonato lo sport». Stando all’estero deve aver imparato una nuova lingua.
Il sociologo Francesco Alberoni nella sua rubrica sul Giornale: «L’amore bilaterale dura perché rinasce continuamente. L’amore unilaterale invece dura sempre». Fa una bella differenza.
«La virtualità non potrà mai sostituire la realtà: per godere dell’arte ci vogliono occhi e cuore, non schermi da toccare (o almeno, non solo quelli!)». Così il segretario generale del Governatorato, il vescovo spagnolo Fernando Vérgez Alzaga, intervistato dall’Osservatore Romano sulla riapertura dei Musei vaticani, le cui enormi entrate si sono fermate a causa della pandemia. «Abbiamo un grande bisogno di realtà, un disperato bisogno». Messaggio ricevuto, eccellenza: meglio i biglietti interi (21 euro, con l’evangelica opzione “Salta la fila”) del virtual tour gratis su tablet e pc.
Titolo d’apertura in prima pagina sul Tempo: «Trappola Mes». Occhiello: «Scritta una lettera dalle sirene Gentiloni e Dombroskis per escludere condizioni. Ma vale nulla e non è vero». Tutto chiaro.
Classifica dei giornali che, nel periodo 15 marzo-30 aprile, hanno utilizzato le formule «non lasciare indietro nessuno», «non lasceremo indietro nessuno», «per non lasciare indietro nessuno», «senza lasciare indietro nessuno», e simili: Avvenire 25 volte, La Repubblica 22, Corriere della Sera 20, Libertà 20, Il Resto del Carlino 17, L’Adige 15, Il Quotidiano di Puglia 14, La Gazzetta del Mezzogiorno 14, Il Messaggero 13, Corriere Adriatico 13, Giornale di Sicilia 13, Il Foglio 12, Il Mattino di Padova 12, Il Giornale 11, Il Quotidiano del Sud 11, Il Giorno 10, La Sicilia 10, La Gazzetta di Parma 9, Gazzetta di Mantova 9, Il Gazzettino 8, L’Arena 8, La Tribuna di Treviso 8, Il Mattino 8, Gazzetta del Sud 8, La Na- zione 7, La Nuova Venezia 6, Gazzetta di Modena 6, Il Tirreno 6, La Verità 5, Il Secolo XIX 5, La Gazzetta dello Sport 4, Il Piccolo 4, Messaggero Veneto 4, Il Fatto Quotidiano 4, Il Giornale di Vicenza 4, Il Sole 24 Ore 3, Libero 3, Italia Oggi 3, L’Eco di Bergamo 3, Il Tempo 3, La Provincia Pavese 3, Milano Finanza 2, Il Manifesto 2, Giornale di Brescia 2, La Stampa 1. Totale delle citazioni, inclusi periodici, edizioni locali e supplementi: 468. Il Covid-19 non lascia indietro il conformismo.
Roberto Saviano su Repubblica scrive della volontaria milanese rapita in Kenya nel 2018 e ritrovata dopo 536 giorni in Somalia: «Silvia Romano è libera, torna a casa. Troverà un’Italia profondamente cambiata dalla sua partenza». Magari fosse bastata la partenza della cooperante per cambiare l’Italia.
Sul caso di Silvia Romano, il Corriere.it intervista il comboniano «padre Antonio Albanese», che però si chiama Giulio. Quando i missionari diventano comici.
Nell’editoriale di prima pagina, il direttore di Libero, Pietro Senaldi, descrive Luca Zaia come «un fenomeno», tuttavia si dice convinto «che egli non voglia e non possa insediare la leadership» di Matteo Salvini. Insediarla no, ma insidiarla forse sì. E conclude: «Gli artefici del nuovo miracolo italiano non avranno nessun Conte e nessun Zingaretti. [...] Non siamo fattucchiere. Possiamo sbagliarci». Su quando usare «nessun» o «nessuno», di sicuro.
Titolo dalla Verità: «Il borgo ligure delle case a 1 euro adesso svende terreni e cascine». Nel testo si legge che il Comune in questione si trova in provincia di Alessandria. Urge ripassare la geografia delle regioni d’Italia.
Avvenire titola in prima pagina: «Non è bene che Dio sia solo (tra veramente ed eppure)». In effetti, tra avverbi e congiunzioni si stuferebbero anche gli uomini.
Titolo dal Corriere.it: «Ricordiamocelo sempre: mascherine e guanti non vanno gettati per terra». Mozziconi di sigarette e fazzoletti di carta invece sì.
Corsi di giornalismo a pagamento. L' Ordine dei Giornalisti Puglia: "Attenti ai furbi". Ma a Bari continuano......Il Corriere del Giorno l'8 Febbraio 2020. Ci chiediamo a questo punto cosa aspettino l’ Ordine dei Giornalisti di Puglia e l’ Assostampa pugliese a rivolgersi alla Guardia di Finanza e verificare la regolarità del lavoro dei giornalisti e collaboratori della testata Barinedita, nonchè sulla legittimità di questi corsi visto che violano la Legge? “Attenti ai furbi, agli approfittatori, ai venditori di illusioni. Non esistono corsi di preparazione per diventare giornalisti, tantomeno bisogna pagare per conseguire uno status che può riconoscere solo l’Ordine dei giornalisti in base a regole chiare stabilite dalla legge e dall’Ordine“: è quanto dichiarava lo scorso 26 luglio 2019 il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Puglia dopo alcune segnalazioni ricevute su fantomatici corsi di giornalismo a pagamento pubblicizzati di recente. Le segnalazioni in realtà altro non era che una nostra inchiesta giornalistica, mentre tutto il resto della stampa barese e pugliese con in testa il sindacato pugliese, l’ Assostampa di Bari si giravano dall’altra parte e taceva sul fenomeno dei tesserini a pagamento e sullo sfruttamento delle persone. “Non ci sono corsi a pagamento, anche quelli di aggiornamento, sono organizzati dall’Ordine e sono gratuiti”, osservava a suo tempo Pietro Ricci presidente Ordine dei giornalisti della Puglia . “Vogliamo mettervi in guardia da quanti, spesso giornalisti professionisti o pubblicisti, ogni anno danno vita a improbabili percorsi di studio o selezioni il cui unico scopo è lucrare sulle vostre aspirazioni e farvi lavorare gratis per le testate dalle quali essi stessi traggono guadagni“. Cioè esattamente il caso della testata online Barinedita, di cui ci siamo occupati in passato e che continua a spacciare come “redattori” persone che non sono neanche giornalisti! Ma proprio oggi sul socialnetwork Facebook abbiamo trovato questo nuovo avviso: “Si aprono le iscrizioni per il nuovo corso di giornalismo di Barinedita, dedicato a coloro che vogliono imparare ad utilizzare il linguaggio giornalistico (anche solo per cultura personale) e che intendono collaborare per la nostra testata. Il corso formerà infatti i futuri COLLABORATORI di BARINEDITA” IL DIRETTORE DELLA TESTATA, Marco Montrone, professionista (e già giornalista per Il Sole 24 Ore, l’Unità, La Gazzetta del Mezzogiorno, Leggo), al suo 27esimo corso come docente, impartirà lezioni teoriche e pratiche…“ Ci chiediamo a questo punto cosa aspettino l’ Ordine dei Giornalisti di Puglia e l’ Assostampa pugliese a rivolgersi alla Guardia di Finanza e verificare la regolarità del lavoro dei giornalisti e collaboratori della testata Barinedita, nonchè sulla legittimità di questi corsi visto che violano la Legge? Ma cosa aspettarsi da un sindacato come l’ Assostampa di Puglia che annovera fra i suoi “collaboratori” Doriana Imbimbo la “staffista” del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, rinviata a processo dalla Procura di Taranto per “truffa“, fortemente voluta e sostenuta dal suo amico Mimmo Mazza, vicepresidente del sindacato dei giornalisti in Puglia, plurindagato dalle Procure di Taranto, Bari e Roma ? E sarà forse un caso che Mazza con una società recentemente costituita di cui detiene il 50% delle quote (pur avendo un contratto di esclusiva con la Gazzetta del Mezzogiorno) incassa soldi per pubblicità dal Comune di Taranto violando tutte le norme deontologiche giornalistiche ? Ah quante coincidenze….
Ordine dei giornalisti, perché Travaglio è intoccabile? Redazione de Il Riformista il 22 Gennaio 2020. Vi ricordate quella storia della patata bollente? Era un titolo goliardico e, a nostro parere, molto volgare, che campeggiava un paio d’anni fa sulla prima pagina di Libero. Si riferiva alla sindaca Raggi. Secondo la direzione del giornale non era malizioso, voleva solo segnalare che la Raggi era nei guai, per motivi giudiziari e sentimentali. In realtà il doppio senso era indiscutibile, e il riferimento sessuale e anche antifemminista era piuttosto evidente. Noi del Riformista troviamo che sia sempre sbagliato reagire a quelli che consideriamo errori o cadute di stile o – persino – mascalzonate, con le querele, le iniziative della magistratura, le censure dell’Ordine dei giornalisti. E invece il povero Piero Senaldi, direttore responsabile di Libero, si è trovato in mezzo a un sacco di guai, perché la Raggi lo ha querelato, lui è finito sotto processo penale e in più l’Ordine dei giornalisti lo ha censurato e ha respinto il suo ricorso contro la censura. Reprobo, reprobo, reprobo. Vabbè. Ora però una domanda piccola piccola vorremmo porla all’Ordine dei giornalisti: ma l’avete vista la vignetta del Fatto quotidiano on line nella quale si sostiene che Craxi deve mettere la faccia nella merda e tenercela per tutta l’eternità, e stare nudo per tutta l’eternità, e tenersi anche una carota nel sedere perpetuamente? Vi sembra meno volgare e offensiva di quel titolo di Libero? Possiamo sapere se immaginate che il Fatto quotidiano dovrà subire le stesse traversie di Libero, o se invece esiste uno statuto speciale per il quale se un giornale è molto molto amico dei magistrati può avere un trattamento di favore? P.S. Posta questa domanda, aggiungiamo che a nostro giudizio sarebbe invece più logico abolire le censure per tutti, persino per chi fa quelle vignette su Craxi che dimostrano una capacità modestissima di usare il cervello. Per la verità non saremmo neppure molto contrari all’abolizione dell’Ordine dei giornalisti. Ma questa è una discussione seria che è meglio non mescolare con le oscenità infantili del Fatto.
Giornalismo di qualità è elemento fondamentale di ogni democrazia. Antonio Martusciello il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. A distanza di più di settant’anni dall’entrata in vigore della Carta costituzionale appare quanto mai attuale il contenuto dell’art. 21 a tutela della libertà di espressione e dell’informazione. Il riferimento, poi, nel richiamato articolo, a “ogni altro mezzo di diffusione”, consente di estendere ad ampio raggio la portata del principio costituzionale, elemento essenziale nell’equilibrio tra i pesi contrapposti della democrazia. Il demos sociale e politico, per realizzarsi concretamente, richiede un contesto fondato su un concetto di libertà non completamente illimitato, ma che sia basato sull’informazione, intesa – secondo l’insegnamento aristotelico – come strumento di accesso ai meccanismi di controllo del potere. Oggi però, nell’era digitale, con il passaggio dalla carta stampata ai bit, si delinea un panorama in cui le notizie sono sì libere, ma anche disordinate, disorganizzate e non filtrate. Il cittadino si affida, non al miglior risultato in termini di attendibilità, ma a quello che ottiene più successo, popolarità e collegamenti da altri siti o pagine social, con la conseguenza di consegnare la “verità” alla Search Engine Optimization, ovverosia a un motore di ricerca, o ad altri sofisticati strumenti; diversamente i giornali sembrano aver subito una profonda trasformazione: da attivi “veicolatori” della realtà a soggetti passivi, dipendenti dagli algoritmi. Del resto, i rapporti di forza tra operatori online e quelli tradizionali sono inevitabilmente mutati. Non solo perché gli algoritmi sono in grado di orientare il successo di una notizia, ma anche perché, in questo sistema, gli editori, che distribuiscono le proprie news all’interno della piattaforma, rischiano di veder crollare la notorietà del “brand” della propria testata giornalistica in favore di quello dell’intermediario attraverso il quale viene presentata la notizia. Il problema riguarda quindi la composizione del mercato e la sua sostenibilità. La progressiva difficoltà a “diffondere” contenuti di qualità da parte dei media tradizionali accresce sempre più il potere della Rete. Il crollo dei ricavi editoriali non comporta solo un problema di ordine economico e finanziario, ma può rappresentare una criticità per l’intera società civile. Infatti, una delle forme più pericolose di annichilimento è la censura “per moltiplicazione”: quando cioè si annegano le notizie in un contesto di informazioni irrilevanti. È anche questo il meccanismo che dobbiamo contrastare: la Rete non può incarnare quel “Funes el memorioso” che disdegnava Borges, quell’uomo che, pur ricordando tutto, è bloccato dalla sua incapacità di selezionare e di buttar via. Per arrestare questo declino, potrebbe essere utile prendere atto concretamente del ruolo dei new media e immaginare una sorta di «news quality obligation» a loro carico, pur se sotto la supervisione di un regolatore: migliorare la comprensione dell’origine degli articoli e l’affidabilità delle notizie. D’altra parte, in un sistema dove i cittadini sono esposti a un overload informativo, le fonti tradizionali diventano un faro. Sostenerle appare dunque essenziale. Certo la progressiva riduzione, fino alla totale abolizione dall’annualità 2023, introdotta dalla legge di bilancio 2020, delle sovvenzioni all’editoria non agevolerà un settore già in crisi, ma porrà anche in discussione il ruolo che si vorrà dare al bene pubblico “informazione”. Possiamo rimanere inermi e lasciarlo nelle mani di un mercato, ormai alla mercè dei meccanismi pubblicitari imposti dai Big Tech? In questo senso, uno scossone ci arriva da Oltreoceano, nel messaggio trasmesso dal Washington Post, nell’ultima edizione del Super Bowl. Lo spot recitava «quando andiamo in guerra, quando la nostra nazione è minacciata, c’è qualcuno che racconta i fatti a ogni costo», mentre scorrevano le foto di cronisti catturati o uccisi durante l’esercizio della loro professione, ciò a dimostrazione dell’importanza del ruolo dei giornalisti nella ricerca delle notizie, anche a rischio della propria vita. Ecco che allora se «la democrazia muore nell’oscurità», dobbiamo combattere quel rumore di fondo, quel brusio che confonde le nostre idee. Come affermava Alexis De Tocqueville, “la stampa è per eccellenza lo strumento essenziale della libertà” e allora un plauso e un forte incoraggiamento va proprio a questa testata, Il Riformista, che, portavoce di libertarismo e garantismo, incarna quella necessaria esigenza di giornalismo di qualità, elemento fondamentale di ogni democrazia.
Bufale e censure: è colpa anche di noi giornalisti. Valter Vecellio il 5 gennaio 2017 su Il Dubbio. Qualche grillo berciante, in questi giorni, mette in guardia dai centri di potere “duri”, quelli reali: che vanno al di là e al di sopra delle istituzioni; che influenzano e condizionano informazione, conoscenza, “sapere”. La scoperta dell’acqua calda. Da sempre i centri di potere cercano di influenzare e condizionare gli strumenti cosiddetti di informazione. In Italia, e ovunque. Spesso si evoca lo spettro della censura, o meglio: dell’autocensura. Bufale e censure, così la stampa ha perso credibilità. Più propriamente si dovrebbe parlare di eccesso di zelo, che travalica nel servilismo. Di questo, in fondo, hanno beneficiato i dittatori e potenti/ prepotenti di ogni epoca: di cattivi giornalisti e cattivi scrittori disposti ad andare ben al di là di quello che viene chiesto loro ( Ho parlato di “cattivi”; ma lo hanno fatto e lo fanno, anche i “buoni”). Se tutti i maggiori quotidiani e settimanali dimezzano le copie vendute, se gli indici di ascolto ( non parliamo del gradimento) dei programmi radiotelevisivi di informazione hanno percentuali da prefisso telefonico non è il risultato di un’informazione e di un “sapere” veicolato e sottratto da internet e simili. E’ perché si è persa la fiducia in quegli strumenti di comunicazione e di “sapere”, e in chi in quegli strumenti opera; cosicché si cercano fonti, “alternative”, crogiolandosi nell’illusione di averle trovate. Proviamo a tracciarlo l’identikit dell’editore, del direttore e del giornalista ideali: l’editore ideale è quello che vuole guadagnare dal suo “prodotto”; il direttore ideale è quello che fa un giornale che da lettore acquisterebbe ogni giorno; il giornalista ideale non è quello che racconta la verità assoluta; “semplicemente” racconta il fatto nel momento in cui gli “appare”, e risponde alle cinque classiche domande: chi, dove, quando, come, perché. Il giornalismo è la verità del momento. Se ne ricava che di giornalismo ce n’è molto poco, a disposizione. Poi si accompagna il meccanismo della mistificazione, dell’utilizzo per altri fini: fenomeno vecchio quanto il mondo. Per quel che riguarda carta stampata e televisivi, molto è stato “descritto”, anni fa, da un lucido osservatore francese, Jean- François Revel, autore de La connaissance inutile, pubblicato anche in Italia: un volume del 1988 dove, per esempio, si racconta di come venne a suo tempo diffusa la “bufala” dell’Aids fabbricato in un laboratorio militare americano, e sfuggito di mano come un Golem: una branca del Kgb fa pubblicare la notizia da un quotidiano indiano filocomunista; agenzie di stampa sovietiche la rilanciano, e la “bufala” si propaga per la felicità di tutti i dietrologi e i boccaloni dell’universo. Lettura anche oggi consigliabile, magari recuperando un non troppo datato Homo videns di Giovanni Sartori. Le cose non sono cambiate di molto: magari i mezzi usati si sono raffinati, ma le “bufale”, si tratti delle stragi alle Twin Towers volute e pianificate da Mossad e Cia, o le venefiche strisce bianche nel cielo, i microchip sottocutanei applicati a nostra insaputa o altre simili scempiaggini, trovano sempre dei gonzi che non chiedono di meglio che abboccare. Indubbiamente ora con gli strumenti messi a disposizione dal web, i processi di mistificazione sono facilitati e più veloci. Un recente saggio di Raffaele Simone ( Come la democrazia fallisce) lucidamente “descrive” come la democrazia ci sia sfuggita di mano; come il massimo di informazione corrisponda a un livello infimo di conoscenza; come la pretesa partecipazione (“con internet siamo tutti uguali”, secondo la favola bella dei sacerdoti del web), corrisponda a un inquietante e pericoloso vuoto fatto di inconcludenti scambi di mail che nessuno legge. Un “qualcosa” che non è solo peculiarità italiana; un “qualcosa” di totalitario, che si muove nell’aria e penetra nelle coscienze. Lo si può misurare, questo “qualcosa” nelle piccole, apparentemente insignificanti cose, basta prestare una briciola di attenzione a quello che accade intorno a noi. Produce una melassa uniforme che incombe su tutti, e tutto avvolge: una minaccia totalitaria da intendere non come qualcosa che attiene ai regimi autoritari e violenti già conosciuti. E’ piuttosto un “qualcosa” tra Oerwll e Kafka, il livellamento delle idee, la loro cancellazione. Una favorita pigrizia mentale che lascia spazi vuoti destinati a essere occupati da questo “qualcosa” caratterizzato da assenza di memoria, conoscenza, “sapere”. L’epifenomeno di questo processo è la polemica di questi giorni. La cretinata relativa alla post- verità che agita e scimmiotta un Beppe Grillo, con l’allegato della pretesa di un’impunità orgogliosamente rivendicata per quel che riguarda le scempiaggini che si possono diffondere attraverso la rete; il web con licenza di uccidere… Ma certo: ci si muove su un crinale delicatissimo, un terreno scivoloso; certo: si pongono mille problemi relativi alla libertà di espressione e di comunicazione. Certo: i “paletti” di garanzia facilmente si possono mutare in strumenti di ulteriore censura e manipolazione. Tutto vero. Ma questi rischi sono già incombenti, e non sono certo evitati dalle corbellerie di un grillo e dalle sue giurie popolari per valutare le bufale in rete ( giurie elette come i candidati da presentare nelle liste pentagrilline?). Per alcuni mesi sono stato direttore responsabile di un settimanale satirico che ha fatto storia, “Il Male”. Un onore, che mi ha procurato una sessantina tra querele e denunce, per tutto: perfino la divulgazione di segreto militare per la pubblicazione di una cartina dell’isola della Maddalena ricavata dall’Enciclopedia e un soggiorno di una settimana a Regina Coeli. Personalmente ho fatto un giuramento solenne a me stesso: mai e poi mai querelerò qualcuno, qualsivoglia mi si possa dire e accusare. Non cambio idea, ma non capisco perché nel social si può scrivere e sostenere di tutto, protetti dall’anonimato. E’ un qualcosa di molto vigliacco, sono questi abusi che “giustificano” le contro- misure che si intendono adottare e si adotteranno. Quanto alle “bufale”, torno al discorso d’inizio: devono essere gli editori, i direttori, i giornalisti a conquistarsi una loro credibilità, meritare la fiducia che chiedono. Malati zelo, di servilismo, si raccoglie oggi quello che per anni e anni si è seminato. A tutti noi chiedo: ci sono questioni, tematiche che non vengono mai affrontate, discusse, approfondite, fatte conoscere. Quanti dibattiti e confronti sulla madre di tutti i problemi italiani, la giustizia e come ( non) viene amministrata, in questo paese? Durante le feste di Natale dirigenti e militanti radicali hanno organizzato visite ispettive in decine di carceri. Qualcuno ne ha scritto, parlato, lo ha saputo? In occasione della Marcia dedicata a Marco Pannella e papa Francesco per l’amnistia, circa ventimila detenuti hanno digiunato per due o tre giorni, nomi, cognomi, messaggi che hanno costituito un poderoso volume che sarà consegnato al Pontefice, al presidente della Repubblica Mattarella, al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ventimila detenuti che adottano uno strumento di lotta nonviolenta, un qualcosa che per le sue dimensioni e la sua portata si può accostare alle lotte gandhiane o a quelle di Martin Luther King. A parte il filosofo Aldo Masullo, qualcuno si è accorto e ha riflettuto sulla portata di questo evento? Ecco, partiamo da qui, per cercare di capire perché non si è credibili, non si viene percepiti come attendibili, perché furoreggiano le “bufale” nel web. Signori, questa pigrizia, questa indifferenza è il “qualcosa” di totalitario che ci opprime, ottunde, minaccia. Il “vuoto” che consente spazi alle corbellerie di grilli bercianti, e di conseguenza ad “antidoti” destinati ad essere più dannosi dei mali che intendono curare.
Gratteri via dalla foto del magistrato arrestato. Franco Bechis il 16 gennaio 2020 su Il Tempo. Tutti i quotidiani hanno tagliato l'immagine di Nicola Gratteri dalla unica foto che avevano del giudice arrestato a Catanzaro, Mario Petrini, presidente di sezione di corte di appello e anche presidente della commissione tributaria provinciale. La notizia dell'arresto di Petrini è stata data con grande evidenza, ed è naturale quando a finire nei guai è un magistrato accusato di avere svenduto la sua funzione in cambio di soldi e favori. Poi siccome l'indagine ha scoperto che fra i pagamenti ricevuti in cambio di sentenze favorevoli c'erano non solo soldi, regali e viaggi, ma anche prestazioni sessuali da parte di giovani avvocatesse filmate addirittura in 18 amplessi nell'ufficio del magistrato, la stampa ha puntato sull'aspetto più pruriginoso. Tutti i media però hanno avuto un problema: dove trovare la foto di Petrini, magistrato che è stato per lo più nell'ombra? C'era una sola soluzione: fare un fermo immagine di un video di un paio di anni fa dal sito del Lametino.
Dagospia il 10 gennaio 2020. SIETE SICURI CHE QUESTO ''È'' GIORNALISMO? - PAGINATA (A PAGAMENTO!) PER RINGRAZIARE DRAGHI DELLA ''GRANDE DISPONIBILITÀ AVUTA NEI CONFRONTI DEI GIORNALISTI DI TUTTO IL MONDO'', FIRMATA DA ALCUNE DELLE PIÙ IMPORTANTI PENNE D'ITALIA, E PAGATA DA GIANCARLO ANERI, ORGANIZZATORE DEL PREMIO ''E' GIORNALISMO''. SI PREPARANO ALL'ASCESA DIVINA DI SAN MARIO AL QUIRINALE E CON DUE ANNI D'ANTICIPO SI ALLENANO A CAREZZARNE LE PIUME ANGELICHE? DA CANI DA GUARDIA A BARBONCINI DEL POTERE…
Antonello Piroso per Dagospia il 10 gennaio 2020. D'accordo, ormai i premi giornalistici si danno a destra -pochi- e a manca -quasi tutti. Si offrono medaglie, targhe e corone d'alloro a cani e porci (senza offesa: ne hanno dato più d'uno perfino a me, dal Flaiano al Premiolino, e ho detto tutto). Ma in effetti la pagina (a pagamento) dei ringraziamenti di autorevoli firme a Mario Draghi è un non plus ultra senza precedenti, un inedito da inserire nei manuali delle scuole di giornalismo, e lo affermo da ultras pro Draghi quale sono. Sembra di sentire in sottofondo l'eco di Paolo Villaggio in salsa fracchiana, quando si rivolge al Gran Cav Lup Mann Figlio di: "Com'è umano lei". Ma in effetti: perché stupirsi? Tanto ormai sono saltati schemi, parametri, perimetri di gioco, e vale tutto. Quando senti dire -darwinianamente- a Michele Cucuzza, mentre sta entrando non in redazione o in uno studio ma nella casa del Grande Fratello (Vip, neh...): "Tutti fanno tutto, bisogna anche adattarsi ai cambiamenti senza fare gli snob". Quando nel 2016 lo stesso premio "E' giornalismo" è stato dato a Fiorello, showman degnissimo, e chi lo mette in dubbio, ma che c'azzecca? Quando rileggi l'intervista del 2009 allo stesso Giancarlo Aneri -unico superstite tra i fondatori, gli altri erano Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Indro Montanelli- in cui spiegava: "Non è il caso di fare business con i giornali. La mia passione è quella di supportare, di stare vicino, di seguire i giornalisti, di aiutare. Ma come imprenditore non metterei una lira in un giornale”, con quella carogna di Sabelli Fioretti che replicava: "Come dice Ricucci, vuoi fare il frocio col culo degli altri", e lo stesso Aneri che chiudeva, sinceramente e sportivamente, con: "Sì, non si potrebbe dire meglio", capisci davvero che il meglio deve ancora arrivare, e che fino a ora, nei tuoi primi, splendidi 60 anni, non hai ancora visto nulla. Ciao.
Nicolò Zuliani per termometropolitico.it il 10 gennaio 2020. Quando scrivo o dico che siamo meglio di come ci raccontano i mass media, molti s’incazzano come se li avessi offesi sul personale. È come se reputare la propria patria e il proprio popolo una terra di infami e miserabili fosse, in qualche modo, consolatorio o appagante. Ne abbiamo parlato in redazione, e grazie ai potenti mezzi abbiamo incrociato due dati: orientamento elettorale e opinione sugli organi d’informazione, presi su un campione di 3000 persone. Il risultato è stato il seguente. Forse per alcuni non è una novità, ma è un dato da non sottovalutare. Significa che la fiducia nell’imparzialità dell’informazione italiana è scarsa o scarsissima in entrambi gli schieramenti. Chi vota centrosinistra reputa l’informazione non affidabile ma equilibrata. Parafrasando, racconta favole rassicuranti. È tutto lì, nero su bianco: il 43% dei lettori non crede quello che legge o sente sia imparziale, ma gli piace perché coccola la propria visione politica. Questo viene confermato anche da un altro studio fatto dall’Università di Milano, in cui si evidenzia che i giornalisti sono “molto più a sinistra” non solo dei cittadini italiani in genere, ma dei loro stessi lettori. È da anni che l’elite accademica tende al progressismo; il perché porterebbe a speculazioni non verificabili e, forse, inutili. Le conseguenze, invece, sono sotto agli occhi di tutti. Sempre più cittadini vanno dalla parte opposta perché come disse Obama, a furia di andare verso gli estremi sei destinato a perdere per strada i moderati. Uomini e donne che anche se non sembra, sono la maggioranza dei cittadini: solo che nessuno ha voglia di raccontarli.
Ed è questa la parte scandalosamente idiota. Continuare a raccontare che gli italiani sono un popolo di razzisti, fascisti, intolleranti, criminali è la classica strategia a breve termine del manager incapace: per un breve periodo ti regala consensi, perché a tutti piace condividere articoli schierati per dimostrarsi duri, puri e migliori. Ma alla lunga avvelena irrimediabilmente i pozzi: vivere sull’orlo di una crisi di nervi, sentirsi circondati da mostri, rigirarsi nell’odio verso il proprio popolo, satura la psiche e ti fa abbandonare quel gruppo in funzione di qualcuno meno fanatico.
O nelle fauci del lupopulismo, se sbagli strada. Del resto quella di scindersi in molecole irrilevanti pur di dimostrare ai propri simili di essere più puri è un meccanismo atavico della sinistra fin dai tempi dei Monty Python, col solito risultato di trovarsi con una popolazione a maggioranza moderata e di centrosinistra, ma con un governo di centrodestra. E giù a parlare di fascismo, di regime strisciante, di italiani popolo di razzisti. Una narrazione che goccia dopo goccia ha corrotto il cuore di questa nazione, un episodio di razzismo accentuato e un episodio d’integrazione taciuto dopo l’altro. Un crimine degli immigrati strillato e una storia di tolleranza sussurrata dopo l’altra.
Tutto per potersi svegliare la mattina e dire “io sono migliore di loro”. È improbabile i giornali vorranno prendere in considerazione questi dati e cambiare strategia, perché è diventata un sistema stratificato e sorretto da vari pensatori ottuagenari. Meglio cercare di affondare chi ancora prova a essere imparziale come Il Foglio, o negare l’evidenza (Liliana Segre e i 200 insulti) e proseguire verso il patibolo frignando editoriali passivo aggressivi. Anche perché chi oggi dirige l’informazione pubblica è più interessato alla fama che agli introiti, non avendo bisogno dei secondi. Non si può sperare che le direzioni dei giornali tornino indietro; Repubblica fece un esperimento di questo tipo quando cambiò direttore, provando a raccontare entrambi i punti di vista dopo vent’anni di antiberlusconismo. Fu un tracollo di copie dovuto non solo al fatto che oramai i lettori si erano abituati al peggio, ma anche alle statistiche drogate: la telenovela Berlusconi aveva trasformato i quotidiani in cloni di Novella 3000, era un baraccone che macinava miliardi e le vendite s’erano impennate.
Per uno spacciatore tutti sono drogati. Il problema non è il popolo italiano se non in percentuali risibili, aumentate perché funzionava a livello di narrativa e per il principio della profezia autoavverante. Il problema sono uomini e donne mai candidati né eletti che dalle redazioni spiegano a leader o segretari di partito quali battaglie portare avanti, mentre ai lettori raccontano un’Italia romanzata, e tutto questo dall’alto di non si capisce cosa. Questi sono i quotidiani più letti nell’ottobre 2019: il FQ vende 500 copie in più di tale Dolomiten. Ecco, io a ‘sto punto invece di Travaglio voglio il direttore di Dolomiten – meglio se in vestiti tradizionali – che dice cosa fare al ministro degli esteri. Perché hanno la stessa autorità. E questo, stando ai sondaggi, non lo penso solo io.
· “Professione: Odio”.
Antonio Socci contro Claudia Fusani a Quarta repubblica. "Per lei le manifestazioni violente in Usa sono colpa di Trump". Libero Quotidiano il 04 novembre 2020. Avrà fatto un balzo sulla sedia, Antonio Socci. Sul divano a guardare Quarta repubblica e lo speciale di Nicola Porro #Lanotteamericana sulle presidenziali americane, l'opinionista di Libero ha ascoltato sgomento il commento di Claudia Fusani. La giornalista di Tiscali non smentisce il vizietto della sinistra italiana, che non passa neanche quando di discute di Ohio, Pennsylvania e dintorni. "Secondo la Fusani - sottolinea Socci - se ci sono manifestazioni violente della sinistra americana la colpa non è dei violenti, non è dell'ideologia dell'odio che costoro professano. No, la colpa è di colui che i violenti odiano: Trump". Vista nell'ottica ribaltata dei "radicals", non fa una piega.
Piazzapulita, Federico Rampini zittisce Corrado Formigli: "In tanti contro il razzismo scesi in piazza senza mascherina, ma nessuno ha detto niente". Libero Quotidiano il 06 novembre 2020. Federico Rampini riesce a zittire Corrado Formigli. Questo il pensiero che prevale su Twitter dove in tantissimi hanno condiviso l'uscita del corrispondente estero di Repubblica a Piazzapulita nella puntata di giovedì 5 ottobre. "Quando qui a giugno le piazze erano piene di giovani che manifestavano contro il razzismo, erano tutti incollati senza mascherina e nessuno ha detto niente", ha tuonato su La7 il giornalista. Tantissimi i commenti a sostegno: "Federico Rampini - scrive un utente - dice voi criticate i comizi di Trump che sono tutti senza mascherina e quando c'erano le manifestazioni per l'afroamericano Floyd ucciso dalla polizia che erano tutti senza mascherina invece vi andava bene? Formigli zitto non riesce a rispondere". E ancora: "Mi sono perso uno dei migliori interventi del 2020. Il giornalista Rampini ( di sinistra ) smaschera la grande ipocrisia della sinistra nelle tv italiane e americane. Consegnato alla storia". Democratici colpiti e affondati.
DAGONEWS il 5 novembre 2020. Una manifestante anti-Trump è stata arrestata a New Yorkd opo aver sputato in faccia a un poliziotto durante una manifestazione in attesa dell’esito del voto. Devina Singh, 24 anni, è tra le 57 persone arrestate a New York mercoledì notte dopo essere stata filmata nel quartiere del West Village di Manhattan mentre urlava a un agente “Fuck you fascist” prima di sputargli in faccia. Il filmato, diventato virale su Twitter, è stato immediatamente condannato dal NYPD e dai sindacati di polizia, che hanno fatto sapere che azioni come questa non saranno tollerate: «Coloro che commettono questi atti verranno arrestati» ha twittato il NYPD. Il sindacato degli investigatori del NYPD, la Detectives Endowment Association, ha aggiunto: «Questo comportamento spregevole non sarà tollerato! Questo dopo aver appiccato incendi e aver distrutto proprietà. Sappiamo che i newyorkesi rispettosi della legge non vogliono che i loro poliziotti vengano trattati in questo modo». Dopo aver sputato al poliziotto, Singh è stata messa a terra e arrestata. Singh, che secondo la polizia è di Schwenksville, in Pennsylvania, è stata accusata di oltraggio a pubblico ufficiale e molestie.
"Fottuto fascista". Insulti choc e sputi in faccia al poliziotto. Devina Singh è stata filmata nel quartiere del West Village di Manhattan mentre aggrediva un agente. Arrestata con l'accusa di oltraggio a pubblico ufficiale e molestie. Ignazio Riccio, Venerdì 06/11/2020 su Il Giornale. L’esito sul filo di lana delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, con il prevedibile colpo di coda polemico dei protagonisti della campagna elettorale, ha reso incandescente il clima politico negli Usa. Donald Trump si dice pronto a ricorrere alla Corte Suprema per fare chiarezza sul voto degli americani, sentendosi derubato del risultato finale, e per le strade cominciano a manifestare i sostenitori sia del presidente uscente sia di Joe Biden. Nella notte di mercoledì si è tenuta a New York un’iniziativa contro Trump, durante la quale sono state arrestate ben 57 persone. In manette è finita anche una manifestante di 24 anni, che ha sputato in faccia a un poliziotto. Devina Singh è stata filmata nel quartiere del West Village di Manhattan mentre urlava a un agente “Fuck you fascist”, prima di sputargli in faccia. Il video è diventato ben presto virale su Twitter ed è stato immediatamente condannato dai sindacati di polizia. La ragazza è stata arrestata con l'accusa di oltraggio a pubblico ufficiale e molestie, e poi rilasciata dal tribunale. La donna si è giustificata dicendo di essere stata provocata dai poliziotti, che avrebbero attaccato senza motivo i manifestanti. Il video a disposizione degli inquirenti, però, sembrerebbe smentire la 24enne. Dalle immagini si vede il poliziotto che rimane fermo fino a quando la giovane non lo assale con forza. Il New York City Police Department ha pubblicato sulla propria pagina Twitter il video dell’aggressione scrivendo: “Azioni come questa non saranno tollerate. Gli agitatori che commettono questi atti verranno arrestati”. La Detectives Endowment Association, il sindacato degli investigatori, ha aggiunto: “Questo comportamento spregevole non sarà tollerato. Questo dopo aver appiccato incendi e aver distrutto proprietà. Sappiamo che i newyorkesi rispettosi della legge non vogliono che i loro poliziotti vengano trattati in questo modo”.
Da repubblica.it il 5 novembre 2020. "Gli Stati Uniti non sono New York, San Francisco o le infinite praterie". Ma "un mondo di immensa e sterminata ignoranza", "dove il marito di Kim Kardashan Kanye West che appoggia Trump crea un vero dibattito nella nazione, mentre gli intellettuali non contano più niente". Così Roberto Saviano durante la diretta di RepTv condotta da Laura Pertici 'La scelta dell'America' davanti ai primi risultati delle elezioni Usa che non registrano la prevista valanga blu per Biden, ma una grande tenuta dei trumpiani. "C'è una frase che gira - ricorda Saviano -: “Gli Stati Uniti sono il Paese del terzo mondo più ricco e potete del pianeta”. Pensavo fosse un gioco radical, ma è così".
"È ora di odiare": ecco come Saviano vuole tornare in campo. In una intervista rilasciata a L’Espresso lo scrittore Roberto Saviano ha spiegato che "non basta più rintanarci dentro i buoni modi, la buona educazione" ed ammette di provare odio anche verso i falsi amici. Gabriele Laganà, Martedì 03/11/2020 su Il Giornale. Il tempo del buonismo, per modo di dire, per Roberto Saviano è finito. Ad annunciarlo è lo scrittore campano che, così, ha deciso di rinnegare quella che per molti anni è stata la sua linea morale e politica, che gli ha dato gloria e lustro. Ora è giunto il tempo di odiare. Sì, è proprio questo il termine usato da quello che fino a pochi giorni fa era il guru della sinistra progressista e radical chic. Perché di nascondere i sentimenti Saviano proprio non ce la fa più. Ed è lui stesso ad ammetterlo. Non solo odio contro i nemici, nascosto in malo modo in questi anni, ma anche verso quelli che considera finti amici che tramano nell’ombra contro di lui. Ci fu un tempo in cui lo scrittore era venerato quasi come un dio dall’intellighenzia rossa. Tra un trasmissione di Santore ed una di Fazio dava lezioni di vita a tutti. Addirittura qualcuno si augurava come guida del Pd proprio il maestro Saviano. Il tempo passa e le cose cambiano. Lo scrittore poco alla volta ha perso il suo "fascino", le persone si sono stufate di lui, gli ascolti sono calati. E poco alla volta i fedeli del "savianismo" si sono allontanati dal sommo. Saviano è tornato a scrivere di camorra, con un certo successo. Ma lui non si accontenta. Forse gli piacerebbe buttarsi a capo fitto in politica. Se il capitolo Pd è chiuso magari ne potrebbe aprire un altro con qualche partito rigorosamente più a sinistra dei dem. Come ricorda La Verità, nei prossimi giorni uscirà il volume per Bompiani intitolato "Gridalo": in sostanza si presenta come una collezione di scritti impegnati e militanti. L'arrivo del tomo in libreria è stato anticipato da una lunga intervista che il buon Roberto ha rilasciato a Marco Damilano sull'Espresso. E la chiacchierata riserva una grande sorpresa: la nuova linea politica dello scrittore è riassumibile con "odio". "Gridare significa prendere parte", ha spiegato Saviano che con orgoglio rivendica di avere mandato "a cagare" il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, perché "non basta più rintanarci dentro i buoni modi, la buona educazione". Pare di capire che secondo Roberto la sinistra, per rinnovarsi, deve diventare più cattiva. "Basta con le prediche contro l'odio. Io, per esempio, sento di odiare tantissimo", ha ammesso lo scrittore. Qualcuno in verità se ne era accorto da tempo. "Devo disciplinarmi- ha continuato- per non far emergere in pubblico un odio che provo in modo assoluto. Io odio chi mi ha fatto del male. Odio quelli che stanno dalla mia parte ma poi mi pugnalano alle spalle perché mi detestano". Nei fatti nel corso del tempo Saviano ha fatto discorsi contro l’odio. Nel suo mirino in particolare Matteo Salvini, anche se il suo discorso era rivolto a tutta quella parte politica lontana dalle idee progressiste e pro-immigrazioniste. Quasi un anno fa era lo stesso Saviano a scrivere su Twitter:"L'odio verso Liliana Segre è responsabilità di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. [...] A lei vogliamo somigliare e non a chi avvelena l'Italia con parole di intolleranza e odio". La sinistra, a cominciare proprio da Saviano, ha sempre condannato l’odio a parole, presentandolo come caratteristica principale della destra e non solo. Eppure, in un certo modo, i progressisti attaccano con furore chiunque non la pensi come loro. Basta davvero poco per essere additato come fascista, razzista, xenofobo, populista, omofobo, bigotto e altro. L’illustre scrittore chiamava Salvini "il ministro dell'inferno", sostenendo di fatto che chiunque si opponga all'immigrazione di massa sia cattivo. Ora Saviano parla pubblicamente di odio. Un sentimento che forse ora gli conviene. Nella sua intervista lo scrittore chiarisce ulteriormente il concetto: "Non credo che la strada da seguire sia la gentilezza. È ora di dire basta: basta con il mondo mediatico che ospita il peggio, con giornali che hanno fatto cose ignobili, dossieraggio e istigazione al razzismo, che hanno perso qualsiasi autorevolezza, ma vengono tenuti al tavolo perché deve esserci tutto, anche la quota della merda". C’è da preoccuparsi per la "chiamata" all’odio di Saviano. Questa presa di posizione non è una bella prospettiva per un’Italia scossa da tensioni politiche e sociali provocate dall’emergenza sanitaria e dalla crisi economica che ne è conseguita.
Meloni zittisce Lucia Annunziata: “Basta domande sul fascismo. Chiedi a Zingaretti del comunismo”. Carlo Marini domenica 12 Maggio 2020 su Il Secolo d'Italia. Giorgia Meloni, ospite della trasmissione di Lucia Annunziata, ha risposto per le rime alla conduttrice di Raitre, che ha posto alla leader di Fratelli d’Italia le solite domande su Mussolini e sul fascismo. «Il fascismo non sta ritornando– ha tagliato corto la leader di Fratelli d’Italia – Il fascismo scatta quando scatta la par condicio. Appena finirà la campagna elettorale, il problema non ci sarà più. Trovo abbastanza ridicolo e triste che ogni volta che vengo intervistata dal servizio pubblico mi si chiede della storia e non dei programmi del mio partito. Chieda a Zingaretti del comunismo e dei morti che ha fatto, deve valere per tutti…». “In mezz’ora in più” su Rai 3 la presidente di FdI a un certo punto ha perso la pazienza: «Mi faccia almeno finire, non si può fare un’intervista così, non mi fa parlare…». La conduttrice ha replicato: «Lei sta parlando, l’abbiamo invitata a posta…» Ad accendere il faccia a faccia i temi caldi dell’immigrazione clandestina, le periferie, la sicurezza. «Se si ferma un attimo e mi fa dire le cose, questa cosa che devo parlare sopra non funziona, non va bene», rimarca Annunziata.
Meloni intervistata su CasaPound anziché sul programma elettorale. Il dibattito si surriscalda quando si parla di fascismo, del ruolo della destra in Europa e dei rapporti con CasaPound. Meloni non ci sta: «Mi chiede di CasaPound, io sono un’altra cosa… Ci sta tanta gente non ideologizzata, non potete far finta di nulla. Lei ha fatto 40 puntate senza mai parlare di fascismo, ora che c’è la campagna elettorale ne riparliamo e mi fa la domanda senza chiedermi nulla sul mio programma elettorale…». Nel corso della trasmissione Mezz’ora, la leader di FdI è riuscita a ritagliarsi qualche spazio per qualche ragionamento politico che esulasse dalla solita querelle sull’antifascismo. «Io ambisco a costruire un’alternativa – ha detto la Meloni a proposito del governo gialloverdeo – Non ho mai detto “Salvini stacchi la spina” ma il mio ruolo è che gli italiani abbiano un governo che non litighi su tutto. Penso siano fondamentali le elezioni del 26 maggio. Non devo convincere io Salvini, ma gli italiani…».
Adriano Scianca per “la Verità” il 20 ottobre 2020. Avviso alla commissione straordinaria del Senato per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza, meglio nota come commissione Segre: stanno circolando per l'Europa due testi che istigano pesantemente all'odio. In Italia non sono ancora sbarcati, ma è bene iniziare a vigilare, come retorica insegna, giusto? I due testi sono Le génie lesbien, di Alice Coffin e Moi les hommes, je les déteste, di Pauline Harmange. Quest' ultimo ha già sollevato un dibattito enorme, di cui pure in Italia è giunta qualche eco, anche in virtù di un titolo decisamente esplicito: Io gli uomini li odio (è vero che l'autrice usa il più tenue détester, anziché haïr, cioè odiare, appunto, ma basti vedere i titoli delle traduzioni inglesi e tedesche - I Hate Men, Ich hasse Männer -per capire che è di quello che si parla, di odio). Cominciamo però dalla Coffin, perché il suo testo è meno conosciuto ma, se possibile, persino più violento. Il suo libro è una vera dichiarazione di guerra ai maschi. Tutti. Lo scenario dipinto è apocalittico: «Tutti i giorni ci sono delle minacce di morte perfettamente pubbliche contro di noi. [] Tutti i giorni contiamo i nostri morti. Sono colpita da ogni nuovo annuncio. Non passa mai. Non so se morirò senza aver ferito un uomo». Per quanto blesser, come in italiano, possa significare anche ferire nell'animo, il contesto non lascia spazio a dubbi: l'autrice sta ipotizzando di attaccare fisicamente i maschi. Subito dopo, del resto, fuga ogni dubbio citando una frase di Christiane Rochefort: «C'è un momento in cui occorre tirar fuori i coltelli. È solo un dato di fatto, puramente tecnico. È fuori questione che l'oppressore possa comprendere da sé che egli opprime, dato che questo non lo fa soffrire». Parlando delle offese ricevute online, la Coffin dice: «Lo so che loro vogliono che io crepi. Non so come finirà. Se loro avranno la pelle dell'umanità prima che noi abbiamo la loro, se tireremo fuori i coltelli. Oppure, non riuscendo a prendere le armi, organizzeremo un blocco femminista. Non andare a letto con loro, non vivere con loro ne è una forma. Non leggere i loro libri, non vedere i loro film, è un'altra. A ciascuna i suoi metodi. Noi abbiamo il potere, senza eliminarli fisicamente, di privare gli uomini del loro ossigeno: gli occhi e le orecchie del resto del mondo. [] Non ho soluzioni, ma non ho alcuna esitazione. La posta in gioco è troppo importante. Chi, fra l'uomo e l'umanità, soccomberà per primo?». La scelta di non eliminare fisicamente gli uomini, lo si capisce bene, è presa quasi a malincuore, per mancanza di mezzi, più che di volontà. Per il resto, il gergo è quello della lotta senza quartiere. Ma sono proprio tutti gli uomini, presi in blocco, a rappresentare questa minaccia stragista? L'autrice, bontà sua, è disposta in linea del tutto teorica ad ammettere che non sia così, ma rivendica il diritto di generalizzare: «Non so quale massa di uomini supplementari bisognerebbe mettere sulla bilancia per smettere di denunciare "gli uomini", di scrivere "certi uomini", "degli uomini", "qualche uomo", ma so che si conta in teragrammi, non in grammi». Pauline Harmange, dal canto suo, rivendica le virtù della misandria, definita «necessaria, persino salutare»: «Odiare gli uomini, in quanto gruppo sociale e spesso anche in quanto individui, mi apporta un sacco di gioia - e non solamente perché sono una vecchia strega che ama i gatti. Se fossimo tutte misandriche, si potrebbe metter su una bella e grande sarabanda». Si dirà che dietro il termine misandria l'autrice voglia indicare qualcosa con più sfumature. È la stessa Harmange a sostenere il contrario, quando, all'inizio del suo pamphlet, precisa: «Parlerò di misandria come di un sentimento negativo riguardo alle persone maschili nel loro insieme». Spropositi talmente pesanti da allertare persino il ministero francese delle Pari opportunità. O quanto meno un suo funzionario, Ralph Zurmély, che ha scritto alla casa editrice: «Mi permetto di ricordarvi che l'incitamento all'odio sulla base del sesso è un reato! Per questo vi chiedo di rimuovere immediatamente questo libro dal vostro catalogo a meno che non vogliate incorrere in conseguenze penali». Il ministero, coraggiosamente, ha però chiarito che l'email di Zurmély è «un'iniziativa personale e del tutto indipendente dal ministero». In questo delirio, la cosa davvero divertente è che, se la Coffin è lesbica, la Harmange, benché bisessuale, è... sposata con un uomo. Un uomo che ama, persino. Ma si sente in dovere di specificare in nota: «Questa scelta va per lo meno posta nel suo contesto. In quanto donna bisessuale, chi può dire cosa sarebbe la mia vita oggi se non fossi stata confrontata molto presto con l'omofobia della società e del mio ambiente?». Insomma, ama suo marito, sì, ma è stato un incidente, è la società che l'ha costretta a farlo. «Oggi», spiega, «pur amando il mio partner e senza pensare un secondo di separarmene, continuo a pensare e a rivendicare la mia ostilità verso gli uomini. E a metterlo nel paniere». Quando il pover' uomo scriverà il suo, di pamphlet, allora sì che scopriremo cosa vuol dire odiare.
Da blitzquotidiano.it il 16 ottobre 2020. Su Facebook un’attivista M5S ha scritto un post in cui festeggia per la morte della governatrice della Calabria Jole Santelli, scomparsa a soli 51 anni. “Evviva!!! Una mafiosa di meno!!!”, questo il post dell’attivista M5S riguardo la morte di Jole Santelli. Un post che è stato poi rimosso, mentre la pagine dell’attivista è stata oscurata da Facebook dopo le diverse segnalazioni fatte da molti utenti. Il post poi si concludeva con la frase: “Speriamo chiami Silvio, Giorgio, Sergio, ecc.ecc.”. A sollevare il caso è Monica Pietropaolo, attivista di Fratelli d’Italia e presidente del Circolo Giorgia Meloni presso il V Municipio di Roma. Il post in questione invece porta la firma di una attivista 5 stelle che su Facebook si presenta come “la prima attivista genovese dai tempi degli ‘Amici di Beppe Grillo’”. Il post è stato rimosso ma lo ha condiviso sulla sua pagina Fb la Pietropaolo, che all’agenzia Dire spiega: “Io non riesco a capire la cattiveria dimostrata da questa appartenente a M5s di Genova. Cattiveria totalmente gratuita e inutile, anche perché la Santelli non ha mai avuto a che fare con i mafiosi né tantomeno avuto mai procedimenti penali a suo carico. Detto questo io sono sempre per il discorso che il nemico politico si batte nelle urne e non si deve mai esultare per la morte di nessuno. Che esso sia del tuo stesso seme politico o d’altro”. “Premesso ciò – prosegue – se fossi nei rappresentanti politici del Movimento 5 stelle prenderei immediatamente le distanze e produrrei le scuse per colpa di questo soggetto che ritengo ignobile. Ma essendo loro di caratura politica sinistroide sono sicurissima che ciò non accadrà. Gioire per la morte di un essere umano è ignobile!”.
Ci va di mezzo anche l’Agesci. L’attivista M5S sul suo profilo tra le informazioni ha scritto “lavora presso Agesci gruppo Genova 14”. E così molti utenti stanno scrivendo proprio all’Agesci di Genova. L’Agesci gruppo Genova su Facebook si vede quindi costretta a fare questa precisazione: “Da questa mattina la Comunità Capi riceve tramite i canali social ingiurie e manifestazioni di sdegno e repulsione per alcuni post pubblicati da questa perona, la quale sul suo profilo – nonostante i nostri inviti a rimuoverlo – mantiene la dicitura ‘lavora presso Agesci gruppo Genova 14’. Questa persona nulla ha a che vedere con noi da almeno 25 anni. Il gruppo tutto pubblicamente prende le distanze sia dalle ideologie espresse dalla persona in oggetto sia dai contenuti da essa pubblicati”. (Fonte Facebook e Stretto Web).
L'odio dei 5 Stelle contro Jole Santelli, il post di Paola Castellaro: "Evvai, una mafiosa di meno". L'odio non si ferma nemmeno davanti alla morte, come dimostra Paola Castellaro, attivista 5 Stelle, con un post contro Jole Santelli a poche ore dalla sua scomparsa. Francesca Galici, Venerdì 16/10/2020 su Il Giornale. L'odio del web non si smentisce mai, nemmeno davanti alla morte. La scomparsa del governatore della Calabria, Jole Santelli, ha scatenato gli istinti più bassi di molti utenti del web che, si sono spinti ben oltre con commenti inutili e fuori luogo. Dalle pagine di satira fino ad attivisti politici, i messaggi contro la Santelli non si contano. Tra questi c'è un post di Paola Castellaro, che dopo aver pubblicato la sua gioia per la morte di una donna, è stata sommersa dalle critiche, al punto che non si è limitata a cancellare il commento, ha preferito sospendere il suo profilo di Facebook. "Evvai!!! Una mafiosa di meno!!! Speriamo chiami Silvio, Giorgio, Sergio ecc. ecc.", ha scritto Paola Castellaro. Parole violente e cattive come non mai, che fotografano una situazione fuori controllo nel nostro Paese. La donna si vantava di essere un'attivista del Movimento 5 Stelle, anzi, "la prima attivista genovese dai tempi degli 'Amici di Beppe Grillo'". Il suo attivismo politico è certificato anche da una candidatura alle amministrative del 2017 nel consiglio comunale con il Luca Pirondini per il Movimento 5 Stelle. Forse consapevole dell'errore commesso, o forse per evitare di continuare a essere sottoposta alla gogna mediatica per quanto scritto, Paola Castellaro ha preferito eliminare il suo profilo Facebook. Ma il web non perdona, rimane sempre una traccia di quanto scritto, tanto più quando si tratta di affermazioni di questo tenore. Inevitabile la polemica contro di lei, tanto che molti utenti adesso chiedono che vengano presi provvedimenti. "In merito a Paola Castellaro. Vi prego segnalate queste sue esternazioni alla scuola dove lavora. Mi sono presa la briga di cercare informazioni e ho scoperto che dovrebbe lavorare al liceo Parini di Genova", scrive Maura che si appella agli altri utenti: "Per cortesia spendere 5 minuti del vostro tempo per far sì che anche le parole d'odio e la cattiveria sui social possano aver conseguenze nella vita reale, andando oltre il credo politico". A dissociarsi dalla signora è anche il gruppo scout Agesci - Genova 14, che la Castellaro ha indicato come una delle sue sedi lavorative nel profilo Facebook. Per questa ragione, il distaccamento scoutistico ha ricevuto neumerosi insulti e inviti a prendere le distanze dalla Castellaro. "Questa persona non ha nulla a che vedere con noi da almeno 25 anni. Il gruppo tutto, pubblicamente, prende le distanze sia delle ideologie espresse dalla persona in oggetto, sia dai contenuti da essa pubblicati", si legge nel messaggio.
Silvia Sardone, no alla moschea islamica: minacce di morte e insulti, "Puttana di merda, ti entriamo in casa e ti stupriamo". Libero Quotidiano il 05 ottobre 2020. La leghista Silvia Sardone si oppone alla moschea provvisoria che il Comune di Milano vuole installare nell'area di via Novara, e in tutta risposta viene insultata, minacciata di stupro e di morte. "Questi insulti - denuncia la Sardone -, moltissimi dei quali provenienti da profili di stranieri, evidenziano, una volta di più, che c’è un odio latente verso coloro che osano chiedere regole, controlli, sicurezza". "Non saranno certo queste minacce di stupro o di morte a fermarmi dal denunciare la sottomissione del Pd a certe comunità islamiche e i rischi per la città - prosegue la combattiva europarlamentare leghista -. Ho già dato mandato al mio avvocato per denunciare questa gentaglia. Continuerò a stare al fianco dei cittadini che chiedono la chiusura delle moschee abusive, dopo aver ascoltato per anni le promesse del sindaco Sala ed essere poi rimasti delusi. Questa amministrazione, così come la precedente, ha mostrato un lassismo clamoroso nell’affrontare la questione dei centri di preghiera islamici, consentendo abusi di tutti i tipi. Noi chiediamo un atteggiamento pragmatico e di non andare contro la volontà dei cittadini fortemente contrari a questa scelta e del Consiglio Comunale che già si era espresso opponendosi alla moschea in Via Novara. Ribadisco che le minacce di questi frustrati non mi fermeranno, la nostra battaglia a testa alta al fianco dei milanesi che dicono no alla moschea continuerà".
Gabriele Laganà per ilgiornale.it il 5 ottobre 2020. Ci sono insulti ed insulti. Se riversi parole pesanti contro un esponente della Lega allora non devi temere che buonisti e radical-chic si infervorino. Neanche se oggetto degli improperi è una donna. Forse è su questo che contava il deputato di Italia viva, il partito di Matteo Renzi uscito piuttosto malconcio dalle recenti elezioni Regionali, Gianfranco Librandi. Il parlamentare ospite di Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio lo scorso venerdì sera, ha attaccato la leghista Silvia Sardone. E lo ha fatto con frasi che se fossero state pronunciate da un esponente della destra avrebbero scatenato i benpensanti nostrani. Ma visto che l’obiettivo era una donna del partito di Salvini non si sono alzate voci di condanna. O almeno non ancora. Nel corso della puntata si parlava di immigrazione. Ad un tratto il buon Librandi ha esclamato: "Il futuro dell’Italia è l’Africa e tu cara Sardone andrai a pulire i bagni degli africani perché saranno più ricchi di noi". Neanche le femministe sono scese in campo in segno di solidarietà alla Sardone. Sui social, invece, molti i commenti contro Librandi che fa parte di un partito che si dichiara moderato. "Tu in futuro andrai a pulire i bagni agli africani. Ditemi che è una frase decontestualizzata che non ho tempo di sentire cosa dica Librandi. Femministe mute? Eh già. La Sardone è leghista", ha commentato una utente. Un'altra persona ha notato la reazione dell’altra ospite, Karima Moual, giornalista di origini marocchine "Librandi maleducato e violento. Dice alla Sardone che presto pulirà i gabinetti agli africani solo per umiliarla, suscitando l’ilarità di quell’altra maleducata di Karima". "L’arroganza di Karima e l’ignoranza di Librandi nell’affermare certe idee sull’immigrazione mi fanno perdere la fiducia nelle istituzioni", ha scritto un altro utente dei social. Anche dai vertici di Italia viva non sono giunte condanne del deputato. Forse Renzi è troppo impegnato in altre faccende come capire del perché il partito, nato con grandi progetti, non ha sfondato elettoralmente parlando.
Gregoretti, Matteo Salvini: “Da processare e condannare sempre”, ecco la giustizia secondo la sinistra. Libero Quotidiano il 03 ottobre 2020. “Io Matteo Salvini lo processerei e condannerei sempre”. Claudio Sabelli ha fatto indignare il centrodestra e tutti i suoi elettori con questa frase pronunciata a Stasera Italia, la trasmissione condotta da Barbara Palombelli su Rete 4. Il giornalista non è affatto passato inosservato: “A che titolo uno così stava là libero di produrre veleno?”, si è chiesta Maria Giovanna Maglie dopo aver seguito la diretta. La nota opinionista è incredula come tanti altri che qualcuno abbia il coraggio di esprimere concetti simili sul segretario della Lega, tra l’altro a poche ore dall’udienza preliminare del processo per il presunto sequestro di persona di 131 migranti bloccati a bordo della Gregoretti, la nave della Marina militare. Quello di Sabelli è solo l’ultimo dei tanti attacchi strumentali subiti da Salvini, che intanto a Catania ha dato una grande prova di forza in qualità di leader del centrodestra, essendo stato seguito da tutti gli alleati, Giorgia Meloni e Antonio Tajani in primis.
Gregoretti, Vauro: “Forza Etna”, la vignetta choc contro Matteo Salvini e i leghisti a Catania. Libero Quotidiano il 3 ottobre 2020. L’udienza preliminare del processo a Matteo Salvini per il presunto sequestro di persona di 131 migranti a bordo della nave Gregoretti è stata accolta in maniera particolare da Marco Travaglio. Nel suo editoriale il direttore del Fatto Quotidiano sostiene che il segretario della Lega sia riuscito a “buttarla in caciara”, facendo il martire e convocando a Catania i suoi parlamentari e alleati. La grande mobilitazione del centrodestra non è quindi una prova di forza della leadership di Salvini per il Fatto, che non nutre particolare simpatia nei suoi confronti (eufemismo): lo si evince anche dalla vignetta in prima pagina di Vauro, che commenta la presenza dei leghisti a Catania facendo pronunciare proprio all’ex ministro un “forza Etn… ops” che lascia pochi spazi all’interpretazione.
Alessandro Sallusti contro Gianrico Carofiglio a Otto e mezzo, rissa in diretta: "Di cattivo gusto", "Lei è un esperto". Libero Quotidiano il 02 ottobre 2020. Il coronavirus di Trump fa litigare Alessandro Sallusti e Gianrico Carofiglio a Otto e mezzo. Il direttore del Giornale, incalzato da Lilli Gruber, premette: "Trovo di cattivo gusto giocare o ironizzare sulla malattia di un essere umano. Ma mi chiedo perché Carofiglio non ha usato la giustizia poetica quando Zingaretti, negando ben prima di Trump l'esistenza del virus, venne a Milano a fare lo spiritoso e si ammalò". "Quando sento parlare Sallusti di cattivo gusto, mi arrendo perché lui è un esperto", è la battuta dell'ex pm e senatore del Pd. "Dove sta il mio cattivo gusto?", ribatte Sallusti. "Basta guardare il suo giornale per capire la categoria", risponde un Carofiglio a corto di argomenti. "La sua è una deriva populista - taglia corto il direttore del Giornale -, lei è più populista dei populisti".
Mariangela Garofano per ilgiornale.it il 2 ottobre 2020. Non si arrestano le frecciatine che Selvaggia Lucarelli è solita lanciare al leader della Lega, Matteo Salvini. Questa volta l'opinionista dalla "penna polemica" ha scatenato l’indignazione del web dopo un post pubblicato sui suoi profili social, riguardante la scomparsa di un medico a causa delle complicazioni del Covid-19. Il dottor Peppe Ascione, medico di Ischia, si era ammalato durante la pandemia di Coronavirus e dopo diversi tentativi era riuscito a guarire grazie alla cura al plasma, promossa dal dottor De Donno, somministrata al dottore quando le sue condizioni erano molto gravi. Ma purtroppo non è bastato e dopo alcuni mesi gli strascichi della malattia hanno avuto la meglio sul dottore, che si è spento nella notte del 30 settembre. “Il medico salvato dal plasma e da De Donno con l’ovazione di Salvini è morto”, scrive senza peli sulla lingua la Lucarelli, allegando un post che Matteo Salvini pubblicò quando il dottore guarì. “E della plasmaterapia come cura definitiva e occultata dai poteri forti, non parlano manco lui e Le Iene, grandi promotori”, conclude polemica la giornalista. Il post, pubblicato sia su Facebook che su Twitter, ha ricevuto parecchie critiche per l'argomento trattato. “Penso che una notizia così triste, scritta in questo modo, senza un minimo di sensibilità, è davvero… non trovo le parole, solo vergogna”, scrive un utente, al quale ne seguono tanti altri, che hanno attaccato la Lucarelli per la mancanza di tatto e per non avere rispetto di una tragedia così grande. “Pur di criticare Salvini, sbeffeggia la morte di una persona. Questo è il livello ormai. Ma è Salvini lo sciacallo, giusto?”. “Ma lei gode nel dire cattiverie, pensando di fare dell’ironia? Non prova assolutamente alcun senso di inadeguatezza nel pronunciare simili sconcezze? Tutto ciò è intollerabile e insopportabile”. Non è la prima volta che la Lucarelli attacca il leader della Lega, inserendolo come il prezzemolo in molti suoi articoli polemici, ma stavolta la giornalista sembra aver passato il segno ed è stata accusata di sciacallaggio e di utilizzare ogni pretesto per denigrare Salvini.
Irene Famà e Massimiliano Peggio per “la Stampa” l'1 ottobre 2020. «Qualcuno forse pensa di fermare il Piemonte e i piemontesi con le intimidazioni. Ma, ci ha insegnato Aldo Moro, "la vera libertà si vive faticosamente tra continue insidie". E la nostra terra va avanti». Il presidente del Piemonte Alberto Cirio cita lo statista della Democrazia Cristiana per commentare i volantini trovati ieri incollati sulle pareti esterne del centro sociale torinese Askatasuna, luogo simbolo dell' antagonismo. Fotomontaggi - cinque in tutto - che sostituiscono il volto del presidente Cirio a quello dell' onorevole Moro nella fotografia diffusa dalle Brigate Rosse dopo il rapimento. Sotto la frase: «I cosplayer che vogliamo». Dove il riferimento è al cosplay, la pratica dei fan di indossare i costumi dei personaggi dei fumetti giapponesi. Come dire che Cirio dovrebbe indossare i panni di Moro. «Minacce - aggiunge Cirio - che si aggiungono a quelle rivolte in queste ore a rappresentanti della Giustizia e di altre Istituzioni dello Stato». A Torino si respira un clima teso. L' altro giorno una busta con due proiettili è stata recapitata ad Elena Bonu, magistrato del Tribunale di Sorveglianza che nei giorni scorsi aveva ha firmato l' ordinanza di carcerazione per Dana Lauriola, portavoce del movimento No Tav ed esponente di Askatasuna, negandole misure alternative. Un segnale allarmante. Per questo è stata affidata la scorta al magistrato. Ieri notte, intorno al Palagiustizia, sono stati fermati due attivisti No Tav, dopo aver incollato una ventina di volantini, firmati da un sedicente Nuovo Pci, contro esponenti delle istituzioni, accusati di far parte della «mafia del Tav». Poco dopo, è stato ritrovato il fotomontaggio choc contro Cirio. Episodi su cui indaga la Digos, coordinati dal dirigente Carlo Ambra. Secondo gli investigatori sarebbero azioni slegate tra loro. Da un lato le minacce a Cirio. Dall' altro il fermento No Tav, legato al centro sociale Askatasuna. Episodi da distinguere, ma che ruotano intorno alla casa occupata di corso Regina Margherita, tempio nazionale dell' autonomia. Per celebrare i vent' anni di quel luogo, nel novembre 2016, era stato ospitato il fondatore delle Brigate Rosse Renato Curcio, per la presentazione di un suo libro. Ieri, mentre erano in corso perquisizioni legate alla vicenda dei proiettili, la politica reagiva ed esprimeva solidarietà. «Nessuna critica politica può trovare spazio dove c' è violenza» scrive la sindaca di Torino Chiara Appendino. La vicepresidente della Camera Anna Rossomando (Pd), invita a «non sottovalutare il grave atto». Antonio Tajani, vicepresidente di Forza Italia, il partito di Cirio, si dice «vicino all' amico fraterno». Giorgia Meloni, Fratelli d' Italia, aggiunge: «Questo dimostra come ancora oggi il clima di odio degli anni di piombo si annidi in alcuni ambienti».
Il “Fatto quotidiano” si scaglia ancora contro i giornalisti del Dubbio. Il Dubbio il 27 settembre 2020. NOTA DEL COMITATO DI REDAZIONE. In un articolo apparso oggi sul quotidiano di Marco Travaglio, si parla dei “costi del personale” del Dubbio. Rivendichiamo la qualità del nostro lavoro, la nostra professionalità, l’impegno per i diritti. Ci faremo una ragione del fatto che altri colleghi vorrebbero vederci sparire. Un altro articolo-siluro da parte di colleghi. Cioè da parte del “Fatto”, perché un altro giornale che abbia avuto l’impudicizia di sparare cannonate contro i nostri posti di lavoro finora non si è visto. Il “Fatto” ha questo primato. Il nostro è un quotidiano che conduce battaglie politiche, innanzitutto in difesa dei diritti e delle garanzie, i valori dell’avvocatura di cui il Dubbio è espressione. Evidentemente c’è chi non sopporta giornali con idee diverse dalle proprie. Forse i colleghi del “Fatto” non ci sopportano, non sopportano l’idea che noi del Dubbio lavoriamo. E c’è da chiedersi come possa il cdr del “Fatto” tollerare l’ennesimo attacco nei nostri confronti. L’articolo apparso oggi sul quotidiano diretto da Marco Travaglio, in cui si parla dei “costi del personale” del Dubbio, fa ironicamente e inopinatamente riferimento ai “nemici del populismo giudiziario”. I quali nemici non devono esistere. Deve esistere solo la giustizia usata come arma per distruggere. Rivendichiamo la qualità del nostro lavoro, la nostra professionalità, l’impegno per i diritti. Ci faremo una ragione del fatto che altri colleghi vorrebbero vederci sparire. Il cdr del Dubbio
DAGOREPORT il 30 ottobre 2020. Non sapevamo se rispondere all'esilarante paginata che la vispa Cinzia Monteverdi ha dedicato al nostro articoletto di due giorni fa, in cui scrivevamo cose che poi ha confermato (in sostanza, che il terzo maggiore azionista del ''Fatto Quotidiano'' vuole vendere la sua quota). E non perché ci ha definito ''fogna mediatica'' – meno male che ci sono le fogne, sennò vivremmo sommersi dalla merda –, né perché nel titolo ci chiama ''rosiconi'' come Renzi definiva il ''Fatto'' quando (bei tempi!) faceva inchieste sui governi. Ma perché avevamo di meglio da fare. E invece, eccoci qui. La regola vuole che più lunga è la smentita e più lunga è la coda di paglia, e la colata che ci dedica lady Monteverdi la rispetta pienamente. La presidente e ad della SEIF sostiene che questo ''sito di gossip'' (ha dimenticato il porno) abbia scritto ''frottole'', cioè che Edima vuole vendere le sue azioni per due ragioni: i conti in rosso e la linea del giornale ormai totalmente appiattita su quella del governo Conte-Casalino (ah, Casalino non l'avevamo menzionato noi ma lei, a proposito di code di paglia). È questo il bello di essere una ‘’fogna mediatica’’ e un sito di gossip: quando poi scrivi qualcosa di interessante o pubblichi qualche notizia in anteprima, chi legge pensa: ''hai capito quegli zozzoni, non sono poi così male''. Quando invece passi anni a raccontarti come il cane da guardia del potere, il quotidiano libero che non fa sconti a nessuno, e poi ti trasformi nella Gazzetta di Giuseppe Conte, la caduta è sicuramente più rovinosa. Ed è sotto gli occhi di tutti, come la repentina uscita di alcune delle firme più importanti e battagliere del giornale. Da quando Marco Travaglio ha tenuto a battesimo il governo Conte-bis ed è diventato lo spin doctor del premier, se ne sono andati Davide Vecchi, Stefano Feltri, Sandra Amurri, Carlo Tecce, Giorgio Meletti. Alessandro Di Battista, lautamente remunerato per farsi dei viaggetti in giro per il mondo, con famiglia al seguito, appena ha iniziato a fare opposizione al governo è stato scaricato, tanto da essere passato a ''Tpi'' dove insegna come si fanno i reportage (dovrebbe insegnare come farsi pagare dal ''Fatto''! Quella è una lezione che vale i soldi che costa). Alvaro Cesaroni, che ha messo i suoi soldi nella Edima e dunque nel capitale originario del ''Fatto'', commentando l'addio di Sandra Amurri ha raccontato di essere stato definito un ''salumaio'' da qualcuno che fa parte del giornale. Quindi non ci pare certo un rapporto idilliaco. Ma non serve leggere noialtri infognati, basta aprire il bilancio 2019, quello che si è chiuso con 1,5 milioni di euro di perdita. Nel corso dell'assemblea che doveva approvarlo, che si è svolta per via telematica causa Covid, ha preso la parola proprio il rappresentante della Edima, precisando che avrebbe monitorato da vicino l'andamento dei conti, che veniva accettato considerando l'attività editoriale del ''Fatto'' come quella di una start-up (e dunque, intrinsecamente, in perdita), ma che voleva immediate "informative approfondite sulla gestione". Ecco il passaggio: Prende quindi la parola il Rappresentante Designato, in nome e per conto del socio delegante Edima S.r.l., titolare di n. 2.835.784 pari all'11,34% del capitale della Società, dichiarando che il socio Edima S.r.l. dopo aver analizzato attentamente i dati del bilancio e le relazioni accompagnatorie degli organi amministrativi e di controllo, approva il bilancio chiuso al 31 dicembre 2019, ritenendo il relativo risultato di esercizio rappresentativo di una fase di start up fondamentale per il progetto media-data company. Il Socio Edima srl ritiene parimenti necessario si ponga particolare attenzione all'equilibrio economico e al contenimento dei costi per le prospettive aziendali di sostegno al piano industriale e raccomanda informative approfondite sull'andamento di gestione nel breve e medio termine. Chi conosce le assemblee aziendali sa che se un socio vuole essere messo a verbale, e soprattutto con la frase ''raccomanda informative approfondite sull'andamento di gestione nel breve e medio termine'', significa che le cose non vanno come vorrebbe. Non a caso, pochi mesi dopo Edima ha messo in vendita la sua quota, e questa è la notizia principale confermata dalla stessa Monteverdi. Sulla paginata a noi dedicata appare anche una breve nota di Edima in cui precisa che non ha messo mai becco nella linea editoriale (cosa che ovviamente noi non abbiamo scritto) e casualmente tra i soci non appare mai il nome di Alvaro Cesaroni, ma solo ''Angela Iozzi, Mario Cesetti, Luca D’Aprile e il sottoscritto Enrico Paniccià''. E chi è Angela Iozzi, se non la moglie di Cesaroni? Edima poi ribadisce la volontà di vendere, fatta salva la facoltà di chi intenderà rimanere nell'azionariato di SEIF. Se i rapporti sono così rosei, perché cedere la quota dopo 11 anni? Solo per monetizzare, come dice la Monteverdi? Ma finora hanno incassato ricche cedole, avrebbero potuto monetizzare dopo la quotazione quando il titolo valeva 80 centesimi, mentre ora viaggia intorno ai 50. Insomma, si conferma la quota in vendita, è confermato (addirittura nel bilancio depositato!) l'allarme sui conti in rosso, mentre sulla linea editoriale appiattita sul governo e sgradita ad Alvaro Cesaroni aspettiamo ancora smentita. Essendo uno dei soci fondatori, tanto che le feste per i primi due compleanni del ''Fatto'' si sono tenute a Fermo, sua città natale, la notizia ha sicuramente una rilevanza mediatica, seppur fognaria…
PS: non perdetevi la parte finale del monologo, in cui la Monteverdi ci ''brucia'' annunciando che il ''Fatto'' si è messo in affari con Berlusconi. Si ride forte.
PPS: la notizia della Santanché che vuole comprarsi la quota non è stata data da noi, come ha scritto la Monteverdi. Le frasi della Pitonessa sono state raccolte da ''Repubblica'', che ovviamente non ha manco citato questo disgraziato sito.
Cinzia Monteverdi, Presidente e Amministratore delegato SEIF, per il “Fatto quotidiano”. Quando le persone mi chiedono: "È dura gestire un'impresa editoriale di questi tempi, vero?", rispondo sempre che è molto più sopportabile gestire le difficoltà del mercato editoriale rispetto alla fogna mediatica costruita sulle frottole e non su fatti veri. In effetti la cosa più dura e fastidiosa è dover gestire la consueta, ormai tradizionale, "informazione" che parte sempre da qualche angolo buio e triste per arrivare a propagarsi in un'onda maleodorante tramite certi siti di gossip. La tentazione è sempre quella di non rispondere per non dare importanza alle bugie e, soprattutto, per non perdere tempo. Ma, per rispetto dei nostri lettori, dei nostri giornalisti, dei nostri dipendenti, del nostro direttore e dei nostri investitori, spesso sono e siamo costretti a replicare e precisare. Così anche oggi ho l'obbligo, ma anche il piacere di comunicare che l'articolo uscito lunedì su Dagospia titolato "C'è del movimento tra i Soci del Fatto", costruito ad arte povera, riportava una serie di baggianate seguite da altre baggianate, culminate con l'ipotesi dell'ingresso di Daniela Santanchè come futura azionista della nostra Società. Tutto questo accadeva, guarda caso, proprio mentre il nostro Consiglio di amministrazione era riunito per approvare il bilancio semestrale. Mentre il pezzo riportava l'intenzione del nostro azionista Edima di vendere le sue quote a causa della linea editoriale di Travaglio e dei conti in rosso, il nostro Cda approvava una semestrale con i conti a posto e un risultato di esercizio positivo. Inutile inviare diffide, rettifiche e smentite a Dagospia con preghiera di pubblicazione perché la velocità media di pubblicazione delle bugie è inversamente proporzionale a quella di pubblicazione delle nostre smentite. Che, al solito, sono state corredate da una simpatica foto (che ormai ha stufato anche i sassi) della sottoscritta insieme a Travaglio, risalente - credo - a dieci anni fa, quando eravamo inseguiti dai paparazzi non appena andavamo a cena dopo il lavoro. L'unica cosa positiva è che, per Dagospia, sembro non invecchiare mai. Scherzi a parte, è tutto molto prevedibile e comprensibile: Il Fatto dà fastidio a tanti, il nostro giornale rompe le scatole a un bel po' di potenti e in giro ci sono molti invidiosi malvissuti che forniscono informazioni inesatte o totalmente false a testate fatte apposta per diffonderle. A questo andazzo siamo ormai abituati: il mondo è bello perché è vario. A chi però vuole sapere come stanno davvero le cose preciso che la Società Editoriale il Fatto è una società per azioni, approdata per giunta al mercato della Borsa un anno e mezzo fa, dunque - per definizione - aperta alla vendita e all'acquisto di azioni. I soci hanno diritto di vendere se ne hanno l'esigenza, essendo le nostre azioni per fortuna monetizzabili perchè hanno un valore. Considero fondamentale per la crescita della Società e il raggiungimento dei nostri obiettivi industriali valutare l'entrata di partner strategici nel nostro azionariato. Pertanto non ci preoccupa l'ipotesi che un azionista ceda le sue azioni a un nuovo socio funzionale alla crescita societaria. Come in tutte le Società, i cambiamenti nella compagine azionaria sono la normalità: ne abbiamo già avuti anche noi in passato. Ma non è in atto alcuno sconvolgimento tra i Soci del Fatto, specie tra quelli fondatori e operativi, che credono fermamente nel piano di sviluppo. Il fatto che alcuni Soci possano avere l'esigenza di monetizzare la propria quota non comporta certamente un fuggi-fuggi, tantomeno per colpa della "linea Travaglio" (nota fin dalla nostra fondazione) né per i fantomatici conti in rosso (che invece sono in attivo). Mi dispiace poi deludere Dagospia, ma la sottoscritta non ha esercitato alcuna pressione per impedire a chicchessia di vendere le proprie azioni. Anzi, comunico di essere assolutamente favorevole ai cambiamenti, purchè siano sani e portino valore all'impresa. Dunque ben vengano altri azionisti, anche se "scomodi". Anche perchè siamo protetti da uno statuto che ci tutela dalle "nocività". Ma soprattutto perchè i soci "scomodi", se sono intelligenti e avvezzi al business, sono i primi a non voler entrare nel Fatto. Quella su Santanchè nostra azionista è una boutade. Essendo donna tutt' altro che sprovveduta e abile negli affari, è la prima a comprendere che, se investisse davvero un milione e mezzo di euro per acquisire azioni (come riportato da Dagospia e da un'intervista addirittura su Repubblica), queste perderebbero immediatamente valore, visto che i nostri lettori non comprenderebbero l'operazione e smetterebbero di acquistare il giornale. Non credo che Daniela Santanchè abbia alcuna intenzione di buttare via i suoi soldi. Insomma, cari lettori e investitori, godetevi la nostra bella semestrale su il sito seif-spa.it, con i conti a posto. E perché i conti sono a posto? Perché i ricavi sono aumentati, la diversificazione su diversi rami ha funzionato e soprattutto quel "maledetto" giornale chiamato Il Fatto Quotidiano, con la maledetta linea editoriale di Travaglio, ci ha portato un aumento dei ricavi del 30% nel primo semestre. Non cantiamo vittoria perché il 2020 è stato per l'economia un anno duro e lo sarà ancora, imponendo ulteriori sforzi a noi come a tutte le imprese. Ma intanto festeggiamo alla faccia di chi ci vuole male. Ah, dimenticavo: ho un nuovo titolo-scoop da suggerire a Dagospia: "Il Fatto si fa distribuire da Berlusconi". Oppure "Travaglio fa affari con Berlusconi". Infatti abbiamo cambiato società di distribuzione per mia scelta, legata a motivazioni oggettive: dal 1° ottobre saremo seguiti da Pressdì, società del gruppo Mondadori. Lo "scandalo" è già pronto, servito su un piatto d'argento. Forza Dago a tutta birra. Divertiamoci un altro po'.
Achille Milanesi per “MF” il 30 ottobre 2020. «Ci sono partner industriali interessati a entrare nel capitale e garantire il sostegno di sviluppo futuro del progetto editoriale». Parola di Cinzia Monteverdi, azionista e top manager della casa editrice Seif, che controlla il Fatto Quotidiano e altre attività nel settore della produzione di contenuti. Il gruppo ha chiuso il primo semestre con ricavi per 19,78 milioni (+30,47%), un ebitda di 2,5 milioni e un utile di 73mila euro (rispetto a una perdita di 862 milioni del 30 giugno 2019) e ora valuta la possibilità di ampliare l' azionariato. Il tutto all' interno di un piano di espansione operativo ed editoriale che può necessitare di nuovi capitali e che quindi non può escludere un rimescolamento dell' attuale assetto. Come riferito nei giorni scorsi da Dagospia, il socio storico Edima (11,34%) starebbe valutando l' opportunità di uscire dal capitale, anche se va ricordato che Luca D' aprile - socio di Edima al 10% - è nel cda della casa editrice e ha un ruolo di rilievo sulla parte digitale e d' innovazione del gruppo. Inoltre, gli altri soci di Seif - a partire da Monteverdi (16,26%) e dal direttore Marco Travaglio (16,26%) - possono rilevare a loro volta le azioni che un altro socio intendesse cedere e anche la società stessa può comprarle, come già avvenuto in passato. Quanto agli altri soci rilevanti, Chiare Lettere (11,34%) e Aliberti Editore (7,35%), non hanno intenzione di monetizzare e abbandonare il progetto portato avanti dal management. Va però segnalato che l' imprenditrice Daniela Santanché si sarebbe fatta avanti con Edima per rilevare la quota del Fatto Quotidiano. Secondo quanto appreso in ambienti finanziari, Santanché avrebbe messo sul piatto 1,5 milioni per l' 11,35% potenzialmente in vendita, per una valutazione implicita di Seif di 13,2 milioni rispetto a una capitalizzazione di borsa di 12,5 milioni. Al momento non è dato sapere se la trattativa sia in fase avanzata e se vi sia davvero interesse di Edima a uscire dal capitale del Fatto. Resta invece l' interesse della senatrice di FdI a incrementare la presenza nel settore editoriale, oggi rappresentata dalla partecipazione in Visibilia Editore. In tal senso, secondo rumors di mercato, Santanché - in qualità di presidente della società - starebbe per lanciare un aumento da 5 milioni e sarebbe pronta a sottoscrivere pro-quota (18,24%) oltre a coprire gran parte dell' eventuale inoptato. Anche perché di recente ha ottenuto una linea di credito da 2 milioni per questa operazione e ha liquidità a disposizione per eventuali operazioni di mercato.
Da “il Giornale” il 27 settembre 2020. La scrittrice Michela Murgia si conferma una incallita hater, ma siccome è di sinistra i suoi insulti non sembrano fare scandalo. E siccome è una donna se tratta un uomo con volgarità non c'è problema o rischio di sessismo. Specie se l'uomo in questione è Matteo Salvini, su cui c'è libertà di dileggio. L'ultima delicatezza della Murgia arriva da una domanda di Lilli Gruber circa la credibilità di una svolta moderata del leader leghista. La scrittrice non ci crede e argomenta: «Quando il gioco si è fatto duro, con i morti per il coronavirus, i toni forti come ci ha dimostrato il successo dei sindaci sceriffi funzionano bene solo se sei percepito come una persona seria. Se in una mano hai un supplì o il muso unto di porchetta a una sagra e nell'altra mano un pugno di commercialisti in odor di ladrocinio è difficile che questi toni forti non suonino grotteschi o anche tragici». Attribuire un «muso», invece che un volto, ad una persona equivale a dargli dell'animale, che sarebbe poi un insulto. Chissà cosa sarebbe successo se qualcuno lo avesse detto a lei.
DAGONOTA il 23 settembre 2020. - Cara De Gregorio, ma se lei ha una rubrica quotidiana su Repubblica che si chiama ''Invece Concita'', vuol dire che sul suo nome di battesimo ha costruito anche una parte di notorietà. Giustamente, essendo un nome inusuale in Italia, chi sente Concita capisce subito che si parla della giornalista ed ex direttrice de L'Unità. Un elemento di forza nell'affollato panorama mediatico. Vale per Emma Marrone che è nota solo come ''Emma'', vale per ''Lorenzo'' (Cherubini, in arte Jovanotti), vale per ''Maria'' (De Filippi), un nome che ormai identifica la Sanguinaria di ''Uomini e donne'' più che la donna più famosa della storia. Invece dopo aver alimentato questa familiarità, di colpo si rimangia tutto e vuole essere chiamata ''De Gregorio''. Magari senza il ''la'' prima del cognome, così da essere confusa con il pingue senatore eletto con Di Pietro e noto per essersi venduto a Berlusconi per far cadere il secondo governo Prodi. Contenta lei, anzi, contenta Concita.
Marco Leardi per davidemaggio.it il 23 settembre 2020. Solo il sessismo reale – atteggiamento di degno assoluto biasimo – è peggio di quello presunto. Abbiamo assistito con incredulità alla polemica sollevata ieri sera da Concita De Gregorio a diMartedì nei confronti di Alessandro Sallusti: su La7, la giornalista ha rimproverato al direttore de Il Giornale di averla chiamata per nome e non per cognome, a differenza di quanto egli avesse fatto con gli altri ospiti di sesso maschile. Peccato che, poco prima, anche il conduttore della trasmissione, Giovanni Floris, avesse fatto altrettanto, senza però ricevere alcuna ramanzina.
“Sallusti scusi, ma perché mi chiama per nome e io la chiamo per cognome?“ ha lamentato ad un tratto De Gregorio esibendo un certo fastidio. Pungolato, il direttore de Il Giornale ha a quel punto replicato ironicamente ma con fermezza: “Cara professoressa, mi dimenticavo che non puoi mischiarti con gli ignoranti. Dottoressa, le chiedo scusa! Siccome quando ci vediamo di persona ci diamo del tu e scherziamo, mi permettevo di farlo. Diciamo ai telespettatori che quando lei mi vede in privato e capita che ci incontriamo mi dà del tu e ci salutiamo con grande affetto. Adesso in televisione le fa schifo?“.
Ma la giornalista di Repubblica ha ribadito: “Non capisco perché chiami me con il nome di battesimo e Damilano con il suo cognome. Chiamare una persona con il nome di battesimo è un indizio…“. A quanto pare, tuttavia, l’«indizio» in questione stavolta era abbastanza nebuloso e infatti nemmeno il conduttore – che ha subito tentato di stemperare gli animi – lo aveva colto come particolarmente irrispettoso.
“L’accusa è di sessismo, diciamo, ma in realtà credo sia una maggior affabilità“ aveva ragionevolmente chiosato il padrone di casa. Ma sapete il paradosso? Poco prima, proprio Giovanni Floris aveva adottato il medesimo ed involontario comportamento nei confronti della giornalista di Repubblica, senza che nessuno (a cominciare da lei stessa) avesse giustamente battuto ciglio. Dopo aver presentato tutti gli ospiti, il conduttore aveva aggiunto: “Concita, se sei d’accordo inizierei da te e Sallusti“. E di seguito aveva elencato in questo modo l’ordine degli interventi previsti: “Concita, Sallusti, Senaldi, Sotis“. Accidenti! Anche nel prosieguo del dibattito, De Gregorio era stata ripetutamente chiamata per nome da Floris ed ella stessa si era rivolta a quest’ultimo con un colloquiale “Giovanni“. Ora, sappiamo bene che l’utilizzo del nome proprio può essere utilizzato come tecnica per sminuire l’interlocutore ma in questo frangente non abbiamo avvertito la volontaria intenzione di farlo. Di polemiche pretestuose, perché fondate su basi traballanti, sono piene i talk show: quella andata in scena ieri sera su La7 crediamo possa inserirsi in tale categoria.
Vittorio Feltri ad Alessandro Sallusti: "Non dovevi chiamarla Concita. Trinariciuta e arrogante, come si è conciata". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 25 settembre 2020. Caro Alessandro Sallusti, data la nostra vecchia amicizia e colleganza, mi permetto di osservare che hai sbagliato a chiamare Concita la signora De Gregorio. Vero che lei ha ecceduto in inutili e ridicole proteste, come se tu l'avessi insultata quando, invece, nei suoi confronti hai dimostrato addirittura di essere ossequioso. Tuttavia dovresti conoscere sia i tuoi polli, non ho scritto galline, visto che frequenti da anni, come me del resto, i personaggi della politica e del giornalismo. Essi, specialmente se di sinistra, soffrono di un complesso di superiorità che li rende inavvicinabili. Sono presuntuosi e arroganti e, se hanno a che fare con qualcuno che rosso non è, si irritano considerandolo un essere pressoché indegno, col quale è umiliante interloquire. In fondo De Gregorio fa bene a darsi delle arie, avendo compiuto una impresa storica, meritevole di applausi: ha distrutto l'Unità, che fu organo del vecchio e per fortuna defunto Partito comunista italiano. Ma siccome ella è rimasta nel suo intimo una compagna, avresti dovuto appunto appellarla «compagna». Chi è stato trinariciuto rimane tale a vita e si compiace del proprio vergognoso passato. De Gregorio ti avrebbe ringraziato. Anche io sono stato di sinistra e mi sono imbattuto in tanti comunisti, alcuni perbene, altri stupidi al punto di avere vergato questo titolo sull'Unità in occasione della morte di Stalin: «È scomparso un grande statista». Non ha errato De Gregorio a far secco un simile giornale. E se si offende qualora un direttore si rivolga a lei quale madame Concita, ha ragione: più che altro Concita si sente conciata, male.
Vittorio Feltri, la riflessione politicamente scorretta: "Perché alcuni uomini hanno molte donne". Libero Quotidiano il 24 settembre 2020. Tempo di riflessioni. Brevi, sarcastiche, pungenti. Insomma riflessioni il cui regno è Twitter, laddove il limite a parole e caratteri impone la brevità. E a spendrsi nella riflessione di cui stiamo parlando è Vittorio Feltri, il direttore di Libero. Si parla di uomini e donne. O meglio, si parla delle relazioni tra uomini e donne e dei rapporti, spesso difficili, tra i due sessi. Dunque, ecco il peculiare punto di vista del direttore: "Ci sono uomini che hanno molte donne perché una sola è di troppo", cinguetta Vittorio Feltri. Come detto in premessa: breve, sarcastico e pungente.
Lucia Esposito per “Libero quotidiano” il 26 settembre 2020. La colpa è dell'amigdala. Se i vaffanculo e i coglione abbondano sulla vostra bocca, se date del cornuto all'automobilista che vi taglia la strada e urlate stronza alla vicina che vi molesta con l'aspirapolvere alle due di notte, dovete prendervela con l'amigdala che non è una parolaccia ma una struttura a forma di mandorla nascosta nel vostro cervello. È lei, l'amigdala, il grilletto che innesca la carica incendiaria e vi libera della rabbia che ribolle dentro. Quando, invece, vi mordete la lingua e ingoiate la parolaccia come un boccone amaro dovete ringraziare (o maledire) i gangli basali che si trovano sempre nel cervello ma funzionano come freni inibitori. Sono i grilli parlanti cerebrali che vi suggeriscono che è meglio tacere e mettono il silenziatore ai vostri pensieri più feroci. L'emisfero destro del cervello, infine, è quello che confeziona l'insulto e conferisce una forma verbale alla vostra rabbia: tra i mille improperi disponibili vi fa scegliere quello giusto. Dopo aver letto il saggio Insultare gli altri (Einaudi editore, pp.141, euro 12) del professor Filippo Domaneschi direttore del Laboratory of Language and Cognition dell'Università di Genova, non accuserete più di volgarità chi si lascia scappare un'imprecazione. Guarderete con una certa stima chi fino al giorno precedente bollavate come sboccato e scurrile. Scoprirete che insultare è un'ancòra di salvezza nelle giornate burrascose della vostra esistenza, un bel vaffa accompagnato dal dito medio è un argine contro lo straripare della rabbia. Sigmund Freud un secolo fa scrisse: «Il primo umano che scagliò un insulto al posto di una pietra fu il fondatore della civiltà». L'insulto è ammortizzatore della frustrazione che aiuta a rinviare e spesso a evitare lo scontro fisico, insomma dobbiamo ringraziare tutti i coglione che abbiamo detto per aver salvato la nostra fedina penale. Domaneschi definisce l'insulto «un'arte marziale che educa a contenere e a ritualizzare l'aggressività». Una parolaccia ben assestata umilia l'avversario, attrae l'attenzione e sprona qualcuno a fare qualcosa. Per questo l'autore fa notare che «una lingua deprivata delle ingiurie è condannata al disarmo, menomata di una sua capacità espressiva». E pensare di trovare dei sinonimi più socialmente accettabili, sostituire per esempio: sei un coglione con una perifrasi ridicola come sei una persona poco intelligente oppure sei un individuo che non brilla vuol dire rinunciare ad essere linguisticamente attrezzati ad affrontare le diverse situazioni conflittuali. La vita quotidiana impone versatilità, bisogna padroneggiare diversi registri, saper raggiungere vette liriche e poi essere capaci di sprofondare negli abissi. Saper insultare, possedere un vasto repertorio di parolacce ed offese tra cui scegliere significa saper stare al mondo. sallustio e cicerone Molti pensano all'antichità come a un'età in cui il linguaggio era forbito, i modi eleganti e l'eloquio ossequioso, in realtà parolacce e cattiverie fiorivano anche sulle bocche di Catullo, Sallustio e Cicerone. La differenza rispetto al passato è l'irruzione dell'offesa nell'agone politico: oggi l'insulto è usato come strumento per attirare consenso e delegittimare l'avversario politico. È molto interessante il capitolo del saggio dedicato agli insulti in politica in cui l'autore paragona le parole normalmente usate dalla sinistra progressista contro la destra e viceversa. Da una parte fascisti, ignoranti, trogloditi, rozzi, dall'altra professoroni, radical chic, buonisti e intellettualoni. Dal confronto è evidente che i primi sono asimmetrici, presuppongono cioè una superiorità gerarchica dell'insultatore sull'insultato sia di natura morale e civile (fascisti), intellettuale (ignoranti) o cognitiva (trogloditi). Insomma, ci si mette in cattedra e si bacchetta. «L'insulto populista, al contrario, è ecumenico. Chiunque può dare del professorone a qualcun altro»: l'autore sottolinea che quest' ultimo è un linguaggio che fa presa su un più largo numero di persone e ha maggiori chance di colpire. Per quanto tutti vorremmo un confronto politico più pacato e tollerante, la verità è che oggi la competenza denigratoria è diventata un elemento fondamentale di una comunicazione politica efficace. Non bollate l'insulto come espressione di un'incontinenza emotiva perché alcune offese raggiungono il bersaglio solo se ben ponderate e creative. Ci sono mille buoni motivi per leggere questo saggio. Il primo è che dopo averlo chiuso potrete insultare e arricchire il vostro arsenale denigratorio di nuove parolacce senza mai sentirvi scurrili.
Maledizioni, minacce e offese: qui hanno tutti "perso" la testa. Gli odiatori da tastiera attaccano? I vip rispondono a tono mostrando il loro vero volto. Da Vasco Rossi a Caterina Balivo, Da Elena Morali a Valentina Vignali ecco chi questa settimana c'è andato giù pesante. Novella Toloni, Mercoledì 16/09/2020 su Il Giornale. Saranno anche fonte di guadagno e mezzo per ottenere popolarità, ma per i personaggi famosi i social network sono una gran bella gatta da pelare. Tra odiatori seriali, profili finti e leoni da tastiera i vip sono il bersaglio preferito di commenti sgradevoli, sessisti e ingiuriosi. Ma a tutto c'è un limite. Che abbiano ragione oppure no, ecco che i personaggi noti - presi dalla foga di rispondere - mostrano il loro vero volto mettendosi anche allo stesso livello di chi li attacca. È successo al cantante Vasco Rossi che sui social mostra, da sempre, la sua vena artistica musicale. La questione "mascherine" però lo ha fatto scivolare in un "contenzioso" quanto mai discutibile con alcuni seguaci, ai quali il rocker di Zocca ha replicato senza mezze misure, stupendo per l'audacia chi lo segue da anni. "Da 'vita spericolata' a 'vita in mascherina', che tracollo che hai fatto. Brutta fine", ha scritto un follower sotto uno dei più recenti post di Vasco che, indispettito, ha pensato bene di replicare a tono: "Fai così, brucia tutti i miei dischi e datti fuoco anche te". Lo scontro social è proseguito poco dopo con un altro utente: "La mascherina è tossica, stanno trovando funghi nei polmoni e a breve saranno tumori". "Quindi tutti i medici e gli infermieri che la usano da sempre moriranno di tumore? I poteri forti sono nella tua testa e tu sei un tonto e basta", ha replicato Rossi dando in sostanza del cretino al follower. Difficile sorvolare su certi commenti anche per il vip più serafico. Dai oggi, dai domani anche il più pacato dei volti noti scivola nella trappola degli odiatori, abbassandosi allo stesso livello. È successo anche a Caterina Balivo che, oggetto dei commenti audaci di un follower, non è riuscita a trattenersi e c'è andata giù pesante. "Che ti possa cadere la lingua", ha replicato la conduttrice al commento hot di un utente: "Col bikini sei mostruosamente gnocca mi fai rizzare tutto leccherei tutto il tuo corpo...". Chi proprio non riesce a mordersi la lingua è Valentina Vignali che, per rispondere a tono ai sui hater, è ricorsa addirittura alla musica, scrivendo versi in rima. Per l'ultimo sgradevole commento però non è servito arrivare a tanto. Alla giocatrice di pallacanestro è stato sufficiente dare dell'imbecille a un follower per rimetterlo in riga. "Mi raccomando denuncia il fotografo! Sai qualcuno non vi dà modo di esistere siete morte!!!!", ha scritto un fan sotto il suo ultimo post, ricordando la vicenda dello skipper che avrebbe fotografato di nascosto lei e alcune sue amiche durante una vacanza a Lipari. Seccata dal riferimento la Vignali ha replicato: "Quello 'morto' e soprattutto imbecille sei proprio tu invece". Chi invece finisce spesso nel mirino degli odiatori social è Marco Bacini, compagno di Federica Panicucci, che ogni volta replica alle accuse e alle offese con garbo ma pur sempre a tono. L'ultima stilettata all'indirizzo della fidanzata lo ha fatto letteralmente infuriare e la risposta è epica. "Si è ossigenata troppo la chioma, tipico di chi ormai ha una certa età", scrive un follower sotto l'ultimo profilo Instagram della conduttrice. Il giusto "assist" per la clamorosa risposta di Bacini: "Le Sue conclusioni sono invece tipiche di chi ha carenza di ossigeno nel cervello; provi ad ossigenarlo un po' e se saremo fortunati magari il prossimo commento sarà anche intelligente". Una "moda" - quella di attaccare i vip e per contro di rispondere agli hater - che ha portato addirittura alla nascita di pagine social semiserie come "Gli Odiatori" su Instagram, che segnalano il surreale botta e risposta tra volti noti e follower. La carrellata dei commenti che mostrano il vero volto dei vip non può non terminare con i due commenti piccanti rivolti all'indirizzo di due bellissime del piccolo schermo, Francesca Brambilla e Elena Morali. L'ex Bona Sorte di Avanti un Altro non ha battuto ciglio nel replicare al commento sessista del seguace che, ammirandola in uno scatto in cui la modella si gusta una burrata, ha pensato "bene" di scriverle: "Ti piace avere quella cosa bianca in bocca". Scontata ma d'effetto la replica senza peli sulla lingua della Brambilla: "Anche a tua mamma". Risposta audace anche per Elena Morali che - al sospetto di un fan sulla sua vita sessuale - non c'è andata tanto per il sottile. "Avessi un fidanzato così altro che foto e fotine, scoperei 3/4 volte al giorno", le scrivono. Lei replica: "Chi ti dica che non succeda già". Per il momento ci fermiamo qui.
Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 21 settembre 2020. L'uno eleva l'altro a «sommo e divagante eroe della vita che scansa pericoli, le esagerazioni e la maleducazione», oltre a segnalarlo a Mattarella perché lo nomini «Cavaliere di Gran Croce o forse anche Cavaliere del lavoro». L'altro ricambia con un video in cui ringrazia l'uno, segnalandogli che «mi fa piacere che siamo sulla stessa lunghezza d'onda in questo periodo». L'uno e l'altro sono una coppia così assortita che soltanto il dibattito sulla libertà ai tempi di una pandemia poteva mettere assieme, anche se distanziati. L'uno è Giuliano Ferrara, l'altro è Vasco Rossi. Strano ma vero, finiscono per trovarsi dalla stessa parte dalla barricata proprio nei giorni in cui il fondatore del Foglio , sostenitore del «sì» al referendum, aveva provocatoriamente infilato nello stesso albero genealogico la battaglia antipartitocratica dei Radicali di Marco Pannella, da sempre l'unica «casa» politica del rocker di Zocca, e l'an-tipolitica del duo Crimi-Di Maio. A far guadagnare a Vasco un posto nel personalissimo pantheon di Ferrara - c'è anche una bozza di epigrafe: «A Blasco che da mistagogo della religione della gioventù si fa pedagogo e maestro di vita adulta» - è stata la battaglia sull'uso delle mascherine che il Komandante (si faceva chiamare così da prima di Salvini, con la «k» però) sta portando avanti anche a dispetto di chi gli rinfaccia una senilità decisamente meno spericolata di quella «vita» che canta e decanta da quasi quarant' anni. Quando legge «mistagogo», Vasco avverte i fan dei suoi social che «ci vuole il vocabolario ma ne vale la pena, sì». Magari avrà sorvolato sulla riga in cui Ferrara lo associa a «un bevitore di Lambrusco al Roxy Bar». Non per il Roxy Bar, ma per il Lambrusco. Quello era Ligabue, nelle canzoni di Vasco ci sono whisky e bollicine. Lambrusco mai.
Caro Vasco, ora lo spieghi tu a mia madre…Max Del Papa, 20 settembre 2020 su Nipolaporro.it. Perdoni il lettore se, una tantum, il cronista parla di sé: si permette solo perché a volte la fonte coincide con l’esperienza, e l’esperienza ha a che fare con una consapevolezza: l’impatto mediatico s’è fatto devastante, cosa che evidentemente a qualcuno sfugge; o forse no, non gli sfugge affatto ed è esattamente quello che cerca. Ho una madre sulla soglia degli 88: non esce di casa da anni, reduce da un ictus che le ha soffiato via la lucidità che restava: demenza totale e la sfibrante difficoltà di occuparmene a tempo pieno – con l’aiuto, generoso, decisivo, di una cara amica.
Lite con Vasco. Questa madre di stirpe contadina, che per pochi anni lavorò nella metropoli prima di sposarsi e rientrare nei ranghi (allora si usava così), non sa cosa siano i social, non ha mai acceso un computer in vita sua, il mondo le arriva, confuso e vociante, dallo schermo di una televisione sempre accesa. Chissà come, ha captato strascichi della faccenda di Vasco Rossi, uno che trapassa anche i buchi di una memoria diroccata: “Ma come? Ma Vasco Rossi ha detto che sei un delinquente! I delinquenti vanno in prigione. Allora vai in prigione?”. No, ma’, non vado in prigione, non ho fatto niente, stai tranquilla. “Se vai in prigione chi si occupa di me?”. Da allora è sconvolta, l’unica speranza è che presto la tabula rasa prenda il sopravvento e tutto ricominci da zero. Così vive lei, così vivo io con lei. Fine della parentesi personale e inizio di una considerazione generale.
C’erano una volta i vip. C’era una volta un vip. Il vip era un’entità mitologica che riempiva di sè le cronache degli umani da semidio, assenza immanente, come Liz Taylor, Gianni Agnelli o Frank Sinatra. Regnavano sui i rotocalchi e gli immaginari degli umani a forza di imprese, depravazioni, follie ma erano schermati, stavano nel loro Olimpo vizioso, nessuno li raggiungeva, al massimo qualche paparazzo molesto da scazzottare. Oggi il vip è altro anche lui, diciamo un vippo/vippa figlio dei suoi social, sta dappertutto, pontifica, si pone come fondatore di un nuovo culto: tanti vippi, tante religioni. Quante divisioni ha il vippo/vippa su Instagram o Twitter? Comunque un dèmi-dio, più stregone che santo, tipo le coppie influencer che impostano un figlio come un piano quinquennale. Ora, questi personaggi usano molto lamentarsi della celebrità, vale a dire di quelli che li odiano, li attaccano in rete, non li lasciano vivere, salvo glissare sul recto della medaglia e cioè le schiere di seguaci mandati allo sbaraglio per le loro crociate, le loro guerresante, indette invariabilmente per motivi mercantili: bisogna coltivare l’immagine, alimentare il vecchio mito chi del ribellismo, chi dell’impegno militante, chi della seduttività senile; tutto è lecito, anche giocare sporco.
Fan(atici) social. È una sorta di mutazione antropologica: fino a qualche tempo fa il vip, aggredito da critiche irriverenti, poteva limitarsi a sbandierarle, giocando di sponda, facendo leva sul vittimismo empatico: avete visto, sono famoso ma resto umano, anzi resto umile. Poi, con la scoperta della terra ignota dei social, questi vippi e vippe sempre più smaliziati hanno realizzato che si poteva dare di più: ci voleva una autentica chiamata a raccolta, come quelle di Gregorio VII o Urbano II che intorno all’anno Mille chiamavano alla difesa della Cristianità: e partivano i Cavalieri. Oggi partono i fanatici senza nome e senza faccia e chi più ne ha più ne mandi allo sbaraglio. Una dimostrazione di potenza indiscussa, di autorevolezza in grado di schiacciare sul nascere qualsiasi eretico, per dire chiunque non dica che il vippo/vippa di turno cammina sulle acque, come quel Tale, che non scriveva sul giornale ma guariva gli storpi e moltiplicava i pani e i pesci: robetta al confronto del miracolo planetario di quattro canzoni, o articoli, o selfie. E lo è, gioco sporco, quello di tirarsela da vittime (viptime, le chiama in un suo libro Massimo Coco, il figlio del giudice trucidato dalle Brigate Rosse) mentre si gioca a Risiko, anzi a Napoleone. Sporco anche perché, oltretutto, si può far come quel tale, quel tale che se ne lavava le mani: i violenti alcoolici da osteria digitale sono come l’Oceano di Lucio Dalla, non li puoi fermare non li puoi recintare, il vippo/vippa lo sa e ci marcia: come fai a colpevolizzare una marea di due o trecentomila esaltati, come fai a ricondurre l’origine della responsabilità a chi li sguinzaglia con un apparentemente innocente invito sui social? E tutto si dilata, i giornali riprendono, i telegiornali raccolgono, l’impatto mediatico diventa bestiale.
Guerre vippe. Qui sta il busillis di un comportamento che intende difendersi dal bullo qualunque, ma diventa iperbullista a sua volta. Il vippo/vippa non si sporca le mani e può sempre risponderti: che c’entro io? Che colpa ne ho se sono famoso? Ma non funziona così e l’oracolo twittatore, selfatore, dispensatore di saggezza tascabile lo sa perfettamente: l’intendenza seguirà. Difatti le intendenze finiscono regolarmente a massacrarsi fra loro, secondo il deprimente paradosso dei volonterosi combattenti contro l’odio che finiscono per scatenare tempeste d’odio in rete. C’è sempre uno squilibrato, un incauto che per primo attacca il vippo/vippa e che si vota a sicuro macello, con il suo esile manipolo di followers che fanno la stessa fine, caduti alle Termopili social travolti dalle legioni della “viptima”. Mentre gli scontri tra vippi e vippe di pari rango non sono mai sulla base delle ragioni, quasi sempre assai presunte, ma della carne da cannone che ciascuno ha da schierare sul suo Risiko virtuale: io ce l’ho più lungo di te, l’esercito virtuale. Davvero fa specie che questa esigenza di responsabilità sociale – non social, sociale, etica, civile – non venga percepita da nessuno, istrioni, guitti, cantanti, virologi improvvisati, politici, giornalisti, tutta gente che di etica della responsabilità si riempie la bocca, preferibilmente coperta da una mascherina. Lo sanno, che hanno una responsabilità diffusa? Lo sanno che i loro ululati si dilatano? Lo sanno, lo sanno: e gli va bene così, poi a fare i martiri è un attimo. Qui c’è chi solfeggia di “negazionisti terrapiattisti del cazzo” e ci fa pure la parte del ribelle perché dice sì alla mascherina sempre e comunque, a parte qualche selfie con altri intransigenti a giorni alterni. Ma tanti anziani annaspano, rantolano, vivono nel terrore, cioè non vivono più, perché sono malati anche da sani, perché sono convinti che, là fuori, stiamo tutti cascando come mosche per colpa di chi la mascherina non la porta a scuola, in casa, in chiesa, in macchina, e anche cucita sulla pelle. Lo sanno cosa combinano, lo sanno che vanno travasando la santa prudenza in isteria, in follia? Lo sanno che lo fanno per agevolare un controllo da un potere di stampo cinese, loro che per tutta la carriera hanno scassato i maroni con l’attacco al potere, e li si escludeva, e non erano capiti, eh, oh, sono ancora qua? Ho una madre fragile come un vecchio cardellino, che, senza saperlo, ed è l’ironia più feroce, usa le parole di una canzone: “Tu mi sa tanto che finisci male”. E dà i numeri. Che faccio, la drogo? Le do 100 gocce di Valium? Mettila come vuoi ma, dovesse succederle qualcosa, non sarà stato il Covid e non saranno stati i “negazionisti del cazzo”. Max Del Papa, 20 settembre 2020
Gianni Giacomino per la Stampa il 15 settembre 2020. Prima ha fotografato con il telefonino la scritta «Salvini appeso» che qualcuno ha lasciato su un muro in centro a Torino. Poi Fabio Tumminello, avvocato praticante di 28 anni, candidato per il Pd a Venaria Reale, l' ha pubblicata sul suo profilo Instagram. Apriti cielo. Nel giro di pochi minuti si è scatenato il finimondo con la reazione dei vertici della Lega e del centro destra. E così, domani pomeriggio, Salvini ha annunciato che sarà proprio a Venaria, la città della Reggia, il primo Comune piemontese conquistato dal M5S alle amministrative di cinque anni fa e poi commissariato. «Parlerò di scuola, di giovani e di lavoro, non di minacce - dice Salvini -. Altri preferiscono gli insulti, i lanci di sedie, bottiglie o pomodori, le minacce o lo strappo di camicie e Rosari. Alla rabbia e alla paura rispondiamo col sorriso e col lavoro». Il deputato Luca Toccalini, coordinatore Giovani della Lega, ha definito il post «infame» chiedendo al Pd di espellere il suo candidato. Un brutto momento per Tumminello che, intanto, si è cancellato da tutti i social: «Perché voglio evitare che i miei familiari o gli amici possano avere delle noie per colpa mia». «E inutile che provi a cercare delle giustificazioni, ho sbagliato, me ne prendo tutte le responsabilità e per questo ho subito chiesto scusa - dice il candidato 28enne -. Ovviamente quello che ho pubblicato non rispecchia il mio pensiero, ci mancherebbe. Voleva solo essere un' uscita ironica, invece ha scatenato un putiferio. Sono stanco e dispiaciuto, un giorno spero di svegliarmi da questo incubo». Sospira: «Quello che mi dispiace è la strumentalizzazione in atto, a cominciare dal fotomontaggio dove mi si vede che bevo un drink con sullo sfondo il post». Post che ha creato parecchio imbarazzo nel Pd torinese e, soprattutto a Venaria dove, tra qualche giorno, oltre 28 mila elettori saranno chiamati ad eleggere il nuovo sindaco. «Certo ho ricevuto anche delle telefonate di solidarietà, ma ho paura di aver combinato un guaio che avrà dei riflessi negativi sul voto» - quasi si dispera Tumminello. Poi si arrabbia: «Il bello è che ero quello che ho sempre dato i consigli agli altri del gruppo, "occhio a quello che scrivete sui social perché ci controllano", e poi ci sono cascato proprio io».
De Benedetti lancia il suo nuovo giornale di odiatori. “Contro Salvini e Meloni: è lei la peggiore”. Monica Pucci martedì 15 settembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Si chiama “Domani“, ma il suo domani non sarà un altro giorno. Il nuovo giornale di Carlo De Benedetti rinuncia da subito, per proclama iniziale, a qualsiasi colpo di scena politica. Riserverà meno sorprese di un inverno nebbioso in Val Padana: parlerà sempre e solo male di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni. Pure se dovessero dire e fare delle cose intelligentissime. Anzi, “Domani” sarà più cattivo con la leader di Fratelli d’Italia, “perché lei è il peggio”, annuncia candidamente Stefano Feltri, il giovane direttore già asservito ciecamente al suo editore e al fenomeno social degli “haters”, che dovrebbero – in teoria – risparmiare i giornalisti. E invece…
L’imparzialità secondo Stefano Feltri. “I giornali imparziali – spiega oggi Feltri nel suo editoriale – non esistono, quelli onesti dichiarano le proprie preferenze. Domani difenderà le ragioni della democrazia liberale, nella quale decide la maggioranza, ma nel rispetto dei diritti di tutte le minoranze. La storia della democrazia liberale si intreccia a quella del libero mercato, che in Italia viene sempre limitato e distorto per difendere rendite e privilegi, di solito a spese dei contribuenti”. Dunque, secondo Feltri, che oggi apre sugli scandali della Lega e promette paginarte analoghe anche nei prossimi giorni, l’imparzialità, come aveva affermato ieri, non solo non esiste ma va declinata a senso unico. Contro il centrodestra. Anche se Feltri, memore della figuraccia del suo editore, che aveva insultato Silvio Berlusconi nei giorni in cui lo ricoveravano per il Covid, evita di citare il Cavaliere.
Salvini e Meloni i nemici di Carlo De Benedetti. ” Salvini è un pericolo ma anche il sintomo di un pericolo più grande, quello di una politica basata solo su slogan, semplificazioni che poi portano a prendersela con le minoranze fragili. Ma Fratelli d’Italia è molto peggio della Lega di Salvini perché almeno la Lega ha una classe dirigente anche a livello locale. Meloni non ha neanche quella”. Il direttore del nuovo quotidiano non considera pericolosa, invece, la sinistra, i grillini, il Pd, il suo editore, tutti bravi, tutti preparati, tutti pieni di idee. L’accoppiata Feltri-De Benedetti promette bene: di questo passo, oltre a fare il solletico a Meloni e Salvini, lo farà anche agli odiati colleghi di “Repubblica“.
“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 17 settembre 2020. Il Domani pare un giornale di ieri, anzi dell’altro ieri. Nel mondo dell’auto, il periodo di osservazione per un nuovo assicurato è di 10 mesi. Per il nuovo quotidiano di Carlo De Benedetti basta un giorno. Risulta l’unico venduto online con tariffa da stallo Easy park: la prima classe di abbonamento è «24 ore: 1 euro». Quindi mi limiterò a sostare sul Domani dell’altro ieri, ché il numero successivo al primo mi è sembrato pure peggio. Nonostante il prezzo d’attacco, e senza voler essere menagrami, è difficile che il Domani possa avere un domani in edicola. A meno che l’ex editore di Repubblica non ci pompi dentro tutti i quattrini che ha messo da parte, pur di evitare una figura barbina a fine carriera. Conoscendolo, l’evento è da considerarsi probabile quanto la glaciazione della Death Valley. Il Domani dell’altro ieri si qualificava per il titolo in apertura di pagina 2: «Mascherine e precari. La scuola riapre tra nuove regole e vecchi problemi». Avrebbe potuto vergarlo Giovanni Spadolini quand’era direttore del Corriere della Sera, perciò fra il 1968 e il 1972. L’altro ieri, appunto, non domani. È l’archetipo del titolo che non dice nulla, citatomi una sera a cena da Paolo Mieli: «L’agricoltura fra ieri, oggi e domani». Fa il paio con una frase che figura nell’armamentario di qualsiasi politico bollito, suggeritami da Paolo Pillitteri: «Molto è stato fatto ma molto resta ancora da fare». E stiamo parlando del titolo portante, che riguardava l’unico argomento di giornata presente in prima pagina. Figurarsi il resto. Non che la vetrina del Domani si differenziasse molto da pagina 2. Il direttore, l’esordiente Stefano Feltri, ha dato al suo editoriale il seguente titolo: «L’inizio. Un giornale nuovo per un futuro tutto da scrivere». Di solito si parla di inizio della fine, anche qui senza voler essere iettatori. Che poi il futuro sia tutto da scrivere è un’intuizione davvero copernicana. La seconda riga del titolo non aveva senso compiuto, andava a capo dopo la preposizione «per». Comodo, ma orrendo. Non lo fa nessuno che si rispetti, nei giornali. Qualcuno che cominciasse ci voleva. Il secondo (e ultimo) titolo della prima pagina recava un occhiello in linea con il «giornale nuovo» del direttore – «Di nuovo in classe» – ed era anche questo deliziosamente spadoliniano: «“Ripartiamo senza dimenticare”. Il virus non ha fermato la scuola». Il sommario precisava che a parlare fra virgolette era «il dirigente di un istituto di Bergamo». Firmava il servizio Francesco Fadigati, da Calcinate, ma solo dalla lettura del pezzo potevi arguire che si trattava del predetto dirigente. L’attacco era folgorante, quasi buzzatiano: «Ieri mattina davanti all’atrio della scuola c’era un arco di palloncini colorati». Degno di nota, sempre nel primo capoverso, anche il fatto che le maestre fossero «stanche» ma «sorridenti». Mia moglie, maestra per 40 anni, mi ha giustamente ricordato che pure lei tornava «stanca ma felice» dalle gite domenicali con i genitori e lo scriveva nel tema del lunedì, non sul Domani. In seconda elementare, però. Escludendo due colonnine di brevi e cinque lettere (svelti, i lettori di Domani), l’avveniristico quotidiano presentava in tutto altri 17 titoli, anche qui senza voler essere uccelli del malaugurio. Tutta roba forte, comunque: «Mancano insegnanti di sostegno, il Covid rallenta la didattica»; «Le temperature record innescano gli incendi che bruciano l’America»; «La nuova enciclica di Francesco nata dal dialogo con l’islam e dal Covid»; «Con destra e sinistra non capiamo i 5 Stelle e neppure i nuovi verdi». Osservazione tecnica: il Domani misura 41,5 centimetri in altezza e 30 in larghezza. Quindi fanno 1.245 centimetri quadrati a pagina. Le firme sotto i titoli galleggiano in uno spazio bianco alto 3 centimetri. Nel primo numero, quelle di Giorgio Meletti, Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian (articolo a quattro mani), Igiaba Scego, Alberto Melloni, Arianna Farinelli, Gianrico Carofiglio, Jonathan Bazzi e Daniele Mencarelli erano distese su 6 colonne, cioè a tutta pagina. Pertanto ciascuna firma occupava 90 centimetri quadrati. In totale sono stati sprecati 720 centimetri quadrati per 8 firme. Aggiungendo le altre, si arrivava a un’area pari a poco meno di una pagina. All’esordio il Domani di pagine ne aveva 20 (già calate a 16 il secondo giorno). Tolte le 5 e mezza di pubblicità, ne restavano da leggere 14 e mezza. Tolte le firme, 13 e mezza. Tutti autori di peso, per carità, e ora anche di superficie. Ma De Benedetti non faceva prima a spedirci un fax?
Giampiero Mughini per Dagospia il 18 settembre 2020. Caro Dago, che bella notizia quando nasce un nuovo quotidiano e si arricchisce dunque la vetrina dell’edicola dove io vado ogni mattina a comprare i giornali di carta. Ancor meglio se si tratta di un giornale piccolo, animato da una redazione di qualità e una redazione di qualità è certamente quella del “Domani”, il quotidiano di proprietà di Carlo De Benedetti, a cominciare dal suo direttore Stefano Feltri, un trentenne in gambissima al quale auguro ogni bene professionale. Il fatto è che un giornale piccolo deve essere capace come di scaraventarti in faccia una zaffata d’aria ogni mattina e quale che sia quell’aria. Ne era stato capace “l’Indipendente” di Vittorio Feltri e Pialuisa Bianco, un quotidiano cui ho avuto la fortuna di collaborare, e che è il padre di tutti i successivi esperimenti cartacei di cui sto dicendo. Ne è stato capace a iosa “Il Foglio” prima di Giuliano Ferrara e poi di Claudio Cerasa, un quotidiano i cui lettori si contano nell’ordine delle migliaia e non delle decine di migliaia, ma sono tutti lettori aggrappati con le unghie e con i denti a un giornale cui non rinuncerebbero per tutto l’oro del mondo e questo perché occupa uno spicchio tutto suo della verità intellettuale e dell’informazione giornalistica. Ne è stato capace “Il Fatto”, un giornale cui non nuoce il fatto di essersi dato il mestiere di organ-house dei 5Stelle, un giornale dove trovi splendidi pezzi di Pino Corrias, Pietrangelo Buttafuoco, Roberto Beccantini, Selvaggia Lucarelli, Paolo Isotta e a non dire dello stesso Marco Travaglio, giornalista coi fiocchi tra tutti i giornalisti di parte. Ne sono capaci a tutt’oggi i due ringhianti quotidiani vicini al centro-destra, “Libero” di Vittorio Feltri e “La Verità” del bravissimo Maurizio Belpietro, un giornalista che ho avuto come direttore quando collaboravo a “Libero”, un giornalista che si colloca a una latitudine politica molto diversa dalla mia ma che non una volta in tanti anni mi ha contestato un punto e virgola. Tutti giornali dai quali arriva una zaffata d’aria, ti piaccia o non ti piaccia quella zaffata. Lo sai che cosa ti offrono, quello cerchi e quello trovi. Ho comprato “Domani” per due o tre giorni. Non arriva niente. Neppure un soffio d’aria. Non si capisce quale spicchio dell’informazione corrente voglia far suo. Niente. E con tutto questo, i miei più fraterni auguri a tutti loro.
Aldo Cazzullo per "Corriere della Sera" il 19 settembre 2020.
Carlo De Benedetti, in un'intervista al Foglio lei aveva lasciato capire di voler rifondare Repubblica.
«Mi avranno interpretato così. In realtà non ci ho mai pensato».
Ma perché lanciare un quotidiano come Domani, in una fase difficile per l'economia e per l'editoria?
«Perché a me piace il giornalismo. Ho passato quarant' anni con Repubblica . Per Repubblica ho combattuto battaglie, ai tempi della guerra di Segrate. Mi sono attirato l'odio di Craxi, che non aveva altro motivo di odiarmi al di fuori dell'identificazione con Repubblica . Ho avuto un ottimo rapporto personale con Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari».
Con Scalfari c'è stata una frattura.
«Ora abbiamo recuperato, ci telefoniamo tutte le domeniche. Insomma, penso immodestamente di aver fatto bene l'editore di Repubblica».
Ciò non toglie che sia difficile oggi trovare spazio per un nuovo quotidiano.
«Non credo. In Italia ci sono quotidiani di destra: Libero , Il Giornale , La Verità , Il Tempo . Ci sono quotidiani di centro: il Corriere , e ormai Repubblica . Ma non c'è più un riferimento culturale per quell'area riformista in cui mi sono identificato tutta la vita, fin da quando presiedevo l'associazione studenti del Politecnico di Torino».
Di Repubblica si diceva che fosse un giornale partito.
«Perché le cose avvenivano su Repubblica . La battaglia contro Berlusconi, le dieci domande, la lettera di Veronica. Prima ancora, la battaglia di Scalfari contro Craxi. Era un giornale molto politico. Ma se tu lo devitalizzi, il giornale non ha più senso per una ragione banale: quelli che la pensano come la pensava Repubblica sono delusi e la abbandonano; quelli che non si sono accorti che Repubblica è un giornale di centro non lo comprano, perché pensano ancora che sia di sinistra».
Ammesso che sia così, perché dovrebbero comprare Domani?
«Perché abbiamo fatto una cosa del tutto nuova. Partiamo con un giornale digitale, e la nostra sorte si giocherà sugli abbonamenti digitali. Ma la mentalità dei lettori è che un giornale devi poterlo prendere in mano; altrimenti non è un giornale, è un sito. E io non volevo fare un sito; volevo fare un giornale. Gli ho aggiunto la nobiltà della carta, che lo rende un giornale».
Lei sta per compiere 86 anni.
«Ho già programmato il trasferimento della proprietà a una fondazione. Alla mia età devo pensare che Domani deve sopravvivermi. Un po' perché, come si è visto, non ho eredi appassionati ai giornali. Un po' perché mi piace lasciare come testimone della mia presenza nell'editoria un giornale che appartenga a una fondazione».
Non succede quasi mai.
«In America, no. Ma in Europa il Guardian e la Faz appartengono a una fondazione. L'ho già costituita e l'ho dotata dei mezzi necessari a renderla sostenibile, indipendentemente da me. Per statuto la fondazione ha un capitale di dieci milioni di euro. Nel mio testamento ho previsto un'ulteriore dotazione di denaro».
Qual è il break-even, la soglia di sopravvivenza?
«Il nostro successo lo si vedrà abbastanza presto. Con 30 mila lettori, tra copie vendute e abbonamenti digitali, saremo ampiamente in utile. La redazione è snella: venti giornalisti, tutti giovani. I più senior sono Giorgio Meletti e Daniela Preziosi, che viene dal Manifesto , mentre il caporedattore Mattia Ferraresi si è formato in Cl. E poi abbiamo collaboratori di prestigio».
Si è scritto di un patto tra Domani e Rcs contro Repubblica.
«Assolutamente no. Con Rcs abbiamo un semplice accordo commerciale, per la stampa e la distribuzione».
Tra dieci anni avremo ancora i giornali di carta?
«Non lo so. Tendo a pensare di sì; ma ne scompariranno tanti. Il modello è il New York Times , che dopo difficoltà drammatiche va benissimo: i ricavi digitali hanno superato i ricavi della carta. L'idea di dare un prodotto gratuito è stata una corbelleria che abbiamo fatto tutti insieme. Rimontare è stato molto più difficile».
Lei è stato molto criticato per le parole dure che ha avuto su Berlusconi al festival di Dogliani.
«Alt. Di Berlusconi non parlo».
Non possiamo non parlare di Berlusconi.
«Mi limito a ricordare che al festival gli ho fatto gli auguri di guarigione e ho chiesto e ottenuto dal pubblico un applauso di solidarietà».
Almeno di Conte vorrà parlare.
«È un personaggio casuale: un avvocato che passava di lì. Un primo ministro che non si è mai preparato a fare non dico il primo ministro, ma almeno il politico. Si è trovato di fronte un problema enorme di cui non c'era esperienza: una pandemia, una piaga universale. L'ha gestita bene, con provvedimenti non facili da prendere».
E poi?
«Poi il governo ha sottostimato l'emergenza economica. Il primo provvedimento era da due miliardi e mezzo. Ho mandato un WhatsApp al mio amico Gualtieri: "Guarda che dovevi moltiplicarli almeno per 10"».
Ora i miliardi arriveranno.
«Ma il governo ha dimostrato un'assoluta mancanza di visione su come far ripartire il Paese. Hanno fatto la commissione Colao, persona eccellente, hanno preso il suo lavoro e l'hanno di fatto archiviato, forse senza neanche leggerlo. Possibile che non ci fosse una cosa che potesse servire? Poi c'è stata l'indegna settimana di Villa Pamphili, voluta da Conte, anzi da Casalino».
Guardi che Casalino nel suo mestiere è bravissimo.
«Non ne dubito, ma è stata un'esibizione inutile. Conte non ha dimostrato di avere una visione per il Paese. Ha dimostrato doti di mediazione, che si fa per definizione al ribasso. Per questo mi spaventa il futuro. Temo che non riusciremo a cogliere la straordinaria opportunità del Recovery Fund».
Sono soldi che ha portato a casa Conte.
«Sì, questo gli va riconosciuto: in Europa ha rappresentato bene l'Italia. Ma ora a Bruxelles attendono piani dettagliati, scadenzati, vigilati; altrimenti il finanziamento si sospende. Purtroppo la nostra burocrazia non è attrezzata».
Sarà mica colpa di Conte.
«Certo che no. Ma c'è un problema di visione - che tipo di progetto voglio fare -, c'è un problema di strutturazione, e c'è un problema di esecuzione. L'Italia è carente su tutti i fronti».
Arriverà Draghi?
«Non penso che Draghi accetterà mai di fare il premier, salvo in una situazione drammatica. Sarebbe un eccellente rappresentante dell'Italia sul Colle; ma non vorrei portargli male».
Lei quattro anni fa disse al Corriere che Trump poteva vincere. Ora può rivincere?
«Mi auguro di no; anche se il messaggio di "legge e ordine" ha una certa presa, pure sui negozianti di colore che si vedono spaccare le vetrine. In politica estera, Trump è stato un disastro: si è fatto solo nemici e si è solo ritirato. "America first" ha significato l'abdicazione al ruolo dell'America nel mondo. Nel Mediterraneo gli Usa non ci sono più. Russia e Turchia si spartiscono la Siria e la Libia, e l'America non dice una parola. Erdogan ha ora un'enorme capacità di ricatto sull'Italia».
E dalla crisi economica come usciremo?
«Con grande pena. Il sistema basato sul dollaro è finito: il dollaro non sarà più la moneta di riserva. Il ruolo delle banche centrali sarà completamente diverso, e molto minore. Negli ultimi dieci anni le banche centrali hanno dettato la politica, creando una gigantesca montagna di carta che non ha aiutato l'economia reale e ha contribuito a esasperare le disuguaglianze».
E come sarà il nuovo sistema?
«Non so come funzionerà la nuova organizzazione finanziaria mondiale, ma sono convinto che le criptovalute giocheranno un ruolo importante. E la sostituzione di una moneta, che può essere stampata, con un'entità di valore, che ha il suo limite nell'algoritmo che crea quel valore, si farà sentire».
Liberoquotidiano.it il 14 settembre 2020. Paolo Del Debbio, nella sua prima puntata di giovedì 10 settembre, ha stracciato l'avversario Corrado Formigli. Il motivo? A spiegarlo ci pensa Repubblica che mette a confronto, senza remore, i due differenti target di Dritto e Rovescio e PiazzaPulita. "Il surplus del primo, è presto detto - scrive il quotidiano di Molinari - deriva tutto dal pubblico meno scolarizzato. Mentre Formigli prevale di gran lunga fra i laureati, ma i numeri di questa minoranza sociale non bastano a compensare lo svantaggio". Insomma, un modo come un altro per dire che Dritto e Rovescio si rivolge a un pubblico meno colto di quello di Piazzapulita. Non solo, perché secondo Repubblica chi ha pochi soldi si affida "alla protezione paterna di Del Debbio che, pur professore, fa il Don Camillo del lavoro autonomo e delle mini rendite". Mentre chi ha status più elevato si divide a metà tra il talk di Rete4 e quello di La7. In sostanza Del Debbio si rivolge al popolo, Formigli all'élite.
I media nostrani e l’inutile tifo anti-Trump: in America gli elettori se ne infischiano. Daniele Milani sabato 12 settembre 2020 su Il Secolo D'Italia. Come spesso accade in periodo elettorale i media adottano comportamenti stravaganti, che riguardando sia le televisioni che i media digitali.
Il tifo del mondo politicamente corretto. Tali condotte sono evidenti e costanti in tutto quel mondo del politicamente corretto, leggi sinistra radical chic e non solo, che hanno ovviamente tutto l’interesse a indirizzare gli elettori verso una visione politica che premi le forze loro presuntamente affini. Si affannano così a dare sostegno alla loro traballante e vetusta concezione della vita e del mondo e quindi della politica e dell’economia.
Le elezioni americane. Fin qui niente di nuovo sotto il sole italiano che comunque continua a risplendere incurante del chiacchiericcio becero e autoreferenziale di questi signori che ormai non destano più né riprovazione né preoccupazione ma solo una indicibile noia. Diversamente spiegabile è il fatto che in prossimità di competizioni elettorale che siano in procinto di verificarsi in altre nazioni, più o meno sovrane, questa “ attenzione” superi soglie francamente singolari; e non da oggi. Stiamo parlando, in questo caso, delle elezioni che si celebreranno negli Stati Uniti d’ America per la designazione del nuovo inquilino della Casa Bianca.
Il silenzio di ministri e sottosegretari. Da una parte c’è il cupo silenzio delle istituzioni politiche propriamente dette (ministri, sottosegretari e segretari di partito o semplici deputati, a parte qualche pazzerello) memori della incoronazione da parte di Trump del governo di Giuseppi. Dall’altra tutta la stampa “libera” da preoccupazioni di ritorsioni o di sopravvivenza si è compattamente e ferocemente schierata a favore di Biden e contro Trump.
La stampa si schiera con Biden. E così giù articoli, commenti, speciali televisivi sulla vita pubblica e privata del presidente che viene, di volta in volta, indicato come razzista, suprematista bianco, portatore di virus, avvelenatore del mondo contestualmente suggerendo i tanti modi per cucinarlo, alla griglia, bollito, arrosto o alla fuoco neanche troppo lento appiccato nelle città americane dai nipotini di Malcom X. Naturalmente neanche una parola sull’altro candidato del quale molti non conoscono neanche il nome. Noi “buoni europei” siamo, naturalmente, indifferenti alle sorti della competizione. Una notizia, però, ci sentiamo di dare a questa specie di sardine italiote: si vota in America , non in Italia e non sarà certamente la campagna elettorale dei pennivendoli nostrani a determinare il successo di uno dei due candidati. “Taci Mercuzio, tu parli di niente!”.
Filippo Facci e Simona, sordomuta che sostiene Salvini e Meloni. La maestra la rimprovera: "Eri così intelligente, come fai?" Libero Quotidiano il 13 settembre 2020. Lezioni di democrazia nella roccaforte rossa del Mugello. Un'insegnante inveisce contro una sua ex allieva (sordomuta) perché osa essere salviniana. È tutto nelle schermate di Facebook, nuova agorà della società civile. Accadeva tre giorni fa, quando Matteo Salvini è andato a Borgo San Lorenzo a supporto della candidata alle Regionali Susanna Ceccardi. I protagonisti sono: Simona Calamandrei, meno che trentenne, sordomuta, madre, convivente, laureata in ingegneria; Renata Innocenti, sui 75 anni, ex docente di italiano nella locale scuola media, e, anni addietro, insegnante di Simona; infine Gianni Calamandrei e Giovanna Chelazzi, genitori di Simona. Quel giorno, dopo il comizio di Salvini, la piazza diviene virtuale durante una diretta Facebook dello stesso Salvini. Simona Calamandrei inneggia alla candidata leghista: «Ceccardi presidente!». Salvini risponde, grato: «Con Susanna Ceccardi e gli amici di Borgo San Lorenzo! State con noi». Poi ecco: sempre via Facebook, interviene l'anziana professoressa rivolta alla sua ex alunna sordomuta: «Simona, sei per caso leghista salviniana? Sappi che siamo su fronti decisamente opposti! Ma come fai... una ragazza intelligente come te... Non ti ho insegnato nulla?». Risponde Simona: «Prof, sono meloniana, qualche volta salviniana, e comunque viva la libertà del pensiero politico».
«La pescivendola» - La «prof» non è conciliante: «Bene: siamo su fronti ancor più opposti! La pescivendola romanesca esprime idee, se possibile, ancora più opposte di quelle dell'orso padano». Simona: «Pazienza». (Nota: una cosa è opposta oppure non lo è, non esistono cose più opposte di altre). La professoressa comunque alza il tiro: «Meglio, dirtele chiaramente le cose, così, se andranno al potere i tuoi amici, verrai tu a darmi l'olio di ricino!». Simona: «Pesantina oggi, prof... La ricordavo diversamente, ai tempi della scuola». La prof non tollera: «Anch' io pensavo di averti dato un'educazione diversa! Io sto dalla parte di chi abbraccia e accoglie, non dalla parte di chi disprezza e respinge! Questo ho cercato sempre di insegnare a voi, miei alunni!». E qui interviene il padre di Simona, Gianni: «Carissima Professoressa, l'educazione di mia figlia era compito nostro, mio e di sua madre. Le garantisco che Simona è una persona eccezionale ed educatissima. Una figlia che tutti i genitori vorrebbero avere. Lei deve solo cercare di capire che non tutti possono pensarla come lei, ma va bene così... si chiama democrazia. Per quanto riguarda l'olio di ricino, è rimasta un po' indietro, al giorno d'oggi esistono lassativi migliori. Cordiali saluti». Finita? Manco per idea, la «prof» è una furia: «E anche io sono stata un'insegnante orgogliosa di Simona, come allieva e come persona, certo! Se poi lei, nel fare la sua strada, ha preferito stare dalla parte di chi fa morire degli innocenti sulle navi al grido di "prima gli italiani", benissimo, è una sua consapevole scelta. Sappia però, signor Gianni, che io invece sono stata, sono e sarò sempre dalla parte degli ultimi. Il suprematismo e il razzismo non mi si confanno. Quanto al lassativo, mi accontenterò del più moderno Guttalax!» (Nota: abbiamo dovuto aggiustare sintassi e grammatica delle professoressa di italiano - laureata nel 1971 - aggiungendo punti e maiuscole, ma lasciandole tutti gli amati punti esclamativi. Ancora: il Guttalax, lassativo a base di iodio picosolfato come l'Euchessina e il confetto Falqui, è moderno esattamente come Carosello).
L'accoglienza - Il padre di Simona tenta ancora di chiudere la questione: «Benissimo, ognuno ha le sue convinzioni e io rispetto quelle di tutti, a differenza di Lei. La prego solo di astenersi in futuro dal dare giudizi su mia figlia perché non Le compete. Con questo mio pensiero, che non necessita di risposta, considero chiuso l'argomento pregandola di evitare ulteriori contatti». Chi non considera chiuso l'argomento è però la madre di Simona, Giovanna Chelazzi: «Carissima professoressa, io invece sono orgogliosissima di mia figlia che, nonostante i Suoi insegnamenti, ha dimostrato di pensare con la propria testa». Chiusura finale a cura di Simona: «Al di là della mia educazione, volevo rispondere dicendo che io non sono mai stata fascista né razzista. Ad abbracciare ed accogliere siamo bravi tutti, non è una questione di amore od odio, è che non va bene la situazione dell'immigrazione attuale, non è gestita bene. Esistono i corridoi umanitari e tante altre cose per aiutarli nel loro Paese, bisogna agire in questo senso. L'Italia ha grossi problemi interni e non possiamo permetterci di accollarci altri problemi. Bisogna studiare altre strategie per aiutarli, per aiutare quelli veramente bisognosi». Il dialogo si chiude sostanzialmente qui. La professoressa, l'indomani, si ritroverà con qualche amica postando su Facebook una grande scritta: «Ogni volta che so di qualche ex allievo che ha abbracciato idee fascioleghiste, ho una stretta al cuore!». L'amica Sandra la conforta: «Anch' io, e mi chiedo come sia possibile. Ho sempre cercato di educare alla democrazia».
Matteo Salvini, contro di lui insulti e pallottole: ecco la vera democrazia "sinistra". Andrea Valle su Libero Quotidiano il 13 settembre 2020. L'hanno accompagnato in tutte le piazze d'Italia e anche in occasione degli ultimi comizi i contestatori non hanno voluto far mancare il loro sostegno a Matteo Salvini. Partiamo dalla Campania. Dopo i pomodori a Torre del Greco, ieri un centinaio di manifestanti si sono radunati fin dalle prime ore del mattino nel centro di Ariano Irpino per essere sicuri di non perdere l'arrivo del leader leghista per l'ultimo comizio del suo tour in Campania. L'ex ministro dell'Interno ha fatto prima tappa al carcere cittadino per esprimere solidarietà al personale della struttura dove si sono registrati più volte episodi di violenza tra i detenuti e una rivolta in occasione del lockdown, poi è arrivato nella piazza centrale dove i contestatori lo attendevano cantando l'immancabile «Bella ciao». Da lì, Salvini si è trasferito a Matera, in Basilicata, dove il consueto comitato di accoglienza dei centri sociali aveva preparato una decina di striscioni. Come già in precedenti occasioni, anche in questo caso il leader leghista non ha fatto mancare il suo saluto ai contestatori. E dal palco ha risposto alle accuse in materia di immigrazione: «Gli amichetti dei clandestini, quelli là, accolgono non per carità cristiana, ma perché ci fanno i miliardi di euro. Altro che carità cristiana, il portafoglio. Quelli con la bandiera rossa lascino in Comune nome, cognome e numero di conto corrente. Fanno i generosi con i quattrini degli altri». Risposta: «Scemo, scemo!». «Ecco», ha ribattuto Salvini. «Il programma della sinistra per Matera è questo, mia figlia che ha 7 anni ha un pensiero più evoluto... Ai vostri insulti rispondo con i bacioni».
DALLE PAROLE AI FATTI. Un siparietto che si è ripetuto a ogni tappa del tour del segretario del primo partito italiano. «Il che fa pensare», ha concluso il leghista «che se proprio dobbiamo cercare, in giro per la Campania o in giro per l'Italia, antidemocratici, razzisti o fascisti, io li trovo nelle piazze a sinistra che aggrediscono, offendono e lanciano sedie e pomodori. Quelli sono gli unici antidemocratici rimasti». Contro il numero uno del Carroccio, però, non arrivano solo insulti e pomodori, ma anche proiettili, come quello giunto in una busta a Roma e intercettato dalla Digos. «Se pensano di spaventarmi, hanno trovato l'uomo sbagliato. Non fanno paura a nessuno», ha commentato Salvini. «Io rispondo col sorriso, vi chiedo il sostegno alla Lega per andare da domenica prossima in Europa e difendere l'Italia e gli italiani». Una tensione crescente che, a giudizio del segretario leghista evidenzia il nervosismo: «Abbiamo già vinto prima del voto. Sapete perchè?», ha detto ai contestatori che questa volta lo aspettavano a Gioia del Colle, Bari. «Perchè sono convinto che se su questo palco ci fosse qualcuno di sinistra che non condividete, non sareste qui a fare casino, ma sareste a casa belli tranquilli». Per questo, ha concluso, «mi aspetto un voto libero, non ideologico».
Ecco chi fomenta il clima d’odio. Alberto Ciapparoni il 9 Settembre 2020 su culturaidentita.it. / ilgiornale.it. In queste ultime ore abbiamo avuto una donna di origine africana (del Congo) che durante un’iniziativa elettorale in Toscana per le Regionali del 20 e 21 settembre ha strappato a Matteo Salvini il rosario che teneva in mano e ha danneggiato la sua camicia e Beppe Grillo che ha mandato al pronto soccorso un giornalista di Rete 4, Francesco Selvi, che ha osato chiedergli, su suolo pubblico, alcune educate domande di attualità politica, senza fra l’altro citare la vicenda della presunta violenza di suo figlio. Ma secondo il mainstream il leader della Lega se l’è cercata, in quanto fomenterebbe odio e rancore: ad esempio per Bruno Astorre, Partito Democratico, “l’ex ministro dell’Interno deve riflettere sul livello dei toni e delle divisioni che da tempo vengono messe in atto ogni giorno dal Carroccio”, mentre su Grillo in versione Casamonica è calato il silenzio quasi generalizzato, perché picchiare un cronista (se non è di sinistra) non fa notizia. Ma non solo. I soliti noti del circolo mediatico stanno provando in tutti i modi ad attribuire alla destra i terribili fatti accaduti a Willy Monteiro, il ragazzo ammazzato di botte a Colleferro, vicino Roma: invece di chiedere giustizia e unire le forze affinché tragedie come questa non accadano mai più, i finti buonisti progressisti sfruttano la vicenda per puntare il dito contro l’attuale opposizione. Peccato che quello che avrebbe sferrato il calcio mortale al povero Willy su Facebook abbia messo like a Luigi Di Maio, Virginia Raggi, Matteo Renzi, il Movimento Cinque Stelle, e segua il premier Giuseppe Conte e l’Unicef. Con buona pace del bignami di sociologia applicato per l’occasione dai cosiddetti giornaloni. In realtà, i veri alleati di questi atti criminosi sono propri quei partiti che incriminano le forze dell’ordine quando usano la forza per compiere il proprio dovere, sono tolleranti con chi delinque – affermando che è vittima della società – e non fanno nulla per garantire la certezza della pena. Che vergogna e che delusione: non è questa la politica che si merita l’Italia. E non ci meritiamo di essere rappresentati da gente così mediocre e bugiarda. A furia di indicare Salvini come il diavolo il folle di turno si è trovato: un clima infame alimentato dalla sinistra. O è normale strattonare un leader di un partito? Schifo per questa ipocrisia e per questa arroganza.
Domenico Di Sanzo per ''Il Giornale'' il 9 settembre 2020. Grillo dovrebbe chiedere scusa. E questa volta glielo dice pure Gad Lerner, firma del giornale filo-grillino Il Fatto Quotidiano, ex colonna di Repubblica, per anni punto di riferimento giornalistico di quella sinistra che adesso è alleata con i Cinque Stelle, di certo non sospettabile di troppa simpatia per Rete 4 e Paolo Del Debbio, conduttore della trasmissione Dritto e Rovescio per cui lavora il malcapitato cronista mandato al pronto soccorso dall'Elevato. Gad twitta e centra il punto. «L'aggressione di Beppe Grillo al giornalista Francesco Selvi di Rete 4 conferma che dalla violenza verbale alla violenza fisica il passaggio è breve», scrive su Twitter il giornalista. Quindi smaschera l'ipocrisia del comico - politico, che quando la spara troppo grossa si rifugia sempre nella sua veste di saltimbanco. A metà tra il dileggio gratuito e lo sberleffo dell'attore da palcoscenico. Ma questa volta Grillo ha passato il segno. E Lerner gli ricorda che è il fondatore del partito attualmente più numeroso del Parlamento italiano: «Grillo è un uomo di potere. Se per una volta si mostrasse abbastanza umile da chiedere scusa senza fingere di fare lo spiritoso?», conclude il collaboratore del giornale di Marco Travaglio. Una pecora nera, Lerner, in un contesto in cui la maggior parte dei grandi quotidiani ha snobbato la notizia. Ma Gad ne sa qualcosa. Infatti anche lui, a giugno del 2014, è stato vittima della gogna dei grillini sul web. Con tanto di foto segnaletica con gli occhi sbarrati, era finito nella rubrica del Blog «il giornalista del giorno». Colpevole di aver scritto un articolo su Repubblica dove criticava la scelta del M5s di allearsi all'Europarlamento con gli euroscettici britannici guidati da Nigel Farage. Sommerso da insulti volgari e commenti antisemiti da parte dei fans del politico - comico. E però stavolta e diverso. Il giornalista televisivo Francesco Selvi è finito all'ospedale. Pubblica su Facebook la foto del ginocchio gonfio. E scrive: «Il mio mestiere è quello di fare domande. Sempre. E questo vale di più di un semplice ginocchio malandato». Eppure il dolore per la botta si fa sentire. Selvi non ha molta voglia di diventare «il giornalista del giorno», parafrasando la rubrica di Grillo, solo per essere stato spintonato dal fondatore del M5s. «Sono messo un po' male - dice al Giornale - grazie a voi per il titolo di oggi», continua riferendosi al risalto dato alla notizia dal nostro quotidiano. Ci tiene comunque a ringraziare per la solidarietà ricevuta da tanti amici e colleghi che l'hanno chiamato e gli hanno mandato messaggi. «Grazie di cuore», ripete. È la giornata del riposo dopo le ore al pronto soccorso. E anche Grillo preferisce rimanere in silenzio. L'ultimo segnale di vita del comico sui social è la condivisione di un articolo, pubblicato il giorno dell'aggressione sul suo Blog, dove si critica il ruolo dei giornalisti nel racconto della corsa al vaccino contro il Covid. L'autore del pezzo condiviso da Beppe, Andrea Zhok, parla di «deprimente livello propagandistico della quasi totalità dell'apparato mediatico» e di «un'informazione la cui tendenziosità si annusa a un miglio di distanza». Sui social, chi segue Grillo inevitabilmente commenta sullo spintone al giornalista collaboratore di Mediaset. C'è chi insulta, come da tradizione. Ma spunta qualcuno che prova ad accendere il cervello e sbeffeggia il comico. Come l'utente marco neri, che scrive: «Guarda che il M5s non è più quello di quando è nato, ora si è evoluto come dite voi, siete diventati come gli altri, e gli altri partiti non mi risulta picchino i giornalisti».
Aggressione a un giornalista di Rete 4? Beppe Grillo pubblica il video di ciò che è realmente successo: “Guardate, resta in piedi”. Il Fatto Quotidiano il 18 settembre 2020. Il giornalista che incespica per le scale – non si capisce se qualcuno dall’interno del locale lo abbia spinto – ma subito si gira e continua a riprendere Beppe Grillo con il suo telefonino. Il video, pubblicato sul blog del cofondatore del Movimento 5 Stelle, mostra l’episodio che l’inviato della trasmissione di Rete4 Dritto e rovescio aveva denunciato come un’aggressione, sostenendo poi di aver riportato distorsioni e una prognosi di cinque giorni e incassando la solidarietà di Associazione Stampa Toscana e Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Mentre Paolo Del Debbio aveva aperto la puntata della sua trasmissione dicendo che “Francesco Selvi non meritava di essere buttato giù dalle scale da un leader politico”. “Le immagini che seguono potrebbero urtare la sensibilità dei giornalisti onesti“, commenta Grillo. Nel video della scena, ripreso il 7 settembre da una telecamera della reception del locale sulla spiaggia di Marina di Bibbona, Selvi non cade ma “scivola” sui cinque gradini di legno. Arrivato in fondo, barcolla ma subito si gira e continua a riprendere. Il comico commenta con la canzone Cinque giorni di Michele Zarrillo: un riferimento ironico alla prognosi che la spinta di Grillo avrebbe causato all’inviato. La presunta aggressione era stata stigmatizzata da Del Debbio che in tv aveva fatto una lunga requisitoria contro Grillo, accusato di esibire una mentalità “fascista”, “ignorante” e di essere affetto da “senilità precoce” e pure di “tirchiaggine“. “Un leader politico non tira giù dalla scala un giornalista. Perché ce l’hai con i giornalisti? Fattela con me, vengo da un quartiere popolare di Lucca a me non fai paura, non ti sto minacciando perché sei un poveretto” aveva aggiunto. E subito si erano affrettati a manifestare solidarietà la candidata del centrodestra alla presidenza della Regione Toscana Susanna Ceccardi – “La libertà di stampa è il fondamento di ogni democrazia, è vergognoso che chi inneggia alla democrazia diretta si permetta poi di aggredire un giornalista nell’esercizio della propria professione” – e Matteo Renzi che aveva definito Grillo “inqualificabile”. L’Associazione Stampa Toscana e la Fnsi erano intervenute esprimendo indignazione: “Non è tollerabile che un personaggio impegnato in maniera diretta o indiretta in politica, quindi un uomo pubblico a tutti gli effetti, reagisca in maniera violenta davanti a un giornalista che sta solo esercitando la sua professione”.
M5S, ecco la versione di Grillo: sull'aggressione al giornalista pubblica video sul blog. Le immagini sul blog del garante del movimento dopo le accuse di un inviato di Rete4: la scena ripresa dalle telecamere di un locale sulla spiaggia di Marina di Bibbona. La Repubblica il 18 settembre 2020. "Attenzione! Le immagini che seguono potrebbero urtare la sensibilità dei giornalisti onesti". Cosi Beppe Grillo torna sulla denuncia dell'inviato della trasmissione di Rete4 Dritto e rovescio che aveva accusato il fondatore del M5S di averlo aggredito sulla spiaggia di Marina di Bibbona sostenendo poi di aver riportato distorsioni e una prognosi di 5 giorni. Grillo trova e pubblica tuttavia il video della scena ripreso da una telecamera della reception del locale in cui si vede la caduta del giornalista ma anche che lo stesso si rialza e continua a riprendere Grillo con il suo telefonino. Un modo per smentire la versione dell'inviato che il comico commenta con la canzone Cinque giorni di Michele Zarrillo: un riferimento ironico alla prognosi che la spinta di Grillo gli avrebbe causato. Circa una settimana fa il giornalista Paolo Del Debbio aveva aperto la puntata di Dritto e Rovescio parlando dell'aggressione all'inviato della trasmissione che aveva avvicinato Grillo a Marina di Bibbona per fargli, dice, una domanda su Giorgia Meloni. "La nostra solidarietà va a Francesco Selvi, inviato che non meritava di essere buttato giù dalle scale da un leader politico, dal fondatore del Movimento 5 Stelle che ha addirittura una piattaforma che si chiama Rousseau" aveva esordio Del Debbio facendo una lunga requisitoria in tv contro Grillo accusato di esibire una mentalità "fascista", "ignorante" e di essere affetto da "senilità precoce" e pure di "tirchiaggine". "Un leader politico non tira giù dalla scala un giornalista. Perché ce l'hai con i giornalisti? Fattela con me, vengo da un quartiere popolare di Lucca a me non fai paura, non ti sto minacciando perché sei un poveretto" aveva aggiunto ancora Del Debbio. Ora la telecamera di sorveglianza scovata da Grillo riporta una visione oggettiva dell'accaduto (c'è la data del 7 settembre) e non si capisce bene se e come il giornalista sia stato spinto da qualcuno verso le scale.
Alessandro Sallusti per ''il Giornale'' il 9 settembre 2020. L' altro giorno Beppe Grillo ha maltrattato, spintonato, minacciato e mandato al pronto soccorso un giornalista di Rete4 che, su suolo pubblico, aveva osato porgli alcune educate domande di attualità politica. Auguri al collega, vittima di un incidente sul lavoro evidentemente non riconosciuto dai protocolli degli addetti all' informazione e alla politica. La notizia, infatti, è stata riportata dai giornali con poche righe che mettevano addirittura in dubbio che il fatto fosse realmente successo. Questo accade per due motivi. Il primo: picchiare o insultare un giornalista che lavora non solo per Mediaset (presumendolo quindi non di sinistra, in base a uno schema peraltro errato nella sostanza e nei fatti) ma addirittura per Paolo Del Debbio non è reato. Il secondo è che picchiare o insultate un giornalista non è grave in assoluto e neppure in base alle parole usate o al referto medico, ma bensì all' identitá del picchiatore. Se l' insulto o lo spintone, faccio per dire, arrivasse da Trump o da Salvini ecco che scatta l' allarme democratico da titolone in prima pagina con commento sdegnato di Gad Lerner, Roberto Saviano, Marco Travaglio, monito del presidente della Repubblica e dibattiti in tv. Se il fetentone è invece il leader del partito che regge la maggioranza di sinistra, che regge un governo nato per impedire al centrodestra di vincere le elezioni, ecco che la cosa non ha alcun risalto, anzi deve essere rimossa il prima possibile per non disturbare il manovratore. Povera, e serva, la categoria dei giornalisti, e povero Grillo, un teppistello che una volta faceva ridere e oggi fa pena. La pena che si prova per gli ipocriti e gli arroganti. Per quanti giornalisti meni Grillo non è pericoloso, è solo un piccolo uomo che con la forza del ricatto gode di grandi protezioni. È possibile che a oltre un anno dai fatti, ancora la magistratura non abbia deciso se suo figlio ha violentato o no una giovane ragazza finita nel suo letto in una delle sue tante ville? Dove sono i giornalisti d' inchiesta, i commentatori giustizialisti e moralisti, i difensori dell' onore e della dignità delle donne? Per la presunta violenza del figlio di Grillo (mi auguro sia in grado di dimostrare la sua innocenza) non c' è fretta di giudizio, per la violenza di Grillo padre su un giornalista non c' è inchiesta giudiziaria (dove è l' obbligatorietà dell' azione penale per fatti noti?) né distanziamento politico. Dimenticavo: il ministro della giustizia si chiama Bonafede. Bona o Mala?
“Il Fatto” di Travaglio teme Salvini e Meloni: «bruti», «barbari» e «fascisti» sono alle porte. Mia Fenice sabato 19 settembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Sfida in piazza: i “bruti” assediano il muro rosso. Così Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio ha commentato il comizio conclusivo del centrodestra in favore di Susanna Ceccardi, la candidata che cercherà di mandare a casa il Pd e Renzi in Toscana. Il centrodestra fa il pienone a Firenze, la piazza è stracolma di cittadini che vogliono un cambiamento per la Toscana. Il centrodestra è compatto e può farcela. La sinistra è spaccata ed Eugenio Giani non è trainante. La conferma si è avuta in piazza, col suo discorso non è riuscito a scaldare la platea. L’unica cosa che è stato in grado di fare è stato drammatizzare il voto: «Respingeremo Matteo Salvini e chi vuole cambiare, lunedì sarà primavera». L’avversario nella logica della sinistra va demolito. Ecco come il Fatto descrive la piazza del centrodestra. «C’è la piazza che va all’assalto della Toscana rossa e quella, a qualche centinaia di metri di distanza, che prova a respingere i “barbari” e i “fascisti” alle porte. I “bruti” contro le “virtù” dantesche. La fine delle “ideologie” e delle “tessere di partito” contro la difesa dell’antifascismo e della Costituzione». E poi ancora: «La “leonessa”Susanna contro il “mesto” Eugenio». Ma non manca l’attacco a Zingaretti. «Ma soprattutto i leader del centrodestra – Salvini, Meloni, Tajani – che provano a sfondare il muro rosso contro nessuno, perché Zingaretti ha chiuso la campagna in Toscana giovedì fuggendo dall’ultima battaglia campale». Il Fatto ne ha anche per Giani: «Inizia a parlare alle 20 non scalda la platea. Sia perché l’eloquio è quello che è, sia perché il suo è un esercizio di aneddoti della Toscana: Brunelleschi, Della Rovvia, Dante… ». La consapevolezza di non farcela è concreta. L’articolo chiude amaro: «In chiusura parte un corale Bella Ciao. Il messaggio è chiaro la Toscana è già stata liberata una volta. Chissà se sarà davvero così». Una cosa è certa: il centrodestra fa il pienone a Firenze. Allieve sedute per terra a scuola. Salvini posta la foto e punta l’indice contro Azzolina. Bellanova sfida Salvini e posta la foto su un trattore. Pioggia di commenti: ecco brava, vai a zappare…
No al referendum. Marco Travaglio ha inventato i suoi nuovi nemici: i salvinisti di sinistra. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Settembre 2020. Marco Travaglio ha individuato i suoi nuovi nemici (perso Berlusconi, perso Renzi, perso Zingaretti, gli resta poca roba: Bergoglio, le Ong, qualche giudice di sorveglianza…). Ha inventato una nuova categoria politica: i salvinisti di sinistra. Da un paio di giorni il suo giornale non parla d’altro. Chi sono i salvinisti di sinistra? Quelli che pur non avendo nessuna simpatia per Salvini, tuttavia dicono di voler votare No al referendum. Ora non è che sia chiarissimo cosa c’entri il salvinismo con queste persone, dal momento che Salvini, come è naturale che sia per ogni leader populista che si rispetti, vota Sì al referendum. Proprio come Travaglio. Vota Sì anche a costo di salvare l’odiato Conte. Ma su queste cose non dovete mai formalizzarvi: i ragionamenti di Marco sono lineari solo in un’occasione: quando chiede – lo fa spesso – di mettere in gattabuia un po’ di gente. Per il resto le sue categorie politiche sono molte vaghe. Non ha mai capito molto di queste cose. Lui si considera un allievo di Montanelli ma in realtà più che altro è allievo di Barbacetto…Allora però è giusto fare un po’ d’ordine nelle polemiche. Cerchiamo di capire qual è il profilo politico di Salvini, sulla base delle cose che ha fatto e delle scelte che hanno segnato la sua ascesa. Salvini si è opposto in modo fiero al governo Monti, come Travaglio. Salvini ha condotto una lotta spietata contro le Ong e quelli che Di Maio aveva definito i taxi del mare. Come Travaglio. Salvini ha progettato e votato i decreti sicurezza, come i 5 Stelle di Travaglio. Salvini – in quanto leader del suo partito – ha partecipato a una sola esperienza governativa: quella fondata sull’alleanza tra il suo partito e il partito di Travaglio. L’unico presidente del Consiglio che Salvini ha appoggiato e votato, da quando è leader della Lega, è Giuseppe Conte, l’idolo di Travaglio. Non è che ho scritto delle cose fantasiose: mi sono limitato a riassumere la vicenda politica di questi ultimi anni. E la vicenda politica di questi anni ci dice semplicemente che – come del resto è del tutto naturale – i partiti di Salvini e Travaglio – che i politologi di tutto il mondo, tutti e senza eccezioni, ritengono i due partiti populisti italiani – hanno sempre marciato fianco a fianco. Poi, a un certo punto, si è verificato una specie di screzio, per motivi personali, tra Salvini e Conte, ma questo non ha modificato le posizioni dei due partiti. Certo, è vero che Travaglio ha chiesto molte volte e per i motivi più diversi l’arresto di Salvini (per esempio per avere bloccato, insieme ai ministri “travaglini” e con gli applausi del Fatto, i profughi africani in mezzo al mare), ma questo non cambia la sostanza dei rapporti tra loro. Travaglio chiede sempre l’arresto delle persone, anche le più miti, anche le più amiche. Nessuno mai si è sentito offeso perché Travaglio ha chiesto il suo arresto, tutti anzi considerano sempre questa richiesta un segno di attenzione e di considerazione. Se Travaglio non ha mai chiesto il tuo arresto, o almeno non ti ha mai detto che sei un mafioso, beh, vali niente. E allora perché Travaglio – che potremmo definire un salvinista di destra, o forse di estrema destra – se la prende coi presunti salvinisti di sinistra? Deve essere una questione di gelosia.
Ora il Fatto arruola i sociologi per psicoanalizzare chi odia i grillini. È vietato criticare il governo giallorosso: "Chi ne parla male o è complice della destra pre-fascista o è cretino perché non lo capisce". Luca Sablone, Venerdì 11/09/2020 su Il Giornale. Se criticate il governo giallorosso siete degli idioti. Lo sapevate? La sinistra è convinta della poca intelligenza degli elettori del centrodestra, e questa non è certamente una novità. Per caso è vietato rimproverare le azioni dell'esecutivo a guida Conte, sottolinearne le ingiustizie e le assurdità? Tutto lecito, sulla carta. Ma state attenti: se contestate la maggiornaza composta da Movimento 5 Stelle, Partito democratico, Italia Viva e Liberi e uguali rischiate di essere definiti come "cretini" da Domenico De Masi, ovvero uno dei sociologi più noti del nostro Paese. Addirittura Il Fatto Quotidiano lo ha interpellato per psicoanalizzare chi non condivide il pensiero dei grillini. L'82enne si è scagliato contro gli intellettuali di sinistra che, a partire dalla nascita del governo giallorosso, si occupano solamente di criticare a prescindere il premier Giuseppe Conte ma soprattutto il M5S. E ha usato parole davvero dure: "Questi intellettuali di finta sinistra che hanno il tic dell’antigrillismo e che ogni giorno attaccano il governo stanno facendo il gioco di Salvini. Quindi o sono complici della destra pre-fascista o sono cretini perché non lo capiscono". A far discutere è stata la recente presa di posizione di Roberto Saviano contro il Pd, i pentastellati e il presidente del Consiglio. Per De Masi i "finti intellettuali" pensano che il loro problema sia il Movimento 5 Stelle, il quale in realtà sarebbe vittima non solo di un preconcetto ma anche di una spocchia antropologica: "Il confronto con i 5 Stelle li fa sentire intellettuali di alto livello, anche se non stiamo parlando di Karl Popper o Albert Einstein". Perciò ha invitato chi è di sinistra a prendere atto del fatto che non si può stare al governo senza i grillini e che l'esecutivo ha messo in campo molte azioni progressiste, dal reddito di cittadinanza ai bonus passando per il decreto Dignità. "Prima di trovare una cosa di sinistra come il reddito di cittadinanza bisogna tornare agli anni Settanta con la riforma sanitaria. E pensare che molti lo criticano", ha dichiarato. Il sociologo, nell'intervista rilasciata al Fatto, ha annunciato che voterà a favore del taglio dei parlamentari: sebbene sostenga che la riduzione del numero di rappresentanti significhi ridurre la democrazia, sposerà la causa del "Sì" perché "in tutti questi anni abbiamo ampiamente capito che 945 parlamentari non siano in grado di organizzarsi, e poi perché bisogna salvare questo governo". Intanto continua a crescere il fronte del "No": l'esito del referendum, in programma domenica 20 e lunedì 21 settembre, non è affatto scontato.
Francesca Galici per ilgiornale.it l'11 settembre 2020. Quella di ieri a Matteo Salvini è stata un'aggressione e non ci possono essere giustificazioni a un atto violento. La donna artefice dell'attacco al leader della Lega è un'immigrata regolare originaria del Congo, ha 30 anni e opera nell'ambito del servizio civile presso il comune. A Matteo Salvini sono arrivate numerose manifestazioni di vicinanza e di solidarietà, sia dai sostenitori che dagli altri leader politici ed esponenti degli schieramenti opposti. L'unico a non esprimersi, al momento, è stato il Presidente del Consiglio. Il silenzio di Giuseppe Conte, rappresentante di tutti gli italiani, pesa in questo momento, dove il clima d'odio generato inizia a mostrare i primi effetti reali. Diverso è stato il comportamento di Nicola Zingaretti, che con un tweet si è mostrato solidale con Matteo Salvini. Un gesto che, però, non è piaciuto ai suoi sostenitori, tra i quali Gabriele Muccino, che lo ha duramente attaccato. "Solidarietà a Matteo Salvini. L’odio e la violenza non devono contaminare la politica, per i democratici è una responsabilità e un valore assoluto", ha scritto Nicola Zingaretti. Parole di grande responsabilità le sue, tese a smorzare un clima che si sta facendo insostenibile, in una campagna elettorale che sta vivendo le sue fasi più intense. A fare da contraltare al segretario del Partito democratico ci sono, però, i sostenitori del Partito democratico. Invece di unirsi al loro leader politico lo hanno attaccato perché si è permesso di esprimere solidarietà a un altro leader politico vittima di una aggressione. Tra i contestatori di Nicola Zingaretti anche nomi noti, come quello del registra Gabriele Muccino. L'ex enfant prodige del cinema italiano, ieri, si è distinto per messaggi contrari a qualunque logica del buon senso. "Solidarietà?!!!! A chi incita odio e violenza verso i più deboli?! No, grazie. Nessuna solidarietà. Non esageriamo adesso. Non siamo tutti buoni e uguali. Ci sono delle differenze di comportamento che hanno delle conseguenze. Anche comprensibili", ha scritto in risposta al messaggio di Nicola Zingaretti, giustificando la violenza contro Matteo Salvini. Non pago, ha lasciato un messaggio simile anche sotto il post di Andrea Scanzi, anche lui solidale con Matteo Salvini. "Solidarietà a Matteo Salvini per la vile aggressione subita. Senza se e senza ma", ha scritto il giornalista, solitamente avverso al leader della Lega. Nella sua risposta a Scanzi, Gabriele Muccino si supera e quella che chiunque, da destra a sinistra, considera come un'aggressione (e di fatto lo è), per lui diventa "uno sfogo doloroso ed esasperato di una donna la cui storia non conosciamo". Seguendo l'illogica logica di Gabriele Muccino, la colpa dell'aggressione a Matteo Salvini è di Salvini stesso: "Se quella è un aggressione, la condotta di continua aggressione di Salvini come la definiamo?! Nessuna solidarietà da parte mia. Ogni comportamento ha una conseguenza". A volte è meglio tacere, ma Gabriele Muccino ha preferito esporsi e così sono state tante le manifestazioni di dissenso verso il suo tweet da parte di chi imputa anche a persone come lui l'attuale clima nel Paese: "Vede è lei il primo ad incitare all'odio."
Matteo Salvini semina odio? Vauro e il colpo in testa, il leghista impiccato: il vero fascismo è a sinistra. Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 12 settembre 2020. La violenza in politica ha una matrice spiccatamente di sinistra nella storia della Repubblica. Dal 1974 al 1988, ossia in appena quattordici anni, le Brigate Rosse hanno rivendicato 86 omicidi. Le vittime sono state poliziotti, carabinieri, politici, magistrati, industriali, giornalisti. Eppure i cosiddetti "antifascisti" ogni dì sui giornali, in televisione e sui social network vorrebbero farci credere che la forza bruta sia esclusivo appannaggio di alcuni partiti, precisamente di Lega e Fratelli d'Italia, e che Matteo Salvini e Giorgia Meloni siano dei novelli e temibili ducetti che professano acredine e incitano le masse a picchiare, trucidare, torturare minoranze e deboli. Tuttavia, questa narrazione mistificata, che riconduce peraltro le cause di ogni fenomeno sociale negativo e di ogni episodio di cronaca nera alla propaganda di Matteo e Giorgia, come è accaduto in questi giorni per l'uccisione del ventunenne Willy Monteiro, non sta in piedi. Di fatto, sono proprio Salvini e Meloni ad essere oggetto quotidiano di attacchi, aggressioni non soltanto verbali, improperi, accuse gratuite. Insomma, sono i leader di Lega e Fratelli d'Italia ad essere vittime dei modi e degli usi fascisti degli antifascisti. Nonostante ciò, non hanno mai pronunciato parole cariche di rancore, non hanno mai risposto alla violenza con altrettanta violenza, le loro reazioni sono sempre state composte, educate, civili, addirittura signorili. E sfidiamo chiunque a virgolettare una frase uscita dalla bocca di Salvini o Meloni la quale contenga un invito alla sopraffazione. Il 4 settembre del 2019, ad esempio, il giornalista della Rai Fabio Sanfilippo sul suo profilo Facebook si spendeva in un'aspra invettiva contro il capo del Carroccio, tirando in ballo pure la figlia minorenne di quest' ultimo. «Ti sei impiccato da solo. Io ne sono felice. Ora perderai almeno il 20,25 per cento dei consensi che ti accreditano i sondaggi. E che fai? Non hai un lavoro, non sai fare niente, con la vita che ti eri abituato a fare tempo sei mesi e ti spari, nemico mio. Mi dispiace per tua figlia, ma avrà tempo per riprendersi, basta farla seguire da persone qualificate», aveva digitato il cronista. Impiccatelo! - Nel marzo del 2019 il vignettista Vauro Senesi aveva disegnato Salvini nell'atto di spararsi un colpo alla testa. Negli stessi giorni, a Brescia, veniva dato alle fiamme un fantoccio gigante dell'ex ministro dell'Interno. Poche settimane dopo, nel luglio del 2019, era stato il turno di Sergio Staino con una vignetta in cui il leghista veniva impiccato e si esultava poiché San Gennaro aveva compiuto il miracolo di liberarcene. Poi a novembre dello scorso anno sui muri di Bologna erano stati affissi centinaia di volantini recanti l'immagine di Matteo a testa in giù. Salvini aveva risposto sui social: «Ieri a Bologna volantini con la mia faccia capovolta, distribuiti dai "bravi ragazzi" della sinistra violenta, che sa solo odiare. L'unica risposta possibile è il nostro sorriso». Nell'agosto del 2019 pure la consigliera comunale di Genova Stefania Giovinazzo augurava a Matteo di finire appeso. Ecco cosa scrisse su Facebook: «Attento, caro Ruspa, la storia ci insegna che passare dall'avere le piazze gremite di persone che applaudono a finire a testa in giù, è un attimo». Insomma, è Salvini che istiga alla violenza o sono i suoi detrattori ad incitare la gente ad odiare e aggredire il politico in questione, a maledirlo, ad auspicare il suo trapasso? Il leghista viene costantemente accostato a Benito Mussolini, lo ha fatto Luigi Di Maio, quando nell'agosto del 2019 ha affermato che Salvini «si ispira a Mussolini», lo ha fatto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, descrivendo Matteo quale «giovane Mussolini, al quale dobbiamo impedire che diventi il Mussolini maturo», lo fanno pure gli operatori dell'informazione. E cosa dire delle ingiurie indirizzate a Meloni? Le femministe in queste circostanze tacciono. Non si scandalizzarono, ad esempio, quando Giorgia fu fotografata di spalle a sua insaputa in un ristorante romano dall'attrice Asia Argento, la quale postò l'istantanea sui social. «Guardate la schiena lardosa di una fascista», fu il commento della sedicente paladina delle donne. Meloni peraltro aveva appena partorito. Viva la tanto decantata solidarietà femminile. Di recente, ossia a luglio, l'ex vicepresidente della Fondazione Cariplo nonché professoressa di religione Paola Pessina ha diffuso sul web una immagine della leader di Fdi corredandola di una perfida osservazione: «Meloni sta diventando calva. L'eccesso di testosterone oltre che cattivi fa diventare brutti». Sarebbe stato facile abbassarsi allo stesso livello di Pessina, la quale non è propriamente Claudia Schiffer. Eppure Meloni ha replicato con il consueto contegno: «Non mi interessano gli insulti sul piano fisico, tuttavia leggere frasi del genere da chi dovrebbe essere d'esempio lascia un po' delusi e perplessi». Allora, chi sono i veri fomentatori di astio, gli autentici responsabili di quel clima d'odio di cui si discetta ogni dì?
Vittorio Sgarbi su Matteo Salvini aggredito: "Vedrete, proveranno a giustificare anche questo". Libero Quotidiano il 10 settembre 2020. Gridando "io ti maledico", con occhio spiritato, come è ormai arcinoto una 30enne di origini congolesi ha aggredito Matteo Salvini a Pontassieve, in Toscana, dove il leader della Lega si trovava per un appuntamento elettorale in vista delle regionali del 20 e 21 settembre. Camicia e rosario strappati: un'aggressione in piena regola, quella subita dall'ex ministro dell'Interno, che ha incassato la solidarietà di quasi tutto l'arco parlamentare. Eppure, essendoci Salvini di mezzo, sono già iniziati i distinguo: sì ma, sì però, fomenta l'odio ed eccetera eccetera. Un tema che viene affrontato, in breve, da Vittorio Sgarbi su Twitter. Il critico d'arte infatti rilancia il video dell'aggressione e a corredo aggiunge il commento: "Ecco il risultato di mesi e mesi di campagne di odio contro il leader dell'opposizione. Ma, vedrete, proveranno a giustificare anche questo", conclude avanzando il sospetto.
Matteo Salvini aggredito a Pontassieve, Lilli Gruber: "Aggredito da una persona alterata psico-fisicamente". Libero Quotidiano il 09 settembre 2020. Matteo Salvini aggredito e Lilli Gruber apre Otto e Mezzo con la notizia. Fin qui nulla di strano se non fosse che la conduttrice di La7 afferma: "Il leader della Lega aggredito da una persona alterata psico-fisicamente", come a voler minimizzare quanto di terribile è accaduto. La donna, che lavora per il Comune, è sì stata definita dalla questura "in evidente stato di alterazione psico-fisica", ma il video che ritrae l'aggressione a Pontassieve, in Toscana, parla chiaro. La congolese si scaglia contro l'ex ministro e consapevolmente gli strappa rosario e camicetta. Insomma, da lì a giustificare quanto accaduto ce ne vuole. Sono infatti stati tanti i leader politici, anche lontani dal centrodestra, a esprimere solidarietà al leader del Carroccio.
Matteo Salvini dopo l'aggressione, la risposta in piazza: "Guardate che spettacolo, più forti di tutto e tutti". Libero Quotidiano il 10 settembre 2020. Forse, la miglior risposta possibile all'aggressione subita a Firenze. Si parla di Matteo Salvini, colpito da una 30enne di origine congolese nel comune toscano, un caso che sta facendo discutere. Un caso che però non ha fermato la campagna elettorale del leader della Lega a supporto di Susanna Ceccardi, candidata del centrodestra alle imminenti regionali. Dopo Pontassieve, ci si sposta a Borgo San Lorenzo, in provincia di Firenze. Ed è da questo comune che arriva la risposta, raccolta nel video che potete vedere qui sotto: un clamoroso e caloroso bagno di folla per l'ex ministro dell'Interno. E Salvini rilancia il video sui social nella prima mattina di giovedì 10 settembre, commentando: "Guardate che spettacolo ieri a Borgo San Lorenzo. Più forti di tutto e tutti, grazie" e cuoricino. Quest'ultimo, un evidente riferimento ai fatti della vigilia.
La "profezia" di Mentana sull'aggressione a Salvini: "Perché questo episodio peserà". Secondo il direttore Enrico Mentana, l'aggressione a Pontassieve "rischia di essere, a parti invertite, un episodio chiave come la scena del citofono a Bologna". Giorgia Baroncini, Giovedì 10/09/2020 su Il Giornale. Urla, strattoni, una camicia strappata e la collanina con il rosario rotta. L'aggressione al leader della Lega a Pontassieve è durata pochi istanti, ma ha spaventato tutti i presenti. "Sto bene", ha rassicurato poi Matteo Salvini spiegando che la donna si era avvicinata a lui urlando "ti maledico, ha usato le mani e le minacce". "Non provo rabbia per la signora, provo tristezza", ha poi concluso aggiungendo che "a questa rabbia rispondo col sorriso e col lavoro, evviva l'Italia delle donne e degli uomini che credono nella libertà, nella serenità e nel lavoro. Avanti, senza paura e a testa alta".
Salvini aggredito al comizio: gli strappano camicia e rosario. A scagliarsi contro il leader della Lega è stata una giovane 30enne originaria del Congo, immigrata regolare in Italia. La donna, scavalcando la folla che si era radunata per accogliere Salvini, si è avvicinata al leghista urlando più volte "Io ti maledico". Poi gli ha strappato camicia e rosario (Guarda il video). Subito bloccata dalle forze dell'ordine, la 30enne è stata denunciata. "Nessun graffio, nessun pugno, non mi piango addosso – ha spiegato Salvini -. Non uso questo fatto per la campagna elettorale, quello della Toscana è un voto per i territori. La Toscana non è violenza, è bellezza e rispetto". Il leader della Lega si trovava a Pontassieve per partecipare a un’iniziativa politica in vista delle elezioni regionali in Toscana. Poi l'aggressione. Se Salvini ha dichiarato di non "usare il fatto per la campagna elettorale", quanto accaduto nel comune toscano potrebbe comunque influire sui risultati delle urne. A pensarlo è Enrico Mentana. Sul suo profilo Instagram, il direttore del TgLa7 ha commentato l'aggressione subita da Matteo Salvini spiegando che "rischia di essere, a parti invertite, un episodio chiave come la scena del citofono a Bologna". Il riferimento è all'episodio accaduto a inizio anno al Pilastro di Bologna. Pochi giorni prima delle elezioni in Emilia Romagna, Salvini aveva trascorso una giornata nel quartiere che spesso finisce al centro delle cronache per episodi di spaccio. Accompagnato da alcuni residenti, il segretario della Lega aveva citofonato ad una famiglia tunisina che avrebbe avuto legami con lo spaccio di droga. "Scusi, lei spaccia?", aveva chiesto scatenando numerose polemiche. Secondo molti analisti, questo episodio ha avuto un ruolo nella sconfitta della candidata di centrodestra, Lucia Borgonzoni. Ora invece le cose potrebbero andare nel verso opposto. L'aggressione a Pontassieve, per il direttore Mentana, potrebbe avere un peso importante nelle elezioni in Toscana. Questa volta però a favore del centrodestra e della sua candidata Susanna Ceccardi. Come riporta Libero, Mentana ha precisato agli utenti di parlare di stesso effetto soltanto in termini politici, senza voler mettere sullo stesso livello i due episodi.
Il sospetto sull'attacco a Salvini: "Gesto di magia nera tribale..." Non solo il gesto di una squilibrata. Dietro all'aggressione al leader della Lega potrebbe esserci molto di più, compreso il voodoo. Ne abbiamo parlato con Andrea Bocchi Modrone, antropologo ed esperto in religioni sincretiche afro-americane. Giovanni Giacalone, Venerdì 11/09/2020 su Il Giornale. L'aggressione perpetrata a Pontassieve nei confronti del leader della Lega, Matteo Salvini, dalla 30enne congolese Auriane Fatuma Bindela ha destato sgomento, non soltanto per il fatto in sé, che è di una gravità inaudita (non si capisce infatti come la donna abbia potuto avvicinare l'esponente politico senza venire fermata in tempo dalla sicurezza), ma anche per la brutalità del gesto: lo strappare il rosario che Salvini portava al collo con tanto di grido "ti maledico". Un atto di inaudita violenza non soltanto nei confronti del leader della Lega, ma anche di un simbolo religioso che andrebbe invece rispettato. Accanto all'ipotesi più plausibile, e cioè quella dell'azione di una squilibrata piena di rabbia, non si può non affiancare quella di un atto di magia nera, in particolare ripensando al famoso rito voodoo contro un altro esponente della Lega, Roberto Calderoli, celebrato in Congo nel 2013 dal padre di Cecile Kyenge. Nel Paese africano vi è infatti un'antica tradizione di culti che fanno ricorso anche alla magia nera, spesso definiti genericamente come "voodoo". Ne abbiamo parlato con Andrea Bocchi Modrone, antropologo ed esperto in religioni sincretiche afro-americane e autore di Le Livre du Vaudou - Misteri e Segreti di una Religione.
Dottor Bocchi Modrone, l'aggressione a Salvini ha innescato nella mente di tanti la possibilità che si sia trattato di un rito di magia nera africana; la rottura del rosario, il grido "ti maledico"; ha senso un'ipotesi del genere?
«Allora, premesso che a me sembra una persona fuori di testa, però in effetti c'ho pensato anche io e vedo comunque alcuni elementi che possono far pensare anche a un gesto di magia nera tribale. Innanzitutto vi è la rottura del rosario che sul piano "magico" può essere visto come un talismano di protezione, quindi un gesto che, osservato con la lente della magia nera può essere interpretato come un "io rompo la tua protezione e ti attacco con il mio Dio che è superiore". Poi c'è un secondo aspetto che riguarda l'aggressione culturale e cioè il disprezzo nei confronti della fede (cristiana) di Salvini: per dirla in maniera semplice "io disprezzo il tuo Dio e il tuo credo". Teniamo a mente che in Congo è ancora molto forte l'idea della religione tribale e non si tratta di un culto sincretico come nel caso ad esempio del Palo Mayombe a Cuba. C'è poi il tentativo di strappare un pezzo d'indumento a Salvini, indumento che può essere utilizzato come "testimone" (oggetto appartenuto alla persona che fa da tramite) per fare un rito di stregoneria, una fattura. Ammesso poi che questa persona conosca le pratiche rituali o conosca qualcuno che le sa fare. Li è tutto da vedere. In ogni caso può trattarsi del tentativo di impossessarsi di un oggetto da utilizzare come "feticcio" per danneggiare la vittima».
E il grido "ti maledico", al di là dell'aggressione fisica in sé?
«L'aggressione fisica mostra un odio profondo nei confronti di un esponente politico avversario che non viene rispettato neanche a livello umano, del resto gli mette le mani addosso come se fosse una lotta tribale delle più bieche. Come già detto, lo strappo del rosario, al di là della rottura della protezione, può essere un attacco al crocifisso visto come nemico, come "Dio dei bianchi", in contrapposizione a un non ben chiaro Dio del suo Paese, della sua stirpe. Per quanto riguarda il grido "ti maledico", è una maledizione, un'esternazione di odio, ti butto addosso il male per fartela pagare. Non lo ha semplicemente insultato, lo ha maledetto».
Un gesto che può turbare chi lo riceve, no?
«È certamente un gesto che può turbare, al di là del credo personale; può turbare dal punto di vista religioso, dal punto di vista umano, può turbare perché comunque la persona si sente minacciata ed ha timore. È una violenza verbale pesante perché non è un semplice insulto. La maledizione implica l'appellarsi a una forza superiore affinchè questa ti crei del danno. Lei lo maledice in nome di quale Dio? Sicuramente non in nome di quello cristiano, altrimenti non romperebbe il rosario. Lì poi entrano in gioco tutta una serie di elementi tra cui la fede e le paure della persona. Anche nel Voodoo a volte fanno trovare la bambolina con gli aghi infilzati, poi la persona si autosuggestiona e ricollega a quello tutto ciò che le può accadere».
In Congo questi culti sono ancora oggi ampiamente presenti e praticati?
«Assolutamente sì. Il panorama è un po' confuso in quanto legato anche al discorso tribale. Io conosco meglio i culti sincretici dell'America latina, i quali trovano però origine in Africa. Per quanto riguarda comunque i culti del Congo, vi è una figura di Dio unico, "Zambi" che però non identificano col Dio cristiano, come avviene ad esempio in Sud America. Del resto, se spacchi il crocifisso, già crei una rottura tra le due divinità. Ci tengo tra l'altro a precisare che non mi sento di indicare questi culti africani come "animismo", in antropologia non si può più utilizzare questo termine; le indicherei invece come reminiscenze di spiritualità tribali non sopite e del resto questo lo troviamo spesso anche nell'Islam africano quando si forma il sincretismo con credenze pre-islamiche».
Secondo Lei ci può essere una similitudine con il caso di Calderoli con la Kyenge?
«Il rito fatto a Calderoli era proprio chiaro, c'era la cerimonia, il pentolone, la foto del poveretto. Facevano vedere proprio la cerimonia in atto in Congo. Il padre della Kyenge del resto si è mostrato come stregone. Lo stesso Calderoli dichiarò che dopo il rito gli era capitato di tutto (riferendosi alla caduta che gli ha danneggiato una vertebra e fratturato due dita) ed aveva anche trovato un grosso serpente in casa. Li entra in gioco la psiche e il discorso diventa ben complesso. Nel caso di Salvini, si è trattata di un'aggressione fisica vera e propria, andata sul personale, nell'intimo con la rottura del rosario e simbolicamente del suo Credo. Un'azione che va ben oltre il dissenso politico e scaturisce in maledizione. Io ci vedo rabbia, frustrazione, odio profondo uniti a uno stato mentale psicologicamente instabile. Non possiamo sapere cosa le è passato per la testa. L'ipotesi del rito di magia nera non mi sento di abbandonarla completamente, ma penso più al gesto di un'esaltata in stato alterato. Attenzione poi alle emulazioni, perchè questo caso fa da precedente».
Quel dettaglio sull'aggressione: nessuno sgrida la contestatrice? Due pesi e due misure. Nessuno si accorge che la congolese che ha strappato il rosario al leghista era senza protezione al volto. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 11/09/2020 su Il Giornale. Alla poca coerenza di certi commentatori occorre farci il callo. Dunque non stupisce, o non dovrebbe essere una sorpresa, se l’aggressione a suon di “ti maledico” contro Matteo Salvini non ha sortito la stessa indignazione unanime di fatti simili avvenuti in campi avversi. Però questa è la stagione del Covid. E passi pure l’aver minacciato una persona in strada. Ma anche i più ostinati avversari del leghista, che magari sperano davvero che in quell'invocazione ci fosse della magia nera, non dovrebbero essere disposti a perdonare alla giovane assalitrice il suo più grande peccato. In pochi in effetti sembrano essersene accorti. Neppure il più strenui difensori della mascherina in piazza. Ma la signora in questione non ha solo strappato un rosario o rovinato la camicia del leader del Carroccio. No. Si è presentata in quella piazza, pronta ad attaccare l'avversario, senza copertura sul volto. Nessuno l’ha notato? Nessuno ha trovato il tempo di stendere due righe per biasimarla? L’errore della giovane congolese appare grave. Perché oltre a condannare il leghista alla ignota maledizione, ha pure rischiato di infettarlo. Di sicuro il salvifico metro di distanza non l’ha rispettato. E di questi tempi non sono mancanze che si perdonano senza una pia penitenza. Fa ridere dover sperare che Salvini non si sia contagiato grazie alla mascherina che lui, invece, stava diligentemente indossando. E fa sorridere ripensando alle tante, tantissime critiche che caddero sul leghista il 2 giugno in occasione della manifestazione del centrodestra in piazza. Il leader si tolse la maschera tricolore per scattare i selfie a breve distanza con i suoi fan. Apriti cielo. Le condanne furono unanimi e intransigenti. Andrea Scanzi, giusto per citarne uno, parlò di atto “vergognoso”, “riprovevole”, “imperdonabile” fino ad arrivare a dire che, se ci fosse stata una nuova esplosione della pandemia, “sapremo di chi è la colpa”. Il tono è rimasto lo stesso anche nei giorni a seguire, quando ad ogni appuntamento elettorale o meno la prima critica rivolta al leghista da ogni parte è stata quella di non coprirsi abbastanza la faccia. Ecco perché, anche solo per decenza e non tanto per intelletto, un paio di righe sull’aggressione di Pontassieve senza protezioni poteva anche essere spesa. Perché dubito che nessuno, ma proprio nessun sinistro osservatore, di solito così attenti, si sia accorto di quella colpevole mancanza. Vero è che pure quando il premier Conte sfilò tra la folla a viso scoperto di rimproveri ne arrivarono pochi. Ma stavolta non c'è mica un governo da proteggere. Avrebbero potuto scrivere così: “La camicia si ricompra. Il rosario si fa ri-benedire. Ma la salute di tutti va protetta”. Peccato l’approccio sia sempre lo stesso: due pesi e due mascherine.
Manduria è ancora più leghista (anche per colpa di chi non lo è). Matteo Salvini ha già vinto. Lo ha fatto a mani basse, nel migliore dei modi (senza che i suoi avversari se ne rendessero conto), in pochi minuti e su un palco di fronte ad una piazza Garibaldi. Gabrio Distratis su La Voce di Manduria - martedì 08 settembre 2020. Matteo Salvini ha già vinto. Lo ha fatto a mani basse, nel migliore dei modi (senza che i suoi avversari se ne rendessero conto), in pochi minuti e su un palco di fronte ad una piazza Garibaldi gremita come poche altre volte. Ha vinto senza aspettare nessuno spoglio elettorale, lo ha fatto solo dimostrando i motivi per i quali tra tanti appellativi, quello di “Capitano” gli calza a pennello: un autentico maestro nel condurre avversari e supporters sul suo campo da gioco, dove si seguono esclusivamente con le sue regole e dove surclassa e batte i primi ma nello stesso preciso istante accarezza e ammalia i secondi. Nessun contenuto, nessuna idea politica, nessun programma, nessun dato verificabile scientificamente. Mai, semplicemente perché non gli occorrono e non ne ha bisogno. E non ne ha bisogno semplicemente perché egli parla lo stesso linguaggio (se non proprio lo mutua e ne cavalca a suo vantaggio il potere simbolico e propagandistico) anche di tantissimi contestatori ed oppositori che affollavano la piazza manduriana e continuano ad inondare i social network di ogni forma di insulto, intolleranza, denigrazione, incitamento all’odio e alla violenza, auspici di morte, sessismo, razzismo e deumanizzazione dell’avversario. Salvini ha vinto perché, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, ha dimostrato come la forza di un certo tipo di “fare politica” risiede proprio nella vicinanza e nelle affinità con colori i quali credono, anche convintamente e strenuamente, di essere agli antipodi rispetto a lui. Come spiegare, altrimenti, i toni, gli atteggiamenti, le urla e i tumultuosi propositi di tanti anti-leghisti manduriani che, in definitiva ed a conti fatti, sposano in toto ed assumono gli stessi connotati comunicativi del leghista medio? Basterebbe solo dare un veloce sguardo ai tanti post apparsi su Facebook scritti da manduriani che nella loro foga anti-salviniana e nel concitato proposito di “difendere” non si sa bene cosa da non si sa bene chi, finiscono, loro malgrado, per dipingere di verde Padania la propria pelle. Stimati professionisti, pacati padri di famiglia, ragazzine dal viso angelico, mamme apparentemente affettuosissime con foto con i propri bambini in bella vista, universitari modello, addirittura nonni ormai nell'età della saggezza: tutti accomunati dall’impeto di manifestare apertamente e pubblicamente il proprio dissenso e la propria lontananza dalla vuota retorica salviniana. Peccato che lo facciano, però, seguendo proprio gli stessi schemi comunicativi del leader leghista: “Che schifo di uomo” (Teodoro C.), “Buttatelo a mare con un tufo” (Pino D.), “Uomo miserrimo” (Nino F.), “Torna nella tua terra buffone!!” (Raimondo G.), “Mettetelo su un barcone e mandatelo in Libia” (Rita S.), “Chiudono le discoteche ma sto coglione sempre a giro” (Davide R.), “Ma quelli che stanno applaudendo, di cosa soffrono??” (Virginia P.), “Mi fanno più schifo chi sta sul palco con lui” (Pompea S.), “Chiudete lo zoo...lo scimmione è scappato!!!” (Donatella R.), “Ladro bastardo razzista di merda in galera!!!” (Luigi P.), “Tutte quelle persone sul palco sanno fare solo foto e hanno fatto aumentare la puzza a Manduria nessuno si lamenta poveri idioti” (Mimino S.), “Immondizia immondizia immondizia immondizia su e quella chiavica di Bossi immondizia” (Luigi C.), “Uno schifo di persona. Non è politica questa. Questa è fogna.” (Luigi D.P.), “No ma questo sta proprio male con la testa!!! Liberate i cani del canile e sfamateli!!!” (Annalisa T.), “Quel pugno te lo faccio ingoiare!!!” (Michela P.), “Ma come si fa ad applaudire questo demente!” (Teresa S.), “Mueri cesso!!” (Iacopo P.), “È così merda che rende merda anche me.” (Stefano F.). Questi solo alcuni dei circa 500 commenti apparsi sulla pagina Facebook del direttore de “La Voce di Manduria” durante e dopo la diretta streaming del comizio salviniano. Presenti tutte le tipologie: dal razzista al volgare fine a se stesso, dall’offesa snob all’augurio di morte, dalle minacce fisiche al puro vaneggiamento senza senso. Tutti con un unico comune denominatore: rispondere a Salvini entrando, inconsapevolmente, nel campo di Salvini. Dove, ovviamente, Salvini è come il banco al casinò: alla fine vince sempre. E forse Manduria è più “leghista” oggi di quanto non si pensasse ieri. Gabrio Distratis
Ero in piazza per contestare Salvini come quando avevo 18 anni. Erano gli anni 80 e col tempo sui muri delle città, dei sottopassi delle stazioni e sui piloni dei ponti comparivano scritte del tipo: “terroni coglioni”. Almerina Raimondi su La Voce di Manduria - mercoledì 09 settembre 2020. Io c’ero in piazza Garibaldi ad esprimere il mio dissenso nei confronti del Senatore Salvini, c’ero nonostante i dubbi di dover prendere parte a quel gioco mediatico che tanto piace al Senatore e che alimenta la sua propaganda politica. C’ero non per curiosità nei suoi confronti, ma per cercare di capire perché e che cosa spinge la gente del Sud a riempire le piazze per tributargli applausi e ammirazione. A questa gente voglio dire che io c’ero anche a 18 anni quando partii per Padova a studiare medicina e fui costretta ad andare in collegio perché era difficile trovare casa. Molti negozi e condomini avevano affisso sulle loro saracinesche e sui loro portoni la scritta: “non si fitta ai terroni” oppure “niente casa per i meridionali”. Erano gli anni 80 e col tempo sui muri delle città, dei sottopassi delle stazioni e sui piloni dei ponti comparivano scritte del tipo: “terroni coglioni”, “terroni fannulloni”, “meridionali tornatevene a casa vostra”, “forza Etna, la Padania è dei lombardo-veneti”; scritte che puntualmente cercavamo di cancellare con i pochi mezzi di cui si disponeva e queste stesse frasi venivano urlate da Salvini e company nelle manifestazioni leghiste. In Veneto ho studiato, ho cominciato a lavorare e ho conosciuto tanta gente per bene che ammira la passione e la laboriosità della gente del Sud, a loro ancora oggi mi unisce una profonda amicizia e stima reciproca, ma poi sono tornata con la mia famiglia perché da sempre crediamo che il Sud sia una scommessa e che se la “questione meridionale” è ancora tutta da risolvere, non sarà certo un “bullo padano” di turno a farlo. Tocca a noi e soltanto a noi meridionali esprimere una classe dirigente capace di progettare e investire sulla valorizzazione del Mezzogiorno per ridurre il cosiddetto divario tra Nord e Sud. Chi oggi al Sud pensa di fare carriera politica facendosi sostenere da un millantatore che blandisce senza alcun rispetto il Crocifisso, il Rosario e il Vangelo come se fossero idoli per suo tornaconto, non merita il nostro consenso. Salvini è un populista che ha costruito il suo potere politico facendo finta di ascoltare le istanze del popolo e che, facendo leva su “una pulsione primordiale che spinge gli esseri umani a difendere identità, sicurezza e confini”, alimenta in ogni piazza, in ogni uscita pubblica, la fabbrica della paura a cui tiene il suo popolo incatenato, il suo popolo che tanto dice di “amare dispensando baci e selfie”. Salvini se potesse non solo chiuderebbe tutti i porti per bloccare i migranti, ma alzerebbe un muro a livello del fiume Po per impedire a noi meridionali di andare a “contaminare la loro Padania”. La lega nord ha cambiato nome ma i “sentimenti” che animano i leghisti sono sempre gli stessi: secessione, razzismo, omofobia, sessismo. In tutti questi anni su 10 euro stanziati dai diversi governi che si sono succeduti 9 sono andati al Nord (per scuola, sanità, servizi vari) e solo poco più di 1 euro è stato destinato al Sud. Da gennaio 2021 arriveranno i soldi dai fondi europei da destinare alla sanità, come pensiamo che saranno distribuiti? Prevarrà il principio di equità?!
La lega di Salvini e company rivendicheranno il virtuosismo delle loro amministrazioni, il pareggio di bilancio, l’autonomia differenziata per destinare alle loro regioni più risorse. Questa pandemia che ha fatto moltissime vittime ha messo in evidenza le inefficienze di una sanità lombarda che negli anni ha smantellato la sanità pubblica a favore di una sanità privata, cosiddetta “d’eccellenza” che prevedeva l’emigrazione sanitaria dal Sud al Nord. A tutti i meridionali che si fanno ammaliare dall’idea dei pieni poteri, dell’uomo forte che Salvini pensa di rappresentare, tributandogli applausi e ammirazione, mi sento di chiedere: sarete in grado di esprimere una classe dirigente capace di non fare “affondare un pezzo d’Italia” e di fare a meno dei millantatori di turno come Salvini? Almerina Raimondi
Francesco Borgonovo per “la Verità” - estratto il 29 agosto 2020. ……..Giusto ieri, sul Venerdì di Repubblica, Gianrico Carofiglio presentava il suo ultimo libro. E discettava di «nuovi bari» presenti nei talk show, di «manipolatori» e «imbroglioni». Cioè dei politici e giornalisti di destra che a Carofiglio medesimo capita di incontrare nei salotti televisivi. Per tutte e 4 le pagine del servizio, l' ex giudice ed ex senatore Pd se la prende con gli schifosi populisti da cui bisogna «difendersi» perché cercano la zuffa, dicono balle e abbassano il livello culturale della nazione. Certo, dovremmo imparare l' etichetta dal bel Gianrico, uno che non manca mai di guardare i suoi interlocutori con sdegno, specie se sui fatti di cronaca sono più informati di lui (come quasi sempre accade). Uno che elargisce perle di saggezza come se fosse l' oracolo di Delfi, non ha alcuna considerazione dell' altro, eppure si permette di dar lezioni perché - appunto - si considera migliore, dall' alto dei suoi capolavori letterari. Forse, se avessero fatto i conti con la loro storia d' arroganza e presunzione, i progressisti capirebbero che, dall' altro lato della barricata, ci sono concittadini da rispettare, non bruti da insultare e svilire. O magari no, magari non cambieranno mai e rimarranno sempre così: serenamente stronzi.
Michele Serra per “la Repubblica” il 29 agosto 2020. Ho ammirazione vera per Gianrico Carofiglio, che scende nell' arena dei talk-show con l' aplomb impassibile del torero, e lo sguardo sereno del giusto. E ha scritto un piccolo prontuario per non soccombere alla menzogna, allo sghignazzo volgare, al deragliamento logico, e dice che la gentilezza è un' arte rivoluzionaria. Ma mi permetto, alla luce della mia quasi cinquantennale esperienza di parole in pubblico, di affiancare alla sua valorosa sfida democratica qualche nota malinconica. "La gentilezza è rivoluzionaria" fu uno degli slogan di Cuore , il giornale di satira e non solo di satira che mi capitò di mandare in edicola, ormai trent' anni fa, insieme a valenti autori e redattori. Fondammo le Brigate Molli, gruppo clandestino che considerava molto maleducato rapire le persone, e dunque le invitava a cena. E al posto dell' esproprio proletario, l'aggiunta proletaria: si restituivano le merci in eccesso, già pagate, negli scaffali dei supermercati. La classica provocazione d' avanguardia, tal quale la merda d' artista di Piero Manzoni. Durò lo spazio di un mattino. La parola "gentilezza", palesemente sconfitta sul campo, oggi a me suona tal quale la merda d' artista di Manzoni: un azzardo d' autore, un' idea elegante e soccombente, sommersa tra le voci egemoni, che sono quelle, brutali e trancianti, dei demagoghi, dei conduttori televisivi striduli e aggressivi, dei politici assertivi e semplicioni che parlano di tutto liberi dal dovere di dire qualcosa. Me ne ritraggo per difendere, ben più che me stesso, le mie parole. Sono fraternamente grato a Carofiglio perché affronta una guerra che mi vede disertore.
Pietro Senaldi e Flavio Briatore: "Dal coronavirus ha imparato una lezione, l'odio della sinistra dei mediocri cacasenno". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 31 agosto 2020. Il governatore campano De Luca ormai ha cambiato mestiere. Prigioniero di un paio di battute che gli sono riuscite in passato, è convinto di essere un cabarettista. Sabato ha tentato una conferenza stampa con toni e tempi teatrali che volevano essere comici ma, ahi lui, si sono rivelati tragici. L'uomo è in campagna elettorale, però anziché parlare dei propri programmi ha attaccato Salvini, colpevole di essere sceso nelle sue terre, dandogli del «venditore di cocco» e «profugo mal vestito». Questo è nulla rispetto a quanto De Luca ha detto di Briatore, al quale con tono mafioso ha fatto «i più sinceri auguri» di guarigione, invitandolo a «essere prudente in futuro». «Flavio ha la prostatite nei polmoni» ha ironizzato il sultano salernitano tra gli applausi del circolo mediatico che fa da grancassa alla sinistra. «Show di De Luca» intitolavano entusiasti i medesimi siti che criminalizzarono il governatore quando definì la Raggi «bambolina imbambolata». È così. Quando uno è giallorosso, basta dire che è spettinato per commettere reato di lesa maestà; se invece è di centrodestra, anche solo simpatizzante, si può fare perfino del suo stato precario di salute argomento di dileggio pubblico. Briatore ha il Covid e la prostatite e De Luca, in cattivissima compagnia, trova la cosa molto divertente. Il governatore può stare tranquillo, nessuno lo rimprovererà per aver sparato sulla croce rossa. Il proprietario del Billionaire è il più odiato dalla sinistra, chi lo insulta guadagna solo punti da quelle parti. Lo sa per primo l'interessato, che ieri dall'ospedale ha telefonato di buon mattino a Libero per un piccolo sfogo personale. «Quanto odio contro di me, me ne hanno dette di tutti i colori; adesso c'è pure l'inchiesta, ma noi al Billionaire abbiamo fatto tutte le cose per bene. Certo, i miei ragazzi si sono contagiati, ma può capitare. Gli stagionali vivono insieme in alloggi che mettiamo sempre a loro disposizione per aiutarli economicamente ma le mie strutture sono regolari».
Il ricovero - L'imprenditore è stato accusato di essere un untore ma ieri, quando dopo essere stato dimesso dal San Raffaele è entrato nella casa milanese della Santanchè, l'amica presso la quale trascorrerà la quarantena, il suo stato contagioso non spaventava cacciatori di notizie e curiosi, che si assembravano intorno a lui in cerca di fortuna. «Occhio che se mi fate arrabbiare vi infetto tutti» ha minacciato Briatore, con scarso successo. Ennesimo capitolo surreale di una vicenda che ha evidenziato come il virus sia vissuto come un peccato da espiare se chi lo prende è ricco, famoso. Se poi si è di centrodestra, si diventa colpevoli anche se sani, come hanno dimostrato gli insulti a Salvini, Meloni e Santanchè giunti anche da autorevoli politici della maggioranza, da Zingaretti e De Luca in giù, che accusano persone negative di spargere il contagio. «Io ho fatto il tampone il 19 agosto in Sardegna» racconta Briatore. «Ero risultato negativo e sono partito per Montecarlo, dove mi è venuto un febbrone a 39. Siccome ho problemi di prostatite da più di un anno, ho chiamato Zangrillo, che mi ha in cura, per farmi visitare e sono andato a Milano. In effetti la prostata era infiammata; come chiunque venga ricoverato sono stato sottoposto a tampone, e la prima volta sono risultato ancora negativo. Poi a un secondo controllo ho scoperto di essere positivo, ma senza il test non lo avrei mai saputo, perché sono asintomatico».
Doppia morale - Ecco svelato il mistero del ricovero in un reparto non dedicato ai malati Covid e anche quello della pronta guarigione: fosse stato solo per il Corona, Flavio non sarebbe mai stato ospedalizzato. Ovviamente la storia non servirà a zittire i grilli parlanti e le oche starnazzanti che in questi giorni hanno motteggiato sulla vicenda, augurandosi che «Flavio tragga una lezione» da quanto accadutogli. Le lezioni che Briatore può trarre sono tre. La prima è medica e dimostra che, come disse a Libero lo scienziato Remuzzi in tempi non sospetti, si può essere positivi senza ammalarsi. La seconda è etica, e rivela che la moralità della sinistra è doppia: compassione per gli sfortunati aperitivi di Zingaretti, ferocia per gli infortuni sul lavoro di Flavio. La terza è sociale e conferma che la ricchezza chiama invidia, la quale spesso degenera in odio e perfino in disprezzo. Del resto, quando si è incapaci di fare quello che ad altri riesce, è più facile svalutare chi ha successo piuttosto che chiedersi perché non lo si sia avuto: domandarselo infatti potrebbe portare alla sgradevole constatazione di essere dei mediocri cacasenno.
Pietro Senaldi: "A Matteo Salvini tirano sassi e pietre e i giornali di sinistra tutti zitti". Libero Quotidiano il Pietro Senaldi 28 agosto 2020. Se sei Salvini, ti tirano le pietre, e devi anche ringraziare, perché ti è andata bene. La sinistra non organizzerà mai una manifestazione per dire che anche le vite dei leghisti contano, visto che ormai si sprecano le vignette dei compagni comici che rappresentano l'ex ministro dell'Interno appeso a testa in giù. La prova di questo assunto si è avuta l'altra sera, a Cava de' Tirreni, in Campania, dove il leader dell'opposizione si è recato per tenere un comizio in vista del voto amministrativo del 20-21 settembre. L'appuntamento elettorale si è trasformato in una battaglia per l'irrompere sulla scena dei centri sociali, che hanno cominciato a fischiare e lanciare bottiglie, sedie e oggetti contundenti verso Salvini, colpendo le forze dell'ordine. Una piccola guerriglia urbana che non ha avuto gli onori delle cronache semplicemente perché la sinistra e i suoi numerosi organi di stampa ritengono del tutto normale la violenza contro leghisti e poliziotti. Avrebbe invece meritato di essere portata all'attenzione dell'opinione pubblica, anche perché gli estremisti di sinistra se la sono presa anche con i semplici cittadini, colpevoli di essere intervenuti a un comizio leghista. A parti invertite, con un qualsiasi politicante dem di second'ordine nelle vesti dell'assalito e uno sconosciuto in quelle dell'aggressore, si sarebbe gridato allo squadrismo, paventando il tentativo di insurrezione anti-democratica, e si sarebbero sprecati fiumi di inchiostro per denunciare le prove generali leghiste per raggiungere con le spicce quei pieni poteri che Salvini voleva ottenere l'estate scorsa tramite investitura popolare. La realtà invece è opposta. Si sta avverando la profezia che gli uomini più vicini al capo della Lega hanno fatto già da qualche mese. L'autunno sarà caldo non solo per la crisi economica ma anche perché se, Covid permettendo, l'ex ministro dell'Interno tornerà stabilmente a occupare le piazze, episodi come quello di Cava de' Tirreni saranno sistematici. Creare l'incidente - La tattica della sinistra è infatti provocare Salvini a oltranza, nella speranza di suscitare una reazione e creare l'incidente. Basta poco, un poliziotto che perde la pazienza, un uomo della scorta che dà un pestone a un facinoroso, e subito i tamburi progressisti sono pronti a rullare per accusare il capo dell'opposizione di girare l'Italia spargendo odio e confinarlo definitivamente nel girone dei cattivi. Solo chi non conosce come la sinistra sa piegare la realtà a proprio uso e consumo e giudica i comportamenti non in base al loro significato ma a seconda di chi li tiene può dubitare di questo teorema. D'altronde, sempre di recente, ci sono altri due episodi che confermano la tesi. Il primo è la levata di scudi in favore dell'erede di Salvini al Viminale, la ministra Lamorgese, dopo che il leader leghista ha osato criticarla sostenendo che la sua gestione dell'immigrazione clandestina è criminale, in quanto favorisce l'illegalità anziché combatterla e non si preoccupa di contenere il contagio in arrivo con i barconi. Il capo dell'opposizione è stato accusato di aver poco rispetto per le istituzioni dalle stesse persone che, quando lui era ministro dell'Interno, gli davano del fascista, dell'odiatore, del razzista e del seminatore di paura. Con il medesimo scarso rispetto per le istituzioni poi i magistrati hanno addirittura pensato di incriminare Salvini per sequestro di persona non perché il reato sussistesse ma solo in quanto non gli piaceva come governava e per di più era un rivale politico, come è scritto nero su bianco nelle intercettazioni di Palamara con i colleghi pm. Anche qui a sinistra, non solo non hanno avuto nulla da ridire, ma si sono scorticati le mani negli applausi. Il secondo episodio non c'entra con Salvini, ma con un'altra icona del centrodestra, Flavio Briatore, e con un tema molto caro al leader leghista, gli immigrati. A sinistra non in pochi hanno esultato in maniera scomposta perché il proprietario del Billionaire ha il Covid e perché il suo ristorante-discoteca è stato chiuso in quanto è ritenuto il principale focolaio del virus in Sardegna. Decisione saggia del governatore locale, il salviniano Solinas, presa in nome della tutela della salute pubblica. Peccato però che nell'altra grande isola italiana, la Sicilia, il governatore di centrodestra Musumeci sia additato come nemico dello Stato perché, sempre in nome della tutela della salute pubblica, vuol chiudere il principale focolaio del proprio territorio, ovverosia i centri d'accoglienza dei profughi, che si sono trasformati in lazzaretti dove gli ospiti si scambiano il virus. Anche in questo caso, a fare la differenza non è la situazione in sé ma sono i protagonisti. Se si tratta dei ricconi del Billionaire e di Briatore, il focolaio si chiude in un secondo senza discussione e i sardi sono salvi, se invece ci sono in ballo i clandestini, il governo interviene per impedire la serrata e i siciliani che si contagiano diventano un problema secondario.
Le Sardine si mangiano Facciamo Rete: schiavi dell’odio verso Salvini, Ruotolo e co. cannibalizzati da Santori. Luigi Ragno su Il Riformista il 28 Agosto 2020. Il consenso social della sinistra su Twitter è nelle mani del collettivo “Facciamo Rete”. Un gruppo di amici, professionisti e volontari che da zero ha costruito una macchina del consenso antifascista e favorevole all’accoglienza. Un fenomeno che, però, risulta essere in caduta libera se analizziamo i primi otto mesi del 2020 rispetto all’anno precedente. L’analisi social, condotta dal data journalist Livio Varriale, non da scampo ad interpretazioni sul rendimento calato vertiginosamente nell’anno corrente. La ricerca effettuata riguarda solo i tweet che hanno l’hashtag #facciamorete nel loro testo per un motivo molto preciso. Nonostante esista anche un diminutivo #FR, quello più utilizzato risulta l’originale ed inoltre, per non falsare il dato sul numero complessivo dei tweets è stato necessario specificare il campo testo dei post su twitter per non dare spazio anche a chi ha inserito l’hashtag facciamorete nel nome utente. Entrando nel merito del trend in caduta libera basta dare un’occhiata al numero di tweets ricavati dal 1 gennaio al 26 agosto 2019 ed allo stesso periodo del 2020: Precisiamolo, i numeri restano sempre importanti per un movimento che esprime una grande parte di consenso nel social del cinguettio, ma è giusto evidenziare il forte calo avuto dovuto a diversi fattori storici che hanno sancito il disinteresse della massa e la dispersione del consenso stesso. Non è un caso che la rovina del collettivo è stato quello di accodarsi alle Sardine che ne hanno cannibalizzato il pensiero per fini elettorali in Emilia Romagna per poi dileguarsi. C’è un altro fattore da non sottovalutare che invece rappresenta il fulcro dell’anima del movimento. Nel 2019 al potere c’era Matteo Salvini come Ministro dell’Interno della Repubblica Italiana, famoso per i suoi decreti “razzisti” che tutt’oggi sono in vigore, poi c’è stata la vicenda del Papeete che ha fatto riscaldare gli animi insieme al caso Carola Rackete. Tanto materiale per chi armeggia tastiera, ironia e militanza per esprimere il proprio pensiero. A confermare questa tesi c’è il grafico degli hashtag associati a facciamorete nel 2019.
Hashtag 2019. RestiamoUmani, Apriteiporti, salvini e salvinidimettiti sono gli argomenti riferiti alla vicenda immigrazione seguono anche Seawatch3 e Diciotti in fondo alla classifica. Toni di protesta contro quelli che attualmente sono gli alleati di Governo come dimaio M5S, che prima erano considerati come #governodelfallimento e #governodeiselfie.
Hashtag 2020. Cosa è avvenuto nell’anno corrente? Vuoi il Covid che ha rallentato di molto lo scenario politico, ma ha aumentato il traffico in rete per via dei lockdown sulla penisola, notiamo la presenza delle Sardine, che confermerebbe la tesi della dispersione avvenuta dal mese di febbraio, ma tra le varie declinazioni che fanno riferimento alla pandemia del secolo, troviamo l’immancabile Matteo Salvini e la sua Lega. Dettaglio ancora più significativo è la presenza di salvinivergognati e salvinisciacallo che fa ben intendere come si animi il gruppo in fase di calo. Da un gruppo nato per portare valori ideologici ti alto spessore, ad una macchina, composta a volte anche da fango, che viaggia in direzione contraria alla famigerata Bestia Social del leader della Lega.
FAVOURITE 2019. Chi sono stati gli animatori che hanno dato slancio alla macchina imponente di facciamorete? In testa spicca il giornalista Sandro Ruotolo, adesso Senatore in quota gruppo Misto, che molti associano al PD seppur non sia così. Se non è l’anima, Ruotolo è stato sicuramente il testimonial di eccezione del movimento ed infatti a lui fanno riferimento molti tweets con l’hashtag del collettivo, Marco Skino, Milko Skinolfi, Luigi Maragon, Manuela Bellipani e Daniele Cinnà invece sono i militanti ed i promotori di un successo comunicativo e politico di tutto rispetto.
FAVOURITE 2020. Nell’anno corrente però è mancato proprio il ruolo di Ruotolo e la struttura ha iniziato a perdere like e colpi. L’assenza di Ruotolo non sorprende se consideriamo che adesso anche lui fa parte del Governo che ancora non cambia i decreti Salvini e che lo stesso Leader della Lega fa parte dell’opposizione mente Ruotolo è in maggioranza. Se prima i toni erano comunque indirizzati, seppur a volte animosamente, verso un indirizzo ideologico, ad oggi oltre all’odio per Salvini ed a conflitti stile anni 70 tra fascisti del web ed antifascisti, con toni troppo spesso sopra le righe, facciamorete sta dissolvendo due valori che ne hanno dato credibilità e si possono riassumere con i loro stessi hashtag: #siamotanti e #siamoumani.
Lo scivolone su Twitter. Nubifragio a Verona “karma contro i nazifascisti”, bufera per le parole del giornalista di Repubblica. Redazione su Il Riformista il 24 Agosto 2020. Il maltempo che ha colpito la città di Verona nel pomeriggio di domenica, con acqua alta oltre un metro in pochi minuti di temporale, alberi crollati e ‘fiumi’ di grandine, ha scatenato anche una polemica social. Il caso è nato per un tweet del giornalista de la Repubblica Paolo Berizzi, che da tempo si occupa della galassia neofascista italiana, che proprio a Verona ha una delle città chiave. Berizzi, commentando il nubifragio, scrive su Twitter: “Sono vicino a Verona e ai veronesi per il nubifragio che ha messo in ginocchio la città. I loro concittadini nazifascisti e razzisti che da anni fomentano odio contro i più deboli e augurano disgrazie a stranieri, negri, gay, ebrei, terroni, riflettano sul significato del karma”. L’uscita del giornalista è stata immediatamente criticata, dai veronesi e non solo, per aver messo in relazione l’evento meteorologico che ha sconvolto la città con la presenza di frange estremiste. Inoltre quel “karma” che secondo il ragionamento di Berizzi dovrebbero pagare solo i razzisti e fascisti, in realtà ha colpito tutti i cittadini, anche quelli vittima dell’odio nazifascista. In molti hanno chiesto un intervento duro dell’Ordine dei giornalisti, mentre sul caso è intervenuta anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: “Solo io reputo gravissimo e inaccettabile che un giornalista si esprima con simili termini nei confronti di una comunità colpita da una calamità? Ma un briciolo di vergogna no?!”.
Da liberoquotidiano.it il 24 agosto 2020. Secondo Paolo Berizzi, il giornalista di Repubblica e L'Espresso, l'ondata di maltempo che ha messo in ginocchio Verona è frutto del "karma", una punizione divina per "i nazifascisti e i razzisti" che popolano la città. Una posizione che ha scatenato la rabbia dei veronesi sui social e lo sconcerto anche di molti politici, tra cui Guido Crosetto che laconico si chiede: "Stava bene quando lo ha scritto", e più di un leghista che ha chiesto al gruppo Espresso e all'Ordine dei giornalisti di sanzionare il cronista. Il dubbio sollevato da Crosetto è lecito, anche se Berizzi, da anni impegnato in inchieste sui gruppi della estrema destra italiana, non è nuovo a queste "provocazioni". Verona nelle ultime ore è stata allagata da grandine e diluvio, costringendo il governatore del Veneto Luca Zaia a firmare lo stato di emergenza. Ma Berizzi non trova di meglio che twittare queste parole: "Sono vicino a Verona e ai veronesi per il nubifragio che ha messo in ginocchio la città. I loro concittadini nazifascisti e razzisti che da anni fomentano odio contro i più deboli e augurano disgrazie a stranieri, negri, gay, ebrei, terroni, riflettano sul significato del karma". Decisamente gratuite e fuori luogo, anche per chi crede nel karma (che evidentemente pende a sinistra). La città di Verona è in ginocchio per la violentissima grandinata che ha obbligato il governatore del Veneto. Sono vicino a #Verona e ai veronesi per il nubifragio che ha messo in ginocchio la città. I loro concittadini nazifascisti e razzisti che da anni fomentano odio contro i più deboli e augurano disgrazie a stranieri, negri, gay, ebrei, terroni, riflettano sul significato del karma.
Vittorio Feltri contro Marco Travaglio: "Chi di giudici ferisce...", lo scontro sulla lingua italiana. Libero Quotidiano il 17 agosto 2020. Scontro a distanza tra Vittorio Feltri e Marco Travaglio, con tanto di platea social ad assistere alla sfida sulla lingua italiana. Ad iniziare è il direttore del Fatto Quotidiano, che nel suo editoriale dedica un paragrafo al direttore di Libero, intitolato “senti chi pirla”. Travaglio riporta due citazioni da Libero del 14 agosto: “L’ignoranza dell’esecutivo in 20 pagine di rapporto” è uno dei titoli in prima pagina, mentre “chi di giudici ferisce, di giudici perisce” è di Vittorio Feltri. “La virgola fra il soggetto e il verbo: e danno degli ignoranti agli altri”, è l’appunto di Travaglio che viene mal digerito dal direttore di Libero. Il quale infatti replica via social: “Caro Pirla Travaglio, chi di giudici ferisce, di giudici perisce. Per te ferisce non è verbo? Andiamo bene”.
Mail di replica di Gaetano Pesce al Fatto l'8 agosto 2020. Egregio direttore, la prego pubblicare la mia risposta alla lettera del sig. Lerner uscita lunedì sul suo giornale. Sapevo che la mia nota su Repubblica avrebbe fatto reagire con ragli i molti ritardati reazionari che ancora vivono nel nostro Paese. Questo conformista ha cambiato le mie parole per spiegare quello che non è riuscito a fare con il suo lungo scritto: purtroppo molti cosiddetti giornalisti del mondo non informano più, ma cercano di formare i lettori alle loro idee, anche quando queste sono frutto di ideologie ormai obsolete. Il sig. Lerner, che non ho mai sentito nominare, mi ricorda coloro che usano l'intelletto per scopi nostalgici e reazionari, quelli che esaltano la mediocrità perché in essa possono emergere. L'immagine che mi viene in mente è quella di non so più quale girone dell'Inferno di Dante dove, forse gli invidiosi, sono immersi fino alla bocca nella m. liquida e la regola tra gli immersi è non muoversi e non fare l'onda, perché con essa la m. entra loro in bocca. Quel che è certo è che il sig. Lerner non ama il futuro né i nuovi valori che il Tempo attuale veicola. Vorrei ricordare L'Italia in Croce, un mio progetto (nella foto, e relativo scritto) del 2011 per la Triennale di Milano: "L'Italia in Croce riguarda le responsabilità di un certo mondo politico che ama passare il tempo parlando invece di proporre progetti utili al Paese e consentirgli di avanzare nel futuro e far fronte alla competizione internazionale. L'Italia ha bisogno di una classe politica attiva, giovane, attenta ai cambiamenti del Tempo. Una classe politica che onori il valore della creatività e del lavoro. Quello che mi aspetto da questa installazione è che sia capace di sollevare un dibattito tra personalità "sane"della vita pubblica e non, evitando i "mediocri", i parolai, i vecchi combattenti di partito, i conformisti, i burocrati e tutti quelli che con la loro inattività, moralismo, egoismo e conservatorismo hanno "messo in Croce" il Paese". Gaetano Pesce
Risposta di Gad Lerner. Non raglierò ulteriormente, sebbene l'asino sia tra i miei animali prediletti insieme al cammello, perché mi pare che lo scritto dell'architetto Pesce si commenti da sé. Solo gradirei indicasse dove e in quali termini avrei cambiato le sue parole, riportate ampiamente e con estrema cura tra virgolette per darne conto ai lettori. Ma temo che in proposito resterà muto come un pesce.
Da liberoquotidiano.it il 18 ottobre 2020. Altissima tensione a Ballando con le Stelle, il programma di Milly Carlucci su Rai 1, nella puntata di sabato 17 ottobre. Tensione tra Alessandra Mussolini e Fabio Canino. Quest'ultimo, come già accaduto, ha giudicato la performance della Duciona e di Maykel Fonts in modo lapidario: "È stata migliore quella dell'altra volta". Punto e basta. Dunque, chiamato a essere meno superficiale nel giudizio, Canino ha sbottato: "Lei in passato ha detto in tv che è meglio essere fascisti che frocio". Insomma, Canino ha svelato le ragioni del suo rancore verso la Mussolini. Gelo in studio. "Potrebbe anche scusarsi per quello che ha fatto", ha poi aggiunto Canino, supportato da Selvaggia Lucarelli. E la Mussolini, di fatto, si è scusata: "Ho detto una frase fuori luogo. In quella trasmissione c’era ospite anche Vladimir Luxuria. Quando una persona ti accusa di essere fascista, non lo fa come per dirti sei bella, lo fa per attaccarti e io impazzisco quando mi attaccano per quello che rappresento", ha sottolineato la Mussolini. Pace fatta?
"Potrebbe scusarsi". Fabio Canino attacca la Mussolini. A Ballando con le stelle sono ancora scintille tra Alessandra Mussolini e la giuria: stavolta è Fabio Canino a rivangare un vecchio episodio chiedendo le scuse dell'ex parlamentare. Francesca Galici, Domenica 18/10/2020 su Il Giornale. Alessandra Mussolini a Ballando con le stelle è ogni settimana protagonista di una discussione. Quando non è Selvaggia Lucarelli è qualcun altro ad attaccare la nipote del Duce, che probabilmente all'inizio si era illusa di andare nel programma di Rai1 solo per ballare e per essere giudicata per quanto mostrato in pista. Invece no e ogni settimana nasce una nuova polemica per qualcosa che la Mussolini ha detto o avrebbe detto in passato e che potrebbe eventualmente dire in un prossimo futuro. L'ultimo in ordine di tempo a puntare il dito contro Alessandra Mussolini è stato Fabio Canino e non perché ha sbagliato un passo o perché ha ballato fuori tempo, ma per qualcosa che la ballerina improvvisata ha detto anni fa. Al termine della sua esibizione con il ballerino professionista cubano Maykel Fonts, Fabio Canino ha liquidato l'esibizione di Alessandra Mussolini con un commento lapidario: "È stata migliore quella dell'altra volta". Nient'altro da aggiungere per lo scrittore nei confronti della ballerina, tanto che è stato esortato a essere meno parco di parole, visto che il suo compito è quello di giudicare. È a quel punto che Fabio Canino è andato a ripescare una frase di Alessandra Mussolini di tantissimi anni fa, sbattendogliela in faccia con livore: "Lei in passato ha detto in tv che è meglio essere fascisti che froci". Ecco, quindi, che come sempre il discorso viene spostato su argomenti extra rispetto alla trasmissione. Inevitabile l'intervento di Selvaggia Lucarelli a sostegno di Canino. "Potrebbe anche scusarsi per quello che ha fatto", ha proseguito Fabio Canino con rancore verso Alessandra Mussolini, che ancora una volta si trova sotto processo per le sue parole e non per le sue piroette in un programma che si chiama Ballando con le stelle. "Ho detto una frase fuori luogo. In quella trasmissione c’era ospite anche Vladimir Luxuria. Quando una persona ti accusa di essere fascista, non lo fa come per dirti sei bella, lo fa per attaccarti e io impazzisco quando mi attaccano per quello che rappresento", ha replicato Alessandra Mussolini, scusandosi di fatto per quella frase infelice. Era il 2006 e l'ex parlamentare era ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta. In studio la discussione viaggiava tra i Pacs e l'immigrazione clandestina. Lo scontro fu acceso, in quell'occasione in studio era presente anche Antonio Di Pietro che apostrofò la Mussolini come fascista. Sono passati più di 14 anni da quel giorno di marzo, con le scuse di Alessandra Mussolini si potrà dire conclusa la vicenda?
"Meglio fascista che gay". Così è nato l'astio fra la Mussolini e Luxuria. Sono trascorsi 14 anni da quanto Alessandra Mussolini e Vladimir Luxuria si scontrarono a Porta a porta, una discussione riportata alla luce da Fabio Canino a Ballando con le stelle. Francesca Galici, Lunedì 19/10/2020 su Il Giornale. Acora una volta, a Ballando con le stelle al centro delle polemiche ci è finita Alessandra Mussolini. Durante l'ultima puntata, l'ex parlamentare col cognome importante, che per alcuni fa rima con scomodo, si è scontrata con Fabio Canino, giudice della puntata evidentemente prevenuto nei suoi confronti. Il giudizio del conduttore è andato oltre la mera opinione sul ballo appena concluso ma si è spostata su un episodio del 2006 che ha visto protagonista Alessandra Mussolini e Vladimir Luxuria. Da quella puntata di Porta a porta è nato un lungo filone di discussioni e di frecciate che si è concluso poco tempo fa e che ha avuto l'epilogo definitivo proprio su Rai1, con il mea culpa della Mussolini. L'episodio da cui tutto ha avuto origine è uno scontro dai toni molto accesi accaduto nel marzo 2006, ormai 14 anni fa. Nel salotto di Bruno Vespa in quel periodo si dibatteva dei Pacs e di immigrazione. Presenti in studio, oltre ad Alessandra Mussolini e a Vladimir Luxuria, anche l'ex ministro della Giustizia Roberto Castelli e Antonio Di Pietro, a quei tempi leader di Italia dei valori. Lo scontro è stato acceso fin dall'inizio su posizioni facilmente immaginabili. Per Antonio Di Pietro, quella fu la prima volta nel salotto di Vespa. Un debutto di fuoco per lui, che in quell'occasione ebbe una discussione vibrante proprio con Alessandra Mussolini. Lo scontro inizialmente più forte, però, è stato quello tra l'ex ministro Castelli e Vladimir Luxuria, che il Guardasigilli chiamò in più occasioni "signor Guadagno", suo vero cognome. Vladimir Luxuria rispose senza scomporsi, senza mostrare risentimento e la discussione andò avanti con l'intervento di Alessandra Mussolini: "Mi scusi, non voglio essere offensiva, ma che vuol dire transgender? Transgender, transgendarmi, sembra Schwarzenegger... Usiamo termini italiani". Prima schermaglia tra le due, caduta però rapidamente con il cambio di argomento che spostò il dibattito verso le tematiche migratorie. Da una parte si schierarono Castelli e la Mussolini e dall'altra Luxuria e Di Pietro. Dopo aver elencato le motivazioni per le quali, secondo lei, l'immigrazione clandestina potesse rappresentare un rischio per il Paese, Alessandra Mussolini venne etichettata come "fascista" da Antonio Di Pietro. Immediata la replica di Mussolini: "E me ne vanto!". È a quel punto che intervenne Luxuria: "Una che si vanta di essere fascista, mi preoccupa. Ci metterete al confino?"". Lo scontro ormai era acceso. "A me preoccupa chi brucia le bandiere, chi grida "dieci, cento, mille Nassyria, vergogna, vergogna, vergogna. Si veste da donna e pensa di poter dire quello che vuole. Meglio fascista che frocio!", replicò la Mussolini dando inizio a uno degli scontri televisivi e politici più noti. A distanza di 16anni, punzecchiata da Fabio Canino e da Selvaggia Lucarelli, Alessandra Mussolini che già si era chiarita in passato con Vladimir Luxuria, è tornata sull'argomento: "Questa cosa non andava detta. Sicuramente, sia da parte mia che da parte di Vladimir, ci sono state frasi completamente sbagliate e fuori luogo". Fine?
Roberto Mallò per davidemaggio.it il 27 settembre 2020. Prime scintille tra Alessandra Mussolini e Selvaggia Lucarelli. Nella seconda puntata di Ballando con le Stelle 2020, la concorrente non ha infatti risparmiato critiche al vetriolo alla giurata, sottolineando in maniera ironica che, la scorsa settimana, “ha avuto una parola buona per tutti” e che ha giudicato l’avversario Paolo Conticini soltanto in base all’ormone: “Cosa vuol dire che un uomo a cinquant’anni è figo e può fare quello che vuole, mentre una donna no? Che si deve mettere un saio?“. La discussione ha avuto inizio al termine di un cha cha cha eseguito con Maykel Fonts (con tanto di bacio sfiorato sul finale). Senza aspettare che Milly Carlucci la coinvolgesse, Alessandra – che aveva promesso di parlare anche a costo di rischiare l’eliminazione – ha dunque indossato una collana d’aglio portata da Guillermo Mariotto ed ha cominciato ad attaccare la Lucarelli: “Devo dire una cosa a Selvaggia (…) Le donne possono e devono fare quello che vogliono. Non c’è l’età. Altrimenti cominciamo a dire la scollatura a 20, a 30, a 40, a 50, a 60… poi, Pablito, Pablito, Pablito (Paolo Conticini, ndDM) può fare… Che cosa significa? Uomini e donne…Le donne osano, gli uomini posano“. Invitata da Milly a dire la sua (“Sei stata chiamata in causa“), Selvaggia ha cercato di rispondere a tono all’accusante: “Mi sembra che qualsiasi cosa dica finisca per cadere nella trappola della Mussolini, che cerca di buttarla in tutti i modi in caciara e rissa. Addirittura tenta di giocarsi la carta del femminismo“. Un parere che ha generato un’altra replica da parte di Alessandra: “Caciara? Non è femminismo.. Ecco vedi? Questo detto da una donna è molto brutto. Non è femminismo. E’ capire che la donna e l’uomo hanno la stessa possibilità, se non di più. (…) Mi dispiace, non capisci, ma io voglio puntualizzare perché altrimenti ritorniamo a “Pablito va bene” … Ma noi ci dobbiamo scollare, minigonna… (…) Minigonna Selvaggia! Pelvica, devi diventare pure tu“. Mentre Alberto Matano ha preso le difese della Lucarelli (“Dire a una donna giornalista come Selvaggia che fa una distinzione tra le donne non mi sembra giusto. Perché nel suo lavoro di giornalista esprime invece una galleria valoriale molto importante sulla donna. Oggi c’è bisogno di opinioni e punti di vista come il suo”), la stessa Selvaggia ha invitato la donna – che continuava ad accusarla di essere contro le donne – a comportarsi più “dignitosamente”: “Quest’aria da popolana perenne, tu pensi che alla fine paghi tutto questo? Alessandra possiamo anche cercare di parlare adottando un registro leggermente più elegante? (…) Basta con questo discorso sulla donna. Stiamo parlando di ballo. Sempre questa volgarità, questi eccessi“. Sfinita dalla Mussolini, che continuava a paventare una disparità di trattamento adottata dalla giurata tra gli uomini e le donne, Selvaggia ha dunque tagliato corto: “Io rinnego quello che ho detto, tu rinnega tutto il resto che sarebbe pure ora, dai Mussolini. Stai buona. Le lezioni di vita e di valori dalla Mussolini, no. Lezioni di vita da te, no. Abbi pazienza (…) Milly non scomodiamo il femminismo, per cortesia, perché io le lezioni da Alessandra Mussolini su questo fronte non le voglio“. Alla fine dei giochi, la Carlucci ha sedato la rissa, invitando le due a parlare di ballo, con Alessandra furente (“Non accetto che tu mi dica cose che vanno oltre la trasmissione“) e Selvaggia sul piede di guerra: “Io dico quello che voglio“. E’ il primo di una serie di lunghi scontri?
Da liberoquotidiano.it il 4 ottobre 2020. Siamo a Ballando con le Stelle, il programma di Milly Carlucci in onda su Rai 1, la puntata è quella in prime time di sabato 3 ottobre. E in scena, ancora una volta, va lo scontro tra Alessandra Mussolini e Selvaggia Lucarelli, che ha seguito a stretto giro la tregua armata nello studio di Mara Venier, a Domenica In. Le due, dalla Carlucci, hanno nuovamente discusso animatamente, fino a quando la Duciona ha estratto una mascherina che portava l'immagine di un divieto di sosta, una protesta contro Selvaggia, a cui non voleva rispondere. Dunque, dopo aver indossato la mascherina, ecco che la Mussolini se la strappa e la lancia sul banco dei giurati. E la Lucarelli è schizzata: "Riprenditela, non è igienico fare così". "Non mi importa", ha replicato la Duciona. "Dovrebbe importartene, c'è una pandemia in corso. Se evitassi tutto quello che c’è intorno a te, l’esagerazione della quale ti circondi, potresti fare un ballo dignitoso, più onesto", ha picchiato durissimo la Lucarelli. E ancora, la Mussolini: "Cosa c’è attorno a me? Vedi volgarità? C’è solo voglia di divertirmi!". Dunque, Selvaggia è passata all'insulto: "Sembri una vaiassa". "Questo è grave", "Allora vai a ballare nei salotti viennesi". Cala il sipario sull'ultima brutale rissa.
Da liberoquotidiano.it il 4 ottobre 2020. Lo scontro si trasferisce a Domenica In. Si parla di Alessandra Mussolini e Selvaggia Lucarelli, che nella serata di ieri, sabato 3 ottobre, si sono nuovamente affrontate a brutto muso a Ballando con le Stelle di Milly Carlucci, su Rai 1. Selvaggia ha apostrofato la Duciona con il termine di "vaiassa", la Mussolini ha inscenato uno show con mascherina con segno dello stop, poi tolta dal volto e scaraventata contro la giornalista del Fatto Quotidiano. E ora, eccole tutte e due a Domenica In, sempre su Rai 1, pronte a ripartire in un duello rusticano che pare destinato a continuare in eterno. Gli animi si scaldano subito, e la Mussolini trascende, definendo "bestia" Selvaggia (salvo poi chiedere "rispetto). Da par suo la Lucarelli continuava a insistere sulla non-volgarità del termine "vaiassa", che non sarebbe un insulto anche se ci assomiglia. E parecchio. Palpabile l'imbarazzo di Mara Venier, che non sapeva come contenere le due rivali. E lo spettacolo continua.
Daniela Seclì per tv.fanpage.it il 25 ottobre 2020. Anche la sesta puntata di Ballando con le stelle 2020 ha visto andare in scena uno scontro tra Alessandra Mussolini e Selvaggia Lucarelli, per via di una differenza di vedute sulle donne e sui sacrifici che fanno pur di mantenere unita la famiglia. Tutto è nato da una confessione della concorrente di Ballando con le stelle, in un video andato in onda poco prima della sua esibizione. Ecco quanto ha dichiarato. Dal 1989, Alessandra Mussolini è sposata con Mauro Floriani. La concorrente ha iniziato il suo discorso parlando di quello che sua madre faceva per ignorare i tradimenti del marito. Si tingeva i capelli biondi come quelli dell'amante del suo compagno, in modo da convincersi che i capelli trovati sui vestiti fossero i suoi. Maria Scicolone, tuttavia, divorziò dal marito Romano Mussolini quando Alessandra aveva 4 anni: "Per me è stato un fatto traumatico e non vorrei mai fare provare ai miei figli quello che ho provato io. È dura perché a volte sarebbe più facile dire ciao e non condanno chi lo fa, io non ho più certezze". Poi ha parlato dell'amore che prova per Mauro Floriani, che diversi anni fa fu coinvolto in uno scandalo: "Io non potrei vivere senza mio marito, senza i miei figli. Sarebbe per me un fallimento. La famiglia va puntellata ogni giorno. Non la puoi trascurare. Non è un costo. Lo sarebbe se non ci fosse l'amore. Io ho l'amore per i figli e per mio marito". Rossella Erra, che riporta in studio il parere dei social, si è complimentata con lei: "Riguardo al dolore che le donne portano sulle spalle, Alessandra è un riferimento che ogni donna può fare proprio". Selvaggia Lucarelli è saltata sulla sedia. Si è detta subito contraria: "Scusate non facciamo passare che la donna che si porta la sofferenza sulle spalle sia un modello, ognuno sceglie nella vita quello che vuole sopportare e tollerare. Non facciamo passare questo messaggio. Io ho sentito in quella clip che non puoi vivere senza tuo marito. In realtà, possiamo sempre vivere senza un marito. Si tratta di fare delle scelte. Abbiamo le risorse per farcela anche senza un uomo. È un messaggio sbagliato". Alessandra Celentano ha chiesto un parere in proposito a Milly Carlucci. La conduttrice ha detto di rispettare le scelte di tutte le donne: "Io penso che ognuno scelga il proprio percorso. Può esserci una donna che ha bisogno di aggrapparsi ai propri affetti e la donna che anche nella dissoluzione dei propri affetti, riesce a mantenere la propria forza e identità". Roberta Bruzzone ha colto l'occasione per mandare un messaggio alle donne: "Non siete tenute a sopportare croci e nemmeno corna, ricordatevelo sempre. La vostra vita appartiene a voi, siete libere di fare le scelte che volete. Tentiamo di superare questo Medioevo culturale. Voglio dare questo messaggio in generale". Alessandra Mussolini ha concluso: "Sembrate dei robot, ci sono anche dei sentimenti".
Emiliana Costa per leggo.it l'8 novembre 2020. Su Leggo.it gli ultimi aggiornamenti. Ballando, incidente in diretta: Alessandra Mussolini si sente male durante l'esibizione e si accascia sul pavimento. Interviene Milly Carlucci. Pochi minuti fa, Alessandra Mussolini si è esibita con il maestro Maykel Fonts nella prova speciale, una coreografia country con una serie di prese piuttosto impegnative. Alla fine dell'esibizione, Alessandra Mussolini e Maykel Fonts mostrano ancora una volta alla giuria una delle prese. Ma è a quel punto che avviene il piccolo incidente. La concorrente scivola durante l'esercizio e rischia di sbattere il viso sul pavimento. Fortunatamente, il maestro l'afferra e tutto finisce per il meglio. Non è tutto. Durante la seconda esibizione, Alessandra Mussolini si sente male e si accascia sul pavimento. Interviene Milly Carlucci: «Datemi un bicchiere d'acqua». Poi manda la pubblicità. Rientrati in studio, Alessandra Mussolini è seduta su una sedia. Milly Carlucci spiega l'accaduto: «Alessandra ha avuto un calo di pressione. Oggi non aveva mangiato, perché aveva paura di sentirsi male con la presa e si è sentita male. Ora sta bene».
Da liberoquotidiano.it l'8 novembre 2020. I soliti hater si scatenano contro Alessandra Mussolini. "Ha fatto pure la candela...": la giudice di Ballando con le stelle Carolyn Smith plaude all'esibizione della Mussolini e Maikel Fonts. Tanto coraggio nonostante qualche errore, ha detto la coreografa dopo la performance country. Ma su quella presa acrobatica si sono subito avventati gli hater. "È finita a testa in giù come il nonno", è uno dei tweet che si leggono sui social. "Coreografo della Mussolini. Silenzioso e eroico partigiano", "Però cosi non vale, la Mussolini è avvantaggiata!", scrivono alcuni utenti che ricordano la fine del Duce a piazzale Loreto in un parallelismo barbaro e intollerabile. Cosa replicherà la Mussolini?
Da leggo.it il 7 ottobre 2020. Attacco senza precedenti a Selvaggia Lucarelli sul web. «Oggi - scrive la giornalista sui suoi profili social - una pagina da due milioni e mezzo di utenti ha pubblicato il video di un tizio (ha 25 000 follower) che fa la pipì su una mia foto alla stazione di Torino offrendo duemila euro a chi mi avrebbe taggata più volte. (arrivati circa 20 000 tag col mio nome). Va così». Un episodio che suscita indignazione e che ha portato poi la pagina incriminata a scusarsi. Come spiega nelle stories di Instagram, Lucarelli aveva già visto il video in cui qualcuno faceva i bisogni su una sua foto alla stazione di Torino e aveva scelto di procedere per vie legali denunciandolo. Non aveva pubblicato nulla a riguardo per evitare di fargli pubblicità, ma ha cambiato idea quando si è accorta che una pagina da due milioni e mezzo di utenti aveva condiviso il video per soldi. Alla denuncia legale è subentrata quella pubblica perché la pagina in questione è rivolta a «ragazzini» e invitava a seguire «questo pazzo». «Lo squallore di questa vicenda non è stato tanto nell'iniziativa ma nel seguito che ha avuto e della promozione ricevuta da una pagina che ha più di due milioni di ragazzini che la seguono. Ricordo a tutti quelli che pensano di rimanere impuniti che io non lascio passare nulla», continua ricordando le condanne per diffamazione a due youtuber novaresi che in un video del 2017 l'avevano presa di mira con battute sessiste.
Dagospia l'8 agosto 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ma che due coglioni tutto questo tripudio femminile che dovrebbe offendere le donne tipo “viva Francesca libera da Silvio”, titolo di un articolo sul Fatto Quotidiano scritto da Selvaggia Lucarelli, come se Silvio avesse costretto, sequestrato la povera Pascale. Libera sì, se ne è andata quando voleva e con i soldi di Silvio (mai una donna che in nome dell’indipendenza rinunciasse allo standard di vita datole da un uomo ricco), più libera di così si muore (sempre in yacht ci mancherebbe). Ma che paternalismo, che atteggiamento sprezzante anche verso la Pascale che si finge di difendere giusto per saltare su un pulpito e un piedistallo morale, cito sempre la Lucarelli: “Sono eterosessuale, ma se avessi trascorso 15 anni con Silvio Berlusconi oggi piacerebbero le donne anche a me. In realtà mi piacerebbero anche i lampadari e gli gnu, qualsiasi cosa tranne gli uomini”. Ancora come se la Pascale fosse una cerebrolesa, incapace di intendere e di volere, e con un sottinteso (va con le donne perché traumatizzata da Silvio) che se lo avesse scritto la Meloni sarebbe stata pura omofobia. Tra l’altro scritto dalla Lucarelli che ai suoi ex ha dedicato un libro (inutile) non proprio entusiasta, Dieci piccoli infami (dieci, mica uno come la Pascale: minchia se li trovi tutti tu fatti due domande, ma forse adesso la Lucarelli ha trovato Biagiarelli, sarà uno gnu), mentre Silvio alle sue ex almeno regala milioni, a differenza dei dieci della Lucarelli, e forse questo non le va giù. Baci! Massimiliano Parente
Dagospia l'8 agosto 2020. Sandra Amurri: Su Libero, il prestigioso economista, Antonio MariaRinaldi: M'annoia.. “Fiorella colpita e affondata”.
Su Il FQ Selvaggia Lucarelli: “...la povera Marta Fascina (neo compagna di B ), chiusa in villa con lui, deve essersi fatta due palle così grandi che ora si fidanzerà con Fiorella Mannoia”. Satira convergente da “Novella 3000”. Trionfo dell’ eleganza! Povero il “mio” ex giornale!
Selvaggia Lucarelli: I licenziati livorosi, che triste categoria. Peggio però sono quelli che fingono di non capire una battuta e strumentalizzano il femminismo e la solidarietà femminile per attaccare qualcuno. (la Mannoia che è parecchio più intelligente di te l’ha capita senz’altro) Peggio ancora sono quelli che se ne stanno zitti finché prendono il loro stipendio in un giornale, poi quando vengono mandati via si scoprono improvvisamente coraggiosi e sputano veleno su ex colleghi. Amurri, fatti una vita.
Sandra Amurri: “Selvaggia Lucarelli ciò che scrivi, nel tono e nella sostanza ti racconta perfettamente. Per tua informazione io non sono stata licenziata, me ne sono andata da un giornale che esiste, anche grazie a me e permette a te di scrivere ciò che scrivi . Ti informo anche, evidentemente le tue fonti sono fasulle, che non sono mai stata zitta perché pagata, come era mio diritto da contratto ma non rivelerò altro perché, a differenza di te, il mio stile mi vieta di pubblicare messaggi ed email, compresi quelli che invii tu su chi ti paga. Sulla Mannoia, non dovresti neppure nominarla, l ironia ti salverà la vita, peccato che tu la ignori e la sostituisca con battute banali al pari di quelle del leghista, grevi e volgari. Infine, sappi che di ciò che hai scritto qui, essendo totalmente falso e diffamatorio, ne risponderai nelle sedi competenti, così avrò il piacere di conoscere le tue “autorevoli” fonti”.
Dagospia il 28 settembre 2020. Dall’account twitter di Selvaggia Lucarelli. Aldo Grasso decide di rispondere a un hater che mi accusa di violenza verbale (?), di essere acida (“acido” non esiste), che parla di miei sottofondi macabri (?), di mio giustizialismo (per la verità mi si accusa di eccesso di garantismo) dicendo “E Travaglio”. Un miserabile.
Da forumcorriere.corriere.it il 28 settembre 2020. E dire che ora se cerchi su google Lucarelli... Carlo esce molto dopo. Ma Selvaggia è un mistero da Blu notte: acidume, giustizialismo, perfidismo, violenza verbale, dialettica pacata da scontro, sottofondi macabri, sarcasmi fuori controllo e chi più ne ha più ne metta il tutto condito da rissa social. Alessandro Pagani
LA RISPOSTA A CURA ALDO GRASSO. E Fatto Quotidiano, cioè Travaglio.
Prima Berlusconi, poi Salvini, ora Meloni: per i “buonisti” della sinistra l’insulto è d’obbligo. Marzio Dalla Casta giovedì 6 agosto 2020 su Il Secolo d'Italia. Nostalgia canaglia. Già, e chi se li ricorda più il socialista Rino Formica e il democristiano Nino Andreatta che si beccavano come galli nel pollaio del pentapartito a colpi di «comari di Windsor» e «commercialista di Bari»? Sembrò la fine del mondo in quella Prima Repubblica al tramonto, ma pur sempre ovattata da liturgie complicatissime e dove il grande assente era proprio sua maestà l’Insulto oggi regnante. Bisognerà arrivare a Cossiga prima di vederne sdoganato l’utilizzo. Lo sa bene Achille Occhetto, sbertucciato dall’allora “Picconatore” come uno «zombie coi baffi». La politica cominciava a cambiare pelle e la zampata del Gattosardo ne era un autorevolissimo indizio.
La pretesa di detenere il monopolio dell’insulto. Il resto lo avrebbe fatto la Seconda Repubblica, prima con la liderizzazione dei partiti e poi con la strapotere dei social. Con una costante: la pretesa della sinistra di detenere il monopolio dell’insulto. Anzi, di decidere cosa è insulto e cosa è, invece, libera manifestazione del pensiero e della parola a difesa della democrazia. Categoria, quest’ultima, cui appartengono – ça va sans dire – tutti gli attacchi a Berlusconi, compresi quelli a base di morte, galera ed esilio. È il linciaggio come continuazione della politica con altri mezzi nella mai interrotta celebrazione di Piazzale Loreto. Cosicché quando una testa sbalestrata gli lancia contro un modellino del duomo di Milano spaccandogli la faccia, le solidarietà che arrivano da sinistra risultano un tantinello pelose. Quando la stella del Cavaliere si eclissa, è Salvini a raccogliere il testimone del centrodestra. Se il primo è stato di volta in volta apostrofato come Al Tappone, Psiconano, Caimano, il Delinquente e, infine, B., cioè innominabile, in poco tempo il Capitano ha visto germogliare un florilegio di insulti che non teme confronti. La sua sagoma a testa in giù è visione quotidiana. Buon per lui che i sondaggi evidenziano qualche affanno della Lega a tutto vantaggio dei Fratelli d’Italia. Puntuale, infatti, è scattato il turno di Giorgia Meloni. L’insulto ora tocca lei in quanto pericolo per la democrazia. La bionda leader ha osato resistere alle sirene del mainstream e ora ne sperimenta il “piano B“. L’operazione è già partita. Chissà se i sondaggi di FdI scenderanno per darle una mano. Già, perché in Italia la democrazia funziona così: la destra può anche esistere, purché resti all’opposizione. Diversamente, la si insulta.
"Noi ti ripudiamo", "E andate...". Ed è "lite" in piazza con Salvini. Il segretario della Lega è stato contestato da militanti di sinistra durante un comizio elettorale a Empoli: "Noi italiani orgogliosi di esserlo". Alberto Giorgi, Sabato 08/08/2020 su Il Giornale. "Salvini, Empoli ti ripudia". Questa è l’accoglienza che centinaia di militanti di sinistra hanno riservato al leader della Lega, in terra toscana per un comizio elettorale in vista delle elezioni regionali del 20 e 21 settembre. La tornata elettorale in Toscana – fra quaranta giorni si voterà anche in Liguria, Veneto, Marche, Campania e Puglia – è assai importante a livello nazionale, dal momento che il centrosinistra rischia di capitolare in quattro regioni su sei. E anche di perdere – il che sarebbe un’onta per il Partito Democratico e l’intera sinistra italiana – quella che è storicamente un fortino rosso. Qui, la candidata leghista del centrodestra Susanna Ceccardi cerca il colpaccio che darebbe un colpo durissimo al Conte-bis. In mattinata il numero uno del Carroccio era atteso a Empoli, in via del Giglio, a pochi passi da piazza della Vittoria. Qui si sono radunati numerosi attivisti di sinistra, con il presidio di "Empoli Antifascista". In strada circa duecento persone, appartenenti ai gruppi Csa Intifada e Azione Antifascista, Settembre rosso e del collettivo femminista "Non una di meno", hanno intonato anche Bella Ciao posizionandosi dietro un grande striscione che, appunto, recitava "Salvini Empoli ti ripudia". Come spesso è accaduto – per esempio nel 2019 in occasione delle Regionali in Emilia-Romagna – Matteo Salvini è stato contestato durante il comizio. "Andate a lavorare in cantiere invece di rompere le scatole!", li ha fulminati il capo politico della Lega, che ha voluto così replicare ai contestatori che hanno cercato di interrompere l’evento elettorale a sostegno di Susanna Ceccardi. "Qui non ci sono i fascisti ma italiani orgogliosi di esserlo!", ha aggiunto Salvini, strappando l’applauso della sua gente. Durante il comizio, peraltro, c’è stato tempo anche per un "sipartietto", visto che all’improvviso ha cessato di funzionare il microfono utilizzato da Salvini. Poco prima del blitz dei militanti di sinistra, l’ex ministro dell’Interno aveva ringraziato la prima cittadina empolese Brenda Barnini, del Partito Democratico: "Devo dire grazie al gentilissimo sindaco di Empoli che mi ha dato il permesso di venire..lei è una signora sinceramente democratica". La sindaca dem, infatti, alla vigilia dell’arrivo di Salvini a Empoli aveva invitato la cittadinanza a non organizzare manifestazioni di protesta contro l’arrivo del leghista. Un appello inascoltato.
L'appuntamento delle Regionali. Quello di settembre sarà un appuntamento decisivo per la legislatura e lo scenario politico del Belpaese. Secondo gli ultimi sondaggi, infatti, il centrodestra sarebbe avanti in quattro regioni – Veneto, Liguria, Marche e Puglia – contro le due che il centrosinistra dovrebbe riuscire a conservare (Toscana e Campania). Però c’è un "però". La stessa Toscana, infatti, non è più “sicura” per la sinistra, visto che Susanna Ceccardi viene rilevata tra il 38,5% e il 42,5% dei voti, mentre Eugenio Giani tra il 44 e il 48%. Certo, il candidato del Pd è davanti, ma da qui al 20 e 21 settembre il gap si potrebbe colmare.
Da liberoquotidiano.it l'1 agosto 2020. Matteo Salvini importunato in spiaggia. Il leader della Lega non trova pace neppure fuori dal Parlamento, dove c'è sempre un piddino in agguato. È accaduto anche domenica 26 luglio sulla spiaggia di Milano Marittima quando la vicesindaco Pd di Proserpio, Veronica Proserpio, si è avvicinata all'ex ministro per attaccare briga. "Rovina il nome di questa bellissima città" , dice la dem al leader della Lega nel video postato su Facebook. Ma Salvini non si scompone e replica: "Fatti un bagno che ti rilassi". "Sono rilassatissima, sono in vacanza da 15 giorni", controbatte ancora la Proserpio. Ma non è tutto perché il vicesindaco in cerca di notorietà ha poi rilanciato il filmato sui suoi social commentando: "Non ce l’ho proprio fatta. Mi avvicino sorridendo al cazzaro verde e gli dico di vergognarsi per le sue esternazioni... Il seguito è nel video!!!". La Proserpio, invece di venire ripresa per il modo di fare politica, è stata addirittura elogiata dal sindaco Barbara Zuccon, vicina a Fratelli d'Italia, ma parte della stessa lista civica della dem: "Veronica ha fatto bene – ha spiegato il primo cittadino - Se fossi stata presente il video non sarebbe finito in quindici secondi. Anch’io pur essendo distante dal Pd non amo le esternazioni di Matteo Salvini. Non tollero i suoi comportamenti, come non mettere la mascherina".
Lo sfogo dell’ex vicesindaco dopo la lite con Salvini. Notizie.it il 09/08/2020. L'ex vicesindaco di Proserpio si sfoga dopo la lite con Salvini: "Pressioni dai piani alti della Lega per arrivare alle mie dimissioni". La lite con Matteo Salvini ha segnato il destino della vicesindaco Veronica Proserpio, che ora si ritrova fuori dal Comune in cui lavorava e minacciata da seguaci della Lega. In un video, la vicesindaco si sfoga: “Salvini è stato anche educato, sono i suoi seguaci che hanno dato il peggio”.
Lo sfogo dopo la lite con Salvini. “Sono certa che la mia sindaca e il consiglio comunale abbiano ricevuto pressioni dai piani alti della Lega per arrivare alle mie dimissioni”. Così Veronica Proserpio, ormai ex vicesindaco del comune che porta il suo cognome, si sfoga dopo la lite avvenuta con Matteo Salvini in spiaggia a Milano Marittima. Con lei, il destino è stato severo: le conseguenze della lite con l’ex ministro dell’Interno sono state pesanti. In un attimo, si è ritrovata fuori dal Comune di Proserpio in cui lavorava e investita da una gogna mediatica. Così, in un video, Veronica Proserpio si sfoga, e racconta cosa ha vissuto. “Devo dire che Salvini è stato anche educato -commenta la vicesindaco-. Sono i suoi seguaci che hanno dato il peggio sui social, arrivando a minacciare di morte anche mia mamma e i miei figli, tralasciando tutti gli insulti a sfondo sessuale. Per questo -aggiunge la Proserpio- ho deciso di presentare denuncia nelle prossime settimane”.
Ex vicesindaco di Proserpio minacciata. Se da parte della Lega è arrivato il peggio, ci si chiede come abbia reagito il suo Pd. “Ho ricevuto attestati di vicinanza da alcuni consiglieri regionali dei 5 stelle -commenta Veronica-. Ma oltre a pochi messaggi da esponenti locali, a livello nazionale nessuno mi è stato vicino”.
Da liberoquotidiano.it il 4 agosto 2020. Si chiama Paola Pessina e, spiega Giorgia Meloni sui social, "mi dicono che questa signora sarebbe vicepresidente di un'organizzazione filantropica, ex sindaco (di sinistra) di Rho e docente" (Rho è un comune alle porte di Milano). E perché mai la leader di Fratelli d'Italia si occupa di lei? Presto detto, perché l'ex sindaca si è prodotta in un discreto orrore sui social network, roba che se lo avesse fatto un leghista o uno di FdI autorevoli commentatori ne avrebbero parlato con sdegno per giorni. E invece no. Qui, se non ne parla la Meloni non ne parla nessuno. Il punto è che la Pessina ha pubblicato su Facebook una foto della Meloni nel corso di un intervento in aula alla Camera, commentando: "Giorgia Meloni sta diventando calva. L'eccesso di testosterone oltre che cattivi fa diventare brutti". Un vergognoso delirio, insomma. Stigmatizzato dalla leader di FdI con queste parole: "Non mi interessano gli insulti sul piano fisico, tuttavia leggere frasi del genere da chi dovrebbe essere d'esempio lascia un po' delusi e perplessi", conclude la Meloni.
"Te e tu sorella...": gli insulti di Veronesi contro Giorgia Meloni. Sandro Veronesi si è scagliato con violenza contro Giorgia Meloni per i suoi tweet in difesa di Matteo Salvini dopo il via libera a procedere del Senato nei confronti dell'ex ministero dell'interno. Francesca Galici, Domenica 02/08/2020 su Il Giornale. In Italia il libero pensiero non sembra più essere un diritto. O si aderisce alla corrente sinistra o si diventa in automatico dei nemici, che è lecito insultare e richiamare al silenzio. Giorgia Meloni è da sempre il bersaglio di una certa sinistra che utilizza il doppiopesismo del giudizio. Da anni, infatti, il leader di Fratelli d'Italia è presa di mira al di là dei confini dello scontro politico. Contro di lei si è fatto spesso body shaming, ci sono stati insulti e minacce, contro i quali si sono levati solo timidi atti di solidarietà, rispetto a quando le stesse parole e gli stessi metodi sono stati usati (sbagliando) contro donne di diversa appartenenza politica. L'ultimo attacco contro Giorgia Meloni è stato sferrato dallo scrittore Sandro Veronesi, che ha inveito contro il leader di Fratelli d'Italia per i suoi tweet in favore di Matteo Salvini contro la decisione positiva del Senato di procedere contro l'ex ministro dell'intero. "Vigliacca e traditrice te e tu sorella", scrive Sandro Veronesi, fresco vincitore del Premio Strega 2020 per il suo ultimo lavoro Il Colibrì. Il tomo dalla copertina gialla è tra quelli più in voga sulle spiagge radical chic italiane. Da Capalbio in giù è quasi una moda presentarsi sotto l'ombrellone con il libro di Veronesi, come se fosse uno status symbol di una certa appartenenza intellettuale. Giorgia Meloni, però, stavolta non ci sta e dal suo profilo Facebook denuncia l'attacco violento nei suoi confronti da parte dello scrittore. "Ed ecco a voi la famosa intellighenzia di sinistra, sempre molto attenta al rispetto delle donne, del libero pensiero e del prossimo. P.S. Caro Veronesi, un commento all'altezza dei tuoi libri", ha commentato Giorgia Meloni allegando i suoi tweet incriminati e quello di risposta dello scrittore. Il leader di Fratelli d'Italia è da giorni sotto attacco dopo il suo intervento alla Camera, durante il quale con passione e veemenza ha difeso gli italiani ed espresso il suo parere contrario alla proroga dello stato d'emergenza. In quell'occasione, inaspettatamente, la reazione di Giuseppe Conte è stata una risata, stigmatizzata dal centrodestra che l'ha considerata come una mancanza di rispetto. Il discorso politico di Giorgia Meloni, uno dei più passionali visti negli ultimi anni alla Camera, è stato strumentalizzato con il passare delle ore ed è stato preso di mira in modo indegno con offese personali di ogni tipo, fino ad arrivare al commento di Sandro Veronesi, che rispecchia in pieno il clima attuale del nostro Paese. Per fortuna c'è anche chi la difende, come Rita Dalla Chiesa, che nelle scorse ore le ha espresso la masima solidarietà.
Il Pd impari le buone maniere. La politica ridotta a reality show. La vicesindaco, tronfia della propria superiorità morale, insulta Salvini in spiaggia e se ne va. Poi, non appagata del gesto maleducato, posta il video e insulta di nuovo. Andrea Indini, Sabato 01/08/2020 su Il Giornale. Nel ghigno di Veronica Proserpio c'è tutta la superiorità morale della sinistra. Solo loro possono sentirsi tanto intoccabili da scadere nell'insulto e sentirsi degli eroi per averlo fatto, come se infangare l'avversario (anche in modo bieco) rientri nei loro doveri morali. Tanto che viene derubricata a "bravata" l'incursione della vice sindaco piddì che avvicinatasi a Matteo Salvini, mentre se ne stava tranquillo sotto l'ombrellone di Milano Marittima, se ne esce con "Rovini il nome di questa città" e se ne va via. Nel frattempo un suo sodale riprende l'accaduto e il video finisce sui social con tanto di dida boriosa: "Non ce l'ho proprio fatta. Mi avvicino sorridendo al cazzaro verde e gli dico di vergognarsi per le sue esternazioni...". La Proserpio è un'esponente del Partito democratico. A Proserpio, paesino di meno di mille abitanti in provincia di Como, è stata eletta come vice sindaco. Ha una carica istituzionale, dunque. Dovrebbe essere un esempio per i suoi cittadini e, perché no?, anche per tutti gli altri. E invece non lo è. E quel che è peggio è che questa maleducazione non desta più scandalo. Come siamo arrivati a questo punto? Sia chiaro: il dissenso è giusto e deve essere esternato, ma deve essere teso al confronto. Quello andato in scena sulla spiaggia di Milano Marittima è una baracconata degna di un bambino delle elementari. L'intento è chiaro sin dall'inizio. Altrimenti la piddina non avrebbe chiesto di farsi filmare. Chissà come l'ha pensata? Di sicuro si credeva una super eroina. Altrimenti non avrebbe nemmeno avuto il coraggio di spammare sui social una immagine di sé tanto decadente. Se avesse voluto il confronto, sarebbe andata da Salvini e gli avrebbe detto, anche in modo schietto, cosa non le andava giù della narrazione leghista. Il Capitano avrebbe poi risposto per le rime. Magari si sarebbero pure accesi un po' i toni, come accade quando parli di politica (o di calcio) sotto l'ombrellone o al bar. Sicuramente, i due sarebbero rimasti sulle proprie posizioni e magari, mi piace pensarlo, al termine del battibecco si sarebbero salutati con una stretta di mano, certi entrambi di essere in politica per fare del bene per il Paese. Così non è stato. "Rovini il nome di questa città", si è limitata a dirgli. E se la rideva. Era tronfia in viso per averlo fatto. Una brutta scena, lo ripeto. Come è molto brutto quel "cazzaro verde" su Facebook. L'epiteto, coniato da Andrea Scanzi per vendere il libro che ha scritto e fare la guerra al leghista sui social, (s)qualifica ulteriormente la dem che così facendo appare non solo del tutto priva di contenuti ma anche parecchio maleducata. È l'effetto della politica trasformata in reality. Salvini, che in questo genere di situazioni ci sguazza e spesso le cavalca (come lo scivolone con il presunto spacciatore di Bologna), non si è fatto troppi problemi a liquidarla con una battuta pronta: "Fatti un bagno che ti rilassi". Resta, comunque, l'amarezza. Perché difficilmente la sinistra capirà che è la sua supposta superiorità morale a rovinare il nome non di una singola città di mare, ma di tutto il Paese.
Barbara Savodini per ilmessaggero.it il 9 luglio 2020. A dieci giorni dalla gita domenicale di Lucia Azzolina a Sperlonga (Latina) spuntano su “Diva e Donna” gli scatti della ministra in bikini. Come raccontato dai vicini di ombrellone al lido “Il Pirata”, la numero uno dell'Istruzione in Italia era sola, con un elegante due pezzi blu, i capelli sciolti e lo smalto rosso fuoco. A farle compagnia solo un libro e una rivista. Nonostante le due guardie del corpo presenti e la riservatezza che caratterizza la spiaggia di Bazzano, un paparazzo è riuscito a immortalare alcuni momenti della giornata di relax: un tuffo, una passeggiata a riva e un bagno di sole di un paio d'ore. “Le uniche foto in bikini della ministra dell'Istruzione” strilla in prima pagina “Diva e Donna” anche se, in effetti, qualche altra foto un po' datata era già uscita. L'ultimo numero della rivista, in edicola fino al 14 luglio, è andato a ruba tra i numerosi fan della bella pentastellata anche se il triangolo d'amore tra Belen Rodriguez, Stefano De Martino e Alessia Marcuzzi le ha rubato in parte la scena. Difficile prevedere se la Azzolina tornerà a Sperlonga anche se, data la calorosa accoglienza ricevuta, un bis non è escluso. La Perla del Tirreno, del resto, si conferma una delle più belle località italiane a due passi dalla Capitale: una destinazione paradisiaca, quindi, ma anche comoda per chi, come la ministra, sta lavorando sodo per la ripartenza del mondo scolastico. Nel frattempo i vip affollano le acque più cristalline del Lazio: tanti volti noti del piccolo e del grande schermo stanno facendo la loro comparsa, oltre che a Sperlonga, anche a Sabaudia, San Felice Circeo e Ponza. Il 2020, insomma, ha decisamente riportato in auge le spiagge italiane, da sempre universalmente riconosciute come tra le più belle e accoglienti del mondo.
DAGONEWS il 10 luglio 2020. La ministra Azzolina ieri sera a ''In Onda'' ha detto a Telese e Parenzo: ''Mi sono risentita per il titolo che un giornale online ha scritto. Quando vedrò il sedere di un uomo spiattellato sui giornali con lo stesso disprezzo, poi potremo iniziare a riparlarne. Lei ha visto un titolo sprezzante sulla pancia di Salvini? Il modo in cui è trattata la donna in politica in questo Paese, spesso è vergognoso. Le scuse non le deve fare al ministro Azzolina ma alle tante donne''. Tutta colpa del titolo di ieri sulle sue foto al mare, in cui si menzionava il ''chiappone impiegatizio da lavoro sedentario'', un termine quasi scientifico (non lo è). Povera ministra, per l'ennesima volta non ha studiato! Su questo sito una settimana fa c'era un servizio fotografico di ''Chi'' su Vasco al mare, con il mito del rock che esibiva ''maniglione dell'amore'' ed era dipinto come un ''tortello di Zocca rigonfio''. Potremmo fare decine di esempi su Salvini: con l'adipe in costume al Papeete e sotto al suo girocollo da radical chic in Emilia-Romagna, col pacco strizzato nei boxer mentre dà l'acqua alle piante in terrazzo. Quante pagine scritte su Trump insaccato nel completo da golf, spruzzato di abbronzante arancione, o parrucchinato con ciuffo di saggina? C'è un leader, il nord-coreano Kim Jong-un, che su questo sito viene chiamato direttamente Ciccio Kim. Ma come dimenticare Renzi in barca coi rotoli e in parlamento con la pancia sblusata, e i suoi tentativi annuali di buttare giù i chili di troppo, debitamente documentati su queste pagine? Ci commuoviamo pensando a Berlusconi e Toti che si affacciano dalla clinica dimagrante con imbarazzante tutina, e abbiamo i brividi nel ripensare a Calenda al lago con trippa churchilliana (come piace a lui), e col cigno di fuori. Ma non ce la prendiamo solo coi politici: ecco le foto di Fabio Fazio fuori forma, Gerard Depardieu incapace di essere uno stupratore per il girovita eccessivo…Insomma, carissima ministra che parla di sé in terza persona, nel mefitico regno di Dagospia trionfano le pari opportunità di dileggio. Non le resta che indignarsi con altre testate.
Luca Telese per tpi.it il 14 luglio 2020. “Non mi è piaciuta quella foto. Ma soprattutto non mi sono piaciuti i titoli con cui sono stati accompagnati quegli scatti, soprattutto quelli di di un sito di informazione online…”. Lucia Azzolina è seccata, e non lo nasconde. Le sue foto in bikini blu, sulla spiaggia di Sperlonga sono appena rimbalzate dalle pagine di Diva e Donna (che le ha pubblicate per prima) alla rete, ai siti di informazione, e soprattutto a Dagospia, che prende gli scatti e li incarta alla sua maniera, con un titolo beffardo di quelli che chi è abituato a frequentare il sito conosce bene: “La ministra è in Bikini blu, smalto rosso, chiappone impiegatizio da lavoro sedentario”. E così il ministro della Pubblica istruzione decide di rispondere per le rime, prima con un intervento a In Onda, e poi con una riflessione più articolata, che raccolgo e riporto qui: “Io credo che non sia solo una questione personale. Non riguarda solo me. Si tratta di un certo modo sessista con cui sono sempre trattate le donne, il loro corpo, la loro dignità”. Domanda: “Ma perché c’è qualcosa di diverso dal modo in cui si trattano gli uomini?”. La Azzolina sorride: “Ma stiamo scherzando? Quando mai avete visto il titolo di questo tipo sul corpo di un uomo? Quando mai avete visto discettare, faccio una ipotesi, sul "culone" di un ministro?”. Provo a obiettare che in questi anni sono apparse molte foto, per esempio sulla pancia di Matteo Salvini o sul ministro dell’interno fotografato a letto. Ma il ministro dell’istruzione non ci sta e individua delle differenza tra i casi: “Intanto la metà di quelle foto sono dei selfie che lui stesso, o la sua compagna, scelgono o hanno scelto volontariamente di mostrare al pubblico. E poi – aggiunge la Azzolina – c’è una bella differenza fra pubblicare la foto di qualcuno al mare, magari con qualche filo di grasso in più, e il titolare invece sulla sua fisicità, su un presunto difetto, magari in modo volontariamente irrisorio”. Quindi lei è arrabbiata per questo tipo di titoli? La Azzolina sorride: “Ripeto. Non è una questione personale, è una vicenda che mi fa riflettere su certi meccanismi automatici del mondo della comunicazione, sul mondo in cui si raccontano le donne, e solo loro: quando vedrete le foto di un ministro uomo, o di un leader uomo, e quando leggerete sotto un titolo del tipo "il ministro trippone", allora si potrà dire che gli uomini sono trattati con lo stesso dubbio gusto con cui oggi sono trattate le donne”.
Domanda: “Ma il Movimento cinque stelle non è mai stato tenero con gli avversari. Un deputato pentastellato arrivò a dire a delle colleghe del Pd alla Camera: ‘Siete qui perché sono stati fatti troppi pochi pompini'”. La ministra è netta: “Fu una cosa terribile, e se lei scorre le mie dichiarazioni trova mie parole di condanna per tutte queste espressioni sessiste, e di solidarietà per tutte le colleghe colpite. Però…”. Peró? “Qui non si tratta dell’invettiva di un singolo. Io pongo il tema di come i giornali trattano le donne. Come dei media rappresentano e raccontano il corpo delle donne. Sono entrambi episodi gravi, ma molto diversi tra di loro”.
Pausa. “Ho l’impressione che dovrà passare molto tempo prima che i corpi degli uomini siamo trattati nelle stesso modo dei nostri”. Il ministro saluta, se ne va, ma guardandola si capisce subito che la sua battaglia culturale è appena iniziata.
Luca Sablone per ilgiornale.it il 14 luglio 2020. L'articolo pubblicato da Dagospia ha immediatamente scatenato la dura reazione del mondo del politically correct: Roberto D'Agostino pochi giorni fa ha postato sul proprio sito un articolo allegando delle foto ritraenti Lucia Azzolina in bikini mentre si stava godendo qualche ora di relax sulla spiaggia di Bazzano. Gli scatti del ministro dell'Istruzione portano la firma di un paparazzo di Diva e Donna, che è riuscito a intercettare la presenza della grillina al lido Il Pirata - nonostante ci fossero due guardie del corpo - con un elegante due pezzi blu, i capelli sciolti e lo smalto rosso fuoco, in compagnia di un libro e di una rivista. A far discutere sono state le parole utilizzate dal giornalista nei confronti della titolare del dicastero di Viale di Trastevere: "Chiappone impiegatizio da lavoro sedentario". Sulla questione è voluta intervenire Alessandra Maiorino, senatrice del Movimento 5 Stelle, che ha esplicitato il sostegno verso la Azzolina ribadendo il ripudio verso i duri appellativi scritti dall'opinionista: "Grazie a lui e a quelli come lui siamo diventati teledementi. Non gli è bastata la TV... Anche i giornali ci hanno invaso con la loro demenza". Pertanto come soluzione ha proposto di non visitare più i siti sgraditi, non cliccando i link e non condividendo le loro notizie: "Magicamente smetteranno di esistere e l'Italia diventerà un Paese migliore. Spegniamoli!". Peccato però che la pentastellata, la stessa che si è lamentata per le dure frasi del giornalista, abbia usato toni deplorevoli verso di lui. Una vera e propria dimostrazione di incoerenza: uno sfogo da showman per insultare Dago e per difendere la compagna 5S. La Maiorino sul suo profilo Facebook ha pubblicato un video pieno di offese e denigrazioni ai danni di D'Agostino: "Per sentirsi sicuro nel mondo si è dovuto mettere una maschera"; "Porta più anelli alle mani che dita"; "Ha una barbetta da capra amaltea"; "A vederlo sembra uno di quelli che ti leggono le carte per strade per 10 euro"; "Sembra un chiromante". Secondo la grillina, il giornalista sarebbe stato costretto a cambiare il proprio look per sentirsi sicuro e proteggersi poiché non si sentirebbe all'altezza del ruolo che ricopre: "Infatti non è un giornalista. Con questo aspetto...". Infine ha puntato il dito contro alcuni giornalisti, indicando loro come principali responsabili del decadimento totale dell'informazione e del sistema di comunicazione in Italia: "Questo è uno spacciatore di demenza seriale".
Giampiero Mughini per Dagospia il 14 luglio 2020. Caro Dago, premesso che la senatrice grillina Alessandra Maiorino ha tutto il diritto di pensare peste e corna di te e scriverlo e videotrasmetterlo eccetera, da cittadino della Repubblica io ho il diritto di chiedermi che razza di gente segga oggi nella Camera Alta del nostro Paese. E’ del tutto ovvio che la Maiorino non sa bene di che cosa stia parlando, tanto è vero che punta il dito accusatore sulla tua “barbetta” e sui tuoi “anelli” o magari su un episodio televisivo di cento anni fa (quando tra te e Vittorio Sgarbi accadde quel che purtroppo la Tv chiede e spera, una baruffa purchessia), robetta irrilevante a costruire qualsivoglia ragionamento. Non sta a me elogiare il tuo sito, la sua valenza a rompere i coglioni a chiunque e sempre, il tuo andirivieni tra l’alto e il basso, le tante puttane cui dai rilievo collocate dopo o prima i testi di alcuni scriventi non conformisti che se non ci fosse il tuo sito potrebbero vendere cipolle sott’olio a Porta Portese (quorum ego). Non sta a me elogiare il fatto che certe notizie di quelle che inducono a un sonno profondo (tipo quella di Di Maio che incontra Draghi e ne ricava “un’ottima impressione”) tu le offri in modo da farle diventare vivide. Non sta a me elogiare la tua biblioteca personale _ di cui ho un’esatta nozione _ e invitare la Maiorino a prenderne coscienza in modo da elevare alquanto il suo quoziente intellettuale. Il punto non è questo. Il punto è la marea infinita di stupidaggini da cui siamo sommersi, a ogni momento della nostra giornata di cittadini della Repubblica. Tra giornali di carta che purtroppo leggono in pochi, siti, blog, tweets, video tramessi sull’uno o sull’altro canale, a ciascun essere umano arrivano tonnellate di parole, chiacchiere, vaniloqui, rumori fatti con la bocca, esibizioni vanitose e raccapriccianti, eccetera eccetera. La mia idea è che per un cittadino della Repubblica dovrebbe bastare un’ora al giorno per occuparsi della politica del nostro Paese. La politica, quella di cui Borges confidava a Vargas Llosa che era “una forma del tedio”, un vacuo arrovellarsi sul nulla. Di certo non era così quando a Montecitorio sedeva Palmiro Togliatti, quello che assieme allo jugoslavo Tito era l’unico sopravvissuto fra i commensali di Stalin degli anni Trenta, ossia di quello che ha avuto la gloria di essere il più grande criminale della storia dell’umanità (Milovan Gilas dixit). A quel tempo la posta in gioco era alta e drammatica, con le rovine fumanti della Seconda guerra mondiale ancora calde. Oggi è diverso, e seppure la pandemia sia una minaccia micidiale per noi viventi. Solo che sulla politica e sulle tragedie di oggi non c’è moltissimo da dire, tre o quattro cose e non di più. Tre o quattro confini tra la verità e la bestialità, tre o quattro cautele, tre o quattro raccomandazioni a che nessuno si inventi la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Un’ora al giorno, e non di più. Per il resto c’è l’arte, la bellezza, i romanzi, la storia dell’arte, il cinema, la danza, la pornografia, le storie a fumetti eccetera eccetera. Cara senatrice Maiorino, lei è pronta ad affrontare questi argomenti, questi e cruciali spazi della nostra anima?
Da tgcom24.mediaset.it il 14 luglio 2020. La scritta "Cerco te, se hai voglia di cambiare, contattami" e una foto con il décolleté in evidenza. Fa discutere il manifesto elettorale di Caterina Zilio, candidata al consiglio comunale di Laterza (Taranto) e coordinatrice cittadina dei dipartimenti di "Puglia Popolare". Il cartello "sexy", pubblicato dalla Zilio su Facebook, ha scatenato polemiche e reazioni sui social network con battute sessiste da parte degli uomini e aspre critiche soprattutto da parte del mondo femminile. Nel pomeriggio dell'1 luglio, Zilio - che lavora come operatrice socio sanitaria - ha postato su Facebook il manifesto politico che la ritrae in décolleté, accostata al logo di Puglia Popolare, con il messaggio "Cerco te! Se hai voglia di cambiare, contattami. Insieme si può" e in minuscolo il suo nome: Caterina. Nel post ha taggato Massimiliano Stellato, presidente provinciale del partito guidato dal senatore Massimo Cassano. "Personalmente - scrive una donna commentando il post della Zilio - penso che lei abbia fatto un manifesto elettorale sessista, una specie di autogol per se stessa e per tutte le donne che combattono quotidianamente per accedere a qualifiche decisionali per le loro capacità. L'immagine da lei scelta unita peraltro a un linguaggio in linea è sessista, si "autooggettifica", usa il richiamo sessuale in modo poco equivocabile per invitare a essere votata. Donne evitiamo di farci autogol”. "Preciso che Caterina Zilio, che da anni dedica la sua attenzione alle persone fragili con gravi disabilità, non ha concordato – ha fatto sapere tramite una nota Massimiliano Stellato, come riporta il Corriere Salentino – tale, forse migliorabile, strategia comunicativa né con il sottoscritto né con i referenti regionali del nostro movimento ma ritengo che una donna in politica debba essere valutata per il suo impegno e la sua dedizione e non per il suo décolleté".
Dagospia il 15 luglio 2020. Messaggio: Caro Dago, trovo grottesca l'indignazione dei grillini per il fatto che tu abbia definito le sacre terga del ministro (sono all'antica e scrivo al "maschile") Azzolina come «chiappone impiegatizio da lavoro sedentario». Eppure, il loro para-guru Beppe Grillo aveva definito la grandissima Rita Levi Montalcini come una «vecchia puttana» e l'altrettanto grande scienziata informatica Grace Murray Hopper come una «puttanaccia, vecchia, schifosa». [Il Gatto Giacomino]
Carmelo Caruso per il Giornale - articolo del 10 luglio 2019. Ferisce una donna la parola «sbruffoncella» o ci indigna ancora tutti «la vecchia p» che Beppe Grillo rivolse a Rita Levi Montalcini? Ed è sgradevolissimo essere costretti a ricordare l' oltraggio di Massimo Felice De Rosa, deputato del M5s, che, in aula, coprì le colleghe del Pd con questa sporcizia: «Siete qui perché brave solo a fare i pom». Convinto di trovare nel sessismo «il lato debole» di Matteo Salvini, il sottosegretario alle Pari Opportunità del M5s, Vincenzo Spadafora, ha rilasciato ieri a La Repubblica l' intervista più maldestra dell' estate, un vero sfogo da Tartufo: «Parole come quelle di Salvini hanno aperto la scia all' odio maschilista contro Carola». Ingiustificabili e intollerabili, va innanzitutto detto che gli insulti finora filmati e rivolti alla Rackete, appena sbarcata a Lampedusa, sono stati rivendicati da un uomo che si è prontamente dichiarato «elettore del M5s». Non si discute dunque l'urgenza di rispetto e di decoro nei confronti dell' altro sesso, ma va messa in discussione l' autorevolezza della cattedra. Lo scorso novembre, sul blog ufficiale del M5s, è stata infatti consentita la pubblicazione di ogni tipo di oscenità contro la deputata di Forza Italia, Matilde Siracusano, perché, scriveva un utente evidentemente sfuggito alla sensibilità di Spadafora, «senza offendere la categoria delle prostitute, c' è chi lo fa per soldi, ma questa p lo fa per lei». La colpa della Siracusano era di aver aspramente criticato il decreto anticorruzione a firma del M5s e aver alzato il tono in aula. Per i cecchini digitali del M5s avrebbe così «indirettamente gridato al mondo quanto desidera farsi sfon». A esercitarsi nel M5s in indecenza era stato per primo proprio Grillo che, in occasione delle Europee del 2014, lanciò la sua campagna elettorale paragonando le candidate avversarie a «quattro veline» «e la loro scelta è una presa per il culo ma tinta di rosa». In verità, Grillo, si era già distinto per garbo anche con le sue stesse donne. Di Federica Salsi, consigliera M5s di Bologna ed espulsa, disse che la televisione era «per lei il punto G». A Spadafora sarà evidentemente fuggito dai ricordi il referendum promosso intorno a Laura Boldrini, ancora una volta da Grillo, arbitro di maniere, e che ha favorito un concorso di ignobili risposte: «Cosa succederebbe se ti trovassi la Boldrini in macchina?». Alla domanda rispose Claudio Messora, ex capo della comunicazione del M5s: «Cara Laura anche se noi del blog fossimo dei potenziali stupratori tu non corri nessun rischio». Era lo stesso Messora che, in un post, rivelò che tipo di fantasie avesse: «Ho fatto una cosetta a tre con la Carfagna, la Gelmini e la Prestigiacomo». Per arginare minacce e sconcezze che prosperavano sul blog di Grillo, la vicepresidente della Camera, Mara Carfagna, è stata costretta, in passato, a rivolgersi alla magistratura. Ma le attenzioni di Grillo si sono concentrate anche a sinistra. Contro Maria Elena Boschi, il fondatore, lanciò l' hashtag #boschidovesei e per infiammare gli incappucciati condivise il commento «la Boschi è in tangenziale con la Pina», dove per Pina si intendeva l' altra deputata del Pd, Pina Picierno, mentre tangenziale era parola figurata. In questo speciale campionato ha giocato anche il senatore Nicola Morra che, agli attivisti, con relativa foto, chiese se la Boschi sarebbe stata ricordata più «per le forme o le riforme». Nel Lazio, il consigliere Davide Barillari ha pensato di fare opposizione a Zingaretti intimandogli di smettere di «fare la donniciola che piagnucola». E forse il commento più spiacevole rimane quello di una donna del M5s a Giorgia Meloni che quotidianamente è oggetto di odio trasversale. Si tratta di Roberta Lombardi del M5s che della Meloni, candidata e futura madre, disse: «Strumentalizza la gravidanza». Mai come oggi è quindi tanto indispensabile il testo di Filippo Maria Battaglia, Stai zitta e va' in cucina (Bollati Boringhieri). Racconta di quanto il maschilismo sia un ritardo italiano, un nodo autentico, e non lo sgambetto di Spadafora a Salvini. Ieri, è invece tornato a essere l' argomento per una zuffa fra soli uomini.
Dagospia il 14 luglio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ormai non c’è nulla di più sessista dell’accusa di sessismo, usata da molte donne come piagnisteo a seconda dei casi e delle appartenne politiche, paradossalmente perfino da certe signore di destra che si scagliano contro il politicamente corretto salvo invocarlo a loro uso e consumo. Per esempio non si capisce perché Marco Travaglio che parla della lingua della Chirico (autrice del libercolo “Siamo tutti puttane”) sia sessista: la lingua ce l’hanno pure i maschi. Evidentemente la Chirico ritiene di avere una specifica lingua di femmina. Baci, senza lingua, Massimiliano Parente
Marco Travaglio, Gaia Tortora contro Selvaggia Lucarelli: "Signore inqualificabile, quello che fa è peggio del sessismo". Libero Quotidiano il 15 luglio 2020. Continua a far discutere la polemica tra Marco Travaglio e Annalisa Chirico, che si è estesa anche ad altri colleghi. In particolare sui social è andato in scena uno scambio di vedute tra Selvaggia Lucarelli e Gaia Tortora, con la prima che ovviamente si è schierata in difesa del direttore del Fatto Quotidiano. “Vorrei spiegare alla Chirico - ha scritto - che se uno ti dà della leccaculo, il senso è figurato e non occorre scomodare il sessismo per fare siparietti. A tal proposito ricordo il noto libro sessista di Travaglio, in cui i leccacelo per giunta erano quasi tutti uomini”. La Tortora ha replicato facendo notare che “il problema è insultare ogni giorno chiunque servendosi del giornale. Vale per tutti, uomini o donne”, ma pronta è arrivata la risposta della Lucarelli: “Gaia, però allora si scrive “sei stronzo”, senza scomodare il sessismo là dove non c’entra nulla. Le parole sono importanti. Per tutti però. Baci”. L’ultima parola è spettata alla Tortora: “Selvaggia perdonami ma il ‘signore’ che dirige il giornale su cui scrivi è totalmente inqualificabile. Ingiustificabile. E non spenderò altre parole. Infatti è peggio del sessismo. Abbraccio”.
Marco Travaglio sponsorizza il brano del figlio Travis: "Se volete insultate me, ci sono abituato". Papà Travaglio ha deciso di fare uno strappo alla regola per promuovere il nuovo brano del pargolo Travs sui suoi social, invitando a non insultare il ragazzo ma a rivolgersi a lui, perché abituato e l'invito è stato accolto. Francesca Galici, Domenica 19/07/2020 su Il Giornale. Marco Travaglio è il direttore de Il Fatto Quotidiano, uno dei principali quotidiani nazionali ma è anche un padre. Raramente si è mostrato al pubblico in questa veste e l'ha fatto per promuovere la canzone di suo figlio Alessandro, in arte Travis. I figli si sa, so' piezz' 'e core e così l'indomito giornalista ha fatto uno strappo alla regola e ha deciso di condividere sul suo profilo Twitter il link al video del pargolo. "L'ho visto nascere. Intendo Alessandro, ma anche il suo nuovo brano "Londra". Siccome mi diverte moltissimo, faccio un'eccezione e lo condivido con voi. Chi vuole insultare, si rivolga a me che ci sono abituato. Grazie!", ha scritto Travaglio nelle vesti di padre orgoglioso. Non è la prima volta che Alessandro Travaglio cerca la fortuna in ambito musicale, anzi. Chi segue il mercato si ricorderà di lui per una polemica che l'ha investito poco più di un anno fa. A febbraio 2019 circolò la voce che fosse proprio del giovane travaglio, ora 24enne, la sigla del programma Rai "Popolo Sovrano", in onda sul secondo canale a conduzione di Andrea Sortino. Se da un lato Michele Anzalidi, della Commissione di Vigilanza Rai, aveva chiesto più attenzione per il possibile conflitto di interessi, dall'altra l'ex direttore di Rai2 si era difeso con una dichiarazione rilasciata all'Adnkronos. "Nessuna raccomandazione: Trava partecipa per il suo talento come gli altri rapper. Sono già sette i rapper, lui incluso, che stanno scrivendo un pezzo per "Popolo Sovrano", un programma dove sarà protagonista il primo articolo della Costituzione italiana", disse all'epoca Carlo Freccero. Trava altri non è che Alessandro Travaglio, che nel 2015 partecipò anche a Italia's Got Talent senza però ottenere il pass per la finale. Il pubblico lo conosce anche perché nel 2017 è stato complice de Le Iene per uno scherzo al padre. Il suo debutto assoluto, però, non è avvenuto come cantante ma come ballerino, con una comparsa nel videoclip Tranne te del rapper Fabri Fibra, senza che nessuno in quel momento sapesse realmente chi fosse suo padre. Oggi, Alessandro ha trasformato il suo pseudonimo da Trava in Travis, forse per non essere immediatamente riconduibile a quel genitore così ingombrante. Il suo pezzo cavalca la moda del momento ma le visualizzazioni non sono ancora rilevanti per il giovane Travaglio, che a 5 giorni dall'uscita del pezzo non ha raggiunto nemmeno 7000 views al video condiviso su YouTube. Diversi utenti hanno raccolto l'invito di Marco Travaglio e hanno detto la loro sul pezzo, non sempre positiva. "Diciamo le cose come sono. Non sei abituato solo a essere insultato ma anche a insultare", ha scritto un utente, uno dei meno ruvidi contro Travaglio.
Possibile che nessuno insegna l’educazione a quel cafone di Marco Travaglio? Il Corriere del Giorno il 12 Luglio 2020. Non è la prima volta e non sarà l’ultima manifestazione di arrogante volgarità. Travaglio infatti, in passato aveva già dato prova della sua spiccata cafonaggine lessicale scrivendo a suo tempo che la deputata Maria Elena Boschi era stata “trivellata dai pm”. Se “Striscia la Notizia” fa dell’ironia sul look di Giovanna Botteri, corrispondente della RAI dalla Cina, si scatena un vero e proprio putiferio, e insorge l’indignazione per il giornalismo sessista. Se invece lo fa Marco Travaglio in suo editoriale nessuno se ne accorge…! Sarà forse perchè il Fatto Quotidiano di giorno in giorno perde sempre più lettori? Il ventriloquo dei Cinquestelle e direttore del Fatto Quotidiano, in suo editoriale al veleno ha attaccato volgarmente una collega del quotidiano IL FOGLIO, la giornalista Annalisa Chirico scrivendo: “Il libro di Annalisa Chirico: ci vorrebbe la triade Salvini-Draghi-Renzi. Ma poi ci vorrebbero pure tre lingue come le sue per leccarli tutti e tre”. Ovviamente, non trattandosi di un programma televisivo di successo come Striscia o di una giornalista non “schierata” e sindacalizzata, nessuno ha detto nulla . Se qualcuno se n’è accorto, ha preferito tacere e fare finta di nulla. Non è la prima volta e non sarà l’ultima manifestazione di arrogante volgarità. Travaglio infatti, in passato aveva già dato prova della sua spiccata cafonaggine lessicale scrivendo a suo tempo che la deputata Maria Elena Boschi era stata “trivellata dai pm”. La “compagna” Boldrini o qualche sua emula grillina si è ben guardata dal difendere la nostra collega Annalisa Chirico così come non sono state difese quelle donne prima di lei , e quelle che verranno dopo . La volgarità di Travaglio in realtà stata è molto peggio di quel “patata bollente” che Vittorio Feltri rivolse a Virginia Raggi che costò a Feltri un vera e proprio processo mediatico. Ma come sempre quando c’è di mezzo qualche pennivendolo “sinistrorso” si applicano due pesi e due misure. Se una donna non è di sinistra la si può raffigurare come una cagna tenuta al guinzaglio come è accaduto per la candidata leghista in Toscana, Susanna Ceccardi ad opera di un altro grande cafone con la tessera di giornalista in tasca e cioè il vignettista Vauro. Ma l’indignazione dei giornalisti del Fatto è tutta rivolta al figlio di Selvaggia Lucarelli al quale, poverino…. avevano chiesto i documenti. Ci mancava solo che lo facessero parlare un dissidente di Hong Kong…o per una “vittima” come l’attivista “no-global” Carlo Giuliani fatto passare una vittima dopo che questi aver cercato di colpire nel 2001 in occasione del G8 che si tenne a Genova, un carabiniere, arrivando a cercando di distruggere una camionetta dei Carabinieri , rimettendoci la vita per una fatale tragedia. Non c’è quindi da meravigliarsi quando Marco Travaglio viene condannato dal Tribunale di Firenze a risarcire con 50mila euro nella causa intentata dalla famiglia Renzi: “Le parole pronunciate dal giornalista hanno connotazioni oggettivamente negative, alludendo le stesse ad un contesto di malaffare e ad un intreccio di interessi privati, economici e politici ad elevati livelli. Nel suo insieme e nel suo impianto, l’intervento del giornalista è demolitivo nei confronti dell’attore e di suo figlio, sul fronte etico, politico e della dignità personale“. Qualcuno si meraviglia ancora?
Dagospia il 12 luglio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Roberto, nel silenzio delle pseudofemministe finalmente qualcuno scopre il velo sulla truce attenzione che Marco Travaglio riserva alla lingua di certe donne e, in particolare, alla mia. Nel suo editoriale, ha la gentilezza di scrivere: “Il libro di Annalisa Chirico: ci vorrebbe la triade Salvini-Draghi-Renzi. Ma poi ci vorrebbero pure tre lingue come le sue per leccarli tutti e tre”. Il corpo "oggettificato", come direbbero le Murge d’Italia. E’ a dir poco mortificante doversi schermire da simili attacchi, la lingua, le lingue, chissà come avrebbero reagito le amiche del karaoke se il loro renatozero preferito, Travaglio appunto, le avesse apostrofate come ha fatto con me. Posto che ogni donna ha il diritto di fare l’uso che vuole della propria lingua, nel caso di specie la "triade Salvini Draghi Renzi" è una tesi giornalistica e politica, la mia: la si può contestare nel merito ma perché volgarizzarla con l’ennesimo volgarissimo insulto sessista? Si sopravvive anche a questo, per carità, ma il silenzio attorno, quello sì che fa rumore. Annalisa Chirico
Da liberoquotidiano.it il 19 luglio 2020. Un duro botta e risposta tra Andrea Scanzi e Annalisa Chirico. Il primo, accecato dall'odio nei confronti di Matteo Salvini, se la prende con la firma del Foglio superando ogni limite. "Se voglio parlare di cose serie - esordisce il giornalista del Fatto Quotidiano - parlo con Telese e Parenzo, non con lei". Una frase che fa ridere i due conduttori, non la Chirico che comunque evita la polemica e torna a parlare di politica: "Lei vuole solo far vedere che è l'ennesimo maschilista, io glielo lascio fare". E ancora, Scanzi senza ritegno: "Tu sei a Capri che te la godi e io sono qua che parlo con gli spettatori". Immediata la risata in studio dei conduttori che non si smentiscono. D'altronde durante tutta la puntata Telese e Parenzo non hanno saputo far altro che interrompere la Chirico "accusandola" di non far parlare Scanzi, quando in realtà quello della firma del Fatto non è stato altro che un monologo.
Fascismo. E’ l’acqua in cui sguazzano la sora Meloni e i suoi Fratelli d’Italia. Alessandro Robecchi su Il Fatto Quotidiano l'8 luglio 2020. Altro giro, altra corsa, altro esponente di Fratelli d’Italia che inneggia al Ventennio, altre polemiche, altre gustose minimizzazioni, altri articoli sui giornali, sui siti, altri appelli, pensosi corsivi e sacrosante prese per il culo. La questione Meloni-nostalgici fascisti si configura ormai come la storiella del criceto e della ruota: non passa giorno che non ci sia un caso di apologia del fascismo ad opera di qualche fratellino d’Italia (o lista collegata), e la competizione più entusiasmante all’interno del partito è aperta: si vedrà a fine campionato se la corrente maggioritaria sarà quella di chi si veste da SS o quella degli arrestati per ‘ndrangheta, una bella gara. Si è detto in lungo e in largo del consigliere comunale di Nimis (Udine) vestito da nazista, tal Gabrio Vaccarin, che nessuno aveva mai sentito nominare finché non hanno cominciato a girare foto in cui compare impettito davanti a un ritratto di Hitler, agghindato come per dirigere un campo di sterminio, croce di ferro inclusa. Meno scalpore, per distrazione dei media, ha fatto il manifesto elettorale di tal Gimmi Cangiano, candidato in Campania per la sora Meloni, che non solo ha messo lo slogan “Me ne frego” sui suoi cartelloni elettorali, ma ci ha pure scritto sotto: “La più alta espressione di libertà”. Non fa una piega, quanto a espressione di libertà. Certo, poteva scegliere altri slogan, per esempio “Cago sul marciapiede”, che anche quella, ammetterete, è un’alta espressione di libertà, come anche “Taglio le gomme alle macchine in sosta”, o “Butto in mare l’olio esausto della mia fabbrichetta”, che sottolinea l’insofferenza del cittadino martoriato dalla burocrazia e dalle costrizioni della legge. Mi fermo qui con gli esempi perché per correttezza giornalistica dovrei elencare anche le difese puntuali e articolate che ogni volta gli esponenti di FdI devono inventarsi per giustificare o minimizzare: una volta “non è iscritto”, un’altra volta “è una ragazzata”, oppure “è stata una leggerezza” o ancora “era carnevale”. Insomma, per dirla con la lingua loro, otto milioni di piroette per allontanare da sé i sospetti di fascismo, preoccupazione un po’ inutile visto che tre indizi fanno una prova, dieci indizi fanno una certezza e dopo cento indizi dovrebbero intervenire i partigiani del Cln con lo schioppo. Ma sia: per farsi perdonare ed allontanare i sospetti, la Meloni candida alla presidenza della regione Marche un suo deputato, tal Francesco Acquaroli, noto alle cronache soprattutto per una cena celebrativa della marcia su Roma (Acquasanta Terme, 28 ottobre 2019). Sul menu, accanto al timballo e allo spallino di vitello al tartufo campeggiavano nell’ordine: un fascio littorio, un’aquila con la scritta “Per l’onore dell’Italia”, il motto “Dio, patria e famiglia”, una foto del duce volitivo e machissimo con la frase “Camminare, costruire e se necessario combattere e vincere”. Si vede che non era necessario, perché persero malamente e il celebrato Mascellone camminava sì, ma verso la Svizzera vestito da soldato tedesco, bella figura. Fa bene Gad Lerner (su questo giornale) a chiedere alla sora Meloni di dissociarsi una volta per tutte dalla retorica fascista dei suoi eletti e dei suoi militanti, ma dubito che succederà: quella retorica, un po’ grottesca e molto ignorante, risibile e feroce, è l’acqua in cui nuota Fratelli d’Italia, gli slogan fascisti e i vestiti da gerarchi sono il plancton di cui si nutre, e non si è mai visto un pesce svuotarsi l’acquario da solo. Bisognerebbe aiutarlo come l’altra volta, settantantacinque anni fa.
Travaglio e gli attacchi del Fatto Quotidiano a Meloni e Gori. Silvia Fregolent su Il Riformista l'11 Luglio 2020. In un articolo del Fatto quotidiano, Alessandro Robecchi, parlando della leader dei Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha scritto contro di lei che «dovrebbero intervenire i partigiani del Cnl con lo schioppo». E ancora: «Non si è mai visto un pesce svuotarsi l’acquario da solo, bisognerebbe aiutarlo come l’altra volta, 75 anni fa». Ci sono limiti che un giornalista, nel raccontare i fatti e commentarli, non dovrebbe mai superare. Spero che il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, si prenda le sue responsabilità, riconoscendo il suo errore e non rilanciando la polemica, spiegandoci magari che non abbiamo capito il suo articolo o trincerandosi dietro il diritto d’opinione. Viviamo giorni terribili, caratterizzati da una gravissima crisi economica e sociale. Molti italiani hanno pianto i loro morti e tutti noi dovremmo promuovere un’azione di pacificazione nei confronti del Paese. Soprattutto chi ha l’onore e la responsabilità di dirigere un giornale: la libertà di espressione e di parola è un diritto universale ma deve tener conto, sempre e comunque, del rispetto e della dignità delle persone. Invocare un tiro di fucile e di schioppo a un esponente politico, e quindi conseguentemente invitare qualcuno a farlo, non è qualcosa di diverso rispetto a quel fascismo che si vorrebbe stigmatizzare. Perché i fascisti, quelli veri, gli avversari politici li hanno uccisi davvero e incitavano i propri militanti a farlo. Io e Giorgia Meloni proveniamo da realtà e da esperienze politiche differenti e abbiamo idee spesso opposte su molte tematiche. So però che 75 anni fa, molti hanno lottato e sacrificato la propria vita affinché ognuno di noi potesse esprimere liberamente, oggi ed in questo Paese, le proprie idee; senza dover temere né olio di ricino né un tiro di schioppo. Un giornalista che dimentica questo rinnega la storia e la cultura antifascista e repubblicana della nazione e della Costituzione. Ogni forma di violenza, anche verbale, va stigmatizzata, e non posso non ricordare che lo stesso quotidiano che ha augurato la morte di un politico, solo pochi giorni fa storpiava il nome di un sindaco, in prima linea con i suoi possibili limiti ma con il suo coraggio contro l’epidemia. Si può legittimamente criticare l’operato di un amministratore senza concedere alcuna attenuante. Scherzare su “Giorgio Covid”, però, non significa soltanto condannare vigliaccamente, e da dietro un computer, chi ha tentato di contrastare il virus dove il virus uccideva, ma vuol dire calpestare la dignità di migliaia di vittime, rinnovare il dolore dei parenti e alimentare rabbia e rancore di un territorio ferito e smarrito. A Giorgio Gori e a Giorgia Meloni non va soltanto la mia solidarietà, ma quella di tutte le persone che vorrebbero cambiare in meglio questo Paese.
Odio del "Fatto" Fdi si appella all'Ordine dei giornalisti. Eppure c'è ancora qualcuno che li chiama giornalisti progressisti. Sebbene approvino, nel loro giornale filogovernativo, la pubblicazione di un commento grondante di odio contro l'avversario politico. Fabrizio Boschi, Venerdì 10/07/2020 su Il Giornale. Eppure c'è ancora qualcuno che li chiama giornalisti progressisti. Sebbene approvino, nel loro giornale filogovernativo, la pubblicazione di un commento grondante di odio contro l'avversario politico. Quel «dovrebbero intervenire i partigiani del Cnl con lo schioppo», vergato da Alessandro Robecchi sulle colonne del Fatto Quotidiano, ha scatenato un tumulto mediatico. Secondo questa fine penna, i neo-partigiani dovrebbero sparare contro gli esponenti di Fratelli d'Italia. E Giorgia Meloni che diventa la «sora Meloni» fa sorridere in confronto al resto. «Indicare gli obiettivi da colpire nei capi della opposizione con lo stesso linguaggio che utilizzavano le Br è gravissimo», scrive su Twitter il senatore di Fratelli d'Italia, Adolfo Urso. Ma c'è di peggio. «Non si è mai visto un pesce svuotarsi l'acquario da solo, bisognerebbe aiutarlo come l'altra volta, settantacinque anni fa», si legge in chiusura dell'articolo. La diretta interessata stavolta non lascia correre, ed oltre a chiedere chiarimenti all'Odg, chiede a Travaglio «se consideri normale che si scriva che bisognerebbe sparare addosso agli esponenti di Fratelli d'Italia. È o non è questa istigazione all'odio e alla violenza? Pretendo su questo una parola chiara, perché c'è un limite che non si può superare, e voi l'avete superato». E se pure la sinistra si è indignata e ha espresso solidarietà alla Meloni, allora davvero vuol dire che Travaglio e Company stavolta l'hanno veramente fatta fuori dal vaso. «Per essere profondamente democratici bisogna essere contro qualsiasi istigazione alla violenza», il pensiero di Emanuele Fiano del Pd. «Chi fa informazione ha una responsabilità pubblica che non può sottovalutare. L'istigazione all'odio è sempre sbagliato, ma quando proviene da un giornale diventa pericoloso», dice Maria Elena Boschi, presidente dei deputati di Italia Viva. «La considero una cosa indegna e pericolosa», la condanna di Carlo Calenda. E pensare che Travaglio si spaccia pure per l'erede di Montanelli. Questo fa davvero rabbrividire.
Quando Di Battista voleva il sangue di Berlusconi. Deborah Bergamini su Il Riformista il 2 Luglio 2020. «La storia è la memoria di un popolo, e senza una memoria, l’uomo è ridotto al rango di animale inferiore”, disse Malcolm X. Ebbene rinfrescarla è un dovere per contrastare chi la Storia vorrebbe ribaltarla». Queste sono le premesse con cui il passionario grillino, Alessandro Di Battista, introduce una serie di accuse infamanti ai danni di Silvio Berlusconi. Non entrerò nel merito delle accuse a Berlusconi perché non spetta a me né a Di Battista il ruolo di giudice del popolo. Ciò che però occorre ricordare, per contestualizzare al meglio le parole di Di Battista, è ricordare una vicenda che riguarda direttamente il grillino e che fino ad oggi non era mai venuta alla luce. Era il 9 novembre 2011 e di lì a poco Berlusconi si sarebbe dimesso. L’Italia era sotto l’attacco della finanza internazionale nonostante i fondamentali dell’economia fossero migliori di oggi, lo spread era alle stelle, e Mario Monti veniva nominato senatore a vita. In quel periodo il grillino Di Battista viaggiava per il Sud America occupandosi dell’impatto sulla popolazione dei progetti Enel in Cile e Guatemala e sempre nel 2011 iniziava a collaborare con il blog di Grillo. Alle 21:10 del 9 novembre 2011, una signora di nome Eva Aymerich Mas, scrive sul profilo Facebook del pentastellato: «Alessandro, se va Berlusconi!!!!!» (Alessandro, se ne va Berlusconi!!!). La risposta che Di Battista dà alla signora Eva di lì a poco è agghiacciante: «si pero el problema es el sistema…se habla de amato, viejo ladron hijo de puta que pagava craxi con la plata de berlusconi! estamos jodidos… la sangre es la solucion!» (Sì ma il problema è il sistema…si parla di Amato, vecchio ladrone figlio di puttana che pagava Craxi con i soldi di Berlusconi! Siamo fregati…il SANGUE è la soluzione!). “Il sangue è la soluzione” per il grillino. E se grazie al cielo non si sono registrati versamenti di sangue nel nostro Paese, viene da chiedersi cosa fosse disposto a fare l’esponente del Movimento per far arrivare i 5 Stelle al potere. Chi pensa che il sangue sia la soluzione non dovrebbe avere problemi a considerare come una soluzione più che legittima il sostegno economico di dittature straniere o il supporto tecnologico e logistico di altri Stati. Il Di Battista che ieri inneggiava al sangue è lo stesso che oggi accosta Berlusconi a Cosa Nostra senza menzionare che i governi presieduti dal presidente di Forza Italia ottennero risultati strepitosi nella lotta alla mafia. Dal 2008 al 2011 vennero arrestati mediamente 8 mafiosi al giorno (un record), vennero presi quasi tutti i superlatitanti e vennero sequestrati e confiscati beni per oltre 25 miliardi di euro. Il successo di Berlusconi nella lotta alla mafia fu così evidente che nel 2012 il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, dichiarò pubblicamente (ci sono le registrazioni) che il governo Berlusconi meritava “un premio speciale” per la lotta alla criminalità organizzata. Ecco: oggi che la vicenda dell’esclusione politica per via giudiziaria di Berlusconi emerge in tutta la sua forza, le parole di Di Battista sull’importanza della storia sono un monito per tutti quegli italiani che hanno sempre saputo quale ingiustizia si fosse consumata ai danni di Berlusconi, ma ancora di più ai danni della democrazia italiana. Malcom X aveva ragione: «La storia è la memoria di un popolo, e senza una memoria, l’uomo è ridotto al rango di animale inferiore». E Il Riformista continuerà a battersi per far sì che la verità storica, politica e giudiziaria venga alla luce.
Riflessione sull’articolo “Quando Di Battista voleva il sangue di Berlusconi”. Dario Fumagalli, Legale specializzato in data protection e privacy, su Il Riformista il 4 Luglio 2020. Ho letto con estremo interesse l’articolo di Deborah Bergamini, pubblicato su questo giornale il 2 luglio 2020, intitolato “Quando Di Battista voleva il sangue di Berlusconi” trovando al suo interno spunti di riflessione notevoli, che vorrei condividere con l’autrice e con ogni lettore. Il nucleo argomentativo dell’articolo ruota attorno ad alcune esternazioni più che censurabili pubblicate nel 2011 da Alessandro Di Battista, in risposta ad un commento postato sul suo profilo FB da una follower. Parole che evocano violenza e che, oggi, sarebbero certamente catalogate come “hate speech”. Mi preme qui una riflessione estemporanea, non diretta all’articolo richiamato. Terrei a sottolineare che a mio parere la violenza, ogni tipo di violenza, è inaccettabile. Già, perché spesso si condanna quella consistente in atti di forza bruta, che però non è l’unica. La differenza, usualmente, è che la violenza bruta è l’arma (pessima e inutile) che resta in mano ai disgraziati, mentre i “primi”, volendo, si possono giovare di mezzi più raffinati per perpetrare abusi. Ecco, sarebbe bene sviluppare radar dello stigma che captassero entrambe le forme allo stesso modo, onde evitare di trasformare la nobilissima guerra culturale alla violenza in una guerra politica contro i disperati. Chiusa la parentesi sulla violenza e (s)qualificate le parole oggetto della disputa, ciò che mi ha indotto a scrivere queste righe è l’aver intravisto, pur con le mastodontiche differenze del caso, un filo rosso tra questa vicenda e quella relativa alla statua di Montanelli. Ciò mi induce a porre, all’autrice e a chiunque abbia interesse a partecipare al dibattito, alcune obiezioni. Vero è che la storia, quella collettiva come quella individuale, non deve e non può essere cancellata, perché ha sempre qualcosa di utile da dire sui suoi protagonisti. Tuttavia, è davvero utile questo genere di attribuzione? Mi chiedo, ad esempio, se l’Alessandro Di Battista che, nel 2011, rispondeva ad un commento su Facebook, si percepisse come personaggio pubblico e/o politico o no. Mi domando dove fosse e cosa gli fosse appena successo, che persone avesse visto. Sarei curioso di sapere cosa ancora non avesse ancora vissuto, quali riflessioni e letture non avesse ancora fatto, quanti anni meno e quanti ormoni in più gravassero sui suoi pensieri. Mi chiedo che percezione avesse, nel 2011, della dimensione del fenomeno Social e delle sue implicazioni. Sintetizzando, mi domando se davvero queste sue parole siano utili a inquadrarne il profilo politico attuale, a indovinarne le intenzioni, a comprendere la sua visione del mondo. Si potrebbe parlare del fatto che le “persone” non sono entità statiche, che evolvono nel tempo e non è quindi sempre pertinente attribuire posizioni datate a qualcuno nel presente. Vero, ma sarebbe discorso stranoto. Piuttosto, allora, mi assumo il rischio di aprire una parentesi ben più complessa, che ha a che fare con la complessità della “persona” in sé, non con la sua evoluzione storica. Al di fuori di ogni banalizzazione o ipocrisia, chi potrebbe infatti affermare di non indossare una maschera? Maschera che, in controtendenza alla vulgata psicologica, mi sento di non considerare necessariamente un male. Siamo esseri sociali, in grado per questo di filtrare le nostre pulsioni spontanee sulla base di ciò che riteniamo possa essere ritenuto tollerabile dalla società (nella quale riteniamo vantaggioso condurre la nostra vita). Certo, a volte questo fenomeno è causa di traumi e psicosi e va per questo contrastato, ma entro certi limiti è una protezione di cui l’evoluzione ci ha dotato. Siamo perfino dotati di “neuroni-specchio” che ci fanno soffrire quando vediamo soffrire il prossimo, così che sia la biologia stessa a imporci di modulare il nostro comportamento sulla base, anche, dei sentimenti altrui. Dunque, pur se più o meno celate, tutti noi siamo attraversati da emozioni. Ma sono queste reprensibili, finché restano solo tali? Sono “perseguibili” finchè restano (salvo gaffe) confinate nel nostro spazio privato, sia esso la nostra interiorità o un perimetro sicuro, ad esempio coincidente con affetti in grado di cogliere l’ironia o lo sfogo nelle nostre parole e non prenderle sul serio? Lo sono, finché non costituiscono la base valoriale e ideologica sulla quale fondiamo il nostro approccio al mondo e non definiscono le nostre condotte sociali (ad esempio in politica o sul luogo di lavoro)? La persona equilibrata, infatti, è ben lungi dal non sperimentarle. L’individuo “normale” sperimenta eccome lampi d’ira, di superficialità e di insensibilità La persona “normale” può essere vittima di retaggi, di ignoranza, di debolezze. Tuttavia ma li riconosce, si supera e (o) li filtra con la coscienza e con la ragione ed evita che condizionino i suoi pensieri più strutturati o, tanto più, le sue condotte. Questo “filtro” è ciò che fa di taluni uomini e donne virtuosi, non una presunta “verginità” morale. Artificiose negazioni rischiano, invece, di generare inutili frustrazioni e distrarci da ciò che davvero abbiamo diritto e dovere di valutare, soprattutto in chi gestisce il potere, a maggior ragione se politico e a maggior ragione in ordinamenti democratici: la visione del mondo, le condotte, le scelte. Non bisognerebbe dunque chiedersi se Alessandro Di Battista abbia realmente pronunciato quelle parole o quanto tempo fa, ma se – alla luce di quanto sappiamo in generale di Di Battista – sia verosimile ritenere quelle parole uno specchio della sua visione del mondo o se siano spia di qualche concezione posta alla base delle sue condotte politiche e sociali. Se non è così, il fatto che possa, ogni tanto, sbottare con espressioni violente, non fa notizia. Certo, se le stesse parole fossero state pronunciate in Parlamento o durante un comizio, oppure scritte in un libro, sarebbe diverso. Lo sarebbe perché riuscirebbe più complicato supporre che siano frutto di un lampo di inconscio sfuggito al controllo. Ma c’è di più, di cui ragionare. Dal momento che le parole di cui si discute sono contenute in un commento su Facebook, qui si innesta una riflessione ulteriore circa la rivoluzione tecnologica che ci ha colti tutti, psicologicamente, impreparati. I social network e internet in generale, uniti agli smart devices, infatti, mandano in crisi (e in soffitta) tutti i paradigmi sulla base dei quali il nostro cervello si è evoluto per milioni di anni. Commentare con una frase violenta in un momento di stizza o enfasi sulla propria pagina Facebook, infatti, è tanto semplice quanto sbottare a tavola guardando il telegiornale ma, soprattutto se si è personaggi esposti (o lo si diventa dopo), ha le stesse conseguenze che avrebbe se accadesse in un comizio pubblico. Sui social, tramite smartphone, non siamo ostacolati da barriere temporali che obbligano a riflettere, come accade per le pubblicazioni classiche. Nel postare si è magari soli, si ha magari la convinzione di essere letti da pochi o nessuno, si agisce nell’immediatezza del fatto che ci ha magari reso nervosi, frustrati, esaltati. Certo, lucidamente tutto ciò ci è noto, ma è ormai consolidato nelle scienze cognitive che, in tempi ristretti, agiamo per automatismi. Ovvio, c’è chi se ne approfitta, ma questo non cancella la realtà descritta. A tutti noi è capitato di pentirci amaramente di qualcosa pubblicato su internet (ma anche in una chat privata) sapendo che quella cosa, purtroppo, potrà teoricamente essere vista da chiunque e per sempre. Nella realtà analogica esistono, invece, circostanze che agiscono sul nostro pensiero razionale o inconscio, le quali fanno da barriera. Nessuno, ad esempio, se ne uscirebbe mai con esternazioni violente o con complimenti troppo diretti verso qualcuno nell’audience durante una lezione universitaria, un discorso in parlamento o scrivendo un libro, nemmeno per superficialità. C’è chi lo fa, ma si tratta spesso di persone lucidamente persuase delle proprie posizioni sessiste, violente, razziste e via dicendo. In questi casi, non c’è dubbio che si tratti di persone censurabili e inadatte, ad esempio, a ricoprire cariche politiche in un mondo nel quale, per fortuna, si diffonde sempre di più una sensibilità egualitaria e anti-discriminatoria. Il non farlo non è (nella maggior parte dei casi) ipocrisia. Non è (sempre), come sostengono le varie propaggini estremiste di ogni -ismo possibile e immaginabile, una forma astuta di occultamento delle proprie idee retrograde. Invece, spesso, è salute. Si tratta cioè del filtro, sano, che si attiva e che ci impone, quando qualcosa ci attraversa la mente solo per rabbia, umorismo, o condizionamento sociale, di tenercela per noi laddove possa far soffrire qualcuno e danneggiare così il prossimo e noi stessi. Infischiarsene ed attaccare chi si dimostra, complessivamente, una persona equilibrata e sensibile solo perché qualche volta questo filtro non funziona, ha come risultato quello (nefasto) di selezionare non le persone migliori, ma quelle più capaci di giocare al gioco ipocrita dell’ostentazione di sentimenti finti e dell’insabbiamento, magari, di condotte reprensibilissime ed autenticamente radicate. Spesso, chi lo fa, non agisce in nome di nobili principi, ma della rabbia più cieca (magari anche giustificata da esperienze personali traumatiche). Ma la collettività deve difendere ciò che è utile a costruire un mondo migliore, non ciò che è funzionale a lenire la fame di vendetta di qualcuno. L’ambiente online poi, dicevamo, è un catalizzatore eccezionale di questi fenomeni, sia perchè ci “inganna”, come detto sopra, sia perché si presta a fissare in memoria “atomi” di pensieri ed emozione, rendendoli pubblici ed eterni. Ma, non potendo né volendo abbandonare la tecnologia alla quale ci stiamo abituando, dobbiamo imparare a interpretare i fenomeni che da essa scaturiscono con buon senso. Nel caso di specie, occorre domandarsi se sia davvero utile utilizzare, per qualificare politicamente qualcuno, scampoli di inconscio o di leggerezza che emergono, più facilmente di un tempo, grazie alle nuove tecnologie o se sia meglio coltivare, anche nell’opinione pubblica, il senso critico necessario a indovinare quando davvero qualcuno sia politicamente “pericoloso”, scansando ogni assolutismo etico puramente illusorio, al quale le masse invece tendono naturalmente. Diversamente, rischieremo di trasformarci tutti in psicopolizia orwelliana, generando e/o selezionando mostri a causa della repressione incontrollata della nostra stessa umanità.
L’odio è democratico se s’abbatte su Salvini. Antonio Rapisarda, 30 giugno 2020 su Nicolaporro.it. Assembrarsi in piena zona rossa solo per evitare a un leader politico, con la violenza e la prepotenza, di poter esplicare un diritto fondamentale in una realtà delicata dove l’assenza endemica delle istituzioni ufficiali grava da tempo sulle spalle dei “penultimi”: gli italiani. Per difendere almeno gli ultimi? Ossia gli immigrati, sfruttati dalla camorra e dai caporali? No, come mera prova di forza antifascista condita da meridionalismo a buon mercato. È quello che è avvenuto ieri a Mondragone, la cittadina nel casertano al centro della crisi del contagio da Covid-19 a causa di un focolaio scoppiato in un’enclave – gli ex palazzi Cirio – abitata da rom e immigrati bulgari e sottratta da anni ad ogni controllo. Sul luogo, chiamato da tantissimi residenti esasperati (lo dimostrano i lenzuoli appesi sui balconi del paese che da giorni invocano «Salvini metti ordine»), è arrivato l’ex ministro dell’Interno e leader della Lega. L’accoglienza? Da una parte i suoi sostenitori e diversi cittadini di Mondragone (indicativa l’immagine di un ragazzo che spiega all’ex ministro di non riuscire più a vivere perché abitante proprio nei pressi dei palazzi “ex Cirio”) che aspettavano di poter accendere i riflettori grazie a un politico attento a questi temi. Dall’altra chi? I soliti centri sociali, diversi provenienti direttamente da Napoli, che hanno inscenato una protesta così vibrante e muscolare (con lanci di bottiglie, scontri con la polizia e caccia al giornalista) da riuscire a bloccare il comizio di Matteo Salvini. L’accusa? Sempre la stessa: «sciacallo», «soffia sui problemi», «razzista». La soluzione? Nessuna, a parte la sardinata «Mondragone non si Lega». Altro che camorra, degrado, abbandono del territorio da parte delle istituzioni. Non una parola su Vincenzo De Luca, che dopo mesi a minacciare il “lanciafiamme” per i runner, continua a non essere tempestivo quando è costretto ad uscire dai social per incontrare la realtà. Il problema, per i centri sociali e Potere al Popolo, è solo “limitare” l’incontro dei mondragonesi con Salvini e quindi la democrazia di prossimità: proprio quella dove quella stessa sinistra è totalmente e colpevolmente scomparsa. Da notare, poi, non solo la facilità e l’impunità con cui si impedisce l’esercizio di un diritto democratico come un comizio, ma la mancata reazione da parte delle forze politiche che si stracciano le vesti contro l’odio sui social o il diffondersi del clima di intolleranza in Italia. E quello che va in scena di piazza in piazza contro Salvini che cos’è se non odio scientificamente riproposto col solo scopo di creare scompiglio? Stesso discorso – cambiando scenario ma non sostanza – è quello che è avvenuto nei confronti di Susanna Ceccardi, la candidata governatrice della Toscana che è stata apostrofata dallo sfidante del Pd Eugenio Giani come una sorta di animale «al guinzaglio di Salvini». Un’uscita misogina, sessista, densa di pregiudizio e di odio politico. Anche qui, a parte una timida presa di distanza di Laura Boldrini, non vi è stata alcuna voce a sinistra che si è espressa a difesa della dignità della donna. Vale lo stesso principio adottato nei confronti di Salvini: se è contro la Lega il sessismo non è “peccato civile”. E l’odio stesso diventa “democratico”, un apostrofo rosa… Antonio Rapisarda, 30 giugno 2020
"Al guinzaglio di Salvini". Vauro e la vignetta contro la Ceccardi. Il noto vignettista ha disegnato la candidata leghista per il centrodestra come un cane al guinzaglio di Matteo Salvini. Alberto Giorgi, Lunedì 29/06/2020 su Il Giornale. "Al guinzaglio? Salvini difende la Ceccardi: Azzardatevi a ripeterlo e la sciolgo", "Ghrr", "Ghrrr". Così Vauro Senesi ha pensato bene di scherzare sulla candidata leghista per il centrodestra in Toscana, raffigurando il segretario del Carroccio Matteo Salvini impegnato a tenere al guinzaglio, con due mani, una figura che non compare, ma che richiama ovviamente la presenza di un cane, ironizzando così sul fatto che Susanna Ceccardi sarebbe al guinzaglio dell’ex titolare del Viminale. Nelle scorse ore si era scagliato contro l’europarlamentare della Lega, ex sindaco di Cascina (in provincia di Pisa) il candidato governatore del Partito Democratico; Eugenio Giani, infatti, ha dichiarato: "Il mio vero avversario è Salvini, che si porta dietro al guinzaglio una candidata". La diretta interessata ha replicato a stretto giro: "Non voglio fare la vittima, una certa sinistra griderebbe allo scandalo se un nostro esponente dicesse a una donna dello schieramento avversario che è buona soltanto a stare al guinzaglio come una cagna: si leverebbero le grida di indignazione a livello internazionale". "Non accetto lezioni da un partito fondato sul culto del maschio forte al comando che svilisce i propri candidati utilizzandoli per fini che non hanno niente a che vedere con i temi politici e amministrativi che interessano la Toscana", la contro risposta polemica di Giani, che ha voluto pure rincarare la dose. Ecco, oggi l’affondo del vignettista, con un disegno creato per Left. "Che vergogna. La solita ipocrisia di una certa sinistra che si permette di denigrare e insultare chi non la pensa come loro. Al disprezzo del Pd e all’odio da centro sociale rispondiamo con cuore, idee e coraggio. Forza Susanna Ceccardi!", il commento odierno alla vignetta da parte di Matteo Salvini, che ha colto tutta l’ipocrisia di Vauro. A parti invertite, come sottolineato dalla stessa Ceccardi, la sinistra urlerebbe allo scandalo. In questo caso, invece, da sinistra non si sono levate voci di dissenso e di denuncia…Nella fila del centrodestra ha invece preso posizione in modo netto e deciso l’azzurra Mara Carfagna: "In campagna elettorale tutto è lecito? No. Non si può mancare di rispetto e dare libero sfogo a un linguaggio pieno di disprezzo e misoginia. Eugenio Giani che definisce Susanna Ceccardi una candidata al guinzaglio di Salvini, qualifica più lui che la sua avversaria". Ceccardi è chiamata a compiere un’imprese nella regione rossa per eccellenza dello Stivale, insieme all’Emilia Romagna: si voterà il 20-21 settembre e il centrodestra punta al colpaccio che potrebbe dare la spallata al Conte-Bis.
I soliti odiatori. Andrea Indini l'11 febbraio 2020 su Il Giornale. Ci risiamo. Come da copione. Mentre l’Italia si stringeva attorno ai sopravvissuti dei rastrellamenti titini, ricordando il terribile martirio delle foibe, la sinistra vomitava il solito odio. Ancora una volta hanno cercato di sbraitare per coprire le preghiere che si alzavano nel Giorno del Ricordo. Si sono preparati con una buona settimana di anticipo. Giorni segnati da ogni sorta di negazionismo. Il tutto nel tentativo di mettere a tacere, come hanno sempre fatto, le barbarie del regime comunista in Jugoslavia. Il culmine, poi, si è toccato ieri con il Partito democratico che al sacrario di Basovizza, monumento nazionale sul Carso triestino, se ne è andato via in blocco quando ha attaccato a parlare Maurizio Gasparri in rappresentanza del Senato (quindi con delega istituzionale). Con la piddì Debora Serracchiani che si è addirittura fiondata a twittare che il Giorno del Ricordo è diventato “un palcoscenico per la destra sovranista”. A rincarare la dose ci ha pensato il vignettista Vauro che sempre più spesso intinge la sua matita nell’odio feroce contro la destra. Ha detto: “È un trucido strumento di propaganda sovranista”. E si è pure lamentato con il capo dello Stato Sergio Mattarella di non aver denunciato le “angherie fasciste” perché, a suo dire, in Jugoslavia fu l’Italia “il Paese aggressore”. Ma non solo. C’è chi, come il Partito comunista di Marco Rizzo, si è spinto più in là, affermando: “Come ogni anno si aggiunge qualche elemento per la falsificazione storica degli avvenimenti del confine orientale. Vent’anni di revisionismo hanno prodotto il totale capovolgimento della realtà storica, grazie allo sconvolgimento e alla decontestualizzazione dei fatti, a una lievitazione dei numeri del tutto arbitraria e priva di criteri scientifici”. In pratica, secondo i nipotini dell’Unione sovietica, gli oltre 10mila italiani infoibati sarebbero solamente un errore di contesto, in quanto “la ricerca storica ha ceduto il passo alle strumentali logiche politiche e ai sentimenti di rivalsa della destra“. Frasi che pesano come macigni sui resti dei nostri connazionali massacrati ed infoibati. Questi, però, sono solo alcuni esempi di una lista (rossa) d’orrore. Ancora oggi le vittime e gli esuli vengono infatti schiacciati dall’odio da chi vuole minimizzare o, peggio, negare questa tragedia. Ci sono voluti 35 anni perché Basovizza diventasse un monumento nazionale. Eppure, ancora oggi, il Pd si permette di censurare la mostra delle vignette del nostro Alfio Krancic per “non offendere l’Anpi”. E ancora: ci sono voluti ben 59 anni perché fosse istituito con una legge dello Stato il Giorno del ricordo. Eppure, come si chiede giustamente Gasparri,” quanto ci vorrà perché scompaiano” tutte queste “sacche deprecabili di negazionismo militante biasimate?”. Probabilmente non andranno mai via. Perché l’odio è rosso, per antonomasia.
Da “il Giornale” il 9 febbraio 2020. «Leggete gli amorevoli commenti che mi rivolgono sul gruppo Sardine di Roma. Ma questi signori sono quelli che scendono in piazza contro il linguaggio d' odio?». Giorgia Meloni pubblica sui social lo screenshot di una pagina delle Sardine di Roma piena di pesanti insulti nei suoi confronti: «Magari schiatti»; «Mentecatta, ritardata, inetta, subnormale, deficiente»; «La odio...arrivista e fascista»; «Mer... fra le mer...». A stretto giro arrivano le scuse delle Sardine nazionali, che ricordano come gli insulti si trovano sulla pagina gestita da Stephen Ogongo che «non è più autorizzato» a usare il nome Sardine «per essersi autoescluso dal movimento».
Simone Di Meo per “la Verità” il 4 febbraio 2020. Sarebbe interessante conoscere quali sono le regole d'ingaggio per vestire la giubba della psicopolizia giallorossa, quella Gestapo del pensiero critico che Palazzo Chigi ha voluto allestire in tutta fretta ufficialmente per dare la caccia ai «discorsi d' odio» sul Web, servendo in realtà da formidabile strumento di repressione del dissenso. E che annovera, in qualità di Feldmarschall, anche l' esperto di giornalismo digitale Massimo Mantellini. Uno che, stando agli standard dei Ghostbusters del rancore, potrebbe tranquillamente finire imputato davanti al tribunale delle rette coscienze per quello che egli stesso ha cinguettato, tutto allegro, dall' alto del suo profilo Twitter. Lui probabilmente si difenderebbe appellandosi all' ironia, ma - per dirla con Friedrich Nietzsche - «non con l' ira ma col riso s' uccide». E allora, leggiamo qualche Mantellini-pensiero. «Ve la meritate la Brexit, razza di idioti», ha scritto il 12 dicembre scorso. Per poi tornarci oltre un mese dopo (31 gennaio) con quell' eleganza e quell' humor che fanno tanto englishman. «Oggi è il giorno di Brexit. Gli inglesi sono sempre stati dei coglioni e come è noto alla natura non si comanda. Ma erano i nostri coglioni. Che dispiacere perdervi, amici». E, sempre in tema di politica estera, ricordiamo: «Tra pochi minuti parla Trump. Speriamo abbia preso le goccine» (3 gennaio) e «I tempi per bannare Donald Trump da Twitter mi parrebbero definitivamente giunti» (8 gennaio). Mica male per uno che dovrebbe fare il guardiano dell' amore online. Volete qualcosa su Coronavirus? Eccovi accontentati. «Il primo asiatico che incrocio lo chiudo in uno sgabuzzino. Così, per sicurezza» (30 gennaio). Che ridere. Capitolo donne. Paragrafo Junior Cally, quello che cantava «Questa non sa cosa dice, porca troia, quanto chiacchiera? L' ho ammazzata, le ho strappato la borsa, c' ho rivestito la maschera» e che si esibirà sul palco dell' Ariston su invito di Amadeus: «Se proprio devo scegliere fra un rapper improbabile che scrive testi orrendi e una schiera di vecchi patetici reazionari che gli si scagliano contro tutti assieme per impedirgli di andare a Sanremo, scelgo i testi orrendi» (19 gennaio). Sottoparagrafo signore di una certà età, stesso giorno (evidentemente Mantellini era ispirato): «Fu un errore posare per Playboy dice oggi Iva Zanicchi a Cazzullo. E nessuno che si alzi e dica: Mi scusi signora ma è stato 42 anni fa!». In tempi di riforma della giustizia targata Alfonso Bonafede, l' esperto di tecnologia pretende evidentemente la prescrizione del pentimento. E vogliamo perderci la ormai leggendaria reazione di Bergoglio nei confronti della fedele che gli aveva trattenuto la mano? Scrive Mantellini: «Il Papa stava per dare un pugno in bocca a una tizia. Poi purtroppo alla fine si è trattenuto e ha optato per due scappellotti sulla mano» (1 gennaio). «Purtroppo» che cosa vorrà mai significare, rammarico per il mancato knockout pontificio? E che dire del tweet geriatrico sulla scomparsa di Giampaolo Pansa? «È morto un giornalista molto noto in piena attività, aveva appena cambiato giornale. Aveva 84 anni. Ne traccia un ritratto oggi in prima pagina un altro giornalista in grande attività che di anni ne ha 95». Quest' ultimo, per chi non lo avesse capito, è Eugenio Scalfari che il 14 gennaio scorso, due giorni dopo la dipartita del cronista di Casale Monferrato, aveva scritto un articolo intitolato «Quando lo portai a Repubblica». Domanda a Mantellini: che facciamo coi vecchi, gli togliamo la macchina per scrivere dalle mani? E se qualcuno, tra qualche anno, dicesse così di lui, il segretario dell' opinione dominante lo denuncerebbe alla sua psicopolizia?
La “Sera di giugno” in cui l’odio comunista spense una vita. Cristiano Puglisi l' 01/02/2020 su Il Giornale Off. Francesco Cecchin era solo un ragazzo. E non era neppure maggiorenne. Ma aveva una passione: il Fronte della Gioventù. Una causa per la quale perse tragicamente la vita, il 16 giugno del 1979, dopo diversi giorni di coma e in seguito a un’aggressione avvenuta per le strade di Roma, in una serata che era iniziata in maniera tranquilla: un’uscita come tante, per una cena fuori con la sorella e un amico, che non poterono salvarlo. Un omicidio, il suo, rimasto senza colpevoli, perché quello che incredibilmente era l’unico imputato, un militante comunista, fu assolto. Una vicenda, quella di Cecchin, cui è stato dedicato uno spettacolo teatrale, ideato per ricordare uno dei tanti e sanguinosi episodi degli Anni di Piombo. Episodi spesso sepolti sotto una coltre di ideologica omertà. Soprattutto quando la vittima si trovava dalla parte “sbagliata”. Si chiama Sera di giugno ed è stato portato in scena ieri sera al teatro Rosetum, di via Pisanello 1 a Milano. Una rappresentazione accolta tra gli applausi, che ha scaldato il pubblico, rinnovando il ricordo del periodo più buio della recente storia italiana. Un periodo in cui molti furono i giovani morti per un’idea considerata sconveniente. E che, per questo, per anni non hanno goduto neanche del minimo conforto. Quello della memoria.
Caro Zingaretti, l'odio abita a sinistra. Francesco Maria Del Vigo, Sabato 08/02/2020 su Il Giornale. C' è una nuova e gravissima emergenza nazionale. Stando agli strepiti della sinistra. Non è il coronavirus, non è il lavoro, non è la crisi economica, non è l' immigrazione o la sicurezza nelle periferie. La vera pandemia, anche se non ve ne siete accorti è l' odio. Dopo il fascismo, il nazismo, il razzismo, il maschilismo (...) (...) e il populismo, la nuova polemica prêt-à-porter è l' odio. La prima a menare le danze è stata La Repubblica, sempre velocissima nell' imbastire battaglie immaginarie, che ha messo in guardia i suoi lettori dal pericolo degli odiatori con una sintesi spericolata di una intervista al ministro dell' Interno. Per inciso: la stessa Repubblica che non più tardi di venti giorni fa titolava a caratteri cubitali con un sobrissimo «Cancellare Salvini». Che non è esattamente una dichiarazione di amore. Ieri la polemica è rinfocolata attorno a uno scambio di tweet al vetriolo tra Nicola Zingaretti e Giorgia Meloni. La colpa di quest' ultima, secondo il leader del Pd, sarebbe aver detto che in Italia non c' è un problema d' odio. Una banalità, che però ha scatenato le ire dei democratici. Così Zingaretti, probabilmente per consolidare la sua tesi, le ha indirizzato un messaggio che di odio è carico: «Cara Meloni, vai a dirlo a chi è sopravvissuto ad Auschwitz e ora deve girare con la scorta o a chi ha paura di esprimere le proprie idee o di essere se stesso. Il silenzio è complicità». Praticamente ha accusato la Meloni di proteggere con il suo silenzio i delinquenti che minacciano Liliana Segre. Che non è esattamente un buffetto nel segno di peace&love. La sorella d' Italia gli risponde a stretto giro di posta: «Governate con odiatori seriali 5 Stelle, tacete sulle violenze dei centri sociali, andate a braccetto con le sardine (il cui odio organizzato puoi leggere sui social) e con chi organizza convegni giustificazionisti sulle foibe e vorreste dare lezioni? Non ne avete la statura». E, in effetti, la sinistra e i grillini sono i meno adatti a parlare di clima d' odio. O meglio, sono titolatissimi, ma come odiatori. Odio è l' antiberlusconismo con la bava alla bocca, odio è negare una targa a Norma Cossetto, odio è non servire un caffè a un leader politico sgradito, odio è dare del fascista a chiunque la pensi diversamente dalla propria cricca di appartenenza, odio è voler negare il diritto di ascolto ai sovranisti, odio è la criminalizzazione del nemico politico, odio è il tentativo, costante e palese, di delegittimazione dell' opposizione, odio è la supponenza e il livore riversato da decenni sul centrodestra. Zingaretti, se è così interessato ad abbassare il livello dello scontro, farebbe bene a guardare a casa sua e a prendersela con i suoi compagni. E magari a non tirare in ballo, a caso, tragedie come Auschwitz.
Massimo Malpica per il Giornale il 3 febbraio 2020. Pollice in alto per il faccione del duce. Un giudice del tribunale di Chieti condanna Facebook a risarcire con 15mila euro un avvocato, Gianni Correggiari, già esponente di Forza Nuova, a cui il popolare social network aveva rimosso una foto di Mussolini e una della bandiera della Rsi, oltre a sospendergli l'account per circa quattro mesi complessivi. Ma Correggiari, che aveva postato la foto «nostalgica» in occasione del proprio compleanno, ed era stato poi punito per aver scritto «viva Mussolini» e postato altre foto di simile tenore, in quanto avrebbe violato gli «standard» della community di Fb, a quel punto ha citato in giudizio Facebook per inadempienza contrattuale. E ha visto il giudice, Nicola Valletta, dargli ragione. Motivando nell'ordinanza perché il social fondato da Mark Zuckerberg dovrà risarcire l'avvocato bolognese trapiantato in Abruzzo con 15mila euro, accollandosi anche 8mila euro di spese legali. A difendere Correggiari l'avvocato Antonio Pimpini (già difensore di Giacinto Auriti, l'inventore nel 2000 del Simec, la «moneta» di Guardiagrele, poi sequestrata dalla Gdf), che dopo la decisione del 29 gennaio ha esultato con il suo assistito per questa «sentenza esemplare» che garantisce «la libertà di pensiero e non il pensiero unico, come ha lasciato intendere Facebook». Il giudice, in effetti, nella sua ordinanza non lascia trapelare inclinazioni nostalgiche del Ventennio, anzi. Nello spiegare perché le condotte di Correggiari non costituiscono una violazione degli standard di comportamento richiesti da Facebook ai propri utenti, e in particolare analizzando il «post» con la bandiera della Repubblica sociale italiana, Valletta spiega che quel vessillo apparteneva a «un soggetto che non ha trovato ovviamente riconoscimento nel diritto internazionale pattizio, ma che tale si è manifestato nel diritto internazionale generale, come noto connotato dall'effettività della sovranità, nel caso specie, ahimè, esistente», concedendosi un eloquente «ahimè» che, però, non cambia la sostanza giuridica della questione né la convinzione del giudice. Che è ancora più netta sulla questione della foto di Mussolini che, ricorda la toga teatina, «sul piano squisitamente giuridico (e in tale limitato ambito) è stato Capo di governo dello Stato italiano e come tale riconosciuto nella comunità giuridica internazionale e, fatto storico, non è stato oggetto, come persona fisica, di alcuna sentenza di condanna per attività illecite, le sue condotte non sono state ritenute difformi dal diritto internazionale dell'epoca». Insomma, Correggiari, avrebbe solo esercitato il «diritto costituzionale fondamentale di libertà di manifestazione del pensiero» e tra l'altro l'avrebbe fatto «in modalità improntate a continenza e insuscettive di limitazione». E la decisione del giudice monocratico di Chieti arriva dopo un altro verdetto avverso al social network di Zuckerberg, ossia la decisione di inizio dicembre del tribunale civile di Roma di accogliere il ricorso di Casapound e ordinare a Facebook di ripristinare la pagina del movimento politico che era stata oscurata il 9 settembre. Così, proprio su Facebook, è stato l'avvocato che ha seguito la causa per Casapound, Augusto Sinagra, a dare notizia anche della sentenza di Chieti, prima di attaccare il social network che, secondo il legale, agirebbe «nel preordinato disegno di violare libertà e diritti fondamentali in pregiudizio di una parte politica e a vantaggio di un'altra».
Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 27 maggio 2020. Forza Nuova no. CasaPound sì. Il Tribunale civile respinge il reclamo di Facebook: la pagina principale di CasaPound e il profilo di Davide Di Stefano, militante dei fascisti del terzo millennio, non sono da chiudere, a dispetto dei contenuti spesso estremi nei confronti degli avversari. Esultanza del movimento anche per la decisione (collaterale) di condannare Facebook al pagamento delle spese processuali, 12mila euro in tutto. Il social network ha la possibilità di ricorrere al giudizio della Cassazione ma, intanto, in via Napoleone III, sede (abusivamente occupata) del movimento dell' estrema destra, si assapora una vittoria inattesa dopo che il 23 febbraio scorso, con un pronunciamento antitetico all' attuale, la sezione per i diritti alla persona e all' immigrazione del Tribunale aveva accolto un' analoga richiesta di Fb stavolta nei confronti di Forza Nuova. In quel caso l' azienda fondata da Mark Zuckerberg si era vista riconoscere il diritto di rimuovere «la fornitura» del servizio agli utenti che violavano le sue condizioni. «Si ritiene - scrivevano i giudici nelle loro motivazioni - che gli esempi riportati siano sufficienti a delineare l' identità politica del gruppo quale si ricava dalla sua concreta attività politica e valgono a rafforzare la qualifica di organizzazione d' odio la cui propaganda è vietata su Facebook in base alle condizioni contrattuali e a tutta la normativa citata. La risoluzione del contratto e l' interruzione del servizio di fornitura appaiono quindi legittimi». Facebook, in quanto fornitore del format online, avrebbe insomma il diritto di pretendere il rispetto delle regole, fra le quali il contenuto della Convenzione europea dei diritti dell' uomo a tutela delle libertà fondamentali dell' individuo e contro qualunque espressione d' odio. Senza entrare nel merito dei contenuti pubblicati, il collegio composto da Claudia Pedrelli, Fausto Basile e Vittorio Carlomagno afferma invece l' inesistenza di «elementi che consentano di concludere che CasaPound sia un' associazione illecita secondo l' ordinamento generale». Il movimento della destra estrema «presente apertamente da molti anni nel panorama politico» non può essere censurato dal social network. Pur non intendendo assegnare «patenti di liceità» i giudici parlano di «impossibilità di riconoscere a un soggetto privato, quale Facebook Ireland, sulla base di disposizioni negoziali e quindi in virtù della disparità di forza contrattuale, poteri sostanzialmente incidenti sulla libertà di manifestazione del pensiero e di associazione». Assistito dagli avvocati Augusto Sinagra e Davide Colaiacovo, Di Stefano giubila, sostenendo, in un intervento a sua firma, che i principi costituzionali e del diritto italiano hanno trionfato sulle ragioni del network straniero.
Professore critica l'Anpi: un mese di sospensione e stipendio dimezzato. Il docente aveva contestato un incontro a scuola: "Un comizio senza contraddittorio". Gli studenti si schierano a suo favore: "Questa è una soffocante censura". Luca Sablone, Domenica 09/02/2020 su Il Giornale. Vietato criticare l'Anpi. Su segnalazione dell'Anpi di Civitanova, un docente è stato sanzionato per aver polemizzato contro la presentazione del libro "Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti" dello storico Andrea Martini tenutosi il 28 novembre scorso. Matteo Simonetti, professore di storia e filosofia nella scuola Leonardo Da Vinci, l'aveva etichettato come un "comizio senza contraddittorio". Ma gli è costato caro: sospensione dall'insegnamento per 30 giorni e decurtazione dello stipendio del 50%. Come riportato da Libero, è questa la decisione intrapresa dalla direzione generale dell'Ufficio scolastico regionale. L'incontro era riservato ai ragazzi frequentanti le classi quinte. Improvvisamente alcuni di loro avevano iniziato a lasciare l'auditorium, provocando l'irritazione degli organizzatori. Il prof, seccato dalla situazione, aveva espresso la propria posizione al termine del convegno: "Questo è un comizio, un dibattito a senso unico". Parole che avevano provocato la dura reazione da parte di Pier Paolo Rossi, consigliere del Partito democratico: "Si vergogni, se lei oggi può dire quello che dice è solo perché siamo in democrazia e perché c’è chi ha lottato per ottenerla". In difesa del docente si erano schierati gli studenti della classe quinta N del Liceo Da Vinci di Civitanova. A loro nome Mattia Cervellini aveva scritto un posto su Facebook per tentare di ricostruire la vicenda: "Con la riduttiva espressione 'chiamati a partecipare' intendo sottolineare che il coinvolgimento di tutte le classi quinte dell’istituto era obbligatorio nonostante non fossero passate le adeguate circolari di preavviso nelle classi". Un incontro che ha assunto una "evidente piega politica". Il che ha scatenato "una reazione abbastanza forte da parte degli stessi studenti. Sono stati alcuni di loro infatti, a chiedere ai professori di poter andarsene… Al termine della seconda ora di convegno, erano pochi gli studenti rimasti, tra cui, quelli della mia classe".
"Soffocante censura". Successivamente è arrivato il momento degli interventi. Il prof Simonetti "ha esordito dicendo che coloro che ancora oggi si definiscono fascisti hanno una visione estremamente anacronistica della realtà e sarebbe l’equivalente di definirsi giacobini". Poi ha ribadito che, davanti a tematiche così delicate, è fondamentale garantire "una pluralità di opinioni e fonti, in linea con un vero approccio storiografico". Il docente infatti ha affermato che "il valore di una democrazia sta proprio nel garantire la libera espressione del proprio pensiero, trascendendo ogni forma di componente politica". Le risposte ricevute sono state però tutt'altro che democratiche: "In una democrazia non tutte le opinioni possono essere accettate"; "Quando si parla di Resistenza non occorre una controparte". All'uomo hanno tolto il microfono e "contro di lui si è schierato, maleducatamente, uno dei consiglieri comunali di Civitanova. Il docente è stato accusato di non essere degno di insegnare a noi studenti, di catechizzare pericolosamente, mettendo così in dubbio la sua serietà riguardo l’insegnamento". In seguito al prepotente comportamento, gli studenti hanno deciso di abbandonare l'auditorium: "Questa reazione decisamente impertinente e arrogante ha catalizzato una risposta da parte di noi studenti, che abbiamo preferito uscire dall’auditorium". E alcuni ragazzi rimasti hanno sentito ulteriori attacchi provenire dai relatori: "Lei è un fascista e dunque se la prende"; "Nazista". E in tutto ciò gli studenti sono stati accusati anche di "essere delle marionette, senza la minima capacità peculiare di ragionare". Il ragazzo ha così concluso il suo post sul vergognoso comportamento tenuto dai relatori (e non solo) nel corso del convegno dell'Anpi: "Grazie a questo però, abbiamo capito quanto sia soffocante la censura, specialmente se giustificata dal buon nome della democrazia".
Rita Dalla Chiesa: "Sardine? Salvini è stato l'unico a omaggiare mio padre". La giornalista, figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, difende il leader leghista e tira una frecciatina ai "pesciolini" per quanto successo a Palermo. Pina Francone, Martedì 04/02/2020 su Il Giornale. "L'unico politico che sia andato a salutare il commissariato di polizia e la lapide di mio padre è stato Matteo Salvini. Mentre le sardine ballavano e bevevano la birra in piazza…". Scrive così Rita Dalla Chiesa sul proprio profilo Twitter, commentando la visita di ieri – lunedì 3 febbraio – del segretario della Lega a Palermo e della contestuale contro-manifestazione del movimento ittico di piazza, come riportato dall'Adnkronos. La giornalista è appunto figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre del 1982 nel capoluogo siciliano (di cui era diventato prefetto per combattere la mafia di Cosa Nostra) in un attentato mafioso, nel quale morirono anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente della scorta Domenico Russo. Il leader del Caroccio ha incontrato i militanti ma anche in questa occasione è stato preso di mira da contestatori e dalle sardine, che hanno costretto l'entourage dell’ex ministro dell'Interno ad annullare la visita al mercato di Ballarò. Ma non la visita al commissariato di polizia e alla lapide del generale Dalla Chiesa. Il momento clou della giornata è stato l'evento organizzato al teatro "Al Massimo", gremito in ogni ordine di posto: numerose, infatti, le persone che non sono riuscite a entrare visti che i posti erano andati esauriti e visto che la capienza massima era stata appunto raggiunta: "Mi dispiace per le tante persone rimaste fuori - ha dichiarato l'ex titolare del Viminale - la prossima volta prendiamo un palazzetto dello sport o la piazza più grande di Palermo per non lasciare fuori nessuno". In strada anche gli antagonisti: i "pesciolini" hanno cercato di rubare la scena al leghista, attaccandolo con cartelloni e cori di protesti. Su tutti "Palermo non si lega". A differenza però degli annunci, le sardine non erano migliaia ma appena qualche centinaia. E ovviamente qualcuno ha intonato "Bella ciao". Ai microfoni della stampa, l'ex vicepremier ha così commentato la contro-manifestazione:"Quello delle sardine è un movimento che mi odia, non posso neanche dirgli 'mettete dei fiori nei vostri cannoni' perché magari fraintendono. Una brutta vita quella che ti vede in piazza contro qualcuno. Io non sono a Palermo contro qualcuno, sono a offrire un'idea di città ai palermitani che vogliono ascoltare. Uno che dice 'esisto perché non mi piace Salvini'... auguri. Io mi accontento dei sondaggi che danno la Lega al 33.3 per cento. Basterebbe che portassero un'idea. Andare in piazza a dire mi sta sulle balle Salvini, non è che rappresenti un'idea di Sicilia diversa". Le "Sardine" palermitane contro Salvini: "Qui non lo vogliamo".
Sardine, Pietrangelo Buttafuoco: "Sorridono, ma hanno metodi maoisti. L'odio è strumentale". Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 10 Febbraio 2020. Per Pietrangelo Buttafuoco quello dell' odio è un dossier appannaggio, oggi, «di tutte le centrali del cosiddetto "bene assoluto"». Un fronte che va, indifferentemente, dalle Sardine ai «tweet di padre Spadaro» fino a chi dipinge Salvini a testa in giù. Eresia? Tutt' altro. «Il problema - spiega lo scrittore a Libero - nasce dal fatto che da questa macchina potentissima, che passa da tutte le stazioni di questa ascensione trionfante del "bene", non si viene criticati per quello che si dice, si viene criticati per ciò che si è».
Eppure la lotta contro "l' odio" - in questa stagione giallorossa - è indirizzata contro l' opposizione.
«È tutto strumentale. Sono gli ultimi singulti dell' ideologia. Perché è questo l' ambito attraverso cui ci si può agilmente costruire un nemico e schierare quindi il bene contro il male. In automatico, così, chi ancora si fa forte dell' ideologia si "posiziona" ed è inevitabile che qualunque sua rappresentazione sia la rappresentazione dell' assoluto bene».
Sta descrivendo la fenomenologia delle Sardine.
«Le Sardine sono tutte carine, sono tutte giovani. Hanno il cerchietto... hanno a disposizione l' ascolto dei più importanti canali del mainstream. Non c' è nulla di quella che una volta poteva essere la cultura dell' antagonismo che, non a caso, faceva fatica a trovare spazio».
Be', il ruolo delle Sardine sembra proprio quello di arginare la contestazione tacciandola di "odio" per rafforzare il governo.
«L' odio è diventato il pretesto attraverso cui ogni dissenso vero, effettivo, viene derubricato in quella categoria affinché non abbia la possibilità di esprimersi. In tutto questo c' è uno sfondo storico ed ideologico che è stato resuscitato».
Il pericolo "nero".
«Ovviamente. L' antifascismo in assenza di fascismo: che ha una funzione fortissima, è un collante irresistibile, è permeabile a tutti i luoghi comuni. Non necessita di una riflessione storica, e fa impressione una cosa: che è come se nell' orizzonte culturale italiano non ci fosse mai stata l' opera di Renzo De Felice. Come se non ci fosse mai stato il perfetto e coraggiosissimo discorso di Luciano Violante quando dalla Camera chiese una riflessione sui vinti. Come se non ci fosse mai stato un moto di pacificazione che era nelle corde, nelle cose. Dimenticare tutto in un colpo sembra il percorso di questa Italia...».
Il Censis ha fatto la sua diagnosi: se l' Italia oggi non coltiva il futuro è tutta colpa del sovranismo "psichico".
«È conseguenza di un atteggiamento tardo-ideologico: siccome non si vuole avere la responsabilità di risolvere i problemi, allora si criminalizza chi chiede attenzione su quei problemi. Più che psichico è un passaggio di raffinata psicologia delle masse per inibire il dissenso rispetto al pensiero unico».
Orwell prefigurava già in 1984 i "due minuti d' odio" contro il nemico...
«Mi ha colpito il momento in cui le Sardine ricevono il papà di Lucia Borgonzoni. Mi ha ricordato quelle scene che si vedevano nei filmati nella Cina di Mao, quando i genitori venivano costretti a ripudiare i figli se fossero andati fuori linea o viceversa. Raggelante, a maggior ragione perché veniva accolto dal mainstream con compiaciuta e sorridente accettazione. Come per dire: guarda, che coraggio questo padre che si mette contro la figlia. Altro che Orwell, qui siamo nel pieno della rivoluzione culturale maoista».
"Cancellare Salvini", è arrivata a titolare Repubblica.
«Lo fanno perché sanno di poterselo permettere. L' avesse fatto Libero sarebbe arrivata la polizia del pensiero a chiudere la redazione. Sa qual è la questione vera? Nel dibattito pubblico in Italia vige il tabù, e il tabù è inamovibile. E chi è detentore del tabù ti fa una pernacchia. Quel titolo "Cancellare Salvini" è il paradigma per eccellenza di questo meccanismo».
Una forma d' odio è entrata persino nella manovra: tasse etiche contro i produttori, controlli morbosi contro i commercianti...
«Anche questo è un retaggio legato a un ben precisa psicologia: quella di raddrizzare le gambe ai cani. Che cosa ha fatto del resto il sistema dopo la crisi di agosto? Ha detto: basta, abbiamo finito di "scherzare". Come i giornali del mainstream continuano a dettare legge pur in assenza di lettori, così il sistema si fa governo in assenza di elettori».
Ritorna pure l' odio retroattivo. Contro "via Almirante".
«Ha già detto tutto Antonio Padellaro nel suo bellissimo saggio su Almirante e Berlinguer, dove si augura una strada intitolata "Via Giorgio Almirante ed Enrico Berlinguer". Appaiati».
Antonio Rapisarda
Alba Parietti travolta dagli insulti. L'opinionista, ospite a Stasera Italia su Rete Quattro, ha messo in dubbio la legittimità del voto: "Finché una popolazione non ha un'adeguata istruzione non può essere in grado di votare in modo legittimo". Una frase che ha immediatamente suscitato la rabbia della conduttrice, Barbara Palombelli che ribatte: "Adesso mettere in discussione il suffragio universale". Secondo l'ex showgirl "la politica negli ultimi anni è stata fatta solo di sondaggi, abbiamo preso esempio dalle elezioni americane di 2000 anni fa dove si decideva pena di morte, non pena di morte a secondo di quello che votava la gente". E ancora in diretta tv: "Questo è il Paese che ha, come dire, dato la pena di morte o stabilisce l'immigrazione e decide tutto questo sulla base di voti. Cioè io non dico quello che penso o quello che ho nell'animo, ma vado dove va l'elettorato o dove penso che il popolo vada". Un intervento, quello della Parietti, che è stato subito rilanciato sui social. Là dove si è accanita la maggior parte della critica: "Dite alla Parietti che quando il popolo ha guadagnato il diritto di voto aveva percentuali di analfabetismo di oltre il 20%. Eppure il più ignorante dell'epoca avrebbe detto meno c...", scrive un utente. Mentre un altro gli fa eco: "Agghiacciante roba da fare rivoltare nella tomba Margaret Thatcher".
Salvini contro Alba Parietti: "Togliere il voto a chi non è istruito? Arroganza di sinistra senza limiti". Libero Quotidiano il 30 Gennaio 2020. A Matteo Salvini non sfugge il video in cui Alba Parietti suggerisce di "cancellare" la democrazia. "Finché una popolazione non ha un'adeguata istruzione non può essere in grado di votare in modo legittimo", ha dichiarato l'ex showgirl suscitando lo sconcerto di Barbara Palombelli che, ridendo, le ha risposto così: "Adesso mettere in discussione il suffragio universale...". Salvini in un post su Facebook ha rilanciato il video della Parietti tra i suoi sostenitori e lo ha commentato con poche, ma dure parole: "Siamo alla follia. L'arroganza della sinistra non ha limiti...". Nel giro di pochi minuti il leader della Lega ha raccolto migliaia di opinioni, una particolarmente diffusa e apprezzata dal popolo della rete: "Ovviamente finché gli operai con la terza media votavano a sinistra andava bene. Oggi che gli operai guardano a destra, non sono più degni di votare. Brava - riferito alla Parietti - complimenti. Però prima impara a parlare".
Alba Parietti contro Matteo Salvini dopo Stasera Italia: "Ha scatenato contro di me gli odiatori". Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Alba Parietti vaneggia a Stasera Italia e dà la colpa a Matteo Salvini. L'opinionista è stata presa di mira per le parole pronunciate durante il programma di Barbara Palombelli. Quelle in cui annunciava: "Finché una popolazione non ha un'adeguata istruzione non può essere in grado di votare in modo legittimo". Una frase che ha scatenato l'ira di tutti, compresa quella del leghista che ha replicato su twitter: "Siamo alla follia. L'arroganza della sinistra non ha limiti". Un commento pronunciato solo dopo numerosi attacchi, ma che per la Parietti hanno "scatenato una marea di odiatori, le mie parole sono state mistificate" ha riferito. "L'unico termine sbagliato perché fraintendibile è 'legittimo'. Non ho citato nessuna parte politica e sono stata chiara nello spiegare ciò che intendevo - ha proseguito l'ex showgirl -. Dopo aver assistito alla solita gogna mediatica, gratis, aver preso insulti violenti volgari da sessisti, da donne soprattutto, senza che nessuno di autorevole abbia speso una parola per fermare l'odio e gli insulti irripetibili rivolti alla mia persona". E allora, perché prendersela solo con Salvini? “Finché una popolazione non ha un’adeguata istruzione non può essere in grado di votare in modo legittimo”. Siamo alla follia.
Alessandro Fulloni per milano.corriere.it il 5 febbraio 2020. Il vandalismo — sconcertante — è stato scoperto lunedì mattina dall’Anpi. È stato il presidente della sezione di Milano Roberto Cenati a raccontare che «la targa dedicata a Giuseppe Pinelli dal Comune nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario di piazza Fontana e della tragica fine di Pinelli, diciottesima vittima, è stata oltraggiata e spaccata. La gravissima provocazione è avvenuta in piazzale Segesta». A pochi passi da dove viveva la stessa famiglia Pinelli, zona San Siro. Martedì — saranno state circa le 13 — il giornalista Mario Calabresi ha twittato: «Danneggiare la lapide di Pino #Pinelli è un gesto vile e infame. Noi ci abbiamo messo un fiore, perché è quello che merita». Raggiunto telefonicamente dal Corriere il figlio di Luigi — il commissario ucciso a Milano da un commando di Lotta Continua mentre rincasava, alle 9 e 15 del 17 maggio 1972 — racconta che quel fiore «è andato a metterlo mia madre, ne ha messi due, uno per me e uno per lei. Non riusciamo a credere che ci possa essere chi oggi fa un gesto così vigliacco e grave. Pensiamo che lo si debba dire con chiarezza. Io in quella piazza e in quel quartiere ci sono cresciuto. Per noi quella lapide e la quercia rossa che è stata piantata insieme sono simboli belli e importanti da preservare». Sulla stele sono incise queste parole: «A Giuseppe Pinelli ferroviere anarchico morto tragicamente nei locali della questura di Milano il 15-12-1969». Quella morte — un volo dalla finestra di una stanza al quarto piano dove era in corso l’interrogatorio di Pinelli, fermato per accertamenti sulla strage che tre giorni prima fece 17 morti — sconvolse l’Italia. L’istruttoria del giudice Gerardo D’Ambrosio assolse poi il commissario, scagionando la polizia e concludendo che la caduta avvenne per «l’improvvisa alterazione del centro di equilibrio». Una morte «accidentale» in un momento in cui Calabresi non si trovava neppure nella stanza.
Renato Farina per “Libero Quotidiano” il 5 febbraio 2020. Scrivere la recensione di un libro che non si è letto è normale. Gli amici degli amici lo fanno quasi sempre. Un esempio? Lo svenevole entusiasmo che ha accompagnato l' uscita del libro giallo di Walter Veltroni, mi rifiuto di credere sia nato dall' esperienza di una notte in compagnia di quelle pagine. Scriverne una su un libro non ancora uscito, e perciò solo immaginato a partire dal battage che lo accompagna, è invece un' impresa onesta. Si può perfettamente intuire il posto che l' opera e il contorno orchestrale occuperanno nel puzzle di questo nostro tempo. Parlo del volume di Paolo Berizzi, Feltrinelli, 240 pagine, prenotabile al prezzo di 13,60. Sarà in libreria il 6 febbraio. Dopo qualche giorno un evento con la stessa intestazione sarà in scena alla Feltrinelli di piazza Duomo a Milano, il 14 febbraio: dialogheranno con l' autore, il direttore di Repubblica Carlo Verdelli e altri cospicui personaggi. Il vocio crescente, solenne e insieme concitato, sta tutto nel titolo, che ha la forza di una piramide che pretende di spiegare l' essenza del nostro momento storico: «L' educazione di un fascista». Non è un libro storico. Ma racconta il presente. Leggere le stringate parole che introducono all' incontro di piazza Duomo spiega in che cosa consista il male assoluto. «Orgoglio italiano. Onore. Patria. Lealtà. Sacrificio. Sono le parole d' ordine dei nuovi balilla». La presentazione fornita dalla casa editrice è più esplicita. Il fascismo non è un fenomeno del passato. «C' è stato un passaggio tra le generazioni». «Il ritorno dell' educazione fascista» è un fatto di massa: «Da nord a sud l' Italia è percorsa da una tendenza ormai visibile e capillare, capace di modellare i costumi e la mentalità attraverso potenti suggestioni. C' è una rete di palestre in cui gli sport da combattimento si usano per allevare picchiatori, militanti, "uomini nuovi"». Un passaggio tra generazioni. Il fascismo, contestando le tesi arci-documentate di Renzo De Felice, non è un fenomeno storico, circoscritto ed emerso grazie all' unicità di Benito Mussolini. Povero De Felice non ha capito nulla. Non andava in palestra! Il fascismo per questi nuovi geni della storiografia è un connotato razziale, genetico, una specie di virus che si contrae alla nascita dal papà e dal nonno, e poi viene sviluppato nel buio di parolacce orribili. Non viene in mente agli ideologi dell' antifascismo del nuovo millennio che lealtà, onore, patria, eccetera meriterebbero sicuramente interpeti migliori, ma esse affascinano molta gioventù (assai più di quella delle mitiche palestre berizziane) proprio perché sono maciullate dal relativismo devastante che pervade ormai gran parte delle agenzie una volta educative? L' ironia con cui in questi manifesti repubblichesi (per distinguerli da repubblicani e repubblichini) sono circondati i valori, la loro riduzione ad Hitlerum è esattamente carburante per la disperazione di molti, e il fanatismo di alcuni dementi. Fascisti? Direi piuttosto mitomani. Pericolosi. Da non sottovalutare. Questa gente ha minacciato Berizzi, cui tocca girare con la scorta (ad altri è toccato e tocca per oscuri avvertimenti di epigoni di brigatisti rossi); insiste nel terrorismo verbale contro lo stimabile direttore di Repubblica, a cui va la nostra solidarietà senza distinguo; ha imbrattato il nome di Liliana Segre. Ma esaltare la potenza di questo fenomeno somiglia tanto a un desiderio costruito per delegittimare quelle che il libro chiama «pulsioni identitarie» che - senza nominarli, ma di certo pensandolo - sono intese come il veleno sociale sparso da Salvini e Meloni. Il male va combattuto, dovunque si annidi. Ovvio. Ma se si sbaglia diagnosi, e si parla di fascismo rinato, la terapia diventa peggiore del male, si trasforma in una chiamata alle armi, perché la «resistenza è incompiuta». E si finisce per costruire un recinto di sub umanità dove confinare la destra che per ragioni fatali e genetiche partorisce fascisti, tenendola alla larga dal gioco democratico. Ed ecco la mia recensione anticipata, alla cieca, no look, come si dice di certi assist di Messi. Il libro di Berizzi è scritto in modo brillante. L' inviato di Repubblica annota quello che vede, e lo fa con onestà ed eccellente resa drammatica. Qual è il problema? Paolo è formidabile a narrare, ma quando poi si ferma a pensare è un disastro. Le sue storie sono trasformate, sull' onda dei canoni ovvi del giornale per cui lavora, nell' ombelico del mondo. La nostra stima per gli occhi e le dita di Berizzi è tanta. Scorge il ramo, ne descrive i bitorzoli, la fogliolina mangiucchiata dal bruco, lo scoiattolo assalito dallo sparviero. Non vede la foresta, e ignora che poi c' è la pianura. Capita ai cronisti più grandi, come fu Giampaolo Pansa. Non è un peccato mortale, basta saperlo. Berizzi fu assunto al Borghese da Vittorio Feltri, poi lo volle a Libero proprio quando cominciavamo l' avventura. A Repubblica fiutarono uno bravo, la nostra barchetta pareva destinata a un naufragio immediato, Paolo traslocò con i complimenti della nostra ciurma di straccioni di Valmy in ambiente più à la page. Nel 2008 scrisse un libro straordinario ambientato a Milano, non in Calabria: «3 euro l' ora» (Baldini & Castoldi). Berizzi vi raccontava come numerose imprese edili utilizzassero una umanità di stranieri disgraziati, veri schiavi, sotto l' occhio distratto degli ispettori del lavoro. Erano clandestini. Quel volume diventò la pietra fondativa per costruire l' ideologia dell' accoglienza senza limiti, e la regolarizzazione di chiunque e con qualsiasi ragione fosse giunto nel nostro Paese. Berizzi non c' entra, ma accadde. Noi ne traemmo la lezione opposta: occorrevano politiche atte a impedire la tratta di povericristi usati come manovalanza a costo e standard di sicurezza infimi. Eravamo isolati. A noi quegli affreschi di Paolo suggerivano il precedente degli schiavi trascinati dall' Africa Occidentale nelle piantagioni di cotone dell' Alabama. Rimedio? Liberarli e bloccare l' andirivieni di navi negriere. Concetto da trasferire nel nostro tempo. Puro buon senso. Prevalse e perdura invece nella cultura dominante diffusa a larghe mani dalle casematte progressiste il contrario: ponti d' oro all' invasione, da qualunque parte venga e da chiunque sia gestita. Allo stesso modo di «3 euro l' ora» questo volume è una compilazione onesta e drammatica, con toni da far paura, di episodi e personaggi da brividi. Ma «L' educazione di un fascista» con quel titolo e quella ghirlanda di tesi che lo incorona di gloria preventiva, è destinato a essere la tromba squillante di una propaganda menzognera. Al servizio di una vera e propria fabbrica della paura onde squalificare nella competizione politica, con argomenti malati di razzismo biologico, la destra sovranista che dice proprio: lealtà, onore, patria, sacrificio. Saranno mica parole fasciste? Io le ho imparate in Omero.
Vigile si uccide vicino al Comando. Era stato multato per l’auto sul posto disabili. Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 da Corriere.it. Alle 5.30 del mattino si è presentato davanti al comando, con la sua pistola di ordinanza, e si è sparato: un agente di Polizia locale di Palazzolo (Brescia) si è ucciso martedì mattina all’alba. L’uomo, 43 anni, si è ammazzato vicino al comando. Non è ancora chiaro se abbia lasciato un biglietto. Negli ultimi giorni era stato criticato sui social per aver parcheggiato su un posto disabili nella bergamasca. L’agente si era scusato e si era anche auto-multato.
Agente suicida, era stato preso di mira sui social per la sosta in un posto disabili, ma aveva pagato la multa. Per quel posteggio irregolare, immortalato in una foto, aveva ricevuto numerose critiche su Facebook, così aveva deciso di auto-sanzionarsi. La Repubblica il 4 febbraio 2020. L'agente della polizia locale che oggi all'alba si è ucciso a Palazzolo, nel Bresciano, sparandosi con la pistola d'ordinanza, era finito fra le polemiche qualche giorno fa per aver parcheggiato l'auto di servizio in un posto riservato ai disabili a Bergamo vicino a una sede universitaria. L'agente era stato preso di mira sui social, si era scusato e si era anche auto-multato. Al momento però non è stato specificato se l'uomo ha lasciato un biglietto per spiegare i motivi del gesto. Lo scorso 24 gennaio il presidente di una associazione di invalidi aveva notato in via Caniana a Bergamo un’auto della Polizia locale di Palazzolo sull’Oglio posteggiata in modo irregolare, proprio sotto il cartello che riservava quel parcheggio ai disabili, e aveva postato la foto sul proprio profilo, specificando che la macchina era rimasta lì "per parecchie ore". La fotodenuncia ha raccolto molti commenti di utenti indignati ed è stata condivisa decine di volte, provocando pochi giorni più tardi la reazione della Polizia locale di Palazzolo. L’associazione degli invalidi ha ricevuto una duplice lettera di scuse, dal comandante e dall’agente che aveva parcheggiato il mezzo. Il primo si è dichiarato profondamente rammaricato per l’accaduto "in quanto da anni anch’io opero come volontario nel settore della disabilità e sono particolarmente sensibile alle problematiche che ogni giorno devono essere affrontate dalle persone diversamente abili", mentre il secondo ha spiegato di aver commesso un errore perché "purtroppo mi sono confuso con la segnaletica, anche se ciò non mi giustifica", chiedendo inoltre "di considerare le scuse e di continuare a credere nelle istituzioni e nel nostro lavoro". Inoltre il vigile ha inviato all’associazione bergamasca un contributo di cento euro. L’associazione ha accettato le scuse spiegando che la donazione sarebbe stata impiegata nel fondo per l’abbattimento delle barriere architettoniche: "Per noi è tutto risolto", hanno scritto.
Insultato sui social, si uccide il vigile che si era già scusato. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Mara Rodella. La foto della sua auto parcheggiata era finita in Rete. Lui aveva chiesto scusa, si era anche dato una multa. Si è sparato. Non erano bastate le scuse, la multa che si era auto inflitto e persino un «contributo» devoluto all’Associazione nazionale mutilati e invalidi civili. Origini siciliane, 43 anni, agente di polizia locale a Palazzolo, nell’ovest bresciano, Gian Marco Loritopare non abbia retto agli attacchi social che si sono scatenati — e non si sono placati — contro di lui, dopo che, alla fine di gennaio, l’auto di pattuglia era stata immortalata in un parcheggio per disabili a Bergamo, vicino all’università. Lui che, figlio di un carabiniere, «la sua divisa la portava sempre con enorme dignità, grande impegno e acuta sensibilità», lo piangono ora il suo comandante Claudio Modina e il sindaco del paese Gabriele Zanni. Perché Gianmarco non c’è più. Si è sparato all’alba con la pistola d’ordinanza, dentro l’auto di servizio, nel cortile del municipio di Palazzolo, a ridosso del comando. A dare l’allarme è stata la ex compagna (con la quale ancora abitava poco lontano, a Cologne), Marisa Murgia, insegnante di origini sarde. La loro relazione era finita in estate, «ma continuavamo ad avere un ottimo rapporto» assicura, allontanando l’ipotesi che la fine della loro storia possa aver avuto un peso nel drammatico epilogo. Ma forse, non lo sapremo mai. «Non si dava pace per quanto successo, era disperato» assicura lei. Che sferra un attacco durissimo al web: «I social uccidono». Come se Gian Marco temesse che tutto quell’odio gratuito potessero annullare o quantomeno scalfire il duro lavoro di anni, sempre svolto con devozione estrema, verso i colleghi e la gente. Tutto è iniziato il 24 gennaio, quando il presidente dell’Anmic orobica e nel direttivo nazionale, Giovanni Manzoni, ha notato l’auto della polizia locale di Palazzolo in via dei Caniana, a Bergamo, vicino all’università: parcheggiata in un posto per disabili. L’ha fotografata e, indignato, postata sul suo profilo Facebook. I commenti non si sono fatti attendere: a decine, di tutti i toni. La segnalazione è arrivata anche al responsabile. E pure la sua, di reazione, è arrivata in tempo zero. Il suo mea culpa l’aveva messo nero su bianco in una lettera, Gian Marco, dopo essersi multato: «Non ho parole per esprimere il mio rammarico. Voglio precisare che non era mia intenzione, ma purtroppo mi sono confuso con la segnaletica, anche se ciò non mi giustifica». Non solo. «A seguito di quanto successo voglia accettare un contributo di cento euro (pari alla sanzione, ndr) per l’associazione da lei presieduta, oltre alle mie scuse, e continui a credere nelle istituzioni e nel nostro lavoro». L’agente Lorito voleva ripartire proprio dal suo errore, «per poter fare di più e meglio». La sua lettera è stata pubblicata, così come la foto prima, sul profilo di Manzoni che commentava: «Questo episodio ha dato la possibilità di rinsaldare la collaborazione tra Amnic e forze dell’ordine». Tanti like, parecchi commenti positivi anche in relazione al comportamento non scontato di Gianmarco, ma forse, ancora tanta, troppa rabbia verso di lui. Che non avrebbe retto.
Il suicidio del vigile linciato per il parcheggio. "Era diventato un incubo". Il viceministro dell’Interno Crimi: la violenza perpetrata dai social network è vergognosa. Paolo Berizzi il 4 febbraio 2020 su La Repubblica. PALAZZOLO SULL'OGLIO - Sorride Gian Marco, è emozionato come una matricola, la placca dorata sul petto è il suo primo encomio ufficiale. Nella fotografia i colleghi gioiscono con lui. Venti gennaio 2019. Un anno prima dell'abisso. Esattamente 399 giorni dopo, per un parcheggio vietato - un vigile che mette l'auto di servizio su un posto riservato ai disabili - , si scatenerà la gogna dei social. Sarà l'innesco della fine. Non è un ragazzino l'agente Gian Marco Lorito. Non è perseguitato dai compagni di scuola. È un pubblico ufficiale che a 44 anni si toglie la vita perché non riesce a sopportare la condanna del tribunale virtuale: i social network. "Quei messaggi per lui erano diventati un incubo - racconta la compagna Marisa, 42 anni - . Vedeva la sua carriera rovinata. Soffriva all'idea di avere magari disonorato la divisa. Lui che viveva per questo lavoro e che era stimato da tutti. È tutto qui, davvero: non ci sono altri motivi. Prima di questa storia Gian Marco era sereno". Già. Prima che i gruppi Facebook iniziassero a rovesciargli addosso il repertorio che, nel tempo dell'odio in tempo reale, può toccare a un vigile che ha commesso un errore sì, plateale, ma di cui si era già scusato (con tanto di autopunizione e donazione). Messaggi di questo tenore: "Meglio ridere, altrimenti è meglio spararsi". "Vergognati". "Ecco gli abusi di potere". "Incivile, è così che dai l'esempio!". "Puoi anche ammazzarti". Gian Marco l'ha fatto davvero. L'altra notte, erano le 4.30, non vedendolo rincasare dopo il turno finito alle 24 nel comune di Cividate, Marisa chiama il Corpo di polizia di Palazzolo (il comando di appartenenza dell'agente). Si attiva il capo dei vigili, Claudio Modina. È lui che trova Lorito riverso nell'auto di servizio: parcheggiata lì, nel cortile della polizia locale (che confina con il municipio). L'agente che l'anno scorso era stato premiato perché aveva fermato un'auto rubata con a bordo gli attrezzi dei rapinatori - armi finte, attrezzi da scasso, passamontagna - si è tirato un colpo con la pistola d'ordinanza. La soluzione più estrema per togliersi di dosso l'onta del vigile che sulla pubblica via occupa lo spazio destinato ai veicoli dei portatori di handicap. Una storia agghiacciante dove alla fine, forse, perdono tutti. Raccontiamola dall'inizio. Il 24 gennaio Lorito - origini siciliane, niente figli, l'hobby del calciobalilla (giocava il torneo del campionato Csi) - è con i colleghi di Palazzolo all'università di Bergamo: seguono un corso anti-infortunistica nella sede centrale di via Dei Caniana. Fuori dall'ateneo l'auto della polizia locale è parcheggiata sulle strisce del posteggio riservato ai disabili. Alla guida c'era lui, Gian Marco. L'immagine viene catturata da uno smartphone: a rilanciarla sui social, per denunciare il fatto, è Giovanni Manzoni, presidente della sezione bergamasca dell'Anmic (associazione nazionale mutilati e invalidi civili). La notizia inizia a girare: prima sui social, poi sui giornali locali. Lorito si scusa immediatamente con una lettera indirizzata allo stesso Manzoni: "Buongiorno presidente - scrive - , non ho parole per esprimere il mio rammarico... A seguito di quanto successo voglia accettare un contributo di 100 euro per l'associazione da lei presieduta. Si prega di considerare le scuse e di continuare a credere nelle istituzioni e nel nostro lavoro". Il vigile, in pratica, si auto-sanziona. Oltre che fare pubblica ammenda gira all'Anmic un contributo: la multa per chi parcheggia sulle strisce dei disabili è di 87 euro (60 euro se pagata entro i classici cinque giorni). Lorito fa un bonifico di 100 euro. Finita lì? Macché. Il ventilatore del fango social continua a girare. La vicenda viene strumentalizzata anche dalla politica: a Palazzolo le opposizioni alla giunta di centrosinistra (attraverso il gruppo MOS Palazzolo) soffiano sui tizzoni. Le ultime pietre virtuali piovono addosso a Lorito il 2 febbraio, domenica. Il giorno dopo, il vigile si suicida (è il quarto caso negli ultimi tre anni che vede vittime agenti della polizia locale nella provincia di Brescia, tra Darfo, Desenzano del Garda e Travagliato). "È uno dei più grandi fallimenti umani e professionali da quando sono sindaco", dice Gabriele Zanni, primo cittadino di Palazzolo. Parla di Lorito come di "un uomo di valore che ha sempre cercato di onorare la divisa, assumendosi in pieno le sue responsabilità". Una rosa bianca e un biglietto ("ciao Gian Marco"). A destra del cancello. Un altro mazzo di fiori in cortile. Venerdì Lorito aveva giocato a biliardino all'oratorio di San Pancrazio. La mente, però, doveva essere altrove. Agli attacchi della rete, certo. Forse alla paura di sanzioni. O chissà, magari di vedersi declassato per il danno d'immagine procurato al Comune. Dopodiché non si può escludere che al suo disagio profondo abbia contribuito anche altro. "Aveva già chiarito tutto sia con noi che con il sindaco", spiegano al comando dei vigili. Anche per Giovanni Manzoni la vicenda era chiusa. "Non volevamo trasformarlo in un mostro. Per noi era tutto finito dalla mattina alla sera. Non può essere che per alcuni commenti imbecilli una persona possa essersi tolta la vita". I commenti imbecilli, se alimentati, si gonfiano e possono diventare cyberbullismo. "La violenza perpetrata dai social network è vergognosa e inaccettabile", afferma il viceministro dell'Interno Vito Crimi. Paradosso: la carambola impazzita dell'odio, ieri, dopo la notizia della morte del vigile, ha invertito la sua rotta e si è indirizzata contro il presidente dell'Anmic. Insulti contro di lui, adesso, "colpevole" di avere diffuso la foto dell'auto in sosta vietata.
Fabio Poletti per ''la Stampa'' il 5 febbraio 2020. Presidente Giovanni Manzoni, alla fine si è suicidato l'agente della polizia locale che avete additato sulla pagina Facebook dell' Associazione Nazionale mutilati e invalidi civili, per aver parcheggiato negli spazi dei disabili...
«Non volevamo certo metterlo alla gogna. Ma è difficile pensare che possa essersi suicidato per alcuni commenti imbecilli sui social. Non ci si può suicidare per un parcheggio sbagliato. Non volevamo certo creare un mostro. C' è dell' altro dietro al suo gesto».
Ma è normale che qualcuno per un parcheggio sbagliato finisca additato sui social?
«Noi riceviamo decine di segnalazioni di gente che parcheggia su spazi dedicati ai disabili. Nessuno poteva immaginare la sua reazione».
Ha mai parlato con l' agente?
«Mi sono sentito nei giorni scorsi e anche oggi col comandante. Eravamo d' accordo che in settimana avrei incontrato anche l' agente. Lui si era scusato, ci aveva inviato una lettera ammettendo di avere fatto un errore involontario. Ci aveva anche fatto una donazione di 100 euro e si era auto-multato. Per noi il caso era chiuso».
E invece...
«Il comandante dei vigili di Palazzolo mi aveva detto che questo agente aveva problemi personali, soffriva anche di depressione. Quando la notizia è finita sui quotidiani alcuni giornalisti mi avevano cercato ma io non ho mai risposto per questo. Non volevo alimentare altre polemiche».
Forse bisognerebbe stare più attenti ad usare i social.
«Se solo avessimo immaginato che questo agente aveva dei problemi, non avremmo scritto quel post. Non abbiamo mai messo il suo nome. Solo la foto della sua auto di servizio parcheggiata male. Mi dispiace ovviamente che questo, insieme ad altro, abbia innescato una reazione di questo agente che a quanto mi dicono, nessuno poteva immaginare».
Non si sente un po' in colpa?
«Non mi sento in colpa. È una tragedia. Una grande disgrazia anche per i suoi famigliari e i suoi colleghi. Quando noi pubblichiamo la foto di un' auto parcheggiata sullo spazio disabili non lo facciamo per mettere qualcuno alla gogna. Vogliamo che la gente si sensibilizzi a certe problematiche».
Però poi ci sono i commenti...
«Certo ci sono commenti imbecilli. Ma non so se questi da solo possono avere provocato quello che poi è successo. Probabilmente un' altra persona, con meno problemi, non avrebbe reagito in quel modo. Rimane tutta l' amarezza di non essere riusciti a fare questo incontro. Lo avremmo tranquillizzato. nei prossimi giorni incontrerò il comandante. Rimane una grande tragedia, inaspettata ma è una tragedia irreparabile».
Fabio Poletti per ''la Stampa'' il 5 febbraio 2020. Nel vaso con il bosso all' ingresso della Polizia Locale di Palazzolo Sull' Oglio qualcuno ha messo un rosa bianca con un biglietto: «Ciao Gian Marco». Aveva 44 anni Gian Marco Lorito, l' agente che ieri mattina alle 5 e 45 è venuto fino a qui, è salito su un' auto di servizio, ha impugnato la pistola d' ordinanza e si è sparato un colpo. Non un biglietto, non una spiegazione. Ma la memoria di tutti va alla settimana scorsa, quando l' agente era finito alla gogna sui social per aver parcheggiato nel posto disabili, in via Caniana a Bergamo, l' auto con le insegne del Comune. Qualche commento spiacevole, nemmeno troppo feroce. «Una vera schifezza. Da un vigile poi...», «Chi controlla il controllore?», «Abuso di potere! Non si può tollerare!», «Una merda sul cofano, bell' esempio!». Nessuno aveva scritto il suo nome. Ma era stato lui a farsi avanti con una lettera di poche righe al presidente dell' Associazione Mutilati e Invalidi Civili Giovanni Manzoni che aveva pubblicato il post. Il tono è quello accorato di chi ammette un errore: «Non ho parole per esprimere il mio rammarico per aver parcheggiato il veicolo di servizio nello spazio riservato ai disabili. Mi sono confuso con la segnaletica, anche se ciò non giustifica. La ringrazio per il lavoro che svolgete e si prega di considerare ancora scuse sincere». L'agente si era anche automultato e aveva fatto una donazione di 100 euro all' associazione. Incidente chiuso, sembrava di capire. Anche i suoi colleghi, lacrime agli occhi e poca voglia di parlare, dicono di non aver immaginato quello che è poi successo: «Ne avevamo parlato. Gli avevamo detto di non preoccuparsi che può capitare a tutti di sbagliare e che non sarebbe successo nulla». Ma chissà cosa aveva in testa Gian Marco Lorito, arrivato 20 anni fa dalla Sicilia per fare il poliziotto locale, fino al 2013 ad Erbusco e poi qui a Palazzolo, sempre in provincia di Brescia. Una persona tranquilla, attenta al lavoro, unica passione le partite a biliardino, se aveva dei problemi non ne parlava con i suoi colleghi. Il sindaco di Erbusco, Ilario Cavalleri, non crede che sia solo colpa dei social quello che è successo: «La gente scrive sui social come una volta si faceva sui muri dei cessi pubblici. L' affetto è amplificato un milione di volte però. Io spero che non si sia ammazzato solo per questo. So che aveva problemi in famiglia, che si stava lasciando con la compagna. Ma siamo tutti sotto choc. Era una persona per bene». È stata la sua convivente a dare l' allarme. Lunedì l' agente Gian Marco Lorito aveva fatto il turno del pomeriggio a Palazzolo. Poi per qualche ora alla sera era stato di servizio in un comune vicino che usa la polizia locale di Palazzolo. A mezzanotte alla fine del turno non era rientrato a casa. Dove sia stato tutta la notte non si sa. Quando non era ancora l' alba la sua convivente aveva dato l' allarme. Il comandante una volta arrivato in ufficio lo ha trovato in auto già morto con ancora la pistola in mano. Non un biglietto. Non una spiegazione. Il sindaco di Palazzolo Gabriele Zanni è sotto shock: «Nei giorni scorsi era venuto da me a scusarsi per quello che era successo con il parcheggio disabili. Non ci sarebbero state conseguenze. Non aveva motivo di preoccuparsi. Lascia tanta disperazione non aver capito segnali, ammesso che ce ne siano stati. Purtroppo le motivazioni di un gesto tanto drammatico oramai le può conoscere solo Gian Marco e per rispetto a lui è inutile e insensato fare congetture».
Insultato sui social si uccide, ma che fine ha fatto la pietà? Angela Azzaro de Il Riformista il 6 Febbraio 2020. Le vere ragioni per cui una persona decide di togliersi la vita restano sempre avvolte nel mistero. È difficile capire che cosa avviene davvero nella sua testa e nel suo cuore. Impossibile quindi stabilire rapporti di causa-effetto certi e dire: si è ucciso per questo, si è ucciso per quest’altro. Ma ci sono episodi che levano, se non tutti i dubbi, perlomeno qualche domanda e spingono a ragionare su quanto è accaduto. È andata così per il vigile di Palazzolo, in provincia di Brescia, che l’altro ieri si è tolto la vita, sparandosi un colpo con la pistola di ordinanza. Le motivazioni profonde per cui Gian Marco Lorito, 43 anni, ha deciso di compiere questo terribile gesto non le sapremo mai, conosciamo però la causa esterna scatenante: il vigile aveva parcheggiato la macchina in un posto per disabili, era stato scoperto e la foto era finita sui maledetti social. Ad accorgersi dell’errore compiuto da Lorito era stato il presidente dell’associazione nazionale mutilali e invalidi civili, di cui volutamente non facciamo il nome. Non lo facciamo perché non ci interessa ora mettere alla gogna lui, ma criticare un meccanismo che va fermato. Assolutamente fermato. Il presidente infatti poteva denunciare l’accaduto senza mettere la foto dell’auto, da cui poi si è risaliti al conducente. Bastava raccontare l’accaduto, sfogarsi contro una situazione che immaginiamo accada più volte, creando grossi problemi a chi già ogni giorno deve affrontare una via crucis attraverso le nostre città poco attrezzate. Si è scelto invece di sbattere l’errore sui social, di dare sfogo all’indignazione e il vigile, che pure aveva chiesto pubblicamente scusa, è stato travolto dalle offese, dagli insulti, dalle critiche. “Chi è senza peccato scagli la pietra”: il monito di Cristo è un lontano ricordo. Siamo diventati un popolo che quando si tratta di lapidare, è sempre in prima fila, pronto a lanciare la pietra, a giudicare, a chiedere pene sempre più severe, assolutamente disinteressati della tenuta civile della nostra società. Gian Marco a un certo punto non ha retto. Ha avuto paura, paura di essere giudicato, di perdere la stima e il rispetto che si era conquistato in tanti anni. E si è tolto la vita. E allora noi abbiamo il dovere di ragionare su quanto è avvenuto. Capire in che cosa abbiamo sbagliato, che cosa dobbiamo fare perché questi episodi non si ripetano più. Nella storia di Gian Marco ci sono alcune caratteristiche che si ripetono continuamente. La prima è l’ossessione per la denuncia: ci sentiamo come tanti Savanarola pronti a liberare il mondo dal male. Interessa poco che il male in realtà sia l’errore commesso da una persona in carne e ossa che come tutti può sbagliare. Deve sbagliare, perché è l’errore che ci rende umani, non la perfezione, non l’ossessione per una onestà che diventa un dogma, una fede religiosa che in nome dei propri valori cancella le singolarità, i difetti, l’umanità. Un’altra caratteristica è legata al modo di fare giornalismo in questo Paese: esiste un filo rosso, sottile ma indistruttibile, che lega l’odio social a come in questi anni i giornali hanno alimentato le convinzioni dell’opinione pubblica. Veniamo da decenni in cui per i giornali un’accusa è una condanna, un avviso di garanzia è una sentenza definitiva, in cui basta che un magistrato dica bah per finire nella lista nera. Sono anni in cui la tv ha alimentato il fuoco sacro del giustizialismo, descrivendo l’Italia come un Paese di corrotti, responsabili di ogni male, insensibili e pronti a fregare l’altro. Non ci si può stupire se i cittadini, di fronte ad avvenimenti complessi, reagiscano tirando fuori lo spirito della gogna: sono allenati dai talk che vedono e dagli articoli che leggono. E mentre credono di essere rappresentanti dell’onestà, stanno uccidendo la pietà, il rispetto e anche quella democrazia che dicono di volere ma poi dimenticano nella sua sostanza profonda. Ma soprattutto dicono addio alla pietà. Ma che cosa è la pietà se non la capacità di capire l’errore altrui perché sappiamo che può essere anche il nostro? Non è un atteggiamento di commiserazione, è al contrario la capacità di identificarci con l’altro. E allora proviamo a immaginarci questa storia riavvolgendo il nastro. Gian Marco parcheggia male. Qualcuno se ne accorge e protesta non sui social, ma direttamente con la stazione dei vigili. Lui chiede scusa, fa una donazione per l’associazione nazionale mutilati e invalidi civili e, chissà, magari nel tempo va anche lì a dare una mano e riesce a vincere anche quelle paure che ha dentro e non riescead affrontare. No, non è una storia impossibile. È una storia che si può ricostruire. Ma per dire basta all’odio social, diciamo basta tutti al giustizialismo.
Coronavirus, gli islamici in festa: "Una punizione contro la Cina". Secondo i follower della pagina Facebook "Siamo fieri di essere musulmani" i morti in Cina per via del coronavirus sono "una punizione divina". Roberto Vivaldelli, Domenica 02/02/2020, su Il Giornale. Mentre salgono a 304 morti e a 14.380 i casi di infezione da coronavirus in Cina - secondo quanto riferito dai dati della Commissione sanitaria nazionale cinese, a cui si aggiunge anche la morte di un paziente cinese nelle Filippine, il primo al di fuori dei confini, che porta il totale dei decessi per coronavirus a quota 305 - c'è chi esulta sul web . Sulla pagina Facebook Siamo fieri di essere musulmani, infatti, che conta più di 94 mila follower, la pandemia del coronavirus è stata salutata come la punizione di Allah per gli infedeli. Secondo uno dei moderatori della pagina, infatti, in Cina ci sono "1 milione di musulmani Uighuri detenuti in campi di concentramento. La Cina ha trasformato la regione autonoma Uighura dello Xinjiang in qualcosa che assomiglia a un enorme campo di internamento avvolto nella segretezza - una sorta di zona senza diritti". In allegato, una foto di Xi Jinping con il volto insanguinato. I cinesi sono accusati dai follower della pagina di "bruciare il Corano" e "demolire le moschee". Inoltre, "nei campi di detenzione i musulmani vengono torturati e costretti al lavoro forzato". Il coronavirus, dunque, è una punizione divina contro la Repubblica popolare cinese. I commenti al post sono tutto un programma: "In effetti è vero, è una punizione di Allà (sic): il virus è originario del serpente, animale associato al demonio. Perciò è collegato anche ad Allà". Un altro ancora scrive: "Ciò che si semina si raccoglie e ora e il momento che devono raccogliere dopo tutto il male che hanno fatto verso i nostri fratelli e sorelle e verso le creature di Allah". "La Cina - osserva un altro utente della pagina -sta raccogliendo ciò che ha seminato e questo è solo l'inizio". "Allah gli ha mandato un virus che sta uccidendo un sacco di persone, allahu akbar" commenta M.Y. R.S, uno dei fan più attivi della pagina, ne è sicuro: "Questi miscredenti non sanno che devono fare i conti con Dio, eccoli adesso sono loro che vivono nell'angoscia e nella paura, eccoli adesso prigionieri dentro le loro citta. Allah akbar". I commenti si riferiscono a ciò che accade nella regione autonoma dello Xinjiang – nella Cina occidentale – dove vivono 24 milioni di persone, la maggior parte delle quali appartenente alla minoranza etnica cinese degli uiguri. Questa popolazione ha una propria cultura, è turcofona e musulmana. Proprio qui nasce la tensione con il governo centrale. Alcune stime parlano di 1,5 milioni tra uiguri, kazaki, kirghizi e Hui internati in quelli che la comunità internazionale ha definito campi di concentramento ma che la Cina definisce semplici edifici in cui viene offerta agli ospiti "una trasformazione attraverso l’educazione”. Da qui a gioire per la morte di persone innocenti, però, ce ne passa. Ma a Facebook, sempre attentissimo quando si tratta di censurare i sovranisti o i conservatori in tutto il mondo, sembra non interessare.
Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 5 febbraio 2020. Da quando ha criticato l' islam, in un live su Instagram, dicendo che nel Corano «c' è solo odio», Mila, 16 anni, è vittima di minacce di morte e di stupro, vive barricata in casa protetta dalla gendarmeria e non può più andare al liceo perché il pericolo di aggressioni è troppo alto: i suoi compagni musulmani vogliono «linciarla» e «punirla» poiché si è permessa di attaccare la loro «comunità». Non siamo in Arabia Saudita, ma a Villefontaine, nel dipartimento dell' Isère, in Francia, in quel Paese che si vanta dinanzi al mondo della sua laïcité, ma abbandona una ragazza alla violenza inaudita di chi non tollera che la religione maomettana sia oggetto di critiche. «Sporca baldracca» e «sporca lesbica» hanno scritto a Mila sul suo profilo social, dove mostrava con fierezza, prima di essere obbligata a chiudere ogni account pubblico, la bandiera Lgbt. «Nel Corano c' è solo odio. Ho detto quello che penso, non me ne farete pentire», ha detto la ragazza nel live postato su Instagram lo scorso 19 gennaio. Da quel giorno, è iniziato un incubo che non è ancora finito e chissà quando finirà per questa liceale. Hanno minacciato di «sgozzarla», di venirla a cercare per «strapparle tutti gli organi e farglieli mangiare», perché si è permessa di criticare il «nostro dio Allah, l' unico e il solo». Dopo l' esplosione del caso, il liceo di Villefontaine, dove ora non potrà più tornare perché i suoi compagni musulmani vogliono fargliela pagare, è stato costretto a chiamare la polizia per "esfiltrarla" e portarla a casa, dove tutt' ora è trincerata per paura di essere aggredita. «L' obiettivo è riscolarizzarla in maniera pacifica affinché possa tornare ad avere una vita normale», ha dichiarato ieri il ministro dell' Istruzione Jean-Michel Blanquer, l' unico del governo, assieme alla collega alle Pari opportunità, Marlène Schiappa, ad aver manifestato solidarietà nei confronti di Mila. La procura locale, subito dopo il video, aveva addirittura aperto un' inchiesta contro la sedicenne per «incitamento all' odio», prima di archiviarla. Ma il peggio l' hanno dato le femministe, a partire da colei che si erge a portavoce del femminismo francese in politica: Ségolène Royal. L' ex candidata alle presidenziali del Partito socialista, appena rimossa dal ruolo di ambasciatrice per i Poli, ha attaccato Mila dicendo che è «un' adolescente irrispettosa», dandola in pasto all' odio dei propagatori dell' islam politico, che da due settimane continuano a minacciarla. «Chi semina vento, raccoglie tempesta», ha commentato Abdallah Zekri, delegato generale del Consiglio francese del culto musulmano (Cfcm), dicendo che in fondo se l' è cercata facendo quel video. Nessun rappresentante del culto islamico in Francia ha difeso Mina dalle minacce di morte ricevute, e accanto a questo silenzio rimbomba quello dei progressisti. Abitualmente rumorosi, quando di mezzo c' è la religione cattolica, sembrano essere spariti dalla Francia. Uno dei pochi che si è fatto sentire, ha chiesto a Mila di «rimuovere la bandiera Lgbt» dalla biografia, perché non ha «la mentalità aperta per far parte di una comunità che sostiene l' amore e l' accettazione». Cronache da un Paese che ha dimenticato Voltaire e si è sottomesso ad Allah.
Minacciata perché critica islam: il ministro sta con i musulmani. Il caso di una sedicenne di Villefontaine infiamma la Francia. Polemica sulle frasi del ministro della Giustizia: "Offendere la religione è grave". Alessandra Benignetti, Mercoledì 05/02/2020, su Il Giornale. Tutto è iniziato lo scorso gennaio con un video in diretta su Instagram. Mila, 16 anni, occhi azzurri e capelli da maschiaccio, sogna di fare la cantante. Un ragazzo inizia a scriverle. Lei è bella e affascinante, lui vorrebbe agganciarla. Ma Mila è gay. Il suo coetaneo di origine araba, però, non si rassegna. E all’ennesimo no della ragazza scattano gli insulti. "Sporca lesbica", "francese di m…", le scrive assieme ai suoi amici. Una tempesta di offese che spingono la sedicenne di Villefontaine, non lontano da Lione, a replicare pubblicamente. Inizia un altro video pubblicato sulle storie di Instagram. Un video che di lì a poco le avrebbe cambiato la vita. "Detesto la religione – si sfoga con i suoi follower – il Corano è una religione d’odio, l’Islam è una m…". "Non sono razzista, dico quello che penso e voi non me ne farete pentire", continua. Le offese sono pesanti. "Al vostro Dio metto un dito nel buco del c…, grazie e arrivederci", attacca la ragazza. Un’arringa che però non rimane senza conseguenze. Da quel momento Mila viene presa di mira da centinaia di fedeli musulmani che invocano la legge sulla blasfemia per far farle fare la fine che si merita: torture, stupro e anche la morte. Il suo video circola su tutti i social network e le reazioni sono sempre le stesse: insulti e minacce. Ben presto il suo indirizzo, i suoi dati sensibili e il nome del liceo che frequenta finiscono in rete. Da allora non può più frequentare le lezioni. La liceale sporge denuncia e vengono aperti due fascicoli. Uno, si legge su Le Figaro, per individuare gli autori delle minacce e uno contro di lei per “incitamento all’odio religioso". Nel frattempo sui social l’hashtag #jesuismila diventa virale. Ma la questione divide la Francia. E la polemica si è allargata qualche giorno fa, quando la ministra della Giustizia, Nicole Belloubet, intervistata da Europe 1, ha condannato le intimidazioni dei fedeli musulmani detto che "insultare la religione" è "grave" ed "è un attentato alla libertà di coscienza". Una frase che non è piaciuta a chi nel 2015 scese in piazza per dire "Je suis Charlie". "Il governo ha abbandonato la libertà francese per sottomettersi al terrore islamista", ha attaccato Nicolas Dupont Aignan, di Debout la France. In effetti le dichiarazioni della ministra si avvicinano a quelle del delegato generale del Consiglio francese del culto musulmano, Abdallah Zekri, per il quale la ragazza se la sarebbe "cercata". "Deve assumersi le conseguenze di quello che ha detto, chi semina vento raccoglie tempesta", ha infierito ai microfoni di Sud Radio. Che la ragazza abbia usato parole offensive è fuor di dubbio. Ma la reazione è stata davvero spropositata. Tanto che la sedicenne di Villefontaine da settimane non può entrare a scuola perché non è possibile garantire la sua sicurezza e vive sotto protezione. Del caso si sta occupando direttamente il ministro dell’Istruzione, Jean-Michel Blanquer. Nel frattempo, ospite della trasmissione Quotidien del canale Tf1, Mila chiarisce di non pentirsi affatto delle sue parole. "Rivendico il diritto di dire cose blasfeme, non devo nascondermi per questo motivo, non devo smettere di vivere", ha detto al conduttore del programma. "Mi scuso con le persone che posso aver ferito – ha aggiunto – con chi pratica la religione in pace, non volevo prendere di mira gli esseri umani ma solo parlare della religione". Cinque anni dopo l’attentato nella redazione di Charlie Hebdo il suo caso rimette in discussione il concetto di "laicità" nella patria dell’Illuminismo. La conclusione è disarmante: oggi chi parla male del Corano in Francia rischia la vita.
Umberto Rapetto per ilfattoquotidiano.it il 18 gennaio 2020. V come vendetta, Www come strumento di offesa, ritorsione e magari estorsione. Il web si prospetta ogni giorno in posizione antitetica al sogno di Tim Berners Lee, che – suo creatore – ne aveva immaginato un ben differente utilizzo rispetto quello che ogni giorno abbiamo modo di assaporare. Lo strumento di condivisione di conoscenze, se è diventato una cornucopia di fake news che avvelena l’atmosfera, nel tempo ha consolidato anche il suo ruolo di potente balestra digitale per il micidiale cecchinaggio degli avversari o semplicemente di malcapitati da trafiggere con dardi avvelenati. Ne sanno qualcosa le realtà imprenditoriali nel settore della ristorazione, categoria che svetta per la pluviale produzione di commenti e giudizi al curaro che si ammonticchiano sulle pagine dei portali consultati da chi cerca un posto dove mangiare un boccone o fare una cena romantica. Molti clienti, magari per il solo motivo di non aver ottenuto uno sconto o per altre futili ragioni, non esitano a vomitare sul web informazioni non veritiere per – a loro dire – farsi giustizia. Le dichiarazioni rilasciate sui siti che classificano ristoranti e trattorie spesso sono lo sfogo esagitato di qualche avventore che affida al turpiloquio o a descrizioni horror il proprio giudizio sull’esercizio pubblico visitato. Animati dall’inesorabile “adesso ti faccio vedere io”, parecchi cybernauti interpretano la possibilità di rilasciare opinioni o valutazioni come una sorta di rito purificatore per colpe che i destinatari dell’aggressione virtuale magari sono ben lontani dall’avere. E chiunque può diventare bersaglio…Recentemente un caso destinato a “fare scuola” riguarda un noto ortopedico italiano, reo di essere incappato in un paziente… impaziente. Il tizio, sottoposto a un delicato intervento protesico bilaterale al ginocchio, non rispetta alcuna indicazione vincolante sul decorso post-operatorio, a distanza di tempo lamenta una infezione facilmente riconducibile all’aver disatteso le raccomandazioni cliniche e ingaggia una furente corrispondenza con l’ortopedico. Quest’ultimo – offrendo inutilmente la più assoluta disponibilità a verificare l’accaduto e a individuare il percorso medico e chirurgico maggiormente efficace per risolvere ogni eventuale problema insorto – riceve una serie di minacce in taglienti messaggi di posta elettronica. Il “refrain” della corrispondenza via mail è la possibilità (ma soprattutto l’intenzione) di rovinare la reputazione dell’ortopedico con una feroce campagna online, così da trovare conforto a fronte di un presunto danno. Il tizio sottolinea che le sue cospicue risorse patrimoniali gli permettono un volume di fuoco incomparabile e comincia a darne ampia dimostrazione registrando un sito il cui nome a dominio riporta i riferimenti anagrafici dello specialista e comprando da Google il posizionamento dei relativi contenuti in vetta ai risultati di eventuali ricerche relative al professor Stefano Zanasi. Il sito fraudolento riporta l’invito a diffidare della “autorità … in cerca di miracoli” e a condividere esperienze negative con la garanzia di restare nell’anonimato. La sassata tirata a Zanasi, amplificata dal motore di ricerca più utilizzato al mondo, sfrutta la cronica lentezza della macchina investigativa e giudiziaria che – non bastasse – deve fare i conti con la transnazionalità dei fatti. Il sito è stato registrato all’estero, soggiace alle regole dell’ordinamento giuridico corrispondente e naturalmente è inaccessibile l’identità di chi ne è titolare. Chi attacca sa perfettamente che il sito “resterà in piedi” a lungo e che ogni giorno di permanenza online in più reca danni irreparabili al bersaglio. L’eventuale oscuramento di quelle pagine (attraverso l’attivazione dei provider per l’inserimento in black list del relativo indirizzo) avrebbe effetto nazionale o al limite comunitario e – in ogni caso – in un attimo innescherebbe la migrazione del “cecchino” su altro sito e poi, se necessario, su un altro ancora. Lo stesso Garante per la privacy si trova con una “pallottola spuntata” perché il Gdpr (ovvero il regolamento europeo a tutela dei dati personali) ha efficacia negli spazi continentali e “non funziona” oltreoceano. Quanti altri come Zanasi sono vittime di simili ignobili lapidazioni? Quanto tempo dovremo ancora aspettare per bloccare condotte reprensibili su Internet senza che subito qualcuno gridi più o meno legittimamente alla censura o alla mortificazione del diritto di critica? Purtroppo è la politica la prima a servirsi della Rete per disseminare il contesto sociale di venefiche esalazioni che ne rendono l’aria irrespirabile. Difficile sperare in provvedimenti legislativi che mutilerebbero anche chi urla, strepita, insulta e diffonde false notizie nella incessante bagarre elettorale. Forse impossibile immaginare Convenzioni internazionali che stabiliscano cosa si può e non si può fare, facilitando – a dispetto dei confini geografici – le procedure di intervento delle magistrature e dei Garanti, accelerando il ripristino di quella “normalità” e di quella correttezza nei comportamenti che chiunque auspica. Da qualche parte, però, occorre iniziare. Serve il punto di appoggio che Archimede invocava per sollevare il mondo? Non basta certo la buona volontà dei singoli ingranaggi del gigantesco motore del vivere quotidiano, ma – in attesa di una fatale intuizione – lo sforzo di ciascuno di noi a capire e ad agire può essere un ottimo avvio.
Se la sinistra si attacca al citofono…Michel Dessì il 31 gennaio 2020 su Il Giornale. “Salvini? Mi ha rovinato la vita!” Ha detto ai microfoni di Piazza Pulita Yassin, il ragazzo del citofono. Grazie a loro, alla trasmissione di Formigli, non associamo più il “minorenne tunisino” ad un anonimo citofono di un palazzo qualunque del quartiere Pilastro nella periferia di Bologna. Grazie alle telecamere di La7 il “presunto spacciatore” ha un volto. Una storia. Ora tutti sanno chi è Yassin, il diciassettenne che, fino a ieri, era da proteggere e “tutelare”. Da chi? Naturalmente dai cattivi. Dagli “odiatori”. Dai sostenitori di Salvini. Lo ha detto per giorni la sinistra “sinistra”. La stessa che, senza troppi scrupoli, lo ha mandato in onda in prima serata. Lo ha dato in pasto al pubblico feroce, facendo di lui un “campione”. Un modello. Un ragazzo da sposare. “Convocato dalla nazionale”. Sì, perché lui non spaccia, gioca. Fa il calciatore. Il tono della voce è flebile, quasi rotto dal profondo “dolore” provocato dal suono del campanello. Trrriiiinnnlllllll… Il giornalista lo asseconda, con sguardo quasi compassionevole. La telecamera è stretta, come si usa fare in questi casi. Gli occhi del ragazzo non mentono. Sembrano spietati. Non mi commuove, anzi. Non mi convince. Non gli credo. Tra le righe leggo “l’opportunità” del momento. La malafede. Mi sbaglierò? Probabile. Ma l’occasione da cogliere è ghiotta: denunciare Salvini, vincere la causa, intascare i soldi e andare in TV. Sarà politicamente scorretto? Tutto sembra essere stato costruito ad arte. L’atmosfera è quella giusta. L’ideale per raccontare “il dramma”. Il dramma del citofono. Salvini ha sbagliato, non c’è dubbio. Si è fidato di un’anziana signora inebriata dal “capitano”. Esaltata dal momento. Convinta di farsi giustizia da sola. Non doveva. Ma chi è che strumentalizza? Lui è un “povero” ragazzo che, pur di rispondere all’offesa, e attaccare Salvini, si fa usare consapevolmente dalla sinistra. La peggiore, la più becera. La più squallida. Usare un ragazzino (minorenne) per punzecchiare il “capitano”. Chiedo solo: quanto è costata “L’ESCLUSIVA”?
Alba Parietti contro Matteo Salvini dopo Stasera Italia: "Ha scatenato contro di me gli odiatori". Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Alba Parietti vaneggia a Stasera Italia e dà la colpa a Matteo Salvini. L'opinionista è stata presa di mira per le parole pronunciate durante il programma di Barbara Palombelli. Quelle in cui annunciava: "Finché una popolazione non ha un'adeguata istruzione non può essere in grado di votare in modo legittimo". Una frase che ha scatenato l'ira di tutti, compresa quella del leghista che ha replicato su twitter: "Siamo alla follia. L'arroganza della sinistra non ha limiti". Un commento pronunciato solo dopo numerosi attacchi, ma che per la Parietti hanno "scatenato una marea di odiatori, le mie parole sono state mistificate" ha riferito. "L'unico termine sbagliato perché fraintendibile è 'legittimo'. Non ho citato nessuna parte politica e sono stata chiara nello spiegare ciò che intendevo - ha proseguito l'ex showgirl -. Dopo aver assistito alla solita gogna mediatica, gratis, aver preso insulti violenti volgari da sessisti, da donne soprattutto, senza che nessuno di autorevole abbia speso una parola per fermare l'odio e gli insulti irripetibili rivolti alla mia persona". E allora, perché prendersela solo con Salvini? “Finché una popolazione non ha un’adeguata istruzione non può essere in grado di votare in modo legittimo”. Siamo alla follia.
Salvini contro Alba Parietti: "Togliere il voto a chi non è istruito? Arroganza di sinistra senza limiti". Libero Quotidiano il 30 Gennaio 2020. A Matteo Salvini non sfugge il video in cui Alba Parietti suggerisce di "cancellare" la democrazia. "Finché una popolazione non ha un'adeguata istruzione non può essere in grado di votare in modo legittimo", ha dichiarato l'ex showgirl suscitando lo sconcerto di Barbara Palombelli che, ridendo, le ha risposto così: "Adesso mettere in discussione il suffragio universale...". Salvini in un post su Facebook ha rilanciato il video della Parietti tra i suoi sostenitori e lo ha commentato con poche, ma dure parole: "Siamo alla follia. L'arroganza della sinistra non ha limiti...". Nel giro di pochi minuti il leader della Lega ha raccolto migliaia di opinioni, una particolarmente diffusa e apprezzata dal popolo della rete: "Ovviamente finché gli operai con la terza media votavano a sinistra andava bene. Oggi che gli operai guardano a destra, non sono più degni di votare. Brava - riferito alla Parietti - complimenti. Però prima impara a parlare".
Alba Parietti travolta dagli insulti. L'opinionista, ospite a Stasera Italia su Rete Quattro, ha messo in dubbio la legittimità del voto: "Finché una popolazione non ha un'adeguata istruzione non può essere in grado di votare in modo legittimo". Una frase che ha immediatamente suscitato la rabbia della conduttrice, Barbara Palombelli che ribatte: "Adesso mettere in discussione il suffragio universale". Secondo l'ex showgirl "la politica negli ultimi anni è stata fatta solo di sondaggi, abbiamo preso esempio dalle elezioni americane di 2000 anni fa dove si decideva pena di morte, non pena di morte a secondo di quello che votava la gente". E ancora in diretta tv: "Questo è il Paese che ha, come dire, dato la pena di morte o stabilisce l'immigrazione e decide tutto questo sulla base di voti. Cioè io non dico quello che penso o quello che ho nell'animo, ma vado dove va l'elettorato o dove penso che il popolo vada". Un intervento, quello della Parietti, che è stato subito rilanciato sui social. Là dove si è accanita la maggior parte della critica: "Dite alla Parietti che quando il popolo ha guadagnato il diritto di voto aveva percentuali di analfabetismo di oltre il 20%. Eppure il più ignorante dell'epoca avrebbe detto meno c...", scrive un utente. Mentre un altro gli fa eco: "Agghiacciante roba da fare rivoltare nella tomba Margaret Thatcher".
Da liberoquotidiano.it il 29 gennaio 2020. Indagata Daniela Santanchè per "diffamazione aggravata, propaganda e istigazione all'odio razziale". La pitonessa nel mirino della procura di Genova dopo la denuncia di Aleksandra Matikj, presidentessa del Comitato per gli Immigrati e contro ogni forma di discriminazione. Una denuncia piovuta per quanto detto dalla Santanchè nel corso di una puntata di CartaBianca, il programma di Bianca Berlinguer su Rai 3: "Il 90% delle donne che arrivano in Italia vanno a fare le puttane sulle strade. Le nigeriane!". Dunque, quando le hanno chiesto: "E tutte le donne che vengono qua coi bambini che muoiono in mare?". E la Santanché ha ribadito: "Le donne che arrivano in Italia sono messe sulla strada a fare le prostitute". Concetti poi ribaditi il giorno successivo su Twitter, dove la pitonessa ha rilanciato le sue prese di posizione". La Matikj, denunciandola, ha spiegato: "Non è accettabile che noi migranti, in particolare noi donne, siamo trattate con questa superficialità da una rappresentante dello Stato italiano. Da una donna, ci si attenderebbe la solidarietà verso noi donne straniere. Vorrei ringraziare Bianca Berlinguer per averci difese nel corso della trasmissione televisiva, adempiendo al suo ruolo di Giornalista seria e preparata", ha concluso.
Firenze, la prof agli alunni: "Liliana Segre cerca pubblicità". Polemica per la frase dell'insegnante di una scuola media della città. La donna avrebbe chiesto scusa. La ministra dell'Istruzione Azzolina: "Parole gravi e ingiustificabili". la Repubblica il 31 gennaio 2020. "Liliana Segre non la sopporto. E anche voi, ragazzi, non vi fate fregare da questi personaggi che cercano solo pubblicità". È quanto avrebbe detto un'insegnante di una scuola media di Firenze, agli alunni di seconda lunedì scorso, Giorno della memoria. Lo riporta oggi il quotidiano La Nazione. "Anche mio nonno è stato in un campo di concentramento - avrebbe proseguito la docente stando alle testimonianze dei ragazzi - ma non è certo andato in giro a dirlo a tutti". "E ora non andate a casa a dire ai vostri genitori che sono nazista e antisemita", avrebbe anche aggiunto. Gli alunni hanno però informato i genitori che poi, attraverso una chat di WhatsApp, hanno deciso di protestare con la dirigenza dell'istituto. La docente, riferisce il quotidiano, avrebbe quindi chiesto scusa. Sul caso è intervenuta anche la ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina che ha definito le parole della docente "gravi e ingiustificabili". "A maggior ragione in questa fase, in cui si moltiplicano gli episodi di intolleranza, la scuola deve farsi portatrice di messaggi di pace e di inclusione", ha ribadito Azzolina. "Anche per questo, episodi come quello riportato questa mattina dalla stampa locale devono essere stigmatizzati", ha proseguito la ministra che ha poi aggiunto: "Mi aspetto che il gesto venga verificato e valutato con la massima attenzione. Colgo anche l'occasione per rinnovare il mio abbraccio sincero alla senatrice Liliana Segre. La Scuola è la sua scorta". "Qualora fossero confermate dalle verifiche che stiamo compiendo tramite l'Ufficio scolastico regionale, queste parole sarebbero davvero inaccettabili", scrive la viceministra dell'Istruzione, Anna Ascani. "È allucinante che una insegnante tenti di delegittimare proprio l'elemento più prezioso del lavoro della senatrice: passare il testimone della memoria e della coscienza civile alle giovani generazioni, che sempre meno potranno contare sui testimoni diretti di quell'orrore" spiega Valerio Fabiani, componente della segreteria regionale del Pd della Toscana e della direzione nazionale del Pd. Mentre il deputato fiorentino di Italia Viva Gabriele Toccafondi definisce "sconcertante quanto accaduto". "Sgomento e sconcerto" anche dalla Cgil, che ringrazia gli studenti per la reazione avuta.
Solidarietà a Segre e Repubblica Lettera di minacce al direttore. Le reazioni dopo i tweet intimidatori. Zingaretti: "Chi colpisce voi colpisce tutti noi. Non saranno vili minacce a fermare il vostro impegno nel tenere alta l'attenzione sugli orrori della Shoah, nel raccontare i troppi episodi di antisemitismo". Caterina Pasolini su La Repubblica il 29 gennaio 2020. "Se hai da fare un testamento fallo finché sei in tempo", c'era scritto sul foglio. Un nuovo messaggio minatorio è arrivato ieri mattina alla redazione di Repubblica , chiuso in una busta indirizzata al direttore Carlo Verdelli. Ancora parole di odio da chi si nasconde dietro l'anonimato, dopo i numerosi attestati di solidarietà arrivati per le frasi antisemite, razziste, e le minacce indirizzate via Twitter nel giorno della Memoria alla senatrice Liliana Segre, al giornalista Paolo Berizzi e ancora al direttore Verdelli: "Offese e minacce che con altri episodi vergognosi hanno finito per macchiare la giornata della Memoria ", ha ricordato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. "Ma non saranno questi gesti spregevoli a oscurare le nostre coscienze", ha aggiunto il premier. Che ha espresso la solidarietà sua personale e del governo alle vittime degli episodi. "Va difeso con ogni mezzo l'impegno di chi, ogni giorno, si batte per la libertà d'informazione contrastando l'odio e ogni forma di violenza con le parole della democrazia e dell'uguaglianza", ha detto la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Preoccupato per il ripetersi in Italia di minacce e insulti razzisti, "che non vanno sottovalutati", anche il presidente della Camera Roberto Fico, secondo il quale "compito delle istituzioni è impegnarsi per una società tollerante, inclusiva, condannando ogni manifestazione d'odio". Parole nette dal segretario del Pd Nicola Zingaretti: "Chi colpisce voi colpisce tutti noi. Non saranno vili minacce a fermare il vostro impegno nel tenere alta l'attenzione sugli orrori della Shoah, nel raccontare i troppi episodi di antisemitismo". Mentre il senatore dem Luigi Zanda ha sottolineato come la missiva al direttore di Repubblica "costituisca anche un attentato al lavoro della redazione e un'intimidazione della libera stampa". Sugli autori delle minacce, il viceministro dell'Interno, Matteo Mauri, ha assicurato che "le forze dell'ordine lavorano per individuarli al più presto possibile". "Bisogna rispondere con fermezza perché questa inaccettabile spirale di odio abbia fine", ha commentato Vasco Errani, senatore di Articolo Uno. Messaggi e tweet di partecipazione sono arrivati infine dal sindaco di Milano Giuseppe Sala, dal commissario europeo Paolo Gentiloni ("solidarietà contro la vergogna") e da Roberta Pinotti, senatrice Pd. In una nota, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all'editoria Andrea Martella ha scritto: "Alla senatrice Liliana Segre, al direttore di Repubblica Carlo Verdelli e al giornalista Paolo Berizzi va la mia solidarietà per le gravi ed inquietanti minacce e intimidazioni ricevute in questi giorni. Sono sempre più frequenti gli episodi di intolleranza, antisemitismo e di razzismo che riguardano purtroppo anche il mondo dell'informazione e che vanno a minare la libertà di stampa. Fenomeni che vanno isolati con l'impegno della politica e delle istituzioni insieme al lavoro delle forze dell'ordine".
Governo firma decreto, nasce gruppo di lavoro contro l'odio online. È stato firmato un decreto ministeriale a Palazzo Chigi per la creazione di gruppo di lavoro sul fenomeno dell'odio online. Un'iniziativa del ministro all'Innovazione, Paola Pisano, di concerto con quello della Giustizia, Alfonso Bonafede, e il sottosegretario con delega all'Editoria, Andrea Martella. Il gruppo di lavoro nasce per "mappare i possibili strumenti tecnologici di contrasto, identificare le modalità con le quali i gestori delle piattaforme possono contribuire a limitarne l'impatto sulla società nel rispetto dei principi costituzionali".
Giorgia Meloni contro le Sardine a DiMartedì: "Dicono di combattere l'odio e danno del negro a uno di FdI". Libero Quotidiano il 30 Gennaio 2020. "E loro sono quelli della pace". Incalzata da Giovanni Floris e Alessandro Sallusti, la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni svela a DiMartedì il vero volto delle sardine: "Loro dicono di combattere l'odio - ha ricordato in diretta - ma sono gli stessi che hanno insultato un militante di colore di FdI...". Il riferimento è a Francesco Nadalini, il 34enne attivista di FdI che ha accusato un uomo di 45 anni "con una sardina sul petto" di averlo apostrofato con il termine "negro" in piazza a Bologna. E tanti saluti alle "anime belle" della sinistra che quando si tratta di insulti a Matteo Salvini, Meloni, Silvio Berlusconi e destra in genere sono sempre pronti a chiudere un occhio (e anche due).
A Bologna scritta "Spara a Salvini", il senatore: "Aspetto reazioni". La solidarietà di Bonaccini. Scritta in un muro alla periferia di Bologna. Il governatore emiliano: "Frase inaccettabile. Gli avversari si affrontano politicamente, non si minacciano". La Repubblica il 29 gennaio 2020. Su un muro alla periferia di Bologna è comparsa nelle scorse ore una ignobile scritta minacciosa contro Matteo Salvini: "Soprattutto spara a Salvini". Una delle prime reazioni è proprio del senatore leghista, che in un tweet commenta la scritta. "Idioti all'opera a Bologna. Però saremmo noi a seminare odio. Mi aspetto la reazione indignata di tantissimi intellettuali di sinistra. Secondo voi quanti di loro diranno qualcosa a riguardo?". A Salvini ha risposto Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna: "Mi indigno io Matteo. Frase inaccettabile. Gli avversari si affrontano politicamente, non si minacciano".
Insegnante minaccia alunni: "Canta Bella Ciao o sei fascista". Insegnante di scuola media minaccia alunni di brutto voto se non intonano 'Bella Ciao': "Chi non canta, è fascista". Rosa Scognamiglio, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. "Se non canti Bella Ciao, vuol dire che sei fascista e ti metto un brutto voto". Con questa frase un'insegnante di scuola media avrebbe intimato ai suoi studenti di intonare l'inno della Resistenza partigiana minacciando una sfilza di insufficienze a chiunque si fosse rifiutato di farlo. Dalle parole ai fatti, il passo è breve. Così, con metodi educativi piuttosto discutibili, una professoressa ha ben pensato di politicizzare la classe - virando verso una inequivocabile ideologia di sinistra - con la minaccia di un brutto voto sul registro qualora i giovanissimi alunni avessero osato delle rimostranze o si fossero rifiutati di cantare i versi di Bella Ciao. Ma non è tutto. A quanto pare, l'insegnante si sarebbe spinta ben oltre il semplice ammonimento. La faziosa educatrice avrebbe talora apostrofato con l'appellativo "fascista" coloro che non avrebbero assecondato la sua richiesta perentoria. Dunque, spaventati dalle conseguenze di un eventuale diniego sulla media in pagella, i ragazzini non avrebbero potuto far altro che compiacere l'insegnante. A dare notizia dell'accaduto è stata la Lega Prato che, stando a quanto si apprende dalla testa d'informazione GoNews.it, ha riportato la segnalazione di un genitore - l'identità dell'uomo non è stata rivelata per evitare la gogna social – il quale riferiva della presunta condotta diseducativa adottata dalla professoressa durante le ore di lezione. "Abbiamo letto con molta preoccupazione la richiesta d'aiuto di un genitore di un bambino di seconda media: questi denunciava ieri sul suo profilo Facebook che la professoressa di Italiano avrebbe minacciato gli alunni di una classe di seconda media di cantare Bella ciao, pena un brutto voto. - si legge nella nota trasmessa dal gruppo consiliare Lega Prato - L'insegnante avrebbe anche detto agli alunni che se non avessero intonato Bella ciao sarebbero stati dei fascisti. Speriamo si sia trattato di un frainteso, perché altrimenti sarebbe un fatto gravissimo: tanto più apostrofando come 'fascisti' dei bambini 'colpevoli' di non aver imparato una canzone. Per questo chiediamo lumi alla presidenza della scuola media interessata. Pretendiamo quindi chiarezza: questi sarebbero metodi inaccettabili, trattandosi eventualmente di una educatrice che si rivolge a minori con pregiudizio e minacce". Al momento la vicenda resta ancora da accertare ma non è escluso che, nei prossimi giorni, possa essere ulteriormente dettagliata da altre eventuali testimonianze. Nel caso in cui, tale segnalazione fosse confermata, le conseguenze per l'insegnante potrebbero avere persino conseguenze giudiziarie fino alla sospensione dal servizio.
Otto e mezzo, Gianrico Carofiglio balla sulla sconfitta di Salvini: "L'avevo detto, cos'è". Festa anti-Lega. Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020. "L'avevo detto in tempi non sospetti". Gianrico Carofiglio partecipa alla festa anti-Salvini allestita a Otto e mezzo. Dopo l'Emilia Romagna, Lilli Gruber si sfrega le mani e chiede anche allo scrittore, ex magistrato e parlamentare, il suo parere sul risultato. Il verdetto è accolto con sorrisi e ampi cenni del capo dalla conduttrice: "Avevo detto che Salvini non è un bravo comunicatore, soggetto culturalmente poco attrezzato e con un ego dilatato", è il "pacato" giudizio di Carofiglio, ospite habitué del salottino televisivo di Lilli la Russa. No, non poteva proprio mancare nella sera della grande euforia. Per la cronaca, tra gli altri ospiti spiccavano Elly Schlein, consigliera regionale del centrosinistra eletta con il record di preferenze (oggetto dell'intervista: "Come si fa a battere Salvini") e l'editorialista del Fatto quotidiano Andrea Scanzi, specializzato in insulti contro il capo leghista. Tutto un programma.
Sandro Pertini "assassino e brigatista rosso". Il disastro del consigliere leghista Frugoli, caos in Toscana. Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020. L'ex presidente della Repubblica Sandro Pertini? "Un assassino" e "brigatista rosso". Il post su Facebook di Filippo Frugoli, consigliere comunale della Lega a Massa, provoca un terremoto politico in Toscana. Il Carroccio prende ufficialmente le distanze, per bocca di Daniele Belotti, commissario regionale, che ha definito le parole di Frugoli "sconsiderate e inaccettabili, Pertini è in realtà una delle massime ed apprezzate figure istituzionali italiane". Lo stesso giovane consigliere comunale, che a 21 anni è anche coordinatore provinciale dei giovani leghisti, è poi tornato sui suoi passi: "Chiedo scusa se qualcuno pensa io possa aver offeso la memoria di Pertini. Chiedo scusa se ho sbagliato. Avevo cercato di rimediare subito, rimuovendo il post dopo 20 minuti ma era già stato fatto uno screen e quindi non ho potuto più rimediare. Quando si fa un errore l'importante è rendersene conto ed andare avanti, se ho sbagliato me ne assumo le responsabilità e fine del discorso. Tutti sbagliano nella vita, a 21 anni forse è ancora più facile sbagliare e penso anche che esistano errori molto più gravi. Comunque, non cerco giustificazioni, sono una persona seria e non sono uno scemo, per questo mi assumo le mie responsabilità". "Sbaglierò, come tutti, ma posso dire che non sarò mai come voi - ha poi replicato a chi lo ha criticato sui social -. Se qualcuno vuole continuare ad attaccarmi e/o offendere lo faccia pure, comprendo. Ho comunque le spalle larghe". "L'inesperienza - è il commento di Belotti - purtroppo, talvolta, fa commettere sciocchezze come quella del nostro consigliere che si è poi prontamente scusato, capendo di aver commesso un grave errore".
La Mussolini contro Liliana Segre: "Non fomenti l'odio contro il fascismo, da nonnina a strega di Biancaneve". Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020. Fa discutere Alessandra Mussolini. Intervistata qualche giorno fa dalla radio padovana Radio Cafè, l'ex europarlamentare di Forza Italia ha invitato Liliana Segre "a pacificare e non a fomentare". Sottinteso: l'odio contro il fascismo. Il tema era la decisione del Comune di Verona di dedicare una via a Giorgio Almirante, ex repubblichino, storico leader post-fascista e fondatore del Msi. Una scelta contro cui si è schierata con forza la Segre, ebrea internata in un lager, senatrice a vita, cittadina onoraria di Verona e presidente della Commissione parlamentare contro l'antisemitismo. "Stiamo discutendo di cosa è odio e cosa non lo è – ha spiegato la Mussolini, nipote del Duce -, proprio quello di cui dovrebbe occuparsi la commissione contro l'antisemitismo presieduta dalla Segre. Non provochiamo l'effetto contrario, altrimenti ci si trasforma da nonnina a strega di Biancaneve". Poi, ricordando lo scempio fatto dai partigiani sul corpo di Benito Mussolini dopo la Liberazione, ha rincarato: "Fino a quando un presidente della Repubblica non dirà che piazzale Loreto è stato uno scempio, non ci sarà pacificazione". Parole rimbalzate solo nelle ultime ore, che hanno scatenato la rabbia del popolo di sinistra sui social (#Mussolini è argomento di tendenza) e della politica. con Laura Boldrini, oggi nel Pd, in prima fila: "La prossima volta che ad Alessandra Mussolini viene in mente di parlare di Liliana Segre conti fino a dieci", ha commentato l'ex presidente della Camera su Twitter.
«Incitamento all’odio» Facebook rimuove il video di Salvini che citofona. Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Claudio Bozza. Il leader della Lega, accompagnato da una sostenitrice, aveva suonato al campanello di una famiglia tunisina chiedendo: «Scusi, lei spaccia?». Il social (in ritardo) ha rimosso il video dopo le tante segnalazioni. «Incitamento all’odio». Per questa motivazione, a seguito delle numerose segnalazioni ricevute dagli utenti, Facebook ha rimosso il video in cui Matteo Salvini aveva suonato al citofono di una famiglia italo tunisina, nel quartiere popolare dei Pilastro a Bologna, insinuando che spacciassero. Il video, nell’ambito della strategia mediatica della Lega per la volata a sostegno di Lucia Borgonzoni, candidata governatrice in Emilia-Romagna, aveva totalizzato centinaia di migliaia di clic. La mossa aveva innescato una raffica di proteste: da quelle di tutto il centrosinistra e non solo, a quella ufficiale dell’ambasciata tunisina e alla censura del capo della polizia Franco Gabbrielli: «Non alla giustizia porta a porta».
Facebook rimuove il video di Salvini al citofono: quando l’etica la fa il web. Giampiero Casoni il 28/01/2020 su Notize.it. La rimozione del video di Salvini al citofono da Facebook è simbolo dell'etica pigra del Terzo Millennio e della morte del Diritto. È andata così ed era giusto che così andasse: il video a trazione tamarreggiante e popular con cui Matteo Salvini aveva messo alla berlina un 17enne durante il blitz elettorale al Pilastro di Bologna era diventato volano di incitazione all’odio e aveva consentito la localizzazione fisica di un minorenne. Perciò la Suprema Corte di Cassazione di Facebook ha deciso di rimuoverlo dal social tiranno di Zuckerberg perché non rispetta gli standard della comunità. E questo è un bene, ribadiamolo ché non guasta mai, in certe cose conta l’effetto e in vacca la causa. Ma dà anche il senso di una società dove l’etica e perfino il Diritto viaggiano su strade aliene.
Facebook rimuove il video di Salvini al citofono. A decretare infatti il reset senza appello di quel frame in cui Salvini si improvvisa uomo dell’anno per la copertina de La Torre di Guardia e va a fare i grattini all’elettorato malpancista apostrofando in diretta un ipotetico pusher italo tunisino con codazzo stampa annesso e prono è stata quella che in gergo si chiama la "Community". Sono state le migliaia di segnalazioni degli utenti social cioè a far mettere toga e parruccone all’algoritmo di Facebook, che ha contato e incasellato sullo scaffale del ‘mancato rispetto degli standard’ una cosa che sarebbe dovuta diventare appannaggio d’ufficio della Procura competente. La Legge Mannino e l’articolo 604/bis del Codice Penale vigente non sono certo messi lì per abbellire gli involti dei Baci Perugina, sono maniglie istituzionali autonome con cui uno Stato di Diritto si autoimmunizza dai corpi estranei che ne minano le basi, mica cotica. In Italia, casomai qualcuno se ne fosse dimenticato nel coacervo di autolegislazione casereccia che cola via dai social come melassa guasta, l’esercizio dell’azione penale è ancora obbligatorio, vale a dire che la magistratura inquirente ha il dovere, non la facoltà, di tampinare gli ipotetici illeciti, e i cittadini hanno l’opportunità, che sia figlia di spessore etico o specifico interesse in atti, di segnalarli. È il guaio del rinnovato, corale e pavido senso civico italiota, che non spinge più singoli cittadini o consessi a denunciare un fatto e a farsi carico fisico e cognitivo della cosa, ma a rimarcarne con trombonesca indignazione la denunciabilità sull’innocuo, comodo e appagante teatro dei social. È l’etica pigra del Terzo Millennio che avanza a tappe forzate e che fa abdicare le Leggi, facendole diventare le domestiche sceme degli Standard, al più un orpello carino con cui insapidire un post quando si vuol far vedere che non si è a digiuno di leguleismi durante una rissa social. Che il Diritto sia nato dalle nostre parti pare sia vero, ma che sempre dalle nostre parti stia morendo è quanto meno verosimile.
Maria Giovanna Maglie contro il consigliere di Papa Francesco: "Razzista e comunista, insulta i calabresi". Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020. Nei meandri del voto in Emilia Romagna. Ad esplorarli ci ha pensato Maria Giovanna Maglie, la quale non ha mai fatto mistero di stare dalla parte di Lega, Lucia Borgonzoni e Matteo Salvini. In questo caso, dalla parte degli sconfitti, per quanto il risultato del Carroccio nella roccaforte rossa sia stato eccezionale. E così, scavando scavando, la giornalista ha intercettato, rilanciato e stigmatizzato un commento di Bartolomeo Sorge. Di chi si tratta? Gesuita, teologo e politologo italiano, è un esperto di dottrina social della Chiesa. Nato nel 1946, all'attivo diverse pubblicazioni, è considerato uno dei più stretti e fidati collaboratori di Papa Francesco. Col "vizio" del commento politico, recentemente si era distinto per la "bocciatura" della scissione di Matteo Renzi quando salutò il Pd per dar vita ad Italia Viva. Ma in questo caso, Sorge si è speso commentando su Twitter il voto in Emilia Romagna. Un cinguettio nel quale non nasconde assolutamente da che parte stia - ovvero, contro Salvini - e in cui aggiunge considerazioni destinate a far discutere. Già, perché il prelato cinguetta: "Due Italie. Emilia Romagna: benestante, guarda al futuro, rinvigorita dalla linfa nuova delle sardine. Calabria: ferma al palo, ai affida al congenito antimeridionalismo della Lega, senza speranza". Insomma, bravi i "benestanti emiliani" mentre vengono bocciati gli zoticoni - ovvio, zoticoni non lo ha scritto. Eppure... - calabresi che hanno votato a destra: "Fermi al palo", "senza speranza". Parole, appunto, destinate a far discutere. Parole riprese e rilanciate dalla Maglie, sempre su Twitter, che contro Sorge usa parole pesantissime: "Questo vetero comunista travestito da sardone - premette - è il gesuita decano dei consiglieri di Bergoglio", dunque cita Papa Francesco. Dunque la Maglie aggiunge: "È anche un razzista, leggete cosa scrive della Calabria che ha votato il centrodestra!". E in effetti...
Fa un selfie con Salvini mentre è in malattia: licenziato delegato Cgil. Pubblicato domenica, 26 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandro Testa. Si scatta un selfie con Matteo Salvini e lo licenziano in tronco. Succede, a pochi giorni dalla chiamata alle urne, a un delegato sindacale della Filt-Cgil, candidato a maggio, e non eletto, al consiglio comunale del comune di residenza con una lista appoggiata da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. A Christian Lanzi, 47 anni, di Granarolo dell’Emilia, sposato con tre figli, la doccia fredda è arrivata a fine turno, la sera del 22 gennaio. Dipendente della società A3S, che lavora all’Interporto di Bologna per la multinazionale della logistica Schenker, era in malattia dal 2 ottobre con prognosi fino al 6 dicembre. Ma lo scorso 18 novembre è stato fotografato e ripreso dalle telecamere di una tv locale durante la visita del leader del Carroccio allo zuccherificio di Minerbio Coprob.«Non credo di aver fatto nulla di male — si difende — e lo dimostrerò nelle sedi opportune». Nero su bianco le motivazioni del licenziamento. «Era personalmente alla visita del segretario della Lega benché fosse in malattia — si legge —. Tale presenza è documentata da immagini e video mentre, apparentemente in buona salute, era intento a farsi fotografare». «Quell’immagine — prosegue la missiva — ha indispettito i suoi colleghi di lavoro, anche in considerazione della sua carica sindacale». Un licenziamento per giusta causa che, assistito dai legali Francesco Alleva, Ugo Lenzi e Gabriele Cazzara, Lanzi ha deciso di impugnare. Innanzitutto perché la contestazione disciplinare, che aveva preceduto il licenziamento, «non mi è mai arrivata», racconta. E poi perché Lanzi, che era assente dal lavoro per una patologia certificata da specialisti che gli avevano «vivamente raccomandato di uscire di casa, ovviamente fuori dalle fasce di reperibilità», quegli orari assicura di averli rispettati. «Dovevo essere a casa dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19 — informa — e l’evento con Salvini iniziava alle 15 mentre il selfie è delle 16.10. Alle 16.30 sono andato a prendere i bimbi a scuola a Granarolo, che dista pochi chilometri da Minerbio. Poi subito a casa per farmi trovare in caso di controllo».
Matteo Salvini come Kim Jong-un, l'assurda paginata di Repubblica prima del voto in Emilia-Romagna. Libero Quotidiano il 26 Gennaio 2020. Va bene che siamo alla vigilia di un voto quanto mai sentito e capiamo anche che la campagna elettorale per Emilia Romagna e Calabria ha una valenza nazionale e quindi allarga le maglie dei colpi bassi ammessi. Ma poi c' è un limite anche a quelli a effetto e sicuramente «Repubblica» ieri è andata un po' oltre quando ha pubblicato una paginata per paragonare il segretario della Lega, Matteo Salvini, alla guida suprema della Repubblica democratica di Corea, il dittatore Kim Jong-un. La pagina era pure corredata da un collage fotografico che mostra alcune pose dei due. Nella prima entrambi sono a cavallo. Capirai la notizia. A sinistra, si legge nella didascalia, c' è Kim nella neve del monte Paektu, nell' ottobre del 2019, e a destra Salvini alla "Fieracavalli" di Verona. Ma questo è solo l' antipasto. Poi ci sono i due che imbracciano delle armi. Scoop. Peccato che Salvini lo faccia per un' iniziativa dedicata alla sicurezza. E quindi la chicca gastronomica. Kim che visita un mattatoio e Salvini a Parma in una fabbrica di prosciutti. Tutto molto bello. Ma ci sfugge il senso.
L'assist di Mihajlovic alla Lega: "Tifo per Salvini e Borgonzoni". L'allenatore del Bologna si schiera con la Lega in vista delle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Alberto Giorgi, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. "Matteo Salvini è mio amico, ci conosciamo da tanti anni, dai tempi del Milan. Mi piace la sua forza, la sua grinta, è un combattente". Sinisa Mihajlovic esce allo scoperto e fa il proprio endorsement al leader della Lega. "Tifo per lui e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni", spiega nell'intervista rilasciata al Resto del Carlino. L'allenatore del Bologna sta combattendo da mesi come un leone contro un brutto male e come spesso gli capita non ha paura di esporsi. Neanche se si tratta di politica. E infatti nella chiacchierata con il quotidiano locale, il serbo si lascia andare a parole al miele verso il segretario del Carroccio: "Mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi. Matteo è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene. I grandi uomini fanno questo, nello sport e nella politica". Dunque, il mister dei rossoblù entra nel merito della tornata elettorale nella regione "rossa" per eccellenza, dove il centrosinistra governa senza sosta da cinquant'anni: "Cambiare tanto per cambiare non serve. Io posso solo dire che sono in Italia dal 1992 e anche se non è il mio Paese di origine, è come se lo fosse diventato. E, da allora, trovo l'Italia peggiorata. Quindi bisogna avere idee e la forza di migliorare…". Da questo presupposto, ecco l'appoggio totale al capo politico della Lega e alla candidata (leghista) del centrodestra unito contro il dem Stefano Bonaccini: "Salvini è intelligente e capace, è all'altezza di guidare il Paese. E le donne – come Lucia Borgonzoni, ndr – beh le donne sono più forti degli uomini: le donne hanno carattere, determinazione, riescono sempre: Lucia è una di queste donne. Non la conosco personalmente, ma so che sarà all'altezza. Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio. Io dico la mia opinione come persona, non do lezioni. Ma penso al carisma e a chi mi dà fiducia". L'ultima battuta dell'intervista di Mihajlovic al Carlino è dedicata alla querelle sul caso della nave Gregoretti e al processo a Matteo Salvini: "Normale. Silvio Berlusconi quanti processi ha avuto? È normale che quando cerchi di cambiare molte cose e magari usi metodi forti, qualcuno possa chiedere di valutare il tuo operato. Di Matteo io dico: 'Fidatevi. E vedete quello che fa'".
Mihajlovic e le elezioni in Emilia Romagna: “Sto con Salvini”. Debora Faravelli il 22/01/2020 su Notizie.it. In vista delle elezioni regionali in Emilia Romagna, Sinisa Mihajlovic ha fatto sapere da che parte è schierato. Sinisa Mihajlovic ha espresso la sua opinione in merito alle elezioni regionali dell’Emilia-Romagna in programma per domenica 26 gennaio 2020. L’allenatore del Bologna ha dichiarato di voler sostenere Matteo Salvini e la sua candidata Lucia Borgonzoni. Il leader leghista ha ringraziato Sinisa tramite social, definendolo un “grande campione” e un “uomo coraggioso“. Pur non votando per il rinnovo del Consiglio regionale, Sinisa ha espresso la sua preferenza politica schierandosi dalla parte della Lega. Ha infatti raccontato di essere amico di Salvini da qualche anno, precisamente dal 2015, “i tempi del Milan“. Ha poi avuto recentemente un incontro con il leader del Carroccio, che ha sempre espresso ammirazione nei suoi confronti e che è passato a trovarlo per vedere come stesse. “Un incontro piacevole“, ha spiegato l’allenatore. “Mi piace la sua forza e la sua grinta, è un combattente“, ha continuato. Ha poi aggiunto che ritiene Salvini un uomo tosto che fa quello che dice, ribadendo il sentimento di amicizia che lo lega a lui. Mihajlovic ha poi espresso il suo apprezzamento anche nei confronti della candidata presidente del centrodestra. Pur non conoscendola personalmente, la ritiene una donna all’altezza in virtù del suo carattere e della sua determinazione. “Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio“, ha precisato, sostenendo che Lucia Borgonzoni sia un’ottima scelta per la regione per il suo carisma e per la fiducia che si è meritata. Non è tardato ad arrivare il ringraziamento della leghista all’allenatore del Bologna. Queste le sue parole condivise in un post su Facebook: “Grazie di cuore, Mister, speriamo, insieme alla nostra squadra, di riuscire a meritare questa fiducia, per il cambiamento dell’Emilia Romagna, con umiltà ma tanta passione“. Anche Matteo Salvini ha ringraziato Sinisa per il coraggio che ha avuto nell’esprimere la preferenza per il suo partito.
Mihajlovic si schiera con Salvini e gli heaters gli augurano la morte. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. L’allenatore del Bologna si era schierato con la candidata del centrodestra. Dopo l’endorsement per Matteo Salvini e Lucia Bergonzoni in vista delle elezioni emiliane di domenica prossima, l’alleantore del Bologna Sinisa Mihajlovic è finito nel mirino degli heaters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. L’allenatore serbo sta combattendo la sua battaglia contro la leucemia che lo ha colpito l’estate scorsa ed è reduce da un trapianto di midollo osseo. Tra coloro che si sono scagliati contro di lui per l’intervista pro-Salvini vi è anche chi gli rimprovera scarsa riconoscenza nei confronti di Stefano Bonaccini, presidente uscente dell’Emilia Romagna e candidato del centro sinistra alle elezioni di domenica, per il fatto di essere stato curato in un ospedale pubblico di Bologna. Sull’altro versante, non manca chi prende le difese di Mihajlovic stigmatizzando il comportamento di chi si è spinto fino ad augurargli la morte. “Mihajlovic può sostenere qualsiasi partito. È libero di farlo. Come tutti. Che pena leggere gente che gli vomita addosso bile e insulti perché ha detto di simpatizzare per questo partito invece che per quell’altro. Chi mette in mezzo la sua malattia è una persona piccola piccola”, “Vorrei dire a tutti i #facciamorete, i #restiamoumani e gli #odiareticosta che augurare la morte a Mihajlovic per aver espresso vicinanza alla Lega vi qualifica per quello che siete: la feccia d’Italia”, sono alcuni dei commenti che circolano su twitter.
Il leone Sinisa e i conigli rossi. Andrea Indini su Il Giornale il 22 gennaio 2020. Ha visto di tutto nella sua vita Sinisa, figuriamoci se si fa scalfire da quattro conigli rossi che lo insultano e gli augurano la morte. Lui resterà sempre un leone, loro degli ignobili roditori che si attaccano a una tastiera per inveire contro chi non la pensa come loro. Ne ha viste tante Mihajlovic e oggi non si fa certo problemi a rilasciare un’intervista per dire che appoggia in tutto e per tutto Matteo Salvini. Non se li fa anche se siede sulla panchina di una squadra, il Bologna, la cui curva è più rossa che non ce n’è. E poi: perché mai dovrebbe farsene? Ha detto quello che pensa. Punto. Si chiama libertà. La violenza con cui gli sono piombati addosso era prevedibile. E sono andati a colpirlo là dove, fino a qualche settimana fa, tutti gli si stringevano attorno: la malattia che gli divora dentro, quel tumore che non lo ha fermato. Se non lo ha fatto il cancro figuriamoci se ci riusciranno quei quattro idioti che gli augurano la morte perché ha fatto un endorsement al Capitano leghista. Gli rinfacciano di appoggiare Lucia Borgonzoni e gli ricordano che nel frattempo “si fa curare con la sanità di Bonaccini”. Per questo dovrebbe tacere. “Sosterrà Salvini in Emilia Romagna – scrivono – con un tumore già ci convive”. Da brividi. E ancora: “Speriamo muoia entro domenica”. Per Sinisa sono tutti moscerini. Lui che è cresciuto nella Jugoslavia del generale Tito, che ha vissuto sulla propria pelle due guerre violentissime, che ha visto le bombe americane radere al suolo le città serbe e gli amici cadere come foglie, non si lascia certo smuovere da un augurio di morte. La morte, appunto, l’ha guardata in faccia più volte e più volte l’ha sconfitta. Con un unico rimpianto. “Quando si parla di sogni non penso ad alzare una Champions League o uno scudetto – ha raccontato tempo fa – il mio è impossibile: poter riabbracciare mio padre”. Tutto il resto sono bassezze che non lo toccano ma che a noi dicono, ancora una volta, che le anime belle che vogliono i tribunali contro le destre sono i primi, feroci odiatori che metterebbero alla gogna chiunque non la pensi come loro.
Sinisa tifa Salvini e la sinistra impazzisce: "E poi ti curi con la sanità di Bonaccini". Dopo l'endorsement dell'allenatore del Bologna Siniša Mihajlović a Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni in Emilia Romagna, c'è chi lo accusa: "Si cura con la sanità di Bonaccini". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Sinisa Mihajlovic, ex giocatore di Sampdoria, Lazio e Inter e ora allenatore del Bologna, è finito nel mirino della stampa di sinistra dopo l'endorsement a Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni dato in un'intervista rilasciata a Il Resto del Carlino. "Tifo per Matteo Salvini e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni" ha dichiariato Sinisa, sottolineando che Salvini "mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi". Apriti cielo! Da notare che Sinisa Mihajlovic è uno dei pochissimi "vip" a fare il tifo per Salvini e Borgonzoni in Emilia-Romagna: se dovessimo stilare la lista di quelli apparsi sui giornali in favore di Bonaccini, a cominciare da quelli saliti sul palco con le sardine a Bologna, non finiremmo più.
"Si cura con la sanità di Bonaccini". La notizia, oltre a scatenare i social (insulti compresi), ha anche acceso la stampa di sinistra e progressista. Next Quotidiano, testata edita da Nexilia, titola così: "Sinisa Mihajlovic appoggia Borgonzoni ma si cura con la sanità di Bonaccini", in riferimento alla battaglia contro la leucemia che l'allenatore del Bologna sta conducendo con grandissima tenacia e dignità dopo essersi sottoposto al trapianto di midollo osseo. Una malattia terribile che Mihajlovic sta combattendo sin dal primo giorno con la forza di un leone, senza peraltro mai abbandonare la sua squadra, il Bologna. Nell'articolo Next Quotidiano si chiede "cosa vorrebbe cambiare Mihajlovic in Emilia-Romagna" probabilmente "non l’equipe medica dell’Ospedale Sant’Orsola che lo ha avuto in cura. L’istituto di ematologia Seragnoli è considerato una delle eccellenze della Sanità pubblica italiana. Ma probabilmente all’allenatore del Bologna poco importa che il progetto della Lega sia quello di una progressiva privatizzazione del comparto sul modello della Lombardia". Oltre all'inopportunità di scomodare la malattia e questioni personali estremamente delicate per criticare una legittima opinione politica, va rilevato che la sanità "non è di Bonaccini" ma dell'Emilia-Romagna e dello stato italiano. Il fatto che un suo diritto sia stato garantito significa che Sinisa, peraltro cittadino onorario di Bologna, debba per forza di cose pensarla come l'attuale governatore su tutto? Si fa davvero fatica a comprendere la logica di un'argomentazione del genere. Lo stesso quotidiano osserva, inoltre: "Nessuno a quanto pare lo ha avvertito che in Emilia-Romagna vincerà Lucia Borgonzoni e non il leader della Lega, ma sono dettagli dei quali non si curano nemmeno i più convinti elettori della Lega". Peccato che Mihajlovic sappia benissimo chi è Lucia Borgonzoni, come spiega lui stesso nell'intervista rilasciata a Il Resto del Carlino: "Le donne hanno carattere, determinazione, riescono sempre: Lucia è una di queste donne. Non la conosco personalmente, ma so che sarà all’altezza. Bisogna avere coraggio nella vita e per cambiare serve coraggio. Io dico la mia opinione come persona, non do lezioni. Ma penso al carisma e a chi mi dà fiducia". Ci sarebbe poi molto da discutere e da obiettare sulla paventata privatizzazione della sanità menzionata nell'articolo, oggetto di dibattito politico (e scontro) fra lo stesso Bonaccini e la Lega in Emilia-Romagna. Bonaccini aveva commentato così sulla sua pagina Facebook l’intervista del segretario della Lega Emilia, Gianluca Vinci, andata in onda su Telereggio: "Il segretario della Lega Emilia ci spiega il loro progetto per la sanita’ in Regione: privatizzazione del 50% dei servizi. Dice inoltre che il loro programma e’ stato scritto con i presidenti di Lombardia e Veneto". Affermazioni per le quali il governatore uscente dell'Emilia-Romagna è stato querelato dallo stesso Vinci: "Bonaccini pubblica sul suo profilo una fake news creata con un copia incolla di parti di una mia intervista distorcendone il significato. Complimenti al governatore ‘uscente’ per questa ennesima dimostrazione del fatto che è in estrema difficoltà".
Insulti sui social contro Sinisa: c'è chi gli augura la morte. Nel frattempo, Sinisa è stato oggetto di pesanti attacchi sui social network dopo il suo endorsement per Matteo Salvini in vista delle elezioni regionali di domenica. Come riporta l'Adnkronos, l'allenatore del Bologna è finito nel mirino degli haters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. Qualcuno addirittura scrive commenti choc di questo tenore: "Questo per farvi capire che a volte uno le disgrazie se le merita"; "Ci sono cose che non si guariscono nemmeno negli ospedali dell'Emilia Romagna nonostante sia la migliore sanità d'Italia". A scagliarsi contro il il mister dei rossoblù anche la pagina SatirSfaction. "Mihajlovic sosterrà Salvini in Emilia Romagna, con un tumore già ci convive", si legge su Twitter. E ancora "Mihajlovic sostiene Salvini: "Darei il mio sangue per lui". Frasi forti che non hanno fatto per nulla sorridere. Anzi, hanno attirato le critiche degli utenti. "Questa non è satira, è assoluta mancanza di rispetto", "Fai schifo", "Non è satira, è stronzaggine pura", "Vi dovreste vergognare", "Mi viene il voltastomaco", alcune delle reazioni al post. Senza dimenticare la gaffe dell'assessore regionale della giunta Bonaccini, Massimo Mezzetti: "E pensare che, se dessimo retta a chi dice “negli ospedali dell'Emilia-Romagna va data la precedenza prima agli emiliano-romagnoli...poi agli italiani...poi agli altri”, un serbo, non residente in Emilia-Romagna, non potrebbe curarsi" ha scritto sulla sua pagina Facebook. Dichiarazioni a cui ha prontamente risposto Matteo Salvini: "L’assessore regionale dell’Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, dice che per la Lega un serbo come Mihajlovic non potrebbe essere curato in ospedale. Mezzetti non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona".
Gli insulti shock a Mihajlovic: "Malato mentale, meriti la morte". Vergognosi attacchi all'allenatore del Bologna dopo l'endorsement alla Lega: "Ha alcuni danni cerebrali irreversibili, speriamo che muoia". Luca Sablone, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Una vergogna assoluta: commenti deplorevoli ai danni di Sinisa Mihajlovic, "colpevole" di aver espresso parole positive nei confronti della Lega. Il serbo, che sta combattendo contro la leucemia ed è reduce da un trapianto di midollo osseo, ha strizzato l'occhio a Matteo Salvini: "Tifo per lui e spero che possa vincere in Emilia-Romagna con Lucia Borgonzoni. Mi ispira fiducia. Quello che dice, poi lo realizza. E il fare è sempre più raro nei nostri tempi. Matteo è uno tosto, fa quello che fanno i grandi nel calcio: se promette, mantiene". Appoggiare una linea politica di destra, come al solito, ha scatenato tutta la violenza dei leoni da tastiera della sinistra. Coloro che si dichiarano antifascisti e antiviolenti hanno messo in campo un'ondata di minacce contro l'allenatore del Bologna. Tra l'altro è spuntata anche la battuta choc della pagina di SatirSfaction: "Mihajlovic sosterrà Salvini in Emilia Romagna, con un tumore già ci convive". Gli haters lo hanno ricoperto di offese, arrivando addirittura ad augurargli la morte. "Speriamo muoia entro domenica. Fatti curare da Casapound. Sei un fascista. Laziale. Ti davano dello zingaro e te lo sei scordato e quindi non mi sorprende che tu abbia fatto propaganda per Salvini. Ai bolognesi tifosi però dispiace. Se ti levi dalle palle a me sta bene", scrive un utente. C'è chi ha espresso felicità per il travaglio che ha passato: "Mi auguro sinceramente che la chemio aiuti Mihajlovic ad uscire dalla malattia! Purtroppo però debbo constatare che alcuni danni cerebrali irreversibili sembra che li abbia già fatti". Un'altra utente ha invece twittato: "Questo per farvi capire che a volte le disgrazie uno se le merita". Ovviamente non sono mancate le difese a sostegno del tecnico: "Mihajlovic può sostenere qualsiasi partito. È libero di farlo. Come tutti. Che pena leggere gente che gli vomita addosso bile e insulti perché ha detto di simpatizzare per questo partito invece che per quell’altro. Chi mette in mezzo la sua malattia è una persona piccola piccola"; "Vorrei dire a tutti i #facciamorete, i #restiamoumani e gli #odiareticosta che augurare la morte a Mihajlovic per aver espresso vicinanza alla Lega vi qualifica per quello che siete: la feccia d'Italia".
Salvini replica all'uscita di Massimo Mezzetti su Sinisa Mihajlovic: "Non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. "E pensare che, se dessimo retta a chi dice negli ospedali dell'Emilia-Romagna va data la precedenza prima agli emiliano-romagnoli...poi agli italiani...poi agli altri, un serbo, non residente in Emilia-Romagna, non potrebbe curarsi". È il commento, pubblicato su Facebook, di Massimo Mezzetti, assessore alla cultura, politiche giovanili e politiche per la legalità nella giunta Bonaccini, in Emilia-Romagna. Il riferimento dell'assessore regionale è alle recenti dichiarazioni dell'allenatore del Bologna, Sinisa Mihajlovic, che ha confessato in un'intervista a Il Resto del Carlino di fare il tifo per il leader leghista Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni. Parole, quelle dell'assessore, destinate ad alimentare nuove polemiche. Durissima la replica del leader del Carroccio, Salvini: "L’assessore regionale dell’Emilia-Romagna, Massimo Mezzetti, dice che per la Lega un serbo come Mihajlovic non potrebbe essere curato in ospedale. Mezzetti non è stato ricandidato e con questa scemenza ne intuiamo i motivi: non è adatto a ricoprire un ruolo pubblico e fa polemica sulla salute di una persona" osserva Salvini in una nota. "Orgogliosi di governare tante Regioni con Sanità d’eccellenza, onorati della stima di Sinisa e fieri di poter liberare l’Emilia-Romagna dalla sinistra di Bonaccini e Mezzetti. Speriamo - prosegue Matteo Salvini - che Bonaccini censuri la scemenza del suo assessore, e che magari ci parli anche di Jolanda di Savoia". Sui social network alcuni uteni hanno espresso dure critiche nei confronti dell'uscita (a dir poco infelice) dell'assessore regionale. "Questa te la potevi risparmiare" scrive un utente sotto il post, mentre un altro rimarca: "Sono di sinistra. Ma questa è pessima". Mezzetti prova a difendersi: "Non mi sembra di essere stato offensivo nei confronti di [Mihajlovic] in quanto uomo. Ho messo in evidenza una sua contraddizione fra ciò che sostiene (forse meglio dire, chi sostiene) e l'esperienza che ha vissuto". E ancora: "Ho fatto una constatazione semplice. I cattivi sono quelli che non l'avrebbero curato, mica io. Io voglio che possa continuare a usufruire della nostra buona sanità, non sono come quelli che vogliono cacciare gli stranieri dai nostri ospedali". Dopo l'assist a Matteo Salvini e alla Lega, l'allenatore del Bologna ed ex calciatore è stato oggetto di una vera e propria campagna d'odio via social. Sinisa Mihajlovic è finito nel mirino degli haters che sui social lo hanno ricoperto di insulti, arrivando in alcuni casi ad augurargli la morte. Qualcuno addirittura scrive commenti choc di questo tenore: "Questo per farvi capire che a volte uno le disgrazie se le merita"; "Ci sono cose che non si guariscono nemmeno negli ospedali dell'Emilia Romagna nonostante sia la migliore sanità d'Italia". La sua colpa? Non essere di sinistra o, perlomeno, non simpatizzare per la sinistra italiana. Quella dei "buoni", delle sardine e di chi rigetta l'odio.
ELEONORA CAPELLI per bologna.repubblica.it il 23 gennaio 2020. Le regionali in Emilia si trasformano in un derby tra allenatori rossoblù. Dopo l'endorsement di Sinisa Mihajlovic per la Lega alle elezioni del prossimo 26 gennaio, l'ex allenatore del Bologna, Renzo Ulivieri scende in campo per Bonaccini e per la coalizione di centrosinistra. In particolare a sostegno del candidato Igor Taruffi della lista "Coraggiosa". "Sono un estimatore di Mihajlovic, in tante occasioni ci siamo conosciuti e abbiamo parlato - dice l'allenatore toscano, sulla panchina del Bologna dal 1994 al 1998 e successivamente dal 2005 al 2007 - non condivido chi sostiene che non dovesse parlare, chi è nel mondo del calcio può parlare e sosterrò sempre la sua libertà di farlo. Però poi dico: non gli date retta". Ulivieri, che in passato è stato anche candidato alle elezioni con Sel, difende la dimensione dell'impegno politico ma anche idee completamente diverse da quelle di Sinisa. "Il nostro è un pensiero completamente diverso - spiega - riguardo l'uomo, l'umanità, riguardo al senso di stare insieme. Sostengo che l'Emilia è un modello, sono per Bonaccini e Taruffi, per quella coalizione che porta avanti un discorso cominciato tanti anni fa, di democrazia, di partecipazione, di scelte". Per questo Ulivieri chiede: "Non statelo a sentire". "Le cose in Emilia stanno in un'altra maniera, non come dice Salvini - sostiene Ulivieri - i cittadini dell'Emilia lo sanno e non si faranno incantare".
Tony Damascelli per il Giornale il 23 gennaio 2020. Non c' è dubbio che Benito Mussolini fosse tifoso della Roma così come, in seguito, Giulio Andreotti, mentre Palmiro Togliatti si scaldasse per la Juventus, come Luciano Lama, gente di sinistra, quest' ultima, vicina al simbolo del capitalismo, Giovanni Agnelli. Ai tempi, nessuna speculazione o rivolta di popolo per il tifo calcistico dei personaggi politici ma è vero il contrario, quando un calciatore illustra la propria idea e ideologia, allora la musica cambia, Bruno Neri si rifiutò di alzare il braccio per il saluto romano, era l' anno millenovecentotrentuno e si inaugurava lo stadio di Firenze alla presenza dell' autorità del fascio, quell' immagine restò non soltanto nelle fotografie ma fu il simbolo di una ribellione che portò Neri a diventare partigiano ed essere poi fucilato dai nazisti. Venne poi la democrazia che, comunque accetta con fatica, alcune posizioni politiche degli atleti. Si discute della dichiarazione pro Salvini e Lega di Sinisa Mihajlovic, allenatore simbolo del Bologna, cioè del club che è stato allenato negli anni da Renzo Ulivieri la cui appartenenza al partito comunista viene ribadita con il busto di Vladimir Ilic Uljanov, per i compagni di tutto il mondo, Lenin, collocato sulla credenza di casa. Lo stesso Uliveri, vice presidente della Federcalcio e presidente degli allenatori, si è fotografato a Chicago, posando con il dito medio rivolto alla Trump Tower. Affollato, come una gradinata, è l' elenco di figure illustri che passano dal pugno chiuso di Paolo Sollier a quello di Cristiano Lucarelli, così come Riccardo Zampagna apertamente schierato con gli operai della ThyssenKrupp, acciaierie di Terni, fabbrica nella quale lui stesso aveva lavorato prima di darsi al football. Non figurine ma persone e personaggi di rilievo per la tifoseria che, spesso, si manifesta con nomi da battaglia, dai commandos ai feddayn, dagli ultras alle brigate. Quando il portiere del Milan, Christian Abbiati, dichiarò di condividere il fascismo per i valori della Patria, il senso dell' ordine e della sicurezza, garanzie del vivere quotidiano, provocò il subbuglio anche se tentò di rimediare dicendo di non poter assolutamente accettare le leggi razziali e l' alleanza con Hitler e l' entrata in guerra. Fu timbrato, come Paolo Di Canio che, tra tatuaggi duceschi e saluto romano, non abbisogna di passaporto diplomatico. Idem come sopra per Stefano Tacconi che si presentò per le liste di Alleanza Nazionale che fu. Di destra è Sergio Pellissier che ha ammesso di rispettare il fascismo «per le cose belle, accanto a quelle brutte». Se la squadra va verso la squadraccia, in campo corrono anche molti compagni e affini, Simone Perrotta si è innamorato dei 5Stelle, Massimo Mauro era entrato nel giro dell' Ulivo, Sacchi e Lippi amano il garofano rosso, mentre la battuta più felice rimane quella di Eugenio Fascetti: «L' unica cosa di sinistra che mi piace è la colonna della classifica di serie A». Aggiungo ai passionari della politica, Giovanni Galli e Giuseppe Giannini e Angelo Peruzzi, in formazione tra Forza Italia e Popolo delle Libertà. A sorpresa, Antonio Cabrini aveva aderito all' Italia dei Valori di Di Pietro. Un album che non solletica i collezionisti ma dimostra che il football tenta di nascondersi nel canneto. Se i politici usano il calcio per aumentare il consenso e salire a bordo della diligenza quando la loro squadra, nazionale o di club, vince, i calciatori, sulla stessa diligenza preferiscono non salire, per evitare fischi e ingiurie del favoloso pubblico dei tifosi. Che sono anche elettori.
Alessandro Barbano per il ''Corriere dello Sport'' il 23 gennaio 2020. Disse, Sinisa Mihajlovic, tornando dopo tre mesi di cure: “Mi sorprende aver unito tutti con la mia malattia, io sono stato sempre divisivo. E forse tornerò a esserlo”. La promessa l’ha mantenuta con l’endorsement a Matteo Salvini, fatto ieri in un’intervista al Carlino. Chi lo conosce bene non si è stupito, perché sa che la divisività è una cifra irredimibile del suo carattere. Ma per un Sergente serbo che si schiera a destra, c’è subito uno Zar russo che gli risponde dal lato mancino. È Ivan Zaytsev, campione del volley modenese e nazionale, in piazza Grande con le sardine fin dalle prime adunate: sul suo profilo Instagram da ieri compare una foto di Stefano Bonaccini, con una eloquente didascalia: “Il mio Presidente”. Lo sport si è schierato. Se qualcuno avesse ancora dubbi sulla valenza di questa sfida elettorale, eccolo servito: la competizione tracima dalle segreterie politiche fino agli spogliatoi più prestigiosi. L’Emilia Romagna è una roccaforte che neanche gli incerti della Seconda Repubblica avevano messo in discussione. Su questo confine mai conteso, e oggi improvvisamente contendibile, si giocano non solo gli equilibri di governo, ma le visioni e gli schemi con cui il Paese si è raccontato e in parte ancora si racconta da settant’anni. Non c’è da stupirsi che la battaglia delle battaglie abbia assoldato l’intera platea dei riservisti. Ma quanto pesa l’opinione dei campioni dello sport? Molto, secondo le aspettative degli spin doctor dei due sfidanti, che se li sono contesi con un corteggiamento scientifico. Meno, a giudicare dalle reazioni sui social: la sovraesposizione ha sempre un effetto paradosso. Così, sulla community “Lo spettro della bolognesità”, che conta su Facebook 17mila utenti, c’è chi arriva a rimproverare a Mihajlovic di sputare nel piatto di quel modello emiliano che lo ha assistito con tempestività taumaturgica. “Mica l’ha operato Bonaccini”, replica un altro cibernauta. E da più parti ci si chiede in che misura la sortita del tecnico chiami in corresponsabilità anche il club: in tempi in cui le società regolano il diritto di parola dei loro campioni, è difficile pensare che il Bologna non sapesse e non volesse. D’altra parte Sinisa non è uno abituato a chiedere il permesso di parlare. E certamente parlare di politica è un suo diritto. Ma che cosa accadrebbe se il tecnico della Spal Leonardo Semplici, contro cui il Bologna giocherà a Ferrara il giorno prima dell’apertura delle urne, dichiarasse la sua fede per Bonaccini? Il derby emiliano rischierebbe di trasformarsi in un antipasto bollente delle elezioni. In nome di un tirannia che assoggetta ambiti della vita pubblici abitualmente separati, il calcio cesserebbe di essere quella valvola di decantazione che è. Certamente questo Mihajlovic e Zaytsev e le loro scuderie politiche di riferimento non l’hanno pensato. A questa soffocante polarizzazione di bandiere e stati d’animo viene in soccorso un motto di Blaise Pascal, a cui si ispira il filosofo statunitense Michael Walzer nel suo libro “Sfere di giustizia”: «Dobbiamo onori diversi ai diversi meriti, amore alla bellezza, timore alla forza, credito alla scienza». E, si può aggiungere, ammirazione all’impresa sportiva. Questo per dire che il 4-2-3-1 del Sergente e l’ace in battuta a 120 all’ora dello zar restano una fenomenologia del corpo, e non una religione dello spirito e del sapere assoluto. Per nostra fortuna.
Sacchi come Mihajlovic: ha scelto Salvini e Borgonzoni. Stasera a Bologna presenterà il suo libro in un incontro organizzato da Forza Italia. La senatrice Bernini: ''Ci aspettiamo il suo appoggio''. Antonio Prisco, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Anche Arrigo Sacchi in appoggio alla Lega di Matteo Salvini e della candidata Lucia Borgonzoni, in vista delle prossime elezioni del 26 gennaio in Emilia-Romagna. Dopo le dichiarazioni di Sinisa Mihajlovic, dal mondo del calcio potrebbe arrivare un nuovo endorsement a favore di Lucia Borgonzoni. Arrigo Sacchi, romagnolo di Fusignano, l'indimenticato allenatore del primo Milan di Silvio Berlusconi e della Nazionale italiana, potrebbe lanciare da Bologna il proprio endorsement al centrodestra in vista del voto di domenica. Questa sera, nelle sale del Museo della storia di Bologna, Sacchi presenterà il libro La coppa degli immortali Sottotitolo: Milan 1989: la leggenda della squadra più forte di tutti i tempi raccontata da chi la inventò, scritto con Luigi Garlando. A quanto si sa, Arrigo non ha mai aderito ad alcun partito, rifiutando sempre qualsiasi tessera in tasca. Tuttavia non ha mai nascosto di avere votato sempre per Silvio Berlusconi, da quando il Cavaliere scese in campo nel 1994. Sugli inviti, il simbolo Forza Italia-Berlusconi per Borgonzoni, che si troverà anche sulle schede elettorali delle regionali non lascerebbe alcun dubbio sulla scelta dell'ex tecnico milanista. Con Sacchi, all’incontro intervengono Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di FI, Adriano Galliani, ex vicepresidente del Milan, senatore di FI, e Marino Bartoletti, giornalista, nel 2004 candidato sindaco civico a Forlì, sostenuto dal centrodestra. Non sarebbe la prima volta che il nome di Sacchi viene associato alla Lega. L’agosto scorso, il grande tifoso rossonero Matteo Salvini, allora Ministero dell’Interno, dalla spiaggia del Papeete, a Milano Marittima, pubblicò su Instagram un selfie proprio in suo compagnia con il commento: ''Arrigo Sacchi, numero uno!''. Inutile nascondere che tutti, questa sera, si attendono dall'ex allenatore rossonero un sostegno esplicito a favore del centro destra. ''Sarei molto delusa se non lo facesse'', afferma la senatrice Anna Maria Bernini, che con grande entusiasmo aggiunge: ''Il mondo pallonaro è con noi, con un presidente così, se il mondo del pallone non fosse con noi avremmo veramente sbagliato tutto''. Intanto sponda Pd arrivano a sorpresa le dichiarazioni di Andrea Corsini, assessore regionale al turismo dell'Emilia-Romagna: ''Arrigo Sacchi ha partecipato a due iniziative organizzate dal Partito Democratico di Cervia e Fusignano, per promuovere e sostenere la mia candidatura alle elezioni regionali di domenica prossima. In entrambe le occasioni e in una importante trasmissione radiofonica nazionale Arrigo ha dichiarato che lui sostiene le persone che hanno lavorato bene e quindi sosterrà Andrea Corsini e Stefano Bonaccini''. Questa sera la soluzione del giallo?
Salvini citofona al cittadino tunisino: “Scusi lei spaccia?” La campagna porta a porta dell’ex ministro è senza limiti. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. La campagna elettorale di Matteo Salvini prosegue senza limiti. Stavolta a farne le spese è un cittadino tunisino residente in Emilia. Raccolto alcune voci di quartiere che lo indicavano come spacciatore, l’ex ministro dell’Interno, circondato dai microfoni e dalle guardie del corpo, ha citofonato e ha chiesto: “E’ lei il tunisino che spaccia nel quartiere?”. “A che titolo l’ho fatto? – ha spiegato poi Salvini ai giornalisti -. In qualità di cittadino. Le forze dell’ordine fanno meglio di me il loro mestiere, quindi hanno gli elementi per decidere se quel tizio spaccia o non spaccia. Mi volevo togliere una curiosità, visto che una signora di 70 anni mi dice "mi minacciano di morte perchè lì spacciano”. Intorno a Salvini molti sostenitori, ma anche diversi contestatori che gridavano: “Cosa fai qui? Tornatene al Papeete”.
Salvini e il citofono a Bologna: “L’ho fatto per aiutare una mamma”. Debora Faravelli il 22/01/2020 su Notizie.it. Continua la campagna elettorale di Matteo Salvini in Emilia Romagna in vista delle elezioni regionali di domenica 26 gennaio 2020: nel corso di una diretta Facebook da Bologna con i cittadini del quartiere Pilastro, ha suonato il citofono di un cittadino per chiedere se, come su segnalazione di una residente, fosse uno spacciatore di droga. Il motivo del gesto – che ha suscitato non poche polemiche, prima fra tutte quella dello scrittore Fabio Volo – è stato rivelato dallo stesso leader della Lega.
Il motivo del gesto. “Quando una mamma chiede aiuto, una mamma che ha perso un figlio per droga, faccio il possibile mettendomi in prima linea, anche se qualche benpensante protesta“. All’indomani dell’episodio nel quartiere Pilastro, Salvini è intervenuto a Mattino 5 spiegando le motivazioni del gesto al citofono. “Gli spacciatori devono stare in galera, non a casa” ha continuato il leader leghista. “Abbiamo segnalato a chi di dovere che là si spaccia droga. C’è una normativa tollerante con gli spacciatori, per questo la Lega ha presentato la proposta Droga zero, perché la droga è morte“.
Matteo Salvini al citofono, il tunisino Yassin a tutto campo: "Perché la signora mi ha segnalato". Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. Dopo 24 ore esatte è arrivata la replica di Yassin, il 17enne tunisino, che, mentre Matteo Salvini citofonava, giocava a calcio. Il video di risposta è stato pubblicato dal profilo Facebook dell'avvocato e attivista Cathy La Torre, e ritrae il giovane di spalle, in quanto minorenne. Yassin afferma di esserci "rimasto male" quando, al suo ritorno, i genitori gli hanno comunicato la comparsata di Salvini alla ricerca di un ragazzino spacciatore. Lui che non ha mai spacciato in vita sua ed entro 4-5 mesi diventerà padre e maggiorenne. Per approfondire leggi anche: Matteo Salvini al citofono e la Tunisia si indigna. Sapete chi è questo parlamentare? Molto sospetto..."Non ho mai spacciato, non ho precedenti penali, non sono indagato", riferisce Yassin, che poi spiega la possibile ragione per cui quella donna lo ha indicato come spacciatore: "Ho avuto a che fare con la signora perché scoppiavamo petardi sotto casa". Quindi, secondo il 17enne, la signora lo avrebbe associato agli spacciatori del quartiere Pilastro. Infine arriva l'appello indirizzato direttamente al leader della Lega: "Salvini, togli quel video".
SALVATORE DAMA per Libero Quotidiano il 23 gennaio 2020. La signora Annarita Biagini ha dato fastidio. Prendendo Matteo Salvini sotto braccio e portandolo per un giro "panoramico" sul suo quartiere degradato, il Pilastro di Bologna, ha acceso un faro dove non doveva. Una piazza di spaccio dove i pusher vogliono continuare la propria attività al riparo dal clamore. Ed eccola la ritorsione: la sessantenne bolognese ieri mattina si è ritrovata la macchina con il parabrezza e i vetri laterali in frantumi. Un dispetto. Una intimidazione. Indagano le forze dell' ordine. D' altronde che il suo fosse un rione difficile, lo sapeva: «Io la sera, quando esco a portare il cane, tengo sempre la pistola in tasca. È regolarmente denunciata, mi dispiace ma è così», ha confessato al Corriere. «Vivo qui da trent' anni e le cose negli ultimi tempi sono solo peggiorate. Tutti sanno quello che succede ma nessuno parla, ho spesso denunciato queste cose alle forze dell' ordine», ha detto la donna mostrando un dossier con foto e segnalazioni sulle attività degli spacciatori. «Chiedo semplicemente di poter uscire di casa tranquillamente e qui da un po' non mi sento sicura» (...)
Da La Stampa il 23 gennaio 2020. Anna Rita Biagini vive da trent' anni al Pilastro, un quartiere difficile oltre l' anello della tangenziale bolognese, a duecento metri dal punto in cui la banda della Uno Bianca ammazzò tre carabinieri nel 1991. L' altra notte, dopo la visita di Salvini e le accuse di spaccio alla famiglia tunisina via citofono, qualcuno ha spaccato i vetri della sua auto con un mattone. Sul gesto del leader leghista e sulle sue conseguenze su un ragazzo di 17 anni e sul padre, denigrati in diretta tv, non ha alcuna riserva: «Io avrei fatto la stessa cosa, avrei suonato al citofono come ha fatto Salvini, perché quando uno ha ragione è giusto fare così. Ho denunciato queste persone, le ho fotografate insieme ad altri e consegnato le foto alle forze dell' ordine. Spacciano qui sotto, dappertutto, e nessuno mi leva dalla testa che siano stati loro a rompermi i vetri della macchina».
Non si sente strumentalizzata politicamente?
«Non mi aspettavo che ci sarebbero state telecamere e giornalisti, così come lo schieramento di polizia. Pensavo che ci sarebbe stato solo un colloquio con Salvini, poi è stato lui a trasformarlo in un evento pubblico. Può aver sbagliato, ma conosciamo Salvini e sappiamo com' è spontaneo. Io comunque non mi sento usata, mi sento dalla sua parte, e l' importante è che questa storia sia venuta fuori».
Com' è nata l' idea di incontrare il leader della Lega qui al Pilastro?
«Martedì ho ricevuto una telefonata del maresciallo dei carabinieri che mi ha detto che sarei stata avvisata del suo arrivo da un collaboratore di Salvini. Si fidava ciecamente di me perché sapeva che ho tutto in mano sulla situazione dello spaccio in quartiere, foto e prove».
Ma se suonassero al suo di campanello, accusandola di un reato grave, come reagirebbe?
«Non ho niente da nascondere, li farei entrare e mi farei spiegare com' è nata quella voce. Sono schietta e pulita».
Sì ma la privacy delle persone?
«E la mia privacy dove sta quando questi tipi sono qui sotto a spacciare?».
È vero che gira armata?
«Solo di sera, quando esco col cane, porto con me una pistola regolarmente denunciata. Ce l' ho da 6-7 anni, da quando mi hanno minacciata di morte». (fra.giu.)
Bologna, distrutta la macchina della donna che ha denunciato lo spaccio. Offese e minacce alla signora che ha perso il figlio per droga: "Lei fa schifo, spero vi lascino in mutande, ti butterei un secchio di merda." Luca Sablone, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. Chi denuncia spaccio di droga rischia non solo di avere serie ripercussioni, ma di essere vittima di gravi offese e minacce. È successo ad Anna Rita Biagini, la signora che ha indicato a Matteo Salvini a quale citofono suonare in via Deledda, nel cuore del quartiere popolare del Pilastro a Bologna, per chiedere al presunto pusher tunisino se spacciasse. Questa mattina i familiari della donna hanno scoperto che la sua vettura è stata oggetto di un atto violento: parabrezza danneggiato e vetri laterali della macchina in frantumi. Perciò è stata subito presentata una denuncia ai carabinieri della Stazione Bologna Mazzini, che hanno tempestivamente provveduto ad avviare le indagini per danneggiamento aggravato, al momento contro ignoti. Si tenterà dunque di risalire al colpevole o ai vandali. Il leader della Lega, intervenuto in una diretta sul proprio profilo Facebook, si è schierato a sostegno della Biagini: "Ieri ho avuto l'onore di incontrare una madre coraggiosa che si batte con una motivazione in più, perchè ha perso un figlio di overdose e su di lei la politica si divide, qualcuno arriva a fare polemica su di lei, ma noi siamo andati a disturbare la piazza dello spaccio". Poco dopo su Twitter ha aggiunto: "Questa è la dura verità. Il mio abbraccio alla signora, onore al suo coraggio. Chi vota Lega domenica in Emilia-Romagna sa che da parte nostra ci sarà lotta dura e senza quartiere agli spacciatori di morte".
Offese e minacce. Il profilo Facebook della donna è stato tempestato e invaso da vergognosi commenti, con tanto di offese e minacce. "Che schifo di persona che è..mi vergognerei a girare se fossi in lei...spero vi lascino in mutande..schifosi"; "Ignobile ....che essere umano spregevole ....vieni a citofonare a me ... Te jett nu sicchie e merd ncuoll....Lota di femmina ....mi fa orrore"; "Spero che venga denunciata, che debba pagare di tasca sua le spese processuali e il risarcimento, magari la prossima volta eviterà di fare la spia al suo impresentabile capitone felpato"; "Le hanno sfondato l'auto. Sarà pure brutto da dire, ma siamo contenti".
Francesco Cancellato per fanpage.it il 22 gennaio 2020. Non era in casa, quando Matteo Salvini ha citofonato a casa dei suoi genitori, la sera di martedì 21 gennaio, chiedendo se in quella casa al primo piano ci fosse una centrale di spaccio del quartiere Pilastro di Bologna. E ora vuole denunciare la donna che ha portato il leader della Lega a diffamarlo in diretta Facebook. Perché lui, il 17enne di origine tunisina accusato dal leader leghista non spaccia droga. Non più, in realtà, perché ammette “sono pieno di precedenti, in passato ho fatto di tutto e di più”, ma ora “vado a scuola, sono un ragazzo normalissimo, non mi manca niente”. Abbiamo intercettato il ragazzo sotto casa dei genitori, sconvolti dal blitz di Salvini: “Mia madre ha 67 anni, mio padre si spacca il culo, se vai a casa trovi i vestiti di Bartolini – spiega il ragazzo a Fanpage.it – Lui ci è rimasto molto male”. Difende anche il fratello, “che non fa queste cose, lui gioca a calcio”. È anche per questo che il ragazzo ha deciso di sporgere denuncia nei confronti della signora che ha portato Salvini sotto casa sua:“Io incontro questa signora qua dietro nel parcheggio – racconta – Lei ha il cane, io ho il cane, a volte ci incrociamo. Domani vado in procura e la denuncio per diffamazione”. Seguendo le indicazioni di una residente della zona, il leader della Lega, Matteo Salvini, era andato a citofonare a casa di alcune persone ritenute “presunti spacciatori”. L'ha fatto in diretta su Facebook, facendo i nomi di queste persone e mostrando il palazzo in cui vivono. Andando a chieder loro se è vero che spacciano e se può salire a casa loro. Salvini si trovava nella zona periferica del Pilastro a Bologna. Seguendo sempre le indicazioni della donna, ha suonato al citofono di una famiglia di origine tunisina su indicazione della signora. Al citofono ha risposto un uomo e Salvini l'ha interrogato: “Buonasera. Lei è al primo piano? Ci può far entrare cortesemente? Perché ci hanno segnalato una cosa sgradevole e volevano che lei la smentisse, ci hanno detto che da lei parte lo spaccio del quartiere. Giusto o sbagliato?”.
Salvini e la signora Biagini, la sua guida al Pilastro: «Quando esco col cane porto sempre con me una pistola». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it. È piombata nel cuore della campagna elettorale dell’Emilia-Romagna. A pochi giorni dal voto anche lei, accompagnata dal leader della Lega, Matteo Salvini, si è presa i riflettori per una sera, guidando l’ex ministro dell’Interno nei meandri del Pilastro, quartiere alla periferia di Bologna. Era con lui anche di fronte al citofono di una presunta famiglia di spacciatori stranieri diventato nelle ultime ore il nuovo caso con relative polemiche della propaganda salviniana. Anna Rita Biagini, 61 anni, ammette di «non avere paura per essersi mostrata vicino a Salvini, anche perché tutti sanno che denuncio gli spacciatori e il degrado della zona, piuttosto ho paura certe sere a uscire». Davanti alle telecamere ha ammesso: «La sera quando porto il cane a fare una passeggiata mi porto una pistola in tasca, è regolarmente denunciata. Mi spiace ma è così». La signora è stata portata al presidio annunciato da Salvini da alcuni esponenti della Lega, che l’hanno poi «scortata» quando l’evento elettorale è finito. Lei si è apertamente dichiarata fan del Capitano, ricevendo la promessa di Salvini di una nuova visita: «Tornerò». «Mio figlio è morto di overdose a trent’anni, per questo combatto lo spaccio – racconta la signora –. In realtà lui era malato di Sla e purtroppo era tossicodipendente. Quando le suoi condizioni erano pevauggiorate tanto da ridurlo su una sedia rotelle ha deciso di farla finita e lo ha fatto nel modo che conosceva, facendosi una dose letale». La 61enne racconta di vivere al Pilastro da trent’anni e ha consegnato al segretario leghista un dossier con foto e segnalazioni fatte in zona contro i pusher. Il quartiere è da sempre etichettato come una delle zone più difficili di Bologna, noto anche per la strage del Pilastro ad opera della Uno Bianca: il 4 gennaio 1991 i carabinieri Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini rimasero vittime della scia di sangue dei fratelli Savi e dei loro complici. La Biagini ha parlato a Salvini dei pusher che infestano il quartiere. «Tutti sanno quello che fanno – ha sottolineato la signora all’ex capo del Viminale –. Ho più volte denunciato a polizia e carabinieri la situazione». Poi ha mostrato le aiuole e i muretti dove verrebbe nascosta la droga. Con lei hanno solidarizzato altri residenti ma le sono piovute addosso anche le critiche di altri abitanti del Pilastro perché «facendo in questo modo vuoi raccontare questa zona sempre allo stesso modo». Lei si è difesa, spiegando anche di non essere mai stata un’elettrice di sinistra riconvertita alla Lega. «Ho visto questa zona peggiorare nel tempo – ha ammesso –. E quello che mi dispiace è che dal presidente di quartiere mi sento dire che invece qui le cose vanno bene, ma non vanno bene per niente. Per questo apprezzo Salvini, mi è sembrato che su questi problemi abbia le idee chiare e mi convince. Qui da tempo ci promettono una nuova caserma dei carabinieri, ma rimandano sempre. E la cosa non la sopporto».
Il ragazzo a cui ha citofonato Salvini: «Non siamo spacciatori, solo pregiudizi» E Tunisi protesta: deplorevole provocazione. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Mauro Giordano e Cesare Zapperi. Il 17enne nordafricano vive con la sua famiglia nel quartiere Pilastro. «Io e la mia famiglia siamo scossi per quello che è successo, intendiamo andare avanti per vie legali». Il vicepresidente del parlamento tunisino: «Salvini è razzista e mina i rapporti tra i nostri Paesi». «Non sono uno spacciatore e non lo sono nemmeno i miei parenti, siamo scossi per quello che è successo e intendiamo andare avanti per vie legali». A parlare è il 17enne accusato di spaccio insieme al padre nel quartiere Pilastro di Bologna. L’accusa è arrivata dal leader della Lega, Matteo Salvini, che durante un evento elettorale ha citofonato alla famiglia chiedendo: «È vero che qui spacciate?». Il tutto mentre veniva ripreso dai giornalisti che stavano seguendo l’appuntamento della campagna elettorale per le elezioni regionali in Emilia-Romagna. Il tour anti-spaccio dell’ex ministro dell’Interno è stato guidato da una residente della zona, alla quale alcune ore dopo è stata danneggiata l’auto. La famiglia si è rivolta allo studio dell’avvocato Cathy La Torre e ha intenzione di presentare delle denunce per quanto accaduto sia nei confronti di Salvini che della 61enne che lo ha accompagnato.
Cosa rispondi a queste accuse?
«Che non c’è nulla di vero. Sono un ragazzo tranquillo che vive in quel quartiere, non ho precedenti penali. Mio fratello, di qualche anno più grande, ha invece degli arretrati con la giustizia per furto e rissa. Niente a che vedere con lo spaccio di droga».
C’erano già stati dei contrasti con la vostra vicina di casa?
«In passato sì, ma per questioni di altro tipo. Lei ha da ridire con tutti nel quartiere non solo con me, mio padre e gli altri familiari. Soprattutto quando c’era un bar sotto casa nostra lei si lamentava di tutto. Ma non capisco come sia arrivata ad accusarmi di questo».
Perché, secondo te, sono venuti a citofonare proprio a voi?
«Questo è quello che mi domando dall’altra sera. O meglio, me lo spiego così: è vero che in strada ci sono degli spacciatori, ma cosa ci posso fare io se qualcuno che frequenta i miei stessi posti spaccia? Noi abbiamo una casa, un indirizzo, un posto dove venirci a cercare e lo hanno fatto solo sulla base di pregiudizi. Ma in ogni caso nessuno autorizza Salvini a fare quello che ha fatto».
Oggi, spiega l’avvocata La Torre, c’è stato un incontro con il giovane per valutare i primi aspetti con la vicenda. Domani ci sarà invece un confronto con i genitori del ragazzo.
Da fanpage.it il 31 gennaio 2020. Durante un blitz a Bologna, nel quartiere periferico del Pilastro, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha citofonato alla casa di una famiglia di origine tunisina accusata, da una residente della zona, di spacciare droga. Tutto è avvenuto in diretta su Facebook, coi nomi delle persone coinvolte ripetuti più volte. "Ho 17 anni, faccio la vita di qualsiasi altro studente" dice il giovane indicato come presunto spacciatore. "Ho precedenti, ma sono pulito da un bel po'" aggiunge suo fratello maggiore, che fra l'altro non vive più nella zona già da tempo.
Da “la Stampa” il 31 gennaio 2020. «Ho 17 anni, studio e gioco a calcio. A Imola. Sono stato convocato in nazionale, è stata una grandissima esperienza». Il ragazzo del citofono a cui ha suonato il leader della Lega Matteo Salvini durante la campagna elettorale per le Regionali dell' Emilia Romagna è stato ieri intervistato a Piazza Pulita su La7. «Non ho mai avuto precedenti, non sono uno spacciatore. Ogni giorno mi chiedo: perché proprio me? A un 17enne gli hai rovinato la vita in cinque minuti da un giorno all' altro. Un politico che è venuto in periferia così...Cioè da pizzaiolo, postino, a suonare e dire "tu spacci". Ma cos' è?»
Karima Moual per “la Stampa” il 31 gennaio 2020. Al civico 16, tra una delle tante palazzine del Pilastro, quartiere popolare e multietnico alla periferia di Bologna, non c' è solo un citofono al quale ha suonato l' ex ministro dell' interno Matteo Salvini, ma un appartamento dove già al suo ingresso si respira l' aria di un' Italia che difficilmente viene raccontata. Quella della contaminazione che si fa famiglia. Una famiglia, Labidi - Razza, che si scopre solo dopo essere italo - tunisina, ribaltando un finale che sembrava scontato, quando in piena campagna elettorale, la sera del 22 gennaio l' ex Ministro dell' interno Matteo Salvini si fece guidare da una cittadina di quartiere, che gli indicava una famiglia tunisina, accusandola di spaccio. Il resto lo conosciamo ed è testimoniato in un video sul web, che Facebook ha già rimosso perchè inneggia all' odio: «Buonasera, ci hanno detto che da lei parte una parte dello spaccio nel quartiere». Sono le parole di Matteo Salvini. Risate, clack e poi, il sipario doveva scendere. E invece no. Entriamo nella casa della famiglia Labidi - Razza: «Quando dalla Tunisia sono arrivato in Italia nel '79, Matteo Salvini forse non era ancora nato - racconta il signor Labidi, 58 anni, oggi autista ma con alle spalle 20 anni come cuoco. E' scosso, fatica a dormire perché amareggiato e molto stanco per quella famosa citofonata, che non fece solo il giro delle reti italiane, ma fu trasmessa anche in lingua araba nei social network e nei maggiori canali televisivi arabi, facendo montare tanta rabbia, sdegno e un intervento del governo tunisino, trascinando il nostro paese in un incidente diplomatico con un paese amico. «Perché proprio a noi?». E' la domanda che si continua a chiedere Labidi, da più di 40 anni in Italia e residente al quartiere Pilastro da sempre. Lì ha conosciuto la moglie Caterina, e lì sono nati i loro 4 figli. Due figlie che vivono all' estero, il figlio più grande con la sua famiglia in un altro quartiere, mentre con loro è rimasto solo il figlio più piccolo, Yassin, 17 anni, calciatore, preso di mira dall' ex ministro dell' interno, dal momento in cui lo ha indicato come spacciatore. Ma perché proprio a voi? Ci pensa ancora un po', ma a rispondere è Caterina, seduta nel salottino di casa, grondante sino a toccare il kitch, di Tunisia e Italia, Islam e cristianesimo. Quadri di sure del corano, insieme a croci, angeli e un ritratto di Madre Teresa di Calcutta, insieme a trofei coppe e medaglie del figlio calciatore. «Salvini ci ha citofonato, facendoci passare per una famiglia di spacciatori, a scopi propagandistici per la sua campagna elettorale, ma la verità è che non pensava fossimo una famiglia italo-tunisina. Non pensava che io fossi italiana, perché purtroppo, finché si trova di fronte a minoranze, stranieri che non conoscono i loro diritti, che magari hanno paura, allora gli va bene - spiega Caterina. E gli è sempre andata bene - rincara - ma questa volta no, questa volta gli è andata male perché ha trovato me, italiana, che conosco i miei diritti, e porterò fino in fondo la mia battaglia contro questo uomo, che ha rovinato una famiglia intera». Caterina è un fiume in piena, mentre Labidi con occhi bassi, continua a ripetere: «Ma l' Italia non è così! qui nel quartiere mi conoscono da anni, sanno chi sono, mi rispettano e mi vogliono bene e mai come in questa occasione li ho sentiti vicino. Ci è arrivata tanta solidarietà. Certo, qualche sbaglio - confessa Labidi - l' ho fatto anch' io in passato quando ero molto giovane, ma io sono ormai un uomo di famiglia e da anni, pulito, che si sveglia all' alba lavorando onestamente 8- 9 ore come autista. Guadagno anche bene e non mi posso lamentare». E mentre lo dice, si premura di tirare fuori le sue busta paga come a dimostrare la sua innocenza. Un gesto che evidenzia la consapevolezza di sentire sulla pelle come la sua storia sia stata sporcata. «Siamo stati processati in mondo visione, senza aver fatto nulla, abbiamo subìto una violazione dei nostri diritti ma anche una violenza inaudita verso di noi e un minore di 17 anni, mio figlio Yassin - si sfoga ancora Caterina - che oggi è rovinato psicologicamente. È spento, non ha più voglia di uscire, di fare nulla, un ragazzo che era energia pura». Dietro alla famiglia c' è più di un avvocato. «Abbiamo denunciato Salvini - dice Caterina - perché ciò che ha fatto non può passare impunito in quanto pericoloso non solo per il male che ci ha fatto ma anche per il messaggio che manda agli italiani, la libertà di processare chiunque, soprattutto se straniero e indifeso, anche solo per sentito dire». Buona parte del quartiere Pilastro si è sollevata nei giorni dopo. Lo racconta Mohamed, che spiega come ha sensibilizzato la famiglia, amici e tutti quelli delle comunità straniere con in tasca la cittadinanza per andare a votare Bonaccini per non far vincere Salvini. «A casa mia - spiega Fadoua oggi 25 anni nata al Pilastro ma di origine marocchina - abbiamo riunito tante persone per spiegargli come votare. Persone che avevano la cittadinanza ma non avevano mai votato». Riunioni, appelli via social, telefonate messaggi, anche in lingue straniere, il passa parola è stato una valanga. «A Salvini - continua Flavia - la citofonata, gliel' abbiamo suonata noi. Basta fare carne da macello con i più deboli, gli immigrati, perché se la loro voce è più debole, ci penseremo noi italiani, che con loro conviviamo fianco a fianco».
Parla il padre del presunto pusher tunisino: "Ora denunciamo Salvini". Il ragazzo respinge tutte le accuse: "Io sono uno studente, gioco a calcio nell'Imolese, mio padre è un gran lavoratore. Noi non spacciamo". Luca Sablone, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Ancora polemiche sulla citofonata di Matteo Salvini al presunto pusher in via Deledda, nel cuore del quartiere popolare del Pilastro a Bologna. Nella giornata di ieri sono arrivate le forti reazioni da parte di Moez Sinaoui: l'ambasciatore della Tunisia a Roma ha espresso la propria "costernazione per l’imbarazzante condotta", che viene definita come una "deplorevole provocazione senza alcun rispetto del domicilio privato". In scena però è entrato anche il ragazzo in questione, che ha smentito tutte le accuse sullo spaccio. La famiglia ha annunciato una battaglia legale contro l'ex ministro dell'Interno: "Non siamo spacciatori, con quella pagliacciata Salvini ci ha rovinato la vita e per questo lo denunceremo". Il 17enne si difende dopo essere stato additato praticamente in diretta nazionale: "Come si è permesso di fare una cosa simile, siamo brave persone". Il giovane ha fornito alcuni dettagli anche per quanto riguarda la sua vita privata: "Io sono uno studente, gioco a calcio nell’Imolese, mio padre è un gran lavoratore. Tra qualche mese avrò anche io una bambina. Non capisco perché se la siano presa con noi". Intanto nella giornata di ieri ha incontrato l'avvocato Cathy La Torre e oggi è prevista una riunione del legale con i genitori del ragazzo: in tale occasione verranno presentate denunce contro il leader della Lega e contro Anna Rita Biagini, la 61enne che ha indicato a quale citifono suonare e a cui hanno distrutto la macchina.
Scatta la manifestazione. Come riportato dal Corriere della Sera, padre e figlio hanno fatto sapere: "Con quella donna abbiamo problemi da tempo. Screzi legati al fatto che si lamenta di tutto. È vero, c’è chi spaccia sotto i portici o in strada: ma non siamo noi". Pare che il baby tunisino sia incensurato, mentre il fratello - che vive in un altro appartamento nel quartiere - ha già avuto problemi con la giustizia: una denuncia per furto e rissa. Il padre ha ammesso: "Io invece più di vent’anni fa ho avuto una vicenda legata allo spaccio, ma appartiene tutto al passato, da tempo lavoro regolarmente". Di professione fa il corriere. Domani i residenti e le associazioni del Pilastro organizzeranno una manifestazione in strada per protestare e per rispondere "all'immagine negativa che è stata proiettata da chi vuole strumentalizzare una zona con problemi ma anche ricca di cose positive".
Blitz di Salvini al citofono, Yassin difeso da Cathy La Torre: “Non spaccio, studio e gioco a calcio. Ora ho paura”. Redazione de Il Riformista 23 Gennaio 2020. “Ancora una volta, al Capitano, ha detto male. Si è scusato per il video in cui ha preso in giro un ragazzo dislessico. Questa volta le scuse non credo basteranno”. L’avvocato bolognese Cathy La Torre, attivista per i diritti civili, torna ad accusare Matteo Salvini. Al legale si è rivolto infatti Yassin, il 17enne tunisino che lunedì sera si è visto citofonare dall’ex ministro dell’Interno e chiedere se spacciava. “Ci sono rimasto, è una brutta cosa – spiega il ragazzo nel video -. Mi viene da pensare ‘adesso la gente come mi guarda? I miei amici come mi guardano?’. Molto probabilmente mi guarderanno con occhi diversi, ma voglio far capire che io non sono uno spacciatore, gioco a calcio, tra 5 mesi divento padre”. Yassin si rivolge allo stesso Salvini e lancia un appello. “Vorrei far capire questo: che non sono uno spacciatore e voglio far levare quel video lì. Salvini togli quel video, sono cose non vere, tu dici ‘spacciatore, padre e figlio che spacciano’ e questo non è vero… Voglio continuare la mia vita di prima, voglio uscire di casa. Prima la gente non mi conosceva, ora dicono ‘Iaia lo spacciatore’ (Iaia è il soprannome di Yassin, ndr). Ma cos’è?”, si chiede il 17enne. In un post che accompagna la video-intervista, l’avvocato (che difenderà Sergio Echamanov, il ragazzo dislessico bullizzato da Salvini durante un comizio in una cittadina alle porte di Ferrara, ndr) ricorda che Yassin “è italiano, figlio di un matrimonio misto, che mi vergogno pure a doverlo dire che si, si è pure figli di matrimoni misti! Iaia – spiega – nella vita gioca a calcio e lo fa pure discretamente bene tanto da essere stato convocato 3 volte dalla nazionale giovanile a Coverciano, e aver giocato nel Sassuolo, nel Modena e no: non spaccia. Non ha precedenti penali, di nessun tipo. Zero. Nada. Niente. Vuole solo vivere la sua vita, giocare a calcio, studiare per ottenere la stessa patente del padre (che è un autista della Bartolini) e fare lo stesso lavoro. Perché tra 5 mesi diventa papà anche lui. Ma da ieri – sottolinea ancora -, per tanti, è solo ‘Yassin lo spacciatore’. Perché un ex Ministro dell’Interno ha citofonato a casa sua chiedendogli ‘lei è uno spacciatore’. Perché serviva dare in pasto ai suoi fan l’immigrato delinquente”, conclude l’avvocato.
Monica Rubino per repubblica.it il 22 gennaio 2020. "Siamo sbalorditi, la Tunisia non merita un trattamento del genere". A nome del Parlamento tunisino, il deputato Sami Ben Abdelaali chiede a Matteo Salvini scuse ufficiali nei confronti della famiglia tunisina coinvolta nel "blitz" al quartiere Pilastro di Bologna. Ieri, l'ex ministro dell'Interno in campagna elettorale in Emilia Romagna, ha inscenato un tour nella periferia bolognese citofonando - mentre veniva ripreso dalla telecamere e circondato dalle forze dell'ordine - a una famiglia tunisina di via Deledda su indicazione di alcuni residenti e chiedendo: "A casa sua si spaccia?". Dopo le contestazioni dei giovani del quartiere, del Pd e dello stesso sindaco di Bologna Merola, contro il leader leghista si è sollevata un'ondata di indignazione anche fra i deputati del Parlamento tunisino. "In Tunisia quest'azione vergognosa di Salvini ha scatenato una grande protesta - spiega Sami Ben Abdelaali - unita a manifestazioni di solidarietà nei confronti della famiglia tunisina e del minore citati per nome dall'ex (per fortuna) ministro dell'Interno".
Il Parlamento tunisino. "Siamo sbalorditi per l'attacco diffamatorio nei confronti di una famiglia di lavoratori, oltretutto sferrato da una persona che in Italia ha ricoperto incarichi di governo. Anche se un parente di questa famiglia ha avuto precedenti penali, questo non giustifica una tale campagna di odio. Chi sbaglia deve pagare, ma non possiamo tollerare il discredito sull'intera comunità tunisina che è sana e lavoratrice", aggiunge Abdelaali, ex presidente di un istituto bancario siciliano, residente a Palermo e sposato con una siciliana, eletto al Parlamento tunisino nelle liste dei tunisini all'estero. "Trattare così nostri immigrati è una vergogna - conclude - difendo la dignità e diritti dei nostri cittadini. Se ci fosse stato un problema si poteva segnalare alle autorità competenti, senza alcun bisogno di messinscene a favore di telecamere. Salvini capisca che queste azioni per ottenere qualche voto in più non sono più di moda, i rapporti internazionali fra Italia e Tunisia vanno bel al di sopra dei suoi incitamenti discriminatori".
Blitz di Salvini al citofono, il Parlamento tunisino: «Gesto razzista, chieda scusa». Simona Musco su Il Dubbio il 22 gennaio 2020. La replica del leader della Lega: « la lotta a spacciatori e stupefacenti dovrebbe unire e non dividere». Crisi diplomatica tra Italia e Tunisia dopo che Matteo Salvini, su segnalazione di alcuni cittadini, ha citofonato ad una famiglia tunisina del quartiere Palazzo, a Bologna, per chiedere se le persone residenti nell’appartamento spacciassero droga. Un gesto ripreso dalle telecamere a seguito del senatore, impegnato nella campagna elettorale per le regionali in Emilia, che ha suscitato l’indignazione del vicepresidente del Parlamento di Tunisi, Osama Sghaier, che in un’intervista rilasciata a Radio Capital ha parlato di «atteggiamento razzista e vergognoso che mina i rapporti tra Italia e Tunisia». Salvini, ha aggiunto Sghaier, «è un irresponsabile, perché non è la prima volta che prende atteggiamenti vergognosi nei confronti della popolazione tunisina. Lui continua a essere razzista e mina le relazioni che ci sono tra la popolazione italiana e la nostra. I nostri paesi hanno ottimi rapporti. I tunisini in Italia pagano le tasse e quelle tasse servono anche a pagare lo stipendio di Salvini. Dunque, si tratta di un gesto puramente razzista». Duro anche il commento del deputato Sami Ben Abdelaali, che a nome del Parlamento tunisino ha chiesto le scuse ufficiali di Salvini nei confronti della famiglia, definendo quella del leader del Carroccio «un’azione vergognosa, fatta per ottenere qualche voto in più alle regionali». A rincarare la dose anche l’ambasciatore tunisino a Roma, Moez Sinaoui, che in una lettera inviata alla presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, ha espresso la sua «costernazione per l’imbarazzante condotta» del leader della Lega, una «deplorevole provocazione senza alcun rispetto del domicilio privato» da parte di un «pubblico rappresentante dell’Italia», paese che vanta «un’amicizia di lunga data con la Tunisia». Sinaoui ha accusato Salvini di aver«illegittimamente diffamato una famiglia tunisina», atteggiamento che ha «stigmatizzato l’intera comunità tunisina in Italia».
Ma Salvini non torna sui suoi passi. «Il vicepresidente del Parlamento tunisino mi accusa di razzismo? Io ho raccolto il grido di dolore di una mamma coraggio che ha perso il figlio per droga – ha replicato – un atto di riconoscenza che dovremmo far tutti: la lotta a spacciatori e stupefacenti dovrebbe unire e non dividere. Tolleranza zero contro droga e spacciatori di morte: per noi è una priorità. In Emilia Romagna e in tutta Italia ci sono immigrati per bene, che si sono integrati e che rispettano le leggi. Ma chi spaccia droga è un problema per tutti: che sia straniero o italiano non fa nessuna differenza».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 24 gennaio 2020. Nell' ambito delle comunicazioni di massa, scarso rilievo hanno avuto gli studi sul citofono. Una sottovalutazione imperdonabile, relegata ad ambito condominiale: «Tra il balcone e il citofono ti dedico i miei guai», canta Tiziano Ferro. La bravata di Matteo Salvini (com' è noto ha citofonato a una famiglia di origine tunisina della periferia di Bologna per chiedere se in quella casa abitasse uno spacciatore) è stata paragonata a una forma di linciaggio (con telecamere a seguito). Ma è anche figlia, come ha sottolineato Mattia Feltri, «di un giornalismo che si acclama da sé con la schiena diritta perché insegue la preda per strada, e a microfono e telecamera spianati gli chiede se sia un pedofilo o se non si senta un genocida a riscuotere il vitalizio». Una decina d' anni fa, in questo spazio, mi è capitato di scrivere: «Lo strappa-opinioni non recede di fronte a nulla: l'umanità dolente gli si presenta come uno sterminato campionario, un' inesauribile collezione di vicende personali, facce, accenti, gesti, manie cui porre una sola e unica domanda: "Cosa ha provato in quel momento?" Se non c' è la persona si accontenta anche di un citofono: il microfono davanti a un citofono, dal punto di vista espressivo, è il livello più basso del mestiere». Il citofono è stato nobilitato dai comici (Chiambretti a Complimenti per la trasmissione ; Aldo, Giovanni e Giacomo a Mai dire gol ; Andrea Rivera a Parla con me , Enrico Brignano a A Sproposito di noi ) e mortificato dai «cronisti d' assalto» che hanno trasformato lo strumento nel surrogato dello scalpo. Un genere, come scrive Il Foglio , «portato alla gloria dalle Iene : si suona al portone di qualcuno sospettato o indicato di qualcosa, che non sa bene con chi sta parlando, e gli si fa l' interrogatorio al citofono». Con una mossa tracotante, Salvini è riuscito a citofonare a sé stesso, cioè a far parlare di sé anche negli ultimi giorni di campagna elettorale.
Simone Di Meo per la Verità il 24 gennaio 2020. Aveva annunciato: «Rifarei tutto». Ed è stato di parola Matteo Salvini, per nulla intimorito dalla tempesta mediatica (con strascico diplomatico) che si è abbattuta dopo la citofonata di martedì scorso, al Pilastro, quartiere bordeline di Bologna, a un' abitazione di presunti spacciatori. Ieri, nel tour elettorale a Modena, è andato nuovamente in scena. Puntando un esercizio commerciale. «Dov' è questo negozio, è qui al civico 38?» ha domandato il leader leghista in diretta Facebook. La segnalazione, pure in questa circostanza, è arrivata dalle donne del rione. «Chiediamo cortesemente a chi di dovere, alla Procura e alle forze dell' ordine, di fare i dovuti controlli in questo negozio, perché qua dentro si spaccia la droga», ha aggiunto. «Speriamo che la nostra presenza di oggi possa portare a fare i controlli del caso, possa portare a qualche chiusura e a qualche arresto. Ringrazio le mamme e le nonne che ci hanno messo la faccia. È dal 1999 che c' è questo negozio? Sono vent' anni? Visto che sono testone, tornerò tutte le volte, finché non sarà chiuso definitivamente», è stata la sua promessa. Resta aperta, anzi apertissima, invece la questione bolognese con la famiglia tunisina di via Grazia Deledda, additata dall' ex vicepremier come presunta centrale di smercio di stupefacenti. Al Corriere della Sera, il padre e il figlio minorenne hanno annunciato di voler trascinare davanti al giudice sia Salvini sia la signora che gli ha indicato il loro appartamento. «Con quella donna abbiamo problemi da tempo. Screzi legati al fatto che si lamenta di tutto. È vero, c' è chi spaccia sotto i portici o in strada: ma non siamo noi», hanno riferito. Il diciassettenne, che studia e gioca a calcio, risulta incensurato, ma il papà, oggi corriere per la Bartolini, ha ammesso qualche problema: «Io invece più di vent' anni fa ho avuto una vicenda legata allo spaccio, ma appartiene tutto al passato, da tempo lavoro regolarmente». Pure il fratello maggiore, che non vive più al Pilastro, ha trascorsi giudiziari. Al quotidiano online Fanpage.it, ha ammesso di essere «pieno di precedenti, in passato ho fatto di tutto e di più, adesso sto facendo il bravo». La donna a cui fanno riferimento il genitore e il figlio nordafricani si chiama Anna Rita Biagini, ed è stata la «guida» di Salvini nel giro per le strade a caccia di pusher. Il giorno dopo il tour, l' anziana ha trovato la sua auto vandalizzata. Ma non si è scomposta. A Radio Capital, la Biagini ha rincarato la dose: «Io so che quel ragazzo spaccia, ho le foto. Ora Salvini mi ha regalato i soldi per ripagare i vetri della macchina che mi hanno danneggiato». Suo figlio, malato di Sla, è morto per un' overdose a trent' anni. Qualcuno l' ha accusata di essere una visionaria. Lei ha replicato: «Ho già fatto chiudere un bar qui vicino per stupefacenti». Appena possibile, racconta tutto quel che può alle forze dell' ordine. «Ho iniziato a ricevere minacce, così ho deciso di prendere una pistola, regolarmente detenuta (da lei soprannominata «l' amica Mafalda», ndr). Saranno ormai sei o sette anni che la porto sempre con me quando esco. Mi spiace, ma è così». Lo stesso leader leghista non ha alcuna intenzione di indietreggiare e, davanti alle dichiarazioni della famiglia tunisina, ha ribattuto: «Se c' è una mamma coraggio che ha perso un figlio per droga che ti chiama e ti chiede una mano a segnalare lo spaccio, io ci sono sempre. Poi polizia e carabinieri faranno il loro lavoro. Il ragazzo dice di non essere uno spacciatore? Difficile trovare un rapinatore che confessi di essere un rapinatore». E ha difeso quelli che lo hanno accompagnato a Bologna: «I cittadini non hanno dubbi, hanno certezze». La sortita dell' ex ministro dell' Interno ha scatenato una ridda di reazioni. Oltre a quella delle autorità tunisine, che hanno protestato ufficialmente con una lettera al presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, esprimendo «costernazione per l' increscioso episodio», è arrivata la rampogna (non la prima, a dire il vero) anche da parte del capo della polizia, Franco Gabrielli. «Stigmatizzo sia quelli che fanno giustizia porta a porta, sia quelli che accusano la polizia in maniera indiscriminata», è stata la bordata del massimo responsabile nazionale di pubblica sicurezza. Concetti che risuonano anche nel monito del segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo. «Non è stato un atteggiamento particolarmente felice», ha spiegato. I vescovi dicono «basta con la costante campagna elettorale», il clima di «conflittualità» va avanti da troppo tempo. Al fianco del capo del Carroccio si è schierato però Vittorio Sgarbi. «Il tunisino è uno studente, ma occorrerà fare un' indagine. Gli untori sono gli spacciatori, l' altro è un cittadino normale», ha attaccato il parlamentare. «Se tu avessi un figlio che prende droga data da un pusher a scuola, avresti un solo desiderio: picchiare il pusher. È il pensiero di ogni genitore. Il politico rappresenta i cittadini nel modo più umano e diretto, è questa la sua grandezza». Difficile che tutti la pensino così.
Dagospia il 24 gennaio 2020. Paola Sacchi, già inviata politica di Panorama (Gruppo Mondadori). Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ha suscitato un vespaio di polemiche la citofonata di Matteo Salvini in un quartiere a rischio di Bologna, dove si spaccia droga. Io stessa, nel mio piccolo, per aver difeso, con motivazioni politiche, quel gesto estremo sono stata presa di mira da alcuni, anche colleghi molto politically correct, che sui social hanno provato a spiegarmi il garantismo. Proprio a me che andavo a trovare in privato, ero ancora inviato speciale a L'Unità, Bettino Craxi vivo a Hammamet. Ma da giornalista politica poi di Panorama del Gruppo Mondadori sono stata e sono tuttora anche per altri giornali inviata sulla Lega. Approvo il gesto di Salvini perché così ha gettato un sasso politico nello stagno del silenzio di quel quartiere dove una madre coraggio, che ha perso il figlio per droga, è costretta a girare armata, nell'indifferenza delle istituzioni locali e nazionali. E lo analizzo da giornalista esperta anche di Lega, dalla Lega Nord di Umberto Bossi a quella nazionale di Salvini, primo partito italiano. L'allievo ha superato il maestro Umberto nei voti. Ma la tecnica, rivista e aggiornata, anche attraverso un geniale mix di linguaggio senza intermediazione tra territorio e internet, segue di fatto il canovaccio base del Senatùr. Ovvero "spararla" o farla grossa quando nessuno ti ascolta. Bossi a me allora a Panorama, a margine di una delle prime interviste esclusive, dopo la malattia del 2004, rivelò: "Chiedevo la secessione in realtà per ottenere la Devoluzione. Quando nessuno ti ascolta, devi gridare più forte". Era il Bossi che parlava di "bergamaschi armati", di "proiettili a 30 lire" che in realtà così, bucando il video, voleva ottenere più autonomia, mettendo in guardia dal fatto che se non l'avessero concessa allora sì che ci sarebbe stata la secessione. Certo, anche lì linguaggio non era esattamente in punta di diritto. Ma era linguaggio politico. Così come politico io ritengo il gesto estremo di Salvini, da me intervistato tante volte da 15 anni, che, per sua stessa natura e non solo perché allievo del "Barbaro di Gemonio", è proprio così. Come ha scritto su Twitter Annalisa Chirico, confermo: avrebbe citofonato anche a un camorrista. La notizia anche secondo me non è la citofonata, ma quel quartiere abbandonato dalle istituzioni. Paola Sacchi, già inviata politica di Panorama (Gruppo Mondadori)
Matteo Salvini e la citofonata a Bologna, Pietro Senaldi: "Nostalgia del Viminale?" Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 25 Gennaio 2020. Dagli allo spacciatore. Salvini l' ha rifatto. Martedì sera, nella periferia bolognese, a favore di telecamere e attorniato da elettori festanti aveva citofonato a casa di una famiglia tunisina con un figlio carico di precedenti penali. «Scusi, è vero che in famiglia smerciate droga? Perché nel quartiere si dice così e ad accusarla è anche la madre di un ragazzo morto per overdose». Da sinistra si sono alzate subito migliaia di avvocati d' ufficio per il ragazzo pregiudicato e altrettanti pm pronti a incriminare il leader leghista per violazione della privacy e delazione. Il bailamme suscitato non ha intimorito lo sponsor numero uno di Lucia Borgonzoni, candidata presidente dell' Emilia-Romagna. Ieri a ora di pranzo l' ex ministro dell' Interno ha concesso la replica. Evidentemente nostalgico dei tempi in cui sedeva al Viminale, il Matteo, sempre attorniato da due cordoni di folla adorante, ha puntato la saracinesca abbassata di un negozio di proprietà di immigrati nigeriani e ha allungato l' indice accusatorio: «La gente, i residenti, mi dicono che qui dentro si spaccia. Non se ne può più, invito la Questura e la Procura a indagare». Più che pentito, recidivo. Le accuse della sinistra mirano a screditare Salvini e additarlo agli occhi degli elettori come una sorta di teppista della politica, forse cercano anche di demoralizzare e far vacillare il rivale, ma sull' interessato ottengono l' effetto opposto. Il leader leghista non si scusa, anzi, si eccita e alza la posta.
IL GARANTISMO. Chi ha ragione? Vedremo domenica sera, è la risposta più facile. Ma noi di Libero vogliamo dire la nostra anche a partita in corso. Esteticamente, e pure sostanzialmente, il gesto ci piace poco. Siamo garantisti con tutti, perfino con gli immigrati in odore di spaccio. Temiamo peraltro che la denuncia pubblica, indipendentemente dal fatto che risponda o meno al vero, procurerà più noie giudiziarie al leader leghista che agli individui di origine extracomunitaria messi alla gogna. Penalmente parlando quindi, la mossa potrebbe rivelarsi un autogol. Però questo non significa che ci sfugga il significato politico del comportamento di Salvini, che va letto esclusivamente come un momento della sua campagna elettorale. Proprio quello che i suoi denigratori non riescono a fare. Il ragionamento di Matteo è piuttosto semplice. Gli spacciatori non votano e se proprio lo fanno, scelgono gli altri a prescindere da qualsiasi cosa che io possa dire o fare. Quanto agli immigrati, quelli integrati e che rispettano la legge sono normalmente più inflessibili degli italiani da venti generazioni verso i nuovi arrivati che delinquono e screditano tutta la categoria. Pertanto, sono d' accordo con me. Il ragionamento salviniano si estende poi ai cosiddetti residenti, siano delle periferie o anche dei quartieri centrali infestati dai trafficanti e dai loro clienti. Il leader leghista sa che essi hanno ben chiaro che la droga gli rovina la vita e ritengono la soluzione del problema più impellente del rispetto del galateo politico e, anche se è brutto dirlo, sono insensibili alle ragioni giuridiche di chi viene messo all' indice, perché lo detestano e ritengono di non potersi trovare mai al suo posto. Per quel che riguarda gli altri, gli elettori del centrodestra benpensanti, che pure esistono anche se la sinistra li ignora, Matteo sa che sono disponibili a pagare il prezzo delle sue intemperanze verbali e comportamentali se la ricompensa è liberarli dalla sinistra. E non solo per le tasse, la politica migratoria dissennata, la guardia abbassata sulla sicurezza nelle strade, la connivenza con le organizzazioni di natura sociale che agiscono, come a Bibbiano, ispirate più dall' ideologia che dai bisogni e tutto l' armamentario di mal governo pratico e teorico che il Pd e i suoi alleati si portano dietro ovunque.
REAZIONI SCOMPOSTE. Le provocazioni di Salvini gli portano voti anche per le reazioni che suscitano nella sinistra, della quale esaltano il moralismo, l' ipocrisia e l' atteggiamento di chi la sa sempre giusta e pretende di dirti come comportarti. E se non la ascolti si scatena, mentre tace quando il suo popolo augura a Mihajlovic che la leucemia lo uccida solo perché ha detto che gli piace il leader della Lega. Pure i vescovi ieri hanno attaccato l' ex ministro per il suo tour anti-spaccio, sostenendo che è stato un comportamento infelice. Certo non è stato ineccepibile, e noi di Libero non lo sottoscriviamo. Ma ce ne fosse uno tra i detrattori che, con Salvini, avesse premesso anche una doverosa condanna della droga e di chi la spaccia. Se non altro, avrebbe tolto all' ex ministro dell' Interno l' esclusiva della lotta alla criminalità e forse avrebbe diminuito nella maggioranza degli italiani il desiderio impellente di vedere tornare al Viminale l' oggetto della disapprovazione delle sardine e degli altri branchi di pesci rossi. Pietro Senaldi
Dagospia il 22 gennaio 2020. Da radiocusanocampus.it. Matteo Salvini, leader della Lega, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano.
Sulla citofonata. “Se c’è una mamma coraggio che ha perso un figlio per droga che ti chiama e ti chiede di dargli una mano a segnalare lo spaccio, io ci sono sempre –ha affermato Salvini-. Poi polizia e carabinieri faranno il loro lavoro. Però era giusto squarciare il silenzio che purtroppo c’è in tanti quartieri italiani. Per me che sono stato a San Patrignano a parlare con ragazzine di 15 anni che si facevano di eroina, gridare che la lotta alla droga debba essere un obiettivo primario della politica è mio dovere. Che poi uno spacciatore sia tunisino, italiano o finlandese non è importante. Il ragazzo dice di non essere uno spacciatore? Difficile trovare un rapinatore che confessi di essere un rapinatore. I residenti del quartieri non hanno dubbi, hanno certezze. Travaglio parla di giustizia citofonica? Secondo Travaglio io dovrei andare in galera, con una pena maggiore rispetto a quella degli spacciatori di droga, perché il reato per cui sono imputato prevede fino a 15 anni di carcere. E’ assurdo che i Travaglio e il Pd di turno ritengano che sia normale una roba del genere, secondo me è un enorme spreco di denaro pubblico questa roba qui. Mi chiedono di citofonare ai mafiosi? Sono andato a bermi un caffè con Nicola Gratteri che è uno dei principali nemici delle mafie, che si batte ogni giorno contro la ‘ndrangheta. Ricordo poi che la villa ai Casamonica con la ruspa l’ho abbattuta io, non Fabio Volo o Fabio Fazio. E a Corleone il commissariato di polizia confiscato alla mafia l’ho inaugurato io. Se c’è qualcuno a cui sto sulle palle sono proprio mafiosi e camorristi”.
Sul caso Gregoretti. “Ho chiesto ai miei di votare per il processo. Di sbarchi ne avrò bloccati una trentina. Non l’ho mai fatto di nascosto né da solo. Oggi Conte e compagnia fanno come le 3 scimmiette, non vedo non sento non parlo, per me vale più la dignità, per Conte evidentemente vale di più la poltrona”. Sulle elezioni in Emilia Romagna. “Un anziano partigiano a Brescello mi ha detto: se ci fosse ancora Peppone voterebbe te. Lui ha la tessera del PCI e domenica voterà Lega. Mi ha detto che il PD ormai è il partito del sistema, delle banche, non è più il partito della tradizione contadina, operaia, degli artigiani. Noi vinceremo domenica perché ci votano quelle persone lì, non perché sbarcano gli alieni. Il M5S nasce a Bologna con il Vaffa Day contro il sistema del Pd, oggi governano col Pd quindi è chiaro che oggi anche molti delusi del M5S voteranno Lega. Mi sento di rappresentare una certa tradizione della sinistra vicina agli ultimi. Modello emiliano? I successi delle imprese emiliane dipendono dagli imprenditori emiliani, nonostante la burocrazia imposta dalla Regione e nonostante il sistema non fondato sul merito, perché se sei amico corri se non hai l’amico al posto giusto fai fatica. Non vogliamo insegnare niente a nessuno, ma nelle regioni in cui governiamo abbiamo dimostrato che le liste d’attesa si possono accorciare, si possono assumere più medici e infermieri”.
Su Bibbiano. “Stasera sono a Bibbiano, splendido comune agricolo. Ma quello che è successo in quel comprensorio con 26 indagati e troppi bambini portati via con l’inganno alle famiglie secondo l’accusa, è indegno per una splendida regione come l’Emilia Romagna. La responsabilità penale è dei singoli. Quello che noi contestiamo da anni è di non aver visto e, quando è esploso tutto, averlo liquidato come un fatto da poco. A parte che anche un singolo bambino portato via con l’inganno a una mamma e un papà è un dramma, l’obiettivo dei bimbi dati in affido è lavorare per riconsegnarli alle famiglie di provenienza e questo purtroppo, a Bibbiano e non solo, accade solo nella minoranza dei casi. Questo vuol dire che l’intero sistema di affidi va rivisto”. “Si parla molto di Emilia Romagna perché vincere qua sarà un fatto clamoroso e commovente, ma c’è anche la Calabria che di problemi ne ha di enormi. Pensate che non c’è l’assessore al turismo. E’ come se in Arabia Saudita non ci fosse un ministro che si occupa del petrolio. Secondo me qui vinceremo con almeno 20 punti di distacco e per la Lega sarà una prima volta in assoluta. Sarà un’emozione anche quella”.
Sul retroscena secondo cui Di Maio avrebbe accettato di fare il premier con la Lega ma Grillo glielo avrebbe impedito. “Onestamente non so se sia vero. Sia Grillo che Di Maio mi sembra che abbiano scelto l’abbraccio mortale col PD contro la volontà del loro popolo. Evidentemente Grillo ha fatto le sue valutazioni, però io non ho mai parlato direttamente né con Grillo né con Di Maio. Se si fossero sciolte le Camere e si fosse andati al voto, oggi avremmo un governo diverso, che rappresenta la volontà popolare, stabile e non litigioso”.
Rivalità con Meloni? “Assolutamente no. Più cresce tutto il centrodestra meglio è, più cresce FDI, FI, la lista di Toti meglio è. Chiaro che la Lega al 30% ormai da mesi per me è un enorme responsabilità ma è anche il premio a tanti amministratori della Lega. Anche nel Lazio. Zingaretti teoricamente è pagato per fare il governatore del Lazio, invece fa il segretario di partito in giro per l’Italia. Vedremo di restituire il prima possibile parola ai cittadini di Roma e del Lazio perché l’accoppiata Zingaretti-Raggi sta producendo disastri”.
Simone Pierini per leggo.it il 22 gennaio 2020. Fabio Volo tuona contro Matteo Salvini. Nel corso della sua trasmissione su radio Deejay, Il Volo del Mattino, il conduttore si è scagliato contro l'ex ministro dell'Interno. Motivo scatenante il gesto di Salvini che citofona a casa di un tunisino a Bologna chiedendo se fosse uno spacciatore. Fabio Volo non usa giri di parole: «Vai a suonare ai camorristi se hai le palle stronzo, non da un povero tunisino che lo metti in difficoltà stronzo, sei solo uno stronzo senza palle. Fallo con i forti lo splendido, non con i deboli». Lo sfogo ha raccolto l'approvazione del popolo di Twitter che ha apprezzato la dura presa di posizione del conduttore di Radio Deejay. Ma già nella serata di ieri era montata la protesta contro il leader della Lega. Il primo ad accusarlo il sindaco di Bologna Virginio Merola su Facebook: «Io credo che si debba vergognare, caro Salvini. Lei non è un cittadino qualunque. Ha fatto il ministro dell'interno, come mai in quel caso non ha avuto lo stesso interesse? Forse perché adesso è solo propaganda e si comporta da irresponsabile per qualche voto in più». Contro Salvini si era espressa anche il sottosegretario di Stato al Ministero dello Sviluppo Economico Alessia Morani: «Ecco il video di #Salvini che suona al campanello di una casa a #Bologna chiedendo se li abita uno spacciatore. Fa anche il nome. Poi chiede: è tunisino? È un cialtrone, un provocatore pericoloso. Ha passato ogni limite. Sta cercando l’incidente, è evidente. Guardate voi stessi». Questa mattina l'ex ministro ha voluto spiegare i motivi del gesto. «Abbiamo segnalato a chi di dovere che là c'è chi spaccia droga. C'è una normativa tollerante con gli spacciatori, per questo la Lega ha presentato una proposta di Droga zero, perchè droga è morte». Ha affermato Matteo Salvini in collegamento con Mattino 5, tornando sulla sua scelta di citofonare, ieri sera, a casa di un presunto spacciatore, nel quartiere Pilastro. «Gli spacciatori devono stare in galera, non a casa. Quando una mamma mi chiede aiuto, una mamma che ha perso un figlio per droga, faccio il possibile mettendomi in prima linea, anche se qualche benpensante - conclude - protesta».
Linus si scusa per l'attacco di Fabio Volo a Salvini: "Parole condivisibili ma ha sbagliato i toni". Dopo le dure critiche di Fabio Volo a Matteo Salvini in diretta radiofonica, il direttore di radio Deejay ha pubblicato sui social un messaggio di scuse agli ascoltatori pur condividendo il punto di vista di Volo. Novella Toloni, Giovedì 23/01/2020, su Il Giornale. Non si smorza la polemica intorno a Fabio Volo dopo le pesanti affermazioni rivolte dallo speaker radiofonico a Matteo Salvini. L'attacco frontale al leader della Lega per aver citofonato a un privato accusato di spaccio di droga a Bologna ha diviso il popolo social ma anche scatenato una reazione interna all'azienda per cui lavora. A poche ore dalle sue dichiarazioni fatte nel corso del suo programma mattutino, il direttore di radio Deejay, Linus, è intervenuto per smorzare i toni della polemica, ma soprattutto per chiedere scusa agli ascoltatori per i toni usati dal bresciano. Pasquale Di Molfetta, noto come dj Linus, ha bacchettato pubblicamente il suo speaker parlando di "comizio scomposto" e confermando che Fabio Volo non era autorizzato a fare dichiarazioni simili in radio. Con un post pubblicato sulla sua pagina Instagram, Linus ha così detto la sua sulla vicenda: "Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. [...] Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa". Linus ha però ribadito che l'opinione espressa da Volo sull'azione di Matteo Salvini a Bologna è "condivisibile", ma sbagliata nei toni, per questo ha chiesto scusa: "Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere". Il direttore di radio Deejay, alla fine del post, non ha risparmiato una stoccata finale a chi accusa la radio di essere di sinistra: "Il mio "padrone" da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete".
Simone Pierini per leggo.it il 23 gennaio 2020. Il "capo" bacchetta il "suo ragazzo". Linus, direttore artistico di Radio Deejay, se la prende con Fabio Volo per le parole usate, il modo e il tema affrontato ieri mattina durante la sua trasmissione "Il Volo del Mattino". «Non era autorizzato, mi scuso a nome di Radio Deejay», dice Linus in un lungo post su Instagram dove spiega i motivi della strigliata a Fabio Volo che nei confronti di Matteo Salvini si era espresso così: «Vai a suonare ai camorristi se hai le palle stronzo, non da un povero tunisino che lo metti in difficoltà stronzo, sei solo uno stronzo senza palle. Fallo con i forti lo splendido, non con i deboli». Il riferimento era chiaramente al gesto dell'ex ministro di citofonare a casa di una famiglia di origine tunisina colpevole, secondo Salvini, di spacciare droga nel quartiere Pilastro a Bologna. «Due parole sulla vicenda Volo / Salvini - scrive Linus su Instagram - Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. O si fa solo se si è in malafede. Di politica, cioè di vita, si dovrebbe parlare guardandosi negli occhi, altrimenti si riduce tutto al solito triste tifo da stadio. Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa». «Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile - aggiunge il direttore artistico di Radio Deejay - da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Perché purtroppo la gente non è disponibile nè a parlare nè ad ascoltare, ma vuole soltanto vedere confermate le proprie posizioni. È sbagliato ma è così, e siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere». «Una piccola cosa però ci tengo a precisare - conclude su Instagram - che dà l’idea della superficialità di molti che mi hanno scritto: il mio “padrone” da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete».
IL POST SU INSTAGRAM SU LINUS SU FABIO VOLO E SALVINI. Due parole sulla vicenda Volo / Salvini. Viviamo in un’epoca in cui si pensa che si possano affrontare temi delicati come la politica sulle pagine di un social network. Non si può. Non c’è lo spazio, non c’è il tempo. Quindi non si fa. O si fa solo se si è in malafede. Di politica, cioè di vita, si dovrebbe parlare guardandosi negli occhi, altrimenti si riduce tutto al solito triste tifo da stadio. Oppure a un comizio. Come ha fatto Fabio, in maniera scomposta e senza la mia autorizzazione, questa mattina. È un comizio quando una persona esprime dei concetti e chi hai di fronte sai già che non avrà modo di ribattere. Per questo non si fa. Quello che ha detto Fabio, cioè che Salvini a Bologna si è comportato da bullo arrogante, è sacrosanto e condivisibile da qualunque persona perbene. Ma si passa dalla parte del torto nel momento in cui lo si fa usando il linguaggio che ha usato Fabio (di cui mi scuso a nome della radio che dirigo) e quando soprattutto sai già che non ci sarà modo di avere un confronto. Perché purtroppo la gente non è disponibile nè a parlare nè ad ascoltare, ma vuole soltanto vedere confermate le proprie posizioni. È sbagliato ma è così, e siccome noi che andiamo in onda su una radio come la nostra lo sappiamo, sappiamo anche che non ce lo possiamo permettere. Una piccola cosa però ci tengo a precisare, che dà l’idea della superficialità di molti che mi hanno scritto: il mio “padrone” da qualche mese a questa parte si chiama John Elkann, gruppo Exxor, o FCA se preferite. Non mi risulta siano di sinistra. Leggete, informatevi, ragionate con la vostra testa. E poi sì, votate per chi cazzo volete. Grazie
Da leggo.it il 23 gennaio 2020. Anche Fedez ha commentato il gesto di Matteo Salvini sotto la casa di un giovane tunisino, presunto spacciatore. Il video del leader della Lega al citofono è diventato virale e ha riempito le bacheche social. «Stamattina mi imbatto in questo video dove, in sostanza una signora dice al buon Salvini che il tipo del primo piano spaccia e lui decide di dare vita a questo teatrino», ha dichiarato su Instagram il cantante. Critici contro l'ex ministro degli Interni, anche altri personaggi dello spettacolo come Fabio Volo. «Sembra banale dirlo, ma in uno stato di diritto non dovrebbe essere la portinaia del condominio a dare l'etichetta di spacciatore. Il buon Matteo forse voleva vestire i panni del giustiziere, mi è sembrato più un testimone di Geova mancato», ha scritto nelle storie. «Questa scena è comica eppure non mi viene da ridere», aggiunge il marito di Chiara Ferragni, che accompagna il suo commento con lo screenshot di una foto in cui si vede Salvini che parla con il capo ultras del Milan, condannato per spaccio di droga. «Chissà se si sono conosciuti durante il tour dei citofoni», scrive Fedez sull'immagine.
Salvini ci ricasca, teatrino e gogna davanti negozio a Modena: “Qui dentro si spaccia”. Redazione de Il Riformista il 23 Gennaio 2020. Matteo Salvini ci ricasca. Il leader della Lega, impegnato nel tour elettorale per le Regionali in Emilia Romagna, ha ripetuto a Modena il teatrino messo in piedi già martedì sera a Bologna, quando ha citofonato ad una abitazione nella periferia del capoluogo cercando presunti spacciatori. Durante una diretta Facebook Salvini si è fatto indicare un esercizio commerciale dove, secondo i residenti della zona, in maggioranza mamme, si spaccerebbe droga. “Al civico 38 spacciano, non serve citofonare, l’hanno già chiuso. Ogni volta che posso dare una mano a mamme e persone che denunciano queste cose, io la do. La sinistra invece continua a non farlo nemmeno in Parlamento”, ha detto Salvini davanti ai microfoni e alle telecamere dei giornalisti. ”Chiediamo cortesemente a chi di dovere, alla procura e alle forze dell’ordine, di fare i dovuti controlli in questo negozio, perché stando a residenti e commercianti qua dentro si spaccia la droga, chi spaccia deve stare in galera e non a passeggio per Modena”, ha aggiunto il leader del Carroccio.
IL CAPO DELLA POLIZIA CONTRO SALVINI – Una stoccata alla strategia mediatica di Salvini è arrivata al capo della Polizia Franco Gabrielli. A margine di un evento sulla sicurezza ha infatti commentato con durezza il gesto dell’ex ministro dell’Interno di citofonare a un presunto spacciatore a Bologna: “Stigmatizzo sia quelli che fanno giustizia porta a porta, sia quelli che accusano la Polizia in maniera indiscriminata”.
Salvini a Bologna fa un passo indietro: “Se il ragazzo è innocente avrà le mie scuse”. Laura Pellegrini il 24/01/2020 su Notizie.it. Matteo Salvini fa un passo indietro sul caso della citofonata al 17enne tunisino di Bologna: potrebbero arrivare delle scuse al giovane. Il leader della Lega fa marcia indietro sul caso del 17enne tunisino di Bologna: dopo le polemiche scoppiate per la citofonata, Salvini potrebbe porgere le sue scuse. Sul web continua a girare il video del leghista che chiede al 17enne: “Scusi lei spaccia?”, mentre il dibattito pubblico si divide. L’ex ministro, dunque, ospite ad Agorà su Rai 3 ha annunciato: “Avrà le mie scuse”, ma con una condizione. Si continua a parlare del blitz di Matteo Salvini nel quartiere di Pilastro, a Bologna: il leghista aveva citofonato a un ragazzo tunisino per chiedere se fosse uno spacciatore. Tra una polemica e l’altra, però, Salvini ha annunciato che potrebbe porgere le proprie scuse al ragazzo ma ad una condizione. Ospite ad Agorà, il leader del Carroccio ha ammesso le proprie responsabilità e si è detto pronto a fare un passo indietro. “Contro la droga non sono garantista, è morte – ha detto -. Se questo ragazzo non sarà ritenuto una spacciatore avrà le mie scuse”. Poi, però, il leghista ha proseguito: “In quel palazzo si spaccia. Punto. E non vado io a fare gli arresti. ma sono contento che l’Italia sappia che là si spaccia”. Nella giornata del 23 gennaio, inoltre, da Piacenza il leghista aveva dichiarato: “Adesso mi manca solo di essere denunciato da uno spacciatore e le ho viste tutte”. Tuttavia, ribadiva anche: “Sono orgoglioso di essere andato in una zona della periferia bolognese dove non vedevano un politico da anni a dare una mano a madri e padri nella loro lotta alla droga”. Il giovane tunisino di 17 anni, infatti, aveva dichiarato a Tpi: “Sono andato a denunciare. Non spaccio, non ho nessun precedente”.
Salvini al citofono, Maroni: “Questioni di campagna elettorale”. Veronica Caliandro il 24/01/2020 su Notizie.it. Maroni ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. Ospite a Piazzapulita, Roberto Maroni ha espresso il proprio parere in merito al gesto dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. In Emilia-Romagna per continuare la campagna elettorale in vista delle imminenti elezioni regionali, l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini ha citofonato ad un cittadino per chiedere se fosse uno spacciatore di droga. Una richiesta, quella del leader del Carroccio, fatta dopo la segnalazione di una signora del posto. Immediate le polemiche conseguenti a questa vicenda, con i vari esponenti politici che a loro volta hanno espresso il loro parere. Nella giornata di ieri ci ha pensato Giorgia Meloni, affermando che lei, al posto del leader leghista, non lo avrebbe fatto. A commentare la vicenda, oggi, ci ha pensato Roberto Maroni che, ospite a Piazzapulita ha affermato: “Io la lotta allo spaccio di droga e alla criminalità l’ho fatta con uno stile diverso, però l’importante è che si faccia. Salvini ha voluto sottolineare questo fatto e che se ne parli sempre avendolo fatto in campagna elettorale vuol dire che ha fatto una scelta che fa parlare. Giusta o sbagliata fa parlare… sono questioni di campagna elettorale“. Per poi aggiungere: “Io non l’avrei fatto”. Per quanto riguarda il caso Ferrara sollevato dal servizio del programma ha poi affermato: “La sensazione è che per la prima volta nella storia di quella regione, nella prima volta nella storia della sinistra ci sia un testa a testa che potrebbe determinare una sconfitta storica, come avvenne a Bologna per altri motivi. Perché là fu un errore della sinistra, qui invece sarebbe proprio un giudizio negativo sul governo. Un giudizio politicamente molto pesante che dovrebbe avere conseguenze sul governo, Naturalmente questa è la mia opinione”. Per poi aggiungere: “Salvini fa sei comizi al giorno: quello è lo stile che può portare alla vittoria. Se quello che ha fatto può avere rilevanza penale lo vedremo…”.
Blitz al citofono, azione squadrista di Salvini ma non è l’unico. Iuri Maria Prado il 23 Gennaio 2020 su Il Riformista. Quando un fatto di inciviltà irrompe sulla scena pubblica di questo Paese bisogna evitare accuratamente di far finta che si tratti del classico caso isolato, dell’eccezione additata a esempio di una perversione accidentale e minoritaria. O peggio: dare a intendere che che le involuzioni incivili del Paese siano il frutto di colpi di mano addebitabili a una parte cattiva, mente l’Italia democratica, l’Italia perbene, viva e resistente, soffre soltanto la pena inflitta da episodiche prevalenze di sentimenti estranei e maligni. Su queste contraffazioni si è retto tutto il corso democratico di un Paese – il nostro – inerte di fronte alle leggi razziali, e tra i padri della patria repubblicana stanno tutti quelli che hanno prestato giuramento di fedeltà al regime ventennale, mentre i tredici che non hanno giurato sono estromessi – et pour cause – da quel Pantheon balordo e mistificatorio. Tutto questo per dire che bisogna stare molto attenti quando, pur doverosamente, si denuncia il fatto di squadrismo di cui si è reso responsabile il senatore Matteo Salvini, che, ripreso dalle telecamere, a capo di un codazzo di cittadini inferociti, si è attaccato al citofono di un abitante di un quartiere bolognese per chiedergli se è vero che spaccia stupefacenti. E’ un fatto di gravità incommensurabile, perché a presidio del rispetto della legge dovrebbero esserci le forze dell’ordine, non i parlamentari-agitatori che si mettono alla guida di ronde che vogliono processare sotto casa il “tunisino” di turno. Ma, per favore, evitiamo di contrassegnare la faccenda come se fosse la dimostrazione che l’Italia è un bel Belpaese incomprensibilmente esposto a un imprevedibile ed esclusivo vento, come si dice, “di destra”. Il capo leghista che minaccia di ruspa la zingaraccia non è diverso, manco d’un grammo, rispetto al democratico Walter Veltroni che dice che Roma era una città sicura finché non l’hanno invasa i romeni, e il ministro diessino che vanta il calo degli sbarchi grazie all’inconfessata politica di finanziamento dei lager libici, giustificata dal pericolo di smottamento democratico del Paese, non è migliore del leghista truce che li vuole tutti respinti perché prima vengono gli italiani. Il razzismo, lo Stato di diritto violentato, la maniera spiccia della giustizia, non sono in questo Paese denunciati per quello che sono e a prescindere da chi sia responsabile di queste violazioni: ma secondo che a rendersene responsabile sia l’uno o l’altro, con lo sfregio, con lo scempio, con l’insulto civile che si giustifica perché, alternativamente, difende il confine italiano della Padania allargata o la democrazzia con due zeta del circolo progressista. I commenti sui giornali di domani (oggi, per chi legge) ce li immaginiamo, con gli editorialisti giudiziosamente democratici a spiegarci che i tunisini spacciatori, in effetti, bisogna arrestarli senza tante storie ma deve pensarci la magistratura combattente, non il leghista sostituito al governo dalla lungimirante sinistra che si toglie il cappello davanti all’avvocato del popolo, quello che non è più un mascalzone per i decreti sicurezza e l’abolizione della prescrizione approvati in gialloverde, e anzi diventa uno statista quando si tratta di mantenerli, uguali uguali, in maggioranza giallorossa. O come al tempo delle proposte di “segnalazione” del Movimento 5 Stelle, poco più di un anno fa, quando i capi grillini istituivano un sistema di denuncia dei responsabili di comportamenti “che non rispettano i principi che stanno alla base del Movimento”, il partito dell’onestà per via di delazione. Una iniziativa che spiegava molto bene quale fosse il concetto di ordine sociale e di convivenza civile coltivato da quella pericolosa schiatta di analfabeti. Era l’immagine dello Stato che ci propongono, della società che ci offrono, dell’ordinamento civile che ci promettono: l’immagine riflessa del loro Movimento. E nessuno a dirne nulla. Per cui: piano, piano. Quel che ha fatto l’altra sera Salvini (tra l’altro con giornalisti al seguito, tutti zitti) merita ogni censura. E’ una cosa che fa vergogna, e non si capisce come anche solo quell’iniziativa di sostanziale istigazione al linciaggio possa non revocare gli intendimenti di voto di chi ancora oggi si affiderebbe al potere di governo di quel signore. Ma l’alternativa a quelli che oggi gli si oppongono sta in gente che considererebbe perfettamente legittimo citofonare al presunto corrotto piuttosto che al nordafricano: a telecamere aperte e sulla cima di un analogo corteo di italiani perbene. E non che si tratti di un’ipotesi, perché la pratica di fare picchetti davanti al portone di casa del mascalzone di turno per esporlo alla giustizia di piazza – sia il furbetto del cartellino, sia il politico indagato, sia l’extracomunitario che ruba l’alloggio ai figli della Nazione, sia l’imprenditore corrotto – costituisce qui da noi una tradizione ben diffusa a destra e a manca. E a fronteggiarsi sono due opposte ma identiche pretese di forca, due politiche e due giornalismi uniti nell’identico disprezzo per i diritti della persona.
Vittorio Sgarbi: "Fabio Volo non ha capito il gesto di Salvini, occhio che un giorno non suoni suo citofono". Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. Vittorio Sgarbi le suona a Fabio Volo che ha sfidato Matteo Salvini invitandolo ad andare "a suonare il campanello di un camorrista". Una "irritazione incomprensibile", sbotta il critico d'arte. Volo "sopravvaluta o sottovaluta Salvini. Si tratta di colpi di teatro e di provocazioni. D'altra parte se Volo avesse un figlio di cui si può identificare il pusher, dovrebbe avere il coraggio di affrontarlo. Questo ha voluto dire, con il suo gesto, Salvini, avendo anche il vantaggio di seguire una pista che lo portava verso un presunto spacciatore tunisino". Volo, continua Sgarbi, "non ha pensato che Salvini è candidato anche in Calabria e presto lo sarà in Campania. Nessun dubbio che risponderà positivamente alla sfida di Volo e andrà, con molti sostenitori, a suonare il campanello di un pusher della camorra o della 'ndrangheta. Ne sono certo". E conclude: "Vorrà insistere Volo fino a che punto arriva Salvini? Non è detto che un giorno non suoni anche il suo campanello. Con molti auguri".
Blitz di Salvini al citofono, Giorgia Meloni: “Io non lo avrei fatto”. Veronica Caliandro il 22/01/2020 su Notizie.it. Giorgia Meloni ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini che a Bologna ha citofonato una famiglia accusata di spacciare nella zona. In Emilia-Romagna per continuare la campagna elettorale in vista delle imminenti elezioni, che si svolgeranno domenica 26 gennaio, Matteo Salvini ha citofonato ad un cittadino per chiedere se fosse uno spacciatore di droga. Una richiesta, quella del leader leghista, fatta dopo la segnalazione da parte di una signora del posto, scatenando un bel po’ di polemiche, come ad esempio quelle di Fabio Volo. A prendere le distanze dal gesto del leader leghista anche Giorgia Meloni. Ospite a Stasera Italia su Rete 4, infatti, la Meloni ha a commentato il gesto dell’ex ministro dell’Interno, affermando che lei non lo avrebbe mai fatto. In particolare ha affermato: “È sicuramente una mossa forte, di quelle a cui lui ci ha abituato; credo volesse dare voce a un problema diffuso nelle periferie, di fronte al quale la gente si sente lasciata sola. Lo spaccio è sostanzialmente impunito in Italia”. Per poi aggiungere: “Il dubbio che ho è che quando sei una persona in vista il rischio emulazione potrebbe non essere controllabile. Io non lo avrei fatto, ma non lo trovo così incredibile”. Dichiarazioni, quella della leader di Fratelli d’Italia, che dimostrano una linea di pensiero diversa da quella di Salvini, volta a mettere ben in evidenza le differenze tra i due partiti. D’altronde, come dichiarato poco tempo fa dalla stessa Meloni a Lucia Annunziata su Rai Tre: “ Noi, dico proprio il centrodestra diciamo che quello che prende più voti all’interno della coalizione è il leader del centrodestra. Salvini l’ultima volta ha vinto quella competizione. La prossima volta vediamo chi le vince”.
Ordine dei giornalisti, perché Travaglio è intoccabile? Redazione de Il Riformista il 22 Gennaio 2020. Vi ricordate quella storia della patata bollente? Era un titolo goliardico e, a nostro parere, molto volgare, che campeggiava un paio d’anni fa sulla prima pagina di Libero. Si riferiva alla sindaca Raggi. Secondo la direzione del giornale non era malizioso, voleva solo segnalare che la Raggi era nei guai, per motivi giudiziari e sentimentali. In realtà il doppio senso era indiscutibile, e il riferimento sessuale e anche antifemminista era piuttosto evidente. Noi del Riformista troviamo che sia sempre sbagliato reagire a quelli che consideriamo errori o cadute di stile o – persino – mascalzonate, con le querele, le iniziative della magistratura, le censure dell’Ordine dei giornalisti. E invece il povero Piero Senaldi, direttore responsabile di Libero, si è trovato in mezzo a un sacco di guai, perché la Raggi lo ha querelato, lui è finito sotto processo penale e in più l’Ordine dei giornalisti lo ha censurato e ha respinto il suo ricorso contro la censura. Reprobo, reprobo, reprobo. Vabbè. Ora però una domanda piccola piccola vorremmo porla all’Ordine dei giornalisti: ma l’avete vista la vignetta del Fatto quotidiano on line nella quale si sostiene che Craxi deve mettere la faccia nella merda e tenercela per tutta l’eternità, e stare nudo per tutta l’eternità, e tenersi anche una carota nel sedere perpetuamente? Vi sembra meno volgare e offensiva di quel titolo di Libero? Possiamo sapere se immaginate che il Fatto quotidiano dovrà subire le stesse traversie di Libero, o se invece esiste uno statuto speciale per il quale se un giornale è molto molto amico dei magistrati può avere un trattamento di favore? P.S. Posta questa domanda, aggiungiamo che a nostro giudizio sarebbe invece più logico abolire le censure per tutti, persino per chi fa quelle vignette su Craxi che dimostrano una capacità modestissima di usare il cervello. Per la verità non saremmo neppure molto contrari all’abolizione dell’Ordine dei giornalisti. Ma questa è una discussione seria che è meglio non mescolare con le oscenità infantili del Fatto.
Giovanni Sallusti per nicolaporro.it il 22 gennaio 2020. Quando uno ha ragione, ha ragione. Pensate, può capitare perfino a Mattia Santori, il Capobranco cerchietto-dotato delle Sardine. E noi, onestamente, appuntiamo. C’è un grave problema relativo alle tonnellate di odio che circolano in rete, una vera e propria esplosione della “violenza digitale”, tuona da giorni l’istruttore di frisbee. Sacrosanto. Lievissimo corollario omesso dal nostro eroe: spesso questo odio, questo hate speech collettivo che non vede mai avversari da sconfiggere, ma sempre e soltanto nemici da abbattere, prospera a sinistra, dalla parte dei buoni e giusti e illuminati, dalle sue parti, nella pancia della società (in)civile antisalviniana. Affaire-Mihajlovic: l’allenatore del Bologna esprime un’opinione non conforme a quella dell’acquario progressista (“Tifo per Matteo Salvini e spero che possa vincere in Emilia Romagna con Lucia Borgonzoni”). Uno dei pochi casi di endorsement destrorsi, rispetto alle frotte di intellò, cantautori, aspiranti tali, vip e vippastri vari che in questi giorni hanno declinato l’alfabeto sardinesco, il tutto dentro il normalissimo gioco della democrazia? No, per una fetta di web odiatrice e sinistrorsa (sì, caro Santori, le due cose sono compatibili, e del resto bastano a provarlo due decenni di selvaggio antiberlusconismo) Sinisa deve espiare la colpa ideologica con la vita. Letteralmente. Ecco di seguito un bel campionario di “violenza digitale” attinta dai social, con tanto di citazioni bestiali e codarde della leucemia che ha colpito Mihajlovic. “Speriamo muoia entro domenica”. “Questo per farvi capire che a volte uno le disgrazie se le merita” (chi la pensa diversamente merita la leucemia, Mengele sarebbe fiero). “Sosterrà Salvini, con un tumore già ci convive”. “La chemio ha effetti collaterali, bisogna capirlo”. “Verrebbe da dire: curiamo prima gli italiani!” (un esplicito appello a lasciar morire chi non vota Pd, puro sovietismo 2.0). “Speravo che la malattia ti avesse insegnato qualcosa, ed invece mi sbagliavo”. “Un po’ di gratitudine verso la sanità emiliana, no?” (dal che si deduce che tutti i pazienti della miglior sanità italiana per distacco, ovvero quella lombarda, dovrebbero votare centrodestra, giusto?). Ci fermiamo qui, perché il ribrezzo è troppo e la nausea tracima, ma è stato un vero fuoco di fila online contro il reprobo “fascista”, che si permette perfino di combattere la leucemia senza essere dei loro. Chiediamo solo a Mattia Santori: ha già chiesto, vero, il Daspo dai social network per tutti questi scarti avariati di umanità, in coerenza con la propria proposta di qualche giorno fa? Noi immaginiamo di sì, il ragazzo non è mica un quaquaraquà. Vero?
Le sardine scrivono ai sindaci e presentano il loro programma antifascista. Tra i punti della lettera sostenere la commissione Segre e sollecitare il Parlamento perché si completi la legislazione di contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza. Sul sito dell'Espresso, ogni giorno il diario di viaggio con in anteprima notizie, eventi, storie e retroscena. Elena Testi il 22 gennaio 2020 su L'Espresso. "Livore" e "aggressività". Con queste parole inizia la lettera inviata a 1.500 comuni della Lombardia. A spedirla le sardine di Milano che chiedono un cambiamento nel linguaggio politico e nel modo di porsi. Se in Emilia Romagna la campagna elettorale è ormai agli sgoccioli, le sardine sembrano prepararsi alle prossime sfide elettorali (a Milano si vota tra un anno). Simona Reingod, 49 anni, ha aderito al "movimento" dopo un messaggio in rete che chiedeva ‘sardine a Milano’ ce ne sono?’ E io ho risposto”. Dopo il concerto del 19 gennaio, il movimento getta nuove radici, mentre dialoga in cerca della sua identità , e lo fa organizzando eventi: “Abbiamo deciso di scrivere questa lettera perché i sindaci sono i diretti rappresentanti dei cittadini e chi meglio di loro può riportare all’interno della società valori come ‘antifascismo’ ed ‘equità’”. Ed ecco l’incipit: “In questi mesi, anche grazie alle Sardine, è stato possibile far emergere l’esistenza di un’altra Italia, che alla politica becera, priva di contenuti e incentrata sulla propaganda dell’odio risponde con i valori della solidarietà, dell’accoglienza, del rispetto dei diritti umani, dell’intelligenza, della non violenza, dell’antifascismo, dell’antirazzismo e della giustizia sociale”. Nella lettera che le sardine invieranno ai sindaci, ai consigliere e agli amministratori chiedono di: sostenere la commissione Segre; coltivare la memoria antifascista; aderire alla “Rete dei comuni per la memoria, contro l’odio e il razzismo”; sollecitare il Parlamento perché si completi la legislazione di contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza. Dalla Lombardia si passerà poi in tutta Italia, almeno questa sembra essere la speranza, ma non sarà solo una lettera “coinvolgeremo le persone in prima persona, chiedendo loro un impegno concreto su questa tematica, dobbiamo far comprendere che è un problema di tutti”. E chissà se servirà a qualcosa.
A Verona una via per Almirante, Segre: «Incompatibile con la mia cittadinanza». Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 da Corriere.it. Il consiglio comunale di Verona ha votato di intitolare una strada a Giorgio Almirante, lo storico leader del Msi e della destra nazionale, che dopo la caduta del regime fascista di Mussolini aderì alla repubblica di Salò alleata di Hitler. «Mi chiedo se sia lo stesso Comune, quello di Verona, a concedere a me la cittadinanza onoraria e poi a intitolare una via ad Almirante: si mettano d’accordo!» è stata la prima reazione della senatrice Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto. « Le due scelte sono di fatto incompatibili, per storia, per etica e per logica. La città di Verona, democraticamente, faccia una scelta e decida ciò che vuole, ma non può fare due scelte che sono antitetiche l’una all’altra. Questo no, non è possibile!» ha aggiunto la senatrice. Lo scorso 16 gennaio il consiglio comunale di Verona aveva deciso di conferire la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. Ma il 20 novembre del 2019 la stessa assemblea aveva approvato l’intitolazione di una strada all’ex segretario del Msi. Dopo che il centrodestra aveva votato contro la presidenza della commissione sull’odio razziale a Segre, numerosi sindaci d’Italia aveva reagito conferendo la cittadinanza onoraria alla sopravvissuta ai lager. Anche comuni di centrodestra, per farsi perdonare lo «sgarbo», avevano aderito all’iniziativa; in altri casi invece erano nati casi paradossali: il comune di Biella, ad esempio, aveva nominato cittadino onorario Ezio Greggio, negando invece analogo titolo a Liliana Segre. Contemporaneamente il Viminale aveva dovuto assegnare una scorta alla senatrice divenuta bersaglio di decine di messaggi di odio antisemita al giorno.
Date un Tuttocittà alla Segre. Domenico Ferrara su Il Giornale il 21 gennaio 2020.
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Date un Tuttocittà dell’Italia alla Segre.
Odio e fake news: per bloccare via Almirante a Verona la sinistra tira in ballo pure Liliana Segre. Valeria Gelsi martedì 21 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Una lettera al prefetto di Verona per chiedergli di fermare l’intitolazione di una strada a Giorgio Almirante, già deliberata dal Consiglio comunale. A scriverla è stata l’associazione La città che sale. Sostiene che nulla nella vita e nei valori del padre della destra italiana avrebbe dato la “testimonianza dello sviluppo materiale e civile” richiesta dal regolamento comunale per l’intitolazione. Per questa associazione, infatti, la decisione del consiglio comunale sarebbe giustificata solo da “atteggiamenti ideologici”. Insomma, la solita manfrina, questa sì, dettata da atteggiamenti ideologici di chi ha lo sguardo fermo a un secolo fa.
La lettera al prefetto di Verona. La città che sale mette in relazione “l’assegnazione quasi contemporanea della cittadinanza onoraria a Liliana Segre (tributata quattro giorni fa, ndr) e la proposta di intitolare la via ad Almirante”. Una scelta che esporrebbe la città “al ridicolo, oltre che all’indignazione, configurando una sorta di grottesca, anacronistica e strumentale compensazione ideologica”. “Come si può celebrare la vittima di uno dei più abominevoli regimi politici novecenteschi e intitolare una strada ad uno dei responsabili di quel regime? Che senso ha insistere con questi atteggiamenti ideologici a 75 anni dalla fondazione della Repubblica e a 30 dalla fine della guerra fredda?”, si chiede quindi il consiglio direttivo dell’associazione, che firma la lettera al prefetto Donato Cafagna. La lettera non è estemporanea, ma fa seguito alle polemiche già sollevate dalla sinistra in consiglio comunale. Riproponendone errori e falsità. “Da un lato si dà un riconoscimento a una donna coraggiosa impegnata contro i rigurgiti di fascismo, dall’altro si sdogana una figura come Almirante, che di questo razzismo omicida fu un accanito e mai pentito teorico”, ha sostenuto il capogruppo di Sinistra in Comune, Michele Bertucco, parlando con Repubblica. E qui c’è la prima fake news.
Giampiero Mughini per Dagospia il 22 gennaio 2020. Caro Dago, ti confesso che se io fossi in un qualche consesso politico che dovesse decidere se votare sì o no l’intestazione di una strada cittadina al nome di Giorgio Almirante, voterei sì. E vengo a spiegarti il perché, che è semplicissimo. Almirante fa parte della storia italiana che è la nostra e in questa storia ha avuto un ruolo, il recupero alla vita pubblica dei “vinti” del 1945, di quelli che avevano fortemente parteggiato per i “vincitori” del 1922, quel fascismo storico che è impossibile ridurre a mera esperienza criminale. E’ un pezzo di storia del nostro Paese. Nel 1922 tutti menavano le mani. Più tardi, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti vennero uccisi per rappresaglia otto fascisti fra cui un parlamentare. Non erano rose e fiori gli anni Venti e Trenta, da nessuna parte in Europa: non lo furono in Germania, in Austria, in Spagna, dove la guerra civile durò tre anni con orrori a bizzeffe compiuti da una parte e dall’altra. Attenuare quegli orrori, quelle zuffe mortali, quelle guerre civili latenti o guerreggiate significa non capire nulla del secolo appena trascorso. In quel tempo e in quel periodo Almirante debuttò da giovane giornalista in un quotidiano diretto da Telesio Interlandi. Gli sedeva a fianco un coetaneo, Antonello Trombadori, futuro comandante militare dei gap comunisti durante la “Roma città aperta”. Più tardi Almirante divenne una sorta di redattore capo de “La difesa della razza”, la fetenzia antisemita voluta da Benito Mussolini e diretta dallo stesso Interlandi. Una colpa intellettuale morale non da poco, certamente. Alla mattina del 26 luglio, con il suo distintivo fascista all’occhiello Almirante stava recandosi alla tipografia de “La difesa della razza”. Un suo amico lo intercettò e gli disse che non era il caso e lo convinse a starsene alla larga. Le cose poi sono andate come sono andate. Com’è nel diritto di chiunque Almirante - e lo ha scritto impareggiabilmente Mattia Feltri nel suo “buongiorno” di oggi - Almirante ha mutato pelle e identità. L’antisemita degli anni Trenta in lui è morto, esattamente - e tanto per fare un esempio -come “il comunista” da anni Ottanta è morto nel mio carissimo amico Oliviero Diliberto, oggi tutt’altro personaggio e di tutt’altra caratura morale e intellettuale (anche se lui dice di no e sostiene anzi che io sono un “comunista” come lo era lui una volta). La storia ci tritura e ci seleziona, tutti noi raschiamo e raschiamo quello che eravamo ancora ieri e l’altro ieri. Almirante mi raccontò la volta che nell’immediato dopoguerra andò a fare un comizio missino in non ricordo più quale comune “rosso” del nord Italia. A un certo punto gli arrivarono addosso in molti e cominciarono a tempestarlo di cazzotti e pedate. Lui andò giù, ne uscì indenne, si accorse che gli mancava l’orologio. Si rivolse protestando a un dirigente comunista che si trovò innanzi. Dopo pochi minuti l’orologio gli fu restituito. Almirante è stato per 40 anni il testimone vivente di quella parte del Paese che nel fascismo ci aveva creduto. Uno di loro era mio padre, che mi ha pagato gli studi universitari e l’acquisto dei libri Einaudi dai quali ho imparato l’antifascismo. Una volta che avevo scritto delle “squadracce fasciste” mio padre mi chiese se sapevo che lui ne aveva fatto parte. Gli risposi di sì, pronto alla pugna. Papà non aggiunse altro. Per stile di vita e tutto, lui era l’opposto esatto del “fascismo” in cui aveva creduto, come lo era l’avvocato Battista padre del mio carissimo Pigi Battista che gli ha poi dedicato un libro quanto mai toccante. Il fascismo c’è stato nella storia d’Italia, e nessuno lo può cancellare. Nella storia successiva Almirante ha avuto un ruolo, e nessuno lo può cancellare. A dirla in una sola parola, il suo nome ci può stare sulla targa di una strada. La volta che lo intervistai a lungo nel suo studio in via della Scrofa, guardavo dietro di lui alla foto di Mussolini e al gagliardetto della Juventus. Una foto di Mussolini simile a quella che mio padre teneva dietro il suo tavolo da lavoro.
Lettera di Mirella Serri a Dagospia il 22 gennaio 2020. Gentile direttore, leggo con stupore la lettera in cui Mughini difende l’intestazione di una via a Giorgio Almirante. Mughini è un intellettuale colto che conosce tanti risvolti della storia. A suo parere Giorgio Almirante merita una targa in quanto rappresentativo degli ex fascisti che agirono e operarono nel dopoguerra in regime democratico ma con molte e ingiustificabili nostalgie. Mughini sa benissimo che vi furono parecchie ex camicie nere che riuscirono a cambiare pelle e altre che rimasero invece ancorate al vecchio credo. Almirante non fu nel dopoguerra un dannato della terra: ebbe anche la fortuna di avere un bel sostegno nella creazione di un partito neo fascista. Peraltro ci sono già molte strade in Italia a lui intestate, da Pomezia a Giarre in provincia di Catania e tante altre. Non aggiungiamone di nuove in memoria di un personaggio che, oltre a essere stato fascista come la maggior parte degli italiani ha avuto l’incancellabile colpa di avere sostenuto attivamente l’ideologia razzista. Lasciamo che Almirante riposi in pace con tutti i suoi errori ma evitiamo di rinverdirne il ricordo con nuove vie. Ci sono molti altri più o meno conosciuti eroi come Enzo Sereni morto a Dachau oppure Ada Ascarelli che riportò in Palestina circa 25 mila ebrei che si erano rifugiati in Italia che aspettano la loro targa. In generale lascerei perdere la guerra delle targhe o delle cittadinanze in cui si equipara la persecuzione razziale subita da Liliana Segre al destino di un ex fascista persecutore degli ebrei.
Felice Manti per il Giornale il 25 gennaio 2020. Il marito di Liliana Segre, senatrice a vita e testimone vivente dei guasti dell' antisemitismo e dei campi di concentramento nazisti, era un antifascista cattolico. Nulla di strano. Se non fosse che il suo cuore di uomo d' ordine, con una carriera militare, batteva a destra. E se non fosse che, come è stato possibile appurare spulciando negli archivi del Viminale, nel 1979 avesse deciso di candidarsi alla Camera con il Movimento sociale italiano ma come «indipendente». Neanche 700 voti. Già, l' Msi di Giorgio Almirante, il cui destino curiosamente si è intrecciato di recente con la stessa Segre per via del pasticciaccio della via intitolata (legittimamente) all' ex leader Msi dal Comune di Verona nel giorno della cittadinanza scaligera offerta (e rifiutata) dalla stessa Segre. Il perché Alfredo Belli Paci, morto nel 2008, avesse scelto di correre nel Movimento sociale «da posizioni antifasciste» l' ha spiegato al Giornale il figlio Luciano, che con il padre condivide la passionaccia per la politica, seppur da sponde opposte. «Ero il segretario provinciale dei giovani del Psdi, poi ho militato nel Psi, nei Ds, in Sd, Sel e infine Liberi e Uguali - dice al telefono con Il Giornale - non mi sono spostato io, che resto sulle posizioni di Saragat». Ma i tormenti politici del figlio sono poca cosa rispetto a quelli della madre alla notizia della candidatura: «Non le nascondo che fu un periodo difficile per lei e che la scelta di mio padre portò a delle lacerazioni nei nostri rapporti. Fin quando poi si decise a mollare tutto e a fare l' avvocato, da solo e poi insieme a me». Certo, c' è una Milano da raccontare e un clima irrespirabile che nessun libro di Storia potrà mai neanche lontanamente riuscire a far capire. «Siamo negli Anni '70, mio padre lavorò insieme ad altri - liberali, monarchici e antifascisti, lo scriva mi raccomando... - a quell' esperimento politico chiamato la Costituente di Destra», poi diventata Democrazia nazionale che trovò in Pietro Cerullo l' ispiratore insieme a Ernesto De Marzio, il generale Giulio Cesare Graziani, finanche Achille Lauro. Un tentativo di sfuggire al ghetto nel quale il fin troppo nostalgico Pino Rauti aveva confinato il Movimento sociale. L' esperimento fallì «ma papà ci credeva ancora, e per questo disse sì alla candidatura». Nonostante il no alla Repubblica di Salò gli fosse costato la permanenza in «sette campi di concentramento». Dalla storia della famiglia Segre arriva un' altra lezione a chi si ostina a dividere tutti in buoni e cattivi e a pretendere di avere la verità in tasca.
Ma il marito della senatrice Segre fu missino e almirantiano. Un documento del “Secolo”. Giovanni Pasero sabato 25 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Alfredo Belli Paci è stato più che un candidato del Msi. Il marito della senatrice Segre è stato convintamente almirantiano. Almeno così risulta a noi. Alle elezioni politiche del 3 e 4 giugno 1979 l’avvocato Belli Paci figura infatti nel cappello di lista dei candidati del Msi della Circoscrizione Milano-Pavia. In una competizione che, basta andare a guardare i giornali dell’epoca, vedeva il Msi su posizioni di destra radicale. In contrapposizione con gli “scissionisti” di Democrazia nazionale. Il servizio che documentiamo, si rende necessario dopo le quanto riportato da Il Giornale e La Verità. Con l’intervista al figlio del professionista milanese, che ha confermato la candidatura del padre, seppure sfumandone il significato. Tutto, ovviamente, comprensibile dal punto di vista del figlio. Ma il dato che a noi sembra importante è che quella dell’avvocato Belli Paci è stata una decisione convinta e non frutto di un momentaneo sbandamento.
Il marito della Segre non era un semplice candidato. Ecco la ricostruzione cronologica. A pagina 11 del Secolo d’Italia di giovedì 10 maggio 1979, vengono pubblicati i candidati della IV circoscrizione per la Camera e per il Senato. Alla Camera, il capolista è Franco Servello (storico esponente della destra italiana). Belli Paci è al numero 6, nel cappello di lista. Non proprio un Signor nessuno. Anzi, un candidato di prestigio, di assoluto prestigio per la Fiamma tricolore. È il 1979, siamo nel pieno degli “anni di piombo”. E a Milano, anche solo comprare il Secolo d’Italia all’edicola, è un rischio. Candidarsi, quindi, con il Msi-Dn è una scelta di campo coraggiosa. Né tiepida, né moderata.
Le parole di La Russa alla senatrice a vita. Nei giorni scorsi, Ignazio La Russa aveva lanciato un appello alla senatrice a vita Liliana Segre, per chiederle di non opporsi all’intitolazione di una via a Giorgio Almirante. Un appello che faceva una premessa. “Se la signora Segre lo avesse conosciuto, sicuramente avrebbe dato di quell’uomo un giudizio completamente diverso. Purtroppo Almirante è morto e un incontro con la Segre non è possibile. Un incontro tra i due, ne sono certo, avrebbe risolto la questione”. Il marito della signora Segre lo aveva conosciuto. E quindi si era candidato.
Con Alfredo una storia d’amore durata tutta la vita. Nell’intervista rilasciata a Sat 2000, la tv dei Vescovi, la senatrice Segre parlava del marito come di una persona fondamentale nella sua vita. “Liliana Segre attribuisce al marito la sua rinascita dopo l’orrore vissuto ad Auschwitz e lui le restò sempre vicino anche quando decise, compiuti i 60 anni, di diventare una testimone della Shoah”. Liliana e Alfredo si sono conosciuti nel 1948 e, fino alla morte di lui, nel 2007, non si sono mai lasciati.
Meloni: Almirante merita un omaggio, la sinistra ha perdonato il passato fascista di Scalfari e Bocca. Redazione de Il Secolo d'Italia mercoledì 22 gennaio 2020. “Non credo assolutamente che una via dedicata a Verona a Giorgio Almirante sia in contrasto con la concessione della cittadinanza onoraria a Liliana Segre”. Lo afferma all’Adnkronos la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, interpellata sulla polemica nata dalla decisione del Consiglio comunale di Verona di intitolare una strada all’ex segretario missino e le affermazioni di Liliana Segre che l’ha giudicata “incompatibile” con il conferimento a lei della cittadinanza onoraria. Per la leader della destra erede del Msi è anzi bello che Verona pensi in contemporanea all’omaggio a due figure come Liliana Segre e Giorgio Almirante. Il merito di quest’ultimo, sottolinea Meloni, fu di avere portato nell’alveo democratico un partito che nasceva dai reduci dell’esperienza della Rsi. Un merito che la storia gli deve riconoscere. “Appare oggi davvero bizzarro sostenere che un personaggio che per cinquant’anni ha fatto parte delle Istituzioni della Nazione sia un reietto, meritevole dell’oblio”. “L’approvazione delle leggi razziali – aggiunge – è una grave ferita nella storia del popolo italiano. Su questo non abbiamo alcun dubbio”. Anche il leader dell’Msi – ricorda Meloni – condannò “le leggi razziali” ed ebbe un ruolo importante nel traghettare la comunità politica che aveva il legame con l’esperienza fascista “nell’alveo del dibattito democratico”. La leader di FdI ricorda infine che anche altri personaggi, poi santificati dalla sinistra, come Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca, scrivevano con entusiasmo sui giornali fascisti ma la loro “colpa” fu perdonata perché poi divennero bandiere della sinistra. Tale indulgenza invece non si è dimostrata verso altre figure, rimaste coerenti con la loro storia.
Liliana Segre, Almirante e Salvini. Alberto Giannoni su Il Giornale il 23 gennaio 2020. Il fatto che l’intitolazione di una via a Giorgio Almirante, a Verona, abbia coinciso con la cittadinanza onoraria a Liliana Segre, rende tutto più complicato, e certo non si possono mettere sullo stesso piano, storicamente, un torto e una ragione. Ciò premesso, si può forse provare a ragionare, andando oltre il corto-circuito della cronaca. Nessuno come la senatrice a vita Segre, oggi, ha l’autorevolezza e la forza per unire, e quindi per riconciliare l’Italia con se stessa. Certo, non è pensabile che Liliana Segre si riconcili col Fascismo o con le infami leggi razziali, o che riabiliti quell’oscuro redattore della “Difesa della razza” che è stato il giovane Almirante. Allo stesso modo non si possono e non si devono legittimare gli attuali, patetici nostalgici del Regime. Cosa ben diversa, però, sarebbe riconoscere un pezzo della destra che viene dal Msi e che da quella pagina orrenda del razzismo fascista ha preso chiaramente le distanze, fino a condannarla nettamente. Si tratta di valorizzare quella condanna, che c’è stata, riconoscendo quel percorso che dal post-fascismo, tenendosi alla larga dagli estremismi, ha condotto alla democrazia, al “gioco” delle istituzioni parlamentari, e oltretutto a posizioni apertamente filo israeliane. Non si può dimenticare che Marco Pannella, il radicale, il nonviolento, l’antifascista che metteva in guardia dal “fascismo degli antifascisti”, invitato al tredicesimo congresso del Msi-Dn, il 20 febbraio 1982 andò a dire a quella platea: “Il fascismo non è qui!”, suscitando nella sala un evidente imbarazzo che Almirante stesso dovette risolvere assicurando che invece no, il fascismo era lì. Era chiaramente un artificio retorico, propaganda, e in ogni caso già da molti anni, lì, di quell’antisemitismo non c’era più traccia, e questo potrebbe confermarlo e spiegarlo meglio chi conosce bene la storia di quella destra – a cui personalmente non sono legato, neanche come “lessico familiare”. Nel 1967 Almirante già spiegava che quell’antisemitismo era “completamente superato, per ragioni umane, per ragioni concettuali”. Lo disse con rigore e pudore, mentre altri, anche a sinistra, praticarono l’infingimento e il silenzio opportunista. Questa storia andrebbe riscoperta in pieno. Questa, andrebbe riconosciuta e rispettata. Meriterebbe un riconoscimento. Ignazio La Russa l’ha ricordata bene ieri. Nel Consiglio regionale della Lombardia, due giorni fa, Viviana Beccalossi ha detto ad alta voce: “Alle leggi razziali guardo con orrore”. In una recente intervista al Giornale, Riccardo De Corato ha spiegato: che “Almirante prese le distanze, fu una brutta pagina che mai né il Msi né An hanno mai condiviso, l’abbiamo denunciata come la peggiore della nostra storia e non abbiamo mai avuto problemi a dirlo nelle piazze, nei congressi, sempre”. A sinistra c’è (stata) un’onestà intellettuale paragonabile a questa, sugli orrori del Comunismo e le complicità della sinistra italiana? La questione è ovviamente delicata, da non affrontare con l’accetta, ma la riconciliazione – nella verità – alla fine rafforza tutti e rafforza la democrazia. Offrire una mano tesa, un gesto di dialogo, avrebbe un valore storico. Le contrarietà ci sono, anche comprensibili, ma il tema-antisemitismo non dovrebbe essere usato con l’intenzione di dividere ed escludere, e soprattutto non ha titolo per farlo chi, a sinistra, finge di non vedere il problema delle vie intestate a Stalin, che fu ferocemente antisemita, e ai suoi complici politici, anche italiani. L’antisemitismo è una piaga, e non si può accettare che venga maneggiato con strumentalità e disinvoltura da chi intende solo mettere in difficoltà la destra o la Lega, che peraltro oggi è il partito più filosionista d’Europa, ha fatto approvare una mozione sacrosanta contro il boicottaggio di Israele e da molti viene vista non come uno spauracchio ma come un argine nei confronti dei nuovi pericoli, che oggi in Europa e al di là delle Alpi, non vengono da destra ma dal fanatismo religioso islamista.
Il Fatto Quotidiano e l’odio di cui si nutre la redazione, qualcuno ha voglia di dire basta? Piero Sansonetti il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. Ieri è apparsa sulla home page del Fatto Quotidiano la vignetta che pubblichiamo qui accanto. La pubblichiamo, sebbene sia una vignetta evidentemente oscena, perché pensiamo che sia bene sapere fino a che punto può arrivare il nuovo corso del giornalismo italiano. Non ho la minima idea di chi sia questo Natangelo. Sarà un ragazzo giovane, spero, che sa poco di politica, che non ha mai conosciuto Craxi, ha letto poco la storia e si è imbevuto delle idee e dei sentimenti che animano la sua redazione. Quali sono le idee? Lo ignoro. I sentimenti? Uno solo: odio. Odio allo stato puro, odio come carburante del giornalismo e del mercato. È un odio speciale. Forse non è neanche esattamente un sentimento, è quasi una teoria. La teoria secondo la quale per fare politica o per vendere i giornali bisogna avere un nemico, e che per avere un nemico occorre odiarlo, e che per odiarlo è giusto stracciare tutti i codici della civiltà, dell’informazione, della conoscenza. Bisogna evitare di darsi limiti. Da diversi giorni il Fatto conduce una campagna di odio – volgarissima – contro Craxi, a firma del direttore e di altri giornalisti. Il suo direttore e altri giornalisti del Fatto sanno poco o niente di Craxi. Si occupano solo di carte bollate, di sentenze, di atti di accusa, di veline di Procure. Son persone così: se chiedi loro qualcosa di Leopardi, probabilmente, ti rispondono che dalle carte dell’epoca risulta che pagava le tasse. Se gli chiedi di Enrico Mattei cadono dalle nuvole. La domanda che faccio è semplice: può sopravvivere a questi indegni livelli di autodegradazione il giornalismo italiano, se non reagisce? Esiste qualcuno che ha voglia di reagire? Ci sono dei giornalisti, anche del Fatto, che hanno voglia di dire: ora basta?
P.S. Quanto mi piacerebbe poter discutere liberamente di Craxi, dei suoi errori, che secondo me – anti-craxiano da sempre – furono molti. Furono i molti errori di un grande statista.
Le sardine all'assemblea del liceo per insegnare l'anti-salvinismo. Il leader del movimento degli studenti bolognesi: il nemico è il Capitano. Costanza Tosi, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. Erano nati come il movimento del libero pensiero. Quello buono, pacifico che, pur di farsi sentire e non rimanere schiacciato da una politica populista che parla alla pancia dei cittadini, scende in piazza e “muove i corpi”. Per loro la politica, la democrazia, è questo: “partecipazione attiva”. Ora si ritrovano a parlare ad una platea di giovani studenti del liceo scientifico statale Fermi di Bologna vantando vittorie contro il nemico cattivo. Dicono agli studenti in ascolto cosa è giusto e cosa è sbagliato. Suggeriscono ai giovani cosa dovrebbero accettare e cosa, invece, devono combattere. Scendendo in piazza insieme a loro. A soli due mesi dalla loro nascita, le Sardine, si rivelano già vittime della fame di consensi. Pronti a plasmare il pubblico cercando di trasmettere il loro “credo” ai più giovani. In totale assenza di contraddittorio. Limitando, di fatto, la loro libertà di scelta. La stessa, che hanno sempre preteso dalle piazze. “Una lezione di antisalvinismo”. Potremmo definirlo così l’incontro di ieri mattina al Circolo Arci “Benassi” di Bologna. Dove i ragazzi del liceo statale hanno organizzato un’assemblea d’istituto per dialogare “sull’importanza della partecipazione democratica dei giovani alla vita politica.” A partecipare dal palco, come esempio di lotta per la democrazia, alcuni leader dei movimenti cittadini. Pancho Pardi, storico attivista toscano della sinistra anti berlusconiana e membro dei Girotondi e gli inventori delle Sardine: Giulia Trappoloni, Andrea Garreffa e Mattia Santori. Che, da circa due mesi, nuotano a banchi per le piazze di tutta Italia. L’obiettivo: arrestare la corsa leghista in vista delle prossime elezioni regionali. Lungi dagli organizzatori mettere i ragazzi nella condizione di ascoltare rappresentanti di fazioni politiche diverse. Quasi a voler gridare che la democrazia è solo di sinistra. E così, tra le mura del circolo rosso, sulle note di "Bella Ciao", in una grande sala gremita di adolescenti da orientare, ecco andare in scena la lezioncina per istruire le nuove generazioni. Gli elettori del domani. I ragazzi alzano la mano e rivolgono alle Sardine domande generiche. “Come pensate di gestire la comunicazione sui social in base anche quello che mette in atto il vostro avversario?” Chiede un ragazzo della terza liceo. A togliere ogni dubbio sul focus dell’evento ci pensano i professori. Istintiva la reazione del prof scelto per moderare l’incontro, che rilancia: “Contro la “bestia” che si fa?” Dopo poco è il turno di Mattia Santori che, interrogato sui propri sentimenti che lo hanno spinto a mettersi in gioco, si lascia andare ad un monologo che poco sembra avere a che fare con un confronto sulla democrazia. Anzi, si avvicina molto di più ad un comizio elettorale della sinistra moderata. “Mi sono chiesto: è normale che subiremo una campagna elettorale di due mesi basata sull’insulto, sulla falsificazione, sulla mancata verità?” La domanda strappa una manciata di applausi in più e, al contempo, palesa il mal celato attacco a Matteo Salvini smascherando, ancora una volta, il vero interesse dei pesciolini: acquisire consensi screditando l’avversario. A spese della democrazia.
Toh, i pesciolini rossi odiano i neri. Insulti a un militante di Fdi di colore. Nadalini, italiano di pelle scura: offeso solo perché sono di destra. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. Dovevano essere il movimento della buona politica, della lotta al razzismo, del daspo contro gli insulti sui social. Quelli che amano «le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica)». E invece alla fine scopri che pure le Sardine sono in grado di odiare e di definire «negro» un ragazzo di colore, la cui unica colpa è quella di non sposare il credo buonista della sinistra italiana. A Bologna sono passate da poco le quattro di pomeriggio di domenica. Mentre in piazza VIII Agosto le Sardine si apprestano a iniziare il loro concertone, nella vicinissima piazza Nettuno Fratelli d'Italia distribuisce volantini per le elezioni regionali. Tra loro c'è anche Francesco Nadalini (nel tondo, ndr), militante di 34 anni. All'improvviso si avvicina «un uomo intorno ai 45 anni», scatta un paio di foto al gazebo e «inizia a insultare tutti». Niente di nuovo sotto il sole, in realtà. Visti i numerosi precedenti, l'episodio non farebbe neppure notizia se non fosse che Francesco è originario del Brasile, è scuro di carnagione e che l'aggressore in questione «aveva una sardina attaccata al petto». «Ha iniziato a dire: Fdi paga gli extracomunitari per fare campagna elettorale», racconta Nadalini al Giornale. «Poi mi ha chiamato negro». Francesco è arrivato in Italia a soli 5 giorni di vita. La carta d'identità certifica che è italiano. Accento bolognese, metalmeccanico, si impegna in politica (quella con la P maiuscola decantata da Santori) dal lontano 2013. «Sempre con la destra», sorride lui, nonostante il colore della pelle. «Le Sardine pensano che Fdi sia razzista, ma non è vero. In tanti anni di militanza non ho mai ricevuto offese da qualcuno di destra». Dai pesciolini, però, sì. «È assurdo che, senza conoscermi, chi si vanta di combattere l'odio venga a rivolgermi insulti razzisti solo perché non sono di sinistra». Poco dopo, peraltro, la scena si ripete. Al banchetto si avvicina un altro signore e, con fare stupito, sentenzia: «Non pensavo che anche quelli come voi dessero volantini di Fratelli d'Italia». «Quelli come voi», capito? Fa sorridere (per non piangere) ascoltare le parole di Francesco e ripensare ai proclama letti da Santori durante la manifestazione ittica di Roma dello scorso dicembre. In piazza San Giovanni, il comandante in capo delle sarde italiane «pretendeva» che la violenza venisse «esclusa dai toni e dai contenuti della politica in ogni sua forma». E puntava pure a equiparare la violenza verbale con quella fisica. Giusto, per carità. Ma a questo punto viene da chiedersi se il principio valga pure per le Sardine, visto che nella loro breve vita si sono macchiate ripetutamente di ogni offesa verso gli avversari politici. Prima Giorgia Meloni (definita «bestia, sgorbia, feccia»), poi Buonanno e ora il militante «negro» di Fratelli d'Italia. «Questa cosa mi ha fatto imbestialire - conclude Francesco -. Io non mi sognerei mai di denigrare chi non la pensa come me. Invece se non condividi il pensiero unico, diventi un appestato e ti becchi gli insulti».
Il Daspo social di Santori vale anche per le Sardine? "Daspo per chi diffonde odio via social". E' la proposta del leader delle Sardine. Che però forse dovrebbe guardare anche dentro al suo movimento. Oppure per loro vale tutto? Panorama il 18 gennaio 2020. "Caro Salvini, lo saprà sua figlia che consente ai suoi sostenitori di inneggiare allo stupro di gruppo per punire una donna che semplicemente non la pensa come lei?".
Samar Zaoui: "avremmo bisogno di un giustiziere sociale, di quelli che compaiono nella storia, che dopo aver ucciso vengono marchiati come anarchici".
Silvia Benaglia: "La Borgonzoni ed i leghisti non sono politici ma delinquenti prestati alla politica".
Questi che leggete sono tre messaggi pubblicati sui social e scritti da "Sardine", persone che hanno partecipato, organizzato, condiviso appuntamenti del movimento di protesta contro "il clima d'odio" e fondato da 4 ragazzi di Bologna, su tutti Mattia Santori. Oggi, il leader delle Sardine, ha lanciato una proposta: "Daspo per chi diffonde odio sui social". Insomma, come i tifosi violenti del calcio, niente stadio, anzi, niente tastiera per punizione. La prima domanda da fare a Santori è quale sia il limite. Quando un post quindi è concesso e quando invece va punito? La seconda è chi lo stabilisce? Facebook stesso? Un Giudice? Lui? Facciamo volentieri un altro esempio: quando Giulia Bridget Bodo pubblica un post con una foto su Facebook del politico della Lega Gianluca Buonanno, morto in un incidente stradale nel 2016, accompagnata con le seguenti parole "Buonanno a tutti i leghisti"... merita il Daspo o no? Oppure, per non andare così indietro nel tempo, "Cancellare Salvini", titolo di apertura di Repubblica di pochi giorni fa, merita il Daspo o no? La sensazione è che detta così sembra l'ennesima proposta di parte. Di quelli che si sentono sempre e solo dalla parte giusta.
L’avvocata Cathy La Torre difenderà Sergio, il ragazzo bullizzato da Salvini: “Non vincerà la sua Italia di odio”. Redazione de Il Secolo D'Italia il 18 Gennaio 2020. L’avvocata bolognese Cathy La Torre, attivista per i diritti civili, difenderà Sergio Echamanov, 21 anni,, il ragazzo dislessico bullizzato da Salvini durante un comizio in una cittadina alle porte di Ferrara. Sergio aveva fatto un intervento davanti ai suoi compaesani e mentre parlava è scivolato sulle parole. Sergio era salito sul palco per parlare dei libri «come unico modo di renderci liberi dall’odio» e impappinatosi per una frazione di secondo è un ragazzo che soffre di dislessia, e che ha finito per essere attaccato da molti nei commenti sotto al posto del leader leghista. Cathy La Torre, cofondatrice della campagna "Odiare ti costa", ha deciso di difendere in tribunale il ragazzo. “Agiremo legalmente per l’immediata rimozione del video”, ha scritto su Facebook. L’avvocata è la vincitrice nella categoria “professionisti pro-bono” dei The Good Lobby Awards 2019 consegnati a Bruxelles e porta avanti una campagna contro l’odio. “Questi metodi, ormai sistematicamente utilizzati dall’ex Ministro contro chiunque la pensi diversamente da lui, non possono più essere tollerati. Non si può vivere nel terrore di dire la propria davanti a 50 persone, di inciampare sulle parole, perché poi si finisce con l’essere ridicolizzati davanti a milioni di italiani. Molti dei quali non aspettano altro per sfogare il proprio odio”, ha detto. “Come i bulli che deridono le persone che loro considerano più deboli. Caro Sergio, sei un ragazzo meraviglioso. E coraggioso – ha continuato – Non sarà la sua Italia di odio e bullismo a vincere. Sarà la tua”. E conclude dicendo “Ci vediamo in tribunale Matteo Salvini”.
Silvana Palazzo per ilsussidiario.net il 19 gennaio 2020. Bufera sul video di Sergio Echamanov, il ragazzo che era stato preso di mira da Matteo Salvini per la sua dislessia. Il ragazzo ha spiegato che a causa delle minacce che ha ricevuto ha perso il suo lavoro. Gli sarebbe stato consigliato infatti di non lavorare più, anche dal suo avvocato. Ha parlato quindi di un periodo difficile e dell’aiuto che sta ricevendo dalle Sardine. Il loro leader, Mattia Santori, nello stesso video aveva detto che il 21enne «rischia di perdere a causa delle solite buffonate di Salvini, che scatenano l’odio». Poi si scopre che la realtà è ben diversa: in realtà Sergio Echamanov non aveva perso il lavoro per colpa del leader della Lega. Una bugia delle Serdine? Lui preferisce parlare di un «refuso». Di fatto prima ha detto che gli hanno consigliato di lasciare il lavoro, poi ci ha ripensato e ha parlato di un refuso dovuto allo stresso. Anche la “retromarcia” arriva su Facebook. Sergio Echamanov ha ammesso l’errore su Facebook. In primis ha smentito il fatto che l’avvocato La Torre gli abbia suggerito di lasciare il lavoro. «Non mi ha mai consigliato di dimettermi o di allontanarmi dal mondo del lavoro, mai e mai», ha precisato il 21enne sui social. Quindi si è spiegato e soprattutto scusato: «Ho avuto un refuso, dovuto al grande stress, i tempi stretti. Mi scuso con Cathy, che mi sta aiutando ad affrontare questa situazione particolare. Grazie a tutti». Nel video precedente invece il leader delle Sardine aveva attaccatto Matteo Salvini: «Ci va di sorridere di fronte all’ennesimo caso su cui ci sarebbe da piangere: Sergio oltre a parlare davanti alla piazze, ha anche un lavoro che rischia di perdere o che probabilmente ha già perso perché le solite buffonate di Salvini portano altri buffoni a scatenare un sacco di odio nella vita reale». Al suo fianco Sergio Echamanov, altro esponente del movimento nato a Bologna che poi ha chiarito quanto accaduto.
"A casa per colpa di Salvini". Ma la sardina si è inventata tutto. Sergio Echamanov: "Mi è stato consigliato di non lavorare più". Poi fa retromarcia: "Ho avuto un refuso". L'avvocato: "Si è dimesso per paura". Giuseppe De Lorenzo e Marianna Di Piazza, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale. Boicottaggi, "refusi", ricatti e bugie. Dopo aver provato a sottrarre la piazza di Bibbiano a Matteo Salvini per la chiusura della campagna elettorale, ecco che vengono alla luce nuovi dettagli sulle sardine e in particolare sul caso del 21enne intervenuto durante un comizio a San Pietro in Casale, in provincia di Bologna. Il giovane era stato preso di mira da Salvini. "Guardate la carica e la grinta che avevano pesciolini e sinistri poco fa a San Pietro in Casale. Se pensano di fermarci così... abbiamo già vinto!", aveva scritto il leader della Lega su Facebook a commento di un video che mostrava i momenti in cui la sardina si ingarbugliava con le parole sul palco. E così è esploso il caos. Il giovane protagonista del filmato è il 21enne Sergio Echamanov che di lavoro fa il rappresentante porta a porta e soffre di dislessia. "Mi sento orgoglioso del mio imbarazzo, non avevo preparato nulla, nemmeno il discorso, perché volevo essere me stesso - aveva replicato il giovane -. Sono Dsa (disturbi specifici di apprendimento, ndr) e ne sono orgoglioso: talvolta hai difficoltà nelle esposizioni, ma stavolta c'entra poco, in realtà non ero preparato a parlare in quel momento, ha giocato più l'emozione. Credo in una politica che non brutalizzi l'umano, ma che renda libero ogni essere umano di essere ciò che è". Ma le polemiche non si sono placate. E anzi, le sardine hanno cavacato l'onda. Il loro leader, Mattia Santori, si è subito indignato per l'accaduto e ha spiegato in un video che ora Sergio "rischia di perdere il lavoro, o probabilmente lo ha già perso, a causa delle solite buffonate di Salvini che scatenano l'odio". "Per le minacce che ho ricevuto - era intervenuto lo stesso 21enne - mi è stato consigliato anche dal mio avvocato Cathy La Torre di non lavorare più. È un periodo un po' difficile per me. Ci sono persone straordinarie qua che mi stanno aiutando molto più che altro emotivamente perché è quella la vera batosta, non politicamente". Parole che non sembrano lasciare spazio ad interpretazioni. Poi però si scopre che la realtà è un po' diversa: nessun "lavoro perso" e nessuno che gli abbia suggerito di lasciare il suo posto di rappresentante porta a porta. A fare un passo indietro e ammettere l'errore è stato lo stesso Sergio sul suo profilo Facebook. "La mia avvocata La Torre non mi ha mai consigliato di dimettermi o di allontanarmi dal mondo del lavoro, mai e mai. Ho avuto un refuso, dovuto al grande stress, i tempi stretti. Mi scuso con Cathy, che mi sta aiutando ad affrontare questa situazione particolare", si legge sul social. Altre bugie da parte delle sardine quindi? No, un semplice "refuso" dovuto al grande stress. O almeno così lo ha definito lo stesso Sergio. E sul caso è intervenuta anche l'avvocato Cathy La Torre. "Lui si è dimesso, indipendentemente da me. Quando è arrivato da me si era già dimesso. Mi ha detto: "Io mi sono dimesso perché c'ho paura ad andare a lavorare". E io gli ho detto: 'Va beh, c'hai paura, non so che dirti'", ha spiegato l'avvocato La Torre al Giornale.it. Insomma, la giovane sardina avrebbe deciso da sola di lasciare il lavoro perché "per il tipo di lavoro che fa, cioè il porta a porta, aveva paura". Dopo il video del leader leghista, il 21enne ha ricevuto numerose minacce e commenti pieni di odio. Così, ha spiegato l'avvocato, "abbiamo mandato una diffida al senatore Salvini chiedendo la rimozione del post, proprio perché è noto ormai alla cronaca che si tratta di una persona con un disturbo neurocognitivo dell'apprendimento. E perché quel post ha generato decine di migliaia di insulti. Il post stesso aveva un montaggio ridicolizzante del ragazzo. Se il senatore non lo farà, agiremo in causa". E provvedimenti verranno presi anche nei confronti di chi ha commentato con parole di odio i post della sardina: "Sergio agirà per risarcimento danni nei confronti di tutti gli hater", ha concluso l'avvocato.
Alfonso Piscitelli per ''La Verità'' il 18 gennaio 2020. A una settimana dal voto in Emilia Romagna, le sardine alzano il tiro della loro polemica contro Matteo Salvini e nello stesso tempo prendono di mira la comunicazione politica sul Web. I due nemici si identificano e il leader, Mattia Santori, ora parla addirittura di «populismo digitale». Nella narrazione di questi improvvisati agenti emiliani della «buon costume», il principale artefice della «violenza digitale» sarebbe ovviamente il leader della Lega. La soluzione? L' espulsione dal Web, transitoria o definitiva, con un procedimento simile a quello applicato negli stadi per gli ultrà. Santori propone infatti un daspo, unito alla «vigilanza di un organo di polizia che garantisca che c' è un livello di sostenibilità democratica all' interno dei social network». Quello di controllare, vigilare, reprimere, ovviamente a fin di bene, è un' idea fissa che accompagna il movimento delle sardine fin dalla loro prima apparizione in pubblico. Si ricordi la roboante proposta lanciata sulla piazza romana di obbligare i ministri a comunicare solo «attraverso i canali istituzionali»: una prescrizione assurda nell' epoca dell' informazione 2.0, che, se applicata con rigore, impedirebbe anche al Papa di fare un tweet. Si noti anche il linguaggio anni Settanta: quel «livello di sostenibilità democratica» ricorda da vicino il concetto di «agibilità democratica» che facilmente i militanti di sinistra negavano a chiunque fosse loro sgradito. Facile obiettare alle sardine che chi è senza peccato «digitale» scagli la prima pietra. Ai primi dell' anno, dal loro bel mare è emersa una parodia un po' infame di Gianluca Buonanno, il dirigente leghista morto in incidente automobilistico. Giulia Bridget Bodo pubblicava su Facebook una foto del deputato con la seguente didascalia: «Buonanno a tutti i leghisti». Mentre altre sardine rilanciavano una foto di Salvini che donava il sangue commentando: «Condividi se anche tu hai sperato che gli stessero facendo l' iniezione letale». Umorismo da quattro soldi, che però non sembra incorrere in furori censori. Nota il commentatore politico Alessandro Sansoni: «Si cerca oggi di diffondere l' idea che Salvini sia l' unico responsabile dell' attuale livello della comunicazione politica, ma in realtà il livello si era abbassato di molto a partire dalle piazze del Vaffa day». Il vaffa il famoso slogan politico che ha fatto la fortuna di Beppe Grillo e che oggi sembra ammiccare alle sardine. Ma volendo andare più indietro nel tempo, ricordiamo che per un ventennio la polemica politica di sinistra si è nutrita di «somatizzazioni», di riferimenti alla fisicità dell' avversario, a voler usare un eufemismo. Prima ancora che Grillo coniasse per Silvio Berlusconi l' epiteto di «psiconano», già a sinistra si sprecavano gli insulti a Renato Brunetta. Violenze verbali forse passate in prescrizione. Per realizzare la sua utopia «cinese» di un controllo censorio a tappeto, Santori finisce col riprendere la proposta dal ministro per l' Innovazione tecnologica, la grillina Paola Pisano, che aveva proposto la «password di Stato» per accedere a Internet, salvo poi fare marcia indietro in poche ore dopo essere stata sommersa dalle critiche. Riciclare la sparata grillina non è il massimo per un movimento che si vuole libero e innovativo e che forse prima di pretendere di controllare le comunicazioni degli avversari dovrebbe verificare meglio la capacità di autocontrollo della propria base.
Dieci domande a "La Repubblica". Vorrei rispolverare le loro famigerate "dieci domande" al regnante Silvio Berlusconi per capire fino a che punto può arrivare l'ipocrisia di un giornale come Repubblica. Alessandro Sallusti, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. La «Repubblica dell'odio», dopo il titolo «Cancellare Salvini» dell'altro giorno non solo non si pente ma rilancia. Il quotidiano che fu di Scalfari, alle prese come tutti i giornali con la crisi di mercato, cerca di risalire la china prendendo un nemico da agguantare alla giugulare, cinica e vigliacca formula sperimentata con successo per un ventennio nei confronti di Silvio Berlusconi. Il suo attuale direttore, Carlo Verdelli, ne ha facoltà e per questo non mi associo - a differenza loro nei nostri confronti - a chi vorrebbe trascinarlo davanti al tribunale speciale dei giornalisti. Sono convinto che la libertà di stampa, anche nelle sue forme più estreme, sia inviolabile e che gli unici giudici di un giornale sono i lettori. Saranno il numero delle copie e i risultati elettorali a scrivere la sentenza. Ma detto questo vorrei rispolverare le loro famigerate «dieci domande» al regnante Silvio Berlusconi per capire fino a che punto può arrivare l'ipocrisia di un giornale come Repubblica.
1. Perché se Salvini ferma una nave carica di immigrati vìola i diritti dell'uomo ma se la stessa cosa la fa la ministra Lamorgese e un governo di sinistra (ottobre 2019, caso Ocean Viking, 100 persone di cui 48 bambini lasciati in mare dieci giorni senza permesso di attracco) non avete nulla da obiettare?
2. Perché se da destra qualcuno contesta la partecipazione della democratica Rula Jebreal al Festival di Sanremo è un caso di sessismo politico mentre se Elisabetta Gregoraci viene esclusa in quanto «donna di destra» è cosa irrilevante?
3. Perché chi vuole regolare l'immigrazione è razzista e chi a sinistra nega il diritto all'esistenza di Israele no?
4. Perché un falso allarme bomba a La Repubblica è un attentato e una bomba vera che esplode in una sede della Lega è una cazzata?
5. Perché ironizzare sulla stazza della ministra Bellanova per voi è grave ma farlo sull'altezza di Brunetta no?
6. Perché le nostre inchieste - poi confermate dalla magistratura come nel caso di Fini - le bollate come «macchina del fango» e le vostre sono «grande giornalismo»?
7. Perché (giustamente) indagate sugli intrighi finanziari del capitalismo italiano ma tacete sulla lotta di potere fratricida dei vostri ex e nuovi editori (De Benedetti e Elkann) per il controllo del vostro giornale?
8. Come fate a conciliare il vostro entusiasta appoggio al movimento di Greta ed essere pagati dal più grande costruttore di auto a combustione d'Europa?
9. Come avete fatto a celebrare Gianpaolo Pansa senza riconoscergli il merito di avere scoperchiato le schifezze e le stragi dei partigiani?
10. Come fate a non vergognarvi di tutto questo?
Boldrini insulta ancora Salvini: "È un bullo e un maestro dell'odio". Laura Boldrini ancora all'attacco del leader della Lega: "Sollecita le peggiori reazioni. È un maestro per gli odiatori". Alberto Giorgi, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. Laura Boldrini contro Matteo Salvini, ancora una volta. Ennesimo episodio della mai sopita e infinita querelle a distanza tra l'ex presidente della Camera dei deputati e il segretario della Lega. Nel corso della puntata di ieri sera di Dritto e Rovescio, nella prima serata di Rete 4, è andato in onda un servizio che ha visto protagonista l'esponente del Partito Democratico – è tornata nelle fila dei dem a settembre 2019, dopo la fallimentare esperienza in Liberi e Uguali – scagliarsi frontalmente contro il capo politico del Carroccio. Ecco l'affondo dell'ex portavoce Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati si è scagliata: "Matteo Salvini ha fatto dell'odio la sua cifra di comunicazione in un modo che non è necessariamente è diretto, bensì indotto attraverso domande sui social network apparentemente innocenti che sollecitano invece le peggiori reazioni…". Finita qui? Macché. La Boldrini ha rincarato la dose utilizzando parole davvero dure all'indirizzo dell'ex titolare del Viminale. Eccole: "Matteo Salvini ci ha ragionato sull'odio, ci ha lavorato, l'ha strutturato e l'ha reso strategia. È un maestro e gli odiatori hanno un riferimento a cui rivolgersi se vogliono migliorarsi sulle tecniche…". Dunque, ecco che arriva l'insulto finale: "È noto a tutti, Salvini è il capo dei bulli". Mentre veniva mandato in onda il filmato, la candidata alla presidenza dell'Emilia-Romagna per il centrodestra Lucia Borgonzoni in collegamento con lo studio sbuffava stizzita per l'ennesimo attacco della Boldrini nei confronti del leader leghista. In conclusione, nel servizio ecco le ultime parole della Boldrini:"Salvini ora fa convegni e incontri sull'antisemitismo: se si ravvede è una buona notizia. Ma dovrebbe anche farli sul razzismo, visto che gli attacchi alle persone di colore in questi anni si sono moltiplicati per colpa di una società che non è serena, che non sta bene e che cova un odio che viene alimentato...". Oggi, ci ha pensato un altro esponente di punta del Carroccio, l'europarlamentare Silvia Sardone, a dare risalto alle sparate della dem contro.
Da liberoquotidiano.it il 10 gennaio 2020. Altissima tensione a L'Aria che tira, con Gianni Riotta che sbotta contro Gianni Barbacetto e gli urla "Shut up!", stai zitto in inglese. L'ex direttore del Sole 24 Ore sta commentando in studio la riforma della prescrizione criticando gli aspetti più manettari dell'impostazione del Movimento 5 Stelle, e Barbacetto, giornalista del Fatto quotidiano "schienato" sulle posizioni grilline scuote il capo, borbotta, lo interrompe continuamente. Riotta è una pentola a pressione, si trattiene e all'ennesima provocazione urla a pieni polmoni, provocando la reazione attonita della conduttrice Myrta Merlino e le risate, quasi isteriche, di Barbacetto in collegamento da Milano. "Non parlare mentre parlo io altrimenti mi alzo e me ne vado", minaccia. Stessa scena qualche minuto dopo, quando Barbacetto interrompe ancora Riotta: "Myrta, sono venuto qui per rispetto tuo e dei telespettatori, ma di fronte a certe asinerie...". E stavolta è Barbacetto a prendersela: "Volete che sia io ad andarmene?". Ovviamente, tutti restano in studio: capolavoro diplomatico della Merlino.
Da adnkronos.com il 15 gennaio 2020. Botta e risposta via twitter tra Peter Gomez e Bobo Craxi sul film Hammamet con Pierfrancesco Favino nei panni di Bettino Craxi. O meglio sul quel che il film di Gianni Amelio ''omette'' di raccontare sul leader socialista. ''Craxi, quello che non c’è nel film Hammamet: nelle sentenze la lista della spesa delle tangenti, tra case a New York, a Roma, a Madonna di Campiglio a La Thuile e soldi alla tv di Anja Pieroni, alla quale passava 100 milioni di lire al mese'', è il tweet di Gomez che accende la miccia postando un articolo del Fatto che entra nel dettaglio della ''lista della spesa delle tangenti, tra case a New York e soldi alla tv dell’amante''. Pur sottolineando che siamo davanti a un film ''molto ben recitato'', Gomez sottolinea come sia ''doveroso per chi fa informazione raccontare pure il resto. È cronaca non una presa di posizione politica''. Il figlio di Bettino, Bobo, risponde a stretto giro intimando a Gomez di ''dimostrare che l’elenco di quegli appartamenti fossero a disposizione sua o della famiglia. Se non sarai in grado di dimostrarlo credo che il tribunale ti condannerà per diffamazione. Peter, è finita questa Storia che sputtanate gratis. Il tuo Esercito sta in rotta''. ''Bobo questo dice la sentenza - replica Gomez - Non lo devi dimostrare a me ma ai giudici che l’hanno scritta è confermata nel processo All Iberian. Si tratta del denaro, spiegano, gestito prima da Tradati e poi da Raggio, che come noto fece sparire una parte notevole di quella cinquantina di mld''. Ma Bobo Craxi insiste. ''No guarda. Tu ti presenterai in Tribunale con i certificati di proprietà di immobili. Diversamente, come è naturale che sia, vieni giudicato come uno spacciatore di bugie. Te l’ho detto, e mi spiace perché sai che rispetto il tuo lavoro, questo modo di fare non regge più. É finita''. Un aut aut a cui il direttore del Fatto on line risponde: ''Mi presenterò con le sentenze che sono tutte correttamente citate esplicitamente come fonte negli articoli del mio sito''.
Matteo Salvini dà appuntamento ai leghisti in un bar e trova quelli di Potere al popolo e una "signora eroica". Libero Quotidiano il 15 Gennaio 2020. Matteo Salvini, impegnato nella campagna elettorale in Emilia-Romagna, aveva dato appuntamento ai suoi sostenitori in un bar a Casalecchio di Reno (Bologna), ma non ha trovato l'accoglienza che si aspettava. Innanzitutto il titolare del bar "Dolce Lucia", appena ha appreso dell'incontro, ha deciso di chiudere il locale, giustificandosi così: "Non ci prestiamo a nessun tipo di campagna elettorale. Non sono contento di tutto in generale. Nelle campagne elettorali non facciamo da sponda a nessuno". Ad attendere il leader della Lega davanti il bar vi era qualche decina di manifestanti di Potere al Popolo, che intonavano il classico "Casalecchio non si lega". Per contenere i manifestanti, è intervenuta la polizia.
Angelo Scarano per il Giornale il 15 gennaio 2020. Tensioni e contestazioni al comizio di Matteo Salvini e Lucia Borgonzoni in Emilia Romagna in vista del voto per le Regionali del prossimo 26 gennaio. Un gruppo di contestatori a Piacenza ha cercato di interrompere il discorso di Salvini a colpi di urla e di cori con Bella Ciao. Dopo averli ascoltati il leader del Carroccio rivolgendosi ai contestatori ha mandato un messaggio chiaro: "Non ci sono più i contestatori di una volta. Cantano 'Bella Ciao' con il rolex al polso. Fosse qua Berlinguer vi prenderebbe a sputazzi". Dopo qualche fischio e dopo qualche attimo di tensione, Salvini e la Borgonzoni hanno proseguito nel loro intervento. Non è certo questo l'unico episodio di lotta aspra in queste settimane di campagna elettorale. Nel mirino dei "kompagni" sono finiti anche le altre forze del centrodestra che sono impegnate sul campo per la sfida alle Regionali. Solo qualche giorno fa alcuni militanti di Fratelli d'Italia sono stati attaccati dai centri sociali per un gazebo in piazza mentre lo stesso Salvini ha dovuto fare i conti con insulti e contestazioni in un altro comizio in Emilia Romagna. La lotta per il voto del 26 dicembre si fa sempre più dura e accesa. Anche la Borgonzoni dal palco di Piacenza ha mandato un messaggio chiaro a chi in queste settimane la insultata nell'indifferenza della sinistra che protesta solo quando l'insulto arriva da destra: "Noi siamo avanti e non di poco - ha detto ancora Borgonzoni - io lo capisco perchè ogni mattina mi sveglio e ho Bonaccini più - si alternano - Cazzola, Sala, Zingaretti, Prodi anche , lo vedo sta iniziando ad arrivare, che mi insultano". Poi l'affondo: "Ma non hanno capito - ha concluso Borgonzoni rivolgendosi alla piazza - che no siamo fatti ed abbiamo la tempra di quelli che non mollano mai. Noi questa Regione ce la riprendiamo, la rivogliamo, e servite tutti voi: non facciamoci prendere dal siamo avanti, loro porteranno chiunque, anche quelli 'tiepidi', per cui stiamo attenti: dobbiamo portare al voto e convincere tutte le persone indecise, questa volta possiamo farcela". Insomma dietro gli attacchi in piazza e gli insulti ci sarebbe quel nervosismo che comincia a disturbare una sinistra impaurita da un flop in Emilia-Romagna. Di fatto in questo quadro va sottolineata l'ipotesi di una "slavina" sul governo in caso di sconfitta dei giallorossi alle Regionali. Infatti con un doppia sconfitta in Calabria ed Emilia Romagna la stabilità dell'esecutivo verrebbe messa in discussione. Un avviso di sfratto chiaro per Conte, Pd e 5 Stelle...
La lettera di Vittorio Feltri all’Ordine dei Giornalisti della Lombardia il 15 gennaio 2020. Cari colleghi dell’Ordine, stamane la Repubblica reca in prima pagina il seguente titolone di apertura: Cancellare Salvini. Non credo che l’intenzione del titolista fosse quella di cancellare con la gomma il capo della Lega. È una frase minacciosa che incita al linciaggio. Cosa sarebbe successo se Libero avesse scritto a caratteri cubitali: Cancellare la Segre? Segnalo a voi che non leggete i giornali ma processate i giornalisti politicamente scorretti questa perla democratica e antifascista. Sono curioso di vedere se sanzionerete Verdelli che pure è un direttore stimabile. Cordiali saluti. Vittorio Feltri
Vauro ancora contro Salvini: ecco l'ultima vignetta d'odio. Il vignettista, nel suo ultimo disegno per Il Fatto Quotidiano, ha associato il leader della Lega a un blitz anti-mafia. Alberto Giorgi, Giovedì 16/01/2020, su Il Giornale. Non bastano le dita delle mani e neanche quelle "in soccorso" dei piedi per contare le vignette di Vauro Senesi contro Matteo Salvini. Ogni settimana, il vignettista sforna disegni che attaccano frontalmente il segretario della Lega. Il noto simpatizzante della sinistra (specie quella estrema e comunista) per l'edizione de Il Fatto Quotidiano di oggi, giovedì 16 gennaio, ha pensato bene di associare il capo politico del Carroccio al mega blitz antimafia che i carabinieri del Ros e la Guardia di Finanzia hanno condotto in Sicilia, riuscendo a colpire duramente i clan mafiosi dei Nebrodi. L'esito dell'inchiesta della procura di Messina è infatti riuscita ad arrestare novantaquattro persone (48 in carcere e 46 agli arresti domiciliari) e a ottenere il sequestro di 151 imprese, conti correnti e rapporti finanziari. Milioni di euro finiti nelle casse del clan dei Batanesi e dei Tortoriciani. Come già registrato nella giornata di ieri anche da ilGiornale.it, nel mirino degli inquirenti sono finiti esponenti del sodalizio mafioso, imprenditori, amministratori e il sindaco di Tortorici: le accuse, a vario titolo, sono di associazione mafiosa, estorsione, falso, truffa. Il primo cittadino, Emanuele Gelati Sardo, secondo le accuse sarebbe stato "a disposizione dell'organizzazione mafiosa per la commissione di una serie di truffe". Ecco, Vauro ha allora deciso di dedicare al blitz la vignetta per Il Fatto di oggi:"Messina – blitz antimafia, 94 arresti". Bene, la penna del vignettista disegna le due porte di due celle appaiate, dietro le quali fanno capolino le voci di due neo arrestati per mafia. Uno di loro dice: "Bei tempi quando al ministro dell'Interno bastavano i selfie con il giaccone della Polizia…". E l'altro, facendo il verso a uno degli slogan del leader leghista, gli risponde: "È finita la pacchia!". Insomma, Vauro esalta l'operato del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, tirando invece le orecchie all'ex titolare del Viminale, che a par suo non si sarebbe occupato di queste questioni durante il suo mandato. Un utente su Facebook, commentando la vignetta postata sul proprio profilo dal disegnatore, coglie nel segno: "Fa ridere, ma in questo caso non c'entra nulla. Infatti, sono le procure che fanno partire le indagini, mica i ministri…la Lamorgese non c'entra nulla…". E anche questa volta Vauro non si smentisce...
Eppure Salvini sa leggere. Carlo Verdelli il 16 gennaio 2020 su La Repubblica. Matteo Salvini sa leggere. Ieri ha letto Repubblica e ha capito benissimo il senso del titolo di prima pagina. D'altronde, non era difficile. Sotto un occhiello arancione bello grosso, "Immigrazione", la scritta "Cancellare Salvini" era la sintesi di un'intervista al capogruppo Pd alla Camera Graziano Delrio sul tema delle politiche migratorie, a partire dai decreti sicurezza pretesi proprio dalla Lega. Delrio sosteneva che tutto l'impianto che ha trasformato l'Italia in una terra di respingimenti andava cambiato, e al più presto. Da qui la sintesi: eliminare tutta la scia di disumanità lasciata in eredità da Salvini, cancellare la spirale di paure contro lo straniero da lui fomentata con brutale insistenza. Questo e non altro era il senso, e Salvini l'aveva capito benissimo. Ma in campagna elettorale vale tutto, per Salvini almeno, e così, da un palco di Casalecchio di Reno, ha trasformato l'attacco di un esponente della maggioranza di governo alla sua linea sovranista, nazionalista e anche razzista, in una minaccia alla sua persona, in una "istigazione alla violenza senza precedenti", agitando la prima pagina di Repubblica come fosse un manifesto di caccia all'uomo. Non era, con tutta evidenza, un wanted in stile Western. Ma a lui serviva farlo credere. E per tutto il giorno, fino a notte, e probabilmente ancora oggi e domani, è questo giornale che è diventato il mostro da cacciare. Buona continuazione, senatore. Nella speranza che vengano tempi più seri. Con la certezza che Repubblica, come ama ripetere lei nelle sue citazioni nostalgiche, non arretrerà di un millimetro.
Repubblica, Alessandro Morelli annuncia un esposto per il "titolo-porcata" "Cancellare Salvini". Libero Quotidiano il 15 Gennaio 2020. La Lega passa all'azione contro Repubblica. Il titolo in prima pagina del quotidiano diretto da Carlo Verdelli in edicola mercoledì 15 gennaio, Cancellare Salvini, è stato definito "una schifezza" dal diretto interessato, Matteo Salvini, che ha parlato di "istigazione a delinquere". E ora Alessandro Morelli, deputato leghista e responsabile Editoria del partito, annuncia di aver presentato un esposto contro Repubblica per il "titolo-porcata". "Quelli di sinistra con la puzzetta sotto il naso, che pensano di avere superiorità morale e giudicano sempre il prossimo e parlano di odio, quando sono loro a creare un clima di odio se ne dimenticano, anzi sono i primi fomentatori", accusa Morelli in un video pubblicato sulla propria pagina Facebook. Il leghista alla fine del filmato fa un implicito riferimento al posto che dovrebbe occupare un titolo come quello di Repubblica, chiudendo con una passeggiata verso il bagno della Camera dei Deputati. "Saranno gli elettori di Emilia- Romagna e Calabria a dare il ben servito a certi partiti, sostenuti da certi giornali. In fondo dei giornali ognuno ci fa quello che crede", conclude sarcastico Morelli.
Repubblica, allarme bomba e redazione romana evacuata nel giorno di "cancellare Salvini". Libero Quotidiano il 15 Gennaio 2020. Allarme bomba nella sede romana di Repubblica. "Il sito ha dovuto momentaneamente sospendere gli aggiornamenti", si legge sul profilo Twitter della testata diretta da Carlo Verdelli, mentre il palazzo della redazione in largo Fochetti (zona Roma Sud) è stato evacuato. In giornata sono state violentissime le polemiche a causa del titolo del quotidiano andato in edicola mercoledì, "Cancellare Salvini". Il leader della Lega Matteo Salvini l'ha definito "istigazione a delinquere", denunciandolo pubblicamente in un comizio a Casalecchio di Reno (Bologna) e sui social. Il deputato leghista Alessandro Morelli, responsabile Editoria del Carroccio, ha annunciato un esposto contro Repubblica perché il titolo sulla "cancellazione" di Salvini "può diventare un pesante strumento in mano a chi sta conducendo una battaglia politica contro il segretario della Lega basandosi su violenza e minacce. Pur essendo consci dei diritti di cui gode la categoria giornalistica, ci chiediamo dove sia la libertà di stampa nel cancellare Salvini".
Repubblica "cancella" Salvini. La Lega: "Minaccia ignobile". Il titolo del quotidiano romano scatena la reazione del Carroccio: "La cultura dell'odio inequivocabilmente a sinistra". Angelo Scarano, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. Matteo Salvini finisce nel mirino di Repubblica. Il quotidiano diretto da Carlo Verdelli questa mattina è andato in edicola con un titolo piuttosto forte: "Cancellare Salvini". Il titolo di apertura del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari è legato a un'intervista a Graziano Delrio in cui il capogruppo dem chiede a gran voce la rimozione dei dl Sicurezza voluti dall'ex ministro degli Interni per porre un freno ai flussi migratori. Nell'intervista Delrio non usa giri di parole: "Dopo la legge di bilancio è arrivato il momento di intervenire sui decreti Salvini. Partendo dalle cose che sicuramente condividiamo e che abbiamo già scritto: accogliere i rilievi fatti dal presidente della Repubblica e scrivere una nuova legge sull’immigrazione che superi l’emergenza e affronti il problema dal punto di vista strutturale. Con decreti flussi, persone che arrivano con nome e cognome, viaggi regolati dalle ambasciate e non affidati a scafisti senza scrupoli". Insomma, dai dem arriva la richiesta (per altro già "approvata" dal ministro Lamorgese) di smantellare in tempi brevi i decreti che regolano i flussi migratori. Ma il titolo con cui Repubblica ha presentato l'intervista a Delrio sul quotidiano ha scatenato aspre polemiche, soprattutto in un momento caldo della campagna elettorale per le Regionali che ha visto il leader della Lega ricevere minacce e diverse contestazioni di piazza. E così la Lega fa quadrato attorno al suo leader e i capigruppo di Camera e Senato, Molinari e Romeo puntano il dito contro il quotidiano romano: "La prima pagina di oggi de 'La Repubblica' è la testimonianza diretta che la cultura dell’odio sta inequivocabilmente a sinistra, che, come da suo Dna, non tollera quanti non si riconoscono nelle sue posizioni; è una minaccia ignobile che travalica il dibattito politico e la divergenza di opinioni. Pensare di poter 'cancellare' chi la pensa diversamente, rimanda alla mente scenari inquietanti e inaccettabili". Poi arriva l'affondo dei due esponenti del Carroccio: "Sconcerta che un quotidiano di questo calibro faccia filtrare così tanto odio e meschinità; e poi parlano di tolleranza e democrazia. Sappiano comunque che possono scrivere e dire ciò che vogliono perchè il consenso della Lega e di Matteo Salvini è fatto di ascolto, partecipazione e rispetto delle regole: non basta un titolo di giornale per fermare un movimento popolare". E Alessandro Morelli ha annunciato anche un esposto all'Ordine dei giornalisti contro il quotidiano per "istigazione all'odio". "Pur essendo consci dei diritti di cui gode la categoria giornalistica, ci chiediamo dove sia la libertà di stampa nel cancellare Salvini e presenterò in questi giorni un esposto all’Ordine dei giornalisti contro il quotidiano", ha detto il deputato e responsabile Editoria della Lega, "Leggere certe porcate da chi si arroga il ruolo di giudicante rispetto a comportamenti d'odio altrui, basandosi su una presunta superiorità morale che è frutto solo della totale lontananza dalla vita reale, dal buonsenso e dai cittadini, qualifica chi le scrive. I colleghi di Repubblica non possono non rendersi conto dell'infamia compiuta nei confronti non tanto di un politico di cui non si condividono le idee, ma di un esponente visto come un nemico". Il commento di Matteo Salvini non si è fatto attendere: "Questa è istigazione a delinquere. Poi parlano di odio e di violenza... . Gli unici che istigano all'odio e alla violenza sono loro". E a sinistra regna come sempre il silenzio. L'indignazione si manifesta solo nel caso di insulti che arrivano da destra. Mai quando le offese arrivano dal campo "rosso". Insomma la sinistra usa le ultime carte per dare l'assalto a Salvini in vista di una tornata elettorale, quella del 26 gennaio, che probabilmente deciderà le sorti del governo giallorosso. Su quanto accaduto è poi arrivata la replica del direttore di Repubblica, Verdelli che all'Adnkronos ha affermato: "Quel titolo non è un auspicio ma una sintesi giornalistica di quello che dice Delrio in un'intervista sulle questioni legate all'immigrazione. Non si tratta di "un editoriale ma è la sintesi del pensiero di Delrio il quale dice che il governo deve cancellare i decreti Salvini sull'immigrazione come è stato chiesto dal Quirinale. Abbiamo riportato quello che ha detto Delrio, punto. Sarebbe diverso se, viceversa, ci fosse un editoriale con scritto 'cancellare Salvini'".
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 15 gennaio 2020. Cancellare Salvini, scritto senza virgolette, che fa la differenza, cara Repubblica, hai voglia a precisare che erano sintetizzate le parole del PD del Rio. Non prima di averlo affamato, assetato, legato; non prima di aver manifestato per la libertà del gestore del bar di Casalecchio di non fare entrare il medesimo Matteo Salvini e i suoi eventuali numerosi fastidiosi fans, o semplicemente cittadini, curiosi di ascoltarlo e incontrarlo; non prima di aver dimostrato invece contro la libertà del gestore della Locanda della Zucca a Ferrara di ospitarlo con piacere a cena, e anzi aver invitato a boicottare quel ristorante e far fallire il losco figuro. Procedere alla beatificazione di un tizio che incidentalmente, stando alle cronache e visto che a quanto pare della figlia scarsamente in passato si occupò, cioè il padre di Lucia Borgonzoni, trasformarlo in testimonial del voto contro la Lega e in artista che regala importanti quadri d'autore, fino a poche settimane fa catalogabili come croste ignobili. Scartare con fastidio e sopracciglio appena sollevato la nozione fastidiosa per la quale la Borgonzoni è femmina, come lo era la Tesei, eletta dal centrodestra governatore in Umbria, come lo sarà se eletta la Jole Santelli in Calabria, insomma delle scelte che indurrebbero a tirar fuori tutto il patrimonio buono, e la paccottiglia, del femminismo, dal soffitto di cristallo alle donne da valorizzare. Il soffitto si sfonda un'altra volta, quando ci saranno candidate progressiste, per chiarimenti ripassare, intanto vai con frasi ficcanti come "Salvini ha candidato il suo cavallo", oppure "non sa neanche da che parte è girata". Cancellare Salvini, in leggerezza e allegria eh, mi raccomando, mica come successe in Brasile che poi un pazzo raccolse appelli e allarme e si senti" autorizzato a dargli una bella serie di sventrate, e il presidente del Brasile è vivo per miracolo e con molta sofferenza. O come negli Stati Uniti il deputato repubblicano Steve Scalise, che pure si è ripreso a malapena da una sventagliata di spari in un campo di baseball della Louisiana per iniziativa operosa di un militante del democratico Bernie Sanders, il quale, com'è naturale, condannò, ma certo non condannò mai se stesso per la violenza del linguaggio usato allora ed ora contro Trump e i trumpiani. Cancellare Salvini, ma non c'è mica odio in una frase di questo genere che campeggia sulla prima pagina di un quotidiano nazionale, senza virgolette, ricordare sempre. E' amore, come quello delle Sardine e dei Sardoni, con e senza cerchietto in testa, che quando preparano i loro comandamenti che cominciano inevitabilmente con la parola ""pretendiamo", lo fanno per un afflato verso il resto del mondo, che merita di essere in qualche modo tenuto sgombro, libero dalla minaccia del nuovo fascismo salviniano. Una obietta che se vuoi smontare il mostro e lo reputi tale davvero, lascialo andare in giro a parlare con tutti, ci penserà la gente a metterlo al suo posto, a stanarlo, comprendere chi è veramente, non votarlo. Eh no, purtroppo i gli italiani sono pronti a farsi fregare, c'hanno la smania dell'uomo forte che prima o poi rincorrono, sono pericolosi per se stessi e gli altri, anzi, com'era quel termine felicissimo coniato a sinistra, sono degli analfabeti funzionali. Ergo bisogna salvarli da se stessi, intervenire durissimamente, spiegare che qui non c'è un avversario politico con le sue proposte da confutare, c'è un nemico da abbattere, uno che in Emilia non ci doveva neanche entrare senza visto rosso sul passaporto, E ora bisogna reagire, isolandolo, la gente deve restare a casa, affamandolo, niente ristorante, neanche un panino per sbaglio, assetandolo, bar verboten. So che il dibattito politico è imbarbarito in questo paese e che è necessario occuparsene e preoccuparsene. Ma nella convinzione che una risata li seppellirà, anzi un voto, tutte le volte che alla gente glielo faranno esprimere, invito le forze progressiste a scegliersi come nuovi eroi Harry e Meghan in fuga dalla reazionaria monarchia inglese e dal fascista Boris Johnson, verso nuovi lidi in Canada e tra poco chissà a Los Angeles non appena sarà stata liberata dal perfido Trump. Campacavallo! Quanto al bar di Casaleggio che ha chiuso i battenti per non far entrare Matteo Salvini e i suoi fans del caffè, su Google campeggia una recensione innocente nel tempo, 3 mesi fa, nella quale si racconta come quello sia un bar gestito la gente scortese, lenta, nel quale i prezzi variano in modo molto allegro, e 3 crodini in piedi siano costati ben €18, con 4 salatini serviti con malagrazia. Perciò per non andarci più non serve l'appello al rispetto della democrazia e della libertà, nemmeno ricordare che non si può fare così in un locale pubblico, basta dire che è un postaccio. Cancelliamolo.
Ps: Scampoli di campagna elettorale nella quale evidentemente le certezze scarseggiano, il nervosismo sale.
"Cancellare Salvini" ed il clima d'odio, sempre degli altri. Sta suscitando polemiche il (libero) titolo di Repubblica di oggi, alla faccia del clima d'odio che, a quanto pare, è solo da una parte. Andrea Soglio il 15 gennaio 2020 su panorama. Evviva sia la libertà di opinione e di espressione. Per questo non sta a noi e non è nemmeno giusto giudicare nel merito il titolo che capeggia nella prima pagina di oggi de La Repubblica: Cancellare Salvini. Scelta libera. Certo, il riferimento è ai decreti sicurezza (tra l'altro, questo governo ormai è in sella da mesi ma continua a rimandarne la cancellazione, pur avendola annunciata come priorità assoluta e condizione sine qua non nel momento dell'accordo Pd-M5S) ma lette così, scritte così, stampate così quelle due parole trasformano il messaggio in una cosa un pochino diversa. E' un attacco diretto ad una persona, fin quasi a sfiorare la minaccia. E qui un ragionamento lo si deve fare. Da mesi lo stesso quotidiano è una delle principali casse di risonanza di quella parte del paese che parla incessantemente di "clima d'odio", creato però sempre dagli altri. In primis da Salvini. Un clima che avrebbe reso la vita impossibile al punto da far nascere le Sardine, il movimento politico il cui slogan principale è proprio "Basta con questo clima d'odio". Ecco ci piacerebbe sapere cosa ne pensa di questo titolo di Repubblica il buon Mattia Santori, leader delle Sardine (buone, brave, belle e soprattutto politically correct). Ci piacerebbe sapere come avrebbe reagito se un giornale, anche il nostro, avesse titolato in prima pagina: "Cancellare Santori" o "Cancellare le Sardine". Ovviamente non avremo risposte, ovviamente anche questo titolo è "colpa di Salvini" (che immaginiamo sia responsabile anche degli incendi in Australia), che "non è poi così esagerato", che "gli sta bene" o "Repubblica ha ragione". Perché c'è una cosa che per la sinistra non cambierà mai: l'idea di essere sempre e solo, anzi soli, dalla parte della ragione.
Cancellare Salvini. Anche Repubblica incita all’odio ma nessuno si indigna per il giornale di Scalfari. Redazione mercoledì 15 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Cancellare Salvini. Recita così il titolo di prima pagina di oggi su Repubblica. Un titolo dal significato inequivocabile, e non proprio indulgente nei confronti del capo della Lega. Matteo Salvini lo ha subito rilanciato sulla sua pagina Fb con questo commento, altrettanto duro: “E poi loro sarebbero quelli che portano fratellanza e pace…Vergognatevi, vergognatevi, vergognatevi!”. Sul tema interviene anche Vittorio Feltri, spesso al centro di polemiche roventi per i titoli choc del quotidiano Libero. Scrive Feltri su Twitter: “Oggi la Repubblica titola in prima pagina: Cancellare Salvini. Con la gomma o col mitra? Perché l’Ordine non cancella Repubblica?”. Nessuna voce si è levata, tranne quella di Feltri, per far notare la violenza del titolo di apertura di Repubblica. Nessuna di quelle voci che in genere sono pronte all’indignazione quando appunto di mezzo ci sono i titoli ad effetto di Libero. Un anno fa il quotidiano fondato da Vittorio Feltri titolava così: ‘Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay’. In quell’occasione il sottosegretario con delega all’editoria Vito Crimi dichiarò il suo “disgusto”. Non meno accesi i toni dei detrattori contro un altro titolo di Libero: “La rompiballe va dal papa”, titolo che si riferiva a Greta Thunberg. Lo stesso Feltri, va ricordato, è rinviato a giudizio per il titolo “La patata bollente” riferito alla sindaca di Roma Virginia Raggi. Si arrivò, in quelle occasioni, a minacciare il taglio dei fondi al giornale. Non c’è traccia oggi della stessa indignazione, ma neanche nelle forme più tiepide, rispetto all’espressione che Repubblica utilizza nel suo titolo e che risulta un chiaro riferimento all’annullamento dell’avversario.
Chiudere Repubblica dovrebbe essere l’unica risposta alla minaccia di cancellare Salvini. Francesco Storace giovedì 16 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Cancellare Salvini o chiudere Repubblica? “La seconda che hai detto”, recitava Guzzanti in televisione. E poniamo il caso che il Secolo d’Italia intervistasse Vittorio Feltri per poi fare il titolo con le stesse, violente, modalità della voce della sinistra italiana. Chiudere Repubblica: come la prenderebbero quei signori? Se per un fotomontaggio – anche qui nel parallelismo con Salvini – sul suo cronista Paolo Berizzi hanno fatto il diavolo a quattro, figuriamoci che cosa avrebbero combinato. Ieri sera sono riusciti pure a scatenare l’allarme bomba in redazione, rientrato dopo pochi minuti perché non c’era nulla. Eppure, sembra tutto normale. E chissà come va cancellato Salvini. Poi, la faccia tosta della “spiegazione”. Repubblica, hanno “precisato”, si è limitata a riportare e sintetizzare in un titolo di prima pagina il senso di un’intervista al capogruppo del Pd alla Camera Graziano Delrio sul tema delle politiche migratorie da cambiare, a partire dai decreti sicurezza.
Repubblica e l’indecenza. Aggiungendo: “Trasformare la sintesi di un’intervista in un attacco personale è indebito e anche un po’ indecente”. No, indecenti siete voi, signori di Repubblica. Voi esponete al linciaggio un leader politico, giocando con titoli e parole in prima pagina, e mutuandone l’odio che gli rimproverate. Tanto più che scrivete anche di decreti “già criticati dal Quirinale”. Dietro quel titolo volete far credere che ci sia un mandante di nome Mattarella? Questa è la vergogna di un giornalismo a senso unico. Possono sparare – per ora virtualmente – contro i nemici, ma guai se nel mirino opposto finiscono loro. Frignano, invocano solidarietà, sono patetici. Nel caso Salvini hanno però giocato davvero a fare male. Se ce l’avete con i decreti sulla sicurezza, bastava titolare “Cancellare quei decreti”. Oppure “cancellare la Salvini”. E ancora “cancellare i decreti Salvini”. No, hanno preferito sparare ad alzo zero. E’ come se non ci fosse differenza tra “cancellare la Fornero” e “cancellare Fornero”. Lo fanno tirando per la giacchetta anche il Capo dello Stato, che li ha “criticati”. Operazione da killeraggio, non c’è alcun dubbio, sulla quale si registrano i soliti silenzi. Di Mattarella, e stavolta è davvero grave. Della sinistra, che non sa se esserne contenta perché può trasformarsi in autogol. E pure delle sardine, ovvero quei ragazzetti che dicono di scendere in piazza contro l’odio. Magari sventolando proprio Repubblica.
Tutti zitti, cariche dello Stato e leader della sinistra. Non è affatto normale che si trincerino a bocca chiusa. Perché mai come in questo caso il silenzio è complice. Ed è davvero vergognoso che sulla prima pagina di Repubblica – diffusa in chissà quante rassegne stampa televisive e social – si possano scrivere impunemente cose del genere senza che si senta il dovere di dire basta. Cariche istituzionali, leader politici di sinistra, non ve la cavate voltandovi dall’altra parte, perché date un pessimo esempio. Bastava almeno riecheggiare quello che ha detto il pentastellato Di Stefano contro quel titolo di Repubblica, definito sbagliatissimo. Così come è singolare registrare la singolare afonia dell’ordine nazionale dei giornalisti. Il compagno Giulietti non riesce a biascicare neppure una parola. Idem per i sindacalisti della federazione nazionale della stampa. Proprio non riescono – costoro – a dire al direttore di Repubblica e ai suoi cronisti che roba del genere è da volantino di sezione e non da grande testata nazionale. Ma questo è lo stato della democrazia italiana con l’ipocrisia dominante in una politica sempre più faziosa. Con media sempre più schierati. Con istituzioni che appaiono sempre più di parte. Sempre la stessa parte. A tutto questo bisogna porre fine. Altro che cancellare un leader politico.
La Repubblica dell'odio. Il quotidiano di Scalfari vuole «cancellare» il leghista: uno schiaffo alla democrazia. Alessandro Sallusti, Giovedì 16/01/2020, su Il Giornale. «Cancellare Salvini» titolava ieri a tutta pagina La Repubblica, quotidiano democratico e antifascista. Proprio così, «cancellare», verbo che sa tanto di soluzione finale. Non «contestare», «battere» o - che ne so - «ostacolare». No, proprio «cancellare», manco fosse un rifiuto della società. «Cancellare», alla peggio e se necessario magari anche fisicamente come fecero i nazisti con gli ebrei. «Cancellare» è una parola definitiva che non ammette repliche o mediazioni e se stampata a caratteri cubitali su un giornale diventa un ordine, qualcosa di simile al manifesto degli intellettuali pubblicato su Lotta Continua contro il commissario Calabresi che portò in breve tempo alla sua esecuzione fisica eseguita dagli odiatori radical chic. Il verbo «cancellare» sul giornale che ha fatto della senatrice Segre la sua bandiera da sventolare in faccia alle destre svela tutta l'ipocrisia di questi intellettuali democratici con la bava alla bocca e il coltello nella mano tenuta dietro la schiena per apparire pacifici e perbene. Basta che ti giri un attimo e zac, questi ti colpiscono con ferocia perché come scrisse e ben documentò nei suoi libri Giampaolo Pansa, più feroci dei fascisti ci sono stati solo gli antifascisti partigiani rossi. «Cancellare Salvini» è il nuovo «manifesto dell'odio» del giornale e dell'area politica che celebra e sostiene il movimento «no all'odio» delle Sardine. Chi dei due mente non lo sappiamo, ma sospettiamo che entrambi siano odiatori seriali che si camuffano in un reciproco gioco di specchi. «Cancellare Salvini» è un titolo che se traslato su Zingaretti lo avessimo fatto noi o altri giornali non di sinistra, avrebbe suscitato lo sdegno democratico della politica, l'apertura di un procedimento di espulsione dall'Ordine dei Giornalisti e forse anche una denuncia penale per istigazione alla violenza (Vittorio Feltri e Pietro Senaldi sono finiti nei guai seri per un ironico «La patata bollente» riferito a Virginia Raggi, io anche per meno). «Cancellare» è la negazione della democrazia e pure del giornalismo, indipendente (che ridere) o no che sia. Noi non vogliamo «cancellare» questa sinistra, tanto meno uno dei suoi tanti viscidi leaderini. Noi vogliamo salvare noi e il Paese da questa sinistra e da questo governo nato sull'odio contro la parte politica avversa. Noi vogliamo difenderci e salvarci dalla «Repubblica dell'odio».
Repubblica, Pietro Senaldi: "L'ennesimo tentativo della sinistra di linciare i politici sgraditi". Libero Quotidiano il 17 Gennaio 2020. Ieri un quotidiano di sinistra, solito denunciare l'odio e il razzismo imperante in Italia e addebitarlo automaticamente al centrodestra in generale e alla Lega in particolare, ha fatto un titolo che ricorda un ukaz staliniano: «Cancellare Salvini». Il giornale è Repubblica e il titolo sintetizzava brutalmente un'intervista di Delrio, nel quale l'ex ministro piddino si limitava a dire che l'attuale governo dovrebbe smantellare le leggi sulla sicurezza volute dal segretario del Carroccio quando era al Viminale. L'idea è politicamente un suicidio per i dem ma il foglio rosso ha voluto giocarci trasformandola in un invito, o quantomeno in un auspicio, a eliminare l'odiato rivale, a giorni alterni definito democraticamente razzista, xenofobo, cazzaro verde, cialtronaro, venduto ai russi, sequestratore di profughi. Poiché gli uomini non si cancellano con la gomma, «cancellare Salvini» non può che voler dire eliminarlo in un modo o nell'altro, fisicamente, per via giudiziaria o Dio sa come. Di certo però non democraticamente, attraverso il voto degli italiani, un diritto che l'esecutivo giallorosso e la stampa che lo sostiene continuano a negare alla cittadinanza solo perché probabilmente la sinistra perderebbe e il centrodestra trionferebbe. Non siamo dei mestatori, e ci teniamo a restare equilibrati anche se siamo di continuo accusati dalla sinistra di avvelenare il clima, sorte che condividiamo proprio con il leader leghista. Pertanto chiariamo subito che è evidente che non pensiamo neppure lontanamente che Repubblica nutra pensieri violenti. Sono così buoni... Di certo però un titolo di questo genere spinge la polemica politica oltre i confini della critica e dello scontro civile e si presta ad alimentare odio e propositi poco sereni nelle menti esaltate, che risiedono a sinistra tanto quanto a destra; anzi, a sinistra un po' di più, come ci insegna la storia recente del nostro Paese.
SE L'AVESSIMO FATTO NOI. Già in passato un giornale di estrema sinistra, che fu scuola giornalistica di molte penne che ora nobilitano Repubblica, mise nel mirino un personaggio pubblico fino a farne oggetto di un linciaggio mediatico che ne provocò la morte violenta mediante pistolettate sotto l'uscio di casa. Quella volta il giornale si chiamava Lotta Continua e l'obiettivo era il commissario Luigi Calabresi. Ci auguriamo che a questo giro ci siano meno orecchie sensibili alla lezione dei cattivi maestri, che tanto per cambiare stanno sempre dalla stessa parte. La reazione della vittima da «cancellare» non si è fatta attendere. Salvini ha accusato Repubblica di istigazione a delinquere e ha rimproverato al Pd di continuare a parlare di odio e violenza, imputandola all'avversario, mentre i soli che fomentano odio e violenza starebbero proprio a sinistra. Repubblica si giustifica spiegando che il suo titolo non è un augurio ma una sintesi giornalistica all'intervista di Delrio sulle questioni legate all'immigrazione. Ma si sente il rumore delle unghie che grattano il vetro. Se Libero avesse titolato «Cancellare la Segre» un articolo che auspicava l'abolizione della Commissione parlamentare contro l'odio, posizione politicamente legittima, probabilmente ci saremmo trovati il giorno stesso la polizia in redazione e un'incriminazione per razzismo. Senza considerare il carnevale che avrebbero inscenato i parlamentari del Pd, di Leu e di M5S, che invece quando si tratta di difendere Salvini tacciono vigliaccamente e con una gran dose di malafede. Non serve tirarla troppo per le lunghe. Quando c'è un rivale politico che non riesce a sconfiggere, la sinistra conosce una sola strada per liberarsene, criminalizzarlo, scatenargli una campagna d'odio contro e quindi abbatterlo fisicamente. Se non con le rivoltelle, come è accaduto ad Aldo Moro e a tanti altri, giudiziariamente, come capitato a Craxi e Berlusconi e come ora sta cercando di fare con Salvini, con incriminazioni del tutto campate in aria, da quella di sabotaggio a beneficio di Putin a quella di essere un rapitore, manco appartenesse all'anonima sequestri sarda. L'intimidazione spesso arriva a essere fisica. In faccia a Berlusconi due squilibrati tirarono una volta una statuetta e un'altra un treppiede, tra gli olé della sinistra. Più volte Silvio è stato artisticamente rappresentato in una bara, come il leader della Lega è apparso sui muri e su internet disegnato appeso per i piedi a testa in giù, come Mussolini a piazzale Loreto.
L'ESERCITO DEL BENE. Non siamo delle vergini. Nulla ci indigna, se non la faccia tosta di chi, come molti esponenti della sinistra, proviene da una cultura aggressiva e ne è impastato al punto da non rendersene conto e da scandalizzarsi per le pagliuzze negli occhi del rivale senza essere capace di vedere le travi nelle proprie pupille. Fossero in malafede, saremmo meno preoccupati. Il dramma è che i cattivi maestri rossi sono convinti di quel che dicono quando affermano di rappresentare l'esercito del bene e che, al di fuori di loro, esiste solo barbarie, razzismo, fascismo, violenza. L'insensibilità nei confronti del Paese reale li condanna alla sconfitta perpetua, mentre l'inconsapevolezza di loro stessi li rende boriosi, aggressivi, insopportabili e ridicoli agli occhi di chi li guarda da fuori. Pietro Senaldi
Maurizio Belpietro per ''La Verità'' il 16 gennaio 2020. Che cosa sarebbe successo se io avessi aperto la prima pagina della Verità con un titolo a caratteri cubitali con scritto «Cancellare Zingaretti»? Beh, come minimo sarebbero arrivati i carabinieri a consegnarmi un avviso di garanzia per istigazione allo Zingaretticidio. Di sicuro dalla stampa, dai partiti di sinistra e financo dalle sardine - che sebbene in natura siano mute, da settimane parlano senza tregua su giornali e in tv - sarebbero piovute condanne di ogni tipo e di certo si sarebbero mossi i guardiani dell' Ordine dei giornalisti, quelli che ti convocano per ogni virgola fuori posto e pretendono di insegnare anche alla Treccani come si debba scrivere una parola. Sì, ne sono certo, sarebbe successo un putiferio e qualche simpatico collega avrebbe raccolto online le firme per farmi bandire dalla professione, come già ha provato a fare in passato. Io però non ho aperto il giornale strillando: «Cancellare Zingaretti». In compenso Repubblica, noto quotidiano dei buoni sentimenti, da sempre specializzato nella difesa dei diritti, colonna portante della società civile che si contrappone a quella incivile e rozza di centrodestra, ha titolato «Cancellare Salvini». Per opporsi alle leggi volute dall' ex ministro dell' Interno e alle sue idee «pericolose» in tema di immigrazione, il quotidiano diretto da Carlo Verdelli non ha trovato di meglio che questa sintesi di pensiero. Dovendo titolare un' intervista al capogruppo del Pd Graziano Delrio sui decreti Sicurezza, il giornale non si è limitato a dire che quelle leggi devono essere cambiate, come sostiene l' ex ministro dei Trasporti. Né ha riportato le testuali parole di Delrio, il quale a domanda risponde che si devono accogliere le modifiche suggerite dal presidente della Repubblica, scrivendo una nuova legge sull' immigrazione. No, Repubblica non mette nel titolo le legittime critiche dell' esponente del Pd, ma sintetizza il tutto con un «Cancellare Salvini». Non «Cancellare i decreti Salvini» o «la Salvini». Il quotidiano dice proprio che bisogna cancellare lui, il capo del partito che non piace al giornale ex debenedettiano. Certo, gli esegeti del pensiero democratico e progressista diranno che il senso era chiaro, che leggendo poi l' intervista non si poteva equivocare, e dunque non esiste alcun incitamento all' odio come pensa Salvini e men che meno si propugnava la cancellazione fisica del capo della Lega. Ma a leggere il titolo si capisce proprio così. Quelli che si lamentano per il linguaggio truce dell' ex ministro dell' Interno, che lo accusano di fascismo e di razzismo un giorno sì e l' altro anche, hanno stampato in prima pagina un perentorio invito a cancellare una persona. Ora, tornando alla Treccani (magari all' Ordine dei giornalisti non piace, ma sarebbe consigliabile che i colleghi ne facessero buon uso), il verbo cancellare deriva dal latino «chiudere con un cancello». Già questo non è un bel proposito da esprimere sul quotidiano dell' amore universale. Ma a leggere i diversi usi che si possono fare di cancellare si trova anche di peggio. Oltre a «coprire con tratti di penna o in diverso modo», che è il meno, per estensione può anche significare altro, «cioè far scomparire e perfino uccidere o annientare», se vi si aggiunge o si sottintende «dalla faccia della terra», per non parlare poi di «ripulire» quando si tratti di qualche cosa che non va. Sì, insomma, scrivere che bisogna cancellare Salvini, come è stato stampato sulla prima pagina di Repubblica, non vuol dire che si intende modificare una legge fatta da Salvini e ritenuta sbagliata, ma nel migliore dei pensieri che lo si vuole far svanire. Che i colleghi del quotidiano di Verdelli volessero fare un titolo che forzasse la mano anche a Delrio (il quale criticava i decreti Sicurezza), andando oltre le sue frasi, lo si capisce dal fatto che non hanno usato le virgolette. Hanno fatto invece una sintesi originale di ciò che ha detto il capogruppo del Pd, il quale non parla mai di cancellare le leggi, anche se il giornalista che lo intervista vorrebbe strappargli un sì. E in effetti ne è uscito un titolo forte, anzi urlato. Naturalmente immaginiamo che a Repubblica negheranno qualsiasi cattiva intenzione nei confronti di Salvini, professando la loro buona fede. E alla fine saranno pure creduti. Anzi, si dichiareranno loro vittime di aggressione per le critiche subite. Con un po' di aiuto dei guardiani della professione forse spunterà anche un premio per la libertà di stampa. Perché, come scrive sotto ogni articolo Carlo Verdelli, «La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile». Applausi.
Vittorio Feltri su "Cancellare Salvini" di Repubblica: "Criticare il leghista si può, altri sono intoccabili". Libero Quotidiano il 16 Gennaio 2020. Cari colleghi dell'Ordine, stamane il quotidiano Repubblica reca in prima pagina il seguente titolone di apertura: "Cancellare Salvini". Non credo che l'intenzione del titolista fosse quella di cancellare con la gomma il capo della Lega. È una frase minacciosa che incita al linciaggio. Cosa sarebbe successo se Libero avesse scritto a caratteri cubitali: "Cancellare Segre"? Segnalo a voi, che non leggete i giornali ma processate i giornalisti politicamente scorretti, questa perla democratica e antifascista. Sono curioso di vedere se sanzionerete Carlo Verdelli che pure è un direttore stimabile. Cordiali saluti. Ecco, questo è l'esposto che ieri ho inviato ai soloni della categoria dopo essere inciampato nel citato titolo di Repubblica dedicato al reprobo Matteo Salvini. Noi di Libero non vorremmo mai punire un collega, convinti come siamo che le libertà di pensiero e di stampa siano sempre da salvaguardare e da rispettare in ogni circostanza, purché le espressioni maneggiate dai cronisti non sconfinino, come in tal caso, nell'incitamento all'odio oppure, come in altri casi, nella diffamazione, che è un reato da perseguire penalmente e non deve riguardare i tribunalini di categoria, a mio giudizio poco raccomandabili essendo influenzati dalle ideologie. La mia denuncia non intende colpire il direttore Verdelli, che sul suo giornale ha il diritto di adoperare il linguaggio che ritiene più opportuno. A me importa soltanto stabilire la fondatezza di un concetto: la deontologia o la si rispetta tutti, anche se discutibile, oppure che venga archiviata fra le cose inutili, o meglio dannose, perché essa si presta a dividere i professionisti della informazione in buoni e cattivi, quando invece siamo quasi tutti cattivi, noi che scriviamo cazzate quotidiane senza nemmeno avere tempo di riflettere. Infine ci troviamo o in tribunale a giustificarci oppure a subire le reprimende della corporazione che pende a sinistra come la torre di Pisa. Inoltre faccio presente che in questo genere di contenziosi si usano due pesi e due misure. Un paio di anni orsono Libero, riferendosi alle grane del sindaco di Roma Virginia Raggi, pubblicò questo titolo: "Patata bollente". Non l'avesse mai fatto. La signora ci querelò. E in settembre si discuterà la causa, mi pare a Catania. Venerdì 27 settembre 2019 noto poi su Italia Oggi, il mio quotidiano preferito, diretto da Pierluigi Magnaschi, grande giornalista, la seguente titolazione: "Fioramonti, una patata bollente". Espressione identica a quella da noi rivolta alla prima cittadina di Roma. E non vi è anima che l'abbia contestata, né a livello giudiziario né a quello dell'Ordine degli scribi. Nessuno ci ha spiegato perché noi non possiamo parlare di tuberi mentre il quotidiano economico li può citare senza conseguenze negative. Il mio sospetto, anzi la mia certezza, è che la patata bollente possa essere maschile e non femminile. Trattasi di discriminazione sessista. La signora va rispettata e non può essere paragonata a una verdura commestibile, mentre il signore finisca pure in una friggitrice. Vi rendete conto quanto i nostri giudici siano privi di senso logico? Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 14 febbraio 2020. Caro Francesco Merlo, sai che sono un tuo estimatore. Abbiamo lavorato insieme al Corriere della Sera in anni lontani e fui tra i primi a segnalare ai colleghi di vertice che eri un fuoriclasse. Poi fu Paolo Mieli a valorizzare il tuo talento. E da allora hai scalato la montagna di carta. La mia ammirazione per te tuttavia non mi impedisce di criticare alcune tue prese di posizione che assomigliano molto nel linguaggio agli sfoghi della destra più aspra. Un esempio. Difendi la tua Repubblica che ha titolato: "Cancellare Salvini". A me tale espressione non scandalizza. Ciascuno usa introdurre gli articoli con le parole che preferisce. Tuttavia ti pongo una domanda. Se Libero avesse aperto così il giornale: "Cancellare Segre", come avresti commentato la nostra scelta? Non dirmi che avresti applaudito. E allora perché giustifichi infantilmente la cancellazione di Salvini, il quale comunque, benché non ti piaccia, è il leader del più grande partito italiano? E veniamo al discorso del Capitano in Senato. Esteticamente ripugnante? De gustibus. Ma trattare l' uomo come fosse un brigante quando questi si è limitato a citare i propri figli non mi sembra un atto di cavalleria. Matteo ha tanti difetti, però rispetto alla tua amata sinistra ha il pregio di essere in sintonia con gli abitanti della penisola, che non lo votano per le felpe o per le invocate ruspe, bensì in quanto egli si propone di difenderli dalle invasioni barbariche. Probabilmente Quintino Sella era migliore di lui, eppure non è un buon motivo per considerarlo peggiore di Di Maio, Bonafede e Conte, i quali stanno rendendo ridicolo il nostro già abbastanza buffo Paese. In politica ciascuno ha le proprie idee e io non voglio contestare le tue malgrado non le condivida. Mi limito a segnalarti che le discussioni in materia debbano svolgersi nell'ambito del Palazzo e che i contenziosi è bene si risolvano entro le mura del medesimo. Se invece si affida l'arbitrato alla magistratura, nella speranza venga liquidato l' avversario con una sentenza, significa che i politici hanno rinunciato al loro ruolo consegnandosi mani e piedi ai giudici. A me dei Casamonica, dei rom e degli immigrati non importa nulla, immagino che non saranno mai sconfitti né tantomeno integrati. Il punto è un altro e riguarda la cultura. Non è lecito supporre che coloro i quali la pensano diversamente da noi, da te, siano dei deficienti degni di disprezzo.
Segre, il bacio allo studente di destra lezione a Strada. Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 19/02/2020 su Il Giornale. Liliana Segre e Gino Strada. Una donna maiuscola e un uomo minuscolo. Ieri mattina, quasi contemporaneamente, per uno strano gioco del destino, hanno incarnato il meglio e il peggio del Paese. Lei, sopravvissuta all'Olocausto, attivista e senatrice a vita della Repubblica. Lui, medico fondatore di Emergency, non sopravvissuto alla scuola d'odio del peggior '68. «La differenza tra Meloni e Salvini? Anche tra i gerarchi nazisti c'era discussione fra chi rappresentava meglio la destra...», attacca Strada a Circo Massimo, ospite di Massimo Giannini, dando sfogo alla pancia (potremmo scegliere anche organi meno nobili) di una certa sinistra che riesce solo a demonizzare il nemico. Dopo gli insulti parte l'accorato appello per salvare la democrazia dall'imminente ritorno della dittatura: «Ho paura che, di fronte a un'assenza totale dell'opposizione, questa destra possa continuare a fare presa. La nostra società è a rischio». «Un'assenza totale dell'opposizione», attacca Strada. Che, forse, dimentica che la destra non è al governo, bensì all'opposizione. E, come se non bastasse - perché siamo un Paese che non vuole farsi mancare nulla -, abbiamo anche un'ampia schiera di oppositori all'opposizione (caso unico nelle democrazie occidentali): le sardine di Mattia Santori, i centri sociali, il vario associazionismo «civile», i No Tav e tutta la stampa e gli intellettuali di sinistra che non perdono occasione per evocare fasci, fez e camicie nere. Poi Strada passa al linguaggio che più gli appartiene, quello medico-scientifico: «Le mafie non c'entrano niente con i decreti sicurezza. Ma questo è tipico della diarrea verbale della destra populista». E, se esistesse un imodium per questa patologia da lui scoperta, gli consiglieremmo di autoprescriverselo. Ma Strada ne ha per tutti e scomoda persino la tragedia del nazismo per argomentare i suoi deliri: «C'è una logica fascista e razzista non soltanto nell'opposizione, ma anche nel governo. La logica che sta dietro a Prima gli italiani è la stessa che sta dietro a America first e che stava dietro a Deutschland über alles». Nel frattempo, sono le undici di un assolato 18 febbraio, Liliana Segre, alla Sapienza di Roma, riceve la laurea Honoris causa in Storia dell'Europa. Una cerimonia di routine che però aveva scatenato più di una polemica. Nei giorni scorsi gli studenti di sinistra avevano criticato la scelta del ragazzo che avrebbe parlato a nome degli iscritti: Valerio Cerracchio, colpevole di essere stato eletto in una lista di destra. Ci sono tutti gli elementi per un'altra giornata di odio e polemiche. Fuori dall'aula gli studenti di sinistra rumoreggiano: «Siamo qui per protestare contro la scelta di fare intervenire una persona vicina alla destra romana». Dentro, invece, va tutto bene. Come dovrebbe andare in un Paese normale. Liliana Segre, alla presenza del presidente della Repubblica, riceve l'attestato e lo dedica a suo padre: «L'uomo più importante della mia vita, ucciso per la colpa di esser nato». Poi si avvicina a Cerracchio, lo studente incriminato, il presunto fascista, e, come una nonna qualsiasi, gli dice: «Hai il ciuffo come mio nipote, posso darti un bacio o sono troppo vecchia?». E in un attimo svanisce tutto l'odio, si placano le polemiche, si ammutoliscono le tifoserie, finisce in cantina quel clima da guerra civile permanente che fa sembrare gli italiani separati in casa e fa sentire quelli di destra, come scriveva Marco Tarchi, degli esuli in Patria. La Segre chiude la polemica con un bacio. Che è una lezione per gli haters di tutti i colori. E, per uno strano gioco del destino, uno schiaffo morale ai vari Gino Strada che continuano a seminare rancore e odio.
Coronavirus, Giuseppe Felice Turani e la foto anti-Salvini: "Trovato paziente zero, una fatalità che...?" Libero Quotidiano il 24 Febbraio 2020. Qualcuno trova anche il coraggio di scherzare in un momento così delicato. È il caso di Giuseppe Felice Turani, ex giornalista dell'Espresso e ora direttore della rivista economica Uomini & Business: "Sarà un caso o una fatalità - scrive sul suo profilo Facebook -, ma il coronavirus è apparso quasi solo nelle regioni leghiste". Parole che hanno subito indignato la Lega: "Senza vergogna" replicano dalla pagina Lega-Salvini premier. Una risposta, questa, in difesa delle sei persone decedute per l'epidemia che genera in Turani non poca ironia. Poco più in giù, sempre sui suoi social, si può vedere la foto di Matteo Salvini con tanto di commento "Trovato il paziente zero". Insomma, una presa in giro che potrebbe essere evitata di questi tempi.
Vauro contro Salvini sul Coronavirus. "La bava è contagiosa", gli dà dell'untore in prima sul Fatto quotidiano. Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Dagli all'untore. Ormai Matteo Salvini è il colpevole numero uno del coronavirus in Italia, almeno per Giuseppe Conte, il governo, Pd, M5s e loro sostenitori. E così non stupisce, anche se disgusta, la vignetta di Vauro Senesi in prima pagina sul Fatto quotidiano. "Occhio a Salvini", mette in guardia la matita armata di Marco Travaglio, che aveva passato la scorsa settimana a insultare Matteo Renzi dandogli finanche del "testicolo". Ora aggiusta la mira e torna a colpire duro il leader della Lega, dipinto come al solito sbraitante e fuori controllo. Poi la stoccata elegantissima: "La bava è contagiosa". Ma il cattivo gusto e la disonestà intellettuale, di più.
Coronavirus, Salvini: “C’è chi gode perché i morti sono in Lombardia”. Laura Pellegrini 25/02/2020 su Notizie.it. Salvini commenta la situazione sul coronavirus e attacca la sinistra: "C'è qualcuno che gode perché le vittime sono in Lombardia". Secondo Matteo Salvini “a sinistra c’è qualcuno che gode perché i morti” per coronavirus “sono in Lombardia”. Queste le parole del leader della Lega in una diretta su Facebook. Dopo aver alimentato lo scontro con Conte e aver annullato il maxi evento a Trento, il leader della Lega torna ad alimentare la polemica sul Covid-19. Nel frattempo in Italia le vittime sono salite a 7, quasi tutte in Lombardia.
Coronavirus, Salvini attacca la sinistra. “Ma mi domando se in Italia occorra sempre che si debba aspettare che ci scappi il morto per intervenire come si sarebbe potuto intervenire il 30 gennaio scorso…”. Con questa parole Matteo Salvini commenta la situazione in Italia sul coronavirus. Il leader della lega ha ricordato che il Carroccio aveva chiesto la chiusura delle frontiere già da gennaio, ma era stato additato e considerato come “sciacallo“. “Sono stato chiamato persino l’untore… – ha riferito Salvini -. Insultare la Lega e Salvini” per il coronavirus “è davvero demenziale”. Inoltre, il leghista ha attaccato la sinistra accusando: “C’è qualcuno che gode perché i morti sono in Lombardia… Ma voi non state bene… C’è qualcuno a sinistra, pochi per fortuna, tra i politici e i giornalisti, a godere dei morti… Ma voi davvero non state bene”. “Ora – ha dichiarato ancora Salvini – è il momento di stare uniti e sperare. Naturalmente il presidente del Consiglio deve fare il presidente del Consiglio, e il ministro deve fare il ministro… Mi auguro che, arginato il disastro, qualcuno chieda scusa e si dimetta. Non serve chiedere scusa a Salvini, ma ai marchigiani, ai toscani, ai lombardi e ai veneti”. E infine attacca nuovamente il governatore della Toscana: “A Prato c’è enorme comunità cinese e cittadini sono preoccupati, ma governatore della Toscana, Rossi, ha addirittura accusato di essere fascioleghisti perfino i medici che chiedevano i controlli. Mi auguro che chieda scusa agli italiani e si dimetta”.
Luana Rosato per il Giornale il 28 marzo 2020. Casuale incontro in aereo tra Alba Parietti e Matteo Salvini: l’attrice ha raccontato sui social quanto accaduto, ma non tutti hanno accettato di buon grado questa sua condivisione. Il tutto è successo qualche ora fa, quando entrambi erano a bordo di un volo della compagnia aerea nazionale, seduti uno dietro l’altra. E proprio il posto assegnato alla Parietti ha fatto sì che lei, girandosi, si accorgesse di essere in compagnia del leader della Lega. Così, dopo avergli scattato una foto in maniera fortuita, Alba ha raccontato ai suoi follower un aneddoto. “Ero seduta davanti a un signore che nervosamente faceva ballare il mio posto tamburellando con la gamba – ha iniziato a spiegare lei in un post su Instagram - . Io non lo vedo e gli dico: "Scusi per favore può stare fermo con quella gamba?". Gentilmente, e lui gentilmente sta fermo”. Fino a questo punto, però, Alba non si era resa conto di chi fosse il destinatario della sua richiesta. “Poi mi sposto in un posto più libero, sempre per evitare contagi, mi giro e guardo il signore di cui non avevo visto la faccia... – ha aggiunto ancora lei su Instagram - . Naturalmente chi era? Matteo Salvini”. La Parietti, che non ha mai fatto mistero delle sue preferenze politiche diametralmente opposte a quelle di Salvini, quindi, ha concluso: “Non c’è niente da fare: l’energia si attrae o respinge anche ad alta quota e a scatola chiusa”. “Avrà pensato che sono una gran rompipa..e e che gliel’ho detto apposta – ha scherzato lei - . Però ha smesso [...]”. L’aneddoto che la Parietti ha condiviso con i suoi follower sui social, però, ha dato vita ad una serie di polemiche da parte di alcuni utenti della rete. Se qualcuno, infatti, ha letto il suo post senza enfatizzare, qualcun altro ci ha visto un modo per sollevare delle critiche nei confronti di Salvini. “Te la potevi risparmiare!”, “Non capisco il senso di questo post, mah”, hanno scritto alcuni utenti della rete, “Ma il senso di tutto ciò? Se non fosse stato Salvini lo avrebbe riportato?”, “Se gentilmente hai chiesto e gentilmente hai avuto perché voler iniziare una polemica?”, si è domandato qualcun altro, mentre altri internauti hanno interpretato con sarcasmo le parole della Parietti. “Potevi cantargli ‘Bella ciao’”, ha scritto un fan di Alba, “hai cambiato posto perché sentivi puzza di marcio”, “Potevi aprire il portellone...”, ha aggiunto ancora qualcun altro.
Da video.corriere.it il 21 febbraio 2020. Un duro botta e risposta quello avvenuto durante l’ultima puntata di Piazza Pulita tra Giorgia Meloni e Corrado Formigli. Il conduttore ha mostrato alla Meloni la foto di Alima, una bimba sudanese reduce dal lager della Libia e salvata da un naufragio. “Quando penso a sua figlia o a mio figlio credo che ogni bambino debba avere le stesse opportunità. E ci facciamo un mazzo così per dare delle chances per il loro futuro. Allora, le chiedo: perché Alima, che oggi per fortuna si trova in Europa, non ha diritto ad avere almeno una chance come ce l’hanno sua figlia e mio figlio?”. Arriva così la risposta della Meloni: “Guardi, Formigli, mi dispiace che, nonostante ci conosciamo da anni, le non ha ancora avuto la pazienza di leggere le mie proposte”. “E’ quello che pensa lei. Non è così”, dice il giornalista. “Anche qui la sua domanda è sbagliata“, ribatte la deputata. “Ma facciamo tutte domande sbagliate stasera?”, risponde allora Formigli che riceve una risposta affermativa dalla leader di Fratelli d’Italia. “Ma ogni tanto non le viene in mente di dare una risposta sbagliata nella sua vita?”, dice il conduttore. “Io le do una risposta e la gente giudica da casa”, afferma la Meloni “E allora lasci che sia la gente a giudicare da casa – risponde Formigli – Io non le sto dando patenti sulle sue risposte. Lei non dia voti alle mie domande, abbia pazienza. Io la maestrina non me la faccio fare da lei”.
Immigrazione, scontro Formigli-Meloni: "La sua è una domanda sbagliata". Il conduttore ha usato la storia di una bimba sudanese per criticare la proposta del blocco navale proposto da Fdi. Pronta la risposta della Meloni. Gabriele Laganà venerdì 21/02/2020 su Il Giornale. Il tema dell’immigrazione è sempre al centro della battaglia politica. Tutto sembra lecito per supportare le tesi dell’accoglienza senza se e se ma, anche usare i bambini piccoli che, indubbiamente, sono costretti a vivere in condizioni difficili. La prova è il durissimo scontro avvenuto durante l’ultima puntata di Piazza Pulita su La7 tra Corrado Formigli e Giorgia Meloni. Il conduttore ha prima mostrato alla leader di Fratelli d’Italia la foto di Alima, una bimba sudanese reduce dal lager della Libia e salvata da un naufragio e poi ha affermato in merito alla proposta di istituire il blocco navale: "Quando penso a sua figlia o a mio figlio credo che ogni bambino debba avere le stesse opportunità. E ci facciamo un mazzo così per dare delle chances per il loro futuro. Allora, le chiedo: perché Alima, che oggi per fortuna si trova in Europa, non ha diritto ad avere almeno una chance come ce l’hanno sua figlia e mio figlio?". Storia difficile di una minore usata per mettere in difficoltà l’esponente politico della destra italiana. La Meloni non si scompone e ribatte a tono: "Guardi, Formigli, mi dispiace che, nonostante ci conosciamo da anni, le non ha ancora avuto la pazienza di leggere le mie proposte". "È quello che pensa lei. Non è così", ha replicato il giornalista. Il battibecco prosegue con la leader di Fdi che afferma, rivolgendosi al conduttore, come "anche qui la sua domanda è sbagliata". Il giornalista, stizzito, replica in modo sarcastico dicendo: "Ma facciamo tutte domande sbagliate stasera?". Domanda retorica alla quale segue una risposta affermativa della deputata."Ma ogni tanto non le viene in mente di dare una risposta sbagliata nella sua vita?", dice il conduttore. "Io le do una risposta e la gente giudica da casa", afferma la Meloni. "E allora lasci che sia la gente a giudicare da casa – risponde Formigli – Io non le sto dando patenti sulle sue risposte. Lei non dia voti alle mie domande, abbia pazienza. Io la maestrina non me la faccio fare da lei". A chiudere le danze è stata la Meloni che, senza perdere la pazienza, ha illustrato la sua proposta sul blocco navale. Il piano prevede la creazione di hotspot, da fare anche nella tranquilla Tunisia, per valutare chi ha diritto ad essere rifugiato e che poi distribuisca equamente i migranti nei vari Paesi della Ue. Una risposta precisa su un tema difficile.
Otto e mezzo, Giorgia Meloni attacca Conte sull'emergenza Coronavirus e Lilli Gruber si innervosisce. Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. In studio a da Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, si parla di Coronavirus e Giorgia Meloni attacca Giuseppe Conte: "La valutazione sull'operato del governo andrà fatta a valle, oggi dobbiamo affrontare l'emergenza. Ma io ho trovato inaccettabile l'assenza di informazione che c'è stata a partire dal regime cinese fino al governo Conte", dice la leader di Fratelli d'Italia. Infatti, "trattare l'epidemia come un'influenza rinforzata cozzava con le immagini di una Cina militarizzata. C'è stata una sottovalutazione all'inizio e ora c'è una psicosi, siamo passati dall'abbracciare i cinesi a Oddio è finita l'amuchina". Una tesi che evidentemente non piace alla conduttrice che in modo nervoso dice: "Ma cosa poteva fare il governo?".
Marco Leardi per davidemaggio.it il 26 febbraio 2020. Lilli Gruber non dissimula. E nemmeno se ne fa scrupolo. Quando si trova innanzi ad un ospite di cui non condivide le opinioni, la conduttrice di Otto e Mezzo dà chiari segni di insofferenza, si incupisce in volto, pronuncia chiose stizzite. L’abituale reazione si è ripetuta anche ieri sera in presenza di Giorgia Meloni. L’atteggiamento spigoloso della giornalista ha innervosito la leader di Fratelli d’Italia e tra le due è scoppiato un vivace battibecco. Ad infastidire la Meloni, il fatto che la Gruber avesse utilizzato il tema Coronavirus per parlare di sovranismi, nazionalismi e frontiere aperte. “Lo dico con rispetto, trovo questo dibattito un tantino surreale. Non riconduciamo sempre tutto ad una follia ideologica per cui, qualunque cosa accada nel mondo, si deve finire a parlare del sovranismo, del nazionalismo. Qui si tratta di difendere la salute dei cittadini“. ha affermato la leader di Fratelli d’Italia. E la conduttrice, poco più avanti, le ha restituito la stoccata. Riassumendo una precedente affermazione della sua ospite in merito alla possibilità di derogare Schengen, la giornalista ha chiosato: “Vogliamo un’Europa à la carte, che mi pare difficilmente realizzabile…“.
La Meloni, a quel punto, non ci ha visto più: “À la carte che significa, scusi? Io sto dicendo una cosa seria, la prego! Davvero soffro di queste chiose francamente prive di senso. Che cos’è l’Europa à la carte? Non è quello che ho detto. Mi ha ascoltato? (…) Se evita di dire cose non hanno senso, mi aiuta, perché à la carte non ha chiesto niente nessuno. À la carte è uno slogan buono per fare propaganda“. E la Gruber, riferendosi all’ultimo rimprovero dell’ospite, ha ribattuto: “Ho imparato da lei“. Colpo secco. A conclusione dell’acceso botta e risposta, con epilogo al limite del puerile, è stata la Meloni a ribadire nuovamente la propria irritazione. Di recente, la leader di Fratelli d’Italia aveva reagito con toni altrettanto stizziti anche a Piazzapulita, sempre su La7, dove aveva contestato il conduttore Corrado Formigli per alcune sue domande. In quel caso, il giornalista non l’aveva presa bene ed aveva reagito così: “Io la maestrina non me la faccio fare da lei. Se vuole rispondere alle domande risponde, sennò non risponde. Non dia il voto alle mie domande, risponda semplicemente“.
Gad Lerner contro Salvini e la Meloni: "Il mio benzinaio...", ecco a chi piace il suo delirante commento. Libero Quotidiano il 13 Gennaio 2020. Gad Lerner ha intrattenuto Massimo Giletti a Non è l'Arena con un aneddoto dei suoi: "Il mio benzinaio mi ha detto che per fare politica in Italia e avere successo bisogna parlare male degli extracomunitari e parlare bene degli animali, perfetto per Matteo Salvini e Giorgia Meloni". Una frase a cui la stessa leader di Fratelli d'Italia ha replicato, aggiungendo però un ulteriore dettaglio: "Rula Jebreal mette mi piace a questo raffinato ragionamento raccontato da Gad Lerner, ma pretende di essere pagata migliaia di euro per un monologo di 5 minuti al festival di Sanremo anche con i soldi di chi vota Fratelli d'Italia e Lega". Proprio così perché la tanto bella quanto faziosa giornalista palestinese finirebbe in prima serata sulla televisione pubblica per ben 25mila euro. Tutti ovviamente prelevati dalle nostre tasche.
Rita Pavone, sui social infuriano le polemiche: «No alla sovranista a Sanremo». Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Andrea Laffranchi e Arianna Ascione. A distanza di 48 anni dalla sua ultima partecipazione sanremese Rita Pavone tornerà sul palco dell'Ariston: l'annuncio è stato dato da Amadeus nel corso della puntata speciale de I Soliti Ignoti legata alla Lotteria Italia, durante la quale il conduttore ha fatto il nome dei due cantanti in gara che andranno ad aggiungersi agli altri 22 già resi noti (oltre a Pavone parteciperà alla 70ma edizione del Festival della Canzone Italiana anche Tosca). Il ritorno dell'interprete del Geghegè però non è stato visto di buon occhio in rete: in molti infatti hanno ricordato gli scivoloni dell'artista su Twitter, dall'attacco contro i Pearl Jam nel giugno 2018, rei di aver dedicato Imagine ai migranti e aver supportato la campagna per l'apertura dei porti ("Della serie: ma farsi gli affari loro, no?"), al commento caustico contro l'attivista 16enne Greta Thunberg (aveva scritto "Quella bimba con le treccine che lotta per il cambio climatico, non so perché ma mi mette a disagio. Sembra un personaggio da film horror" salvo poi scusarsi). Nonostante le numerose voci contrarie c'è comunque chi si è esposto in difesa della collega come Fiordaliso: "Non capisco questo linciaggio di Rita Pavone. A volte (e sottolineo a volte), io non sono d'accordo con lei. Ma Sanremo non è politica, abbiate pazienza. Lei è una delle più grandi artiste italiane. O avete la memoria corta? Io sono contenta che partecipi". Intanto nel mirino dei social è finito anche il rapper Anastasio, anche lui nella rosa di Sanremo 2020: il vincitore della dodicesima edizione di X Factor all'indomani della vittoria era stato accusato di nutrire simpatie per Matteo Salvini e CasaPound («Io non sono nè comunista nè fascista, ancora parliamo di comunismo e fascismo? Io non so sulla base di cosa abbiano scritto quelle cose, sulla base dei like alle pagine? Io mi tengo informato, metto i like e vedo cosa dicono le persone», aveva replicato).
Ecco la violenza della sinistra: "Boicottiamo i locali in cui andrà Salvini". I "democratici" mettono in campo tutto l'odio contro la Lega: "Salvini sei un fascista, vai a lavorare, ti aspetta Piazzale Loreto". Luca Sablone, Martedì 07/01/2020, su Il Giornale. Dalle parole ai fatti. Se fino a pochi giorni fa si erano limitati a gravi minacce e istigazioni alla violenza, ora i "democratici" hanno deciso di passare all'azione: boicottare tutte le attività di Modena in cui ci sarà la presenza di Matteo Salvini. Questo l'ultimo gesto di intolleranza da parte della sinistra, che ha pensato di mettere nel mirino i locali in cui il leader della Lega terrà aperitivi e comizi in vista delle elezioni Regionali in Emilia-Romagna. L'intento è quello di organizzare contestazioni lungo l'intero percorso dell'ex ministro dell'Interno, ma non solo: è da intendersi come un vero e proprio dissenso anche contro le attività commerciali. Contattato in esclusiva da ilGiornale.it, Luca Bagnoli ha espresso tutta la rabbia del caso: "Non sappiamo da chi siano arrivate le accuse di boicottaggio, ma di certo chiunque sia stato ha usato metodi di stampo fascista". Il segretario del Carroccio modenese ha fatto sapere che "questi subdoli attacchi" non hanno sortito alcun effetto di paura: "La Lega di certo non si spaventa. Queste sono manifestazioni di stampo antidemocratico che combatteremo sempre per la libertà di opinione".
Le polemiche. La questione è stata inizialmente sollevata da Stefano Bargi: "Si tratta di un atteggiamento non solo antidemocratico ma anche dannoso sia per le attività economiche, che altro non fanno se non adempiere al proprio lavoro, che per i lavoratori di quelle medesime attività economiche". Il capogruppo del Carroccio in regione ha ribadito come la campagna elettorale abbia preso una piega davvero violenta: "L'aria sta diventando irrespirabile a causa di una violenza settaria e inquietante da parte di una sinistra, catechizzata da qualche cattivo maestro, per cui chiunque la pensi diversamente è fascista e non ha diritto di cittadinanza". Al centro della campagna di boicottaggio è finito il pub Mr Brown situato in via Gallucci, non lontano da corso Canalgrande. Il gestore del locale ha confessato di essere stato preso in contropiede: "Salvini verrà nel mio pub? Allora è probabile che saremo chiusi per ferie. Io non ne sapevo niente. Nessuno ci ha avvertito. Qui non si fa politica e per questo saremo chiusi per ferie". Ma la polemica è stato presto chiarita. "Abbiamo incaricato uno dei nostri di avvisare il locale. Non vogliamo creare problemi e capiamo la decisione del gestore. È una brava persona e non vogliamo che abbia dei problemi", ha fatto sapere la Lega. Uno dei post recitava: "Salvini vergognati. Sarà nuovamente a Modena. Ai miei concittadini e a chi la viene a visitare invito a boicottare (per sempre) il pub MrBrown". Il tutto con tanto di hashtag "BoycottMrbrown". Intanto per le strade della città sono comparse scritte per attaccare l'ex ministro dell'Interno: "Salvini fasesta"; "Per Salvini a Piazzale Loreto"; "Più tortellini, meno Salvini, meno Mr Brown"; "Salvini a Piazzale Loreto, Mr Brown in fallimento, via i fascisti da Modena"; "Mo va a lavurer, Salvini". Luca Bagnoli ci ha precisato: "La politica viene espressa fuori dal locale". Il leghista infine ha concluso: "Voler screditare un locale pubblico, dove avremmo voluto offrire noi sostenitori e militanti un aperitivo in un momento conviviale, è un atto discriminatorio verso sia il libero pensiero democratico oltre che l'oltraggio verso il commerciante che esercita la sua professione e che notoriamente non ha mai manifestato una bandiera politica".
«Vai a dormire con il gas aperto»: lo scioccante post della consigliera Pd contro Salvini. Chiara Volpi venerdì 10 gennaio 2020 su Il Secolo D'Italia. «Salvini curato con il gas aperto. “Lezioni di democrazia” da parte di quelli del Pd. Poi i cattivi saremmo noi… Roba da matti»… Commenta così, il leader del Carroccio, l’ultimo sconcertante attacco subito sui social da un utente di Facebook e, cosa ancor più degna di nota, rilanciato e applaudito (con tanto di manine che fanno l’applauso e emoji sorridente) da una consigliera dem di Prato. È la sua condivisione dello scioccante post che incita all’odio contro il leader politico, con tanto di commenta che recita «standing ovation» l’inaccettabile risvolto dell’incresciosa vicenda virtuale. Una vicenda che il segretario della Lega ha denunciato con tanto di eloquenti immagini sulla sua Pagina Facebook.
«Vai a dormire con il gas aperto»: lo sconcertante post contro Salvini. Tutto ha inizio con la richiesta lanciata sul web dal capo politico del Carroccio che, in un precedente post, chiedeva rimedi alternativi alla tachipirina per curare febbre e raffreddore. E tutto prosegue con la replica di un utente che suggerisce a Salvini di lasciare «il gas aperto» e di andare «a dormire». Poi, non finisce qui. Nel macabro siparietto, infatti, interviene Monia Faltoni, esponente del Partito Democratico di Prato, che rilancia il post choc e rincara la dose come spiegato poco sopra. Rendendosi protagonista dell’ultima attestazione di odio conclamato da parte della sinistra…Naturalmente l’intervento dell’esponente Pd non è passato inosservato. A partire proprio dal destinatario dell’invettiva gratuita che, tempestivamente, ha denunciato (e commentato) tutto via social. A quel punto la Faltoni ha tentato una tardiva e goffa marcia indietro. Tanto che, come riferisce La Nazione e riprende il sito de Il Giornale, la piddì ha provato a giustificarsi dicendo: «In realtà solidarizzavo con Salvini che era nella mia stessa condizione di oggi. L’ho fatto in modo ironico e sarcastico. Eventualmente il gas lo auguravo a me stessa, ovviamente scherzando… Mi dispiace che si sia strumentalizzata una battuta. Non sento di dover chiedere scusa a nessuno». E come è evidente, la pezza è risultata peggio dello strappo che voleva andare a rattoppare…
L’intervento di Marco Curcio, consigliere comunale della Lega a Prato. L’ultima parola (per ora almeno), spetta dunque a Marco Curcio, consigliere comunale della Lega a Prato, che intervenendo sulla sconcertante vicenda, e puntando l’indice contro la dem, ha dichiarato: «Mi vengono i brividi, vengono in mente violenze su vasta scala del secolo scorso. Faltoni deve dimettersi, non ha più alcun senso sieda in un’assemblea democratica, è una vergogna per Prato e la Toscana, per l’Italia intera. Mi aspetto che il Sindaco, il capogruppo e il segretario del Pd di Prato facciano con la Faltoni ciò che avrebbero chiesto per qualunque altro esponente politico di centrodestra».
L'odio antifascista della Sardina: "Per loro legge della giungla". Il portavoce delle Sardine di Reggio Calabria, Filippo Sorgonà, ha scritto che "la democrazia inizia dopo i fascisti. Con i fascisti (di ogni genere) esiste e deve esistere la regola della jungla". Matteo Orlando, Giovedì 09/01/2020, su Il Giornale. Il portavoce delle Sardine di Reggio Calabria ha invocato la "legge della giungla" per i "fascisti" d’oggi. Con un messaggio postato su Facebook e su Twitter Filippo Sorgonà ha scritto che "La democrazia inizia ‘dopo’ i fascisti. Con i fascisti (di ogni genere) esiste e deve esistere la regola della jungla, perché non ne conoscono altre. Non si deve perdere tempo a cercare logica civile e confronto democratico con Chi rinnega quelle regole. Buonisti la fungia!". Sorgonà, che su linkedin si presenta come giornalista pubblicista presso il Quotidiano della Calabria dal mese di settembre del 2018 e ideatore/speaker dei format-radio "Ondanomala" e "KlubIn" su Antenna Febea, ma anche come un "hacker etico" e (su Twitter) come operatore "Psicoacustico - Ritratti Musicali - Piano-Sciamanesimo, Anarchia e Nichilismo – Animismo", lo scorso mese di dicembre aveva chiamato a raccolta le Sardine della città dello Stretto. "Condividete, stampate e divulgate. Coloriamo piazza Castello!", aveva scritto il 21 dicembre sul suo profilo Facebook Filippo Sorgonà, postando un manifesto raffigurante una sardina arcobaleno, con l’acrostico delle Sardine (solidarietà, accoglienza, rispetto, diritti umani, intelligenza, non-violenza, antifascismo) e l’invito a recarsi nella nota piazza reggina nel pomeriggio del successivo 27 dicembre. L’invito, come ha scritto l’Ansa, era stato accolto da circa cinquecento persone e Sorgonà aveva spiegato che erano scesi in piazza "per i diritti di tutti e per restituire alla politica una dimensione ed una dialettica democratica. Le piazze sono un simbolo assoluto di democrazia perché ricostruiscono relazioni umane e il senso di comunità che si è perduto". Un concetto di democrazia, evidentemente, che non vale per gli avversari politici di Sorgonà, cioè Matteo Salvini (Lega) e Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), per i militanti e coloro che votano questi partiti.
Matteo Salvini diventa un cinghiale sui manifesti affissi a Torino. Francesco Leone il 09/01/2020 su Notizie.it. Questa volta non si tratta della bravata di qualche writer, tantomeno di una delle opere di street art del noto TvBoy. A Torino, durante la notte tra l’8 e il 9 gennaio, sono comparsi dei manifesti che si prendono gioco di Matteo Salvini, segretario federale della Lega. Sui cartelloni, affissi sui muri degli edifici nei pressi di Palazzo Nuovo (sede universitaria della facoltà di scienze umanistiche), si vede un Salvini trasformato in un cinghiale. La didascalia, che tanto ricorda nelle fattezze quella della propaganda politica, recita “Prima i cinghiali! Vota Matteo Suini, Sega per Salvini Premier”.
Il Salvini-cinghiale sui manifesti torinesi. Grugno da cinghiale, felpa verde Lega con box logo “Polizia“, crocefisso al collo e qualche mosca a corredare la vignetta satirica. Sulla sinistra il simbolo del partito del Carroccio è orfano della figura di Alberto da Giussano e trova la foto di un maiale. Il commento della politica non si è fatto di certo attendere, l’ex ministro ha risposto direttamente dalla sua pagina facebook. “Per certa sinistra la sola idea di indossare una felpa con cui ringraziare le nostre forze dell’ordine è un motivo di biasimo, di presa in giro, di insulto” -ha commentato Fabrizio Ricca, il segretario torinese del Carroccio- “Per noi no! Siamo fieri della polizia italiana. E lo stesso vale per il rosario. Chi crede di insultare Matteo Salvini e le forze dell’ordine con simili manifesti non fa altro che convincerci del fatto che siamo dalla parte della ragione. Essere dalla parte Forze dell’Ordine, che ogni giorno difendono i cittadini rischiando di persona, per noi è un vanto”.
Sì, la sinistra odia Giorgia Meloni. E’ stizza per i riconoscimenti, chiedere alla Rai che succede…Francesco Storace sabato 11 gennaio 2020 su Il Secolo D'Italia. In effetti è vero, la sinistra odia Giorgia Meloni. A destra lo si intuisce, diciamo, con una certa esperienza nella pratica. E quel che è insopportabile è l’ipocrisia. Dichiarazioni roboanti contro l’odio e poi i veri hater della politica stanno tutti dalle loro parti. Del resto, non si hanno molte tracce di contestazioni ai loro comizi. Il “nuovo”, le sardine nascono proprio contro le manifestazioni altrui, ad esempio Salvini. Ma è sulla rete che sono sempre attivi i diffamatori, i calunniatori, i leoni da tastiera come li chiamano tutti. Il motivo? Accade quando non si hanno più idee da esibire con orgoglio. La sinistra ha praticamente smarrito la propria superiorità morale, o almeno quella che riteneva di poter mostrare. Le ricette di cui era orgogliosa. Il popolo di cui era fiera. L’analisi non è di parte, ma viene da un cronista esperto, Michele Fusco, che ne ha scritto sul sito glistatigenerali.com raccontando la sua esperienza di conduzione su RadioTre della rubrica Prima Pagina. Titolo tosto, ma efficace “la sinistra disprezza la Meloni come gli italiani disprezzano i migranti“. Che cosa è successo? Di buon mattino alla radio, Fusco commentava la rassegna stampa. “Il Mattino, in prima, aveva scelto di definire il 2019 come “l’anno della donna”, racchiudendo in un grande riquadro fotografico le signore che lo avevano vissuto da protagoniste. C’era Liliana Segre, c’era Christine Lagarde, c’era Ursula von der Leyen, e diverse altre. E nel mazzo, mal gliene incolse, compariva anche Giorgia Meloni”. Concludevo, racconta Fusco, “che certo, Giorgia Meloni, nell’asfittico panorama politico, si era guadagnata uno spazio di un certo rilievo, arrivando al 10%, a mani nude, solo con le sue forze, in un mondo, quello della politica, ad altissima gradazione maschile”. Per giorni, la redazione ha ricevuto decine e decine di messaggi contro Giorgia Meloni e Fusco che ne aveva parlato. Poi, il Times. Con la classifica di quelle venti personalità del mondo tra le quali spicca, unica italiana, proprio la leader della destra. Quello che appariva chiaro – secondo l’analisi di cui parliamo – “è che a persone estranee al conflitto sociale che lacera la piccola Italia, quella donna era apparsa come una personalità di enorme carattere. E come tale meritevole di stare in quel piccolo olimpo”. E qui, il guizzo del cronista che indica con chiarezza che cosa accade nel rapporto tra la sinistra e la Meloni: “La sinistra impazzisce se vede un riconoscimento fuori dal suo stagno. Lo contesta in radice, dice che non è possibile. Che tu sei un ignorante, che non hai studiato, che sei un fascista, che vuoi togliere le libertà che abbiamo conquistato con il sangue dei nostri partigiani”. La sinistra riteneva che le sue idee fossero migliori di tutte le altre. Smarrendo la pretesa di superiorità morale, la sinistra ha giocato semplicemente di rimessa, ha puntato solo il dito contro gli altri. “E siamo arrivati a questo punto – conclude Fusco – dove se il Times mette la Meloni tra le venti personalità politiche del mondo, tu ti incazzi come una bestia, invece di chiederti il perché“. Persino se un capo di Stato come Orban va ad Atreju (vedi foto) perdono la testa. Da applausi a scena aperta. Perché è semplicemente la verità. E non lo dice solo Vittorio Feltri. Per la Meloni come per Salvini. E fino a ieri accadeva a Berlusconi.
Valeria Braghieri per “il Giornale” il 31 luglio 2020. Curioso che un Paese immobile come il nostro riesca ad avere due velocità quando si tratta di principi. Scattante difensore in un caso, immobile incurante in un altro. Perché dipende chi ci sta attaccato, ai principi. Quando la stessa cosa era successa alla giornalista Giovanni Botteri, erano tutti partiti in quarta con indignate accuse, mancava forse giusto l' intervento del presidente Mattarella. Ora che si tratta di Giorgia Meloni, gli italiani restano natanti distratti imbolsiti dalla calura estiva. A parità di chiome dubbie prese di mira dalla rete. A dire il vero, non è alla pettinatura che si sono limitati ieri con la leader di Fretelli d' Italia. Hanno sì diffuso meme e foto che riprendevano dall' alto la testa di Giorgia e la sua «riga in mezzo un po' larga» (la Botteri era invece colpevole di ricrescita). Ma poi hanno continuato. La bravata anonima migliore è stata il video del suo discorso di mercoledì alla Camera, montato al contrario. L'effetto era ovviamente demoniaco, anche perché Giorgia è già una che ci mette passione di suo, in più l' altro giorno era davvero tanto arrabbiata con Conte e con gli immigrati che il presidente del Consiglio lascia entrare a frotte nel nostro Paese, in barba alle norme anticovid, salvo poi multare l' educata protesta dei commercianti italiani che, a causa del virus, hanno chiuso le loro attività. Quindi enfasi, più rullo al contrario, Giorgia sembrava la figlia naturale di Satana. A questo, sempre in rete, si sono aggiunte edificanti battute, tipo quella di un tizio che la paragonava ad una pescivendola: «Mi è piaciuto molto l' intervento di Giorgia Meloni. Solo non ho capito a quanto le mette al chilo, le spigole». O quello che la usava come minaccia ai bambini: «Finisci di mangiare tutto se no chiamo la Meloni!». O l' altra, che chiosava il video sfottò: «Qui è quando ha cominciato a parlare in greco antico prima di girare la testa di 180 gradi». Ma niente. Nessuno che si sia fatto sentire in difesa dell' ex An. Nessuno che abbia interrotto la siesta. Alla Meloni si può dire di tutto: dal compagno «troppo bello per lei» alla gravidanza («incinta di un meloncino») «strumentalizzata», di «non essere sposata», di essere «grassa», di essere «brutta»... «Daje». Giù a corcare, per rimanere nel linguaggio che le rinfacciano, ovvio, nel suo caso anche essere romana è una colpa, per di più non è dei Parioli. Come in quell' altro video virale di un po' di tempo fa «Sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cattolica», montato quella volta in loop. La Meloni è diventata il collante ideologico dei social: la detestano tutti, a quanto pare. Il pungiball della rete che, come è noto, è il ring dei coraggiosi. Bulli decaffeinati protetti da anonimato e distanza a cui augureremmo di diventare improvvisamente visibili e reali. Intanto a lei, che invece ci mette sempre la faccia, va il nostro: daje Giorgia. In politica, ce la si prende con chi cresce.
L’ex deputato Scotto (Leu) aggredito a Venezia. «Urlavano Duce, Duce». Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Franco Stefanoni. La moglie: «Picchiato perché voleva fermare i cori antisemiti». Arturo Scotto, ex deputato e candidato non rieletto nel 2018 con Leu, è stato aggredito e da un gruppo di persone a Venezia al grido «Duce, Duce». A segnalare l’aggressione, è stata la moglie di Scotto, Elsa Bertholet, su Facebook, che ha scritto: «Capodanno a Piazza San Marco con marito e figlio grande, mezzanotte e un minuto: un gruppo dietro di me canta “Anna Frank sei finita nel forno”, mi giro: “Ragazzi basta!”, si mettono a urlare: “Duce, duce …..” con mano alzata, si gira mio marito che prima non le aveva sentito cantare: “Basta!!!!” e boom si prende botte in faccia da vari lati, poi si mette di mezzo un ragazzo per aiutarci e lo picchiano pure lui, visibilmente abituati al fatto, poi fuggono come dei vigliacchi che sono. La polizia municipale: “Avete ragione, picchiare è brutto, fate denuncia domani”. Ora in un bar meraviglioso nel ghetto». Scotto, di Torre del Greco (Napoli), 41 anni, ex Pds, Ds, Sel e tra i fondatori di Articolo 1 - Movimento democratico e progressista (Mdp), lo scorso settembre era stato indicato come possibile sottosegretario al Lavoro nel governo Conte II. Il segretario nazionale di Articolo Uno e ministro, Roberto Speranza, via Twitter ha commentato: «Un abbraccio fraterno ad Arturo_Scotto aggredito stanotte da un gruppo di balordi che inneggiavano al duce. So che nessuna violenza fermerà il tuo impegno per la libertà e la democrazia e contro ogni forma di fascismo». Pietro Grasso, di Leu, via Facebook ha fatto sapere: ««Ho parlato con Arturo Scotto che mi ha raccontato dell’aggressione subita a Venezia. A lui, alla famiglia e al coraggioso ragazzo che ha provato a fermare i giovani fascisti va la mia solidarietà e un grande abbraccio».
"Duce, duce, duce", "Ora basta". Aggredito l'ex deputato Scotto. Un diverbio in piazza a Venezia tra Scotto e alcuni ragazzi si trasforma in rissa. E la moglie racconta tutto sui social. Angelo Scarano, Mercoledì 01/01/2020, su Il Giornale. Il Capodanno di Arturo Scotto, esponente di Articolo Uno ed ex parlamentare, è stato piuttosto movimentato. Mentre si trovava a Venezia, a piazza San Marco, per salutare il nuovo anno sarebbe stato aggredito da alcune persone che lo avrebbero preso a pugni urlando "Duce, Duce, Duce...!". A raccontare quanto accaduto è stata la moglie, Elsa Bertholet, che in un post su Facebook ha ricostruito la dinamica dell'aggressione: "Capodanno a Piazza San Marco con marito e figlio grande, mezzanotte e un minuto: un gruppo dietro di me canta 'Anna Frank sei finita nel forno', mi giro: 'Ragazzi basta!', si mettono a urlare: 'Duce, duce...' con mano alzata, si gira mio marito che prima non le aveva sentito cantare: 'Basta!!!!' e boum si prende botte in faccia da vari lati, poi si mette di mezzo un ragazzo per aiutarci e lo picchiano pure lui, visibilmente abituati al fatto, poi fuggono come dei vigliacchi che sono". Poi, sempre la moglie di Scotto, dopo l'aggressione sui social ha aggiunto: "Ora in un bar meraviglioso nel ghetto. Bella Venezia. Buon anno antifascista a tutti!". E su quanto accaduto è intervenuto anche l'ex presidente del Senato, Pietro Grasso: "Ho parlato con Arturo Scotto che mi ha raccontato dell'aggressione subita a Venezia. A lui, alla famiglia e al coraggioso ragazzo che ha provato a fermare i giovani fascisti va la mia solidarietà e un grande abbraccio". Vicinanza e solidarietà è stata mostrata anche dal ministro alla Sanità, Roberto Speranza di Leu: "Un abbraccio fraterno ad Arturo Scotto aggredito stanotte da un gruppo di balordi che inneggiavano al duce. So che nessuna violenza fermerà il tuo impegno per la libertà e la democrazia e contro ogni forma di fascismo". Infine anche il capogruppo di Leu, Federico Fornaro ha voluto mandare un messaggio a Scotto: "Quanto successo questa notte ad Arturo Scotto e la sua famiglia a Venezia, vittime di una vile aggressione di stampo fascista, è inaccettabile. I rigurgiti fascisti e antisemiti non possono essere tollerati. Lo sdoganamento verbale dell’odio e della violenza porta a fatti come questi. I responsabili vengano al più presto trovati. A nome del gruppo di LeU esprimo piena solidarietà ad Arturo Scotto e alla sua famiglia". Proprio Scotto sui social ha commentato così l'aggressione subita: "Bisogna smetterla di pensare che sono ragazzate - sottolinea - . Sono piccoli squadristi che si fanno forza nella logica del branco. Una cosa di cui preoccuparsi seriamente. Il fascismo è nato così, esattamente all'alba degli anni venti del secolo scorso". Infine anche dal vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, è arrivato un messaggio di solidarietà per Scotto: "Solidarietà e vicinanza al deputato di Leu, Arturo Scotto, per la grave aggressione subita ieri a Venezia. Un abbraccio a lui, alla sua famiglia e al giovane intervenuto per soccorrerlo".
Milano, agguato dei centri sociali ai pompieri: aggrediti e derubati. Il Secolo d'Italia mercoledì 1 gennaio 2020. Pompieri accerchiati, spintonati e derubati delle chiavi di un’autopompa perché intervenuti a spegnere un incendio acceso per “festeggiare”. È successo anche questo nella notte milanese di Capodanno, a Milano. Ad aggredire i pompieri, intorno all’una del primo gennaio, sono stati alcuni appartenenti a un centro sociale più volte al centro delle cronache, in via Gola, nella zona dei Navigli. I delinquenti rossi di via Gola hanno ammassato masserizie nel centro dell’incrocio con via Pichi, dando poi fuoco. Le fiamme si sono sviluppate in modo preoccupante, in altezza, producendo molto fumo. Tanto che i residenti hanno chiamato il 115. All’arrivo dei mezzi dei Vdf le persone hanno ostacolato i pompieri, accerchiandoli e spintonandoli. Inoltre, uno dei balordi si è introdotto nell’autobotte usata per gli idranti e l’ha spenta portando via le chiavi.
Sardone: “In certe zona comandano i centri sociali”. ”L’episodio di questa notte in via Gola, dove dei balordi hanno aggredito i Vigili del Fuoco intervenuti per spegnere un incendio, è davvero intollerabile e merita riflessioni approfondite. Non è la prima volta che a Capodanno c’è qualche delinquente che si diverte a ostacolare il lavoro dei pompieri dopo aver appiccato il fuoco a cataste di rifiuti. Non meraviglierebbe se dietro questo episodio ci sia la regia dei centri sociali che nella zona sono padroni incontrastati delle occupazioni abusive. Tutta la mia solidarietà ai Vigili del Fuoco, sempre impegnati in prima linea per garantire la sicurezza di tutti mettendo a rischio anche la propria vita”. Così Silvia Sardone, consigliere comunale ed europarlamentare della Lega. ”Ora però il Comune non può più far finta di nulla: via Gola non può essere un’enclave che si sottrae alla legge dello Stato italiano, perciò occorre riportare la legalità in questa zona difficile della città. Altrimenti il prossimo Capodanno saremo qui a raccontare la solita storia di violenza e delinquenza”. ”Duecentocinquanta uomini delle forze dell’ordine dispiegate in massa in centro, tra piazza Duomo e le vie limitrofe. Lo aveva chiesto il sindaco per tutelare lo svolgimento del concerto di Capodanno. Ma, in questo modo, il resto di Milano si è trovato sguarnito. Sala ha pensato alla sicurezza solo del centro. Di fatto lasciando soprattutto le periferie abbandonate, senza i sufficienti controlli. Controlli particolarmente necessari in zone così delicate in una notte difficile come quella di Capodanno. Per lo scoppio di botti e petardi sono rimasti feriti quattro ragazzini. Uno di loro ha addirittura perso la mano, e due bambini di 9 e 7 anni. Inoltre, due donne sono state aggredite in via Giacosa e in via Murat”. È il commento dell’ex vicesindaco di Milano e assessore regionale alla sicurezza Riccardo DeCorato alle notizie degli incidenti occorsi questa notte per lo scoppio incontrollato di botti e delle aggressioni sessuali ai danni di due donne.
Tutti condannano l’aggressione “fascista” a Venezia. È silenzio sui centri sociali a Milano. Ezio Miles mercoledì 1 gennaio 2019 su Il Secolo d'Italia. Quest’ultima notte di San Silvestro è stata la notte degli estremisti. Di colori opposti. Ma sempre estremisti. A Venezia, in piazza San Marco, un gruppo di giovanotti ha aggredito l’ex deputato di sinistra Arturo Scotto. L’ex parlamentare s’è preso tre pugni in faccia per aver redarguito il gruppo che gridava “Duce, Duce” e faceva il saluto romano. Immediata, corale e trasversale la condanna dell’episodio. Giustamente. A partire dalla condanna di Giorgia Meloni. Condannano dalla Boldrini (di sinistra) al sindaco di Venezia e al governatore del Veneto (di centrodestra). Nelle stesse ore, a Milano, accadeva un fatto non meno grave. In una via controllata da centri sociali, via Gola, sono stati aggrediti alcuni pompieri. Erano accorsi a spegnere l’incendio appiccato ad alcuni cassonetti dell’immondizia. Il fatto di Milano e il fatto di Venezia si assomigliano. In entrambi i casi c’è di mezzo una forma malata di euforia. E probabilmente c’è di mezzo anche l’alcol che scorre a fiumi a Capodanno. Però c’è anche una bella differenza. Se l’episodio di Venezia è diventato un caso politico nazionale, quello di Milano non è stato denunciato quasi da nessuno. A parte alcuni politici di centrodestra che conoscono la situazione in quella parte della città. Siamo alle solite. A quanto pare solo le gesta dei “neri” suscitano l’allarme democrazia. Agiscono ancora i riflessi pavloviani dei tempi andati. E dire che il fatto di Milano è, per certi versi, più grave di quello di Venezia. E ciò perché segnala il dominio “territoriale” dell’illegalità in una zona della metropoli. L’unico ad aver colto l’essenza del problema è Roberto Calderoli. “Solidarietà e vicinanza ad Arturo Scotto, per la grave aggressione subita a Venezia. Un abbraccio a lui, alla sua famiglia e al giovane intervenuto per soccorrerlo. Quanto accaduto è gravissimo e conferma l’inaccettabile clima di odio politico in cui sta sprofondando il Paese”. “Le continue minacce di morte a Salvini, le aggressioni da parte dei centri sociali e degli anarchici ai banchetti dei militanti leghisti in Emilia nelle scorse settimane e questa aggressione a Scotto confermano una deriva estremista, tanto a sinistra quanto a destra, sempre più pericolosa. Fermiamo tutti gli estremisti, neri o rossi che siano”.
"Vergogna, vattene via!". Salvini insultato alla festa della Befana. Il leader della Lega, arrivato alla festa organizzata dal Sindacato autonomo di polizia, è stato insultato da una coppia di bolognesi, che lo ha accusato di strumentalizzare i bambini: "Questa non è la festa di un politico". Lavinia Greci, Lunedì 06/01/2020 su Il Giornale. "L'Antoniano è un posto di inclusione. Ma cosa viene a fare qua? Ma va là...", "Vattene via", "Vergognati, vai a casa tua". E ancora: "Questa è la festa dei bambini. Lui è un politico, non è un bambino. Cialtrone". Lo scenario è quello di una festa come le altre, organizzata durante le vacanze di Natale, in occasione dell'Epifania, al Teatro Antoniano di Bologna. Ma fuori dal celebre auditorium, si è consumata un'altra contestazione contro il leader della Lega, Matteo Salvini, arrivato nel capoluogo emiliano in occasione della "Befana del Poliziotto".
La contestazione. Secondo quanto riportato da Repubblica, infatti, l'ex ministro dell'Interno, impegnato in un tour elettorale in tutte l'Emilia-Romagna, dove si voterà il prossimo 26 gennaio, in queste ore, sarebbe stato fischiato e insultato da alcuni passanti proprio al suo arrivo all'ingresso dell'Antoniano, che ospita in questa giornata la festa organizzata dal sindacato auotonomo di polizia Sap. Accusato di appropriarsi di un'occasione di festa per i più piccoli, a prendere le difese del leader leghista sono stati altri cittadini, che hanno risposto alle contestazioni: "La vergogna siete voi", "Stai zitto, idiota.Vai a casa di Prodi a chiedere i soldi".
Le critiche a Salvini. In particolare, i due contestatori, avrebbero insistito a prendersela con il leader leghista sottolineando il fatto che quello era un momento di festa tutto dedicato ai bambini: "È la festa della Befana per i più piccoli, non di un politico". E poi: "I bambini all'Antoniano, adesso, si strumentalizzano...Ma va là". La discussione è proseguita in strada tra chi non voleva Salvini e i suoi sostenitori. Già nella giornata di ieri, sui muri del teatro emiliano, erano comparse delle scritte contro l'organizzazione sindacale che, però, oggi erano già state cancellate.
"Non vedo l'ora di farmi processare". Intanto, il leader della Lega, rispondendo ai giornalisti in riferimento caso della nave Gregoretti, ha dichiarato: "Non vedo l'ora di farmi processare, con me processano gli italiani. Andranno contro la storia, vorrei guardare negli occhi i giudici mentre mi dicono che merito 15 anni di carcere". All'interno del teatro Antoniano, Salvini ha preso posto in prima fila e ha distribuito ai più piccoli le caramelle cadute dal sacco della Befana, scattando con i bambini anche diverse foto.
Le aggressioni. Intanto, nei giorni scorsi, durante le festività natalizie, si sarebbero registrate alcune aggressioni ai danni di gazebo della Lega a Ferrara. In base a quanto ricostruito, un gruppo di attivisti avrebbe minacciato al grido di "razzisti di m...." alcuni militanti, cittadini e volontari che firmavano le proprie candidature. E poi, sempre in questi giorni a Bologna, sarebbe comparsa la scritta "Salvini boia".
Minacce di morte choc a Salvini: "Pronta per te una pistola, coglione". Nuove minacce contro Matteo Salvini. Su Twitter, un hater si augura che un terrorista lo faccia fuori, quindi le parole choc: "Ti aspetto a Cesena, è pronta per te una pistola". Il leghista: "Non so se mi faccia più schifo o pena". Gianni Carotenuto, Lunedì 06/01/2020, su Il Giornale. Non bastano le scritte sui muri e le contestazioni di piazza. Ora ogni strumento è lecito per combattere Matteo Salvini e la Lega. Anche le minacce di morte. Il capo del Carroccio è stato nuovamente vittima dell'odio social. Non i soliti insulti, a cui l'ex ministro dell'Interno è ormai abituato, ma qualcosa di più. Che lo ha spinto a denunciare l'hater con un post pubblicato su Facebook. "Non so se questo signore mi fa più schifo o pena", il commento di Salvini al delirante - e pericoloso - messaggio di un utente che si augurava: "Spero che il primo vero terrorista ti faccia fuori", prima di aggiungere: "Ti aspetto a Cesena, ho pronta una pistola". A 20 giorni dalle elezioni regionali in Emilia-Romagna, che il centrodestra confida di strappare al centrosinistra, ogni strumento è lecito per conquistare qualche voto. Tra Pd e Leu da una parte, Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia dall'altra, si profila un testa a testa. I sondaggi non rassicurano il governatore dem uscente Stefano Bonaccini, tallonato dalla leghista Lucia Borgonzoni. Cresce la paura della sinistra emiliano-romagnola di dover cedere la guida della Regione agli odiati "fascisti". Dunque non sorprende più di tanto l'escalation di minacce contro Salvini e il centrodestra. Prima, a Ferrara, l'attacco "rosso" a un gazebo leghista. Poi le scritte "Salvini boia" e "Acab" comparse su un muro di Bologna. E proprio nella città delle due torri, a novembre, i centri sociali avevano organizzato un corteo di protesta contro il Carroccio. Che si era addirittura "permesso" di tenere un evento politico al Paladozza alla presenza di Salvini e Borgonzoni.
Minacce di morte "sgrammaticate" a Salvini. Altro che democrazia. Come testimonia l'ultima aggressione social al leader leghista. Su Twitter, in risposta a un post di Salvini, è comparso il messaggio di un utente dove si legge letteralmente: "Spero che il primo vero terrorista ti faccia fuori, così impari a dare aria hai denti, comunque ti aspetto a Cesena ce pronto un 7,57 magnum, fidati che farà centro...... coglione, pensaci bene noi non ti vogliamo in casa nostra......". Parole deliranti a cui il segretario del Carroccio ha risposto con il sorriso: "Non so se questo “signore” mi fa più schifo o più pena. Sicuramente non mi fa paura. P.s. Invece di sparare minacce e comprare fucili, acquista un vocabolario della Lingua Italiana!". In effetti, tra errori di grammatica e sintassi, l'hater di Salvini non ne ha azzeccata una. Dimostrando anche poca conoscenza delle armi, visto che la pistola "7,57 magnum" non esiste. Probabilmente questo "signore" sa sparare solo insulti. Per fortuna.
Sulla pasionaria No Tav si scatena lo sciocchezzaio rosso: “Per lei la legge non deve valere”. Penelope Corrado mercoledì 1 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Nicoletta Dosio la 73enne “No Tav” va in carcere. Ex docente di greco e latino presso un liceo della Val di Susa, sconterà la condanna per aver partecipato a una manifestazione nel 2012. La pensionata piemontese ha già accumulato dodici condanne per interruzione di pubblico servizio e violenza privata. Ed è diventata la paladina della sinistra. Tanto da aver scatenato le ironie del magazine Ofcs.report. Molto opportunamente, nel brillante articolo intitolato “Per i sinistri la legge non è uguale per tutti”, si osservano alcune contraddizioni della questione.
Sciocchezzaio rosso sulla prof No Tav. La prima contraddizione? “Sarebbe interessante sapere se l’ex professoressa, che rifiuta lo Stato, rifiuta anche di ricevere la pensione e la tredicesima e, quando era in servizio, rifiutava gli stipendi, i permessi, i congedi straordinari e via dicendo erogati da quello stesso Stato che aborrisce, quel che non si comprende, è cosa voglia visto che lei, senza costrizione da parte di nessuno, ha liberamente deciso di non fruire di benefici che l’Ordinamento le riconosce”. L’articolo evidenzia poi alcune allucinanti dichiarazioni di esponenti politici della sinistra. Roberto Morassut, sottosegretario al ministero dell’Ambiente ha detto: “Trovo sproporzionato l’arresto della No Tav Nicoletta Dosio. Credo che sia una misura sbagliata, senza senso, frutto di un meccanismo burocratico che prescinde dalla concretezza delle cose”. Replica l’articolista. “Forse qualcuno dovrebbe spiegargli che il concetto di proporzione riguardo alla misura dell’arresto non c’entra nulla, come non c’entra nessun meccanismo burocratico. Quello che Morassut ha così definito, si chiama Codice di procedura penale! Un arresto non è proporzionato o sproporzionato, ma semmai legale o illegale. E in casi come questo, e cioè in esecuzione pena, l’arresto è semplicemente un atto dovuto”.
De Magistris da pm ad avvocato della No Tav. Altra dichiarazione lunare, quella di Luigi de Magistris. La No Tav “Nicoletta meriterebbe una medaglia in un paese normale”. Il magazine evidenzia che l’attuale sindaco di Napoli, la laurea in giurisprudenza, ce l’ha e quindi l’esame di procedura penale, deve averlo sostenuto. Ma il dubbio a questo punto è che la procedura penale, a non pensar di peggio se la sia completamente dimenticata. Signor sindaco – conclude l’articolo – lei è stato magistrato. All’esame di procedura penale uno studente che dicesse quel che ha detto lei verrebbe più o meno gentilmente invitato a tornare un’altra volta”.
La tv canadese taglia il cameo di Trump in Mamma ho riperso l'aereo. Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 su Corriere.it. La tv canadese, la Canadian Broadcasting Company, ha tagliato dal film Mamma, ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York la scena in cui compare Donald Trump. Per i sostenitori del presidente americano e i conservatori è stata una mossa politica, una censura. Il figlio di Trump, Donald Trump Jr, l’ha definita «patetica». Cbc si è difesa dicendo di aver tagliato la scena nel 2014 quando ha acquistato il film e quando Trump era conosciuto come costruttore edilizio, non come presidente. «Come spesso accade per i film adattati per la televisioni, anche Mamma ho riperso l’aereo è stato rivisto. La scena con Trump è stata una di quelle che sono state tagliate», spiega Cbc. La ciliegina sulla faccenda l’ha messa, ovviamente su Twitter, Trump stesso: «Il film non sarà più lo stesso! (scherzo)», ha cinguettato. Nel film, il presidente compare per pochi secondi e dà delle indicazioni al piccolo Kevin McCallister, interpretato da Macaulay Culkin.
Lavinia Greci per ilgiornale.it il 27 dicembre 2019. Nel celebre film di Natale diretto da Chris Colombus, "Mamma ho perso l'aereo", il giovane protagonista Kevin McCallister, un bambino di dieci anni di Chicago, viene "dimenticato" a casa dai propri genitori in occasione di un viaggio di famiglia per festeggiare il Natale. Nel sequel del 1992, "Mamma ho riperso l'aereo", invece, per un scambio di persona il ragazzino sbaglia aereo e si ritrova catapultato a New York City, finendo al Plaza Hotel, il lussuoso albergo nel cuore di Manhattan. Ed è proprio lì che il piccolo Kevin chiede un'informazione a un Donald Trump molto più giovane che, all'epoca, era soltanto un imprenditore. Oggi, a distanza di 27 anni quella scena è stata tagliata.
Le polemiche per il taglio. Secondo quanto riportato da Repubblica, infatti, la tv canadese, la Canadian Broadcasting Company, ha eliminato la scena in cui Kevin McCallister chiede all'attuale presidente degli Stati Uniti indicazioni relative alla portineria dell'albergo. "In fondo al corridoio, a sinistra", rispondeva Trump, con un cappotto lungo e la cravatta rossa. Negli anni in cui il film è stato girato, il magnate americano era il proprietario del Plaza Hotel. Il gesto ha scatenato subito diverse polemiche, visto che il taglio di quella scena è stato considerato dai sostenitori del presidente americano e dai conservatori come una mossa politica contro di lui. Ad accorgersi dell'eliminazione di quella scena, numerosi utenti che, subito dopo la messa in onda del film in occasione delle festività, hanno commentato specialmente su Twitter la scelta di Cbc.
La difesa dell'emittente. Tra i più critici per la scelta di eliminare questa scena, divenuta iconica come l'intero film, c'è il presidente del capo della Casa Bianca, Donald Trump Jr, che ha definito "patetica" la decisione della tv canadese di togliere il padre dalla pellicola. Ma anche se la notizia è circolata in queste ore, il taglio risalirebbe al 2014. Almeno secondo la versione dell'emittente canadese. Cbc avrebbe precisato, infatti, di aver eliminato quella sequenza cinque anni fa, cioè al momento dell'acquisto del film e quando Trump era ancora noto come costruttore, uomo di spettacolo e non di certo come politico.
Il commento (scherzoso) di Trump. E anche Trump, in queste ore, ha voluto commentare sul suo account personale Twitter la scelta della televisione canadese, dicendo che senza quella scena "il film non sarà più lo stesso", specificando però il tono leggero e scherzoso della sua considerazione sul caso.
Le motivazioni. E dopo le polemiche, la tv canadese avrebbe spiegato le ragioni di quell'eliminazione, parlando di esigenze editoriali: "Come spesso accade per i film adattati per la televisione, anche 'Mamma ho riperso l'aereo' è stato rivisto. La scena con Trump è una di quelle che sono state tagliate". Quindi, a detta loro, nessun calcolo politico e soprattutto nessuna motivazione legata alla posizione ricoperta dall'ex tycoon, divenuto presidente nel 2016.
L’assurda polemica russofoba contro Boris Johnson. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 26 dicembre 2019. Alla sua festa c’era mezzo mondo politico britannico e tantissimi vip, ma poco importa: mettete vicino un politico conservatore – sovranista o moderato – accanto a una persona di nazionalità russa ed ecco che la polemica, nell’epoca della nuova Guerra Fredda, è servita. Parliamo naturalmente del “caso” sollevato dal progressista Guardian contro il premier Boris Johnson, colpevole di essersi presentato alla festa di compleanno dell’oligarca russo Aleksandr Lebedev nella sua lussuosissima villa londinese affacciata su Regent’s Park. Eppure, come nota anche Repubblica, fra i presenti figuravano l’ ex-premier David Cameron con la moglie Samantha, l’ ex-ministro del Tesoro conservatore George Osborne, l’ ex-braccio destro di Tony Blair e più volte ministro laburista Peter Mandelson, la principessa Eugenia, nipote della regina e figlia di Andrea, oltre a tanti vip, tra cui Mick Jagger, l’ attrice Rosamund Pike, la top model Lily Cole.
La polemica del Guardian contro Boris Johnson. Nonostante questa sfilza di vip – politici e non – per il Guardian la presenza di BoJo al party di Lebedev, business man e proprietario dell’Independent e dell’Evening Standard, è inopportuna. Il giornale progressista britannica monta dunque un’assurda polemica: “Durante la campagna – scrive il Guardian – Johnson si era ostinatamente rifiutato di pubblicare il rapporto sulla Russia, scritto dall’ultima commissione di intelligence e di sicurezza del parlamento. Il suo contenuto non è stato ancora rivelato. Ma esso intende esaminare l’estensione dell’influenza di Mosca sulla politica britannica – e il modo in cui l’élite russa ha istituito una potente lobby nel Regno Unito attraverso spese e reti sontuose”. Per il Guardian, inoltre, in Russia Lebedev non sarebbe abbastanza critico nei confronti di Vladimir Putin e del Cremlino. In realtà, osserva, “è in buoni rapporti con il Cremlino. Nel 2014 ha sostenuto pubblicamente l’annessione della Crimea, dove Lebedev possiede un complesso alberghiero nella località balneare di Alushta”. Ma i rapporti dell’oligarca con Putin e Mosca sono piuttosto controversi, tant’è che la banca nazionale di Lebedev a Mosca e il suo hotel in Crimea sono stati entrambi perquisiti l’anno scorso. Inoltre, Lebedev finanzia Novaya Gazeta, il principale quotidiano russo di opposizione a Putin. Come ricorda Forbes, la carriera politica di Lebedev non ha avuto tanto successo quanto la sua vita professionale: deputato del parlamento russo fino al 2007, ha cercato di lanciare un nuovo partito socialdemocratico con Mikhael Gorbachev, ma senza grandi risultati.
Bojo ancorato a Washington, non a Mosca. Aleksandr Lebedev è un imprenditore molto ricco e potente. Proprietario di due giornali nel Regno Unito, è naturalmente interessato a consolidare la sua influenza. I rapporti con il presidente russo Vladimir Putin, tuttavia, rimangono “freddi” ed è difficilmente parlare di una vera e propria “lobby russa” nel Regno Unito: ci sono altre oligarchi – come Roman Abramovich – ma ognuno pensa a coltivare i propri interessi e tornaconti personali più che agire da vera e propria lobby, tentando di influenzare la politica britannica per favorire politiche a favore di Mosca. Peraltro, Boris Johnson – anche da ministro degli esteri – non è mai stato tenero con Putin e con la Federazione Russa. Anzi. Nel 2018, per esempio, BoJo ha paragonato l’annessione della Crimea alle occupazioni di Adolf Hitler nella Seconda Guerra Mondiale e nello stesso anno ha dichiarato che è “assolutamente probabile” che l’ordine di usare l’agente nervino contro l’ex spia russa Sergei Skripal e sua figlia Yulia in territorio britannico, avvelenati in un centro commerciale di Salisbury, sia partito direttamente da Vladimir Putin. Tutto, dunque, si può dire che Johnson sia un estimatore di Putin e della Federazione Russa.
Da repubblica.it il 25 gennaio 2020. Il presidente americano Donald Trump annuncia su Twitter il nuovo logo della Us SPace Force ma scatena immediatamente le risate della Rete. A molti, infatti, non è sfuggita l'impressionante somiglianza tra il logo twittato da Trump e quello della serie Star Trek, nata nel 1966 ma ancora assai popolare in tutto il mondo. E dire che Trump aveva presentato il logo con malcelata soddisfazione: "Dopo essermi consultato con i nostri grandi leader militari, disegnatori e altri, sono felice di presentare il nuovo logo per la United States Space Force, la sesta branca delle nostre magnifiche forze armate!". Probabilmente, però, non si aspettava di scatenare le risate globali e, persino, l'accusa di plagio. Uno dei primi a intervenire è stato addirittura George Takei, uno degli attori della serie Star Trek: "Ci aspettiamo il pagamento dei diritti di autore" ha ironizzato su Twitter. Ma a seguire una cascata di commenti e meme che prendevano in giro la scelta del comandante in capo. Che sulla Us Space Force non è affatto fortunato, visto che qualche giorno fa, quando ha presentato le nuove divise dei cadetti del Corpo speciale, ha suscitato commenti sarcastici. La divisa, infatti, è una mimetica: "Come se nello Spazio ci si dovesse mimetizzare..." hanno scritto in tanti sui social. La Us Space Force è nata lo scorso mese quando Trump ha firmato il National Defence Authorization Act, il bilancio del Pentagono per l’anno fiscale 2020. Il presidente ha spiegato che il nuovo corpo delle Forze Armate avrà il compito di "proteggere gli interessi degli Stati Uniti nello Spazio". Parole altisonanti, anche se nella realtà i militari non faranno altro che svolgere compiti difensivi e soprattutto scientifici. Niente di avventuroso, alla Star Trek, appunto, malgrado il logo farebbe pensare il contrario. Nel frattempo la nuova serie "Star Trek", "Picard", è stata appena presentata in anteprima sul servizio streaming di CBS All Access.
Trump furioso con i Democrats ipocriti: “Mi devo costantemente difendere da loro”. Redazione de Il Secolo d'Italia giovedì 26 dicembre 2019. Donald Trump torna a prendersela con i Democratici che accusa di non fare niente e con il loro impeachment “truffa” e fasullo”. “Malgrado tutti i grandissimi successi che il nostro Paese ha avuto negli ultimi tre anni – ha scritto su Twitter – diventa molto più difficile trattare con i leader stranieri (e altri). Se sono costantemente costretto a difendermi dai Democratici che non fanno niente e dalla loro truffa di impeachment fasullo. Pessimo per gli Stati Uniti.”
Trump: impeachment fasullo. Trump attacca anche la dem Nancy Pelosi. Nel suo messaggio natalizio Trump ha chiesto agli americani di sforzarsi di “promuovere una cultura di più profonda comprensione e rispetto”, nell’osservanza “degli insegnamenti di Cristo”. Poi si è concentrato sull’assurda accusa di impeachment orchestrata da chi non accetta la sconfitta in un libero voto. Su Twitter ha scritto: “Perché la pazza Nancy Pelosi, solo perché ha una leggera maggioranza alla Camera, dovrebbe essere autorizzata a mettere sotto impeachment il presidente degli Stati Uniti?”. “Ha avuto zero voti Repubblicani, non c’è stato reato, la chiamata con l’Ucraina è stata perfetta, senza alcuna pressione”, ha scritto ancora Trump.
I democratici sono degli ipocriti. “Pelosi ha detto – ha proseguito in riferimento alle parole della speaker e al procedimento – che doveva essere bipartisan e travolgente e schiacciante Ma questo impeachment truffa non è stato nessuno dei due. Inoltre, molto iniquo, senza giusto processo, corretta rappresentazione, testimoni. Ora Pelosi chiede tutto ciò cui i Repubblicani non hanno avuto diritto alla Camera. I Dem vogliono guidare il Senato a maggioranza Repubblicana. Ipocriti!”. I tweet arrivano ad una settimana del voto alla Camera dei Rappresentanti che ha approvato la messa in stato di accusa di Trump per abuso di potere e ostruzione al Congresso. La presidente della Camera Pelosi ha poi deciso di rinviare la trasmissione al Senato della richiesta di impeachment, in modo da far pressione sui repubblicani per giungere ad un accordo sulle regole da adottare nel procedimento.
Repubblica ricomincia con l’odio e una rubrica per la caccia all’uomo. Intitolatela “Le Iene”. Francesco Storace martedì 26 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Chissà che effetto farà a Paolo Berizzi di Repubblica la foto qui sopra. Il giornalista, immortalato dal nostro fotomontaggio, provi ad immedesimarsi nei panni di Matteo Salvini, quando gli odiatori rossi gli dedicarono sulla rete il medesimo pensiero. O in quelli di Giorgia Meloni, anche lei a testa in giù centinaia di volte sui social. Ma Berizzi ha il torcicollo e non guarda a sinistra. Non ricordiamo la sua durissima condanna per quell’immagine del leader leghista. Perché l’odio deve riguardare solo la destra, pare una parola d’ordine ormai. Con la voglia di istigare le teste calde che sono ovunque. Perché ci ha fatto rabbrividire un suo tweet di ieri mattina, che annuncia da oggi su Repubblica una sua “rubrica quotidiana: si intitolerà #PiovonoPietre. Ogni giorno racconterò un episodio di razzismo, fascismo, nazismo, antisemitismo, bullismo politico, sessismo”. Aspettiamoci un minestrone di antifascismo e fakenews. Altro che commissione Segre. Ormai si scatenerà il ludibrio quotidiano. Guai a chi solleverà un braccio, a chi conserverà la bandiera del nonno, il cimelio che gli fu regalato. Arriva Berizzi, lo straordinario investigatore che andò a scoprire persino un pericoloso stabilimento balneare a Chioggia. La caccia è aperta. Ovviamente, una cosa del genere scatenerà l’emulazione, tra chi farà a gara per campeggiare su una rubrica giornalistica e chi invece a segnalare la camicia scura, -non-so-se-blu-notte-o-nera-dottore, del vicino di casa. Ci sarà anche un indirizzo mail per l’opportuna opera di spionaggio caciarone. Chissà se Berizzi si avvarrà anche della consulenza di Alessia Morani, l’attentissima storica di governo che spacciò persino la bandiera tricolore come una conquista della resistenza antifascista…Triste, molto triste, questa Repubblica delle Banane che la mattina andrà in edicola oppure online per una specie di caccia all’uomo. Già, perché qualunque comportamento – o affermazione – politicamente scorretto per loro è sinonimo di fascismo, razzismo, antisemitismo e pure sessismo. Come quelle uova lanciate all’atleta di colore in Piemonte. O il maestro che mise in castigo il bimbetto di colore a scuola. Gridarono alle forze oscure della reazione in agguato, quelli di Repubblica e non solo, salvo poi darsela a gambe levate quando si scoprì che il lanciatore di uova era figlio di un consigliere Pd e il maestro di Foligno un compagno…
La grancassa mattutina di Repubblica. Ormai il Pd resta con la testa al secolo scorso, come ripete in una cantilena stonata Nicola Zingaretti nel suo ridicolo parallelismo tra questi anni Venti in arrivo e quelli del Novecento. E Repubblica prepara la grancassa mattutina. Ma a Berizzi non capiterà mai di veder piovere pietre nel campo rosso, di fare una bella inchiesta sulle strade intitolate a Palmiro Togliatti – o quella dedicata a Stalingrado a Bologna… – tanto per spiegare che cosa deve cominciare a discendere dalla mozione approvata dal Parlamento Europeo sulle atrocità del comunismo. E sulle complicità che ne favorirono – o ci provarono – l’espansione. Quello di Repubblica è l’ennesimo tentativo di avvelenare la democrazia italiana. Lo stesso titolo della rubrica annunciata da Berizzi, “Piovono pietre”, è devastante, sobillatore, istigatore. Ne avverte il bisogno solo chi ha disperato bisogno di un clima sempiterno di guerra civile. Perché non sanno che cosa dire alla gente. Chissà come commenterebbero una nostra rubrica quotidiana – qui, sul Secolo d’Italia – sulle violenze dei migranti… La intitoliamo “Volano coltelli”? Oppure semplicemente “Oseghale”? Tra l’altro, a Repubblica hanno copiato il titolo da un’altra rubrica, curata da Alessandro Robecchi sul Fatto. Se vogliono un suggerimento per uno più confacente glielo forniamo volentieri: “Le Iene”.
Il cronista imbavagliato in stile Br, polemica sull'attacco a "Repubblica". Il fotomontaggio con Paolo Berizzi sul "Secolo d'Italia". Il fotomontaggio di Berizzi pubblicato sul “Secolo d’Italia”. L’Anpi: “Ignobile”. Il comunicato della direzione e del comitato di redazione. Alessandro Corica il 27 dicembre 2019 su La Repubblica. Il cronista di Repubblica imbavagliato, sullo sfondo di un manifesto rosso con la scritta "Brigate rosse". È l'ultimo attacco che il Secolo d'Italia, con un articolo a firma del suo direttore Francesco Storace, ha fatto al giornalista Paolo Berizzi e alla sua rubrica, "Pietre", pubblicata su Repubblica da fine novembre. Un appuntamento quotidiano in cui il giornalista - sotto scorta per il suo lavoro di inchiesta - evidenzia ogni giorno un episodio di antisemitismo, razzismo, xenofobia. Un appuntamento diventato quotidiano per i lettori di Repubblica. Ma che il Secolo d'Italia, voce della destra italiana, vorrebbe ribattezzare Le Iene. Imbavagliandone l'autore. "Ma chi viene dalla tradizione fascista usa sempre questi metodi intimidatori - attacca il Pd Emanuele Fiano - L'idea è che chi non la pensa come loro, debba avere la bocca chiusa. Intollerabile". L'immagine è stata pubblicata a fine novembre, in concomitanza con l'avvio della rubrica di Berizzi. Ma è solo negli ultimi giorni che, sui social, è scoppiata la polemica, con molti lettori che hanno voluto testimoniare la loro solidarietà a Repubblica e al suo inviato speciale: "Hanno sempre lo stesso chiodo, imbavagliare l'informazione libera", scrive Ruggero su Twitter. "Continueremo a combattere sempre contro il fascismo, l'indifferenza, l'omofobia, il male", aggiunge Rita. "No ai bavagli, la bocca deve essere tenuta bene aperta per denunciare ogni episodio che testimonia che ancora c'è chi vuole farci tornare in mente gli orrori del secolo scorso", ragiona il dem Fiano. Solidarietà anche dall'Anpi, attraverso il segretario provinciale di Milano: "È un attacco ignobile a chi ha denunciato il pericolo connesso al risorgere di movimenti neo fascisti e neonazisti - scandisce il presidente milanese dell'Associazione nazionale partigiani, Roberto Cenati - Questi attacchi rientrano in quel clima di insopportabile intolleranza dovuto al ritorno di ideologie razziste, antisemite e xenofobe in Italia e in Europa". Simile la posizione di Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana: "Non si può giocare con cose molto serie, come il neofascismo che continua a dimostrare vivacità. Abbiamo chiesto più volte che, in accordo alla Costituzione, fossero sciolte le diverse associazioni di questo stampo che ci sono nel Paese. Sarebbe ora di farlo".
Il comunicato della direzione, della redazione e del cdr. Ancora una volta Paolo Berizzi è stato insultato e minacciato. La direzione, il Cdr e la redazione di Repubblica gli sono vicini sapendo che Paolo non si lascerà di certo intimidire da chi non gradisce e anzi ha paura del suo lavoro.
Ironie social per la “lista nera” di Repubblica. Ma Berizzi fa la vittima: “Odio contro di me”. Viola Longo martedì 26 novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Solo due risultati ci si poteva aspettare da una rubrica che ha la pretesa di smascherare, stigmatizzare e infine contrastare l’odio: l’amplificazione dell’odio e la trasformazione in martire del suo estensore. Paolo Berizzi e Repubblica li hanno centrati entrambi in due soli giorni: quello dell’annuncio e quello della prima uscita. Appena pubblicata la notizia che sarebbe diventato titolare di “una rubrica contro l’odio”, ha scatenato su Twitter una ridda di oltre 300 commenti. “Ogni giorno racconterò un episodio di razzismo, fascismo, nazismo, antisemitismo, bullismo politico, sessismo. L’informazione come antidoto all’odio. Aspetto le vostre segnalazioni!”, ha cinguettato Berizzi, scatenando una ridda di oltre 300 commenti. A scorrerli rapidamente, per la verità, si trovano soprattutto ironie e segnalazioni di episodi d’odio profusi dalla sinistra contro esponenti di destra. Con le annesse richieste di chiarimenti se anche questi troveranno spazio nella rubrica. Lui però oggi, nella prima puntata di “Pietre”, la sua personalissima saga dell’odio, spiega che “senza nemmeno aspettare la prima uscita di questa rubrica, la macchina dell’odio ha iniziato ad attaccare“. E cita cinque delle “centinaia di messaggi social diretti a Repubblica e a me personalmente” nei quali gli viene detto che è “uno schifo”, che “speriamo che i sassi ti arrivino in testa” (anche nella versione “inizia a mettere il casco”), “siete carta straccia” e “merde come i vostri amici musulmani”.
Berizzi, Repubblica e la “Professione odio”. Ora, c’è da dire che Berizzi non sempre ha brillato nella sua carriera per la correttezza con cui ha riportato certe notizie, ma stavolta vogliamo credergli senza verificare. Intanto perché tutti sanno che i social spesso si trasformano in una fogna senza fondo e poi perché lo sforzo di mettersi a leggere tutti e 300 i commenti non vale la candela. Dunque, riconosciamo sulla fiducia a Berizzi e a Repubblica che è bastato l’annuncio per centrare il primo risultato, amplificare l’odio. E che gli è bastata una sola uscita per consolidare quel primo risultato e per ottenere un riscontro anche sul secondo. Detto ciò, ora che i “patetico” e i “bravo” sono stati parimenti conquistati, resterebbe sul tavolo la domanda sull’utilità residua di questa rubrica. Ma sul tavolo c’è anche Repubblica aperta sulla pagina di “Pietre”. E la risposta sta tutta là, nel titolo di oggi: “Professione odio”. Che anche Berizzi, in qualche modo, dovrà pur sbarcare il lunario.
Alessandra Corica per repubblica.it il 27 dicembre 2019. Il cronista di Repubblica imbavagliato, sullo sfondo di un manifesto rosso con la scritta "Brigate rosse". È l'ultimo attacco che il Secolo d'Italia, con un articolo a firma del suo direttore Francesco Storace, ha fatto al giornalista Paolo Berizzi e alla sua rubrica, "Pietre", pubblicata su Repubblica da fine novembre. Un appuntamento quotidiano in cui il giornalista - sotto scorta per il suo lavoro di inchiesta - evidenzia ogni giorno un episodio di antisemitismo, razzismo, xenofobia. Un appuntamento diventato quotidiano per i lettori di Repubblica. Ma che il Secolo d'Italia, voce della destra italiana, vorrebbe ribattezzare Le Iene. Imbavagliandone l'autore. "Ma chi viene dalla tradizione fascista usa sempre questi metodi intimidatori - attacca il Pd Emanuele Fiano - L'idea è che chi non la pensa come loro, debba avere la bocca chiusa. Intollerabile". L'immagine è stata pubblicata a fine novembre, in concomitanza con l'avvio della rubrica di Berizzi. Ma è solo negli ultimi giorni che, sui social, è scoppiata la polemica, con molti lettori che hanno voluto testimoniare la loro solidarietà a Repubblica e al suo inviato speciale: "Hanno sempre lo stesso chiodo, imbavagliare l'informazione libera", scrive Ruggero su Twitter. "Continueremo a combattere sempre contro il fascismo, l'indifferenza, l'omofobia, il male", aggiunge Rita. "No ai bavagli, la bocca deve essere tenuta bene aperta per denunciare ogni episodio che testimonia che ancora c'è chi vuole farci tornare in mente gli orrori del secolo scorso", ragiona il dem Fiano. Solidarietà anche dall'Anpi, attraverso il segretario provinciale di Milano: "È un attacco ignobile a chi ha denunciato il pericolo connesso al risorgere di movimenti neo fascisti e neonazisti - scandisce il presidente milanese dell'Associazione nazionale partigiani, Roberto Cenati - Questi attacchi rientrano in quel clima di insopportabile intolleranza dovuto al ritorno di ideologie razziste, antisemite e xenofobe in Italia e in Europa". Simile la posizione di Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana: "Non si può giocare con cose molto serie, come il neofascismo che continua a dimostrare vivacità. Abbiamo chiesto più volte che, in accordo alla Costituzione, fossero sciolte le diverse associazioni di questo stampo che ci sono nel Paese. Sarebbe ora di farlo".
Il comunicato della direzione, della redazione e del cdr. Ancora una volta Paolo Berizzi è stato insultato e minacciato. La direzione, il Cdr e la redazione di Repubblica gli sono vicini sapendo che Paolo non si lascerà di certo intimidire da chi non gradisce e anzi ha paura del suo lavoro.
Da secoloditalia.it il 27 dicembre 2019. Berizzi è il Verbo. Anche se dormono, quelli di Repubblica si svegliano. E un mese dopo si accorgono del pericoloso attacco alle libertà democratiche. In realtà gli è andato di traverso l’abbondante pranzo di Natale e hanno sofferto assai nei loro incubi popolati di fascisti. È così accade – come per Bella Ciao – che una mattina si solo alzati e hanno letto il Secolo d’Italia di un qualsiasi giorno di novembre. Orrore, c’era la foto di Paolo Berizzi, il loro acchiappaffantasmi di fiducia immortalato sotto il drappo delle Br come in ostaggio qualsiasi. Eravamo stati proprio noi a fabbricare quella fotografia in coincidenza con il suo annuncio di una rubrica quotidiana dedicata dall’organo delle Scalfariadi di seconda generazione – la prima il Maestro la dedicò al Duce – alle malefatte nere. Fantasia irrefrenabile. In tempi di esaltazione delle Sardine che predicano che non tutti hanno diritto ad essere ascoltati, Berizzi, l’Anpi, Fiano e Fratoianni – l’orchestra quasi al completo – si lamentano per un bavaglio e ululano: “Volete tappare la bocca a Berizzi”. Ora, a parte che converrebbe anche a lui dire e scrivere meno sciocchezze per fare migliore figura, basterebbe scorrere le immagini su google delle minacce a Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Chiedendosi contemporaneamente quando mai si solo levate le stesse grida di indignazione per lo stesso fotomontaggio dedicato ai leader sovranisti o le loro facce a testa in giù. Berizzi martire, ma sulle altre violenze verbali nulla…Macché, nessuno scrupolo, nessuna condanna, niente esecrazione. Berizzi, che conoscono solo i suoi fan con la bava alla bocca, è il martire della libertà conculcata dalle destre. Salvini e Meloni sono solo i capi delle loro comunità e quindi si possono mettere all’indice e qualcuno darà retta ai pazzi che fomentano odio. Ecco quello che Berizzi e i suoi cantori tacciono: la catena della violenza verbale – quando fortunatamente resta tale – parte da chi predica che non tutti hanno il diritto di parola. Il fotomontaggio del Secolo serve solo a capire come ci si sente a parti rovesciate. Un mese dopo si sono sentiti un brivido addosso. Ora tornate a poltrire.
Neofascismo, le sentenze che puniscono i saluti romani: "Simbolo di discriminazione e odio razziale". Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 su La Repubblica.it da Luca De Vito. Sono tre sentenze, due di appello e una di primo grado, che nel giro di un paio di mesi hanno ribaltato la linea del tribunale di Milano sulla rilevanza penale dei saluti romani. Se fino a oggi gli avvocati difensori avevano incassato diverse assoluzioni nei processi per le commemorazioni fasciste che sfociavano in saluti col braccio teso e chiamate al presente, adesso arrivano le condanne. Gli ultimi tre pronunciamenti, le cui motivazioni sono state depositate nei mesi del lockdown, si fondano sull'articolo 2 della legge Mancino e hanno riconosciuto in questo genere di manifestazioni comportamenti che diffondono "discriminazione e odio razziale". Cronaca Per i saluti romani al Monumentale ribaltata sentenza in appello, 11 condannati: "Rito aumenta rischio attrazione" Milano, saluto romano dei neofascisti al Campo 10: aggirato il divieto della prefettura del 25 Aprile Il primo caso riguarda un blitz avvenuto il 25 aprile 2016, quando circa 300 attivisti di Lealtà e Azione, associazione di estrema destra che al suo interno "vanta attivisti riconducibili al gruppo degli Hammerskinhead", avevano preso parte a una cerimonia al campo 10 del Cimitero Maggiore per la commemorazione dei caduti della Rsi. Il copione era il solito: sguardi fieri, saluti romani e chiamata al presente. Il tribunale di primo grado aveva assolto gli imputati "senza porsi il problema - scrive il collegio della quinta sezione della corte d'appello presieduto da Giovanna Ada Lucia Ichino - della sussistenza di tutti gli elementi integrativi della fattispecie generale di cui all'articolo 2 della legge Mancino che punisce chiunque in pubbliche riunioni compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimento o gruppi (...) che diffondono in qualsiasi modo idee, fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o incitano alla discriminazione, a commettere atti di violenza o di provocazione alla violenza nei confronti di persone perché appartenenti a un gruppo nazionale, etnico o razziale". Per la corte, che ha accolto il ricorso del pm Piero Basilone, "la cerimonia cui hanno preso parte gli imputati è durata circa 30 minuti, un tempo certamente rilevante ai fini della valutazione dell'impatto emotivo che può avere causato su chi era presente al cimitero, luogo aperto al pubblico. (...) evocando e diffondendo simboli di un regime che ha fatto della superiorità e dell'odio razziale ed etnico uno dei propri capisaldi". Quattro le condanne, pena di un mese e dieci giorni e a 220 euro di multa (oltre alle spese processuali). La seconda sentenza si è pronunciata sui fatti del 23 marzo 2017. Quel giorno una cinquantina di persone si erano ritrovate al Cimitero Monumentale per commemorare i "protomartiri della rivoluzione fascista". Uno dei partecipanti insieme a una donna, dopo aver parlato dei motivi dell'iniziativa e aver svolto la commemorazione "chiamava il presente" per tre volte. Gli altri manifestanti rispondevano per tre volte alla chiamata e una parte di loro la accompagnava più volte con il solito saluto romano. "Certamente non si è trattato di una manifestazione silenziosa - scrive in questo caso un altro collegio, sempre presieduto da Ichino - essendo stato effettuato un pubblico discorso con una pubblica chiamate del presente e pubbliche e gridate risposte, pubbliche gestualità, tipiche del disciolto partito fascista. (...) Nel momento e nelle circostanze in cui è stata effettuata, con l'esposizione di simboli, emblemi e richiami alla repubblica sociale italiana, quella manifestazione ha assunto un significato globale di adesione ai valori di quel regime: regime che ha collaborato intensamente con i militari tedeschi alla cattura e alla deportazione di ebrei e di persone discriminate per le loro idee politiche o per la loro etnia. L'antisemitismo è stato un tratto importante e drammatico della dottrina di regime della Rsi". In questo caso dieci le condanne, sempre con la stessa pena a un mese e dieci giorni più la multa. A far capire che l'orientamento è cambiato in corso di Porta Vittoria, anche il recente pronunciamento del tribunale di primo grado, sezione sesta, ovvero la stessa che negli ultimi anni aveva assolto. I fatti in questo caso risalgono al 22 aprile del 2018, giorno in cui una decina di militanti di estrema destra si erano riuniti per la commemorazione dei caduti della Rsi, sempre al campo 10 del Cimitero Maggiore. In questo caso il giudice Stefano Caramellino ha condannato due dei tre imputati, gli unici che si vedevano chiaramente fare il saluto romano nelle immagini registrate dalla Digos. Per loro la condanna è stata a 10 giorni e 120 euro di multa e a 15 giorni e 180 euro.
Saluto romano, le fake news di Repubblica per lanciare l’allarme eversione. Annamaria Gravino mercoledì 10 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia. La procura indaga per apologia di fascismo e manifestazione non autorizzata? Non basta. Per la commemorazione dei morti della Rsi avvenuta al cimitero Maggiore di Milano si dovrebbe indagare per reati di eversione. A suggerirlo, neanche troppo tra le righe, è Repubblica, con un articolo che parla di «deriva neonazista» e «prova muscolare» per «sfidare lo Stato».
Dal saluto romano alla tesi del pericolo eversivo. La tesi del pezzo è che la cerimonia per ricordare i morti della Rsi sia stata non un episodio legato a una specifica circostanza commemorativa e condizionato dai divieti che erano stati imposti per il 25 aprile, ma il segno di uno stabile «ricompattamento della galassia dell’ultradestra italiana», con un «obiettivo strategico»: «Offrire una rappresentazione plastica – visibilissima – dell’attuale compattezza del blocco nero». «Se si sta alle fotografie che i camerati hanno postato in rete emerge uno spaccato ancora più complesso di quello finito sul tavolo della Procura, che indaga per apologia di fascismo», si legge nelle prime righe del pezzo, pubblicato il 6 maggio a firma di Paolo Berizzi. Benché non si parli mai esplicitamente di eversione, è chiaro che tutto nella tesi costruita per l’articolo punta in quella direzione.
Costruire la trama nera. Per supportare questa tesi, però, il giornalista ha avuto bisogno di fare alcune forzature e una in particolare: presentare come centrale il ruolo di movimenti di carattere locale, che non avevano partecipato all’organizzazione della commemorazione, e assegnare loro un peso politico che non hanno neanche sulla scena milanese. I capi di questi movimenti vengono così piazzati in testa al corteo che ha percorso le vie del cimitero, indicati con tanto di descrizione della posizione e dell’abbigliamento. Anche se in quella posizione e con quell’abbigliamento c’è in realtà qualcun altro. La prima fila del corteo al cimitero era costituita esclusivamente da esponenti di CasaPound Italia e Lealtà Azione, i due movimenti che hanno organizzato la commemorazione. Ma che non erano funzionali alla tesi eversiva: sia CasaPound Italia sia Lealtà e Azione, da anni, partecipano alle elezioni con il proprio simbolo o con candidati indipendenti e hanno eletti nelle istituzioni. L’ipotesi che si tratti di movimenti che tramano contro la democrazia, insomma, non regge proprio.
Il precedente del bimbo che faceva il saluto romano. Certo, non si può escludere che collocare persone laddove non c’erano non sia una svista, un errore in buona fede o una disattenzione. Ma certo non è la prima volta che il cronista in questione e con lui Repubblica sollevano polveroni e allarmi sul pericolo fascista basandosi su fatti non verificati. Come quella volta in cui un suo “scoop” su un bambino di quattro anni che faceva il saluto romano all’asilo, senza che i genitori intervenissero, suscitò una indignazione generale a livello nazionale, salvo poi scoprire che si trattava di una bufala o, come usa dire adesso, di una fake news. Per quell’episodio Berizzi fu sanzionato dall’Ordine con un provvedimento di censura, per non aver convinto il collegio esaminante – si legge nel dispositivo – «di aver fatto tutto quanto è richiesto a un cronista diligente per verificare una notizia prima di pubblicarla».
Repubblica ordina la carica. Boldrini, Boschi e compagni contro il Secolo d’Italia. Francesco Storace sabato 28 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Un tempo c’era una pubblicità bellissima: Repubblica sveglia l’Italia. Adesso dormono, ronfano, e poi cascano dal letto. Si feriscono, e doloranti gridano al pericolo fascista. Eppure basterebbe un farmaco per sentirsi meglio. Preferiscono strillare per sentirsi utili. Il caso Berizzi è da studio della psiche. Ogni giorno questo giornalista di Repubblica fatica a cercare qualcosa da scrivere contro l’uomo nero ma al massimo trova un bagnino a Chioggia. Poi annuncia una rubrica antifascista, antisessista, antirazzista, antitutto, ma dimentica di commentare tutte le violenze, tutte le minacce. Imbocca solo le strade a senso unico. E si lamenta se glielo si fa notare. Repubblica è il giornale che esalta le sardine che negano il diritto di farsi ascoltare per chi sta a destra. In effetti, non ricordiamo indignazione del quotidiano preferito dai compagni di lotta e di governo, per la foto di Salvini rilanciata in migliaia di post bendato davanti ad una bandiera brigatista. Sapete quanto è “piaciuta” la Meloni a testa in giù? Il post di una compagna assessore ha avuto su Facebook quasi dodicimila “like”, quattromila commenti, dodicimila condivisioni. Ma contro questa fabbrica dell’odio non ha scritto Paolo Berizzi. E nessuno del suo giornale. Il 26 novembre, un mese fa, abbiamo pubblicato anche noi una foto come quella dedicata a Salvini ma col volto di Berizzi. Apriti cielo, se ne sono accorti un mese dopo, ieri. Ci hanno accusato di incitare all’odio, quelli che stanno zitti quando l’odio colpisce quelli che avversano. Persino la Boldrini tira fuori la parola “vergognoso” riferita al vostro direttore. Lo fa anche la Boschi con parole simili, poi si buttano a pesce la Federazione della stampa (ma si becca la ferma replica del comitato di redazione del Secolo d’Italia), la solita Anpi, Fiano e coso, come si chiama, Fratoianni.
Si sono svegliati trenta giorni dopo…Tutti si preoccupano che Berizzi non si faccia intimidire. In effetti, preferiremmo svegliarlo, visto che le notizie che lo riguardano dice di apprenderle dopo trenta giorni e suona l’allarme. Molto carina la Boschi: “In questo caso l’autore non è un militante della destra estrema, non i soliti razzisti e antisemiti che l’hanno minacciato in questi anni, ma il direttore di un giornale”. Orrore, vero? Quel direttore di giornale, cara Boschi, che l’ha tampinata per farle uscire una parola di bocca sul caso della sua deputata Occhionero, indagata a Palermo per un falso a favore del portaborse arrestato per mafia. Solo ora ritrova la parola, la capogruppo di Renzi. Eppure, sarebbe stato bello leggere qualcosa a proposito dell’articolo di allora e non della foto che lo corredava. Inutile speranza, perché questi signori non sanno mai che cosa rispondere nel merito. Lanciano le loro accuse e poi passano alla pratica successiva, perché la demonizzazione del nemico è il fondamento del loro modo di “ragionare”. Mi imbattei in giornalisti del genere tanti anni fa, era il 2005, ad una decina di giorni dalla fine delle regionali di quell’anno. Mi ritrovai mio padre – che era morto – sbattuto sulle colonne dell’Unità come torturatore di ebrei. Dalle date fu facile ribattere che nell’anno in cui si sarebbe dovuto cimentare in quelle azioni criminali egli avrebbe avuto dodici anni. Ovviamente era una montatura per la quale misero in mezzo un uomo anziano, appartenente alla comunità ebraica, per scagliarlo contro di me. L’Unità fu condannata a pagare.
P.s. Sono iscritto all’ordine dei Giornalisti da oltre trent’anni. Risparmiatevi prediche e bavagli rossi.
Il caso Berizzi e il pluralismo dell’informazione, comunicato del Cdr del Secolo d’Italia. Il Comitato di redazione venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. In merito alla polemica emersa solo oggi e relativa all’articolo del direttore del Secolo d’Italia Francesco Storace dello scorso 26 novembre, illustrato con un fotomontaggio in cui il collega Paolo Berizzi di Repubblica appare imbavagliato e con alle spalle la scritta Brigate Rosse, il comitato di redazione intende precisare quanto segue: è facilmente intuibile che la foto si inserisce all’interno di una provocazione giornalistica, tesa a rilevare che la rubrica dello stesso Berizzi critica legittimamente episodi di razzismo e discriminazione ma lo fa a senso unico, ignorando sistematicamente l’odio e il fango che si riversano sulla destra. La foto riproduceva lo stesso trattamento subìto dal sovranista Matteo Salvini (anche lui ritratto col bavaglio e la sigla delle Br sullo sfondo). Quello stesso Salvini che la sinistra indica come il principale istigatore dell’odio che purtroppo avvelena l’attuale dibattito politico. ricordiamo che la testata che con un mese di ritardo ha sollevato il caso è la stessa dalle cui colonne, lo scorso ottobre, la leader di Fratelli d’Italia veniva etichettata come “reginetta di coattonia” e le venivano attribuite frasi mai pronunciate sui “rom da stanare casa per casa”. In quel caso il Secolo d’Italia si limitò a ribattere con le asprezze che sono consuete quando si alzano i toni del dibattito. Non ricordiamo interventi del sindacato nazionale dei giornalisti a difesa della giornalista Meloni. Un comunicato della FNSI definisce la foto e l’articolo di cui stiamo parlando un “atto di squadrismo e di incitamento all’odio”. Un’accusa che respingiamo fermamente: mai la nostra testata sarà complice di quelle strumentalizzazioni che tendono a riportarci indietro ad anni plumbei, anni in cui il nostro giornale subì tra l’altro gravi attentati senza che mai venissero individuati i responsabili. E ciò mentre gli “eskimi in redazione” si divertivano a invocare una “democratica” caccia al nero. Conosciamo bene i guasti di quel periodo e mai saremo complici del suo ritorno. Infine, ci lascia perplessi il passaggio del comunicato della FNSI nel quale si accusa la nostra testata di “spacciare per libertà di opinione e dissenso politico atti che si collocano fuori dai confini della Costituzione, della legge e delle carte dei doveri del giornalista”. Chi decide infatti cosa è fuori e cosa è dentro la Costituzione? Chi decide quando il dissenso politico diventa censurabile? Chi decide i limiti della libertà d’opinione? Per questo ci sono normative ben precise dinanzi alle quali non dovrebbero contare le amicizie, il far parte del giornalismo mainstream o la vicinanza a testate autorevoli. Le quali, per inciso, percepiscono fondi pubblici per il pluralismo dell’informazione esattamente come noi, pur spacciandosi per quotidiani indipendenti e senza dichiarare ai propri lettori, come il Secolo onestamente fa, lo schieramento di appartenenza e di riferimento.
La grillina Taverna contro la Meloni: ma quale madre del popolo, quella è una che c’ha i soldi … Redazione venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. La grillina Paola Taverna è una delle protagoniste della sit-com Parlamento Cafè. Imitazione del format di successo Camera Cafè con il quale il M5S cerca di spiegare cosa c’è di buono in una manovra economica indigesta. Nasce così il breve video in cui Paola Taverna interloquisce con il sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento Gianluca Castaldi sottolineando le meravigliose elargizioni alle famiglie e alle madri che si troverebbero nella manovra. Castaldi la interpella dicendo: “E allora come mai non ha votato la manovra quella…come si chiama… la madre del popolo?”. Taverna ribatte: “Ma quale madre del popolo, semmai madre degli slogan, quella è una che i soldi ce l’ha. Ma che vuoi che ne sappia delle famiglie che non arrivano a fine mese… altrimenti questa manovra vedevi come la votava”. Un video imbarazzante, anche per la scarsa capacità di recitazione degli attori grillini. Un elemento che proprio il coautore della sit com originale, Luca Bizzarri, si è sentito in dovere di sottolineare: “Non sanno che Camera Cafè aveva una telecamera fissa, non sanno che era davanti a una macchinetta, non sanno recitare e – aggiunge – non sanno coniugare i verbi in italiano”. Una bocciatura senza appello dunque da parte di Bizzarri. Annota Filippo Facci: “La Meloni non si è laureata, la Taverna sì. La meloni si è subito buttata – e restata – in politica, dove è diventata la più giovane parlamentare della quindicesima legislatura, ministro a 31 anni e poi vicepresidente della camera. La Taverna, laureata, ha fatto per 13 anni la segretaria in un centro clinico, e poi è stata paracadutata in Parlamento grazie a – lui sì – uno coi soldi: Beppe Grillo… Entrambe, la Taverna e la meloni, sono sfottute per il romanismo di borgata. È l’unica cosa in cui la Taverna è superiore”.
Carica d'odio su Borgonzoni. È targata Pd e non indigna. "Cavallo di Caligola", "Non sa da che parte è girata....": da Sala e Cazzola mettono nel mirino la leghista. I rossi in silenzio. Angelo Scarano, Domenica 29/12/2019, su Il Giornale. Se gli insulti sono per la candidata della Lega alla presidenza della Regione Emilia Romagna a sinistra nessuno si indigna e nessuno prova a difenderla. Soprattutto se questi insulti arrivano dagli esponenti di quella sinistra che col Pd sta provando a difendere il fortino di Bonaccini. Già perché negli ultimi giorni gli attacchi a Lucia Borgonzoni si sono susseguiti con una intensità abbastanza preoccupante, soprattutto dal fronte rosso che grida allo scandalo quando da destra si alzano i toni. In ordine di tempo, il primo a mettere nel mirino la Borgonzoni è stato Cazzola di Leu(+Europa). Parole feroci che hanno messo in discussione le capacità politiche e amministrative della Borgonzoni: "È molto diversa dai grandi presidenti di Regione presentati dalla Lega. Salvini ha fatto un'offesa agli emiliano-romagnoli facendo senatore il suo cavallo come Caligola", ha affermato l'economista e capolista in Emilia-Romagna. Parole pungenti da cui si è dissociata anche Emma Bonino che ha bacchettato il suo capolista alle Regionali: "Non mi e' piaciuto - gli ha detto - se fosse stato un uomo non avresti citato Caligola". E la stessa Borgonzoni, come sottolinea l'Adnkronos aveva accettato le scuse della Bonino: "Grazie a Emma Bonino, che ha frenato gli insulti sessisti contro la sottoscritta del noto voltagabbana Giuliano Cazzola, ora candidato capolista pro-Bonaccini - ha ribattuto - Gli elettori sapranno riconoscere lo squallore di questo personaggio con il quale, evidentemente, Bonaccini si trova perfettamente a suo agio". Ma non finisce qui. Oggi è stato il turno di Beppe Sala: "La Borgonzoni non sa nemmeno da che parte è girata". E subito dopo, su Facebook, è arrivata la reazione della Borgonzoni: "Dopo Cazzola, oggi a sostegno del compagno di partito Bonaccini arriva il sindaco di Milano: 'La Borgonzoni? Non sa nemmeno da che parte è girata'. Fosse stato detto di una donna di sinistra, l'avrebbero già dichiarata martire. Io comunque ho le spalle larghe: agli insulti del Pd rispondo con il sorriso, l'impegno e la forza delle idee. E il 26 gennaio risponderanno gli emiliani e i romagnoli". Insomma l'odio dem si riversa sull'avversario. Forse qualcuno teme di perdere la poltrona il prossimo 26 gennaio e cerca di intimidire l'esponente della Lega con insulti e offese. Ma i leghisti fanno quadrato attorno alla Borgonzoni, da Salvini alla Stefani che difende la candidata alla presidenza alla Regione: "Il sindaco di Milano invece che parlare di fatti, di idee, di programmi per l'Emilia Romagna ha solo insultato la nostra candidata Lucia Borgonzoni. Una caduta di stile - spiega Stefani - che non lascia nulla all'immaginazione. Ha usato toni misogini, sessisti e violenti. Sappiamo bene che se gli insulti arrivano da sinistra il mainstream non ne parla, sembra infatti che gli insulti del Pd non facciano male alle donne. Oggi - conclude - Beppe Sala non solo deve chiedere scusa a Lucia, donna forte, coraggiosa e preparata ma si deve anche vergognare".
Jasmine Cristallo contro Matteo Salvini: “Abominevole”. Antonella Ferrari il 23/12/2019 su Notizie.it. La coordinatrice delle sardine calabresi, Jasmine Cristallo, è stata ospite della puntata di Otto e Mezzo con Lilli Gruber e non ha perso occasione di attaccare l’ex ministro Matteo Salvini proprio per il suo operato al Viminale: “Abominevole” lo ha definito riferendosi alla vicenda della nave Gregoretti. Il leader del Carroccio, però, non ha perso tempo e ha ripostato il video dell’intervento televisivo: “Le sardine escono allo scoperto“. Gli utenti social si sono quindi nettamente divisi tra chi prende le difese della Cristallo e chi invece sta dalla parte di Salvini. Il video ripostato da Matteo Salvini è stato sì una risposta all’attacco subito ma anche l’occasione per riaccendere la polemica. La provocazione è stata infatti colta dalla Cristallo che è subito tornata all’attacco: “Da oggi ho una ragione in più per non arretrare di un passo – ha scritto la sardina – e difendere il mio diritto al dissenso, a battermi per un mondo civile in cui le donne non vengano brutalizzate. Lo devo alle donne, a mia figlia e anche alla sua” ha detto facendo riferimento a Matteo Salvini. “Racconterà a sua figlia che espone foto di donne solo per farle dileggiare e violentemente aggredire con frasi e aggettivi raccapriccianti?“.
Il riferimento alla figlia di Salvini. L’attacco di Jasmine Cristallo è quindi proseguito con riferimento espliciti al ruolo di padre del leader leghista: “Pensa a come si sentirebbe se fosse sua figlia ad essere vittima di quella stessa violenza che infligge ad altre donne? Posso per ora raccontarle come ha reagito la mia di figlia, che ha 19 anni e ha commesso la sciocchezza di leggere i commenti a me destinati dai suoi campioni di civiltà: tremava“. “Non mi aspetto delle risposte – ha concluso rivolgendosi direttamente a Salvini -, ma sappia che da oggi ho una ragione in più per non arretrare di un passo“.
La "sardina" Jasmine Cristallo scrive a Salvini: "Mi batto anche per sua figlia". Jasmine Cristallo durante la trasmissione di Lilli Gruber Otto e mezzo. La coordinatrice del movimento calabrese, già vittima di pesanti attacchi sui social, si rivolge al leader della Lega, che ieri sulla sua pagina Facebook ha postato un intervento dell'attivista in tv a cui sono seguiti una lunga serie di commenti. La Repubblica il 22 dicembre 2019. "Da oggi ho una ragione in più per non arretrare di un passo e difendere il mio diritto al dissenso, a battermi per un mondo civile, in cui le donne non vengano brutalizzate. Lo devo alle donne, a mia figlia ed anche alla sua". Jasmine Cristallo, coordinatrice di '6000 Sardine' in Calabria e attivista del movimento, militante della sinistra ma senza una tessera di partito, promotrice della 'rivolta dei balconi' di Catanzaro e da sempre impegnata nel volontariato, lo ha scritto in un messaggio in cui si rivolge al leader leghista Matteo Salvini, che ieri sulla sua pagina Facebook ha postato un link all'intervento della leader delle Sardine calabresi a Otto e mezzo. Un post a cui sono seguiti una lunga serie di commenti. "Racconterà a sua figlia - ha chiesto Jasmine - che espone foto di donne solo per farle dileggiare e violentemente aggredire con frasi e aggettivi raccapriccianti?". "Quando teneramente le mette lo smalto o assiste alle recite natalizie, ci pensa - ha aggiunto - a come si sentirebbe se fosse sua figlia vittima di quella stessa violenza che infligge ad altre donne? Posso per ora raccontarle come ha reagito la mia di figlia, che ha 19 anni ed ha commesso la sciocchezza di leggere i commenti a me destinati dai suoi campioni di civiltà: tremava". "Le ho spiegato che certe battaglie passano anche attraverso queste prove certamente non gratificanti, ma - ha sottolineato -che meritano, comunque, di essere condotte con tenacia e convinzione". "Quanto a lei, Salvini - è la conclusione -, non mi aspetto delle risposte ma sappia che da oggi ho una ragione in più per non arretrare di un passo e difendere il mio diritto al dissenso, a battermi per un mondo civile, in cui le donne non vengano brutalizzate. Lo devo alle donne, a mia figlia ed anche alla sua". Cristallo è stata vittima di pesanti attacchi sui social anche dopo la sua partecipazione, alcuni giorni fa, alla trasmissione tv Stasera Italia su Rete 4. Tra i post anche uno dai toni minacciosi contro il quale l'attivista calabrese ha annunciato di voler sporgere denuncia. "Jasmine- recitava il messaggio minatorio - con tutto il rispetto, attenzione di non pestare troppo la coda del cane che dorme, perché quando si sveglia è pericoloso. Tu hai un figlia, non vorrei che passi una storia come quella di Bibbiano visto che sostenete la sinistra".
Le Sardine a Salvini: "Nibras è italiana. Da due settimane la minacciano: creare un clima di odio non è cristiano". Lorenzo Donnoli, portavoce del movimento scrive al leader leghista. "Non faccia il furbo, senatore, lo sa bene cosa significa pubblicare sulla sua pagina la mia faccia e quella di Nibras: lo ha già fatto a Mattia, a Jasmine e a troppe donne. Significa dare un grosso contributo a mettere in pericolo la tranquillità e la libertà delle persone che non la pensano come lei". La Repubblica il 28 dicembre 2019. Le Sardine scrivono a Matteo Salvini per difendere Nibras Asfa, la ragazza palestinese che ha parlato dal palco di San Giovanni, durante la manifestazione romana del movimento. L'ex ministro dell'Interno le ha dedicato un post, dove si usava il termine "asfaltata", che ha scatenato la fantasia di migliaia di sostenitori. "Creare un clima sociale in cui una donna non si sente libera, non è cristiano. Nibras è italiana, e da due settimane riceve minacce indicibili con numeri da record, così, per divertirsi, che lei le ha stimolato e fomentato. cristiani amano ed aiutano il prossimo, utilizzano comprensione e l’altra guancia, i cristiani che vivono davvero la fede", scrive allora Lorenzo Donnoli a Salvini. "Per ora le uniche cose che ha asfaltato, senatore Salvini, le ricordo essere: i diritti degli operai, sempre meno tutelati per colpa delle sue leggi; la possibilità di riutilizzare i beni confiscati alle mafie, che ora se li ricomprano allegramente, e che dovrebbero tornare alla comunità; il sorriso di milioni di donne e di uomini che hanno il difetto di non condividere con lei sesso, orientamento religioso, sessuale o politico e che affrontano, ogni giorno, violenze verbali e fisiche in costante aumento. Ha asfaltato anche la possibilità di avere un confronto libero, privo di insulti e parole che richiamino all’aggressività", dice nella sua lettera Donnoli. "Lei si è fatto eleggere al Senato della Repubblica coi voti dei cittadini calabresi. Cittadini che l’hanno votata sperando che il candidato premier potesse usare il suo potere e il suo spazio per parlare ogni giorno di nuovi strumenti per la lotta alla ‘Ndrangheta e alle mafie tutte, di malasanità, di lavoro e infrastrutture che mancano in una terra bellissima da cui si può semmai fuggire come unica alternativa", continua il portavoce. "Invece lei passava il suo tempo (quaaaanto tempo) a raccontar fandonie, ad approfittare della naturale ignoranza di un popolo disilluso, deluso e ormai distratto. Perché raccontare bugie a chi le dà fiducia ed ascolto? Perché prendere in giro gli italiani? Può dirsi cristiano colui che sceglie, con una platea di milioni di seguaci, di esporre alla gogna mediatica chi la pensa diversamente? Addirittura una ragazza che leggeva l’articolo 3 della nostra Costituzione ed il ragazzo autistico che l’ha invitata sul palco di Roma?", chiede Donnoli. "Non faccia il furbo, senatore, lo sa bene cosa significa pubblicare sulla sua pagina la mia faccia e quella di Nibras: lo ha già fatto a Mattia, a Jasmine e a troppe donne. Si dovrebbe rileggere la risposta di Jasmine. Significa dare un grosso contributo a mettere in pericolo la tranquillità e la libertà delle persone che non la pensano come lei", ricorda il portavoce delle Sardine. "Legga i commenti pubblici dei suoi fan sotto ai suoi post, sono già una rappresentazione sufficiente, seppur parziale, degli insulti che una cittadina italiana ed il ragazzo al suo fianco (autistico) stanno subendo. E sì, da fastidio chi si definisce cristiano e pensa ad aumentare le armi in circolazione invece che fermare la strage di donne ammazzate da uomini violenti e la strage di lavoratori che muoiono sul posto di lavoro: questa è l’Italia, appurato che cristianità e sicurezza sono parole che non fanno parte realmente del suo vocabolario, cosa rimane? Temo solo qualche parola violenta uscita come un rigurgito, particolarmente disgustoso, dopo 49 milioni di bicchieri di vodka", conclude Donnoli.
La faccia tosta delle sardine: ora vogliono le scuse da Salvini. Gli hanno dato dello "stupido ignorante" e hanno detto che i leghisti "fanno pena". E ora piangono per chi ricambia con altre offese. Sergio Rame, Sabato 28/12/2019, su Il Giornale. Quando aveva calcato il palco di piazza San Giovanni due settimane fa, Nibras Asfa, la sardina palestinese di 25 anni che si è vantata di essere musulmana e ha ostentato con fierezza lo hijab che indossa, non ha misurato le parole per parlare di Matteo Salvini. Ha usato toni durissimi e si è pure prodigata in insulti pesanti. Come si può vedere in un video video pubblicato dal Giornale.it (guarda qui), lo ha definito "stupido e ignorante". Poi, parlando degli italiani che votano la Lega, ha detto di "provar pena" per loro. Un attacco pesantissimo che è stato salutato dagli scroscianti applausi delle sardine che erano accorse a Roma per celebrare l'anti Salvini day, ma che sui social ha scatenato una selva di proteste e di durissime reazioni. Tanto che adesso Lorenzo Donnoli, uno dei volti del movimento nato a Bologna, prova a rigirare la frittata incolpando il leader del Carroccio per chi si è schierato, anche con violente espressioni verbali, contro Nibras. In un cortocircuito senza precedenti, Donnoli ha scritto oggi una lettera all'insultato (Salvini) per chiedergli di difendere quella che lo ha insultato (la Nibras). "Creare un clima sociale in cui una donna non si sente libera, non è cristiano", si legge nella missiva destinata all'ex ministro dell'Interno e il cui contenuto è stato interamente pubblicato dall'agenzia Adnkronos. "Nibras è italiana, e da due settimane riceve minacce indicibili con numeri da record, così, per divertirsi, che lei ha stimolato e fomentato". Peccato che la prima ad aver alzato i toni era stata proprio la sardina, prima facendo il verso alla leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni ("Sono una donna, sono musulmana, sono figlia di palestinesi"), poi insultando il leghista. "È un ignorante perché non conosce la Costituzione", ha gridato dopo aver letto uno degli articoli della Carta dal palco della manifestazione. "I suoi elettori mi fanno pena - ha quindi incalzato - lui è stupido e cerca di convincere queste persone facendo leva sulle loro paure e preoccupazioni, che sono anche le nostre". Infine, rivolgendosi direttamente ai leghisti, ha lanciato le ultime offese: "Mi fate pena, spero che un giorno vi svegliate". Ovviamente tutte queste ingiurie non potevano passare sotto traccia. E, mentre Salvini si è limitato a risponderle ribadendo quello in cui crede ("Io sono Matteo, sono cristiano, sono figlio di mia mamma che si chiama Silvana e di mio papà che si chiama Ettore, spero di non dare fastidio a nessuno perché nel mio Paese il cristianesimo è una tradizione"), molte persone che si sono sentite chiamate in causa dal suo attacco, le hanno risposto per le rime, molti anche duramente. Ora le sardine chiedono allo stesso leader leghista di usare comprensione e di porgere l'altra guancia. "I cristiani amano ed aiutano il prossimo", ha scritto Donnoli in un lungo post su Facebook in cui ha accusato l'ex ministro dell'Interno di aver "asfaltato i diritti degli operai, sempre meno tutelati per colpa delle sue leggi, (...) il sorriso di milioni di donne e di uomini che hanno il difetto di non condividere con lei sesso, orientamento religioso, sessuale o politico e che affrontano, ogni giorno, violenze verbali e fisiche in costante aumento" e "la possibilità di avere un confronto libero, privo di insulti e parole che richiamino all'aggressività". Il post di Donnoli non fa altro che capovolgere la realtà. "Può dirsi cristiano colui che sceglie, con una platea di milioni di seguaci, di esporre alla gogna mediatica chi la pensa diversamente?", si è chiesto la sardina rinfacciandogli di aver pubblicato sulla sua pagina Facebook, oltre alla sua faccia e a quella di Nibras, di aver condiviso quelle di "Mattia, a Jasmine e troppe donne". Jasmine, per la cronaca, è Jasmine Cristallo, l'attivista che non più di una settimana fa ha accusato il leader del Carroccio di fiancheggiare chi inneggia allo stupro: "Caro Salvini, le chiedo se ha intenzione di raccontare a sua figlia che sulla sua pagina Facebook permette a legioni di frustrati di sfogare pulsioni sessuali represse". E ancora: "Lo saprà sua figlia che consente ai suoi sostenitori di inneggiare allo stupro di gruppo per punire una donna che semplicemente non la pensa come lei?". Per le sardine questo attacco, che tra l'altra chiama pure in causa la figlia del leghista, è lecito. "Si dovrebbe rileggere la risposta di Jasmine - ha addirittura scritto Donnoli oggi - significa dare un grosso contributo a mettere in pericolo la tranquillità e la libertà delle persone che non la pensano come lei".
In conclusione Donnoli ha invitato Salvini ad andarsi a leggere i commenti che i suoi follower lasciato sotto i post pubblicati. "Sono già una rappresentazione sufficiente, seppur parziale, degli insulti che una cittadina italiana ed il ragazzo al suo fianco (autistico) stanno subendo. Questa è l'Italia, appurato che cristianità e sicurezza sono parole che non fanno parte realmente del suo vocabolario, cosa rimane? Temo solo qualche parola violenta uscita come un rigurgito, particolarmente disgustoso, dopo 49 milioni di bicchieri di vodka", ha quindi concluso dimenticando che a scatenare tutto questo odio sono stati proprio loro, sia urlando insulti dal palco di piazza San Giovanni sia esponendo in corteo i manifesti con il leader leghista impiccato.
"Karma infallibile...". Le sardine si accaniscono su Buonanno: "Vergogna italiana". Bufera dopo il post choc di Capodanno su Buonanno. Salvini: "Vergogna". Ma la leader delle sardine milanesi: "Esiste il karma e presenta il conto". Giuseppe De Lorenzo, Sabato 04/01/2020, su Il Giornale. Non c’è pace per Gianluca Buonanno. A tre anni dal tragico incidente che ha ucciso l’ex eurodeputato della Lega, sono le sardine ad accanirsi sul ricordo del vulcanico esponente del Carroccio. Doveva essere il movimento del rispetto, quello che si oppone "ad uno dei partiti maggiormente responsabili della politica d’odio e aggressiva" diffusa ne Belpaese (la Lega). Quelli che - manifesto dixit - amano "la non violenza fisica e verbale", ma poi si scordano di applicare i propri principi quando si parla di un avversario non più in grado di difendersi. A dicembre, in piazza San Giovanni a Roma, il capo sardina Mattia Santori declamò il debole programma delle sardine, abili nel riempire le piazze e un po' meno nel produrre proposte concrete. Il penultimo punto era chiaro: le sardine pretendono che "la violenza venga esclusa dai toni della politica in ogni sua forma" e che "la violenza verbale venga equiparata alla violenza fisica". Tenete bene a mente queste frasi e proviamo a ragionare su quanto sta accadendo in queste ore. La notte di Capodanno una variopinta sardina, Giulia Bodo, ha augurato “Buonanno” ai leghisti in rete, condividendo uno scatto dell'ex sindaco di Borgosesia. Con la scusa dei festeggiamenti per il 2020, ha tirato in mezzo un politico scomparso a soli 50 anni in un evento tragico. La ragazza è un'attivista gay, sorella di Federico Bodo (coordinatore di +Europa Vercelli). Compare come "prima responsabile" del gruppo AfricArcigay che riunisce migranti Lgbt. Alla manifestazione delle sardine di Vercelli è pure salita sul palco. Ed è entusiasta delle "piazze piene contro l’odio". Ecco: l’odio. Anche Facebook considera quel post su Buonanno un contenuto che esprime "crudeltà e insensibilità", ma lei non ha fatto passi indietro. Anzi. Di fronte alle critiche della Lega locale e della sorella di Buonanno, la presidente dell’Arcigay Rainbow Vercelli-Valsesia ha replicato colpo su colpo: "Dal mio punto di vista - ha scritto - chi è merda da vivo, da morto rimane tale. Si chiama coerenza”. Dopo l'articolo del Giornale.it, Matteo Salvini si è scagliato contro la sardina dai capelli blu, invitandola a vergognarsi: "Non riscrivo nemmeno le parole - il duro post - provo solo schifo". Anche Roberto Calderoli è pronto ad andare fino in fondo, portando Giulia Bodo in tribunale. Lei ovviamente s'appunta la medaglia al bavero, denuncia lo "shitstorm" scatenato dai supporter del Capitano e si paragona a Boldrini, Rackete, Greta Thunberg e Cecile Kyenge, tutte presunte "vittime" del profilo Fb del leader del Carroccio. Direte: è solo un pesciolino nero. Un caso isolato. Non esattamente. L’uscita della Bodo e la replica di Salvini hanno provocato un certo dibattito in rete. Andrea Basso, esponente della segreteria provinciale Pd a Biella e candidato dem al Consiglio comunale, ha espresso la sua solidarietà alla sardina arcobaleno, "additata" dall’ex ministro "come nemica per il furore della sua claque". Nei commenti, è scattato un botta e risposta con Giacomo Moscarola, vicesindaco biellese del Carroccio. Nel confronto s'è inserita anche Debora Del Muro, promotrice e volto della manifestazione milanese delle sardine. Agente immobiliare, 41 anni e un figlio, la Del Muro è stata tra gli ideatori della campagna "È tutta colpa di Pisapia". Ex tesserata Pd, apprezza Zingaretti, ha appoggiato la candidatura di Pierfrancesco Majorino alle Europee. Su Facebook riguardo Buonanno scrive: "Un morto che da vivo ha fatto e detto tante cose gravi, schifose e imperdonabili. Non è che se muori, poi diventi santo". Qualche sardina dovrebbe forse andare a rivedersi i principi declamati dal movimento, soprattutto sulla "politica dell’odio e dell’aggressività". Santori&co non vanno nei programmi di Rete4 perché "creati ad hoc per fornire ai propri telespettatori un dibattito sterile, parziale e demagogico". Poi però non si scandalizzano se una delle loro autorevoli esponenti ritiene "il karma infallibile" nel caso di Buonanno. "Era una vergogna italiana - dice Del Muro - Un parlamentare, un uomo, un padre! Che festeggiava per i morti in mare e voleva annegare i gommoni". Ecco: per la sardina milanese "esiste il karma" e "presenta il conto". Magari uccidendoti a 50 anni in un incidente stradale. Sia chiaro: la critica è legittima. Ma tirare fuori il karma quando c'è di mezzo un defunto, ci pare un colpo basso. Scorretto. I pesciolini nostrani volevano escludere la pochezza dai toni della politica "in ogni sua forma". Tranne, forse, che in quella delle sardine.
"Vivo o morto, Buonanno morto". Lo sfregio della sardina al leghista scomparso. Il post dell'attivista Lgbt: l'augurio di "Buonanno" sui social con la foto dell'ex leghista morto in un incidente stradale. La Lega: "Indecoroso". Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 03/01/2020, su Il Giornale. D’Annunzio diceva che il privilegio dei morti è quello di non morire mai più. Non solo fisicamente. Spesso, se si è più o meno famosi, il ricordo supera l'oblio. O almeno lo evita. In vita restano adulatori, parenti e detrattori. I primi due conservano l’eredità del defunto, gli ultimi la criticano. Ira Calderoli: "La porto in tribunale". Ma tutti sanno che la morte pone un limite che non dovrebbe essere oltrepassato. Di solito, insomma, il decesso di un politico abbassa i toni dello scontro. Di solito, ma non in questo caso. La notte di Capodanno, infatti, su Facebook è apparsa una foto di Gianluca Buonanno, il leghista morto in un incidente stradale, accompagnata da una scritta provocatoria: "Auguro Buonanno ai leghisti e un meraviglioso 2020 antifascista, antirazzista e arcobaleno a tutti gli altri". A firmare il post è Giulia Bodo, su Fb "Giulia Bridget Bodo": sorella di Federico, coordinatore di +Europa Vercelli, è presidente dell’Arcigay Rainbow Vercelli Valsesia e “prima responsabile” del gruppo AfricArcigay, che riunisce richiedenti asilo Lgbt presenti sul territorio. Le sue frasi sono il classico dito infilato in una ferita ancora aperta. I giovani leghisti parlano di "cattiveria mascherata da umanità", di "accanimento canzonatorio" inaccettabile e ingiustificabile. E anche la sorella di Buonanno, vicesindaco a Borgosesia, risponde per le rime su Facebook. In tempi di battaglie politiche contro la violenza in rete, viene da chiedersi se ironizzare su un uomo morto in un drammatico incidente stradale sia hate speech oppure no. Giulia Bodo si definisce “sardina” e a inizio dicembre invitava “tutti” a scendere in piazza dalla parte di chi "combatte l’odio". Alla manifestazione vercellese dei pesciolini è pure salita sul palco, microfono in una mano e sardina nell’altra. Eppure, per lei giocare sul prematuro decesso di un politico, per quanto di fazione avversa, a quanto pare è normale. Sia chiaro: la critica intelligente, anche contro chi non c'è più, è lecita. Ovviamente. Ma buttarla in boutade è tutta un'altra cosa. Soprattutto se le sardine, nel loro manifesto, accusano i populisti di aver "spinto i vostri fedeli seguaci a insultare e distruggere la vita delle persone sulla rete". Non è la prima volta che l'attivista finisce nella polemica. "Durante il ballottaggio per le Comunali di Vercelli mi augurò di morire come Buonanno”, ricorda Paolo Tiramani, deputato della Lega. L'augurio di Capodanno, aggiunge, "è una cosa indecorosa che si ripete ogni anno. Chi lo scrive deve avere qualche disturbo. Al di là del colore politico, i morti si lasciano in pace”. Dopo le polemiche per il post (che anche il social di Zuckerberg ha nascosto perché "presenta contenuti che esprimono crudeltà e insensibilità"), la Bodo ha deciso di calcare la mano. Il primo gennaio ha pubblicato un collage di immagini di Buonanno, spiegando che "dal mio punto di vista chi è merda da vivo, da morto rimane tale". Offensivo? Non per lei, che la chiama "coerenza" e invita i detrattori ad andare "a fare la morale da un’altra parte". Per rimarcare la tesi, infine, condivide una discutibile vignetta (in teoria) satirica apparsa sulla pagina Paper Memas, che ritrae l’ex sindaco di Borgosesia e riporta l'invito di "Nonno Bassotto" a ricordarsi di "guidare con prudenza". Nessuna scusa, nessun passo indietro. E così, tra i commenti apparsi sotto i suoi post, qualcuno le ricorda un antico proverbio arabo: "Sui cadaveri dei leoni festeggiano i cani credendo di aver vinto. Ma i leoni rimangono leoni e i cani rimangono cani".
Segre spiazza i partigiani: "Sì a fiori sulle tombe dei fascisti". L'Anpi ha chiesto al sindaco di Rapallo (Genova) di non mettere più la corona d'alloro per i caduti della Rsi. Il commento della senatrice a vita Liliana Segre: "I morti sono tutti uguali. Non togliamo le corone a nessuno". Gianni Carotenuto, Sabato 04/01/2020, su Il Giornale. "I morti sono tutti uguali. Non togliamo le corone a nessuno". Queste le parole di Liliana Segre raccolte da una giornalista che le chiedeva conto dell'appello di Anpi al sindaco di Rapallo (Genova), Carlo Bagnasco, di non omaggiare più i militi della Rsi con una corona d'alloro. Lo riporta Libero. È successo il 2 gennaio. La senatrice a vita si era recata nella cittadina ligure, dopo alcune giornate trascorse nelle vicine Camogli e Portofino, per incontrare il primo cittadino e il deputato Roberto Bagnasco, entrambi di Forza Italia. Ultima tappa di una vacanza che Liliana Segre si è concessa in Liguria, regione a cui è molto affezionata. "Quello con Rapallo è un legame molto antico. Rapallo fa parte della mia vita", ha raccontato la senatrice. A Rapallo, infatti, risiede il figlio Alberto Belli Paci, che vive con la sua famiglia nella casa che il nonno della senatrice - come scrive Levante News - aveva acquistato nel 1937. È anche per questo motivo che, a fine dicembre, il Comune rapallese ha deciso all'unanimità di conferirle la cittadinanza onoraria. Riconoscimento di cui la senatrice si è detta molto lusingata. "Un grande onore, oggi, la visita della senatrice Liliana Segre a Rapallo. Un incontro semplice ed informale che ricorderò per sempre. Durante la visita abbiamo parlato di tanti argomenti che riguardano la storia del nostro paese e del mondo intero", ha scritto il sindaco Carlo Bagnasco, ricordando che la senatrice "ha speso la sua vita nella "lotta contro ogni forma di odio", promuovendo ultimamente, anche la creazione in Senato di una commissione permanente che si occupi di in maniera costane di questo, di cui, tra l’altro sarà la presidente". Nel suo post, il sindaco di Rapallo ha parlato della "lotta contro ogni forma di odio" che ha visto protagonista la senatrice. Ed è proprio l'odio a muovere, come accade (troppo) spesso, le truppe di Anpi. Lo scorso 29 dicembre, su Facebook, la sezione partigiana di Santa Margherita Ligure - Portofino aveva espresso soddisfazione per la cittadinanza onoraria concessa dal Comune di Rapallo alla senatrice a vita, definendola però "una decisione che si pone in controtendenza alla campagna d'odio di cui la signora Segre è stata ancora una volta vittima". Anpi, nell'occasione, lamentava "lo squallido gesto della giunta rapallese di omaggiare, ogni 4 novembre, coloro che ne furono i carnefici".
Gesto che i partigiani chiedevano di interrompere. Confidando magari nell'endorsement della senatrice. Che però non è arrivato. Anzi, Segre ha espresso un parere diametralmente opposto. Combattendo l'ennesima battaglia contro "ogni forma di odio". In nome di una pacificazione nazionale che purtroppo, a distanza di 75 anni, è ancora di là da venire.
· La Stampa condannata.
RINVIATO A GIUDIZIO IL GIORNALISTA PAOLO BORROMETI. Da Vittoria Daily il 7 novembre 2020. La Sicilia (Ragusa) 03-11-2020. Il giornalista Paolo Borrometi è stato rinviato a giudizio dalla Procura di Ragusa per i reati di diffamazione aggravata e reato continuato per gli articoli pubblicati nel dicembre 2018 riguardo l'inaugurazione di una sala scommesse di Scicli dove si registrava la presenza di Franco Mormina, l'uomo arrestato nel corso dell'operazione Eco e ritenuto a capo di un'associazione di stampo mafiosa, accusa poi caduta. Nell'occasione dell'inaugurazione del centro scommesse di Scicli diversi TG nazionali etichettato o Mormina come il capomafia di Scicli, riportando la città ad essere bollata come mafiosa, con tanto di interrogazione del Senatore Michele Giarrusso che chiese l' intervento del prefetto.Il centro scommesse venne sequestrato ma poco tempo dopo dissequestrato. Assistito dall'avvocato Michele Savarese, Mormina ha querelato Paolo Borrometi e il Pm Monica Monego ha ritenuto validi gli elementi per la citazione in giudizio.
Da Valeria Micalizzi. Giorno 6 novembre si è svolto presso il Tribunale di Ragusa il processo a carico di Angelo Cutello per diffamazione e minacce a Paolo Borrometi, ebbene, il giudice il Dott. Congolani lo ha assolto con formula piena perché il fatto non sussiste. Toccherà ora al Vice-Direttore dell'Agi invece difendersi dalle accuse di aver divulgato notizie false sul conto di Cutello dal 2013 ad oggi e di aver pubblicato foto di minori della sua famiglia. Il suo modus-operandi segue da anni medesimi canoni che contrastano con le precise regole deontologiche della professione di giornalista. Ricordiamo la campagna diffamatoria e denigratoria continuata messa in atto dal vice- direttore Agi anche contro il deputato Regionale Pippo Gennuso, contro di lui una vera e propria persecuzione....Su di lui Borrometi scriveva che aveva comprato voti dalla mafia quando invece non è così e non sono certo io a dirlo ma il Tribunale di Catania con una precisa sentenza, inoltre era assiduamente presente a Rosolini per convegni sulla legalità dove non perdeva occasione di parlare del deputato della zona sud. Per anni ha condannato tante persone a mezzo stampa etichettandole come " mafiose e delinquenti ", difatti credo che a queste due sentenze ne seguiranno ancora tante altre...Dott. Borrometi lei che è un giornalista di un certo spessore si limiti a riportare la notizia perché vede i processi si fanno nelle sedi di competenza non certo sui social inoltre le ricordo che nel diritto e nella procedura penale, vige la presunzione di non colpevolezza, principio secondo cui un imputato è innocente fino a prova contraria, in particolare, l’art. 27, co. 2, della Costituzione afferma che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» ma questo lei che fra tutte le altre cose è pure avvocato sicuramente lo sa. Autoproclamarsi sempre vittima di diffamazione e minacce da parte di tutti non sempre porta ai risultati sperati perché la giustizia quella vera e giusta cerca e vuole i riscontri, mancando quelli rimane il nulla. Paolo Borrometi fino a ieri parte offesa e oggi indagato e rinviato a giudizio, tempi duri pare attendano il pluridecorato Paladino della Legalità. Valeria Micalizzi
Diffamazione, la Pm Monego cita a giudizio il giornalista Borrometi, indagato l’ex 5S Giarrusso. Da diario1984.it il 3 Novembre 2020. Ragusa. Il sostituto procuratore Monica Monego, in servizio alla Procura della Repubblica di Ragusa, ha disposto la citazione diretta davanti al Giudice Monocratico Ignaccolo, del giornalista Paolo Borrometi per difendersi dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa nei confronti di Franco Mormina, 51 anni, residente a Scicli, che ha querelato sia il direttore del sito on line La Spia sia l’ex segnatore Mario Michele Giarrusso, 55 anni, residente a Catania. Per il parlamentare il procedimento è congelato fino alla sua decadenza dalla carica di eurodeputato. Ma anche lui, un giorno, dovrà rispondere del reato di diffamazione aggravata nei confronti del signor Franco Mormina, definito sia dal giornalista che dal parlamentare “capomafia di Scicli”. Questa espressione, scritta in alcuni articoli a firma di Paolo Borrometi e in alcune interrogazioni dal parlamentare espulso dal Movimento 5 Stelle, è ritenuta dal Pubblico Ministero Monego denigratoria e diffamatoria perché non ci sono condanne a riscontro di quella etichetta appioppata al signor Mormina. Franco Mormina, difeso dall’avvocato Michele Savarese, del Foro di Ragusa, è un pregiudicato ma non ha mai fatto parte di una consorteria mafiosa e non è un appartenente alla criminalità organizzata di Scicli. Nel certificato penale del Mormina non c’è alcuna traccia di condanne pronunciate nei suoi confronti per mafia. Nonostante questo sia il giornalista, oggi vice direttore dell’agenzia giornalista Agi sia l’ex esponente del Movimento 5 Stelle, lo hanno ripetutamente etichettato come “capomafia di Scicli”. Addirittura il giornalista si è vantato di averlo descritto “capomafia di Scicli” nel libro recante il titolo “Un morto ogni tanto”. Gli articoli diffamatori, allegati al fascicolo processuale, sono stati pubblicati sul sito on line La Spia, a partire dalla data 1 dicembre 2018, giorno in cui Paolo Borrometi, presidente dell’Associazione Articolo 21 e molto vicino al presidente della Federazione Nazionale della Stampa Giulietti, ha scritto un articolo con un eloquente titolo sull’uomo che aveva cercato di mettere in croce: “Franco Mormina, detto ‘u Trinchiti, capomafia di Scicli, inaugura le sale scommesse nella città di Montalbano”. Il successivo 2 dicembre, questa volta senza firma, sullo stesso sito esce un secondo articolo in cui si afferma “Un capomafia che inaugura una sala giochi come una star è inaccettabile”. In questo articolo sono riportate le dichiarazioni del senatore Giarrusso il quale afferma: “Un capomafia che inaugura una sala giochi come se fosse una star nel cuore di Scicli, città nota a tutti per essere il set a cielo aperto del Commissario Montalbano, è un segnale sociale che le Istituzioni del nostro Paese non possono accettare. Bisogna intervenire subito facendo comprendere che in Italia non ci sono delle zone franche dello Stato. Martedì depositeremo due interrogazioni urgenti: una al ministro degli Interni ed un’altra al ministro della Giustizia per comprendere come sia possibile che un capomafia possa inaugurare una sala scommesse e girare tranquillamente nonostante sia stato condannato e giudicato incompatibile con le condizioni carcerarie. Vedere le foto pubblicate dal giornalista Paolo Borrometi mi ha convinto a chiedere l’immediato intervento dei due ministri così come ho già chiamato il Prefetto di Ragusa per chiedere delucidazioni e per fare cessare subito questo scandalo. Chi ha permesso l’apertura di una sala giochi a persone vicine al capomafia? Chi ha permesso al capomafia di Scicli di girare indisturbato malgrado la condanna? Sono domande su cui ci aspettiamo delle risposte forti ed urgenti”. La risposta ai due interrogativi di Giarrusso la fornisce sempre Paolo Borrometi sul proprio sito on line “La Spia”, il quale giorno 4 dicembre 2018 scrive: “Chiuso il centro scommesse inaugurato dal boss di Scicli Franco Mormina”. In effetti le autorità amministrative della provincia di Ragusa hanno disposto la chiusura della sala scommesse “battezzata” da Franco Mormina. Ma il giornalista omette di pubblicare su quel sito chiamato La Spia la notizia che il Tribunale di Ragusa ha dissequestrato la sala giochi in quanto non c’erano i presupposti di legge per chiuderla. Paolo Borrometi, difeso dal proprio padre, avvocato Antonio Borrometi, dovrà presentarsi il 22 gennaio del prossimo anno davanti al Giudice Monocratico Ignaccolo del Tribunale di Ragusa per rispondere di diffamazione a mezzo stampa. Contro di lui, in quella udienza, si costituirà parte civile Franco Mormina, assistito dall’avvocato Michele Savarese del Foro di Ragusa. La pubblica accusa verrà rappresentata dal sostituto procuratore Monica Monego.
Antimafia e veleni: Borrometi a giudizio per diffamazione. Ecco perchè. Da tp24.it il 05/11/2020. Nel momento stesso in cui i fari inquisitori della Commissione Regionale Antimafia sembravano affievolirsi, un’inaspettata carica deflagra su Paolo Borrometi dal Tribunale di Ragusa, questa volta. Iscritto nel registro degli indagati, il giornalista dovrà rispondere del reato di diffamazione. La persona offesa è Franco Mormina, accusato da Paolo Borrometi di essere "capomafia di Scicli" in una serie di articoli di cui il Mormina è protagonista. Tutto ha origine con l’articolo pubblicato l’1 dicembre 2018 su LaSpia.it dal titolo: “Il capomafia di Scicli inaugura le sale scommesse in Città”. Borrometi puntava il dito contro Franco Mormina presente all’inaugurazione di una sala scommesse e “tornato in libertà dopo una condanna a 11 anni riformata in appello a oltre 7 anni perché per la Corte d’Appello era ‘incompatibile con le condizioni carcerarie’ per i suoi problemi di ipertensione”, scriveva. Il giorno dopo seguì un secondo articolo in cui si informava dell’interrogazione annunciata dal sen. Mario Michele Giarrusso che dichiarava: «Un capomafia che inaugura una sala giochi come se fosse una star, nel cuore di Scicli, città nota a tutti per essere il set a cielo aperto del Commissario Montalbano, è un segnale sociale che le Istituzioni del nostro Paese non possono accettare. Bisogna intervenire subito facendo comprendere che in Italia non ci sono delle zone franche dello Stato». Giarrusso non è iscritto in questa vicenda nel registro degli indagati. Infine, il 4 dicembre dicembre 2018 Paolo Borrometi titolava: “Chiuso il centro scommesse inaugurato dal boss di Scicli Franco Mormina”. «All’epoca dei fatti - ricorda l’avv. Michele Savarese - ero il difensore del titolare della sala scommesse sottoposta a sequestro. Dopo il riesame la sala fu dissequestrata», e precisa: «Franco Mormina, che era un mero ospite presente all’inaugurazione di questa sala scommesse, mi diede mandato di redigere una querela nei confronti del giornalista Paolo Borrometi per diffamazione perché lo accusò più volte di essere un capomafia della città di Scicli. In realtà, Franco Mormina non ha mai ricevuto alcuna condanna per associazione a delinquere di stampo mafioso. La vicenda narrata da Borrometi arrivò pure alla cronaca nazionale, precisamente al TG1. Tuttavia, Borrometi non diede sul suo sito on line la notizia del dissequestro della sala scommesse». Nel primo articolo oggetto di indagine a carico di Paolo Borrometi, si fa riferimento a relazioni della Direzione Nazionale Antimafia e della Direzione Investigativa Antimafia che sembrerebbero confermare il ruolo di capomafia di Franco Mormina. A quali documenti fa riferimento Borrometi? «Di questo non ne sono a conoscenza, ma nell’articolo successivo non fa riferimento alle istituzioni di Polizia Giudiziaria. Semplicemente - precisa l’avv. Michele Savarese - il giornalista Paolo Borrometi accusa Franco Mormina di essere un esponente della criminalità organizzata di stampo mafioso. Ripeto: Franco Mormina è un soggetto che ha avuto in passato delle condanne per altri reati, ha scontato la sua pena per estorsione ma non c’era nessun tipo di collegamento all’associazione a delinquere di stampo mafioso». Nessuna rettifica, e, soprattutto, nessun aggiornamento alla notizia sono gli elementi chiave che potrebbero nuovamente indispettire l'Ordine dei Giornalisti di Sicilia circa la possibile violazione dell'articolo 8 del Testo Unico del doveri del giornalista. D’altronde, per fatti analoghi, in riferimento all’inchiesta sullo scioglimento del Comune di Scicli, la Commissione Regionale Antimafia e l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia appuravano una condotta non esattamente in linea con i principi deontologici da parte del giornalista. «Il procedimento penale - ribadisce l’avvocato - ci induce a riflettere anche sui recenti avvenimenti per quanto riguarda la più grande diffamazione che si è consumata nei confronti della città di Scicli. Come sappiamo, la città di Scicli nel 2015 subì l’onta dello scioglimento cui seguì il commissariamento per presunte infiltrazioni mafiose che si sono rivelate del tutto infondate e che sono state oggetto della famosa diatriba tra il Presidente della Commissione regionale Antimafia, Claudio Fava e il giornalista Paolo Borrometi che si è consumata la scorsa estate». Le accuse di Paolo Borrometi a Franco Mormina non sono rimaste relegate al giornale on line: per stessa ammissione di Paolo Borrometi, sono finite anche nel libro “Un morto ogni tanto”. «Di questo ne sono a conoscenza per quanto ha dichiarato lui perché il libro non l’ho letto», ammette l’avv. Savarese. «Tutti possiamo sbagliare. Però, Franco Mormina avrebbe gradito che a seguito del dissequestro della sala scommesse disposto dal Tribunale di Ragusa, e anche in considerazione del fatto che lui non ha mai avuto una condanna ex art. 416-bis, che ci fosse stata una smentita. Anche perché è legittimo, sacrosanto e dovere di ogni cittadino combattere la mafia: su questo non ci deve essere il benché minimo dubbio. Ma bisogna combatterla dicendo la verità perché altrimenti si fa un favore all’organizzazione criminale stessa. Nel momento in cui poi si perde di credibilità allora il cittadino è indotto a non capire più dove effettivamente risiede la verità, se vengono accusate persone di appartenere a organizzazioni criminali e poi non rispondere al vero. Quindi, bisogna stare molto attenti da questo punto di vista. Difendere Franco Mormina - conclude l’avvocato - significa anche cercare la verità su quello che è effettivamente successo, anche in relazione alla diffamazione della città di Scicli». L'udienza preliminare è fissata alle ore 9:00 del 22 gennaio 2021 al Palazzo di Giustizia di Ragusa.
Dossier mafia e appalti. Scarpinato mi porta a processo, ma contro Costituzione sarà a porte chiuse…Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Lunedì, ad Avezzano, inizierà un processo nel quale io sono imputato insieme al mio amico e collega Damiano Aliprandi, del Dubbio. Il processo è per diffamazione. I diffamati – i presunti diffamati – sono due magistrati famosi: Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte. Scarpinato è il Procuratore generale di Palermo, è un personaggio televisivo noto, è un commentatore piuttosto abituale del Fatto Quotidiano. Lo Forte è in pensione, ma è stato un Pm famoso anche lui. Damiano e io siamo accusati di aver chiesto conto dell’archiviazione del dossier mafia e appalti, proposta da Scarpinato e Lo Forte. Tra qualche riga proverò a spiegare meglio i termini della questione, prima però devo dirvi della decisione della Corte di Avezzano di “secretare” – se mi passate questo termine – l’udienza. Cosa è successo? Radio Radicale – come fa spesso – ha chiesto l’autorizzazione a seguire il processo e mandarlo in onda, rendendo in questo modo vivo il principio costituzionale della pubblicità del dibattimento. A Radio Radicale questa autorizzazione è sempre stata concessa. Stavolta invece il giudice ha deciso di vietare la trasmissione via radio. Perché? La motivazione è il Covid. Francamente non si capisce cosa c’entri il Covid. L’impressione – magari mi accuserete per questo di “sospetteria molesta” – è che Scarpinato abbia diritto a un processo riservato. Lasciamo stare la mia posizione di imputato, che mi pare ormai largamente compromessa. Provo ad esaminare la situazione da giornalista e da osservatore. Ci sono due magistrati molto celebri che accusano due giornalisti fastidiosi di essersi occupati di cose che non li riguardano. E li querelano. Ci sono un Gip e un Gup che danno ragione ai propri colleghi, anche se nessuno può capire in cosa consista la diffamazione (ammenochè, a sorpresa, non si scopra che l’archiviazione non è stata mai chiesta e ottenuta). E ora si svolge un processo – un pochino surreale – nel quale è evidente la ragione dei due giornalisti ma è anche evidente il fatto che – chiunque conosca queste cose ve lo può confermare – le possibilità che dei magistrati perdano una causa contro dei comuni cittadini, o addirittura dei giornalisti, sono vicine allo zero. È un fatto statistico. Se poi questi magistrati sono famosi, potenti, ben inseriti nel meccanismo delle correnti, coccolati dal sistema dei media più importanti, a partire dal Fatto e da alcune Tv, le possibilità per i poveri imputati di non soccombere svaniscono del tutto. Ora vi racconto bene in cosa consiste questo processo. Esisteva, tanti anni fa, il famoso dossier mafia-appalti. Era una super-inchiesta sulla mafia, avviata da Giovanni Falcone, condotta dai Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori, e che avrebbe dovuto finire nelle mani di Paolo Borsellino. Questa inchiesta, realizzata all’inizio degli anni Novanta, stava scoprendo tutti i legami tra la mafia siciliana e una rete di imprese e di potenze economiche del continente. Falcone ci teneva moltissimo. Anche Borsellino, che aveva cercato in tutti i modi di potersene occupare e che – poche settimane prima di morire – pare che avesse ottenuto la possibilità di essere effettivamente incaricato di seguire l’inchiesta. Borsellino riteneva che questo dossier fosse fondamentale. Anche Antonio Di Pietro, da Milano, ne aveva sentito parlare ed era molto interessato e ne aveva discusso con Borsellino. Benissimo. Arriviamo al luglio del 1992. Seguite le date. Giovanni Falcone, che aveva dato il via al dossier, viene ucciso il 23 maggio. Non è escluso che il dossier possa essere stato la causa della sentenza di morte emessa da Cosa Nostra contro Falcone. Il 13 luglio Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, improvvisamente, firmano la richiesta di archiviazione del dossier-Mori. Il 14 luglio – cioè il giorno dopo – il Procuratore di Palermo, Giammanco, convoca una riunione con tutti i sostituti e gli aggiunti, per discutere di varie questioni. C’è pure Borsellino. Scarpinato non c’è. Borsellino chiede notizie del dossier, esprime il dubbio che sia in corso una sottovalutazione del lavoro dei Ros, accenna al fatto che un pentito sta parlando, chiede una riunione ad hoc nei giorni successivi. Nessuno sa – o dice – che è stata già firmata la richiesta di archiviazione. 19 luglio: la mattina molto presto Giammanco telefona a Borsellino. Secondo la testimonianza della moglie di Borsellino, gli assicura che avrà lui la delega per seguire il dossier. Alle due del pomeriggio Borsellino viene ucciso e la sua scorta sterminata. Tre giorni dopo, il 22 luglio, la richiesta di archiviazione del dossier viene formalmente depositata. L’iter è velocissimo: il 14 agosto, giorno nel quale da due o tre secoli la Procura non ha mai lavorato, avviene l’eccezione: qualcuno lavora e l’archiviazione è accolta e definitiva. Il dossier scompare. Voi capite che questa vicenda è molto inquietante. Anche perché se non abbiamo sbagliato qualcosa in questa ricostruzione, è ragionevole il dubbio che la vera ragione dell’uccisione di Borsellino sia stato il suo interesse per il dossier-Mori. Ipotesi diametralmente opposta a quella che viene sostenuta nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato -Mafia, nella quale – paradossalmente – Mori, cioè il carabiniere di fiducia prima di Dalla Chiesa e poi di Falcone e Borsellino, è imputato, e la tesi è che Borsellino sia stato ucciso perché sapeva della trattativa e voleva fermarla. Ha un qualche interesse il confronto tra queste due tesi? Ha un qualche peso il fatto che la prima tesi sia supportata da molti elementi certi? Damiano e io avevamo posto queste domande, e chiesto a Scarpinato e Lo Forte perché avessero archiviato. Non ci hanno risposto: ci hanno querelato. E la querela, come vi ho già detto, è approdata a un vero e proprio processo che si svolgerà, di fatto, a porte chiuse, in violazione della Costituzione. Beh, ammetterete che la lezione da trarre è triste e chiara. In Italia esiste la libertà di stampa ma ha un limite invalicabile: la critica alla magistratura. O almeno, la critica a quel pezzo potente di magistratura che, solitamente, noi chiamiamo il partito dei Pm. Quella non è ammessa. È vilipendio, è lesa maestà.
Si allunga l'elenco. Il Gip Sturzo ci ha fatto causa. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2020. Si allunga l’elenco dei magistrati che hanno fatto causa al Riformista. Ci è giunta la notizia che anche il Gip Gaspare Sturzo ha avviato la richiesta di risarcimento danni nei nostri confronti perché si sente diffamato – se abbiamo capito bene – dalla pubblicazione sul Riformista di alcune intercettazioni dell’affare Palamara nelle quali lui sembrava chiedere un aiuto dell’ex capo dell’Anm per lo sviluppo della sua carriera. Gaspare Sturzo ha citato in giudizio l’editore Alfredo Romeo e il direttore Piero Sansonetti. Chi è Sturzo? È il Gip che nel 2017 ordinò l’arresto di Alfredo Romeo (poi cancellato dalla Cassazione) e successivamente, nella vicenda delle indagini su Consip, ha respinto la richiesta di archiviazione del procedimento, sempre contro Romeo (e altri), che era stata avanzata dalla Procura, e in particolare da Pignatone, Ielo e Palazzi.
Rocco Casalino fa causa a Dagospia e chiede 200mila euro. La replica: "Povero ragazzo, fatti del male". Libero Quotidiano il 05 ottobre 2020. Rocco Casalino contro Dagospia. Il portavoce del premier Giuseppe Conte ha chiesto un risarcimento danni dal valore di 200mila euro per "diffamazione aggravata". Ad annunciarlo è lo stesso sito di Roberto d'Agostino che commenta: "Povero ragazzo, dai e dai a forza di tracimare in campi a lui sconosciuti (la palude italiana, la politica internazionale, l'ascesi omo-cubana) anche il più modesto e ritroso degli esseri viene colto dal sospetto che il destino lo abbia chiamato a diverso e più alto compito: farsi del male". Nel mirino due articoli e "un meme", un'imitazione apparsa su Dago che il capo comunicazione di Palazzo Chigi non ha preso bene.
DAGONOTA il 5 ottobre 2020. Matteo Renzi, come annunciato oltre un anno fa, ha presentato un'azione civile contro Dagospia, per ''campagna diffamatoria'', chiedendo un milione di euro di risarcimento. Inutile dedicare tempo a questa notizia, siamo in buona compagnia (sarebbero oltre cento le cause civili intentate nell'ultimo periodo).
LE "LITI TEMERARIE" CHE MINACCIANO LA LIBERTÀ DI STAMPA. Giovanni Valentini (ex ''Repubblica'') sul ''Fatto Quotidiano'' raccontava che Primo Di Nicola (ex ''Espresso'', ora senatore 5 Stelle) insieme ad alcuni colleghi aveva presentato un disegno di legge sulle liti temerarie, ovvero quelle cause e denunce presentate senza basi concrete ma con il solo obiettivo di usare la giustizia pubblica per ottenere vendette private. Era stato approvato dalla Commissione Giustizia del Senato e messo in calendario a gennaio per la ratifica definitiva ma, nonostante fosse stato raggiunto un accordo politico di maggioranza, dopo quasi un anno non è ancora arrivato in aula. ''A quanto pare, le resistenze di Italia Viva hanno frenato l' iter parlamentare e si sospetta che all' origine ci siano le numerose vicende giudiziarie che coinvolgono l' ex premier Matteo Renzi'', scriveva Valentini. Il disegno di legge prevede una semplice aggiunta all' articolo 96 del Codice di procedura civile. Nei casi di diffamazione a mezzo stampa, "in cui risulta la malafede o la colpa grave di chi agisce in sede di giudizio civile per il risarcimento del danno", il testo stabilisce che quando la domanda viene respinta dal tribunale l'attore è condannato a pagare al convenuto una somma non inferiore a un quarto di quella richiesta (in origine, si prevedeva la metà). Una sorta di deterrente, insomma, contro le liti temerarie che diventano in pratica una forma di intimidazione, di bavaglio o di censura preventiva nei confronti dei giornalisti e delle aziende editoriali: secondo i dati del ministero della Giustizia, raccolti da Ossigeno per l' informazione, nel 2015 le querele infondate sono state 5.125 (quasi il 90%) e 911 le citazioni per 45,6 milioni di euro di richieste per risarcimento danni'', aggiungeva Valentini.
LE MILLE (ASSURDE) CAUSE DI RENZI CONTRO CHI OSA CRITICARLO: L’ULTIMA A TPI. MA NOI ANDIAMO AVANTI. Selvaggia Lucarelli per tpi.it del 15 agosto 2020. Qualche settimana fa, è arrivata a TPI una convocazione per una mediazione civile da parte dello studio legale che assiste Matteo Renzi. L’editoriale incriminato non è mio ma di Luca Telese, per cui sono andata a cercare l’articolo che non ricordavo così terribile da scatenare un’azione civile (ricordo che le azioni civili mirano a un risarcimento dei danni subiti). L’ho riletto e non ho compreso su quali basi Matteo Renzi chieda un risarcimento, quale sia l’offesa insanabile, cosa rivendichi Matteo Renzi. Secondo i suoi legali, il valore della controversia è di 100.000 euro perché Luca Telese, oltre ad aver scritto che è prigioniero di se stesso, narcisismo e cupidigia, ha affermato che Renzi percepisce denaro illecitamente. Ora, capite bene che la questione, posta così, è piuttosto grave. Io, se qualcuno scrivesse che mi intasco illecitamente del denaro, riterrei che il valore della pretesa dovesse essere di almeno 1 milione di euro. Il problema è che in nessun passaggio dell’articolo Luca Telese sostiene, scrive, neppure insinua che Renzi si intaschi del denaro in maniera illecita. Il passaggio incriminato è: “Il Matteo Renzi di oggi è uno che, mentre in Italia mandava il suo esercito allo sbaraglio, se ne stava a fare foto posate sull’Himalaya per intascare un generoso gettone da conferenziere delle piste di sci”. Ora, ho riletto più volte il passaggio ma non mi è chiaro dov’è che Telese alluderebbe a ciò per cui Renzi ha avviato un’azione civile contro TPI. Matteo Renzi fa il conferenziere internazionale ben pagato da tempo (attività interrotta per il Covid), la definizione “gettone” è lecita e non è certo sinonimo di “bustarella”, non si capisce in quale passaggio si adombrerebbe che ci sia qualcosa di illecito nell’andare a sciare tra una foto e una conferenza pagata. L’articolo allude ad una questione di opportunità, al limite, ed è un tema che si è a lungo dibattuto in quei giorni, ma questa è un’altra storia. Ed è una storia che rientra nel diritto di critica, per cui forse non si scomodano i tribunali. Ora, quando qualcuno avvia una causa civile, per la controparte non c’è modo di scampare all’iter giudiziario. Non è come per le azioni penali, in cui un giudice può archiviare perché la querela è debole, fessa o pretestuosa, come spesso capita in sorte ai giornalisti, senza avviare alcun processo. Nel civile la mediazione (obbligatoria) ha un costo di soldi e di energie. Se la mediazione non va in porto (si media se si crede di aver torto o se comunque non si vuole andare in causa), si passa al processo civile. Che dura anni. Che è dispendioso. Se vinci, chi ti ha fatto causa deve pagarti le spese, è vero, ma intanto hai avuto una grana per anni. Matteo Renzi questo lo sa. E da anni ha iniziato la sua personale (e legittima, per carità) battaglia nei confronti dei suoi detrattori o presunti detrattori a colpi di azioni civili che ha denominato “colpo su colpo” con tanto di hashtag roboante e comunicati trionfali quando fa causa a qualcuno. Proprio ieri è tornato sul tema. Il Pd ha annunciato di aver ritirato le cause da lui intentate contro Grillo e lui ha commentato: “Prendo atto che il Pd ritira le cause contro Beppe Grillo. Rispetto la scelta, anche se mi dispiace per i militanti: querelando Grillo – a nome del Pd – intendevo difendere l’onorabilità dei volontari, volgarmente accusati non solo sui social. Per quello che invece mi riguarda personalmente non intendo ritirare nessuna azione civile avanzata contro Beppe Grillo e contro Il Fatto Quotidiano”. Le sue cause non c’entravano nulla, ma le ha ricordate, come a dire che la scure incombe sulla testa di chi, secondo lui, lo diffama. A fine luglio, Matteo Renzi e il consigliere regionale del Lazio ex Cinque Stelle Davide Barillari avevano fatto una strana pace su Twitter. Barillari aveva chiesto scusa a Renzi per aver esagerato nei suoi confronti con un tweet, Renzi aveva scritto “Prendo atto delle scuse”. Anche questo happy end era frutto non di una telefonata di chiarimenti, ma di una transazione legale. A quanto pare, a Barillari il tweet in cui aveva criticato Renzi è costato una somma da dare in beneficenza e le scuse pubbliche. Insomma, ha preferito risparmiarsi una causa civile lunga e dispendiosa. Ma Matteo Renzi ha avviato azioni civili anche nei confronti de l’Espresso per l’inchiesta sulla sua villa, contro Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera per la questione della Fondazione Open, contro Michela Murgia per aver commentato la vicenda della villa su Radio Capital e in quest’ultimo caso tenendo però stranamente fuori il gruppo Gedi. Ha querelato anche La Verità di Belpietro per rivelazione di segreto bancario. Riguardo le cause civili, lui stesso ha ammesso candidamente di non ricordare più quante ne ha fatte, ma in un post su Facebook del 2019 ne cita qualcuna: “I primi dieci atti formalmente predisposti oggi -sono contro: 1) Piero Pelù per avermi definito in diretta TV al concertone ‘boy-scout di Licio Gelli’; 2) Marco Travaglio per le immagini offensive in uno studio TV; 3) Il Fatto Quotidiano per avermi attribuito la realizzazione di leggi ‘ad cognatum’; 4) la giornalista Rai Costanza Miriano per aver sostenuto che i bambini morti in mare sono morti per colpa ‘di un porto aperto da Renzi’; 5) lo chef Vissani per avermi definito ‘peggio di Hitler’; 6) la giornalista D’Eusanio, per avermi insultato in TV; 7) il ministro Trenta e la senatrice Lupo, per le dichiarazioni sull’aereo di Stato; 8) Il Corriere di Caserta per un editoriale ancora sull’aereo di stato; 9) Panorama, sulla vicenda Paita – alluvione di Genova; 10) chi mi ha accusato di essere un ladro per la vicenda banche”. Ha poi querelato Nicola Porro e naturalmente, un numero impressionante di volte, il suo più grande nemico, il Fatto Quotidiano. Addirittura, è già iniziata la causa civile per due oggetti che Marco Travaglio aveva alle sue spalle, sulla libreria, durante un collegamento con il programma tv Tagadà: la carta igienica con la faccia di Renzi stampata sopra e una cartolina con l’immagine di Renzi, un segnale di pericolo e delle feci (il padre Tiziano ne ha vinte due col Fatto e perse 4). E di cause, al Fatto, Renzi-figlio ne avrebbe fatte 16 in 8 mesi. Nessuna giunta a sentenza. Insomma, un lavoro mostruoso per gli avvocati e per i tribunali, e non solo. Un lavoro che non sappiamo ancora cosa frutterà, perché se, come nel caso del padre di Renzi, per quattro volte i giudici dicono che i giornali hanno svolto con correttezza il proprio lavoro e vieni condannato a risarcire le spese legali, vuol dire che per quattro volte hai scomodato tribunali per nulla, hai sottoposto i giornalisti a pressioni enormi e in maniera ingiusta. Il brutto vizio di Renzi, in fondo, è questo. Quello di parlare di “cause” che deve ancora vincere o che al limite ha vinto qualcun altro con il tono della vendetta. “Il tempo è galantuomo”, “Colpo su colpo”, “L’assegno lo incornicio” e così via, mentre siamo in attesa di sapere come comunicherà, e con che registro, le cause che eventualmente non vincerà. Ma soprattutto, quello che non sfugge, è che in questo enorme mappazzone di mediazioni, lettere, buste verdi e post su Facebook, tutto è legittimo, molto è discutibile. Discutibile la causa per un rotolo di carta igienica con la sua faccia (io tantissimi anni fa avevo quella con la faccia di Einstein e giuro che non era una presa di posizione contro la fisica), e quella forse fa parte di un pacchetto più ampio di rese dei conti contro Il Fatto, ma ancora più discutibile quella nei confronti di TPI. Che va a colpire, comunque vada, una testata online che non ha finanziatori dichiarati o occulti, che a Matteo Renzi ha sempre dedicato ampio spazio con equilibrio, interviste e pareri diversi, non solo sferzanti, che se dovesse affrontare tutti i giorni cause civili come questa, in cui neppure si è scritto quel che si è accusati di aver scritto, morirebbe in breve tempo. E se morisse, a pagare sarebbero i giovani giornalisti che a TPI lavorano. E proprio “giovane” è una parola molto cara a Matteo Renzi. Ha detto che voleva insegnare a fare politica ai giovani, e poi il bonus giovani, la Leopolda per i giovani, il gruppo Millennials e così via, perché scomodare la parola “giovani” quando si fa politica, è sempre utile alla propaganda. Quando invece si intraprende la strada del colpo su colpo e la politica è ormai sullo sfondo, può capitare di sparare un colpo anche su quei giovani che un tempo erano linfa e opportunità. È con questo spirito che TPI si batterà in tribunale. Non solo per difendersi da un’accusa ingiusta e da una richiesta danni altrettanto ingiusta, ma per permettere a quei giovani che compongono la redazione di TPI di imparare una lezione importante, e cioè che, quando si sbaglia, si paga e si fa un passo indietro. Quando si fa il proprio lavoro con correttezza, non si indietreggia. Neppure se dall’altra parte c’è Matteo Renzi con il suo stuolo di avvocati e l’hashtag ringhioso #colposucolpo.
RENZI HA CHIESTO 100MILA EURO ANCHE A PAOLO BECCHI. Da dagospia.com. (…) Renzi ha strappato quello che voleva e ha pagato pegno votando per mandare a processo Salvini. Spero che per questa battuta Renzi non mi chieda altri centomila euro di risarcimento del danno per aver messo in discussione la sua immagine. Ma non è di lui che mi occupo. Politicamente Renzi è un uomo finito (…)
Marco Travaglio svela l'ultima querela ricevuta da Renzi: "Feci umane fumanti, denuncia un rotolo di carta igienica". Libero Quotidiano il 24 luglio 2020. Oggi, venerdì 24 maggio, nel suo fondo sul Fatto Quotidiano, Marco Travaglio si occupa di un'altra delle sue ossessioni: Matteo Renzi, definito nel titolo "il pistola fumante". Il direttore racconta dell'ultima querela che ha ricevuta dall'ex premier, la quindicesima citazione in giudizio negli ultimi otto mesi, in cui "denuncia un rotolo di carta igienica. Avete capito bene - rimarca Travaglio -: il corpo del reato, di cui presto dovrà occuparsi il Tribunale di Firenze tra un processo e l'altro ai suoi cari, sono 20 piani di morbidezza". L'episodio in questione risale al 13 febbraio 2019, quando in collegamento con Tagadà di Tiziana Panella su La7, Travaglio sfoggiava alle sue spalle, così come viene riportato nella querela, "un rotolo di carta igienica con sopra stampato il volto del Senatore Dott. Matteo Renzi accanto a una cartolina che ritraeva anch'essa il volto del senatore insieme a un segnale di pericolo generico e a un'immagine di feci umane fumanti". E Travaglio commenta: "A parte umane e fumanti (a vederle così parrebbero feci generiche, non saprei di quale animale, ma certamente né fumanti né fumatrici), è tutto vero". Ne segue appunto il titolo di cui vi abbiamo già dato conto, "il pistola fumante".
Renzi denuncia Travaglio per la carta igienica con la sua faccia. Redazione su Il Riformista il 24 Luglio 2020. Marco Travaglio contro Matteo Renzi, l’ennesima puntata. Il direttore del Fatto Quotidiano ha infatti ricevuto una querela da parte dell’ex premier e leader di Italia Viva per il rotolo di carta igienica con la faccia di Renzi apparso alle spalle del giornalista oltre un anno e mezzo fa, durante un collegamento dal suo ufficio con Tagadà, su La7. Ad annunciarlo è stato lo stesso direttore del Fatto sul suo giornale: dietro di lui in quel collegamento tv del 13 febbraio 2019 non c’era solo la carta igienica, ma anche una cartolina con il volto di Renzi, un segnale di pericolo e l’immagine, recita la denuncia citata da Travaglio, di “feci umani fumanti”. Il “corpo del reato”, come ironicamente viene definito da Travaglio, non era in realtà previsto. Il collegamento con Tagadà avrebbe dovuto tenersi dalla sala riunioni del quotidiano diretto da Travaglio: la stanza era però occupata, con lo spostamento quindi nel suo ufficio dove erano presenti i due “cimeli” regalata da una lettrice del Fatto Quotidiano in occasione della sconfitta di Renzi al referendum costituzionale del 2016. Il dettaglio della carta igienica e della cartolina non era emerso in realtà durante la diretta con la trasmissione di La7, ma solamente qualche giorno dopo, quando i frame del video avevano iniziato a circolare sul web. Da parte di Renzi, scrive Travaglio citando la querela, c’è la richiesta di “morali, esistenziali, patrimoniali e non patrimoniali”, aggravati dall’“assenza di rettifica o dichiarazione correttiva” (testuale) e dalla “notevole risonanza mediatica suscitata dalla notizia”.
"Quegli articoli diffamano i partigiani": Libero condannato dal tribunale di Milano. Pubblicato giovedì, 16 luglio 2020 da La Repubblica.it. Il tribunale di Milano ha accolto la domanda risarcitoria dell'Anpi nazionale per due articoli pubblicati l'1 settembre 2016 sul quotidiano Libero diretto da Pietro Senaldi. La società editrice dovrà pagare 15.000 euro oltre alle spese legali. E' quanto ha annunciato l'associazione dei partigiani in una nota. Gli articoli cui fa riferimento la sentenza del giudice sono "I partigiani di oggi. Senza fascisti ma pieni di soldi", "A cosa serve l'associazione dei reduci? I fascisti non ci sono più. E l'Anpi se li inventa" e "Quanto spendiamo per la “resistenza”. Finanziamenti, sedi e 5 per 1000: ci costano oltre 300 mila euro l'anno", pubblicati l'1 settembre del 2016.
Dagospia il 25 giugno 2020. NESSUNA DIFFAMAZIONE: SANTORO PERDE ANCHE IN APPELLO CONTRO "LA VOCE DI ROMAGNA" - LA CORTE DI BOLOGNA HA RICONOSCIUTO LA “SOSTANZIALE VERIDICITÀ DEI RAPPORTI PERSONALI TRA SANTORO E UN IMPORTANTE E FACOLTOSO IMPRENDITORE DI RIMINI'' – AD ‘ANNOZERO’ NEL 2006 ATTACCÒ GLI IMPRENDITORI ROMAGNOLI CON I CONTI NEL PARADISO FISCALE DI SAN MARINO. IL QUOTIDIANO SI ERA CHIESTO PERCHÉ SANTORO NON AVESSE RIVELATO DI ESSERE LUI STESSO IMPARENTATO (ATTRAVERSO LA MOGLIE) CON UN NOTO UOMO D'AFFARI DELLA ZONA. IL CONDUTTORE AVEVA CHIESTO UN RISARCIMENTO DI 300MILA €.
Estratto dell’articolo di Paolo Bracalini per il Giornale – 8 luglio 2010. (…) Tutto parte da una puntata di Annozero del 2006, su San Marino, l'evasione fiscale, la bella vita dei furbetti, sparsi tra il Titano e Rimini, piccola capitale - nella vulgata santoresca - del briatorismo in salsa romagnola: tutti con lo yacht, tutti habitué del paradiso fiscale a due passi da casa. Normale che qualcuno si offendesse, e infatti è successo, tanto che la Voce di Romagna ha replicato facendo il verso a Santoro: se tutti in Riviera sono furbetti dall'evasione facile, Don Michele è uno di noi. E perché? Presto detto. Succede che la consorte di Santoro, la signora Sanya Podgayansky, sia figlia della seconda moglie di Iliano Annibali, famoso imprenditore della zona, proprietario di uno yacht, di una lussuosa villa a Covignano e con ottimi rapporti con San Marino. Insomma l'identikit perfetto del generico j'accuse santoriano ad Annozero. Una provocazione (meglio, «una operazione speculare a quella utilizzata da Annozero» scrive il giudice), che però Santoro aveva preso malissimo, citando in giudizio l'editore (Giovanni Celli, fratello dell'ex direttore generale Rai, una maledizione proprio...) e il direttore, con una richiesta di risarcimento danni esorbitante: 6 milioni e 200mila euro.
Con sentenza n. 944/10 il Tribunale di Rimini rigettava le domande proposte dai coniugi Santoro Michele e Podgaysky Sanya nei confronti di Fregni Franco e della Editrice La Voce srl, rispettivamente direttore responsabile ed editore del quotidiano “La Voce di Romagna”, per il risarcimento dei danni, quantificati in euro 150.000,00 per ciascuno, loro derivati dalla pubblicazione, fra il 3 ed il 5 novembre 2006, di articoli ritenuti dagli attori diffamatorii e lesivi della loro reputazione, della loro immagine professionale e della loro identità personale. Il Tribunale escludeva che potesse ravvisarsi negli scritti in questione alcuna offesa nei confronti della Podgaysky, completamente estranea all’attività del marito, non venendo a lei riferite condotte professionalmente riprovevoli.(…) “l’affermazione del quotidiano che male si sarebbe comportato il Santoro rivolgendo indiscriminatamente e senza contraddittorio gravi accuse generalizzate e indiscriminate all’imprenditoria riminese (critica astrattamente legittima), in mala fede tacendo (offesa) di avere lui stesso stretti rapporti personali con quella stessa imprenditoria, viene ad essere scriminato dalla sostanziale veridicità dell’esistenza di detti rapporti personali con un importante e facoltoso imprenditore della stessa Rimini (fatto sostanzialmente vero). Che poi il Santoro sarebbe stato tenuto ad esplicitare, nella trasmissione da lui condotta, l’esistenza di tali suoi rapporti personali è semplicemente l’opinione che il giornale ha sostenuto e che aveva il diritto di esprimere liberamente, e della quale non vi è ragione di accertare la bontà o meno”.
(ANSA il 16 gennaio 2020. ) - Renzo Magosso e Umberto Brindani non dovevano essere condannati per diffamazione a causa dell'articolo pubblicato sul settimanale Gente nel giugno del 2004 sull'omicidio di Walter Tobagi in cui sostenevano che i carabinieri sapevano da tempo che il giornalista era nel mirino dei terroristi. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani nella sentenza con cui ha ritenuto l'Italia colpevole per la violazione del diritto alla libertà d'espressione dei due uomini. Nella sentenza, che diverrà definitiva tra 3 mesi se le parti non ricorrono in appello, la Corte di Strasburgo ha determinato che l'Italia deve versare a ciascuno dei due giornalisti i 15mila euro che hanno chiesto come danno morale. Nel condannare l'Italia la Corte di Strasburgo punta il dito contro la valutazione fatta dai tribunali italiani che hanno condannato Magosso e Bridani per aver diffamato il defunto generale dei Carabinieri Umberto Bonaventura e il generale dell'Arma in pensione Alessandro Ruffino. Nella sentenza sono contenute numerose critiche a come il caso è stato giudicato e la Corte arriva alla conclusione che "la condanna dei due giornalisti è stata un'ingerenza sproporzionata nel loro diritto alla libertà d'espressione e quindi non necessaria in una società democratica". Tra le critiche sollevate, quella di non aver dato importanza al fatto che l'articolo in questione si basava su dichiarazioni fatte da terzi che il giornalista stava riportando. "Sanzionare un giornalista per il suo aiuto alla diffusione di dichiarazioni fatte da una terza persona durante un'intervista intralcerebbe gravemente il contributo della stampa alle discussioni su problemi d'interesse generale" e la sanzione può essere ammessa solo se ci sono "ragioni particolarmente gravi". La Corte di Strasburgo ricorda che quando un giornalista riporta dichiarazioni altrui i tribunali non devono domandarsi se l'autore dell'articolo può provare la veridicità delle dichiarazioni ma se ha agito in buona fede e fatto i dovuti controlli di verifica. A tale proposito la Corte di Strasburgo osserva che Magosso e Brindani "hanno fornito un numero consistente di documenti e di elementi che provano che hanno effettuato le verifiche che permettono di considerare la versione dei fatti riportata nell'articolo come credibile e fondata su una solida base fattuale". La Corte di Strasburgo critica anche l'ammontare dei danni morali (circa 150mila euro) che i due giornalisti sono stati condannati a versare, affermando che il fatto che siano state pagate dalla casa editrice del settimanale Gente non cambia nulla perché non si può negare "l'effetto dissuasivo di tali sanzioni sul ruolo del giornalista nel contribuire alla discussione pubblica su temi che interessano la collettività".
Ex Ilva, la telefonata tra Vendola e Archinà: «Ex Governatore diffamato», condannate 4 testate. Sei sentenze del tribunale di Bari nei confronti di Fatto Quotidiano, Giornale, Libero e Gli Amici del giornale d'Italia: «Strumentalizzato contenuto intercettazione». La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Maggio 2020.
Il Tribunale civile di Bari, con sei diverse sentenze, ha condannato quattro testate giornalistiche e dieci tra direttori e giornalisti - tra i quali Alessandro Sallusti, Maurizio Belpietro, Peter Gomez e Francesco Storace - a risarcire l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola per complessivi 145mila euro per averlo diffamato "strumentalizzando il contenuto di una intercettazione telefonica» con l’allora responsabile per i rapporti istituzionali dell’Ilva di Taranto Girolamo Archinà. I giornalisti oggi condannati avrebbero attribuito a Vendola una risata collegandola ai morti di tumore a Taranto. I giornali sotto accusa sono Il Fatto Quotidiano, Il Giornale, Libero e Gli amici del Giornale d’Italia. Nella telefonata, intercettata dagli inquirenti nel luglio 2010, Vendola si complimentava con Archinà per lo «scatto felino» con cui aveva strappato il microfono al cronista tv, che nel novembre del 2009 aveva chiesto al patron dell’Ilva Emilio Riva un commento sui morti di tumore a Taranto. I sei procedimenti dinanzi al Tribunale civile di Bari, distinti ma paralleli, nascono tutti dalla pubblicazione sul sito web de Il Fatto Quotidiano, nell’autunno 2013, di «un video montato in modo suggestivo - spiega l’avvocato Francesco Tanzarella, che ha difeso Vendola con la collega Marica Bianco - modificandone il contenuto». Dopo la pubblicazione di quel video "fu montata una violenta campagna mediatica e politica contro Vendola, allora presidente della Regione e presidente nazionale di Sel», dice in una nota Sinistra Italiana-Leu, affermando che "si trattò di un vero e proprio linciaggio, durato mesi e amplificato sui social media. Rilanciato anche da altri quotidiani». Il Fatto Quotidiano, oltre a 50mila euro di risarcimento da pagare in solido con direttore e due giornalisti, è stato anche condannato alla rimozione del video dal sito web e alla pubblicazione della sentenza sul sito e sul giornale cartaceo.
· Il quarto grado a Quarto Grado.
Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 30 giugno 2020. E quindi la società Emme Team avrebbe risolto il giallo su quali siano state tutte le parole pronunciate da Marco Vannini mentre i Ciontoli chiamavano i soccorsi. O almeno, così è sembrato l’altra sera vedendo Quarto grado, programma di cronaca nera su cui un giorno bisognerà aprire una lunga parentesi, visto che tra un Meluzzi opinionista, plastici in studio e i tweet degli spettatori che suggeriscono piste investigative da seguire, ci si chiede come sia possibile trattare un argomento delicato come la cronaca in questo modo. Insomma, tornando all’altra sera, c’era questo avvocato napoletano, tal Salvatore Pettirossi, lì in tv in qualità di rappresentante della società americana Emme Team che consegnava al circo mediatico (perché non alla procura e basta?) lo scoop dell’anno: l’audio della telefonata al 118 isolato e ripulito grazie a una perizia di esperti Usa. Dove non erano arrivati i periti della corte, sono arrivati loro, quelli di Emme Team. E le parole, sarebbero: “Dov’è il telefono, portamelo, portami il telefono, mi fa male, mi fa male il braccio. Ti prego basta, mi fa male, portami il telefono”. Ora, a parte che nell’audio trasmesso in tv quelle parole non si riuscivano a sentire, anche supponendo che servano delle cuffie o un udito sopraffino, la questione fondamentale è un’altra. E cioè che tutti i giornali hanno ripreso questa notizia con grande enfasi e titoloni fidandosi delle verifiche scrupolose di Quarto grado, suppongo, ma Quarto grado ha verificato chi sia Emme Team? Chi ci sia dietro? Perché io l’ho fatto, anche insospettita da un particolare a prima vista irrilevante: il logo di Emme Team. Che non sembrava esattamente professionale ma più roba di Paint 85. E la prima cosa che ho capito è che Emme Team, intesa come società, non esiste. O meglio, non se ne trova traccia, neanche uno straccio di partita Iva. Emme Team è apparsa anche nel caso Cantone, annunciando assieme alla mamma della povera Tiziana alla stampa che tutti i video di Tiziana erano stati rimossi dalla rete grazie al loro Metodo M. E già questo, ai tempi, mi aveva lasciata perplessa. Non solo perché garantire l’oblio parlando di un video sul web mi pare piuttosto azzardato, ma soprattutto perché questa Emme Team appariva un po’ ovunque sulla stampa, era molto promossa da Le Iene, interi articoli dedicati tra cui uno di Repubblica che spiegava: “Il metodo M si basa su un’azione legale che, attraverso l’applicazione di una legge statunitense, la digital millennium copyright (dmca), ha già permesso di far bloccare contenuti pirata e materiale pedopornografico disponibili su diversi server ubicati negli Usa…”.
E poi: “Questi ‘hacker etici’ avrebbero scoperto siti pedopornografici in cui i video di Tiziana Cantone erano ancora presenti e visibili” o “Video hot privati che finiscono in siti porno e che sembrano impossibili da eliminare. Per fortuna esistono realtà come Emme Team che, sfruttando una legge americana sul diritto di autore, riescono a fermare questo incubo!”, si legge sul sito de Le Iene. Insomma, molta stampa, molta pubblicità, molte chiacchiere, ma della società non esiste traccia. E non si sa neppure chi ne faccia parte. A Le Iene, tempo fa, va in onda il videomessaggio di un avvocato americano, Christopher Newberg, di Emme Team: “Abbiamo ricevuto migliaia di richieste per togliere video!”, dice, pubblicizzando Emme Team. È l’unico volto associato alla società di cui si ha notizia, oltre a quello dell’avvocato napoletano Pettirossi di Quarto grado e di un altro avvocato, Luciano Faraone, che ha collaborato con l’avvocato Anna Bernardini De Pace. Solo che dopo qualche telefonata scopro un fatto interessante: la De Pace, insieme alla criminologa Roberta Bruzzone e alla psicologa Maria Rita Parsi hanno denunciato per truffa Emme Team. Emerge un quadro inquietante: Emme Team prometterebbe risarcimenti per violazioni di copyright e diritto d’autore, oltre che un proficuo lavoro di contrasto al revenge porn e alla pedopornografia. Per questi servizi, che poi non porterebbero ad alcun risultato, naturalmente si fa pagare migliaia di euro e non solo: Emme Team chiede intercessioni presso giornalisti o per ospitate tv o per incontri con importanti manager e artisti. Il tutto, con una certa capacità di far breccia nell’emotività dell’interlocutore e di generare uno stato di paura per la sicurezza dei propri dati personali. Il referente della società Emme Team per le tre denuncianti era tale “John Peschiera” (che non esiste) e che, secondo le denuncianti, aveva inviato per la sottoscrizione del contratto un documento falso dal quale emergeva il nome Henry Iovine, nato a Milano. Nome che all’anagrafe non esiste. Il suo conto corrente era criptato. Telefono all’avvocato napoletano Salvatore Pettirossi, quello dell’audio di Vannini a Quarto grado (sul suo sito dice di collaborare con Emme Team nella lotta al revenge porn).
Avvocato, mi può dire che società è Emme Team, visto che io non trovo nulla?
“Guardi non posso darle queste informazioni, la faccio chiamare da un responsabile della società Emme Team, sono questioni di cui si occupano loro sia per questioni di stampa che di immagine”.
Ma lei che fa l’avvocato ha verificato come me se esiste questa società?
“Certo che esiste, come no!”
È sicuro, non esiste neppure una partita Iva…
“Le ripeto, tutte le informazioni le avrà dal rappresentante”.
Ok. Chi è il rappresentante?
“La chiamerà un numero americano”.
Ha un nome questo rappresentante?
“Ha un nome ma non si fanno riconoscere tranne per chi fa parte dell’Emme Team, per la privacy e i grandi interessi che ci sono in gioco”.
Ma lei è sicuro di quello che sta dicendo? È informato della denuncia che hanno ricevuto?
“Certo. Ma vedremo se è strumentale”.
Lei conosce John Peschiera e Henry Iovine?
“Le ripeto, io non posso rilasciare queste notizie”.
Però Henry Iovine non esiste all’anagrafe italiana, lo sa, no?
“Questo lo dice lei”.
Se l’ha trovato, mi aiuti.
“Senta, l’esito della denuncia lo deciderà il pubblico ministero”.
Al momento la Emme Team non mi ha richiamata. Sarà colpa del fuso orario, magari John Peschiera dorme ancora. Telefono all’avvocato AnnaMaria Bernardini De Pace chiedendole un commento sulla vicenda Emme Team: “Un’esperienza drammatica che spero di dimenticare”.
Il quarto grado a Quarto Grado.
Da troppo tempo, (sin dall’inizio della vicenda) la cittadinanza di Avetrana è accusata di omertà o di reticenza, rendendoci o facendoci apparire, di fatto, complici inconsapevoli dell’efferato delitto. E questo la gente che incontriamo in tutta Italia che ce lo fa notare. Credo proprio che la misura sia ormai colma. A voler usare lo stesso metro della d.ssa Bruzzone, non credo che gli autori del programma possano essere contenti. La satira a volte può creare polemiche. L’ultimo caso riguarda l’imitazione di Virginia Raffaele che ad Amici ha vestito i panni di Roberta Bruzzone, una tra le più note criminologhe d’Italia, grazie ai salotti come “Quarto Grado”. La parodia dell’attrice comica non è stata gradita dalla criminologa. E così dopo l’esibizione della Raffaele su Twitter è scoppiata la polemica. La Bruzzone ha seguito in diretta lo show dell’attrice e subito dopo l’ha fulminata con un cinguettio: “La Roberta Bruzzone originale è e rimarrà sempre semplicemente inimitabile..”. Poi ha aggiunto: “Chissà se ciò che le stanno preparando i miei legali lo troverà divertente”. “Io non ho nessun problema contro la satira”- precisa Bruzzone – “l’elemento intollerabile è giocare sull’aspetto sessuale in maniera sguaiata, becera, volgare, gratuita”. Insomma, la criminologa non ha preso per niente bene l’immagine ironica e sensuale che l’imitatrice ha portato in scena. E, dopo aver minacciato querela nei confronti della Raffaele, si è aperto un vero e proprio “caso mediatico”. “L’elemento che mi porta in tv ormai da oltre dieci anni – sottolinea – non è la mia avvenenza fisica ma il tipo di contenuti che tratto e l’esperienza dovuta al lavoro che svolgo”. “Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona” aggiunge, confermando la sua decisione di procedere per vie legali. Ed anche su Avetrana, ormai “Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona”. Parlare o sparlare dei fatti e dei protagonisti delle vicende giudiziarie è comprensibile. Diffamare gente che nulla c’entra con le vicende è criminale e per nulla professionale, tanto da meritare il licenziamento, come si è adoperato nel fare per altre vicende di falsi in tv di sponda Mediaset. Da tempo mi son posto come antagonista ad un certo modo di fare giustizia, tanto da non aver fiducia nella magistratura, che diligentemente me lo conferma. Quindi nulla ho da fare per tutelare i miei diritti di avetranese, perchè non troverei sponda. Molto potrebbe fare, invece, l’amministrazione comunale di Avetrana. Ma se dopo anni di massacro mediatico contro i cittadini che rappresenta, inspiegabilmente, questa nulla ha fatto, non posso certo sperare che inizi sin da ora a darsi quel coraggio o quella capacità che le mancano. A me, quindi, scartata la via giudiziaria o escluso il coinvolgimento del sindaco di Avetrana, non rimane che usare l’arma a me più congeniale: adoperare la tastiera è rimbrottare pubblicamente chi diffama Avetrana.
Ci si può fidare della tv? E’ la domanda che gli spettatori della tv contemporanea dovrebbero porsi. Sarah Scazzi bis. Un processo al processo già di per sé criticabile e criticato. Un’altra puntata della lunga e tormentata telenovela sull’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne scomparsa ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Mentre i periti nominati dalla corte d’assise d’appello stanno effettuando le verifiche sulle celle telefoniche per risalire all’esatta posizione dei principali imputati e della vittima il giorno del delitto, giunge al capolinea l’inchiesta-bis condotta dal procuratore aggiunto Pietro Argentino e dal sostituto Mariano Buccoliero. Sono 12 gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari fatti notificare a quanti, secondo l’accusa, erano a conoscenza di fatti e particolari riguardanti l’omicidio e hanno taciuto, o peggio detto il falso, dinanzi ai pubblici ministeri o alla corte d’assise. Quanti, secondo altri, che non si sono genuflessi alle volontà dei magistrati inquirenti. Secondo Argentino e Buccoliero, queste 12 persone conoscevano particolari importanti riguardo il feroce assassinio di Sarah, ma hanno taciuto, oppure hanno dichiarato spudoratamente il falso dinanzi ai due pubblici ministeri ed alla Corte d’Assise. Proprio per questi reati, secondo i due pm, tali indagati dovranno essere giudicati. Tra questi vi è anche il nome di Michele Misseri, lo zio acquisito della piccola Sarah; a lui è stata contestata l’autocalunnia, in quanto, come è oramai risaputo, si autoaccusò di aver eliminato la nipote, al fine di coprire la moglie e la figlia, tesi che sostiene tuttora, accusando la Bruzzone di averlo indotto a cambiare versione e ad accusare la figlia Sabrina. Ma è la posizione di Ivano Russo la vera novità, quella che è saltata subito all’occhio. Se, come sostengono i procuratori, il ragazzo avesse davvero cercato di coprire Sabrina, nascondendo e non dichiarando alcune circostanze importanti riguardo al delitto, allora ecco che il caso della sventurata quindicenne d’Avetrana dovrebbe essere riscritto da cima a fondo. Il giovane dichiarò agli inquirenti, che il 26 Agosto, giorno dell’uccisione di Sarah, sarebbe rimasto tutto il tempo a casa e che avrebbe appreso della sparizione della ragazzina solo alle 17:00 del pomeriggio. “E le telefonate e gli sms che ti aveva inviato Sabrina all’ora di pranzo?” gli chiesero gli inquirenti, Ivano rispose così: “Rientrando a casa la notte prima, avevo dimenticato il telefono in macchina, l’ho ripreso solo il pomeriggio alle 17:00. Solo allora mi sono accorto che Sabrina mi aveva cercato”. Questa spiegazione non aveva molto convinto i procuratori Argentino e Buccoliero, anche la madre di Ivano parlò del telefonino del figlio, che il giorno della morte di Sarah squillava. Nell’onda dell’entusiasmo molti programmi della cosiddetta tv spazzatura si sono buttati a capofitto sulla notizia. Nel caso dell’omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da “Quarto Grado” su “Rete 4” di Mediaset la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Tanto che i suoi ospiti, quando sono lì a titolo di esperti (pseudo esperti di cosa?) o, addirittura, a rappresentare le parti civili, pare abbiano un feeling esclusivo con chi accusa, senza soluzione di continuità e senza paura di smentita. A confermare questo assioma è la puntata del 15 maggio 2015 di “Quarto Grado”, condotto da Gianluigi Nuzzi ed Alessandra Viero e curato da Siria Magri.
“A quell’ora ero a casa” – ha sempre raccontato Ivano ai pm – “ho dormito fino alle 17″.“L’ho visto uscire di casa intorno alle 13.30″, dice invece un testimone. Ma Ivano non ci sta, rigetta le accuse e si difende davanti ai microfoni di Quarto Grado. “Mi sento abbastanza tranquillo perché sono a posto con la mia coscienza…e in merito alla intercettazione secondo cui sono accusato di avere pilotato la deposizione di mia madre, in realtà le dissi solamente di raccontare ai magistrati ciò di cui si ricordava bene invitandola a non dire cose che non ricordava con esattezza”. E poi dà la sua versione dei fatti in merito al nuovo testimone che lo accusa: “Nel dicembre ci sono state denunce reciproche con la mia ex compagna madre di mio figlio, e guarda caso nel gennaio 2014 è spuntata una persona che ha fatto delle dichiarazioni spontanee al pm contro di me … farò denuncia per calunnia contro questa persona”. A riprova della linea giustizialista del programma, lo stesso conduttore è impegnato a far passare Ivano come bugiardo, mentre il parterre è stato composto da:
Alessandro Meluzzi, notoriamente critico nei confronti dei magistrati che si sono occupati del processo, ma che sul caso trattato è stato stranamente silente o volutamente non interpellato;
Claudio Scazzi, fratello di Sarah;
Nicodemo Gentile, legale di parte civile della Mamma Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.
Solita tiritera dalle parti private nel loro interesse e cautela di Claudio nel parlare di omertà in presenza di cose che effettivamente non si sanno.
Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: ?…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie?.
Vada per i condannati; vada per gli imputati, ma tutto il paese cosa c’entra?
Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: ?io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi? Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell’educazione civica di Avetrana? Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenerlo egli stesso di essere omertoso e reticente.
Grazia Longo: ..però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!?
Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo! Si noti bene: nessun ospite è stato invitato per rappresentare le esigenze della difesa delle persone accusate o condannate o addirittura estranee ai fatti contestati. Nell’ordinamento giuridico italiano, la diffamazione (art. 595, codice penale) è un delitto contro l’onore ed è definita come l’offesa all’altrui reputazione, comunicata a più persone con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di comunicazione. A differenza del delitto di ingiuria di cui all’art. 594 c.p., il delitto di diffamazione può essere consumato solo in assenza della persona offesa. Il bene giuridico tutelato dalla norma è la reputazione intesa come l’immagine di sé presso gli altri. L’analisi testuale della norma consente di risalire ai suoi elementi strutturali: l’offesa all’altrui reputazione, intesa come lesione delle qualità personali, morali, sociali, professionali, etc. di un individuo; la comunicazione con più persone, laddove l’espressione “più persone” deve intendersi senz’altro come “almeno due persone”; l’assenza della persona offesa, da intendersi secondo la più autorevole dottrina come l’impossibilità di percepire l’offesa. In quasi tutti gli ordinamenti giuridici si ha diffamazione se quanto asserito è falso, e spetta all’accusa dimostrare tale falsità. In altri, come quello italiano, ciò non è richiesto e solo in casi molto limitati è, viceversa, la difesa che ha la facoltà di discolparsi dimostrando la verità delle asserzioni ritenute diffamatorie. La diffamazione è punita nella maggioranza degli Stati, e considerata un delitto punito dal codice penale, ma che comporta anche la condanna a un risarcimento civile. La diffamazione può anche coesistere con una lesione del diritto alla privatezza, da contemperare al diritto alla libertà di espressione dei fatti veritieri. Per quanto mi riguarda per le frasi da me proferite e ritenute offensive, in base all’art. 599 c.p. (ritorsione e provocazione), si stabilisce che ”nei casi preveduti dall’articolo 594, se le offese sono reciproche, il giudice può dichiarare non punibili uno o entrambi gli offensori. Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 594 e 595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso. La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche all’offensore che non abbia proposto querela per le offese ricevute”. Per gli effetti della norma citata mi preme affermare in aggiunta quanto segue.
Altro che bugiardi. Voi fate parte di quella tv spazzatura che di questi tempi è accusata di falsi scoop. Da Fabio e Mingo su Striscia la Notizia a Fulvio Benelli di Quinta Colonna, fino a Francesca Bastone ed Alessandra Borgia di Video News.
Fulvio Benelli e gli altri: il professionismo della recita in Tv, scrive Giorgio Simonelli (Docente di Storia della televisione e di Giornalismo televisivo) su “Il Fatto Quotidiano”. Fulvio Benelli licenziato, Lerner: “E’ capro espiatorio di una tv fatta di falsi scoop”. Con un post sul proprio blog, l’ex direttore del Tg1 esprime solidarietà al cronista di Quinta Colonna cacciato da Mediaset con l’accusa di aver confezionato servizi falsi: “Sono gli autori e i conduttori e i direttori di rete a spingere in questa squallida direzione”. “Chi oggi lo licenzia – scrive quindi il giornalista su Twitter – ne conosceva benissimo e incoraggiava il metodo di lavoro nella pseudo-tv-verità”.
· Il nefasto Politicamente corretto partigiano.
Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia 21 dicembre 2020. Caro Dago, l’ultima evoluzione del Politicamente Corretto si chiama Pandemicamente Corretto, e ci sta dando in queste ore una spettacolare dimostrazione di ipocrisia doppiopesista, che poi è la specialità della casa. Ricordiamo? Alla comparsa del Sars-Cov2 nelle nostre vite (sebbene avvenuta a Wuhan, che non risulta in Veneto, né in Alaska) la parola d’ordine delle truppe cammellate correttiste era: mai parlare di “virus cinese”. Chi lo fa, come il presidente Trump, è uno sporco razzista, uno che specula sull’epidemia per squallidi doppi fini geopolitici, un impresentabile. Venne coniato alla bisogna il neologismo politically correct “sinofobia”, il quotidiano della Cei Avvenire addirittura la collegò alla Shoah, in quanto nuova forma “di razzismo e di pregiudizio etnico”. Conduttori e vip a vario titolo organici al pensiero unico (che poi è quello che arriva dal Partito Unico di Pechino) inaugurarono la moda di rimpinzarsi in diretta tivù di involtini primavera in segno di solidarietà (o di vassallaggio?) al Dragone, tra essi Corrado Formigli e Selvaggia Lucarelli. Dopo nove mesi, durante la seconda ondata del virus di Wuh..., pardon, del virus deflagrato nel mondo nonostante gli encomiabili sforzi del regime illuminato cinese, accade una non-notizia. Il virus si comporta addirittura come tale, quindi muta. Lo aveva già fatto altre volte, l’ultima avviene nel Regno Unito. Questa variante d’Oltremanica parrebbe più contagiosa, ma non più letale, ovviamente sta indagando la comunità scientifica, o meglio la parte di essa non barricata nei salotti tivù. E come ti titola Repubblica, l’house organ dei Buoni, di quelli avvezzi a “restare umani” contro ogni forma di xenofobia parasovranista, la Pravda del Politicamente Corretto? Voilà, a tutta pagina: “Il virus inglese è già in Italia”. Pare che per un imperdonabile errore di tipografia sia saltato l’occhiello “L’ultima della Perfida Albione”, ma contiamo che il direttore Maurizio Molinari (che non deve c’entrare nulla con quel Molinari Maurizio filo-anglosassone che scriveva anni fa su La Stampa) rimedi domani stesso, con un fondo contro l’imperialismo virologico di Sua Maestà. Dunque, ricapitoliamo (scusami caro Dago, ma lo faccio a beneficio di quei pochi refrattari alla rieducazione impartita dagli eredi di Mao, prima che siano spediti nei graziosi campi di lavoro, ovviamente libero e nobilitante, noti come laogai): se un virus sorge in Cina e da lì si diffonde nel globo, NON si chiama “virus cinese”. Se viene scoperta una delle miriadi di mutazioni dello stesso virus nel Regno Unito, che peraltro ha il torto politicamente scorretto di stare per abbandonare le magnifiche sorti e progressive europee garantite da Frau Ursula con la Brexit, addirittura democraticamente votata dal popolo, SI CHIAMA “virus inglese”. Ed è molto apprezzata la specifica, che fanno tutti i giornali in scia a Repubblica, su una “Londra isolata”. Com’era nel 1940, vien da dire, quando era guidata da quel maschilista, suprematista, guerrafondaio, alcolizzato anti-salutista e anti-vegano di Winston Churchill.
La manipolazione semantica e la scristianizzazione dell’Occidente. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 17 dicembre 2020. Una tendenza apparentemente inevitabile e inarrestabile sta riscrivendo ex novo il volto e l’anima del mondo occidentale: la trasformazione della secolarizzazione in scristianizzazione. Si tratta di un fenomeno che sta toccando e travolgendo ogni singolo Paese della civiltà occidentale – dalla Francia ai Paesi Bassi, dalla Germania all’Irlanda, dalla Polonia agli Stati Uniti – e che culminerà nell’avvento di un’epoca post cristiana, ossia nel superamento definitivo di due millenni di storia durante i quali il cristianesimo ha determinato in maniera fondamentale l’identità dei popoli europei e dei loro cugini al di là dell’Atlantico. La scristianizzazione, che ovunque sta procedendo ad un ritmo sostenuto e continuativo, sta assumendo una moltitudine di forme: dalla scomparsa letterale dei luoghi di culto, perché vittime di roghi dolosi o riconvertiti ad uso profano a causa dell’assenza di fedeli, alla diffusione di “persecuzioni morbide” nel nome del laicismo, un cavallo di Troia utilizzato per portare avanti disegni antireligiosi e ateistici. Una delle configurazioni più importanti della scristianizzazione, la cui perniciosità deriva dal fatto di avere una natura astratta e intangibile, ha a che fare con l’evoluzione del linguaggio. Il cristianesimo, infatti, non sta svanendo soltanto dall’orizzonte dei popoli occidentali, sta venendo rimosso, molto sottilmente e impercettibilmente, anche dai dizionari e dalla lingua di tutti i giorni.
Il potere delle parole. La lingua non è un semplice mezzo di comunicazione tra individui, essa è il tratto distintivo di un popolo e una delle piattaforme più efficaci di costruzione della realtà. Sulla base del vocabolo che si sceglie di utilizzare, e del significato attribuitogli, la percezione di un determinato fenomeno può essere alterata sino al punto dello snaturamento integrale, della distorsione. Il potere rivoluzionario delle parole è stato spiegato e illustrato in maniera esaustiva da esperti del linguaggio del calibro di Edward Bernays, il padre dell’ingegneria del consenso e tra le menti del colpo di stato in Guatemala del 1954, Noam Chomsky, il celebre neurolinguista che ha spiegato il funzionamento della manipolazione dell’opinione pubblica da parte dei media, e Uwe Porksen, critico antelitteram del politicamente corretto e della dittatura invisibile imposta dalle “parole di plastica”. Porksen ha spiegato, ad esempio, come le classi politiche liberali dell’Europa di fine anni ’70 e inizio anni ’80 abbiano ottenuto il consenso delle masse attraverso la costruzione di un’immagine identificata con il benessere e con un futuro utopico, appropriandosi di termini quali “progresso”, “modernità” e “sviluppo”, i quali, una volta investiti di nuovi significati, sono stati poi utilizzati a detrimento delle forze sociali, culturali e politiche di stampo conservatore. Alterare il contenuto delle parole, oppure censurarle, equivale a mutare la percezione della realtà e condizionare il modus cogitandi et agendi delle persone: Chomsky e Porksen hanno illustrato la teoria, Bernays ha dato una prova pratica. In breve, tutto quel che al tempo uno è considerato naturale, ordinario e persino perenne – situazioni, convinzioni e valori –, attraverso un lavoro accorto di manipolazione semantica può diventare innaturale, anacronistico e condannabile al tempo due: la semantica applicata alla teoria della finestra di Overton sul condizionamento degli atteggiamenti dell’opinione pubblica.
La manipolazione semantica scristianizzante. La rimozione del cristianesimo dal vocabolario dei popoli occidentali è iniziata da almeno un decennio, ma il fenomeno è stato notato soltanto negli anni recenti e continua ad essere più marcato ed esteso nei Paesi a tradizione protestante del mondo anglofono e del cosiddetto “Occidente profondo” (Benelux, Germania e Scandinavia). Il campanello d’allarme che ha svegliato i cristiani dal lungo sonno è stato suonato soltanto un anno fa, a scristianizzazione del linguaggio ormai inoltrata. Barack Obama e Hillary Clinton, il 21 aprile 2019, esprimendo il proprio cordoglio per i sanguinosi attentati dello Sri Lanka, avevano suscitato scalpore – e indignazione – nel rivolgersi alle vittime con l’appellativo di “adoratori della Pasqua”, utilizzato in luogo e in sostituzione di “cristiani”. La reazione di sdegno era lecita, ma tardiva: quei detrattori hanno scoperto con un decennio di ritardo che negli Stati Uniti, e più in generale nel mondo anglofono, i riferimenti al cristianesimo stanno venendo soppressi dalla politica, dalla cultura, dallo spazio pubblico e dall’intrattenimento. Hollywood è il caso più eloquente: aumentano le case cinematografiche che optano per la trasposizione su schermo di copioni rigorosamente neutri da un punto di vista religioso. I cinefili che sono abituati alla visione di film doppiati non hanno potuto notare, ovviamente, il cambiamento, ma la scristianizzazione semantica ha riguardato una miriade di modi di dire, imprecazioni ed espressioni tipiche della lingua inglese, oggi scomparse quasi o del tutto dalla bocca degli attori. Si tratta di micro-modifiche a livello di comunicazione verbale apparentemente irrilevanti, eppure significative nel modo in cui stanno rimodulando l’intero vocabolario dei volti di Hollywood e in cui stanno contribuendo a popolarizzare tale tendenza tra il pubblico. Tra i casi più emblematici di questa manipolazione semantica scristianizzante figurano le trasformazioni di “Oh, my God!” in “Oh, my gosh!”, “God almighty” in “Gosh almighty”, “Christmas” in “X-Mas”, “Holy Christ!” in “Holy cow!”, “Holy Mary!” in “Holy moly!”, “For God’s sake!” in “For goodness sake – ma l’elenco è molto più lungo. La musica e la politica – rimanendo nell’ambito anglofono – hanno dimostrato di appoggiare tale evoluzione linguistica, trasformandosi in casse di risonanza per l’amplificazione, lo sdoganamento e la normalizzazione di tale tendenza.
Il caso britannico. Dapprima che l’intellighenzia liberal e il Partito democratico degli Stati Uniti cominciassero a scristianizzare il vocabolario del popolo americano, nel Regno Unito di fine ’90 venivano organizzati i primi “Winter Festival” per favorire la “ri-brandizzazione” in chiave laica e neutra del Natale. La trasformazione della nascita di Cristo in un evento puramente commerciale, associato al consumismo e al riposo dal lavoro, ha funzionato: sullo sfondo dei vari “Christmas” divenuti “X-Mas” o “WinterFests”, si è assistito alla riconfigurazione sistemica del meccanismo pubblico di auguri natalizi a livello locale. Nel 2014, secondo il The Independent, “un sondaggio riguardante i biglietti festivi inviati dalle autorità locali in tutta la [Gran Bretagna] ha rilevato che soltanto uno su 182 menzionava la nascita di Cristo. Quel biglietto proveniva da Banbridge, Irlanda del Nord. [La parola] Natale è stata ignorata da quasi la metà dei biglietti, dove si sono preferite frasi come "Auguri stagionali" o "Felici vacanze". Alcuni [biglietti] presentavano a fronte degli uffici comunali, uno mostrava la fermata dell’autobus”. Lo stesso sistema capitalistico si è adeguato rapidamente e armoniosamente al cambio di paradigma: nel Regno Unito è da diversi anni che le principali catene della distribuzione organizzata hanno eliminato dai loro scaffali tutti quei prodotti pasquali non conformi all’etica post-cristiana, ossia quei dolci e quelle uova in cui i produttori hanno inserito riferimenti alla reale natura della festività. Nel 2018, secondo i risultati di un’indagine ad hoc del The Sun, circa 70 milioni di uova di cioccolato pasquali – il 90% del totale – erano state immesse nel mercato, ossia distribuite e commercializzate, prive di indicazioni e riferimenti alla Pasqua nel fronte della confezione. La Pasqua sta venendo snaturata del suo significato originario, allo stesso modo del Natale, mentre i vocabolari stanno venendo silenziosamente riscritti con l’aiuto prezioso di forze dall’elevato impatto culturale quali sono la musica e il cinema; l’incamminamento dell’Occidente verso un’epoca post-cristiana comporta anche questo: l’espulsione di Cristo non soltanto dall’orizzonte, ma anche dai vocaboli delle persone.
Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 16 dicembre 2020. Resterà qualche ruolo anche per gli attori maschi? Dubitiamo fortemente, di questo passo. Da una parte, addirittura, si vuole abolire la distinzione di «migliore attore», «migliore attrice» dai premi del cinema e della tv in nome della fluidità sessuale e dell' inclusione; dall' altra, ormai, tanti ruoli storici baluardo degli uomini sono oggetto di saccheggiamento femminile, il tutto ovviamente dopo l' ondata del MeToo. Il più clamoroso è sicuramente il caso di 007 che nel prossimo capitolo al cinema sarà una agente donna e di colore. James Bond resta tale, ma la nuova eroina sarà Lishana Lynch, che si prepara al venticinquesimo film della saga No Time To Die. Donna e di colore è pure Zoe Kravitz, la bellissima attrice figlia di Lenny, che nella nuova serie ispirata al romanzo del 1995 di Nick Horby, Alta Fedeltà, ricopre la parte che al cinema fu di John Cusack, un uomo. Peraltro con scarso successo, visto che l' emittente streaming Hulu ha deciso di non confermare la seconda stagione. In High Fidelity - Alta fedeltà la protagonista è Rob, diminutivo di Robyn: lavora in un negozio di vinili e non siamo più a Londra, ma a New York. Se il protagonista del romanzo era etero, gli ex di Rob-Zoe non sono necessariamente tutti uomini. Di fatto tutte queste licenze poetiche non hanno avuto una accoglienza travolgente, visto che la seconda stagione non è cancellata, con tanto di polemica della protagonista (che abbiamo visto in Big Little Lies, quello sì un capolavoro). Ricordate, invece, il macho spagnolo Antonio Banderas nei panni dell' eroe spadaccino Zorro? Dimenticatelo. Adesso il personaggio mascherato cambia connotati ad opera di NBC che sta sviluppando una nuova serie tv che nel nuovo adattamento avrà un volto femminile. Ci stanno lavorando Sofia Vergara e Rebecca Rodriguez. La nuova saga sarà incentrata su Sola Dominguez, una versione femminile e contemporanea di Zorro, che è un' artista underground che combatte per la giustizia mentre la sua vita è in pericolo visto che ha denunciato diverse organizzazioni criminali. Il personaggio di Zorro, al secolo Don Diego de la Vega, è apparso per la prima volta in un romanzo breve del 1919. Al cinema ha avuto il volto di Alain Delon, Anthony Hopkins e Antonio Banderas; adesso prepariamoci a una nuova rivisitazione. Non è più un Paese per uomini, dunque, anzi un mondo per uomini. Oggi l' ondata femminista è talmente potente che produttori, autori e registi s' affannano a mettere in scena le donne in ogni salsa. Persino un tipo virile come Thor, protagonista della saga di fantasia, sarà messo in ombra. Nel nuovo film, quando i Giganti del Gelo invadono la Terra una nuova mano afferra il martello, e una donna misteriosa indossa il mantello del potente Thor.
Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia il 16 dicembre 2020. Caro Dago, Niente spiega meglio le follie del Politicamente Corretto che la testimonianza dei suoi funzionari caduti nelle purghe interne. Prendiamo il caso di Elena Tebano, giornalista del Corriere che sul sito del medesimo così si descrive: “Si occupa in particolare di questioni di genere e diritti Lgbt... La sua sensibilità verso i diritti di genere l’ha portata ad approfondire l’argomento dell’omofobia in tv...”. Non una bieca reazionaria dal cognome sospetto che scrive su Libero, per capirci. Ebbene, un paio di settimane fa la collega ha rendicontato la “transizione di genere” (qualunque cosa voglia dire tale supercazzola arcobaleno) dell’attrice canadese Ellen Page, la quale ci ha tenuto a far sapere al mondo che d’ora in poi il suo nome sarà Elliot, e i suoi pronomi di riferimento, con tanti saluti all’analisi logico-grammaticale, “lui/loro” (quest’ultimo utilizzato dalle persone “non binarie”, in lotta dura con l’insopportabile fascismo linguistico che prevede un maschile e un femminile). Solo che quel giorno la Tebano è forse stanca, forse distratta, e infrange il tabù: per informarci che Ellen è diventato Elliot scrive... Ellen! Non solo: il discriminatorio nome femminile per indicare l’attore non più attrice (no, scusate, omo-bi-transofobi che non siamo altro, non è mai stato attrice, nemmeno quando fu candidato all’Oscar come Miglior Attrice per “Juno”), compare anche nel titolo corrieresco “Ellen Page annuncia...”. Quanto basta per far scattare l’accusa deviazionista di “deadnaming”, uno psicoreato gravissimo secondo il Soviet politically correct, consistente nella pratica - citiamo dal successivo pezzo della Tebano - di “usare il nome di nascita di una persona transgender (cioè un nome che è «morto») senza il suo consenso” per “respingere e rifiutare aggressivamente l’identità di genere di una persona trans”. Come aveva preconizzato Orwell, la storia, anche quella personale, è ormai “un palinsesto che può essere raschiato e riscritto tutte le volte che si vuole”. La giornalista, appunto, è costretta il giorno dopo a vergare un altro articolo in cui respinge il capo d’imputazione e spiega i motivi della sua scelta, filosofeggiando che “nominare chi era in passato, riconoscendo chi è adesso” Ellen/Elliot serve a “dare la misura di quel percorso. Permette alle persone (anche a quelle che non ne sanno niente) di capire cosa significa la sua transizione. Non la nega, la onora”. Giuro, vostro onore, nessuna eterodossia, era una deroga per “onorare” il cambio di genere, e contemporaneamente instillare un po’ di neolingua pride a quei buzzurri che “non ne sanno niente” e magari praticano ancora la vetusta e criptosovranista copula tra il maschio e la femmina, al massimo un caso flagrante di scrittura più realista del Re Lgbt. Fine della (tragi)commedia. Non fosse che oggi una lettrice non ancora del tutto rieducata, Sara Gamba, scrive alla posta di Beppe Severgnini, chiedendo in soldoni perché mai il più prestigioso (?) quotidiano italiano aderisca così tanto alle turbe correttiste da scusarsi per aver dato un’ultima volta a Elliot della Ellen. Severgnini cede cavallerescamente la penna alla stessa Tebano (ma non sarà un rigurgito maschilista-paternalista?), che bacchetta la signora: “Chiedere di essere chiamati in un determinato modo, significa chiedere di riconoscere la propria identità attuale. Adeguarsi è una forma di rispetto: dietro al fantomatico “politicamente corretto” c’è solo questo, il tentativo di rispettare gli altri”. A pensarci, è giusto. Al momento la mia “identità attuale”, ad esempio, è quella di un afroamericano alto un metro e 98 centimetri che ha vinto 6 anelli Nba, quindi vi pregherei di rispettarmi e chiamarmi Michael Jordan.
Da “Libero quotidiano” il 16 dicembre 2020. Channel 5, emittente britannica, produrrà una mini-serie che avrà come periodo storico quello di del XVI secolo e le gesta di Enrico VIII, re di Inghilterra, e degli ultimi mesi di Anna Bolena. Nel ruolo, a sorpresa, Jodie Turner-Smith, attrice talentuosa e...di colore.
Giocatrici molestate abbandonate dalla Figc, ma gli arbitri si possono insultare. Alessandro Dell'Orto su Libero Quotidiano il18 dicembre 2020. Se - trafelato e incazzato, sotto pressione e in clima agonistico - mandi affanculo l'arbitro, ti cacciano immediatamente e chissenefrega delle attenuanti. Se invece sei un allenatore di calcio femminile e insulti pesantemente le tue calciatrici, offendendole e discriminandole - arrivando pure al limite dello stalking -, ti becchi una leggera squalifica di facciata e tutto come se niente fosse, si torna alla normalità tra l'indifferenza delle istituzioni. Strano ma vero? Eppure è così e il nostro football ancora una volta si distingue per poca equità. E troppo menefreghismo. Le due storie (quella di Insigne e delle calciatrici della Novese, serie B femminile all'epoca dei fatti) sono totalmente differenti, certo, ma se ci pensiamo bene raccontano con chiarezza quanto il mondo del pallone sia spesso superficiale e ingiusto. E soprattutto privo di buon senso. Rino Gattuso, tecnico del Napoli che ha perso 1-0 contro l'Inter, si è infuriato per il cartellino rosso che l'arbitro Massa ha sventolato in faccia a Insigne: «Solo in Italia gli arbitri ti buttano fuori perché li mandi a cagare per un rigore dubbio. E così cambiano le partite. Se urli "fuck off" in Inghilterra nessuno ti dice niente. A queste condizioni io avrei giocato una partita sì e una no». Come dire: i direttori di gara sono un po' troppo permalosetti e intoccabili. La faccenda è delicata, ma Ringhio non ha tutti i torti. Nel senso che nessuno ha diritto di insultare i fischietti, ovvio, ma dovrebbe esserci un po' di criterio. Primo, perché ci sono vaffa e vaffa: dipende dal momento, dalla situazione e anche dal modo in cui ci si incazza. Secondo, perché è molto più grave (e umiliante per un direttore di gara) avere un calciatore che protesta urlando qualsiasi frase (pur senza parolacce) a cinque centimetri dalla faccia - e quasi sempre il confronto ravvicinato viene perdonato, soprattutto ai capitani dei grandi club -, piuttosto che beccarsi un semplice vaffa di stizza a due metri che solitamente si perderebbe nel caos e che invece, con lo stadio vuoto, rimbomba. Sì, servono più equilibrio e sensibilità. Proprio quanto è mancato alla vicenda delle ragazze della Novese calcio. Le quali si sono ribellate al loro mister, Maurizio Fossati, poi sospeso solo per nove mesi dalla commissione disciplinare della Figc per i suoi atteggiamenti sessisti, discriminatori e omofobi (secondo le accuse avrebbe pronunciato frasi tipo «Sei grassa come un maiale», «Pensi solo a leccare la f...»). Come dire: le ragazze del calcio insultiamole pure, tanto poi non succede niente di grave. «Al di là della sentenza che noi tutti contestiamo e che è stata impugnata dalla Procura federale che chiedeva la radiazione anche per le accuse di stalking, molestie ed estorsione, resta una profonda amarezza - accusa Attilio Barbieri, genitore di una delle calciatrici coinvolte - anche per una campagna mediatica aggressiva che ha messo le ragazze sul banco degli imputati. Ci aspettavamo una reazione forte da parte delle istituzioni sportive. Non è arrivata. E temo che non arriverà mai. Da qui l'amarezza e la delusione, il disinganno e la rabbia». A infastidire è soprattutto l'assenza dei vertici del calcio. «Non c'è stata alcuna presa di posizione pubblica tranne quella dell'associazione ChangeTheGame che è al nostro fianco. Colpisce il silenzio assordante della Federazione italiana giuoco calcio. Come quello dell'Associazione italiana calciatori. Non una parola sugli accadimenti che hanno travolto le ragazze della Novese Calcio Femminile. Come se si trattasse di una vicenda da dimenticare. Troppo imbarazzante per essere degna d'attenzione. Le donne nel calcio vengono celebrate alla bisogna, quando conviene, spesso in termini retorici e inaccettabili. Magari un giorno all'anno, in occasione di passerelle vuote e prive di significato, dove capita che sfilino gli stessi che le hanno vessate e umiliate. Nella vita di tutti i giorni, lontano dai riflettori, si preferisce dimenticare, glissare, minimizzare, girare la testa dall'altra parte. E tacere. Come stanno facendo le istituzioni del calcio e dello sport».
Tiziana Lapelosa per “Libero quotidiano” il 16 dicembre 2020. Donne nude. Dodici. Tante quanti i mesi dell'anno. Corpi perfetti. Pose che sanno di erotico. Sguardi ammiccanti. E vota la più bella. E i venti fortunati che saranno sorteggiati riceveranno il calendario con tanto di autografo della fotografa che ha realizzato gli scatti, Tiziana Luxardo. Un omaggio all'Italia nella morsa della pandemia con dentro la voglia di riscatto, che non passa attraverso i volti o le storie rese immagini di chi il Covid lo ha attraversato e sconfitto, di chi ne porta segni e cicatrici, di chi ha negli occhi i resti della fame e della miseria…
01 GENNAIO. No. Per il Codacons passa attraverso i corpi, nudi, delle dodici modelle riprese in bianco e nero, vestite di sola mascherina dei colori della bandiera, corredate da un piccolo francobollo che ricorda luoghi un tempo più vivi. "Italienza" è il nome che l'associazione dei consumatori ha dato al calendario 2021. Un misto di Italia e di resilienza, parola ultimamente assai di moda, che indica la capacità di farcela, di superare un periodo di difficoltà. Cosa c'entra con scatti di nudo una associazione che da anni si batte a difesa dei consumatori, che fa le pulci a tutti, è la domanda che si sono posti in molti dopo la divulgazione del calendario (visibile online). Indignazione culminata con l'invito a votare la foto più bella. Una combinazione - nudo e voto - che ha fatto indietreggiare molti nel tempo.
02 FEBBRAIO. Voleva essere un omaggio alle donne? Quelle che hanno dovuto rinunciare al lavoro (4 su 10) per la famiglia durante la pandemia, che da casa hanno lavorato e fatto le maestre (inclusi anche tanti uomini)? Ma è con un nudo che chi difende i consumatori le omaggia? Se lo chiedono non soltanto le femministe dichiarate, arrabbiatissime, ma le donne comuni, senza etichette. Non a caso sono state tempestate di commenti negativi e inviti a ritirare il calendario le pagine Facebook e Twitter dell'associazione specializzata negli esposti contro tutto e tutti. Pure all'indirizzo di Chiara Ferragni "colpevole" di aver vestito i panni di una Madonna moderna per Vanity Fair e del marito Fedez per la piattaforma raccolta fondi anti-Covid. A poco serve a smorzare i toni il parere del critico Vittorio Sgarbi, il quale giudica i 12 scatti «una grande lezione di accademia del nudo». L'invito di tutti al presidente Carlo Rienzi è di ritirare il calendario giudicato «sessista».
03 MARZO. Riassumono il concetto, per tutte, le donne del coordinamento pensionate Spi Cgil del Veneto. Dicono, sui social, che «sono anni che denunciamo la rappresentazione sessista che viene fatta del corpo delle donne. E niente. Si continua. Imperterriti» e che «da un'associazione dei consumatori non ci aspettavamo proprio un attacco così diretto alle donne. Sì, perché, anche se sembra non esserci consapevolezza, l'attacco è diretto». Pure Carlo Calenda, candidato sindaco di Roma, si è detto scandalizzato, si teme più per calcolo politico che per altro. Tant'è che Rienzi si è domandato come mai «Calenda non si sia accorto che l'anno scorso abbiamo fatto una mostra dove venivano rappresentati atti sessuali etero e omosessuali, addirittura anche con animali, e questa mostra è servita moltissimo per far capire agli studenti cosa non si deve fare, e a sensibilizzare sulla violenza contro le donne».
04 APRILE. E sul voto, il presidente Codacons chiarisce: «È per la foto più bella, non per la modella», ricordando che sei mesi fa attraverso un sondaggio è stato chiesto ai 500mila simpatizzanti dell'associazione l'opportunità o meno di creare un calendario con nudi artistici «ed è stato un plebiscito di sì». La Luxardo, autrice degli scatti, si chiama fuori dalla polemica: «Difendo i nudi artistici del mio calendario ma l'idea del concorso la boccio, non mi appartiene, è stata una scelta del Codacons, sono sempre stata femminista». E dire che è proprio sull'esposizione dei corpi che è scoppiata la polemica. In ogni caso, se l'obiettivo del Codacons era far parlare di sé, ci è riuscito alla grande. Seppur diventando vittima del suo stesso moralismo.
05 MAGGIO. Non fate sapere ai Ferragnez, coppia d’assi dei social, che il loro “nemico pubblico numero uno” ha già bello e pronto il calendario per il 2021. Di chi parliamo? Ma del Codacons (Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori), che da tempo ha nel mirino Fedez e Chiara Ferragni. Il nuovo lunario si intitola “Italienza” ed è firmato anche stavolta dalla bionda fotografa col pedigree Tiziana Luxardo, che collabora col Codacons da qualche anno e ha sfornato calendari provocatori e di denuncia sociale che hanno fatto tanto parlare. In “Italienza”, che fonde in una parola italianità e (l’ormai abusata) resilienza, è racchiuso il significato del progetto dedicato alla voglia di riscatto del nostro Paese alle prese con la pandemia. Al grido di battaglia: la bellezza ci salverà!
06 GIUGNO. Protagoniste delle dodici tavole in bianco e nero, tratto distintivo e cifra stilistica dei lavori della fotografa romana, altrettante belle fanciulle nude e crude: unico accessorio che le accompagna una mascherina tricolore, l’indumento più importante da quando siamo alle prese col terribile Covid 19. Le ragazze posano simbolicamente in una cartolina, con tanto di francobollo, rimandando a un tempo che non c'è più, un tempo forse più romantico e vivibile, quando i saluti e i messaggi venivano scritti su carta e poi inviati per posta, non digitati freneticamente e freddamente via Smartphone. “I comuni sono la nostra prima linea per affrontare l’emergenza Coronavirus, i più vicini alle persone; l’idea di un progetto visual che ne celebrasse l’impegno e gli sforzi, nasce dal presidente del Codacons, Carlo Rienzi e io l’ho abbracciato in toto. Il risultato è un inno alla rinascita e alla bellezza dei luoghi, ora mortificata dall’assenza dei turisti”, spiega la Luxardo.
07 LUGLIO. Infatti gli scatti, che attraverso la valorizzazione del corpo femminile e l’elemento della mascherina tricolore raccontano di un mondo profondamente cambiato, sono una dedica ai borghi d’Italia, un invito alla riscoperta del patrimonio artistico e culturale perché “quando tutto questo sarà finito, solo la bellezza ci potrà salvare”, avvisa la fotografa. Il lunario 2021 si chiude con il ritratto di una donna di età più matura rispetto alle fanciulle in fiore, anche lei desnuda, un modo per far riflettere sul Coronavirus che colpendo tutti senza distinzioni ha scardinando il mito dell’eterna giovinezza. È la prima volta che la Luxardo introduce l’elemento colore nei suoi scatti “a rimarcare l’orgoglio, l’identità e l’appartenenza: un richiamo a restare uniti e superare questo momento di grande difficoltà del Paese”, precisa lei.
08 AGOSTO. Il calendario, distribuito gratuitamente dal Codacons, sarà disponibile per il pubblico anche sul sito Internet dell’associazione dei consumatori, da anni al fianco dell’artista per la realizzazione di campagne di sensibilizzazione su importantissime tematiche sociali, tra cui il contrasto al bullismo e la lotta alla violenza sulle donne. Da questa lunga collaborazione sono nati alcuni progetti di successo come “Siamo uomini o caporali” (il calendario del 2016) contro lo sfruttamento e la violenza sulle donne nelle campagne italiane; “Bulli e pupe” (del 2017) sul tema del bullismo; “Il riscatto di Afrodite” (del 2018) sulla sessualità vista dagli occhi dei disabili; "All’alba vincerò” (del 2019) contro la ludopatia. E, dulcis in fundo, “Si selfie chi può” (del 2020) sull’uso inconsapevole e dannoso dei social network, tra haters, influencer furbetti, webeti vari e cyberbullismo.
Giulia Zonca per lastampa.it il 4 dicembre 2020. Una lista di potenti senza centro occidentale, un elenco di persone che contano dove è presente l' Africa o il Sud-Est asiatico, una élite zeppa di donne e non è la rivoluzione e neanche un anticipo di nomination agli Oscar inclusivi per dittatura, è la Power List di ArtReview, un microcosmo capace di influenzare molti sistemi. Nata nel 2002, la sempre più ambita lista identifica non tanto chi gestisce l' autorità, ma chi la sposta. Diciotto anni fa era un bilancio di chi muoveva più soldi, ora è la geografia del cambiamento e nessuno ha forzato i parametri, i fatti e le idee li hanno cambiati fino ad arrivare al 2020 dove al primo posto c' è Black Lives Matter, al quarto #MeeToo e in mezzo un collettivo indonesiano che trasforma il confronto creativo in un genere culturale e un duo che lotta per la restituzione delle opere sottratte dal colonialismo. Non è una classifica di settore, non decide chi ha più potere d' acquisto, non oggi. Prima sottolineava ruoli decisivi: i galleristi più spavaldi, i direttori più pesanti e i curatori capaci di attirare l' attenzione. Tutto questo ancora c' è, ma si muove a un altro ritmo e si mescola a un potere più anarchico, a un' energia che parte lontano dalle rotte conosciute e si impone. I selezionati non sono per forza pezzi grossi dell' arte, ma movimenti, docenti, filosofi il cui pensiero rimbalza in diverse forme visive e diventa poi forza in grado di penetrare nella società e di trasformarla. L' arte è il mezzo e non sempre il fulcro dei prescelti che in qualche modo la usano come spinta: per questo la lista esce dal suo mondo di appartenenza e diventa di anno in anno spia della contemporaneità. Black Lives Matter ha tirato giù le statue confederate, ha scritto per le strade americane che la vita dei neri conta, ha dipinto murales in memoria di George Floyd, l' uomo soffocato da un poliziotto. Ha tradotto in gesti artistici la protesta e quei simboli, quelle foto, hanno viaggiato, hanno modificato diversi punti di vista. Non è giusto decapitare un monumento, ma è sensato discutere sul fatto che quel particolare tributo non abbia più un senso, né un posto legittimo. Questo processo rende l' arte e le correnti che la attraversano tremendamente concrete, pratiche. Alla posizione numero due c' è ruangrupa, rigorosamente in minuscolo, etichetta di un gruppo di Jakarta che ha il compito di organizzare la prossima Documenta, fiera tra le più importanti e pure quella che, con la sua scadenza quinquennale, ha spesso il compito di raccontare le metamorfosi, di indicare un sentimento che sta per arrivare. Gli artisti anticipano l' attualità. Al terzo posto Bénédicte Savoy e Felwine Sarr: insieme hanno portato il governo francese a votare, all' unanimità, per l' obbligo di restituzione. La Francia ha razziato opere da imperialista e anche se ora molte hanno storie complicate da ricostruire, esiste comunque una legge che preme per una svolta. Che contrasta il razzismo. Stesso meccanismo per #Meetoo, partito come onda di indignazione e ormai attivismo con una reale capacità di impatto. I musei hanno rivisto le loro collezioni e scoperto che le artiste sono poco rappresentate, hanno studiato modi per evidenziare la loro presenza e la loro parte. Non è un dettaglio, solo se la parità si vede poi esiste. Al numero cinque, occupato da Fred Moten, si scopre che un poeta filosofo può essere un influencer e come Chiara Ferragni agli Uffizi è un' ottima promozione per i musei, così Moten, capace di dare suggerimenti pure agli economisti con la sua critica radicale, è la prova che la cultura non ha una sede prestabilita. Circola. La lista segna i punti di connessione tra ciò che si mostra e ciò che serve, condiziona e orienta. Può darsi che i nomi non siano sempre davvero quelli più determinanti, come tutte le classifiche è discutibile e in certe decisioni controversa, ma i meccanismi che portano alla scelta testimoniano la connessione tra arte e vita, tra cultura e potere. Legami ben più stretti di quelli che si possono immaginare. L'Italia compare alla posizione 35 con Miuccia Prada, presente dal 2003, una delle più longeve e figura più tradizionale rispetto a quelle che ora stanno ai primi 10 posti, ma pure noi portiamo in dote il nostro dato indicatore di un presente sorprendente: su cinque soggetti inclusi nei power 100, 4 sono donne. E non dite che è solo arte, non dopo aver visto quanto conta.
Giada Lo Porto per repubblica.it il 21 novembre 2020. Polemica sulle foto di Letizia Battaglia per Lamborghini con due bambine ritratte per sponsorizzare il marchio. Sui social fioccano i commenti di indignazione per l'accostamento "imbarazzante" tra bimbe a auto, dopo che la stessa fotografa ha rilanciato gli scatti sul suo profilo Facebook. Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando si discosta dalla campagna: "Il Comune non ha mai autorizzato la campagna della Lamborghini presente sui social con modalità che non condividiamo". E chiede alla società di sospenderla immediatamente. "La società - spiega il sindaco - ha presentato una richiesta per realizzare un grande progetto fotografico a finalità culturale. Ma di questo progetto non ha mai fornito i dettagli, che abbiamo scoperto solo dopo l'avvio della campagna pubblicitaria". Letizia Battaglia dal canto suo replica dicendo che "per me Palermo é bambina e lo sguardo innocente di una persona che cresce". Lamborghini commenta: "Quando abbiamo deciso di coinvolgere Letizia Battaglia eravamo consapevoli della potenza delle sue immagini. Chi la conosce sa che i suoi soggetti sono incentrati sui ritratti di giovani figure femminili che per lei rappresentano una visione di sogno e di speranza". Protesta anche il presidente dell'associazione italiana dei pubblicitari Vicky Gitto, mentre un gruppo informale che vede unirsi operatori della cultura e gruppi femministi di Palermo ha scritto una lettera aperta a Letizia Battaglia. In serata la casa automobilistica ha rimosso dai social network le immagini contestate.
Gianmarco Aimi per mowmag.com il 1 dicembre 2020. “Letizia Battaglia è stata imbrogliata”. Non ha dubbi Oliviero Toscani, rockstar della fotografia, che sulle provocazioni – oltre alla qualità dei suoi scatti – ha costruito una carriera ricca di successi. Alla polemica che ha investito la fotoreporter palermitana, riguardante la campagna di promozione delle auto Lamborghini, mancava solo la sua visione, che come spesso accade apre spiragli inediti. Ricapitolando la vicenda, Letizia Battaglia, fedele al suo stile, ha scelto di immortalare delle bambine e, sullo sfondo, la famosa auto di lusso. La campagna pubblicitaria si chiamava “With Italy, for Italy”. Tra gli scatti – che comprendevano quelli di 21 fotografi in giro per l’Italia – anche i suoi pubblicati sul profilo Facebook della casa del toro che hanno ritratto alcune giovanissime in compagnia di una Aventador Svj gialla tra piazza Pretoria e piazza San Domenico. Le reazioni, che hanno accusato di sessismo sia la fotoreporter che il marchio, sono state così forti – e hanno visto in prima fila anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando - che alla fine Lamborghini ha rimosso le foto dai suoi social ufficiali. Non si è poi fatta attendere la replica della Battaglia, che ha difeso il suo lavoro: "Contro di me cattiveria inaspettata. Per me Palermo è una bambina e per questo ho deciso di fotografare giovani volti insieme a macchine di lusso nel cuore della città” e in seguito ha deciso di lasciare la direzione del Centro Internazionale di Fotografia, scatenando la reazione delle donne palermitane, che in una lettera le hanno chiesto di rimanere: “Ferita aperta, sarebbe una enorme perdita". Insomma, a riaprire la polemica e a dare una versione di quanto avvenuto diversa e originale, ci ha pensato Oliviero Toscani che ha puntato il dito contro chi gli ha commissionato quella campagna promozionale: “Il paragone che ha fatto qualcuno con le mie foto non ci sta. Io personalmente non avrei mai accettato. Comunque, la povera Letizia Battaglia è stata imbrogliata, ho grande rispetto per lei. Solo che i famosi uffici marketing sono pieni di imbecilli, di gente senza sale in zucca. Hanno preso una grande reporter e gli hanno fatto scattare foto su queste macchine assurde che sembrano condizionatori d’aria per gente altrettanto assurda. Siccome Letizia Battaglia è una donna generosa, una grande artista – ha proseguito Toscani -, è cascata in questo tranello. Non è il suo mestiere fare le foto pubblicitarie e lei pensava che la gente della pubblicità fosse onesta, invece non lo è. Questi sono degli imbecilli, che l’hanno utilizzata male, invece avrebbero dovuto riflettere un po’ di più. Alla fine, ci ha rimesso lei, infatti sembra che sia colpa sua questa stupida scelta”. E alla domanda sul perché non avrebbe accettato la proposta di Lamborghini, Toscani ha risposto: “Almeno prima avrei discusso a lungo su come farle, come integrare queste macchine nella città di Palermo. Sono bellissime, però assurde. Chi ha bisogno della Lamborghini di questi tempi quando siamo pieni di problemi ecologici, del risparmio e del riciclo? Non sono contrario, ma comunque è una macchina assurda. Non per il fatto che sia costosa, visto che esistono cose alla portata di tutti e altrettanto assurde”. Infine, Toscani si è espresso anche sul sindaco di Milano, Giuseppe Sala e ha lanciato una sua personale candidatura: “Sala ha dimostrato di essere all’altezza. È una persona seria e intelligente. All’inizio non ero d’accordo, poi mi sono accorto che era un bravo sindaco. Ma se fosse per me candiderei Giorgio Armani, ma non solo a sindaco di Milano, a primo ministro. Sala forse è un po’ troppo educato, mentre Armani è più secco, non ha peli sulla lingua e quindi farebbe filare molto di più la gente”.
Valentina Venturi per “il Messaggero” il 27 novembre 2020. «Sono stata massacrata, specialmente dai colleghi fotografi maschi e dalle femministe che non hanno capito. Ma quale corpo esposto: quelle sono persone, sono bambine che stanno crescendo. Non ho fatto niente che sia sporco o non delicato. Le mie foto sono anti pubblicitarie, era una campagna culturale, le mie bambine mi guardano con forza e mi danno i loro sogni». Così Letizia Battaglia, 85 anni, commenta la recente polemica legata alle fotografie scattate a Palermo per Lamborghini With Italia, for Italy, dove appaiono sullo sfondo le auto gialle e in primo piano le adolescenti. Dopo gli attacchi social, la casa automobilistica ha sospeso la campagna e rimosso gli scatti da Facebook, mentre il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ne ha chiesto l' immediata sospensione e rimozione. Parole addolorate quelle della fotoreporter siciliana che ipotizza di lasciare il Centro internazionale di fotografia ai Cantieri culturali alla Zisa, esternate ieri durante l' incontro online sui social del Maxxi e incentrato sul libro pubblicato per Einaudi Mi prendo il mondo ovunque sia, scritto insieme alla giornalista Sabrina Pisu. Perché Battaglia occupa in modo indiscutibile un posto unico nella fotografia di genere documentaristico e giornalistico. Lo occupa per il forte impegno sociale svolto nel quotidiano L' Ora negli anni Ottanta, in cui ha testimoniato i tanti delitti di mafia come l' omicidio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Lo occupa per il suo approccio militante, per lo sguardo femminista e per il caparbio convincimento che si possa costruire un mondo diverso. «Mi interessa non solo la fotografia», racconta la fotoreporter, mentre tiene tra le mani l' immancabile sigaretta, «ma anche esserci e fare parte dell' umanità. Con i miei piccoli mezzi voglio creare e partecipare alla lotta. Per me è indispensabile». Mi prendo il mondo ovunque sia è una duplice biografia in cui viene raccontata sia una Letizia privata che cresce e matura nella sua indipendenza di donna, sia una Letizia fotoreporter che fissa, attraverso immagini uniche, sia la vita quotidiana che le mattanze palermitane. «La sua storia di donna risponde al moderatore Roberto Ippolito la coautrice Sabrina Pisu, vincitrice del premio Giustolisi per il giornalismo investigativo - s' interseca con quella di Palermo, insanguinata dalla guerra di mafia che lei ricostruisce e analizza con un ruolo di primo piano, come coraggiosa testimone, impegnata per costruire una società più giusta». Battaglia testimone di omicidi, ma anche in grado di cogliere incontri eccezionali come il servizio fotografico a Pier Paolo Pasolini nel 1972 o la foto di Franca Rame all' interno della Palazzina Liberty sede del collettivo teatrale La Comune di Dario Fo, nella Milano del 1974. Battaglia è infine anche la testimone delle bambine di Palermo, di quei visi che attraverso il suo obiettivo diventano universali come la celebre bambina con il pallone. E sul motivo per cui le sue bambine non ridano mai, spiega: «Non voglio che ridano, voglio che fermino la loro camera dentro di me. Se ridono diventano solo carine, io voglio che io e loro, io e la bambina che è in me comunichino. Sono uno strumento della mia ricerca che il sogno si avveri. Se ridono me le perdo».
Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 23 novembre 2020. Una foto di Letizia Battaglia fa “scandalo”. Scattata a Piazza Pretoria, lo stesso luogo dove appare seduto Garibaldi nel dagherrotipo della presa di Palermo, sullo sfondo la Fontana della Vergogna. Nel nostro caso, troviamo una Lamborghini gialla, fa da sfondo a una bambina, capelli rossi, seduta su una poltroncina di fortuna. Una Lamborghini gialla in luogo di Garibaldi (lì, un tempo, a riposarsi d’ogni fatica per la conquista dell’unità d’Italia, come racconta il cronista Alexandre Dumas) e la facciata del Palazzo del Comune, con le sue lapidi. Su questo scatto, perfino le pizzute reazioni di istituzioni, femministe e altri ancora. Si reputa forse “inaccettabile” che gli scatti di Letizia possano, per committenza, innalzare a maggior gloria una Lamborghini e non l’insieme della città “Felicissima” (così per gli Spagnoli Palermo) dall’immenso e sontuoso carico di storia? Dimenticavo: la bellezza infantile è un qualcosa che Letizia Battaglia ha sempre osservato con amorevole curiosità. Se leggo bene, alla fine la foto è stata ritirata da ogni ideale vetrina di città. Punto. Fine della storia, così ogni scandalo sanato. Conosco Letizia Battaglia da oltre quarant’anni, insieme alla sua storia di fotografa, di ragazza e poi donna in rivolta, ho condiviso con lei molte lotte, o forse, sì, battaglie, non c’è davvero altro modo per definirle, innanzitutto condotte dalle pagine del leggendario giornale “L’Ora”, immensa scuola civile di giornalismo e di vita, e di battaglia, Letizia ne era la fotografa “ufficiale”, il volto, il suo “carrè” biondo, la gonna ampia a fiori, il suo irrompere sul “luogo del delitto”, facendosi largo tra i poliziotti e il medico legale, nella Palermo dei primi anni Ottanta, la cosiddetta “grande guerra di mafia”. Insieme a lei, fra molto altro, ho visto perfino un povero giudice appena assassinato da sicari corleonesi. Era l’Epifania del 1980, mi trovavo davanti alla portineria del giornale quando una telefonata ha avvisato il portinaio Genduso di “un morto ammazzato davanti a dov’era la Birreria Italia”, Letizia ha approfittato del mio passaggio, siamo giunti prim’ancora d’ogni ambulanza e delle “gazzelle”, il “morto” da appena un istante per terra. Sempre con lei ho condiviso serate meravigliose in feste della buona società cittadina, tra nobiluomini di mondo e ragazze convinte d’avere il genio del teatro, conversazioni su comuni amici giornalisti in preda a terrificanti crisi sentimentali, innamorati di perfide colleghe, riunioni con amici scrittori del Gruppo 63 per realizzare periodici d’avanguardia, così fino a notte nelle sale della Libreria Dante, ai Quattro Canti, cioè al Teatro del Sole, poco lontano proprio dalla piazza della “vergognosa” foto che mostra la bambina in posa davanti alla Lamborghini gialla. Occasioni indimenticabili, quando sembrava che Palermo nulla avesse da invidiare al mondo. Sempre con Letizia ho condiviso strazianti pomeriggi al “manicomio” di via Pindemonte, fino a scoprire la sua generosità… Ancora, pensandoci bene, nel maggio 1990, ospite del “Maurizio Costanzo Show”, per lei ho litigato con Vittorio Sgarbi, proprio per difendere lei, allora parte della giunta Orlando, in piena “Primavera di Palermo”. L’assessore Letizia aveva fatto collocare alcune poltrone di marmo disegnate da Ettore Sottsass alla Vucciria, Sgarbi disse di ritenere “inaccettabile”, che fossero stati messi degli arredi “di un design fighetto milanese in una piazza siciliana del ’500”, aggiungendo: “…e poi, chi dovrebbe mai sedersi su queste poltrone, forse dei drogati?”. In quel momento esatto ho pensato alla nostra amicizia, al modo in cui a Letizia piacesse che noi ragazzi pomiciassimo per strada (anzi, come si dice a Palermo, “schiniassimo” felici), metti, sulle panchine di Villa Sperlinga chiedendo perfino di metterci a favore della sua reflex per fotografare i nostri baci, così ho pronunciato una semplice frase: “Sinceramente, non capisco perché mai i drogati dovrebbero sempre stare in piedi?”. Mi hanno coperto di applausi, le poltrone di Letizia laggiù salve. E’ vero pure che Letizia a un certo punto della sua vita ha voluto abbandonare Palermo, convinta di avere visto troppi morti ammazzati, fin troppo sangue, fin troppo dolore, decidendo così di trasferirsi a Parigi. Alla fine però, come il personaggio di Camus che confessa di non voler vivere in “un posto dove non si vedono gli scarafaggi”, Letizia è tornata a Palermo. Leoluca Orlando in città le ha anche offerto uno spazio per realizzare una “sua” scuola di fotografia, se ho capito bene. Di Letizia, ricordo anche splendidi primi pomeriggi al sole nella sua terrazza in cima a Palazzo Galletti, nel regno di Piazza Marina, davvero una vita fa. Che si possa trovare “osceno” e “inaccettabile” un suo scatto dove si mostra una bambina su sfondo di una Lamborghini gialla appare, confesso, ai miei occhi, l’ho già detto, incomprensibile. Nel Teatro del Sole credo che Letizia possa mostrare ogni miraggio: gli occhi imbevuti di “Bacardi” del giornalista innamorato della collega, la grisaglia di Salvo Lima, i poveri nel buio dei “catoi” dei mandamenti, l’ennesimo morto senza nome, se non nel rendiconto catastale mafioso, esatto, ogni cosa si trovi a incontrate le sue pupille. Letizia Battaglia ha conquistato, grazie alla sua storia di libertà, prim’ancora che in nome del talento, un salvacondotto che tutto concede, e che noia doverlo adesso ribadire.
GIULIA ZONCA per la Stampa il 4 dicembre 2020. Capelli rosa, sigaretta in bocca e fotografie nella testa. Letizia Battaglia prepara la sua lectio per Vita Nova in programma domenica (ore 18,15). Nel gioco degli opposti che girano dentro l'assaggio di Salone del Libro, lei ha scelto vita e morte, ma non ha voglia di guardarsi indietro. Se si voltasse vedrebbe sangue, cadaveri, la mafia che ha documentato, un orrore dopo l'altro.
Che posto hanno le foto a cui ha legato il suo nome?
«Sono diventate quasi un incubo. Io ci tengo a vivere e a divertirmi, per questo ho i capelli colorati. Lì c'è troppa morte, violenza, rancore. Ho vissuto una guerra civile e a 85 anni non voglio più essere una reduce».
Lì c'è pure un pezzo di storia e 20 anni della sua carriera.
«E dolore e fatica e silenzio. Non è naturale. Poi, certo, restano proprio per raccontare quella carneficina, un conflitto tra fratelli. Tutti siciliani».
Per quale foto ha avuto più paura?
«Non ne avevo, non potevo averne: la respiravo ma non la sentivo e quando sono arrivati i brividi è iniziata la politica. Fare è sempre d'aiuto, è un'ottima terapia. Sono diventare assessore per questo».
Una delle poche non deluse dalla politica.
«Se la fai bene è a favore delle persone, delle cause, le foto sono sempre contro e io non amo la polemica».
Quella sulle ragazzine scelte per la campagna della Lamborghini l'ha appena travolta.
«Non era una pubblicità, mi hanno chiesto il contributo per un libro ed è partito un corto circuito. Mi sono sentita dire dalle mie amiche femministe che ho "tradito il corpo delle donne". Figurarsi».
Il corto circuito è nato per la ragazzine davanti all'auto.
«Sono io che guardo me stessa, sono io che celebro la libertà che a 10 anni non avevo. Se la sognano la mercificazione. Sono bambine, hanno 7, 11 anni, non conoscono la sensualità, vogliono giocare e la macchina è un giocattolo».
Non un oggetto del desiderio?
«Non per me, non ho nemmeno la patente. Tutti smaniavano per guidarla, io mi sono solo seduta sul predellino all'esterno. Le ragazzine sono arrivate con i genitori che poi mi hanno scritto lettere bellissime. Almeno un po' di conforto. Adesso me ne frego, ma non è stato facile».
Colpa del femminismo di ritorno?
«È quello vecchio. Non esiste un nuovo femminismo, le ragazze hanno aperto qualche porta e tante non si accorgono che gli uomini guadagnano ancora di più, che loro non saranno mai direttrici di banca o presidenti della Repubblica».
Mai?
«Io non ci credo. Oggi vedo solo donne che si ficcano le dita negli occhi».
Tra le sue foto più note c'è la bambina con il pallone, lei ha idealmente fatto strada. Oggi le bimbe possono correre dietro un pallone se vogliono.
«Quello sguardo così cupo è stato un dono. Non è un'immagine posata, come si crede, è una sequenza e il pallone non è un semplice gioco, è il sogno: il desiderio di un mondo fantastico che in quell'età devi poter inseguire. Come fanno anche le bimbe della Lamborghini».
Nella lezione al Salone di Torino, purtroppo solo digitale, come racconta la vita?
«Con Palermo nuda, il mio ultimo progetto. Ci sto dietro da due anni, mostra donne fotografate così come sono».
Scateneranno altre polemiche?
«Non c'è desiderio, quello è nello sguardo degli uomini che si confrontano con la nudità».
Scelga tre foto non sue per raccontare il mondo.
«Una qualsiasi di Diane Arbus, sono tutte perfette. Il coronavirus catturato da Antoine d'Agata, i suoi fantasmi rossi ci fanno vedere come siamo diventati senza più contatto. E Aylan, il piccolo siriano trovato sulla spiaggia di Bodrum».
Ancora morte però...
«Già e c'è sempre una donna dietro l'obiettivo, Nilüfer Demir che ha fatto tanti lavori sui migranti. Forse anche lei un giorno non avrà più voglia di vedere quei corpi».
Dagonews il 21 novembre 2020. Gli “addetti ai livori”, proprio ora che Laura Ravetto ha lasciato polemicamente Forza Italia per approdare alla Lega, ricordano che la deputata abbia una certa “confidenza” con i colori del Carroccio. Pare che la bionda e seno-rifatta Ravetto abbia avuto in passato, prima di sposarsi, una dolce frequentazione con un deputato della Lega, un ricchissimo imprenditore veneto, che ora non è più in Parlamento. E’ una storia lontana, quando il partito di Bossi era zeppo di duri e puri, lottava per l’autonomia federalista e per l’indipendenza della Padania. Ps: Toh, le coincidenze! Si vocifera che l’amore tra Laura Ravetto e il marito Dario Ginefra, ex deputato del Pd, sia finito da un pezzo e che il matrimonio resista solo per mantenere la pax familiare e per preservare la figlia Clarissa Delfina. Sarà vero? Ah, saperlo…
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 22 novembre 2020. Scene da film di Tarkovskij. È come se esistesse una Zona, cinturata da una linea invisibile: basta varcare il confine e hic sunt leones. È sufficiente un piccolo sforamento per entrare nel territorio di caccia, nell'area grigia in cui si può essere sbranati senza che alcuno provi sconcerto. Se si è fuori dalla Zona si è al riparo, al caldo, coccolati fra gli illuminati progressisti. Dentro la Zona - là dove vivono i subumani populisti - che il sangue scorra. La rappresentazione plastica di tutto ciò che la offrono i sommovimenti interni a Forza Italia degli ultimi giorni. Silvio Berlusconi si dichiara «responsabile», potrebbe presto tornare utile all'attuale esecutivo e all' improvviso tout est pardonné. Salvo qualche piccola trincea di coerenza antiberlusconiana (la ridotta di Marco Travaglio), il resto della sinistra dimentica all'improvviso lo Psiconano, il Sultano, il culo flaccido, il Banana, il pelato eccetera. Spariscono gli insulti, svaporano le offese, non se ne va il disprezzo ma viene ben celato. La scure alzatasi dal collo di Silvio, però, è calata su quello di Laura Ravetto, parlamentare forzista passata alla Lega. In un lampo, ecco scatenarsi su di lei le fiere. Mario Natangelo, autore satirico del Fatto, le ha dedicato una vignetta da bar di Caracas. Ritrae Berlusconi intento a commentare l'addio a Fi della signora: «Peccato, era brava la Ravetto, sapeva fare una cosa con la lingua che». Il sottinteso sessuale è chiaro, e non è di certo inedito. Così come non sono affatto inedite le reazioni che la vignetta ha suscitato. A parte qualche sparuta dichiarazione di solidarietà giunta da sinistra, gli insulti alla parlamentare neo salviniana sono passati sono silenzio. Il che stona un po' con il clima imperante di ossessione antisessista, in cui basta mezza parola storta per vedersi attribuire la patacca di orrendo machista. Siamo alle solite: passando al nemico sovranista, la Ravetto è entrata nella Zona, dunque la si può tranquillamente accusare di aver fatto carriera concedendo favori sessuali senza che questo provochi scandalo. E ovviamente a Natangelo non saranno mosse accuse di razzismo o sessismo. Tanto che il fumettista, in una seconda vignetta, fingendo di precisare il suo pensiero, ha dato della «mignotta» alla Ravetto. Tutto secondo copione: se sei fra gli eletti fuori dalla Zona, ti puoi permettere di disprezzare e dileggiare chi è dentro. Come ha fatto ieri Gianni Riotta nel breve ritratto di Rudolph Giuliani pubblicato sulla Stampa. Ha raccontato di aver incontrato Giuliani quando era sindaco di New York e di averlo intervistato perché «amico e collega» di Giovanni Falcone. Al tempo gli aveva fatto un'ottima impressione. Era «l'uomo che aveva ristabilito l' ordine» nella Grande Mela, un «gentleman». Oggi, però, Giuliani non è più «l'amico di Falcone», bensì «l' amico di Trump». E infatti Riotta ha cambiato tono: lo descrive come un «patetico avvocaticchio», suggerisce che si sia rincoglionito con l'età. Gianni lo spietato insiste sulla «lacrima viscida» di mascara che - in una foto molto circolata sui media americani - si vede colare sul volto sudato di Giuliani durante un incontro con la stampa. Poiché è entrato nella Zona, l' ex sindaco di New York - a prescindere dagli eventuali meriti - può essere raccontato come un anziano ridicolo che si trucca e si tinge i capelli. Alla faccia di quello che gli statunitensi chiamano «ageism», cioè discriminazione verso gli anziani. Volete un altro esempio? Prendete il libro di Barack Obama appena uscito. L' ex presidente americano snocciola colorite descrizioni di alcuni leader incontrati nel corso della sua carriera. A proposito di Nicolas Sarkozy scrive: «Con i suoi tratti scuri, vagamente mediterranei (era mezzo ungherese e per un quarto ebreo greco) e la sua bassa statura (un metro e 66 ma portava rialzi nascosti nelle scarpe per sembrare più alto), sembrava uscito da un quadro di Toulouse-Lautrec». Poi aggiunge rifiniture di questo calibro: «Le mani in perenne movimento, il petto gonfio come un gallo nano». Pare che queste parole non abbiano indignato nessuno, e forse è anche giusto così. Dice il profeta: «Non temete l'insulto degli uomini, non vi spaventate per i loro scherni». Ma vi ricordate che putiferio scoppiò quando Berlusconi definì Obama «abbronzato»? Avete idea di che cosa succederebbe se qualcuno, oggi, osasse dire che il caro Barack è «scuro» o se lo paragonasse a un animale? Provate a immaginare che accadrebbe se un sovranista su di giri utilizzasse le parole «ebreo» e «ungherese» nella stessa frase, magari riferendole a George Soros. Subito si udirebbe ringhiare: «Antisemita!». E chissà che cosa accadrebbe se un giornalista italiano dipingesse Soros con la tempera color odio utilizzata da Gianni Riotta nel suo articolo su Giuliani. O se un vignettista «di destra» insinuasse che una rappresentante del Pd si è inginocchiata davanti a Zingaretti per far carriera. A sinistra sono così fissati con le discriminazioni e i commenti negativi sull'aspetto fisico che persino il ministro dell' Istruzione, Lucia Azzolina, sfida il ridicolo e racconta - onde mandare un messaggio contro il bullismo - che a scuola la schernivano per via delle labbra e la chiamavano «Cazzolina». In nome della «lotta all'odio» questa maggioranza scodella progetti liberticidi tipo il ddl Zan. Poi, però, quando la discriminazione e l' odio si manifestano in purezza, passano in cavalleria: basta che chi sputa e insulta sia di sinistra e tutto è concesso.
Da “Libero quotidiano” il 22 novembre 2020. È polemica per la pesante vignetta del disegnatore del Fatto Quotidiano Natangelo contro Laura Ravetto (appena traslocata nella Lega) con un Silvio Berlusconi che dice: «Peccato, era brava, sapeva fare una cosa con la lingua». Anche la ministra per le Pari opportunità e la famiglia Elena Bonetti ha criticato il disegno (e meno male). Al Fatto, però, sono recidivi...dalla Meloni alla Boschi, la vignetta sgradevole sulle donne è una loro specialità.
Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 22 novembre 2020. Escluso Morra, l'ultima prodezza l'ha firmata Natangelo, vignettista del Fatto Quotidiano. «Il dolore di Silvio», è il titolo del fumetto di cattivo gusto, condiviso su Twitter. Si vede un Silvio Berlusconi che secondo Natangelo sarebbe affranto per l' addio agli azzurri della deputata Laura Ravetto, passata alla Lega di Salvini. Sopra la testa dell' ex premier c' è una nuvoletta: «Peccato era brava, la Ravetto, sapeva fare una cosa con la lingua che...». Repertorio da caserma o linguaggio da osteria, restano il sessismo e una rovinosa caduta di stile. Ma le donne di centrodestra molto spesso sono il bersaglio preferito degli insulti di altre donne. Si veda alla voce Asia Argento, già paladina del #metoo. Siamo a febbraio del 2017. L'attrice fotografa, di nascosto, la leader di Fdi in un ristorante romano. Quindi pubblica la foto su Instagram. Il commento tradotto dall' inglese suona così: «Schiena lardosa della ricca e senza vergogna, fascista beccata a mangiucchiare». La dose di bodyshaming è servita sui social. Sempre sul tema degli sfottò sui veri o presunti difetti fisici, c' è Marco Travaglio, direttore del Fatto, più volte accusato di prendere in giro il deputato ed ex ministro di Forza Italia Renato Brunetta per via della sua altezza. L' ultimo riferimento in un editoriale del 22 settembre scorso, dove Brunetta veniva definito «mini-indovino». Un po' come faceva il fondatore del M5s Beppe Grillo, abituato a giocare sulla statura di Berlusconi, soprannominato dal comico «nano» e «psiconano». Tra indignazione a intermittenza e accuse di sessismo a corrente alternata, nell' elenco non può mancare Daniela Santanché, attualmente deputata di Fdi. Presa di mira nel 2013 dall' ex ministro M5s dell' Istruzione Lorenzo Fioramonti, allora professore all' Università di Pretoria in Sud Africa. Come rivelato l' anno scorso dal Giornale l' ex pentastellato su Facebook commentava così una performance televisiva della parlamentare: «Se fossi una donna mi alzerei e le sputerei in faccia, con tutti gli zigomi rifatti». La Santanché, insieme alla deputata di Fi Michaela Biancofiore, riceve un trattamento simile nello stesso anno da Andrea Scanzi, giornalista di punta del Fatto Quotidiano. Ecco un estratto del post Facebook incriminato, fin troppo eloquente nella sua trivialità: «Ciò detto e ribadito, scusandomi oltremodo per i toni grevi da Cioni Mario, mi sento di condividere una recente massima di mio padre. Questa: «Se nella mia vita avessi conosciuto solo donne come la Santanché o la Biancofiore, o entravo in seminario o mi ustionavo dalle seghe». E poi c'è la scrittrice Michela Murgia. Che a Otto e Mezzo a fine settembre parla di Salvini, spiegando che un politico con «il muso unto di porchetta» non è credibile nelle vesti del moderato. Per la Murgia il leader leghista evidentemente somiglia più a una specie di bestia provvista di «muso» che a una persona dotata di faccia. Virando di nuovo sul tema della svalutazione della donna di centrodestra, troviamo Matilde Siracusano, deputata di Forza Italia. Vittima due anni fa di una sequela di insulti sessisti irripetibili da parte dei fan di una pagina Facebook vicina al M5s, che aveva condiviso un video di un suo intervento alla Camera in difesa di Berlusconi, scatenando la canea degli haters. E adesso con Morra è stato oltrepassato l' ennesimo limite.
(ANSA il 9 dicembre 2020.) - Una maestra del corpo di ballo "razzista", che ha preteso la pratica del "whitefacing" da una ballerina nera, per rappresentare "il lago dei Cigni". È questo il cuore della denuncia di Chloe Lopes Gomes, che travolge lo Staatsballett di Berlino. La ballerina francese ha raccontato - per la prima volta allo Spiegel - di aver subito forti discriminazioni nella prestigiosa istituzione della capitale tedesca a causa del colore della sua pelle. Alla fine di ottobre, Lopes Gomes non ha avuto il rinnovo del contratto, e a questo punto si è fatta avanti, per riferire del clima fortemente discriminatorio. La vicenda è rimbalzata sulla stampa locale, che riporta delle accuse in particolare nei confronti della maestra di ballo, che pretese in passato, fra l'altro, che la ballerina truccasse il viso di bianco, per non penalizzare "l'omogeneità" della rappresentazione del Lago dei cigni. Secondo il Tagesspiegel si tratterebbe di "una tedesca dalla biografia nell'est". La Lopes Gomes, che ha lavorato in passato nelle compagnia di Nizza, di Londra e per il "Bejart Ballet" ha affermato di non essere mai stata tanto discriminata come accaduto allo Staatsballett di Berlino. Il caso ha sollevato polemiche anche nel settore: la rivista tedesca "Ballett Journal", ad esempio, scrive della vicenda con un articolo dal titolo "come una cattiva ballerina si mette in scena come vittima".
Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia l'11 dicembre 2020. Caro Dago, poiché come dice uno dei massimi filosofi contemporanei, Arrigo Sacchi, il calcio è la cosa più importante delle cose non importanti, una feconda spia dello spirito malaticcio dei tempi è costituita appunto dal mondo del pallone. L’ultimo turno di Premier League, nella fattispecie, ci ha regalato un caso di Politicamente Corretto in azione. Succede che al minuto ottantanove Leicester e Sheffield United siano sull’1-1. Il centravanti dei primi, quel Jamie Vardy eroe della cavalcata 2016 che valse il campionato sotto Claudio Ranieri, buca la difesa avversaria sul filo del fuorigioco, aspetta l’uscita del portiere, alza perfettamente la palla di piatto, e segna il gol della vittoria. Gioia selvaggia (anche perché Vardy da ragazzino tifava Sheffield Wednesday, rivali cittadini dei suoi avversari), corsa verso la bandierina come mille volte, overdose adrenalinica, calcione in scivolata alla medesima, che si spacca in due tronconi. Una scena già vista al di qua della Manica, ad esempio con protagonista Antonio Cassano, non certo edificante, tanto che l’arbitro ammonisce il giocatore, provvedimento difficile da contestare anche per chi in genere è lasso sull’ “eccesso di esultanza”. Ma che in un mondo vagamente normale finisce lì, materiale per l’anedottica da campo. E invece. Invece, quel reprobo di Vardy non aveva calcolato che la bandierina incriminata quel giorno era arcobaleno, a rappresentare una campagna della Premier League a favore dei “diritti Lgbt” (in termini commerciali, un caso di riuscita sicura: il mainstream applaude a prescindere, l’utente medio anche, l’utente scettico tiene per sé il proprio scetticismo per non essere scomunicato socialmente). Ergo, l’attaccante del Leicester si ritrova trasformato in una versione omofoba e più sanguinaria di Torquemada. Twitter ribolle d’indignazione pride, in inglese, spagnolo, italiano. “Non lo aveva mai fatto prima ad una normale bandiera del calcio d’angolo” (s’intende una bandierina etero, evidentemente). “Manda un messaggio orribile, sono furioso”. “Fanculo Vardy omofobo”. “Terribilmente omofobo”. “Jamie Vardy ormai pronto a trasferirsi tra le fila di Rivoluzione Cristiana per combattere le teorie gender e chi scende in piazza per il gay pride” (nemmeno il gol di mano di Maradona alla perfida Albione fu così ideologizzato). “Il mondo finirà per colpa di ritardati del genere”, e altri simili analisi serene e per nulla sproporzionate rispetto al festeggiamento sopra le righe di un gol al novantesimo (ovvero di un’ovvietà da quando i conterranei di Vardy hanno inventato il gioco del pallone). Anche le decine di tabloid del Regno Unito invocano a testata unificata la pubblica ammenda del centravanti clerico-fascista. Che infine arriva, sotto forma di riunione dei cocci del simulacro violato, scritta in sostegno della tifoseria Lgbt della sua squadra, “Foxes Pride, continuate così” (non si sa a fare cosa, ma è irrilevante, il punto sta nella retromarcia del reo ideologico, il merito è irrilevante) e firma del bomber ravveduto. Un caso spettacolare di rieducazione correttista, puro maoismo postmoderno e glamour. Dal Libretto Rosso alla Bandierina Arcobaleno.
Gaia Cesare per "il Giornale" l'11 dicembre 2020. Aretha Franklin di rispetto ne chiedeva almeno un po', just a little bit. L' Università di Cambridge preferisce «la tolleranza». L' Ateneo britannico ha bocciato l' ipotesi di introdurre, fra le sue nuove linee guida, la richiesta di esternare opinioni «rispettose». La ragione? Il concetto di «rispetto» rischia di limitare la libertà di espressione. Meglio parlare e promuovere la «tolleranza» delle idee e delle identità altrui, è la decisione presa dalla Regent House, l' organismo di governo dell'Università più blasonata al mondo, che ha pubblicato mercoledì i contenuti della sua nuova politica interna sulla libertà di pensiero. Dopo un lungo dibattito, a prevalere a larga maggioranza - con l' 86,9% dei voti dei tremila componenti del direttivo - sono state le motivazioni di quegli accademici come il filosofo Arif Ahmed, che hanno sostenuto, tramite un emendamento, un principio base: la libertà di espressione deve muoversi senza «paura di intolleranza». Il rispetto no, meglio non scomodarlo perché rischia di essere troppo limitante, sia per i docenti che per gli ospiti dell' università, entrambi tenuti a seguire un codice nelle proprie esternazioni pubbliche. «È nostro dovere tollerare i colleghi anche quando dicono cose che consideriamo sciocche - ha spiegato il professor Ross Anderson - Quando riteniamo che le loro opinioni siano offensive dovremmo farlo notare educatamente. Non dovremmo correre dal vicerettore chiedendogli di censurarli». Docente di Ingegneria e strenuo difensore della libertà accademica, Anderson appena qualche settimana fa aveva denunciato dalle pagine del Times: «Molte persone sentono di vivere in un' atmosfera da caccia alle streghe, una sorta di versione accademica di Salem nel XVII secolo o nell' era maccartista». Il politically correct va bene - è il senso - ma non fino agli estremi dell' autocensura che con la parola «rispetto» rischia di inglobare troppo e concedere troppo poco al libero pensiero. Ecco il passaggio cruciale, dopo la doverosa e sacrosanta premessa con la quale l' ateneo si impegna a difesa delle idee e contro la censura: «Nell' esercizio del loro diritto alla libertà di espressione, l' Università si aspetta che il proprio personale, studenti e visitatori siano tolleranti nei confronti delle diverse opinioni degli altri, in linea con il valore fondamentale dell' Università della libertà di espressione», recita il testo approvato il 9 dicembre. E ancora, sempre a rimarcare il concetto di tolleranza: «L' Università promuove un ambiente in cui tutto il suo personale e gli studenti possano sentirsi in grado di mettere in discussione e testare il sapere ricevuto ed esprimere nuove idee e opinioni controverse o impopolari all' interno della legge, senza timore di intolleranza o discriminazione». Soddisfatto dell' esito del voto, il vicerettore Stephen Toope ha definito la decisione «una enfatica riaffermazione della libertà di espressione nella nostra università». Un trionfo del free speech, contro i limiti e la censura al quale viene ormai troppo spesso sottoposto in nome di un principio sacrosante ma a tratti limitante: il «rispetto» delle opinioni o della identità di qualsivoglia minoranza. «La dichiarazione chiarisce anche - ha aggiunto orgoglioso Toope - che è inaccettabile censurare o disinvitare oratori le cui opinioni sono lecite ma possono essere viste come controverse».
D.Zam. per “il Giornale” il 30 novembre 2020. Eton, la più prestigiosa scuola superiore inglese, culla dell' élite britannica e fucina di 20 primi ministri tra cui lo stesso Johnson e David Cameron è al centro di un feroce dibattito interno sulla libertà di pensiero. Da una parte un professore di inglese, Knowland, che prepara una lezione di 30 minuti intitolata «Il paradosso del patriarcato», in cui suggerisce che la scienza e la storia umana evidenzino come qualità ritenute mascoline, come la forza e il coraggio, siano state di beneficio anche per le donne. E che un mondo senza maschi sarebbe un posto peggiore per le donne stesse. Dall' altra parte Simon Henderson, preside della scuola, che licenzia il docente per cattiva condotta, reo di aver messo in pericolo il buon nome della scuola rischiando di trascinarla nei pantani delle polemiche femministe. In soccorso del docente circa 800 alunni della scuola che firmano una petizione a favore della libertà di pensiero, dove le idee si rafforzano o si soffocano attraverso il confronto ma non vengono silenziate a priori. Gli studenti stessi accusano la scuola di «ipocrisia, crudeltà e totale mancanza di carattere», secondo quanto riportato dal Daily Mail, e dimostrano di aver introitato splendidamente capacità critica e libero pensiero, che nella scuola si insegnano da 600 anni. Knowland si è detto convinto che gli studenti abbiano il diritto di confrontarsi non solo con le idee maggiormente in voga ma anche con quelle culturalmente minoritarie ma sposate da buona parte della popolazione. Il docente ha fatto ricorso contro la decisione del preside ed è stato avviato un procedimento disciplinare che potrebbe portare al suo licenziamento. «Temo - ha scritto ai colleghi che la scuola stia soccombendo a un trend educativo che mette al primo posto la sicurezza emotiva degli studenti rispetto alla loro capacità di analisi intellettuale».
Alessandra Rizzo per “la Stampa” il 7 dicembre 2020. Cosa succede tra le austere aule di Eton, la scuola dove da secoli si formano le élite (maschili) britanniche? Prima un professore è stato licenziato dopo aver preparato una lezione sul «paradosso del patriarcato» ed essersi rifiutato di rimuovere da YouTube il video della lezione. Poi il ministro dell' Istruzione ha avanzato l' idea di ammettere studentesse in una scuola da sempre riservata ai ragazzi. «Sarebbe un bel passo avanti», ha detto Gavin Williamson. Bastione della tradizione britannica, Eton è improvvisamente diventata terreno di scontro nella guerra culturale che imperversa in tante università, tra difesa della libertà di espressione, «cultura della cancellazione» e idee di modernità. Il caso del professor Will Knowland si inserisce perfettamente in questo dibattito. Si tratta di mera «cattiva condotta», come sostiene la scuola, o di censura che strizza l' occhiolino alla dittatura del politicamente corretto, come dicono gli studenti che ne chiedono il reinserimento? Oppure è semplicemente una lezione misogina, anzi, per usare le parole di un editoriale del Sunday Times di ieri, «un fiume in piena di grezza misoginia» degno di Trump? Nella sua lezione Knowland dibatteva tra le altre cose di qualità ritenute tipicamente maschili, come il coraggio o la forza fisica, sostenendo che anche le donne ne abbiano tratto beneficio. E di come una società senza maschi sarebbe «orribile» per le donne. La lezione, destinata agli alunni più maturi in un corso mirato a sviluppare il pensiero critico, è stata registrata e mandata agli altri docenti: uno o una di loro ha sollevato proteste e la lezione è stata giudicata essere in violazione dei regolamenti scolastici sulla parità di genere. Secondo il rettore della scuola, Lord Waldegrave, Knowland si è rifiutato per sei volte di rimuovere il video, e per questo, cioè per cattiva condotta, è stato allontanato. Tra i banchi di Eton, scuola pluri-centenaria dove le retta costa 42 mila sterlien l' anno e la divisa comprende ancora la marsina, si sono formate generazioni di primi ministri, da ultimo quello attuale, Boris Johnson; di intellettuali tra cui George Orwell; e un futuro re, il Principe William. «Ora come in passato, Eton è orgogliosa di incoraggiare il pensiero critico, indipendente», ha scritto Lord Waldegrave in un raro intervento pubblico per placare le polemiche. «Non cancellerà mai il dibattito aperto». Ma circa mille studenti si sono opposti alla decisione e hanno firmato una petizione chiedendo il ritorno del prof, rivendicando il diritto a una formazione fatta di «conflitti di idee» e «discussioni animate» e accusando la scuola di voler apparire «politicamente progressista». Il professore per parte sua, ha fatto appello contro il licenziamento. Quanto all' apertura alle ragazze, ci sarà da aspettare. La provocazione di Williamson ha indispettito i più conservatori tra i Conservatori («Eton funziona benissimo cosi com' è», ha detto piccato Rees-Mogg, deputato aristocratico e ultra-tradizionalista che naturalmente da Eton ci è passato). Il portavoce di Johnson si è limitato a dire che «la decisione spetta a Eton come istituzione indipendente». Intanto a Cambridge, un aggiornamento delle linee guida sulla libertà di espressione che chiede ai docenti il rispetto di idee diverse dalle proprie ha scatenato una rivolta. Come si possono rispettare idee che si ritengono infondate, o peggio, pericolose, si chiedono i docenti? Non è meglio, dicono, parlare di tolleranza? Dice l' attore e intellettuale Stephen Fry, che di Cambridge è stato alunno: «Una mente libera è obbligata a rispettare solo la verità».
Da ilgiorno.it il 10 dicembre 2020. «Oggi o la smettete o smettiamo di fare lezione, perché mi sono già stufata. Basta con ’ste chat. Manda su, manda giù, gira a destra, gira a sinistra. Non sono il vostro schiavo negro». Si è rivolta così ai suoi studenti durante la lezione di Analisi 1 la docente del Politecnico all’ennesimo messaggio dei ragazzi, collegati on line, che le chiedevano di spostare il foglio su cui stava scrivendo dei passaggi matematici perché non riuscivano a vederli. Una frase che ha subito colto di sorpresa e lasciato sbigottiti gli studenti. La lezione non era ancora finita che è scoppiata la bufera. La denuncia della frase razzista è partita immediatamente via social. A denunciare l’accaduto è stata la lista Studenti Indipendenti dell’Università tramite un post su Facebook. «Non è la risposta che uno studente di un ateneo autodefinitosi all’avanguardia come il nostro si aspetterebbe di ricevere dopo una richiesta di aiuto durante una lezione online. Invece è successo proprio da noi, al Politecnico di Milano, come abbiamo dovuto constatare da diverse segnalazioni che abbiamo ricevuto - ha detto Tommaso Bertolini -. Il Politecnico ha inaugurato un murales che rappresenta i sette valori dell’ateneo. Ci si aspetterebbe dunque un impegno forte contro la discriminazione razziale». Alla lezione on line partecipavano gli studenti dei corsi di informatica, ingegneria elettrica, elettronica e dell’automazione. Al centro del polverone anche il trattamento riservato agli studenti in generale: «Da quando è iniziata la pandemia i professori del Politecnico hanno assunto un atteggiamento di conflitto contro di noi. Un esempio sono gli esami che sono stati resi più difficili con alcuni docenti perché si pensa che noi da casa copiamo automaticamente - rimarca Bertolini -. Il fatto della professoressa in questione è gravissimo e non vogliamo che finisca qui, chiediamo seri provvedimenti. Basta con eventi pubblici in cui ci diciamo da soli quanto siamo bravi e poi ci troviamo invece di fronte a queste cadute di stile». Non solo Studenti Indipendenti, a prendere posizione contro l’accaduto anche Fabrizio Vasconi della lista studentesca Terna Sinistrorsa: «Il razzismo in Italia è sistemico e non risiede in sole poche persone ignoranti: è diffuso ovunque, dagli stadi all’università, dalle scuole ai luoghi di lavoro. Come Terna Sinistrorsa siamo già in contatto con tutti i soggetti del Politecnico per risolvere la questione, dobbiamo costruire una comunità in cammino sul sentiero dell’inclusione, lontana da ogni discriminazione. Come possiamo riuscirci? Continuando a studiare, mettendoci in discussione e analizzando nel dettaglio i processi sociali che ci circondano: ascoltiamo punti di vista differenti dai nostri – ha concluso -. Condanniamo fermamente tutti gli episodi di razzismo, sessismo e fascismo e continueremo a combattere per fermarne la nociva e tossica proliferazione». Fino a ieri sera il Politecnico non ha commentato nè rilasciato alcuna dichiarazione sull’accaduto.
Da corrieredellosport.it il 10 dicembre 2020. La coda lunga delle polemiche di Psg-Basaksehir non accenna a placarsi. E se in campo stasera la partita potrà dirsi conclusa, la discussione continuerà sicuramente anche nei prossimi giorni, dopo l'audio incredibile che il giornalista Emanuel Rosu ha pubblicato sui social. Nell'estratto, si sente chiaramente pronunciare la frase "In my country, Romanians are gypsy", "Nel mio paese, i rumeni sono zingari". La voce arriva dallo sfondo ma chi ne è l'autore? "Inizialmente, ho pensato che fosse Topal (centrocampista del Basaksehir, ndr) a dirlo, a giudicare dalla lettura delle labbra - ha scritto Rosu su Twitter - Non ho certezza sull'identità di chi l'ha detto, quindi non farò alcun nome". Sui social, alcuni utenti ipotizzano che si tratti di un membro dello staff della squadra turca. Altri hanno fatto notare che alla frase sembra seguirne un'altra: "I can't say gipsy", "Ma non posso chiamarli così".
L'Uefa valuterà nella sua inchiesta. "Sto solo cercando di restare sereno, non leggerò nessun sito in questi giorni, ma chi mi conosce sa che non sono razzista". Con queste parole, riportate da Pro Sport, Sebastian Coltescu avrebbe commentato quanto accaduto con i suoi familiari. Coltescu, secondo quanto riporta il sito rumeno, avrebbe chiesto all'arbitro Hategan di intervenire per calmare Webo chiamandolo "negru", cosa peraltro mai negata dallo stesso quarto uomo che in campo si era difeso sostenendo di parlare in rumeno con il collega, senza la volontà di essere razzista. La squadra arbitrale aveva già sostenuto di essere stata oggetto di insulti a sfondo razzista. Sarà la Uefa, che ha aperto un'inchiesta, a fare luce sulla vicenda.
La reazione del presidente federale. È intervenuto sulla vicenda anche il presidente della Federazione calcistica rumena, Razvan Burleanu, che ha assicurato la massima severità, nel caso in cui la Uefa dovesse decidere che si è trattato di un caso di razzismo. "Le parole che tutti noi abbiamo sentito non hanno nulla a che fare con il calcio, soprattutto dal momento in cui sono gli arbitri a fissare lo standard per il rispetto delle regole e l'equilibrio in campo - ha detto a Pro Sport - Se si scoprirà che si tratta di razzismo, non ci sarà comprensione da parte mia. Tuttavia, dobbiamo aspettare tutti i dettagli, senza saltare alle conclusioni". Secondo il presidente della FRF, "l'intenzione non sembra essere stata quella di offendere, credo sia ovvio. Il rapporto Uefa chiarirà il corso dell'incidente e l'entità della responsabilità per le persone coinvolte".
(ANSA il 24 novembre 2020) - Proteste dal Pd e Iv per l'editoriale pubblicato da Libero a firma di Vittorio Feltri, in merito allo stupro nei confronti di una 18enne da parte dell'imprenditore Alberto Genovese. Nell'articolo dal titolo, "i cocainomani vanno evitati. Ingenua la ragazza stuprata da Genovese", Feltri scrive, parlando dell'imprenditore: "gli piacevano le donne e non credo faticasse a procurarsene in quantità. Che necessità aveva di ricorrere allo stupro per impossessarsi di una ragazza bella e giovane, dopo averla intontita con sostanze eccitanti? Ciò è incomprensibile sul piano logico". E ancora, "quanto alla povera Michela, mi domando: entrando nella camera da letto dell'abbiente ospite cosa pensava di andare a fare, a recitare il rosario?". "Sarebbe stato meglio rimanere alla larga da costui (...). Concediamole attenuanti generiche, ai suoi genitori tiriamo le orecchie". Parole definite "vomitevoli e disgustose" dalla senatrice del Pd, Simona Malpezzi. "Questa è violenza di genere, è vittimizzazione secondaria, è sessismo", aggiunge l'altra senatrice del Pd, Valeria Valente. "Disgustoso giustificare uno stupro. Non è libertà di stampa ma offesa a tutta la società", fa eco la senatrice Laura Garavini, vicecapogruppo vicaria Italia Viva-Psi.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 24 novembre 2020. Su Alberto Genovese, napoletano trapiantatosi a Milano e qui arricchitosi smodatamente dopo gli studi bocconiani, ha già scritto abbondantemente il nostro ottimo Filippo Facci, pertanto non ho molto da aggiungere. Posso solo fare una chiosa, visto che della vicenda non si smette più di parlare, come fosse una novità che i drogati vanno fuori di testa e ne combinano di ogni colore. Il signorino di cui trattiamo consumava cocaina a strafottere e spesso la sera, per vincere la noia, organizzava nel proprio lussuoso attico dei festini con amici e soprattutto amiche che si concludevano con grandi performance gastrosessuali. Questo stile di vita notturna è abituale, tipico di chi, stremato dalla routine, cerca svaghi oltre la legalità, il lecito. Capisco che Genovese, facoltoso oltre il limite della normalità, spingesse abitualmente l'acceleratore sulla strada del piacere. Nessuno lo condannerebbe per queste disgressioni, tantomeno io che sono uomo di mondo. Ciò che fa schifo nella sua condotta è l'abuso della micidiale polverina bianca, notoriamente devastante sul cervello di chi ce l'ha piccolo e poco funzionante. Va da sé che drogarsi allontana dalla realtà e favorisce comportamenti riprovevoli e addirittura criminali. Ma è altrettanto vero che chi si incammina sulle piste di coca perde la coscienza e la capacità di autogestirsi. Rimane un mistero. Genovese, il quale nella vita aveva ottenuto qualsiasi soddisfazione non solo finanziaria, che bisogno aveva di ricorrere agli stupefacenti per campare agiatamente? Certo, gli piacevano le donne e non credo faticasse a procurarsene in quantità. Che necessità aveva di ricorrere allo stupro per impossessarsi di una ragazza bella e giovane, dopo averla intontita con sostanze eccitanti? Ciò è incomprensibile sul piano logico. Personalmente ho constatato che si fa fatica a scoparne una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta. Dicono che Genovese sia andato avanti tutta la notte a violentare Michela, una ragazzina di 18 anni la quale pare fosse la terza volta che si recava nella abitazione del nostro "eroe" del menga. Prima osservazione. Dopo che hai penetrato la fanciulla non sei soddisfatto? Nossignori. Vai avanti a farlo fino all' alba. Ammazza che forza. Sei un uomo o un riccio? Come si fa a darci dentro per tante ore. Io, anche quando ero un ragazzo, dopo il primo coito al massimo fumavo una sigaretta, poi dormivo delle grosse. D'accordo che Genovese era carburato dalla coca, ma la cosa non giustifica tanto accanimento sulla passera. Quanto alla povera Michela, mi domando: entrando nella camera da letto dell' abbiente ospite cosa pensava di andare a fare, a recitare il rosario? Non ha sospettato che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando avrebbe potuto rimettersele? Tanto più che Alberto godeva della fama di mandrillo. Sarebbe stato meglio rimanere alla larga da costui. Che adesso la vedrà brutta o non la vedrà per anni, perché sarà condannato. Gli auguriamo almeno di disintossicarsi in carcere. Alla sua vittima concediamo le attenuanti generiche, ai suoi genitori tiriamo le orecchie.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 26 novembre 2020. Ieri Piero Sansonetti, direttore del Riformista e giornalista che non ha nulla da spartire con il conformismo imperante, ha scritto una pagina capolavoro per dimostrare che sono un coglione, avendo pubblicato su Libero un articolo nel quale condannavo, ovviamente, Alberto Genovese e sostenevo che la sua vittima, ragazza di 18 anni, si era comunque comportata ingenuamente. Il che non significa niente di strano, bensì riflette la realtà. Sansonetti afferma che in caso di stupro l'unico colpevole è lo stupratore. In sostanza scopre l'acqua calda. Infatti chiunque abbia annusato un manuale di diritto sa che la responsabilità penale è personale. Quindi l'unico a dover essere incriminato per le violenze sulla fanciulla è Genovese, il quale per compiere le sue prodezze si carburava con la coca che distribuiva a mani larghe anche ai suoi ospiti, probabilmente pure alla giovane donna di cui ha abusato. E qui il mio caro e stimato collega Piero cade in errore. Non è vero che l'uso di droga non incida quando si commette un qualsivoglia reato. Tanto è vero che se fai una rapina sotto l' effetto di stupefacente ciò non costituisce un' esimente, al contrario è una aggravante. D' altronde se guidi l' automobile quando sei un po' brillo e la polizia ti becca sei fritto, ti ritirano addirittura la patente. Una signorina maggiorenne certe cose le deve tenere a mente nel momento in cui decide di vivere come le garba. Pertanto, allorché ha scelto di essere ospitata per ben tre volte nell' attico del danaroso imprenditore, era a conoscenza, presumo, che costui non fosse un boy scout. Ella entrando poi in camera da letto sottobraccio all' anfitrione forse immaginava di ricevere certe richieste. Di sicuro non sospettava di essere stuprata, però quando sei sotto le grinfie di un tossico può succedere di tutto. Io non ho messo in croce la donzella, ma, se fossi stato suo padre e avessi avuto notizia che lei si sarebbe recata a casa di un drogato fottuto, avrei tentato di impedirglielo. Non ha senso dire che il mio ragionamento sia ottocentesco. Semplicemente sono consapevole che una diciottenne è attratta dalle novità e non ne valuta i rischi. Io ho avuto quattro figli, tre femmine e un maschio. Statisticamente ci stava che almeno uno fosse una testa di cazzo, invece mi è andata bene. Ma assicuro a Piero che io ho vigilato nonostante fossi impegnato in un lavoro senza orario. Non deploro la succube di Genovese, tuttavia non le posso assegnare la medaglia d' oro alla prudenza.
Caso Genovese, su Feltri si scatena l’inferno: “Ragazza ingenua”. “Disgustoso sessista”. Gabriele Alberti martedì 24 Novembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Caso Genovese, Vittorio Feltri nella bufera. Ancora una volta. In prima pagina su Libero il suo editoriale dal titolo “La ragazza stuprata da Genovese è stata ingenua”, scatena un vespaio di indignazione. “Violento, sessista, disgustoso, maschilista, vergognoso”: da Faraone (Pd) alla Bellanova (Iv), alla Valente, senatrice dem e presidente della Commissione Femminicidio è un florilegio di reprimende al direttore di Libero. Senza dimenticare Laura Boldrini. Feltri scrive nell’editoriale: “Su Alberto Genovese, napoletano trapiantatosi a Milano e qui arricchitosi smodatamente dopo gli studi bocconiani, ha già scritto abbondantemente il nostro ottimo Filippo Facci. Pertanto non ho molto da aggiungere. Posso solo fare una chiosa, visto che della vicenda non si smette più di parlare: come fosse una novità che i drogati vanno fuori di testa e ne combinano di ogni colore. Il signorino di cui trattiamo consumava cocaina a strafottere e spesso la sera, per vincere la noia, organizzava nel proprio lussuoso attico dei festini con amici e soprattutto amiche che si concludevano con grandi perfomance gastrosessuali”. Il pensiero di Feltri, opinabile e criticabile, è che la diciottenne vittima di stupro avrebbe dovuto sapere ciò a cui andava incontro: «Pensava che entrando nella camera da letto del facoltoso ospite avrebbe recitato il rosario? Non ha sospettato che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando poteva rimettersele?».
Laura Boldrini: “Feltri, basta misoginia”. Esplode Laura Boldrini: “Feltri e Libero basta misoginia! Quello che scrivete è una forma di violenza sulle donne. È inaccettabile che una testata giornalistica, che percepisce anche contributi pubblici, dia la colpa dello stupro alla vittima! Fermiamo questa barbarie”. “Eh già povera Michela, per Vittorio Feltri, sei proprio una ingenuotta. Non una vittima, sei solo una sprovveduta, talmente semplice e innocente da risultare troppo imprudente. Che, dai, se ci pensi bene la colpa è pure tua”, scrive Davide Faraone, capogruppo Iv al Senato, su Fb. “Schifezze elevate a giornalismo, scrive ancora. “Mi auguro che l’Ordine dei giornalisti intervenga in modo definitivo contro Feltri e contro la sua testata”, grida ancora la Valente, invocando fuoco e fiamme contro la testata tutta. Feltri ha scelto un momento sicuramente inopportuno per esprimere la sua provocazione. Proprio negli stessi giorni in cui si sta sensibilizzando l’ opinione pubblica contro la violenza sulle donne il suo scritto sembra fatto apposta per sfidare il politicamente corretto. Non è la prima volta che il il suo linguaggio crudo gli costa la quasi scomunica sociale (come dimenticare la “patata bollente” riferito alla sindaca Raggi? O l’aggettivo “mulatta” riferito alla Harris?). Se l’intento di Feltri è scatenare l’inferno, ci riesce ampiamente.
Dagospia il 26 novembre 2020. Laura Boldrini su Facebook. Avevo scritto un intervento per il blog dell’Huffington Post in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne. Il direttore di HuffPost, Mattia Feltri, ieri non ne ha autorizzato la pubblicazione. Sapete perché? Perché chiamavo in causa Vittorio Feltri, suo padre, che martedì firmava un articolo su Libero dal titolo: "La ragazza stuprata da Genovese è stata ingenua", di fatto attribuendo, come avviene troppo spesso, anche alla ragazza la colpa dello stupro. Dunque un direttore di una testata giornalistica sceglie di non pubblicare un intervento per via dei suoi rapporti familiari. Ma è accettabile una cosa del genere? Per me no, non lo è. In tanti anni non mi sono mai trovata in una simile situazione. Sia chiaro che continuerò ad impegnarmi perché sia rispettata la dignità delle donne, anche nell’informazione e sul piano del linguaggio, e continuerò a difendere sempre la mia libertà di parola.
Giovanni Sallusti per Dagospia, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, il 27 novembre 2020. Caro Dago, uno dei modi d’agire caratteristici del Politicamente Corretto sta nel continuo, indefesso, sistematico affinamento del marchingegno noto come “neolingua”. Con le parole di colui che battezzò il vocabolo/concetto per descrivere il taroccamento totalitario del linguaggio, George Orwell: “Fine specifico della neolingua non era solo quello di fornire un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero”. Ebbene, oggi la neolingua praticata dai Buoni vuole convincerci delle seguenti definizioni, anzi vuole spacciarcele per assiomi, ovvietà del (non) senso comune, per “rendere impossibile ogni altra forma di pensiero”. “Libertà di stampa” significa “obbligo da parte della stampa di pubblicare qualunque contenuto gli venga inviato da un esponente del potere politico”. “Scelta editoriale”, se si manifesta come scelta sbagliata, ovvero scelta sgradita al suddetto potere politico, significa “censura”. “Giornale” significa “buca delle lettere a disposizione del potere politico”. Manca l’esplicito “libertà è schiavitù” orwelliano, ma ci arriveremo. Si spiega solo con una massiccia operazione di “neolingua” del genere, infatti, la polemica più che surreale, vien da dire tecnicamente surrealista, che trascina la realtà in una sua caricatura allucinata, montata contro l’Huffington Post e il suo direttore, Mattia Feltri, da un quadro per eccellenza della nomenclatura politically correct, l’ex presidente della Camera e attuale deputata piddina (ma soprattutto paladina di qualunque causa femminista, ambientalista, variamente e correttamente “-ista” secondo il luogocomunismo dominante) Laura Boldrini. L’onorevole Boldrini è titolare di un blog sull’Huffington Post. L’onorevole Boldrini invia un pezzo per codesto blog. Il direttore Feltri (Mattia, lo preciso con la solidarietà di chi rischia sempre il frainteso cognome) si mette in testa, udite udite, perfino di fare il direttore, di esercitare le funzioni che connotano il ruolo, e di decidere con l’autonomia di cui ogni testata dovrebbe godere rispetto al potere politico (in Occidente, ma ultimamente dalle parti politiche boldriniane tira il “modello Cina”) di non pubblicare l’onorevolissimo pezzo. La motivazione è del tutto irrilevante, o questa sovranità è riconosciuta alle testate e ai loro direttori, o non esiste libera stampa. Viceversa, è l’ex presidente di Montecitorio (perdoni, “presidenta” non riesco proprio a scriverlo) a montare un cinema indignato sulla sua “libertà di parola” violata, omettendo il lievissimo dettaglio che Feltri non ne ha ospitato l’opinione sul proprio giornale, mica le ha impedito di esprimerla, tant’è che la stessa ha trovato subito cittadinanza sul Manifesto, è il bello capitalista della concorrenza, di cui giustamente approfitta anche un “quotidiano comunista”. Il capovolgimento integrale della realtà viene avallato dal presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (altro esercizio di neolingua per indicare il Soviet delle penne) Carlo Verna: “I principi della libertà di stampa sono sacri in Italia, in Europa e in tutto il mondo democratico, sanciti da carte e convenzioni internazionali. Nell’esprimere la totale solidarietà alla Presidente Boldrini, ci aspettiamo che la questione trovi accettabili spiegazioni che al momento totalmente ci sfuggono”. Sì, un direttore di giornale deve spiegare a un politico e a un burocrate di categoria perché si permette di scegliere cosa pubblicare e cosa no. Sì, libertà è schiavitù.
Mattia Feltri per huffingtonpost.it il 28 novembre 2020. In capo a due giorni bizzarri, nel corso dei quali HuffPost e io ci siamo imbattuti in una quantità di giudici instancabili, spesso sommamente severi, la maggior parte sprovvisti dei titoli e delle conoscenze necessarie – della professione e del caso – per emettere giudizio, penso sia mio dovere tornare, per l’ultima volta, sulla questione dell’onorevole Boldrini. Lo faccio perché mi dispiace che sulla redazione di HuffPost – una redazione meravigliosa, di ragazzi che lavorano seriamente dalla mattina alla sera, che non si lamentano mai, che sono un esempio di dedizione e di correttezza – si sia riversato tanto malanimo ingiustificato (ma anche tanta solidarietà). E lo faccio perché ero convinto che la mia succinta risposta all’onorevole Boldrini dell’altro giorno fosse sufficiente per respingere attacchi e accuse surreali. Evidentemente non era così. Non nego, non ho mai negato, che questa volta intervengono questioni personali, del rapporto fra mio padre e me. Mi sono dato una regola: non parlo in pubblico di mio padre, da vent’anni, direi, perché qualsiasi cosa dica – nel bene e nel male – sarebbe usata contro di me. Qualche volta vorrei difenderlo, qualche volta vorrei criticarlo, ma come si vede in queste ore non c’è serenità d’animo per accogliere le mie parole per quelle che sono: il mio pensiero. Non ne parlo e non voglio che se ne parli sul giornale che dirigo. Quando mi è stato segnalato il riferimento dell’onorevole Boldrini nel suo post, ho deciso di chiamarla e di chiederle la cortesia di ometterlo. Era la prima volta che parlavo con lei in vita mia. Pensavo fosse una telefonata con una persona corretta e ragionevole. Ho sbagliato. Sbaglio molto spesso. Poi torno a quella telefonata, ma prima tocca precisare che, più in generale, su HuffPost non ingaggiamo duelli con altri giornali. Se ci capita, è per ragioni eccezionali, ben meditate e condivise da redazione e direzione. Da che alla direzione ci sono io, non è ancora successo. Di sicuro non deleghiamo la pratica a un blogger, cioè a un ospite: se nel blog di Laura Boldrini il bersaglio fosse stato Luciano Fontana o Maurizio Belpietro, avrei fatto una telefonata molto simile. Ma c’è un ulteriore particolare che forse Laura Boldrini ha dimenticato o trascurato, ed è la policy a cui tutti i nostri blogger sono sottoposti. Sulla policy c’è scritto che la redazione e la direzione si riservano di non pubblicare i blog senza dare spiegazione e senza nemmeno avvertire (un paio di settimane fa ho sospeso il blog di Carlo Rienzi del Codacons per una ragione che dettaglierei così: non mi piace). Non ci siamo inventati nulla. Vale sempre e vale ovunque: in trentadue anni che faccio questo mestiere ho visto quotidianamente e più volte al giorno direttori buttare via articoli per mille motivi, di opportunità, di linea politica, di convenienza, di gusto, talvolta le scelte sono illustrate, altre liquidate alzando un sopracciglio, ed è la normalità eterna della stampa. Se nella policy le regole sono esplicitate, è proprio perché chi non pratica i giornali magari non le conosce, e crede di usare una testata come il suo profilo Facebook. Dentro queste regole, i blog di Huff hanno prosperato e costituiscono una comunità ricca, plurale e libera. Ma non licenziosa. Dunque avrei potuto cestinare il blog e lasciare l’onorevole ai suoi fantasmi, nella piena legittimità di direttore. Ma mi sembrava sgarbato. Avrei potuto chiamare l’onorevole Boldrini e restare sul vago, ma mi sembrava disonesto. Invece sono uno stupido, e le ho detto le cose come stavano, nella fiducia di trovarmi a confronto con una persona con cui intrecciare un ragionamento. Lei ha rifiutato e, sul sottofondo delle sue proteste, pensavo che mi ero intrappolato con le mie mani, e all’impossibilità di uscirne: se avessi pubblicato, si sarebbe detto ecco anche il figlio scarica il padre eccetera; se non avessi pubblicato si sarebbe detto censura, e infatti l’hanno detto, senza conoscere il significato di censura; alcuni mi hanno persino spiegato che di mio pugno avrei dovuto aggiungere in coda al suo pezzo due righe di dissenso, ma temo sarebbe stata un’innovazione un po’ brusca e vagamente comica nella plurisecolare storia del giornalismo; in ogni caso lasciar correre sarebbe stato un tradimento verso gli altri blogger. Mentre riflettevo su queste cose, l’onorevole Boldrini mi ha avvertito che, se non avessi pubblicato il blog, avrebbe reso pubblica la nostra telefonata. Ricordo di essere stato zitto un secondo, di avere valutato la violenza della minaccia, poi ho preso la decisione che continuo a considerare la più dignitosa: allora non pubblico, ho risposto. Ed è finita lì. E’ cominciata lì. Sul sessismo e altre fantasie non mi voglio pronunciare: sono il napalm dei nostri tempi. Mi rimane qualcosa da dire su Carlo Verna, il presidente dell’Ordine dei giornalisti. Due giorni fa, dopo aver letto la denuncia dell’onorevole Boldrini, ha rilasciato una dichiarazione all’Ansa parlando di censura inspiegabile. Inspiegabile perché non ho potuto spiegarla: non mi ha nemmeno telefonato. Cioè, il presidente del mio Ordine, sulla base di uno scritto su Facebook a firma di un’ex presidente della Camera, condanna pubblicamente un suo iscritto senza curarsi di sentirne le ragioni. Che, ripeto, sono ovvie ed eterne, ma se ne può sempre riparlare. Però io aspetto una sua chiamata da due giorni e non arriva. Possiamo parlare anche della censura. La censura è la pratica di controllo del potere sulla stampa, per esempio di un’ex presidente della Camera che si arroga il diritto di prevalere su un direttore e decidere che cosa va pubblicato e che cosa no. Mi rendo conto che le parole ormai assumono i significati più arbitrari, in questo caso capovolti, ma vorrei chiedere a Verna come intenda ridefinire il ruolo del direttore, quali sono i confini del suo potere, della sua responsabilità, in che modo le sue scelte, fin qui considerate insindacabili, non diventino censura. E più precisamente se Verna immagini un giornalismo in cui il collaboratore, o pure il blogger, abbiano facoltà di imporre al direttore i loro articoli. Comunque, siccome Verna mi ha rivolto un’accusa così violenta, immagino che ora si aprirà un’istruttoria su di me. È un bel problema. Con che serenità posso accettare un giudizio se il presidente ha già pronunciato la condanna? Oppure, molto più probabilmente, non si aprirà nessuna istruttoria, e le parole di Verna resteranno lì, nel nulla che valgono. In ogni caso continuo ad aspettare una sua telefonata, di scuse naturalmente, che sarò lieto di accogliere.
Dagospia il 27 novembre 2020. Da radiocapital.it. “Laura Boldrini ha scritto cose sgradevoli su mio padre. In 20 anni di carriera non ho mai scritto di Vittorio Feltri e non ne parlo in pubblico, questa è la mia regola. Lei si è rifiutata di togliere quelle considerazioni su mio padre e contemporaneamente mi ha detto che se non avessi pubblicato quell’articolo avrebbe reso pubbliche le ragioni della mia scelta. Io l’ho vista come una minaccia” così Mattia Feltri, direttore dell’HuffPost a “The Breakfast Club” su Radio Capital “L’onorevole Boldrini è una parlamentare, può scrivere di quello che vuole, ovunque, per questo è scorretto parlare di censura. È nella mia facoltà di direttore decidere cosa pubblicare e cosa no, Laura Boldrini è ospite del mio giornale e non parlare su HuffPost di mio padre mi sembrava un atto di minimo buongusto”. “Fin qui possono essere normali dialettiche tra giornalismo e politica, ma la posizione del presidente dell'Ordine dei giornalisti Verna è invece stata di una gravità incalcolabile. Come presidente dell'Ordine dei giornalisti e non dei parlamentari ha urlato alla censura senza neanche fare un’istruttoria. Se c'è un direttore che pratica la censura allora bisogna trarne le conseguenze, e io sono pronto ad affrontarle. Se si pensa che io abbia censurato l’on. Boldrini allora vado a casa. Altrimenti, Verna fa affrontato per quello che è”.
Dagospia il 27 novembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Massimiliano Parente: le strategie del vittimismo sono fantastiche: Laura Boldrini poteva rispondere a Vittorio Feltri su Libero. Invece sceglie il quotidiano del figlio, insultando il padre e minacciando il figlio che, se non lo pubblicherà, griderà alla censura. Già che c’era ha gridato pure al sessismo. Ah, il sessismo! Il bello è che nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne le femministe si sono messe a lapidare una donna che ha osato inscenare l’innocuo siparietto di una spesa sexy. Non siamo in un paese islamico, ma guarda caso femministe come la Murgia e la Boldrini sono simpatizzanti dei paesi islamici (oltre che delle associazioni cattoliche), tra i più maschilisti in assoluto, tant’è che entrambe, in varie occasioni, si sono messe pure il velo. Ma il femminismo sta diventando non solo un motivo per piantare una lagna ogni giorno, ma anche l’alibi di difesa della mediocrità. Io ne sono una testimonianza vivente: i circoli che contano in ambito culturale sono popolati da donne che devono la propria visibilità e i propri introiti unicamente alla causa femminista (la loro), con libri mediocrissimi (i loro). Non solo tutti i libri della Murgia o della Valerio o della Lipperini sono ridicoli rispetto a una sola mia pagina di una delle mie opere (ma io sono fuori da ogni circolo, per scelte, mi accontento di essere studiato nelle università), ma non reggono il confronto con le vere scrittrici italiane, da Barbara Alberti a Gaia De Beaumont a Isabella Santacroce, non per altro mai nominate nelle baracconate fasciste di queste femministe senza arte né parte, a parte la parte del femminismo della loro mediocrità che castra l’eccellenza delle stesse donne che, a differenza loro, hanno prodotto qualcosa di significativo nella vita oltre alle lagne, alcune hanno anche preso il Nobel mentre la Valerio e Murgia discutevano di patria e matria e cazzate varie. Insomma, io non sono maschilista né femminista, sono meritocratico: se dovessi scegliere tra 10 curriculum, può darsi prenderei 5 uomini e 5 donne, ma anche nessuna donna o anche tutte donne. La battaglia per il genere è solo un’altra battaglia di retroguardia della mediocrità. Non stupisce quindi che, mentre la Boldrini accusa Mattia Feltri per averla censurata (ma invece che lamentarsi qui da te poteva mandarti direttamente il suo pezzo, ma vuoi mettere fare la vittima), la Murgia sia riuscita a mobilitare centinaia di murgette per scrivere al mio editore di non pubblicare più le mie opere. A dare fastidio, a queste donne senza qualità, è sempre l’eccellenza, tanto quella maschile, quanto quella femminile. Baci, Massimiliano Parente
Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" l'11 dicembre 2020. Da vari giorni ormai si pubblicano articoli di Daniele Luttazzi per dare addosso a mio figlio Mattia, reo di non aver messo sul suo giornale un commento sgangherato di Laura Boldrini, in cui accusava me di attribuire lo stupro commesso da Alberto Genovese alla sua vittima, una ragazza di 18 anni, sottoposta a un trattamento a base di cocaina che l' aveva resa rimbambita. In realtà io ho scritto soltanto che la fanciulla era semmai imputabile di ingenuità e imprudenza avendo accettato per la terza volta gli inviti del violentatore seriale e notorio. Quindi siamo di fronte a un clamoroso falso ideologico per giunta reiterato, meritevole di querela. Provvederò anche a questo. Per ora mi basta dire che il povero Luttazzi si è tuffato nel pozzo nero del Fatto Quotidiano trasformando in sterco le mie opinioni, solo perché a lui piace pascersi delle proprie deiezioni. Peraltro trascura di sottolineare che la signorina vessata dal drogato straricco è stata abbandonata dai suoi legali e medici consulenti poiché avrebbe intessuto con amici e soci del proprio persecutore una trattativa affinché questi le dia un cospicuo risarcimento danni, si parla di cinque milioni di euro. Se il negoziato dovesse andare a buon fine dovrei ritirare la mia accusa di ingenuità alla povera donzella torturata, in quanto non ho mai visto che una donna abbia ricevuto, in cambio di un abuso sessuale, la astronomica cifra di cinque milioni di euro. Che le auguro ovviamente di incassare, raccomandandole di non spendere tanto denaro in droga, bensì in opere di bene. Senza considerare comunque che una somma simile a 18 anni non l' ha mai ricevuta nessuno. La bella addormentata nel bosco si accontentò del bacio di un principe. Tuttavia è giusto così, dal momento che Genovese, non essendo aristocratico, ma un maiale, è normale che saldi il suo debito a suon di milionate. Non è questo che stupisce, piuttosto è la circostanza che un volgare stupro, da condannare con severità in tribunale, diventi una fonte di reddito pazzesco. Non ci meraviglierebbe che altre postadolescenti si facessero vive e bussassero a casa per ottenere dal re del web un mazzo di contanti onde chiudere eventuali contenziosi apertisi in camera da letto sulla spinta di sostanze stupefacenti distribuite e assunte senza remore. Se succederà ci consolerà constatare che le povere martiri sacrificate nell' attico avranno una esistenza agiata.
Vittorio Feltri per ''Libero Quotidiano'' il 28 novembre 2020. Dovrei rimproverare mio figlio Mattia, direttore di HuffPost, per non aver pubblicato lo sproloquio di Laura Boldrini perché conteneva una aspra critica nei miei confronti? Infatti, quel che dice di me la ex presidente della Camera non ha alcuna importanza, trattandosi non solo di fregnacce miserabili ma soprattutto di falsità. La signora mi accolla frasi e concetti che non mi sono mai sognato di esprimere. Non ho mai sostenuto su Libero che la responsabilità dello stupro commesso da Genovese sia da attribuire a chi lo ha subito. Al contrario ho affermato che la ragazza è stata ingenua (che non è una parola offensiva) quando per la terza volta ha accettato l'invito in casa del riccone, noto drogato, per giunta recandosi in camera da letto con l'anfitrione balordo. Se una delle mie figlie avesse voluto affrontare una simile esperienza, avrei fatto di tutto per trattenerla. Dove è ravvisabile il sessismo, dove è la mancanza di rispetto per la povera fanciulla? Evidentemente Boldrini, che siamo convinti non soffra di analfabetismo funzionale, non ha letto l'articolo che contesta, altrimenti non lo avrebbe confutato. Se fosse una persona seria dovrebbe scusarsi con mio figlio e con me per aver preso lucciole per lanterne. Mattia non ha messo in circolo l'intervento della donna politica non soltanto per gentilezza filiale nei miei riguardi, bensì - suppongo - pure per un altro motivo: madame ha vergato una idiozia. Io comunque non mi offendo se qualcuno a sproposito mi attacca, anzi ne sono felice poiché ciò dimostra che ho ragione. Ecco perché Libero offre alla signora la possibilità di manifestare le sue stupidaggini sulle proprie pagine. Per lo stesso motivo riporto in sintesi una frase di Luigi Manconi sul medesimo tema. Costui, il quale ritenevo essere cieco e scopro che è anche analfabeta, critica il mio italiano in quanto, riferendomi alla giovane vittima dello stupro, ho adoperato il termine «donzella». Gli segnalo che pure Leopardi non conosceva la lingua quando scrisse: «La donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole...». Il poeta, di sicuro, non supponeva di rischiare le reprimende insensate o, meglio, ridicole del letterato Manconi. Infine, rivolgo un pensiero al peggior presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti, Carlo Verna, modestissimo cronista sportivo, il quale ha trovato modo di sbarcare il lunario nella corporazione. Egli ha provveduto a condannare mio figlio Mattia (perché non ha diffuso in rete le corbellerie di Boldrini), ignorando che il direttore di una qualsivoglia pubblicazione ha il diritto di divulgare quanto gli garba. Impara, presidentino dei miei stivali.
Dagospia il 6 dicembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, Leggiamo l'ennesimo articolo in cui Vittorio Feltri, su Libero, non si limita a offendere la direttrice di Io Donna Danda Santini e la giornalista Antonella Baccaro che "con prosa incerta" ha avuto l'ardire di criticarlo, ma si vanta apertamente del suo anticonformismo. Perché lui con il giornalismo - che definisce mestiere del cavolo - si è arricchito, "mentre la maggioranza dei giornalisti ha le pezze al culo. Da ciò deriva un sentimento che si chiama invidia". A tal proposito vorremmo far notare che invidioso dovrebbe essere Feltri, di Danda Santini, perché Io Donna grazie alla sua qualità ha la fortuna di sostenersi con i propri inserzionisti, mentre il quotidiano Libero è l’organo del partito monarchico italiano (tramite la testata Opinioni Nuove) e da anni beneficia di fondi pubblici destinati all'editoria. Anche per il 2020, con poca pubblicità e poche copie distribuite, riceverà di più di 5 milioni di euro. Ora, visto che questo non è che l'ennesimo articolo che offende le donne e - ricordiamo solo i più noti "Patata Bollente: la vita agrodolce di Virginia Raggi" "Vieni avanti Gretina, la rompiballe va dal Papa" "Ingenua la ragazza stuprata da Genovese" - noi crediamo non sia più possibile accettare questo giornalismo misogino, fatto con i soldi dei contribuenti. Per questo motivo abbiamo promosso una petizione per modificare il Decreto Legislativo n. 70 del 15 maggio 2017 che disciplina i requisiti di accesso per il contributo pubblico all’editoria, stabilendo che i giornali e gli altri mezzi di comunicazione che usano quotidianamente e senza ritegno un linguaggio misogino, sessista, discriminatorio e di incitamento all’odio non possano accedere ai fondi pubblici per l’editoria. Ad oggi, infatti, esiste una regolamentazione solo per le pubblicità sessiste. I giornali che le accettano non possono essere finanziati. Perché, quindi, gli articoli sì? Un cordiale saluto Cristina Sivieri Tagliabue
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 6 dicembre 2020. C'è un settimanale, Io Donna, che viene distribuito al sabato dal Corriere della Sera. È diretto da Danda Santini, una firma che non può definirsi illustre. Ma non è questo il punto. Sappiamo che i giornali sono tutti in decadenza, figuriamoci quello di cui parlo imbottito di pubblicità di moda, creme e altri prodotti di bellezza. Niente di censurabile, ovvio. Se non che nel numero uscito ieri, a pagina 41, è pubblicata una bella rubrica di Vittorio Sgarbi, Amare l'arte, che spiega il mistero della donna nell'alcova. Interessante. Talmente interessante che a pagina 46 ci si imbatte nello stesso articolo di Sgarbi, con il medesimo titolo, praticamente una fotocopia. Significa che i geni di Io Donna, direttrice in testa, hanno applicato al periodico la teoria del repetita iuvant, ovvero un pezzo se è buono conviene stamparlo due volte a cinque pagine di distanza. Più probabile credere che la redazione e la direzione della rivista non siano in grado di aucontrollarsi e lavorino con i piedi al punto di non accorgersi che fare uscire due volte nello stesso numero il lavoro di un autore è l'autocertificazione della propria stoltezza. L'ipotesi che il supplemento del Corriere sia la vetrina dell'incapacità si conferma a pagina 62, che ospita l'intervento di tale Antonella Baccaro, che ho la fortuna di non aver mai visto né sentito nominare. Il titolo dello scritto è il seguente: "Caro Feltri, il maschilismo non è un dito nell'occhio dei perbenismi", il cui significato mi sfugge. Va da sé che Baccaro se la prende con me accusandomi di ogni nefandezza. Secondo l'autrice dalla prosa incerta, io da anni andrei ripetendo a sproposito che le signore "se la cercano perché vanno in giro in minigonna". Frase riportata tra virgolette, come fosse mia, ma che in realtà non ho mai vergato né pensato. Quindi siamo di fronte a una falsità, meritevole di essere denunciata e perseguita penalmente. Eppure stia tranquilla la svagata, io non querelo le sprovvedute, anzi le ringrazio poiché forniscono la prova che ho ragione. Dulcis in fundo, sed in cauda venenum, Baccaro nel suo pistolotto mi consiglia di non farmi usare dalle televisioni quale bomba. Inoltre mi sollecita a trascorrere una vecchiaia più dignitosa. Le segnalo che sono consapevole di dare fastidio ai conformisti come lei, pure perché io con questo mestiere del cavolo mi sono arricchito, mentre la maggioranza dei giornalisti ha le pezze al culo. Da ciò deriva un sentimento che si chiama invidia. Ho l'impressione che ella lo nutra. In caso contrario le suggerisco di andare a farsi friggere lo stesso nonché di prestare maggiore attenzione alla sintassi, che non è un pregiudizio borghese. È vero che sono vecchio, tuttavia lo sono diventato, invece tu, Baccaro, sei e resterai poco intelligente.
Antonella Baccaro per “Io Donna” il 6 dicembre 2020. Oggi parliamo di categorie protette e sciocchezze se- squipedali, come le avrebbe definite Indro Montanelli. Sul caso della ragazza violentata sulla terrazza di un tale, che chiamare uomo sarebbe un complimento, ne ho lette tante, ma per una volta vorrei concentrarmi su quella di uno solo che impazza sui giornali e in tv: Vittorio Feltri. Ora, tra le categorie protette dalla nostra societa, perche considerata fragile, c’e quella dei vecchi. Li chiamo vecchi perchè questo sostantivo arriva dritto al cuore del problema e dovrebbe far vibrare, in chi tale e, la corda della responsabilità. Vittorio Feltri ha 77 anni e dice la sua da almeno 50. Legittimo, direte. Fino a un certo punto. Le considerazioni che esprime sul mondo femminile da sempre sono pesantemente viziate da un maschilismo proprio dell’epoca passata cui appartiene, cionondimeno continua a ripeterle raramente contraddetto. C’e, nel consentirgli di farlo, qualcosa che oscilla tra il rispetto per il giornalista che e stato (e nessuno glielo nega) e la bonomia per un uomo di una “certa eta” cui spesso scappa un’espressione fuori dai denti. L’imitazione grottesca fattane da Maurizio Crozza, che dovrebbe nutrirsi proprio degli ec- cessi verbali di Feltri, spingendoli oltre ogni limite, ormai non funziona più, tanto in avanti si e portato l’originale. E franca- mente, diciamocelo, Crozza ha contribuito allo sdoganamento degli sproloqui del suddetto. Si chiama “politicamente scorretto” mi suggeriscono quelli bravi e va accettato perche e un dito nell’occhio del perbenismo. Magari lo fosse, dico io, visto che il perbenismo non piace neanche a me. Ma quello che Feltri da anni va ripetendo a proposito delle donne che “se la cercano perche vanno in giro in minigonna” (e questa e la cosa piu riportabile tra quelle che dice) e invece molto di piu: e il peggio del maschilismo elevato a teoria, e l’elogio del pensiero brutale, e la consacrazione dell’istinto più becero. E torniamo al punto da cui siamo partiti. “Caro” Feltri, le diamo un consiglio: non si faccia usare come un qualsiasi “bomba” invitato perchè le spara grosse, per una volta si sottragga e consegni se stesso a una vecchiaia piu dignitosa.
Giampiero Mughini per Dagospia il 28 novembre 2020. Caro Dago, non ho nessun titolo per scriverti queste righe se non quello di essere uno che compra e legge i giornali e che legge sul web alcuni siti giornalistici o comunque legati all’attualità. Che legge, cioè sceglie. Ebbene mai e poi mai mi è capitato di leggere un testo di Laura Boldrini, l’ex presidente della Camera. Mai e poi mai. E dire che scrivere un articolo su Vittorio Feltri e in occasione di una delle tantissime sue sortite è un’occasione succulenta. Vittorio è un figlio dei nostri tempi, un direttore di giornali che ne ha fatte di cotte e di crude, a cominciare dall’ “Indipendente” che lui prese che vendeva a stento 18mila copie e si avviava a crepare e lo portò a 120mila copie, avvalendosi nell’impresa del sottoscritto e pagandomi come da mie esose richieste. Poco dopo Vittorio divenne a sua volta il giornalista più pagato d’Italia perché aveva accettato di prendere il posto di Indro Montanelli che non ne voleva sapere di venire a patti con il suo editore, il Silvio Berlusconi che aveva permesso al “Giornale” di sopravvivere in un’Italia in cui il pubblico di “lettori di destra” era striminzito. Più tardi ancora Vittorio fece di “Libero” uno dei quotidiani più vivi e pugnaci d’Italia, sempre alla maniera sua: menando botte da orbi quando pensava che ne fosse il caso, urlando titoli quanto di più politicamente scorretti, lisciando il pelo al pubblico più rabbioso della destra italiana, un pubblico che esiste e che va all’edicola. Anche in quella occasione fu così gentile da telefonarmi, io che non avevo più un giornale di carta su cui scrivere e di cui campare. Per uno o due anni mi pagò lautamente e mai obiettò a dove avessi messo un punto e virgola. Vittorio è così, coriaceo, leale, orgoglioso di sé stesso, strafottentissimo del politicamente corretto cui anzi si abbevera per prenderlo a schiaffoni. Lo fa giorno per giorno, lo ha fatto in occasione della vicenda drammaticissima della ragazza diciottenne che in casa di un delinquente milanese è stata trattata e abusata al punto da rischiare la morte. C’è da dire qualcosa sul fatto che una donna se non ci sta non deve essere sfiorata con un dito mignolo per nessuna ragione al mondo? Ma certo che non c’è nulla da aggiungere. Solo che Vittorio è un giornalista, deve scegliere una sua verità che valga per tutte le successive 24 ore, deve provocare stuzzicare dirne una che gli altri non hanno detto. Scrivere di lui e della sua maniera di giornalista è un’impresa succulenta. Completamente al di fuori della banal grande Laura Boldrini. Mai e poi mai e poi mai leggerei un suo articolo su un tale e sfaccettatissimo personaggio.
Marco Benedetto per blitzquotidiano.it 21 dicembre 2020. Vittorio Feltri come Erodoto di Alicarnasso. Per entrambi, le donne se la cercano. Erodoto è stato meno brutale e più accorto di Feltri, attribuendo il pesante e bieco giudizio ai “saggi persiani”. Erodoto è considerato il padre della storia. In realtà è il primo di cui ci siano rimasti gli scritti. Le Storie di Erodoto hanno inizio con la guerra di Troia e colloca in una serie di rapimenti mitici, Io, Europa, Elena, le cause dei difficili rapporti fra europei e asiatici. Ecco le sue parole: “Se rapire donne deve considerarsi atto di uomini ingiusti, darsi la pena di vendicare simili rapimenti – dicono – è cosa da sciocchi; i saggi non se ne danno alcuna cura; è infatti chiaro che, se esse non lo avessero voluto, non sarebbero state rapite”. (Erodoto, Le Storie, I, 4, tradotto da Virginio Antelami, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori). Sono parole scritte più di 2.500 anni fa. A quei tempi le donne stavano chiuse nel gineceo ed erano considerate poco più di mucche, capre o, in Medio Oriente, cammelli. Oppure, quando davano il meglio di sé, figure crudeli e tragiche, dalla mitica Medea in qua. Leggendo le parole di Erodoto mi è venuta in mente la recente polemica fra Laura Boldrini e Mattia Feltri, figlio di Vittorio e, da qualche mese, direttore dell’edizione italiana del sito Huffington Post. Non mi trovo in sintonia né umana né di idee né con Boldrini né con Vittorio Feltri. Ho letto qualche articolo del figlio di quest’ultimo con interesse, spesso concordando.
Tutto ha inizio da un articolo di Vittorio Feltri. La polemica è stata originata da un articolo di Vittorio Feltri, secondo il quale se una donna subisce violenza la colpa è della donna stessa. La tesi ha trovato sponda fin nella corte di Cassazione, molti la pensano così oggi E la pensavano cosi migliaia di anni fa. Laura Boldrini, che scrive sul sito Huffington Post penso dai tempi di Lucia Annunziata, mandò al direttore un articolo in cui criticava Vittorio Feltri. Mattia, buon figlio, pensò bene di non pubblicarlo e correttamente ne informò in anticipo l’autrice. Che, in questo bravissima, denunciò l’oltraggio. Considero Vittorio Feltri un buon giornalista, non della grandezza di un Montanelli e, meno che mai, di uno Scalfari. Infatti la diffusione dei suoi giornali si è sempre collocata a una frazione di quella di Repubblica. A suo onore va detto che ha il coraggio di sfidare i luoghi comuni del politicamente corretto. Ma lo fa scivolando spesso nella volgarità, cosa che limita molto l’efficacia del suo giornalismo. L’ho incrociato di persona solo una volta e non c’è stato feeling.
Un video con risposta di Vittorio Feltri che spiazza tutti. L’ho visto in video seguendo questa polemica, intervistato da Peter Gomez del Fatto Quotidiano. Mi si è un po’ stretto il cuore nel constatare l’effetto sul fisico del tempo e degli anni. Ma la precisione delle idee e la coerenza del giornalista erano sempre ferree. Onore a Peter Gomez, che conosco e apprezzo da anni come eccellente giornalista e uomo di equilibrio, per la provocatoria intervista. Il Fatto, anche se ha ospitato un sequel di articoli anti Mattia Feltri di Daniele Luttazzi, non si è risparmiato in passato contro la Boldrini. Silvia Truzzi, firma di punta, fu autrice di un intervento purtroppo poco seguito dai colleghi dei quotidiani, sulla patetica voga imposta proprio dalla Boldrini di volgere al femminile il nome di attività nel passato tipicamente maschili.
“Femminismo d’accatto”, nella definizione di Silvia Truzzi. Silvia Truzzi definì papale papale il femminismo di personaggi cone Boldrini e Fedeli ” femminismo da accatto, quando non è un’arma per celare la propria inettitudine”. Tipico esempio di questa nouvelle vague linguistica: la donna ministro è ministra, la donna sindaco è sindaca. Non siamo arrivati ancora e forse non ci arriveremo mai a chiamare il soprano la soprana o il giornalista uomo, per differenza, giornalisto. Memorabile è la piccata risposta di Valeria Fedeli, ministro della Istruzione col curriculum un po’ rabberciato, a un giornalista che le si rivolse chiamandola ministro. “Mi chiami ministra” lo aggredì. Quando, un paio d’anni dopo, Lucia Azzolina ne prese il posto, esordì dicendo: “Io sono il ministro dell’Istruzione”. La frase della Azzolina è stata un segnale di rinnovamento. E infatti, io che detesto i grillini come ideologia devastatrice e degna dell’Uomo Qualunque (e di farne anche la fine), devo riconoscere le qualità di Azzolina, che tutti attaccano perché donna e nemmeno sindacalista.
Laura Boldrini, una sua idea della sinistra. Laura Boldrini è per me un bell’esemplare di quello che fa male alla sinistra. E che per me di sinistra, quella vera, non quella del birignao, ha ben poco. Non porò mai perdonarle la violenza che esercitò contro la libertà di stampa appena eletta presidente della Camera. Il che avvenne non per sue particolari qualità, e nemmeno per effetto di una dura gavetta politica, ma per accordi fra partiti e correnti. Fece sequestrare le pagine dei siti che avevano riportato un fotomontaggio che la faceva passare per nudista. L’effetto era assai lusinghiero ma il senso di umorismo scarseggiò. Ci fu un pm che ignorò la Costituzione ordinando una raffica di sequestri in conseguenza di una diffamazione che la Costituzione esclude esplicitamente dalle cause di sequestro preventivo. Ci furono degli imbarazzatissimi poliziotti che non sapevano dove guardare eseguendo l’ordine, peraltro virtuale. Seguirono, nelle cronache di quei mesi, resoconti sul suo difficile rapporto con le forze di polizia addette alla sua tutela. Il culmine fu toccato nell’agosto del 2013 quando riaprì la Camera e costrinse i Deputati a tornare dalle ferie per approvare una legge sul femminicidio i cui effetti si faticano a vedere. Una legge diciamo pleonastica, se si considera che il codice penale provvede debitamente a quello che quand’ero cronista era noto come uxoricidio. E che da decenni è stata abolita l’attenuante del delitto d’onore.
Tanto cinema sul femminicidio, ma pochi effetti per le donne. Non risulta che la legge sul femminicidio, tanto voluta da Laura Boldrini abbia contenuto la scelleratezza maschile. Né risulta una successiva attività a tutela delle donne vittime non solo e non tanto della violenza estrema dei maschi. Quanto di quelle forme di violenza diciamo intermedie, prime le botte, che possono trasformare la vita in famiglia in un inferno per una donna. Non credo che nemmeno in questo caso si possa applicare il principio del “se la sono cercata”. Le scelte d’amore, di convenienza, di indomabili appetiti, di famiglia sono frutto di complesse e contrastanti spinte individuali. Vale semmai la prima parte dell’assunto di Erodoto. Adattato: chi esercita violenza su una persona più debole, e in generale su un altro essere umano, è indegno e merita il sommo disprezzo. Si tenga presente che la violenza sulle donne non è circoscritta a un preciso ambito sociale. Anzi. Ricordo una esperienza diretta, di quando, giovane redattore dell’ufficio Ansa di Londra, mi documentai sul campo per un articolo per la rivista Grazia. Mi aveva spinto la notizia del Daily Mirror su un rifugio per le “battered wives”, le mogli pestate.
Aiutare le donne a liberarsi dai mariti violenti. Mi recai in quella palazzina di mezzo centro pullulante di bambini, dove si aggiravano donne malconce. Era il 1973. In quei tempi là definizioni erano forse più elementari di oggi. Per me valeva l’equazione povertà = violenza in famiglia. Fui smentito. I ricchi in famiglia danno sfogo alla propria innata violenza con maggiori forza e crudeltà delle classi povere. Tutto questo è premessa a una considerazione. Che piuttosto che al cinema della approvazione con fanfara di una legge sostanzialmente inutile, sarebbe stato preferibile orientare l’impegno del Parlamento verso la tutela delle donne non da morte ma da vive, non solo quelle vittime di violenza maschile ma tutte. Esempi. Dalla destinazione di maggiori risorse alla protezione preventiva delle donne, in modo non da vendicarle defunte, ma proteggerle prima dell’irreparabile. Alla definizione di una rete di asili nido e varianti, con annessi e connessi, per consentire alle madri di lavorare.
Vittorio Feltri e il figlio Mattia. Essendo il lavoro l’unica fonte di dignità per un essere umano. E per una donna senza risorse di famiglia l’unico modo per sottrarsi alla soggezione al maschio. Credo che in Italia ci sia un pulviscolo di istituzioni locali che si dedicano alle donne in questa particolare situazione. Ma, a giudicare da rivendicazioni e proteste ancora recentissime, il cuore del dramma nemmeno è sfiorato. Passiamo alla famiglia Feltri. Mattia Feltri è un bravo giornalista di scrittura. Non posso giudicarlo come direttore. La storia dell’articolo della Boldrini non depone sulla capacità di scelte difficili. Certo è un bravo figlio, non avendo avuto il coraggio di pubblicare un pezzo ostile al padre. Anche se non gli ha reso un buon servizio. Pochi avrebbero letto il blog della Boldrini sul sito Huffington Post. Tutti, su siti e giornali, hanno conosciuto la vicenda del figlio leale ma direttore timoroso.
Agnelli, Gheddafi e Arrigo Levi. Ricordo sempre un episodio che risale all’autunno del 1976. All’epoca lavoravo all’ufficio stampa della Fiat. Gheddafi era da poche ore diventato azionista della Fiat mettendo nelle esangui casse torinesi 450 miliardi di lire. La Fiat era in crisi in conseguenza, fra altre cause, della crisi petrolifera che aveva fatto crollare il mercato. E del blocco dei prezzi delle auto, mentre l’inflazione annuale aveva superato il 20%. Il blocco fu la punizione inflitta dalla Dc guidata da Amintore Fanfani alla Fiat e agli Agnelli, nella convinzione che il capo famiglia, Giovanni, fosse socio occulto del cognato Carlo Caracciolo, editore dell’Espresso. Ogni numero dell’Espresso, in quegli anni di giornali di poche pagine e ancor meno notizie, faceva tremare gli occupanti delle stanze del potere, di tutti i poteri, in Italia. Direttore della Stampa era Arrigo Levi. Appena fu diffusa la notizia del nuovo azionista libico, Levi scrisse un articolo che definiva Gheddafi come terrorista internazionale. E lo mandò ad Agnelli chiedendo il via libera alla pubblicazione. In quei tempi, Gheddafi non era ancora diventato il simpaticone amico di Berlusconi. Erano tempi di rivoluzione globale e di terrorismo come punta avanzata e nel suo piccolo Gheddafi si dava da fare per contribuire. Ad esempio, riforniva di armi i guerriglieri irlandesi dell’Ira. Ancora nel 1988 i libici fecero saltare un aereo americano nel cielo della Scozia, provocando 259 morti. E ancora oggi gli americani cercano di fare estradare dalla Libia la mente dell’attentato.
“Questo articolo si deve pubblicare”. Ricevuto l’articolo, l’avv. Agnelli riunì un po’ di dirigenti nel suo ufficio all’ottavo piano di Corso Marconi 8 a Torino. Tutti erano per cestinarlo. Agnelli lasciò parlare tutti, poi chiese: “Se non avessimo la Fiat ma fossimo solo l’editore della Stampa lo pubblicheremmo?”. Ci fu un coro di “certamente”. “Allora lo pubblichiamo”. Alzò il telefono e comunicò a Levi la decisione. Fu una grande lezione da grande editore. Degna dell’Espresso di Caracciolo. All’altezza, fossimo stati inglesi, del libro di Hugh Cudlipp, “Publish and be Damned”, pubblicato nel 1953, documento fondamentale del giornalismo. Ne ho una copia che mi regalò Carlo Caracciolo. Ne conservava una scorta. Il titolo deriva da una frase del duca di Wellington. Ricattato da una sua ex amante il vincitore di Napoleone rispose appunto “Publish and be damned”, pubblica e sarai dannata.
Vittorio Feltri, cosa doveva fare un figlio giornalista. La Boldrini non è Arrigo Levi e Vittorio Feltri non è Gheddafi. Però la morale, su scala diversa, è la stessa. Mattia Feltri non avrebbe dovuto telefonare all’ex presidente della Camera per annunciarle che non avrebbe pubblicato l’articolo. Avrebbe dovuto telefonare al padre: “Sorry papi, ma devo pubblicarlo”. Cosa che ha fatto invece proprio Feltri vecchio, sul suo giornale, Libero, con una zampata da giornalista di una volta. Umiliando un po’ il figlio, con le parole sprezzanti buttate lì come sciabolate nell’intervista a Peter Gomez. Di una sciabola un po’ arrugginita se guardate il video. Aveva ragione la contessa di Castiglione, che compiuti 30 anni coprì tutti gli specchi del suo castello e non si mostrò più in pubblico. E Feltri credo che ormai abbia abbondantemente superato il doppio di quell’età.
Dagospia il 21 dicembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Vittorio Feltri: Marco Benedetto va elogiato perché ha letto Erodoto, ma rimproverato perché mi attribuisce una cosa che non ho mai scritto, e cioè che le donne violentate vanno a cercarsi guai. Ho semplicemente scritto che la ragazza stuprata da Genovese è stata ingenua e imprudente. Non si va in casa di un drogato e in quel luogo non ci si droga per poi trovarsi in camera da letto del lupo medesimo. Meglio evitare. Questo il mio concetto. E lo ribadisco. Mio figlio fa quello che si sente di fare e io pure. Se qualcuno mi vuole criticare faccia pure, ma non mi attribuisca ciò che non ho scritto né detto. Chi lo fa è un cialtrone come Marco Benedetto che mi vuole morto ma spero che crepi lui prima di me. Così, per divertimento.
Dagonews il 2 dicembre 2020. La violenza contro le donne è un tema che naturalmente merita tutta l'attenzione che gli viene data. Leggi, dibattiti, convegni, perfino programmi Rai sospesi per uno sculettamento di troppo. C'è' però una categoria di ragazze che pare non essere meritevole di protezione e tutela, né' di pubbliche attenzioni o prese di posizione contro insulti sessisti e minacce di morte. Parliamo delle ragazze che vanno a caccia. Pare essersene accorto solo Sergio Berlato, europarlamentare di Fratelli d'Italia, presidente di Confavi e cacciatore di lungo corso. Berlato ha pubblicato sui social della sua associazione le foto di ragazze durante la caccia, aprendo così un tripudio di commenti che non avrebbe immaginato. Le fanciulle sono state sommerse di minacce di morte e insulti sessisti. "Fin da piccola ti piace l'uccello" oppure "spero di vederti ricoperta del tuo stesso sangue" ancora "ti scoppiasse il fucile in faccia" "qualche vecchio babbione la scambierà' per una scrofa e la farà secca". E la Boldrini, muta. Nessun paladino dei diritti delle donne ha alzato un dito per difendere queste ragazze dalle minacce di morte. Perché se la fanciulla minacciata e offesa pratica, come Diana, l'antica arte della caccia, allora le minacce di morte non sono poi un problema così grande. Anzi, quasi se le merita. Tanto per restare fedeli ai vari totem vegan-eco-bio-chilometrozero-vattelapesca. Su queste ragazze, Berlato vuole condurre una battaglia di civiltà (per la serie: le offese sono sessiste sempre oppure mai) e ha chiamato in soccorso Giuseppe Cruciani, uno che s’è pappato una nutria in diretta a “la Zanzara” facendo incavolare gli animalisti che lo minacciavano davanti alla radio. Lui li affrontò brandendo una salamella stile Excalibur. Non avete sentito altre voci ergersi a tutela di queste fanciulle? Noi neppure. Tutti zitti. Il tema è divisivo, l'animale piace. Ormai la carne, per definizione, è cibo eticamente “sporco”, che nasce dalla violenza. E quindi va rigettato. Morale della fava: il montone, la fagianella, il manzo hanno il diritto di vivere, magari con un reddito di cittadinanza ponderato al garrese. Le ragazze che vanno a caccia possono anche schioppare, impallinate dalle contumelie e dalle shitstorm. La diretta facebook sarà l'11 dicembre alle 21.30, il padrone di casa, Sergio Berlato, raccoglierà le testimonianze delle ragazze. Arriverà qualche voce a loro difesa, o Berlato e Cruciani saranno lasciati soli? Ah, saperlo…
Da leggo.it il 7 dicembre 2020. Una battuta in stile Luciana Littizzetto, pronunciata dal tavolo di "Che tempo che fa", scatena il web. E scoppia la polemica. La comica mostra una foto hot di Wanda Nara, la showgirl moglie del calciatore Mauro Icardi è in posa nuda sopra ad un cavallo: «Chissà dove è finito il pomello della sella - scherza la Littizzetto - lei si arpiona così. Ha la Jolanda prensile». Ironia che non è piaciuta al popolo social, non a tutti almeno. A partire dalla giornalista Selvaggia Lucarelli che condivide un post per esprimere il suo disappunto contro certe battute sessiste. E c'è chi le da ragione. «Battute a sfondo sessuale pronunciate da una donna fanno ancora meno ridere ma danno solo disgusto», tuona una telespettatrice. «La Littizzetto è di una volgarità assurda... Se certe battute le facesse un uomo lo avrebbero già radiato..», attacca qualcun altro. «Comicità fuori luogo, troppo volgare per finire in tv sulla Rai». Ma c'è anche chi la difende: «Si chiama satira». «Non vorremo scomodare il sessismo e la questione femminile per questa battuta della Littizzetto, vero?». «La comicità della Littizzetto è al quanto discutibile. Però è anche vero che la foto in oggetto non porta certo a fare battute sulla fisica nucleare». E ancora: «La battuta non è un granché e non fa ridere - scrive un altro utente - ma trovo più inutile e “dannosa “la foto della Nara». Il dibattito è aperto. A me danno più noia le donne che continuano a posare nude anche per pubblicizzare una forcina da capelli, non la Littizzetto che ne fa ironia.
Arianna Ascione per corriere.it il 10 dicembre 2020. «Perché le prevaricazioni e le violenze non è che vengano solo dai maschi. Al contrario. Perché la violenza e la volgarità non hanno sesso. Sono e restano violenza e volgarità. Per inciso»: Wanda Nara ha fatto sue le parole pubblicate da Antonella Pavasili su Facebook per commentare - nelle sue Storie di Instagram - la battuta fatta su di lei da Luciana Littizzetto a Che Tempo Che Fa, nella puntata di domenica 6 dicembre.
La battuta incriminata. Volendo scherzare su un’immagine della moglie e agente del calciatore Mauro Icardi, ritratta nuda a cavallo, la comica aveva detto: «Quando si dice cavalcare a pelo, tra i due quello più vestito è il cavallo. Mi chiedo come è stata issata su: l’hanno messa su a peso, e poi lei si sta tenendo con la sola forza delle unghie e credo della Jolanda prensile. Spiegami dove è finito il pomello della sella, secondo me si arpiona in questo modo». Le frasi - ritenute da molti di cattivo gusto e offensive - hanno subito sollevato un polverone in rete. A distanza di qualche giorno è arrivata la reazione della diretta interessata che ha annunciato azioni legali: «Nel 2020 troviamo ancora donne del genere. Ovviamente dovrà risponderne giudizialmente».
Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia il 6 dicembre 2020. Caro Dago, forse memore del risultato involontariamente comico dell’anno scorso, quando nominò “persona dell’anno” una sedicenne che bigiava la scuola per girare il mondo sullo yacht di Pierre Casiraghi in dura lotta contro il riscaldamento globale (Greta, la Madonnina dell’ambientalismo politicamente correttissimo), quest’anno la rivista “Time” ha escogitato una categoria ad hoc, quella di “kid of the year”. Una variante giovanilistico-modaiola del riconoscimento “adulto” (che verrà reso noto settimana prossima) la cui prima edizione è andata a Gitanjali Rao. Quindici anni, americana di origini indiane, residente a Denver, la “baby scienziata” ha inventato una serie di nuove applicazioni tecnologiche, come un dispositivo per individuare il tasso di inquinamento nell'acqua potabile e una app per verificare atti di cyberbullismo (formulazione piuttosto oscura, ma ci fidiamo). In ogni caso, la ragazza ha evidentemente doti e talenti fuori dal comune, tanto che alla sua età dice che il suo sogno è studiare Genetica ed Epidemiologia al Mit, ed è quindi un testimonial (o una preda?) molto ambita dal circo intellettual-hollywoodiano politically correct. Ecco allora apparecchiata una videointervista a tempo di record con Angelina Jolie, star planetaria a disposizione di qualunque causa “umanitaria”, meglio se tendente ad insinuare che il Paese che le ha dato fama, ricchezza, successo, ovvero gli Stati Uniti d’America, è responsabile di tutti i guasti del globo. E il canovaccio non delude: Gitanjali nella chiacchierata con Angelina si dichiara pronta a fare da esempio ai giovani per “risolvere i problemi del mondo” (espressione per nulla a rischio genericità, spaziando dalla pandemia al sottosviluppo, dal terrorismo alla depressione economica). Ma soprattutto, sforna il virgolettato di cui l’intervistatrice andava in cerca fin dall’inizio: “Io non sono il tipico scienziato: di solito quello che vedo in televisione è un maschio bianco e di una certa età. Evidentemente io sono diversa”. Eccola lì, la “diversità” sessuale, cromatica (e in questo caso anche anagrafica) rivendicata come valore in sé. Gitanjali è una femmina di colore, anzi NON è un maschio bianco (è questa l’antropologia negativa che conta, ai tempi del Politicamente Corretto) e questo dovrebbe interessarci di per sé, indipendentemente dal merito. Anche, paradosso dei paradossi buonisti, in un caso come il suo, in cui il merito della persona (antiquata categoria cristiana ormai inutilizzabile, senza riferimenti al genere e alla pigmentazione) è palesemente la materia saliente. Non si accontenta di essere una ragazza-prodigio dal punto di vista scientifico, Gitanjali, fa già il verso alla neovicepresidente (ci rifiutiamo di usare il boldriniano “presidenta”) Kamala Harris, come lei raccontata più per quello che è che per quello che ha fatto: “Il mio obiettivo non è solo inventare qualcosa per risolvere problemi, ma anche essere da esempio per gli altri. Se io lo posso fare, tu lo puoi fare!”. Basta, ovviamente, che tu non sia uno sporco maschio bianco. Se poi in là con gli anni, peggio che peggio.
Giovanni Sallusti per Dagospia il 30 novembre 2020, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, Caro Dago, La battaglia contro il Politicamente Corretto è sostanzialmente perduta, e lo è a causa di uno dei principali atout che questa creatura è in grado di gettare sul tavolo: la sua stupidità. Autentica, quindi spiazzante, imprevedibile, disarmante. Prendiamo un caso odierno che sta scuotendo i social, invariabilmente termometro dei tic “correttisti”. Il comune pugliese di Martano decide di lanciare una campagna di comunicazione “non convenzionale” (quindi una campagna di comunicazione degna di questo nome) per spronare i cittadini all’utilizzo della mascherina. C’è la foto di una bella fanciulla (sì può ancora dire? In caso contrario chiedo scusa e disimpegno Dago da uno psicoreato che è solo di chi scrive) che si indica il volto corredato da una mascherina chirurgica. Campeggia lo slogan “Non passare da stupido”. Sotto il testo: “Capirei se ci chiedessero di mettere una pigna nel culo, ma è semplicemente una mascherina davanti a naso e bocca”. Comunque la si veda, una pro-vocazione che rimanda a parecchi sottotemi dirimenti in era pandemica, il binomio libertà/responsabilità, quello salute collettiva/autodeterminazione individuale, con una vena d’intelligente sdrammatizzazione che smentisce l’isteria degli iperfobici non meno che quella dei cosiddetti “negazionisti” (orrendo termine anch’esso politically correct che andrebbe lasciato alla funzione originaria, quella di indicare i pazzoidi che negano l’Olocausto, ma questo oggi passa il convento mainstream). Ebbene, l’Arcigay filiale del Salento cosa riesce invece a scovare, nell’operazione pubblicitaria? Ma è ovvio, un lampante caso di bieca omofobia. Con le parole del comunicato stampa dell’associazione, che sembrano vergate (ripardon, non vorremmo rimandare al sostantivo fasciofallico “verga”) da Kafka, per il misto di forma burocratica e sostanza grottesca: “Siamo costretti a sottolineare l’inopportunità di una comunicazione istituzionale che sottende una denigrazione di chi pratica il sesso anale” (che non risulta esclusiva dell’omosessuale, qui l’Arcigay mira evidentemente ad intercettare anche l’indignazione degli etero sodomiti). “Capiamo che una pigna nel culo non è propriamente comoda”- concedono gli inquisitori arcobaleno- “ma invitiamo il sindaco ad allargare i suoi orizzonti così da capire che magari ha sbagliato paragone!”. E qui, davanti all’invito al primo cittadino di Martano a rivalutare i possibili utilizzi alternativi della pigna, ti viene il liberatorio sospetto che il comunicato sia una goliardata, uno scherzo. Ma il finale non lascia spazio a dubbi: “Ci aspettiamo delle scuse ufficiali e magari una maggiore attenzione verso tutt*”. L’asterisco finale non è un refuso (magari, ci sentiremmo tutti un po’ meno stupidi), è l’odioso asterisco “egualitario”, che nei protocolli della neolingua Lgbt serve ad evitare il violento predominio della desinenza maschile, ma anche la non meno repressiva formula i/e, che tenderebbe a suggerire l’esistenza di due soli generi sessuali, il maschile e il femminile, tesi ormai ricevibile solo in qualche postribolo dei bassifondi sovranisti. Che non sia uno scherzo, lo conferma il presidente Giuseppe Todisco, il quale si mette a rispondere puntuto alla marea di commenti su Facebook, anzitutto di suoi militanti, il cui tenore complessivo è: “Ma state dicendo suo serio?!”. Certo, ribatte imperturbabile il Todisco, qui siamo di fronte a un sintomo preoccupante dell’ “imperante cultura patriarcale”, a un caso da manuale di “eteronormatività tossica”, ed altre supercazzole pride che sembrano partorite (ri-ripardon, verbo che evoca la barbara pratica della sessualità finalizzata a procreare) da un altro pugliese celebre iscritto all’associazione, Nichi Vendola. Il patriarcato parafascista dietro all’idea che introdurre una pigna nel deretano non sia sinonimo universale di piacere. Non si riesce a replicare razionalmente, hanno vinto.
Giovanni Sallusti per Dagospia, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, il 16 novembre 2020. Caro Dago, Il diavolo si annida nei dettagli, quella diavoleria contemporanea che è il Politicamente Corretto spesso nei tweet. Prendiamo quello vergato in onore del settimo titolo mondiale di Lewis Hamilton da Corrado Formigli, anchorman iper-correttista che si rimpinzava in diretta tivù di involtini primavera posseduto da amour fou filocinese, mentre il Partito Comunista di Pechino faceva deflagrare la pandemia nel mondo con le sue omissioni, le sue censure, le sue bugie. “Il dio dei piloti è nero. Grazie #lewishamilton”. Questa è la scelta del gran cerimoniere di “Piazzapulita” per commemorare l’impresa più che storica di un pilota di Formula 1 che si issa al livello del mito, di Michael Schumacher: sottolineare il colore della sua pelle. Ci fosse un bigino del razzismo praticato dai “professionisti dell’antirazzismo” (gente analoga ai “professionisti dell’antimafia” ritratti da Sciascia, gente che ha introiettato in modo fin troppo profondo le categorie che giura di voler combattere), starebbe tutto in questo tweet. Lo sport, il record, l’epopea, ridotti a corollari dell’epidermide. Che avrà anche il merito ideologico di non essere bianca (ricordiamoci che “l’uomo bianco è la regressione della nostra civiltà”, copyright Ezio Mauro), ma osiamo azzardare dica poco delle capacità sovrumane al volante di Lewis Hamilton, della sua eccezionalità psico-fisica nell’abitacolo, della dose sovrabbondante di talento in pista. Anche perché, a voler prendere per un secondo sul serio il cinguettio cromaticamente corretto ed involontariamente tragicomico, se ne dedurrebbe che gli altri trentadue piloti che nella storia sono riusciti a vincere il Mondiale siano infedeli e blasfemi (non ci meraviglierebbe a breve una petizione per togliere loro il titolo ex post lanciata da tutti i Formigli twittanti), avendo tutti in dotazione l’eretica pigmentazione chiara. Fra essi, oltre lo stesso Schumacher: Juan Manuel Fangio, Jim Clarck, Niki Lauda, Alain Prost, Ayrton Senna. Personaggi che non ci sembravano esattamente a disagio con il cambio e l’acceleratore, ma certo irrimediabilmente arretrati, imperfetti, prototipi difettati del Pilota Unico al tempo del Pensiero Unico, che finalmente aderisce al dogma dell’etnocentrismo nero, enunciato dai guardiani bianchi della nuova ideologia. “Il dio dei piloti è nero”. È l’apartheid teologico-sportivo ai tempi del Politicamente Corretto.
Da liberoquotidiano.it il 17 novembre 2020. Corrado Formigli ricoperto dagli insulti. Il motivo? Un cinguettio a ridosso dell'ennesima vittoria di Lewis Hamilton. Il conduttore di PiazzaPulita ha voluto omaggiare così il campione: "Il dio dei piloti è nero. Grazie Lewis Hamilton". Immediati i commenti dei suoi seguaci che chiedono: "Schumacher vinceva anche con le macchine che non andavano.. nulla toglie alla bravura di hamilton ma è il vostro fanatismo razziale che mi spaventa". E ancora: "Vorrebbe gentilmente spiegarci il suo concetto di razzismo? Perché qui ce n’è molto. Credo che questo tweet vada segnalato". Ma c'è addirittura chi va più sul pesante: "Solo gli idioti con il cervello menomato dalle ideologie politiche e/o religiose possono fare affermazioni del genere, soprattutto nello sport. La "pace olimpica" rovinata da imbecilli a tutto tondo". Commenti ai quali Formigli non ha risposto.
Ora infieriscono pure su Cappuccetto rosso, in una scuola diventa un maschietto. L’ira dei genitori. Redazione sabato 14 Novembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Cappuccetto rosso non è più una bambina ma diventa un maschietto. L’iniziativa promossa all’istituto Marconi di via Meyer a Firenze con un laboratorio sperimentale destinato ad alcuni studenti delle classi elementari e medie ha fatto però scoppiare il caos. L’esperimento prevede che gli alunni interpretino i personaggi di celeberrimi racconti a “ruoli invertiti”. Il progetto è stato concepito dall’Associazione Ireos Onlus – Centro Servizi Autogestito Comunità Queer. Il progetto fa riferimento alla possibilità di «individuare gli stereotipi di genere presenti in fiabe, racconti, personaggi dei cartoni animati, giocattoli, mass media e nella realtà della vita quotidiana». «Giustissimo che in questi corsi si parli di inclusione culturale, di lotta al razzismo, al bullismo e al sessismo, ma affrontare temi come le differenze di genere con dei bambini di 8 anni è una follia. Fino a prova contraria sono le famiglie che dovrebbero, se e quando sarà il momento affrontare, certi argomenti», spiega una madre al giornalista del quotidiano La Nazione. «Oltretutto – aggiunge un altro genitore – in una quarta c’è una maestra che durante le lezioni d’inglese fa recitare ai bambini i ruoli delle femmine e alle bambine quelle dei maschi. In un dialogo un bimbo fa Lilly e una bimba fa Arthur. Tutto questo senza chiedere il consenso ai genitori». La maestra, scrive La Nazione, si giustifica scrivendo un post: «Esercizio di drammatizzazione con ruoli maschili e femminili dati a caso. Il maschio tocca alla femmina e passa, la femmina tocca al maschio e risatine al seguito. C’è da lavorare».
Cappuccetto rosso, il parere dell’esperta. Sulla vicenda è intervenuta anche Federica Picchi portavoce nazionale Comitato Educazione Infanzia e Adolescenza. «Siamo seriamente preoccupati della violenza psicologica che rischia di entrare nelle scuole tramite la formale adesione a progetti “sessualmente sensibili”. Le cui ricadute socio-psicologiche possono non essere pienamente comprese dai genitori».
FdI: «Siamo a fianco delle mamme». La Nazione riporta anche la ferma condanna del deputato di FdI Giovanni Donzelli. «Siamo con le mamme che si sono ribellate a questa follia. Non è accettabile che si tenti di manipolare dei bambini in questo modo. Ora il nuovo provvedimento voluto dalla maggioranza di governo di sinistra, il ddl Zan, sta giustificando questi metodi e anzi la situazione peggiorerà una volta che sarà approvata. La nuova legge, già approvata dalla Camera, istituisce la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia per insegnare ai bambini delle elementari a scegliere, anche a giorni alternati, se sentirsi maschi, femmine, o trans. Abbiamo provato in tutti i modi a fermarli proponendo emendamenti di buonsenso alla Camera. La sinistra li ha tutti bocciati. Ma noi non ci perdiamo d’animo».
Dagospia il 12 novembre 2020. Giovanni Sallusti per Dagospia, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore. Caro Dago, Il governo Conte-Casalino (o Casalino-Conte) ha finalmente individuato la priorità in era pandemica. Sfrondato dal burocratese: rieducare i giornalisti. Il Dipartimento per le Pari Opportunità di Palazzo Chigi, come ha raccontato per primo Il Tempo, ha stanziato circa 78mila euro per due progetti con identico obiettivo: diffondere l’utilizzo sistematico della Neolingua politicamente corretta, peraltro presso una categoria che ormai sul tema fa rivalutare la figura di Don Abbondio quale esempio di coraggio. Ma i funzionari della nuova ideologia dominante vogliono essere sicuri di tappare anche il refolo più remoto di libertà, l’accenno più sfumato di Free Spech, ed ecco allora la mobilitazione su due fronti. Primo versante: il finanziamento di un corso organizzato dall’associazione Carta di Roma finalizzato a garantire “un’informazione equilibrata ed esaustiva su richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti”. Cosa si intenda per informazione “equilibrata ed esaustiva” (qualche liberale old style potrebbe ingenuamente pensare si tratti di pluralismo d’idee) lo spiega molto bene il programma didattico. Dieci moduli formativi “sul tema dell’uso non discriminatorio delle parole nell’ambito della correttezza dell’informazione, dei principi deontologici in materia di discriminazione, razzismo, xenofobia e tutela delle minoranze” (dichiarazioni d’intenti lapalissianamente condivisibili, ma nel concreto si potranno ancora scrivere e pensare termini attenzionati come “clandestino”, “traffico di esseri umani”, “confini”?). Quindi un seminario “di formazione a carattere laboratoriale sulle modalità di raccolta e definizione dei dati sulle discriminazioni in ambito etnico-razziale” (sostanzialmente si impara la caccia al dissidente, par di capire). Infine un contributo “all’interno dell’VIII Rapporto annuale dell’associazione relativo alla rappresentazione mediatica del fenomeno migratorio e dei suoi protagonisti con un focus specifico sul tema delle seconde generazioni” (chissà se si parlerà anche delle seconde generazioni che sparano, sgozzano e decapitano nel cuore d’Europa, ci permettiamo l’esercizio del dubbio). Il corso coinvolgerà almeno 500 giornalisti in tutta Italia. Secondo versante: l’affidamento all’associazione Gaynet della “formazione sul tema della discriminazione nei confronti delle persone Lgbt”. Questa prevede “tre seminari di studio e aggiornamento tenuti da formatori/formatrici e i principali riferimenti accademici italiani e internazionali su tematiche di genere e Lgbt” (“Lgbt” nell’Occidente Politicamente Corretto è una materia universitaria, al pari di Medicina o Giurisprudenza) dedicati a professionisti dei media, con focus “sulla conoscenza del linguaggio specifico, sull’attenzione ai contesti in cui i termini vengono utilizzati e sugli strumenti critici per decodificare stereotipi e pregiudizi”. Si insegna la censura, senza mascherarlo neppure troppo, e soprattutto la sua madre concettuale, l’autocensura. Immaginiamo che i formatori/formatrici (mi raccomando, mettere sempre la barretta d’ordinanza con declinazione femminile, non vorrete passare per retrivi sessisti) prenderanno casi di violenta e reazionaria omofobia, ad esempio quell’estremista di J.K.Rowling secondo cui il sesso di una persona è un dato reale piuttosto che un auspicio soggettivo, e li brandiranno a monito per tratteggiare gli psicoreati da cui tenersi alla larga. Morale (?) della favola: Palazzo Chigi paga gli addetti alla ripulitura politically correct del linguaggio e del notiziario. Mao era più brutale, ma probabilmente più onesto.
Luigi ippolito per "corriere.it" l'11 novembre 2020. Si può celebrare una femminista mettendola nuda davanti a tutti? La domanda si pone, dopo che a Londra è stata inaugurata ieri una statua che commemora Mary Wollstonecraft, considerata la “madre del femminismo”, autrice a fine Settecento del primo trattato sui diritti delle donne (e morta a soli 38 anni dando alla luce la figlia, Mary Shelley, a sua volta diventata famosa come creatrice di “Frankenstein”). Perché il monumento in questione è stato paragonato a una “Barbie svestita”, o peggio a una “decorazione di Natale da sito porno”: e in effetti c’è da chiedersi perché un presunto inno alla liberazione delle donne debba avere i capezzoli dritti, gli addominali da atleta e il florido vello pubico esposto. «Si è mai vista una statua di Dickens con le palle di fuori?», ha commentato una delle indignate femministe inglesi. La polemica è rimbalzata con clamore su tutti i giornali britannici e ha diviso gli animi. Eppure la statua è la creazione di una scultrice, Maggi Hambling, che sostiene di aver voluto rappresentare non tanto la Wollstonecraft storica quanto “ogni donna”: «Il punto è che deve essere nuda perché i vestititi definiscono le persone – ha argomentato l’artista -. Per quanto mi riguarda, ha più o meno la forma che tutte vorremmo avere». Ma non è quello che avevano in mente quanti hanno donato soldi a una campagna che è andata avanti per dieci anni e che aveva l’obiettivo di restituire “la presenza di Mary in forma fisica”. La presidente della società che ha guidato la campagna per la statua, Bee Rowlatt, ha provato tuttavia a difendere la scelta, sostenendo che «promuoverà commenti e dibattiti: e questo è un bene, è ciò che Mary ha fatto per tutta la sua vita». Ma sono poche quelle che l’hanno presa così. «Finalmente un riconoscimento pubblico che le donne nel 18esimo secolo erano completamente nude ed estremamente piccole», ha commentato sarcastica Emily Cock, storica dell’università di Cardiff. E l’attivista femminista Caroline Criado Perez ha parlato di «spreco colossale» e «mancanza di rispetto». Ironica la scrittrice di bestseller Jojo Moyes: «Sarebbe stato carino commemorare Mary Wollstonecraft con i vestiti addosso: non si vedono molte statue di politici maschi senza mutande». Sberleffo finale da un’altra storica, Una McIlvenna dell’università di Melbourne, che ha condiviso sui social una foto di un modello maschio nudo con la dicitura: «Ecco una statua che ho appena fatto per onorare la memoria di John Lennon».
Così hanno ucciso James Bond: il nuovo 007 sarà donna e nero. Hollywood sempre in cerca di "rivoluzione politicamente corretta" rischia di affondare la fortunata saga di 007. Il pubblico non sembra aver apprezzato la scelta di una dark lady per ricoprire il ruolo della celebre spia. Forse i tempi non sono maturi e la forzatura appare evidente. Davide Bartoccini, Venerdì 06/11/2020 su Il Giornale. Per qualcuno si tratta già di una "nuova rivoluzione a Hollywood", e molte riviste - di moda, non di cinema - non hanno mancato l'occasione di incensare la notizia, come le veline del politicamente corretto impongono. Ma la decisione di affidare a una donna, Lashana Lynch, il ruolo di agente 007 nella prossima pellicola della fortunata saga, "No Time To Die", rischia di tramutarsi in uno dei più grandi flop del cinema. Nell'intervista rilasciata ad Harper's Bazaar, la 32enne attrice britannica di origini giamaicane ha confessato di essersi dovuta addirittura "cancellare" dai social a causa del malcontento dei fan di James Bond - proprio nella settimana del lutto che ci ha portati via Sean Connery , il primo e preferito tra tutti i Bond - che hanno riversato tutta la loro disapprovazione abbandonandosi a commenti negativi, talvolta sessisti e purtroppo anche razzisti. Commenti che però sembrano sottolineare come madame Broccoli, erede del produttore cinematografico Albert, abbia decisamente fatto il passo più lungo della gamba nell'annunciare al grande pubblico che il fascinoso ex-commando britannico con gli occhi di ghiaccio e una profonda cicatrice immaginato da Ian Fleming per ricoprire il ruolo della spia con la licenza di uccidere, verrà sostituito da un "agente della Cia donna, anche un po' goffa" - secondo le indiscrezioni confermate dalla stessa Lynch. L'attrice ha tentato di rassicurare se stessa, e gli altri, ripetendosi di essere parte integrante di un momento rivoluzionario. Appoggiato, non dovremmo neanche stare a ripetercelo, dai fanatici del politically correct e dalle paladine del neofemminismo. Ma, secondo gli umori del pubblico meno politicizzato, sembrerebbe trattarsi di una rivoluzione della quale nessuno sentiva veramente il bisogno. "Non volevo sprecare un'opportunità per rappresentare al meglio Nomi. Ho cercato almeno un momento nella sceneggiatura in cui il pubblico afroamericano potesse annuire con la testa, contento di vedere rappresentata la sua vita reale. In ogni progetto di cui faccio parte, indipendentemente dal budget o dal genere, l'esperienza black deve essere autentica al 100 per cento”, ha spiegato l'attrice che si dice fiera di allontanare la "mascolinità tossica" da un personaggio che però è stato pensato dal suo creatore, il burbero Fleming, proprio osservando un affascinante spia amante del menage a trois che giocava al casinò di Lisbona durante la guerra: Dusko Popov. “Sono molto grata di essere riuscita a sfidare le narrazioni dominanti. Ci stiamo allontanando dalla mascolinità tossica, e questo sta accadendo perché le donne sono aperte ed esigenti, alzano la voce e denunciano comportamenti scorretti non appena li vedono'', ha incalzato la Lynch; dimenticandosi che non è tanto un concetto legato alla narrazione dominante, quanto al concetto di fedeltà da mantenere nel rispetto di una data narrazione. James Bond, l'agente a doppio 0 immaginato da Fleming, è un raffinato gentleman che indossa pigiami di seta, seleziona attentamente le sue scelte enogastronomiche, al pari delle auto che guida e delle donne che ama sedurre. Ama bere Dom Perignon del '53 "servito ad una temperatura rigorosamente inferiore ai 4°"; guidare una Bentley del 1933, e indossare abiti da sera di alta sartoria. Oltre ad essere un agente segreto capace e raramente "goffo". Smettesse di farlo, non sarebbe più James Bond. E forse è questa la chiave di volta che sfugge al dibattito subito scivolato nel becero quanto presunto campo del sessismo. Nessuno avrebbe avuto da ridire se fosse stata lanciata una nuova saga senza scalzare in qualche modo l'adorato Bond, James Bond. Creare da zero un personaggio: un'agente della CIA che sappia emulare la celeberrima spia olandese Mata Hari, o Krystyna Skarbek, la spia polacca che ispirò tra gli altri anche lo stesso Ian Fleming. Accordandole il carattere risoluto di una reporter di guerra come Marie Colvin, nella verità, o dell'agente della CIA, per niente goffo, interpretato da Annette Bening in "Attacco al Potere" (1998). Certo una scelta simile non avrebbe potuto cavalcare l'onda lunga della lotta dei sessi che attizza le pasdaran del femminismo che vuole farsi totalitario. Ma una scelta simile, che sottende a degli incassi facili spinti dal marchio e da una critica ben oliata dal plauso dei progessisti che hanno sottomesso ad ogni livello lo star system, rischia invece di covare uno sconvolgete flop al botteghino. Circostanza già verificatasi nella "genderizzazione" di cult movie come il Ghostbusters nella sua declinazione al femminile del 2016, e Ocean's 8, spin-off al femminile della ben più nota triologia dei veri Ocean's. Non crediamo infatti che le indiscrezioni di una pellicola prodotta dalla Broccoli, magari ispirata alla fascinosa spia doppiogiochista della Grande Guerra Mata Hari - magari interpretata da una paladina delle donne combattenti come Gal Gadot (la Wander Woman della Marvel) - avrebbe riscosso delle critiche: anzi; forse proponendo qualcosa di ben ponderato avrebbe addirittura raccolto il plauso della critica e del pubblico. La produzione hollywoodiana evidentemente ha i suoi nuovi crismi, che suggeriscono, o impongono, i suoi nuovi obblighi. Attenderemo comunque questa pellicola per poterla giudicare con cognizione di causa. Magari stupirci, perché no. Anche se nella sua attesa - noi appassionati di 007 ne siamo convinti - non devono essere state poche le volte nelle quali Ian Fleming, bisbetico domato che proprio dall’esotica Giamaica scriveva i suoi 007, si sarà rivoltato nella tomba.
Lasciamo ai bambini la certezza primaria: X e Y. Anna K. Valerio il 4 Novembre 2020 su culturaidentita.it. Quello che è accaduto a livello nazionale sul dl Zan (dalla Camera primo via libera al ddl sull’omofobia con proteste da parte dei deputati dell’opposizione), la stessa si sta replicando nel “piccolo” del torinese: ieri è stata approvata dalla maggioranza nel consiglio comunale di Torino la proposta d’introdurre “una pedagogia di genere come formazione strutturale e continua per chi opera con bambine e bambini nel nuovo sistema integrato 0-6”, cioè all’interno degli istituti scolastici riservati ai più piccoli (Redazione) “Rosse, maestra, rosse.” “Ma no, amore. Concentrati. Non vedi che le fragole hanno tanti colori? Arancione… Giallo… Blu…” “Verde pisello?” “Ahahahahah”. Ahahahahah. Ah. E questa è l’ipotesi più ottimistica su cosa potrà succedere dopo che le maestre di nidi e materne di Torino avranno fatto il corso sul gender appena approvato da Chiara Appendino, prim* cittadin*. Sui quaderni dei bambini under 6 cosa troveranno d’ora in poi i genitori? Lumache che si sentono draghi, draghi che si sentono aironi, principi che si sentono ciabattini, maghi che si sentono Piergiorgio Odifreddi? E guai a chi la butta in ridere, perché la truffa esige di essere presa molto sul serio. È serio – dicono – anche il dolore di chi è discriminato. Oh, certo: serissimo. Ma la soluzione non può essere la contraffazione totale, la sagra dei fischi per fiaschi. I bambini. Già ne nascono pochetti. Già devono trangugiare separazioni plurime dei genitori e tutta una serie di stranezze in cui tutti prima o dopo si incappa, in questo mondo confuso. Anche la storia del gender no. Lasciamogli almeno la certezza primaria, primigenia, ingenua, semplice: la certezza delle mutande. X. Y. Non c’è mica bisogno di dire prima X o prima Y. A ciascuno il suo. E se Y si sente X, o viceversa, insegniamo alle altre X e agli altri Y il rispetto. Il pudore. La discrezione. Il farsi i fatti propri, senza invadere il privato altrui. Questo mai, invece, che venga suggerito. Anzi. È tutto un voler/dover condividere, stropicciarsi i sentimenti l’uno addosso all’altro. E così smuoiono appena nati, i sentimenti. E da adolescenti gli ex bambini sono già vuoti. Grandi passioni? Ma neanche mezza. Selfie. Scarpe. Ricette di dolci per la colazione. Ah, no: quelle, dopo i venti. I bambini hanno pochi e semplici bisogni. Di essere amatissimi da piccoli. Amatissimi proprio: se non altro per la disgrazia che gli è toccata di essere nati in un mondo così bruttino. Amatissimi dai familiari, se possibile. Almeno dalla mamma, che sarebbe bene mettesse in conto che il congedo dal lavoro deve prolungarsi un po’ più dei dieci giorni dalla nascita del bimbo. Sennò, meglio desistere. E poi non riesco a non dirlo, perché ne ho viste tante: i bambini non dovrebbero essere messi in gabbia troppo presto – intendo al nido. Certo, il vincolo del lavoro, stipendio, soldi, tutte queste oscenità che ci plasmano e sconvolgono, aveva ragione Marx, pienamente ragione. Ma tentare l’azzardo dei nonni, no? Inventare qualche soluzione meno irriguardosa della fragilità strutturale dei piccoli, no? Hanno pochi e semplici bisogni, i bambini. Correre nell’aria tra amici. D’inverno, d’estate, anche con un po’ di pioggia, anche con la nebbia. Osservati dalla mamma, che è quella là, quella che solo lei ti ha messo al mondo, che solo da lì potevi uscire, che solo a lei le ghiandole mammarie facevano inventare il latte che ti ha fatto crescere più sano dell’intruglio del biberon. Quella. Ma sì, dillo, tanto qua si può, dilla la parolaccia che tra un po’ non ti faranno più dire. “Lei?” Lei.
DAGONEWS il 4 novembre 2020. E adesso anche Borat finisce nel mirino dei musulmani in Francia. A far incazzare i fedeli di Maometto è stato il poster pubblicitario sui bus dell’ultimo film che raffigurata Sacha Baron Cohen quasi nudo che indossa un anello con la parola "Allah" in caratteri arabi. Sui social è scattata una campagna per chiedere la rimozione dei poster e le autorità locali sono state accusate di insultare l'Islam. La principale rete di trasporti di Parigi, RATP, si è rifiutata di rimuovere i manifesti, mentre sugli autobus della rete TICE, che opera in un'area prevalentemente musulmana, non c’è più traccia della pubblicità. La nuova polemica arriva in un momento di alta tensione in Francia dove gli ultimi attentati hanno scosso l’intera nazione e le parole di Emmanuel Macron che ha difeso la libertà di espressione hanno scatenato furiose proteste in diversi paesi a maggioranza musulmana.
“Pensavo che avrei diviso di più. Mi aspettavo una frangia di detrattori. Invece sembra che piaccia a tutti. Ho avuto un' adolescenza logorata da comici che parlavano solo di Berlusconi, al punto di farmelo stare più simpatico di loro Mi piace l' umorismo surreale. (Valerio Lundini, Il Messaggero, 27 ottobre 2020)
Daniele Luttazzi per il “Fatto quotidiano” il 3 novembre 2020. Quando un nuovo comico trentenne piace istantaneamente a tutti, dal Foglio al Giornale a Repubblica a Vanity Fair, dovrebbe preoccuparsi, perché significa, innanzitutto, che sta facendo cose già digerite; ma, soprattutto, perché significa che sta bene a tutti, cioè che è irrilevante. I paragoni evocati a proposito di Lundini sono un indizio eloquente: Paolo Villaggio-Professor Kranz, Cochi & Renato e Jannacci erano già surreali e anti-televisivi la bellezza di mezzo secolo fa; ma irritavano i benpensanti, poiché avevano la consapevolezza satirica di un Dario Fo ("La satira vera si vede dalla reazione che suscita"), che invece manca sempre quando un nuovo comico trentenne piace istantaneamente a tutti, c' è poco da fare. Il nuovo trentenne surreale, a questo punto, invece di restarne semplicemente sbalordito, dovrebbe cercare di capire il ruolo che gli è stato assegnato, cioè interrogarsi sul perché la tv italiana, non da oggi, non abbia alcun problema a mandare in onda quelli come lui; e perché, qua da noi, ettari di corsivi vengano sempre dedicati alla loro esaltazione, non appena gli si concede la ribalta, e al pestaggio sistematico di chi viene censurato perché obietta sull' andazzo. Si tratta di un nodo politico: i doganieri lasciano passare i surreali mentre impediscono l' accesso ai satirici. I surreali sono funzionali (dunque fungibili), i satirici no. Sicché, alla fine della fiera, il consenso di cui gode il nuovo trentenne surreale non è diverso da quello tributato al "qualunquismo ecumenico di Fiorello" (Fulvio Abbate): in questi casi, essere bravi è un' aggravante. Pochi ascolti? Oh, è solo l' inizio: arriverà a presentare Sanremo; a modo suo, come Chiambretti. Detto altrimenti: se intervisti Diaco e Diaco sta allo scherzo, dov' è la critica? Per quale motivo quell'intervista dovrebbe "dividere"? Trent' anni fa, qualcuno fece Marzullo che intervistava Hitler e Gesù, e il produttore di quel programma, Parenzo, lo censurò, mettendo al suo posto una parodia bonaria di Marzullo fatta da Fabiofazio. Tarallucci, e infatti oggi Fabiofazio ospita Marzullo, in siparietti divisivi come il brodino della nonna. Sapete qual è il massimo, per la tv? L'umorismo surreale e poetico: non fa male a una mosca. Le mie battute, invece, sono sgradevoli, morbose e indifendibili. Bisogna saper distinguere fra umorismo spietato e umorismo surreale e poetico. Vi faccio un esempio: vi siete mai chiesti che sapore abbia un feto appena abortito? Pollo crudo. E questo era l' esempio poetico Aldous Huxley immaginò un nuovo tipo di società oppressiva in cui le persone vengono tenute sotto controllo non con la forza, ma con una cultura imbecille, ricca solo di sensazioni e bambinate. Mi sembra che ci siamo in pieno I buoni sentimenti usati per fare spettacolo! Guardate questo ritaglio di giornale. Dice: "Gli ospiti del Maurizio Costanzo Show di questa sera sono lo scultore Loris Costantini, la cantante Antonella Agosti, Barbara Marugo, fotomodella, il cantante Mauro Maglione, e Angela Ferri, portatrice di handicap". A me sembra una cosa allucinante. "Lo sai? Sono stato ospite al Costanzo Show, ieri sera". "Ah sì? E cosa hai fatto di bello?". 'Niente: ero l' handicappato della serata'" (Chi ha paura di Daniele Luttazzi?, 1991: anch' io avevo 30 anni).
Da leggo.it il 28 ottobre 2020. Caterina Collovati e l'affondo contro Guillermo Mariotto. La conduttrice di Telelombardia, in un post su Instagram in cui parla dello storico giudice di Ballando con le Stelle, si pone un interrogativo: «Anche in tv ci sono figli e figliastri?». Il riferimento di Caterina Collovati è ad una serie di uscite infelici di Guillermo Mariotto, che nel giudicare i concorrenti in gara spesso usa un linguaggio fin troppo diretto. Tra le varie dichiarazioni del giudice di Ballando, riportate da Caterina Collovati, ci sono quelle in cui ha definito Antonio Razzi affetto da demenza senile, usato riferimenti sessuali nel valutare la prova di Elisa Isoardi e dato della 'cicciona' ad una donna. Una sequela di uscite infelici che ha generato tante polemiche, ma senza ripercussioni sul posto occupato da Guillermo Mariotto. Proprio per questo, Caterina Collovati riflette e pone anche ai propri follower una serie di domande. «Queste sono solo alcune perle di Guillermo Mariotto, a proposito di sessismo, body-shaming e raffinatezze varie. La domanda che mi pongo e perchè ad alcuni personaggi tv sia concesso dire tutto e il contrario di tutto senza alcuna ripercussione: sospensione, multa ecc... Anzi, in molti casi si viene persino premiati con ulteriori ospitate» - il post della conduttrice televisiva - «Curioso che ad altri invece venga chiesto conto e ragione di ogni opinione. Anche in tv figli e figliastri?».
Annalisa Chirico, cos'è successo con Edward Luttwak: "Se lo fanno Floris o Formigli va bene, giornalismo maschilista". Libero Quotidiano il 06 novembre 2020. Annalisa Chirico ha deciso di sfogarsi in un video per quanto accaduto sui social dopo l’intervista a Edward Luttwak. “In Italia funziona così - ha esordito - se Giovanni Floris o Corrado Formigli invitano quel politologo americano per esprimere le sue opinioni su Italia e Stati Uniti, e in questo caso sulle elezioni presidenziali, va bene. Se lo intervisto io per lachirico.it - ha accusato la giornalista - non va bene. Luttwak ha espresso le sue opinioni, che a volte sono forti e che talvolta condivido. In questo caso ha detto che gli afroamericani della classe media che hanno lavoro, famiglia e vivono nella legalità avrebbero votato per Trump, mentre quelli più criminali per i democratici. Questa è stata la sua analisi - ha sottolineato la Chirico - eppure sui social tanti giornalisti di più o meno vana gloria si permettono di darmi lezioni di giornalismo. Evviva la libertà, la democrazia e il pluralismo delle idee”, ha chiosato la giornalista de Il Foglio.
Giovanni Sallusti per Dagospia, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, il 7 novembre 2020. Caro Dago, fioccano lenzuolate in serie sulle elezioni americane, ma per capire il loro racconto politically correct spacciato per giornalismo basta e avanza il vecchio Orwell. Precisamente, basta rovesciare un suo famoso teorema: ci sono latinos meno latinos degli altri, ci sono neri meno neri degli altri, ci sono donne meno donne delle altre. Ovviamente, sono coloro che, contro le consegne paternalistiche degli editorialisti (tendenzialmente bianchi della East Coast), hanno votato Donald Trump. Repubblica ha seriamente titolato un pezzo di Gabriele Romagnoli “Il tradimento dei latinos - tradimento rispetto ai desiderata delle riunioni di redazione in Largo Fochetti, immagino- Ora ballano con Trump”. Profonda spiegazione sociologica dello smottamento del voto ispanico: “Il presidente incarna il loro líder ideale: è un macho”. Che, peraltro, “ha fatto i soldi”. Vale a dire: secondo gli antirazzisti di professione, i latini che si sono schierati con Trump sono dei minus habens raggirati dal portafoglio gonfio e dai modi da duro. Fa meglio nella gara della prevedibilità buonista La Stampa di oggi, che schiera l’analisi di Gianni Riotta e l’intervista alla scrittrice Erica Jong. Il primo sviluppa il canovaccio del giornale gemello (nel gruppo Gedi ormai gli articoli e le idee sono interscambiabili), già dal titolo: “Lusso e machismo, il marchio di Trump che affascina i neri” (sì, proprio così, “marchio”, come se si trattasse di schiavi nelle piantagioni di cotone, e non di liberi cittadini pensanti e votanti). In particolare, annota meditabondo Riotta, “Trump brilla tra i giovani neri”, grazie a “l’immagine da ricco magnate, le limousine, le Miss dei festival, gli abiti sgargianti” che “risuonano popolari con il culto della ricchezza, del lusso che molti cantanti rap promuovono, icone classiche dei loro video”. Gli afroamericani che scelgono Donald, insomma, sono tutti sfaccendati in fregola da rapper col mito dei soldi facili. Mentre gli afroamericani che votano il Partito Democratico, ovviamente, sono tutti fini conoscitori dell’opera di Thomas Jefferson ed esperti nella dottrina della separazione dei poteri. Ma in vetta si colloca decisamente Erica Jong, che a Paolo Mastrolilli confida tutto il proprio sbigottimento per l’assenza di una valanga del “voto femminile” contro il presidente. E perché non è accaduto? “Ignoranza. Non capisco perché una donna possa votarlo, visto che il suo odio contro di noi è così ovvio”. È ovvio, gli assiomi dell’intellighenzia correttista non si dimostrano, si enunciano, e chi non li introietta è un paria in odor di suprematismo. Eppure il consenso di Trump presso le donne bianche è addiritura cresciuto, butta là l’intervistatore con la finta ritrosia di chi accende una miccia. “Mio Dio! Io voto come le donne nere, perché loro sono più attente e interessate”, è la fine lettura della scrittrice, il razzismo capovolto sulle inferiori donne repubblicane dal viso pallido. Eh, ma “anche il vantaggio dei democratici tra le donne nere è sceso”, incalza un Mastrolilli ormai palesemente divertito. “Perché viviamo ancora in una società sessista, e alcune donne sono sessiste contro i loro stessi interessi. È tragico”. No, è comico, è un perenne sofisma ubriaco, è il Politicamente Corretto, bellezza.
Battuta sessista in televisione. Se la fa una donna è tutto ok. Nel 2018, a XFactor c'era l'eroina del metoo, Asia Argento nel 2020, a HotFactor (il programma che segue il talent show di Sky con commenti "a caldo"), c'è Daniela Collu. Valeria Braghieri, Sabato 31/10/2020 su Il Giornale. Nel 2018, a XFactor c'era l'eroina del metoo, Asia Argento (avrebbe dovuto esserci anche nell'edizione successiva del 2019, ma poi è saltata fuori quella faccenda per cui sembrava passata da vittima a predatrice e quindi non se ne fece più nulla); nel 2020, a HotFactor (il programma che segue il talent show di Sky con commenti «a caldo»), c'è Daniela Collu. Una che dice al rapper Hell Raton: «Io non ti dico in che posizioni ti vorrei mettere». È successo giovedì sera e si trattava di una risposta all'ingenua constatazione che Manuel Zappadu (in arte Hell Raton, appunto: parla come un sudamericano ma è sardo) stava facendo su se stesso e i suoi colleghi: «Ci avete messo in una posizione davvero scomoda stasera». Da lì, l'infelice battuta della conduttrice che ha raggelato gli ospiti e la platea televisiva per una manciata di eterni secondi. Il fatto che XFactor sia un programma di strepitoso successo e indubitabilmente coinvolgente (riesce ad esserlo persino nelle puntate prive di pubblico, causa restrizioni Covid), non sempre lo mette al riparo da una sbavatura di retorica e politically correct, ogni tanto. C'è sempre il personaggio che deve esserci, la lacrima che non può mancare, il tema d'attualità incarnato in qualcuno... Tutto concorre a farne il successo che è ed ogni quota è rispettata. Ma proprio per questo ci ha stupiti il fatto che, seppur nel «contenitore secondario», i gagliardi autori dello show non abbiano colto l'occasione per dimostrare di essere davvero moderni e illuminati. Ma come, nel talent ci sono tutte le categorie umane sapientemente rappresentate e nel post talent ti lasci sfuggire una simile, greve gaffe sessista? Quale miglior contenitore per dimostrare che la parità di genere passa appunto dall'uguaglianza? Dal fatto che lo stesso rispetto e le stesse salutari distanze devono essere mantenute tanto dagli uomini nei confronti delle donne, quanto il contrario? Hell Raton imbarazzato, ospiti ammutoliti, pubblico incredulo (si sarebbe sfogato tre secondi dopo dove si sfogano tutti, sui social) e conduttrice improvvisamente conscia del madornale errore: «Sono caduta troppo nell'Hot, torno nel Factor», ha detto come schiarendosi la voce mentre le guance iniziavano a farsi purpuree quanto le labbra laccate. Ma intanto era fatta. Chili di concionate per la parità di genere seppellite da una risata che non c'è nemmeno stata. Bullismo femminile sul palco. E che palco. Chissà se troveranno il modo di metterci una pezza, la prossima puntata. Sempre che non ci pensi prima la fidanzata di Hell Raton.
Finkielkraut contro il politicamente corretto: il nostro mondo è ormai inabitabile. Riccardo Arbusti domenica 25 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. L’impressione generalizzata è che l’offensiva intellettuale contro l’egemonia del “politicamente” corretto provenga soprattutto dalla cultura francese più pensosa, rappresentata oggi da pensatori e scrittori come Pascal Bruckner, Michel Onfray, Michel Houllebecq e Alain Finkielkraut.
Una avanguardia di pensiero. Una avanguardia di pensiero che nell’ultimo decennio, insieme all’opera di un altro francese, Alain de Benoist, costituisce una lettura difforme e complessa della nostra contemporaneità. Giunge quindi più che opportuno l’ultimo libro di Alain Filkielkraut – In prima persona. Una memoria controcorrente (Marsilio, pp. 105, euro 15,00) – che si presenta come una autobiografia intellettuale senza sconti di un filosofo coraggioso: “Niente occupa il mio cuore tanto quanto la crescente inabitabilità del mondo. Tra la nuova frattura sociale e il dominio devastatore dello spirito della tecnica in tutti gli ambiti della realtà, non smetto di rilevarne i sintomi. Se trovo ancora la forza di scrivere. È su impulso di questo tormento”.
Finkielkraut: da Marx a Heidegger. Il dato più interessante è che Finkielkraut, come Onfray e Bruckner, viene da sinistra, si è abbeverato ventenne ai miti e agli slogan del Sessantotto. Eppure, già nel ’74 si rende conto della vacuità dello sposare Marx e Freud e di ridurre tutte le analisi a ideologia. Comincia, attraverso Foucault e Levinas, a vedere il mondo con maggiore complessità. Fino allo shock Heidegger: “Leggendolo – ammette – non visitavo più un palazzo lontano; ero travolto, rapito coinvolto in prima persona… La metafisica mi insegnava Heidegger, non si situa al di là, bensì alla base del pensiero corrente. Si annida nella prosa di ognuno. Tesse la trama delle nostre esistenze. Dà forma ai nostri comportamenti quotidiani”.
Il pensiero dissidente e non conformista. A seguire, l’incontro con il pensiero dissidente dell’Europa dell’Est: Kundera, Milosz, Brandys, Kolakowski: “Non parlavano solo di politica, non si limitavano alla demistificazione (peraltro indispensabile) dell’utopia rivoluzionaria. Non si accontentavano di opporre allo schema progressista di uno scontro tra comunismo e capitalismo la realtà del conflitto tra la democrazia e il totalitarismo. Bensì indicavano, a chi si prendeva la briga di leggerli, quale fosse la sfida di civiltà della dominazione russo-sovietica sull’Europa centrale”. Ultima tappa del percorso intellettuale di Filkielkraut la rivalutazione non conformista di Georges Bernanos e Charles Péguy, autori che gli insegnano a leggere gli eventi storici con un sguardo profondo.
L’offensiva contro il politicamente corretto. Da tutto ciò l’offensiva di Finkielkraut contro il politicamente corretto, l’ideologia oggi dominante secondo cui in ogni discorso pubblico “ognuno” deve essere rigorosamente seguito da “ognuna”. Il nostro filosofo non può non denunciare il nuovo conformismo globalista degli opinionisti che “attaccano, in maniera diretta, un conformismo defunto, e lo rimpiazzano arditamente con un nuovo gregarismo. Normalizzano le parole e le idee con tanta solerzia perché ciecamente convinti di infrangere le regole e lottare contro le disuguaglianze. Intrattenitori, commentatori o pensatori, sostengono di incarnare la dissidenza, nonostante facciano il bello e il cattivo tempo in società”. La migliore dimostrazione è la neo-lingua, costruita su tecnicismi anglicizzanti: gli hackers, il reset, lo streaming, lo shooting, il brainstorming… Ma, per Finkielkraut, “non è l’inglese che, nonostante le apparenze, estende il suo dominio sulle altre lingue, è il Gestell (la Tecnica in senso heideggeriano) che le ingloba tutte, inclusa quella di Shekespeare”.
L’inabitabilità del mondo. L’inabiltabilità del mondo contemporaneo spinge infine Finkielkraut a una grande provocazione: “Ogni weekend, a Praga, la più bella città dell’Europa centrale, i casinisti internazionali la fanno da padrone. Talvolta, di fronte a questo vandalismo sonoro e agli altri danni del turismo contemporaneo, mi verrebbe voglia di proibirlo: che ognuno resti a casa propria, poiché i viaggi non formano più i giovani, ma contribuiscono potentemente alla standardizzazione e all’imbruttimento del mondo!”.
Da news.mtv.it il 23 ottobre 2020. Negli ultimi giorni è tornato in auge un vecchio sondaggio, che chiedeva di votare il "Chris più hot di Hollywood" tra Chris Hemsworth, Chris Pratt, Chris Evans e Chris Pine. La cosa era nata in modo scherzoso, tanto per passare il tempo ad ammirare tutti questi splendidi attori. Ma adesso che le elezioni presidenziali americane del prossimo 3 novembre si avvicinano, il tono è cambiato e molti hanno messo in fondo alla classifica Chris Pratt supponendo che parteggi per i Repubblicani (e quindi per Donald Trump). C'è anche chi ha tirato in mezzo una presunta connessione del 41enne con la Hillsong Church, che è stata accusata di essere anti-LGBTQ+. Il primo è Robert Downey Jr.: "Che mondo... I “'senza peccato” stanno tirando pietre a mio fratello Chris Pratt - ha scritto su Instagram - Un vero cristiano che vive con principi, non ha mai dimostrato altro che positività e gratitudine. Ed è solo sposato in una famiglia che fa spazio per discorsi civili e che (è un fatto) insiste sul servire come valore più alto". "Se avete un problema con Chris... ho un'idea nuova. Cancellate i vostri account social, sedetevi con i vostri difetti di carattere, lavorateci su, poi celebrate la vostra umanità". Ha aggiunto l'hashtag "ti guardo le spalle". Il secondo è Mark Ruffalo: "A voi tutti, Chris Pratt è un uomo solido. Lo conosco personalmente e invece di lanciare critiche, guardate a come vive la sua vita. Di regola non è apertamente politico. Questa è una distrazione. Teniamo i nostri occhi sull'obbiettivo, amici. Siamo così vicini". Anche Katherine Schwarzenegger ha difeso il marito e padre della bambina che hanno avuto insieme questa estate, riportando l'attenzione su temi più seri: "È davvero questo ciò di cui abbiamo bisogno? C'è così tanto nel mondo e le persone hanno difficoltà in così tanti modi. Essere cattivi è il passato. C'è abbastanza spazio per amare tutti questi ragazzi. Amore è ciò di cui abbiamo bisogno, non cattiveria e bullismo. Proviamoci". Chris Pratt si è sempre astenuto dal fare dichiarazioni pubbliche riguardo la politica. Qualsiasi partito sostenga, che ci piaccia o meno, è una scelta che va rispettata.
L'ultima follia firmata dal Pd: "criticare" la moglie sarà reato. Ecco perché. Dubbi sul disegno di legge della Commissione sul femminicidio presentato in Senato. Alcuni dei nuovi questionari Istat sulla violenza domestica sono assurdi. Valentina Dardari, Venerdì 23/10/2020 su Il Giornale. Dovrà stare attento il marito che si lamenterà in futuro della propria moglie. Criticarla potrebbe infatti diventare reato ed essere classificato come violenza di genere. Questo si intuisce dal disegno di legge della Commissione sul femminicidio presentato in Senato.
Il marito è avvertito. La proposta dovrebbe essere approvata il prossimo martedì, poi non potrà più essere modificata in aula. Sarà infatti riservato all’aula solo il voto degli articoli e il voto finale sul provvedimento, senza possibilità di apportare modifiche rispetto al testo approvato in commissione. La Verità ha sottolineato che c’è un qualcosa di morboso nel Ddl, che va al di là dell’emergenza concreta e della constatazione delle pressioni, pesanti, che riportano all’importanza sociale del tema in sé. La prima firmataria è Valeria Valente, senatrice del Pd e Presidente della Commissione d'inchiesta sul Femminicidio, che sembra volere, con questo disegno di Legge, entrare nelle abitazioni dei cittadini e decidere riguardo i comportamenti tenuti dal marito in casa e il suo stile di vita, più che a episodi di violenza veri e propri. Nel progetto legislativo si prevede che gli uffici, gli enti o gli organismi che partecipano all’informazione statistica ufficiale, inserita nel programma statistico nazionale, forniscano dati e notizie sulle persone disaggregati per uomini e donne, assicurando anche l’uso di indicatori sensibili al genere.
La funzione dell'Istat. Nel Ddl, all’articolo tre, si legge che ogni 3 anni l’Istat “dovrà realizzare un'indagine campionaria interamente dedicata alla violenza contro le donne che produca stime anche sulla parte sommersa dei diversi tipi di violenza, ossia fisica, sessuale, psicologica, economica e stalking, fino al livello regionale”. L’Istat dovrà quindi accertare le percentuali del fenomeno sociale in funzione di nuovi provvedimenti. Diversi i quesiti che verranno posti solo alle donne, da quelli attinenti e doverosi, come per esempio alla domanda se un uomo abbia minacciato o preteso con la forza un rapporto sessuale, ad altri meno usuali. Verrà chiesto alla donna se il proprio marito o compagno si arrabbia quando lei parla con un altro uomo, o se il congiunto osa muovere qualche critica su trucco e parrucco adottato dalla donna. O ancora, se critica la sua capacità di cucinare, ha dubbi sulla sua fedeltà oppure se le vieta di usare il bancomat, magari perché la dolce metà non è molto accorta sulle spese che effettua. Se l’intervistata risponde sì iniziano i guai per l’uomo, che diventa a questo punto un violento per legge. C’è anche un riferimento all’attenzione mostrata dal compagno alla donna mentre parla. Guai a ignorare cosa dice la propria signora, le sbarre sono dietro l’angolo. Da che mondo e mondo, anche nelle vignette umoristiche, si è sempre saputo che spesso il marito non ascolta la consorte e fa orecchie da mercante.
Giorgio Gandola per “la Verità” il 25 ottobre 2020. La moglie fa bruciare il capretto pasquale e il marito si lamenta: è violenza di genere. La fidanzata indossa una minigonna inguinale con stivali sadomaso e chiede al compagno: «Come sto?». Se la risposta è: «Male, per favore mettiti qualcosa di più consono per una visita medica», è violenza di genere. C' è qualcosa di morboso e occhiuto nel disegno di legge della Commissione sul femminicidio presentato in Senato, che dovrebbe essere approvato martedì prossimo e non sarà più possibile modificarlo in aula. Qualcosa che va oltre un' emergenza concreta, oltre la constatazione dei reati e delle pesanti pressioni psicologiche che danno al tema un' oggettiva importanza sociale. C' è qualcosa di ideologico nel testo che ha come prima firmataria Valeria Valente del Pd e che pretende di entrare nelle nostre abitazioni, pure in camera da letto senza chiedere permesso, e giudicare comportamenti più attinenti allo stile di vita, all' intima armonia delle coppie che alla violenza in senso stretto. L'argomento è delicato, banalizzare significa commettere l' errore opposto rispetto al criminalizzare, anche perché la linea di demarcazione è sfumata. Ma ai senatori questa volta è slittata la frizione, sembrano più voyeur che legislatori e confermano una preoccupante sensazione davanti a molte decisioni di questo governo: l' avanzata dello Stato etico che pretende di codificare anche l' incodificabile. La volontà di regolare la vita dei cittadini - antico mito della sinistra dirigista - diventa esplicita quando il disegno di legge, all' articolo tre, mette nero su bianco che l' Istat «dovrà realizzare con cadenza triennale un' indagine campionaria interamente dedicata alla violenza contro le donne che produca stime anche sulla parte sommersa dei diversi tipi di violenza, ossia fisica, sessuale, psicologica, economica e stalking, fino al livello regionale». In pratica l' istituto di rilevazione statistica dovrà accertare le percentuali del fenomeno sociale in funzione di nuovi provvedimenti. E in questo contesto vengono proposti i quesiti che Gian Carlo Blangiardo e i suoi ricercatori dovranno porre solo alle donne. Accanto a quelli più scientificamente attinenti al tema e del tutto legittimi (È mai capitato che un uomo abbia minacciato di colpirla fisicamente, l' abbia forzata ad avere un rapporto sessuale, l' abbia indotta anche se non ne aveva voglia? e tanti altri doverosi) ci sono alcune domande semplicemente surreali. Lui si arrabbia se lei parla con un altro uomo? La critica per come si veste o si pettina? La critica per come cucina? Ha dubbi sulla sua fedeltà? Le impedisce l' uso della carta di credito? Magari la signora ha le mani bucate, ma se la risposta è «sì» il compagno diventa un violento per legge. Sembra che l' impressionismo di certi quesiti contenuti nel Ddl sia studiato apposta per innalzare in modo esponenziale le percentuali delle vittime di violenza domestica (tutto nel calderone), trasformando una legge che ha lo scopo principale di contrastare una pratica odiosa e incivile in un pruriginoso vaudeville o in una pellicola trash anni Settanta con Alvaro Vitali. Fra le pratiche proibite ce n' è una particolarmente impegnativa, sintetizzata dalla domanda: «La ignora quando parla?». E qui siamo nel classico della gag con Sandra Mondaini e Raimondo Vianello a letto con la Gazzetta dello Sport. Mariti e figli maschi italiani, non costringete la mamma e la moglie a dire: «Questa casa non è un albergo». Secondo la senatrice Valente e altri 18 potreste rischiare la galera.
IRENE SOAVE per il Corriere della Sera il 20 ottobre 2020. Il bersaglio delle critiche non è che le opere di artiste, in una mostra che intende rappresentarne il trattamento iniquo nella storia dell'arte, siano 60 su 134: meno di metà. Né che un quadro attribuito alla pittrice Concepción Mejía sia stato invece dipinto da un uomo e sia stato quindi ritirato. La mostra Invitadas («Invitate») con cui il museo madrileno del Prado ha riaperto dopo il lockdown raccoglie «Frammenti circa le donne, l'ideologia e le arti visive in Spagna (1833-1931)», così il sottotitolo; e si propone come «un viaggio critico attraverso la misoginia» del Prado, che in un moto di autocritica al passo con l'epoca ammette di averle considerate a lungo come Invitadas . Comprimarie. Il mea culpa del museo si articola già nei titoli delle 17 sezioni: « El molde patriarcal » (la parola molde vale «matrice», ma anche «muffa»); «Madri sotto esame»; «Manichini di lusso»; e così via. La lente è su acquisizioni e commesse di opere d'arte da parte dello Stato e del Prado stesso; le donne sono molto più oggetti che soggetti dell'arte pittorica, e soprattutto miniaturiste o autrici di nature morte: insomma relegate. Un autodafè che il Prado compie sulla sua collezione, da cui vengono tutte le opere. Molte escono per l'occasione dai magazzini, e 40 sono state restaurate apposta. Eppure 8 accademiche hanno firmato una lettera al ministro della Cultura: col pretesto di additare la misoginia, scrivono, la mostra la celebra. Metà della mostra è dedicata allo «sguardo misogino», argomenta Rocío de la Villa dell'Università di Madrid: equivale a perpetuarlo. «Nella mostra si presentano tutte le degradazioni possibili del femminile: nude, prostituite, infantilizzate. Un catalogo pieno di morbosità, e non diverso dall'immaginario attuale». «La mostra fornisce un contesto: il problema delle artiste nel passato era che lo Stato le escludeva, riducendole a ruoli minori». Si difende così sul Guardian il curatore Carlos Navarro. È uno dei conservatori del museo, esperto del XIX secolo, ed è - come sbagliarsi, in una mostra sull'esclusione delle donne dalle istituzioni dell'arte- anche un uomo.
Elia Pagnoni per “il Giornale” il 19 ottobre 2020. Giù le mani da Aguero. Ormai in questo calcio vivisezionato, scandagliato, radiografato da mille angolature, tra Var e occhi di falco, ci si aggrappa a un gesto tutto sommato spontaneo e certamente non smaccato o addirittura volgare come vorrebbe qualcuno. Il Kun se l' è presa con il guardalinee, o meglio con la guardalinee di Manchester City-Arsenal per una decisione non condivisa. Niente di eccezionale, uno scambio di idee come tanti altri, nemmeno concitato, ma concluso da un braccio sulle spalle della signora o signorina, una specie di abbraccio, quasi amichevole, come si potrebbe fare con qualsiasi amica o con qualsiasi amico. Persino con qualsiasi guardalinee o arbitro, perché se l' avesse fatto con un ufficiale di gara uomo sarebbe passato inosservato. E invece no, tutti (a partire dagli immancabili social-bar) a sparare sull' argentino, accusato persino di sessismo. Addirittura l' arbitro dell' incontro è stato accusato di non aver preso provvedimenti secondo i regolamenti del calcio inglese che prevedono l' espulsione per chiunque tocchi un fischietto o i suoi collaboratori. Ma forse sarebbe anche ora di uscire un po' da questo talebanismo di facciata che punta l' indice su una banalità del genere e poi chiude gli occhi davanti a fatti ben più gravi. Noi siamo con il Kun, non fosse altro perché ha dato un tocco di naturalezza a questo sport ormai sempre più videogioco. Una volta magari agli arbitri davano anche qualche strattone di troppo, ma tanto non c' erano le telecamere... adesso ci si scandalizza per un braccio al collo. Ma quanti gesti di questo tipo vorremmo vedere anche sui nostri campi, piuttosto che le mille sceneggiate e proteste plateali e insopportabili, persino da parte di tanti allenatori. Allora Gigi Buffon, che da anni abbraccia chiunque gli passi sotto il naso, compagni, avversari, arbitri e guardalinee compresi, sarebbe già stato radiato a vita da un bel pezzo...
"Oggi il vero razzismo è contro i maschi bianchi". Non c'è opera di Pierre-André Taguieff che non abbia contribuito in modo determinante al dibattito intellettuale francese. Mauro Zanon, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. Non c'è opera di Pierre-André Taguieff che non abbia contribuito in modo determinante al dibattito intellettuale francese: dai suoi lavori sulla Nuova Destra e la neogiudeofobia ai suoi studi sul complottismo e sulle nuove forme di razzismo che allignano nella società occidentale. Filosofo, politologo e storico delle idee, Taguieff è direttore di ricerca presso il Centre national de la recherche scientifique (Cnrs). È appena tornato in libreria con L'imposture décoloniale. Science imaginaire et pseudo-antiracisme (Éditions de l'Observatoire/Humensis), un saggio sulla «corruzione ideologica dell'antirazzismo» e sulla «conquista decoloniale degli spiriti». «L'impostura, anzitutto, sta nel fatto che non c'è un pensiero postcoloniale né un pensiero decoloniale, che non esistono approcci scientifici fondati su un corpus di concetti, di modelli di intelligibilità e di ipotesi che costituirebbero la teoria post-coloniale o la teoria decoloniale», dice al Giornale Taguieff, prima di aggiungere: «Non si trovano ricercatori in questi campi: le persone che si considerano tali, in realtà, non fanno ricerca, perché sono convinti di sapere già tutto sulle questioni di cui si occupano, ossia che i retaggi della tratta atlantica e del colonialismo europeo spiegano l'esistenza del razzismo sistemico, ossia del razzismo bianco, nelle società occidentali contemporanee».
Qual è il profilo di questi autoproclamati pensatori post-colonialisti o decolonialisti?
«Tra quelli che si qualificano in tal modo, si trovano soltanto scrittori e professori universitari di estrema sinistra politicamente impegnati nella critica, più o meno radicale, della storia e del pensiero europei. Essi utilizzano gli strumenti intellettuali di alcuni pensatori europei post-moderni o post-strutturalisti, adepti della decostruzione dei concetti filosofici, a cominciare dal più celebre di loro, Jacques Derrida. Gli ideologi del post-colonialismo e del decolonialismo ritengono che il razzismo coloniale sia in un certo senso una malattia ereditaria e contagiosa che colpisce i discendenti degli schiavisti e dei colonialisti, i quali vivono in società neoschiaviste e neocolonialiste dove i dominati sono inevitabilmente razzizzati. Il razzismo coloniale è dunque una malattia che si eredita e si contrae tramite semplice contatto. Dinanzi alla presunta persistenza del razzismo coloniale è prescritto un unico rimedio: la denuncia litanica di questo razzismo. È l'antirazzismo politico, strumento di intimidazione la cui sola funzione è discreditare qualsiasi critica del post-colonialismo e del decolonialismo. La mia critica dell'impostura decoloniale verte anzitutto su una storiografia che ha le sembianze di un regolamento di conti con il passato nazionale e si basa su una serie di sciocchezze e sulle strumentalizzazioni politiche di queste denunce iperboliche del retaggio coloniale. Non c'è una ricerca post-coloniale o decoloniale, c'è soltanto un ritornello militante di accuse che mirano a criminalizzare la Francia, e, più in generale, l'Occidente».
Cos'è l'antirazzismo razzista che lei denuncia nel suo libro?
«Essere antirazzista nella vita sociale ordinaria significa prendere posizione contro gli incitamenti all'odio, al disprezzo, all'esclusione o alla violenza nei confronti di certe persone, a causa delle loro appartenenze o delle loro origini. Ma il presunto nuovo antirazzismo, chiamato anche antirazzismo politico dagli ideologi del decolonialismo, non è altro che una macchina da guerra contro i bianchi e la società bianca. Esso deriva dalla definizione antirazzista del razzismo fabbricata dai militanti rivoluzionari afro-americani alla fine degli anni Sessanta, conosciuta sotto diverse denominazioni: razzismo istituzionale, razzismo strutturale o razzismo sistemico. Non si tratta di una concettualizzazione del razzismo, ma di un'arma simbolica che consiste nel ridurre il razzismo al razzismo bianco, considerato intrinseco alla società bianca o alla dominazione bianca, la sola forma di dominazione razziale riconosciuta e denunciata dai neo-antirazzisti. Questo nuovo antirazzismo ricorre a delle categorie razziali per definirsi, tanto nelle sue fondamenta quanto nei suoi obiettivi. Sarebbe più adeguato definirlo come uno pseudo-antirazzismo o, più precisamente, come un antirazzismo anti-bianchi. Ma un antirazzismo anti-bianchi è un antirazzismo razzista».
Negli ultimi tempi, stiamo assistendo a una radicalizzazione dell'odio contro l'Occidente (statue abbattute, strade sbattezzate, etc.) Secondo lei, quali sono le cause e quali saranno le conseguenze di questo fenomeno sempre più inquietante?
«L'occidentofobia è la passione negativa più visibile nello spazio pubblico. Ma non corrisponde a un profondo movimento d'opinione: è l'espressione di minoranze attive che padroneggiano perfettamente l'arte di catturare l'attenzione dei media e di imporsi attraverso diverse tecniche sui social network. Una delle origini dell'odio ideologizzato nei confronti dell'Occidente imperialista e razzista è la vulgata marxista e terzomondista. L'altra è l'importazione in Francia della questione nera all'americana. Il fenomeno non è nuovo: gli intellettuali e gli attivisti che avanzano sotto le bandiere del post-colonialismo e del decolonialismo si impegnano dall'inizio degli anni Duemila a diffondere la falsa idea secondo cui i problemi della società francese si spiegano principalmente con i retaggi dello schiavismo (tratta atlantica o commercio triangolare) e del colonialismo, dunque, secondo loro, con un razzismo persistente, strutturale e non riconosciuto come tale. In Francia, così come negli Stati uniti, questo razzismo sarebbe il razzismo bianco ereditato dall'imperialismo coloniale di cui i neri e i popoli di colore sarebbero vittime in eterno».
Perché l'importazione delle problematiche americane è stata più rapida e più aggressiva in Francia rispetto agli altri Paesi europei?
«Ciò è dovuto all'incontro tra le mobilitazioni internazionali provocate dalla morte di George Floyd e la riattivazione, orchestrata dalla famiglia Traoré e da diversi gruppi di attivisti identitari, della leggenda di un Adama Traoré vittima del razzismo dei gendarmi che lo hanno arrestato. Questa leggenda ha permesso di ergere la morte del delinquente Adama Traoré a simbolo di tutte le vittime delle violenze della polizia, attribuite come una seconda natura ai poliziotti bianchi, presentati come degli agenti al servizio di un razzismo di Stato. Questa simbolizzazione abusiva ma accattivante ha permesso agli attivisti pro-Traoré di allargare la cerchia dei loro militanti e dei loro simpatizzanti verso la sinistra e l'estrema sinistra bianche. All'importazione grossolana della questione nera da parte di gruppi di agitatori identitari si è aggiunta una moda ideologica fondata sull'eroizzazione del delinquente morto da martire: l'icona Floyd ha preso il posto dell'icona Guevara. La religione dell'Altro alla quale si riduceva l'antirazzismo moralizzatore tende a essere sostituita dal culto della Vittima di colore, non bianca. Benché in Francia non esistesse, la causa nera si è iscritta all'ordine del giorno, oscillando tra la sua versione miserabilista (il trattamento dei neri come vittime) e la sua versione identitaria (l'affermazione dell'orgoglio nero)».
Quali sono gli obiettivi di quelli che lei definisce pseudo-antirazzisti?
«Le minoranze attive organizzate che rivendicano di appartenere all'antirazzismo hanno come unico progetto la distruzione della società bianca, ritenuta intrinsecamente strutturata da un razzismo sistemico non riformabile. I bianchi sono la nuova razza maledetta, unica colpevole dello schiavismo ridotto solamente alla tratta atlantica, perché delle tratte intra-africana e arabo-islamica è vietato parlare del colonialismo, dell'imperialismo e del razzismo. Il programma comune di questi nemici della civiltà europea sta in tre parole: decolonizzare, demascolinizzare, diseuropeizzare. La mia posizione di intellettuale impegnato è quella di una resistenza risoluta alla tirannia delle minoranze che si sta insediando dietro la maschera dell'antirazzismo e del neofemminismo. Alcune minoranze attive, che formano dei gruppi di pressione, vogliono farci credere che tutti i problemi sociali siano legati agli effetti delle discriminazioni razziali, sessiste, omofobe, etc. La loro strategia comune è quella dell'intimidazione, attraverso campagne orchestrate sui social network e interventi in modalità commando ultra-mediatizzati, al fine di censurare determinate opere e criminalizzare certe persone. L'obiettivo a medio termine di queste minoranze è quello di vincere la battaglia culturale imponendo il loro vocabolario, i loro temi e le loro tesi nello spazio pubblico. Assa Traoré, al vertice del Comitato Adama Traoré, non ha dissimulato i suoi obiettivi politici, apertamente insurrezionali, quando nel 2018, nel corso di una manifestazione, ha evocato il modello rivoluzionario africano dei suoi sogni: È importante concludere delle alleanze forti. In Africa, rovesciano il presidente, entrano nel palazzo. Lì si fa così, perché non dovrebbe accadere anche qui in Francia? Siamo pronti, possiamo fare una bella rivoluzione. Il futuro decoloniale della Francia sarebbe dunque diventare africana. Tenuto conto dell'economia predatoria, della criminalizzazione delle pratiche di potere, della moltiplicazione delle milizie armate, così come delle frodi e dei traffici di ogni sorta che si osservano negli Stati pericolanti dell'Africa subsahariana, questa prospettiva sarebbe assolutamente terrificante se fosse presa sul serio. Ma è soprattutto infantile, e mostra tutta l'irresponsabilità di questa nuova egeria del movimento Black Lives Matter alla francese».
Quali sono i pericoli della penetrazione dell'ideologia indigenista nelle università francesi e, più in generale, nell'intera società?
«Siamo in presenza di una nuova visione razzista del mondo, che utilizza la lingua dall'antirazzismo, ma deformandola per adattarla alla guerra culturale contro il mondo bianco. Una corrente costituita da giustizieri maniaco-differenzialisti trova la sua coerenza profonda nella designazione di un unico bersaglio: i bianchi o il bianco. I suoi obiettivi si riassumono in tre parole: intimidire, colpevolizzare, epurare. Dalla metà degli anni Duemila, alcuni settori dell'insegnamento universitario sono diventati dei laboratori del decolonialismo e dello pseudo-antirazzismo razzialista. È una manna dal cielo per gli opportunisti in cerca di una poltrona. I dipartimenti di scienze sociali sono particolarmente colpiti dalla propaganda decoloniale, che si traduce sempre di più in un'intolleranza militante e in delle cacce alle streghe in nome dell'intersezionalità. Le vittime di queste cacce agli eretici sono i bianchi, principalmente uomini, criminalizzati, giudicati intrinsecamente razzisti, di cui si reclama la morte sociale. Gli insegnanti che manifestano la loro contrarietà vengono isolati e maltrattati. Per sfuggire al terrorismo intellettuale, alcuni tacciono, altri praticano l'autocensura o pubblicano sotto pseudonimo. Si discrimina e si perseguita in nome della lotta contro le discriminazioni. La grande disgrazia di questo inizio di Ventunesimo secolo è che sarà ricordato come il periodo in cui gli ideali antirazzisti sono stati messi al servizio dell'intolleranza, del settarismo e della violenza iconoclasta. Dobbiamo far fronte a quella che può essere definita come la conquista decoloniale degli spiriti. L'antirazzismo alla francese era universalista e promuoveva una politica di integrazione nella comunità dei cittadini, senza distinzione di razza. Con l'antirazzismo in versione decoloniale si diffonde una visione differenzialista e multicomunitarista della società, che fossilizza le appartenenze identitarie, erge il colore della pelle a criterio pertinente e si traduce in una politica separatista o in una guerra tra razze. A questa si aggiunge una guerra tra i sessi o tra i generi. La giustizia decoloniale e la giustizia misandrica sono le due forme gemelle della giustizia di strada così come viene praticata oggi. Tutto inizia con una serie di accuse essenzialiste: uomo, dunque colpevole, e bianco, dunque colpevole; maschio bianco, dunque due volte colpevole; poliziotto bianco, dunque tre volte colpevole. Seguono i linciaggi mediatici, alimentati dalle fake news che circolano sui social network e orchestrati dalle minoranze attive. Per gli utopisti epuratori che vogliono eliminare totalmente il razzismo sistemico, mettere fine alle discriminazioni razziali significa mettere fine al mondo bianco. Un sogno inquietante, dagli accenti genocidari. Ma politicamente corretto».
Un bollino per cartoni razzisti: ecco l'ultima assurdità Disney. Disney+ ha inserito un nuovo avvertimento all'inizio dei suoi classici dell'animazione inerenti contenuti stereotipati e razzisti: parliamo di pellicome immortali come Dumbo, Peter Pan e altri capolavori. Roberto Vivaldelli, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale. Da tempo il politicamente corretto si è abbattuto sul mondo dell'intrattenimento, Disney compresa. Già lo scorso anno, la multinazionale aveva messo in guardia gli spettatori da alcuni suoi film d'animazione, contenenti, a suo dire, "rappresentazioni culturali obsolete". Parliamo di classici immortali come Dumbo, Peter Pan, Lilli e il vagabondo, Il libro della Giungla, Gli Aristogatti. Il colosso americano si è piegato al politically correct per andare incontro al pubblico liberal e alle rivendicazioni delle minoranze e ora, come riporta l'agenzia Adnkronos, in tempi di Black Lives Matter e scontri razziali negli Stati Uniti, Disney+ ha inserito un nuovo avvertimento all'inizio dei suoi classici dell'animazione sui contenuti stereotipati e razzisti, in riferimento alle pellicole citate poc'anzi.
Disney+ e l'avviso su razzismo e stereotipi sui grandi classici. "Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti sbagliati nei confronti di persone e culture. Questi stereotipi erano errati allora e lo sono oggi", si legge nella frase che appare per dieci secondi prima dell'inizio dei film sulla piattaforma in streaming Disney+. "Piuttosto che rimuovere questo contenuto - recita ancora l'avvertimento -vogliamo riconoscere il suo impatto dannoso, imparare da esso e stimolare un dialogo per creare un futuro più inclusivo. La Disney si impegna a creare storie con temi stimolanti che riflettano la ricca diversità dell'esperienza umana in tutto il mondo". La formula scelta da Disney nella sua nuova piattaforma di streaming è stata imitata da altre piattaforme come Hbo Max, che ha aggiunto una spiegazione del "contesto storico" a "Via col vento" dopo avere rimosso temporaneamente il film dallo streaming. Come se quei classici immortali non avessero altro da dire, se non veicolare quei "pericolosi" messaggi razzisti. E il bello è che i più piccoli ora sì che ci faranno caso a quelle scene che ora offendono i politicamente corretti.
Ecco di cosa sono accusati i classici Disney. Di cosa sono accusati i film Disney? Come ricorda Adnkronos, in Lilli e il Vagabondo (1955), per esempio, due gatti siamesi, Si e Am, sono raffigurati con stereotipi anti-latinos o asiatici. C'è anche una scena in un canile in cui i cani con un forte accento ritraggono tutti gli stereotipi dei paesi da cui provengono le loro razze, come Pedro il Chihuahua messicano e Boris il Borzoi russo. Negli Aristogatti (1970), un gatto siamese chiamato Shun Gon, doppiato da un attore bianco, è disegnato come una caricatura razzista di una persona asiaticam mentre in Dumbo (1941), un gruppo di corvi che aiutano Dumbo ad imparare a volare hanno voci nere stereotipate ed esagerate. Il corvo principale si chiama Jim Crow - un riferimento a una serie di leggi segregazioniste dell'epoca nel sud degli Stati Uniti - ed è doppiato da un attore bianco, Cliff Edwards.
La follia del politicamente corretto. Il politicamente corretto, infatti, funziona anche in maniera retroattiva: non tenendo conto minimamente del contesto storico nel quale sono uscite queste opere, pretende che essi si "adattino" alla nuova neolingua. Per ora, una scritta ci avverte che il film potrebbe contenere stereotipi e contenuti razzisti: chissà che in un futuro, non troppo prossimo, il politicamente corretto non imponga che questi film vengano cancellati e tolti dalla circolazione perché ritenuti troppo offensivi. Esattamente ciò che è accaduto nelle scorse settimane negli Stati Uniti con le statue dei confederati (e non solo). Damnatio memoriae. In 1984 di George Orwell quando un sovversivo viene fatto sparire dal partito, si applica proprio la damnatio memoriae: viene cioè eliminato, da tutti i libri, i giornali, i film e così via, tutto ciò che si riferisca direttamente o indirettamente alla persona in oggetto. Citiamo un passaggio chiave del capolavoro di Orwell: "Ogni disco è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni immagine è stata ridipinta, ogni statua e ogni edificio è stato rinominato, ogni data è stata modificata. E il processo continua giorno per giorno e minuto per minuto. La storia si è fermata. Nulla esiste tranne il presente senza fine in cui il Partito ha sempre ragione".
L'attivismo nero affonda il basket Usa. Nba pro Black Lives Matter: crolla l'audience Tv. «Pensate a giocare». Marco Lombardo, Sabato 17/10/2020 su Il Giornale. Immaginate l'audience di Italia-Olanda nell'enorme mercato televisivo americano. Perché nell'universo in cui 30 secondi di spot televisivo possono valere milioni di dollari, che la partita decisiva che assegna il titolo del basket Nba faccia meno di un'italico match di calcio segna un fallimento clamoroso. E la morte del polically correct applicato allo sport. Insomma: Los Angeles Lakers- Miami Heat capitolo 6, quello dell'ennesimo successo della star afroamericana LeBron James, ha totalizzato 5 milioni e 700 mila spettatori, che non sono solo 700mila in meno di una qualsiasi sfida dei nostri eroi azzurri sul nostro piccolissimo (facendo il paragone) schermo, ma anche numeri da tracollo rispetto al recente passato. Per dire: nel 2019 l'ascolto tv segnò una cifra intorno ai 15 milioni, senza dimenticare le finali in epoca Michael Jordan che realizzavano perfino il doppio. Colpa del Covid, direte voi. Ed invece la verità viene a galla dalle mezze parole del commissioner della lega Adam Silver, l'uomo che comanda una gallina che ha improvvisamente smesso di fare uova d'oro. In pratica: l'appoggio esplicito al movimento Black Lives Matter ha allontanato molti spettatori, nonostante l'80 per cento dei giocatori Nba sia di colore. E alcuni «amici», facilmente identificabili come presidenti di club e munifici sponsor della pallacanestro Usa, pare abbiano consigliato a Silver di tornare a concentrarsi più sul basket giocato che come mezzo per rivendicazioni sociali. Paradossi insomma di un'America che urla contro Trump, ma che sottovoce sembra essere stufata di essere buona per forza. E il problema diventa non di poco contro, se si vanno a toccare le casse già messe in ginocchio dalla mancanza di profitti al botteghino. Nella bolla di Disneyworld, dove si è disputata l'ultima parte della stagione, l'Nba ha fatto del movimento di protesta nera un vessillo: scritte sui campi di gioco, messaggi in ogni dove, la possibilità per i giocatori di mettere sulla maglia - al posto del nome - indicazioni come «giustizia», «libertà», «eguaglianza». Tutto assolutamente condivisibile, ma forse troppo. Almeno secondo i fan che pagano abbonamenti alla Tv e al servizio streming della Nba solo per vedere giocare a basket. E ha pure infastidito il doppiopesismo della Lega, silente per esempio su quanto succede in Cina, partner commerciale più importante del dorato mondo della palla a spicchi americana. Tanto che quando in pre-season l'amministratore di Houston Daryl Morey fece un tweet in appoggio alle proteste di Hong Kong, il boicottaggio delle Tv di Pechino fece correre Silver a chiedere scusa. E perfino LeBron disse che Morey era «malinformato o davvero poco istruito sulla situazione». Un'entrata sbagliata, insomma, in un campo che al pubblico Nba ha dimostrato di non gradire. Spegnendo la Tv nel momento più bello.
DAVIDE FRATTINI per il Corriere della Sera il 14 ottobre 2020. Il prossimo scontro con re Bibi sarà alla pari. Tra monarchi. Gal Gadot ha annunciato ai suoi 43 milioni di seguaci su Instagram di essere stata scelta per interpretare la regina Cleopatra, gli stessi ammiratori ai quali si era rivolta per criticare Benjamin Netanyahu. Che i messaggi dell'attrice israeliana siano per la convivenza («ama il tuo vicino come te stesso. Non è una questione di destra o sinistra, ebrei o arabi, laici o religiosi. È una questione di dialogo, di pace ed eguaglianza, della nostra tolleranza gli uni verso gli altri») e contro le sparate intolleranti del primo ministro non è bastato alle sentinelle sempre sveglie della cultura woke. Hanno lanciato l'allarme e sbarrato il cancello via social: per loro è inaccettabile che un'israeliana possa rappresentare la donna che ha dominato sull'Egitto per oltre vent' anni. «Quale imbecille a Hollywood ha pensato fosse una bella idea scritturare la scialba Gal Gadot invece che un'avvenente diva araba. Vergognati Gal: il tuo Paese ruba la terra agli arabi e tu i loro ruoli». Quelli di Sameera Khan sono stati tra i commenti più rilanciati e approvati, anche se la giornalista di origine pachistana (ed ex Miss New Jersey) in passato è incappata in qualche strafalcione digitale come difendere Stalin - «sarei morta per lui» - ed elencare le «virtù» della vita nei gulag: «Due settimane di vacanza a casa, niente uniforme da carcerati, casette per le coppie sposate, educazione, musica e teatro per i prigionieri...». Dai suoi tweet contro Gal Gadot la discussione è dilagata: in molti hanno difeso la scelta dell'israeliana e hanno ricordato che Cleopatra era di origine greco-macedone, il controllo della dinastia tolemaica sull'antico Egitto inizia alla morte di Alessandro Magno e si conclude con lei. Altri hanno fatto notare che neppure Liz Taylor (protagonista nel colossal del 1963) era nata in Nordafrica e sono stati subito zittiti dai guardiani della cancel culture: «Allora non c'eravamo noi a vigilare». E hanno insistito a pretendere che Gadot lasciasse la parte a un'egiziana: «Come puoi celebrare le donne, se poi usurpi le culture degli altri?». Gadot è stata la terza attrice hollywoodiana ad aver guadagnato di più quest'anno. La pandemia di Covid-19 ha rinviato l'uscita di Wonder Woman 1984, l'ex modella israeliana è riuscita però a girare Red Notice per Netflix. Proprio la sua prima Wonder Woman è stata boicottata in Libano: non per l'uniforme indossata dalla principessa amazzone - spada e scudo sulle spalle - ma per la divisa che Gal Gadot ha portato a 18 anni, oggi ne ha 35, come tutti i ragazzi israeliani: quella dell'esercito. Il governo libanese aveva deciso di bandire il film dopo la campagna di boicottaggio sostenuta dall'organizzazione sciita Hezbollah, che con Israele ha combattuto 34 giorni di guerra nell'estate del 2006.
L'ultima follia tedesca: scrivere le leggi con i nomi al femminile. La proposta della ministra Lambrecht divide però il governo: una scelta incostituzionale. Daniel Mosseri, Mercoledì 14/10/2020 su Il Giornale. È possibile stendere un disegno di legge usando solo termini al femminile? In Germania lo ha fatto l'ufficio legislativo di Christine Lambrecht, ministra federale della Giustizia in quota al partito socialdemocratico. Il testo di riforma del diritto fallimentare presentato da Lambrecht ai colleghi del quarto governo di Angela Merkel contiene solo ed esclusivamente termini come «imprenditrice», «impiegata», «consumatrice», «debitrice», «creditrice» e via discorrendo. Tutte le locuzioni che di solito vengono usate in tedesco al maschile sono stati declinate al femminile. Alcuni compagni di partito della ministra hanno trovato la novità interessante. «Trovo positivo che finalmente si discuta di eguaglianza di genere nel linguaggio anche nei testi legali», ha dichiarato la compagna di partito Katja Mast, numero due della Spd per la Famiglia e gli affari sociali. Meno entusiasta si è invece dimostrato il ministro federale degli Interni, Horst Seefoher. La stampa tedesca ha ripreso la dichiarazione di un portavoce del dicastero in cui si apprende che gli Interni chiederanno l'immediata revisione della bozza e la sua stesura nelle forme classiche. La questione non è solamente di chiarezza o di tradizione: il Viminale tedesco teme che la legge potrà trovare applicazione solo per le persone del genere indicato nel testo. Una confusione che offrirebbe il fianco a una sonora bocciatura del testo da parte della Corte costituzionale tedesca. Gli esperti degli Interni hanno ricordato ai colleghi della Giustizia che in tedesco la forma maschile si applica sia al genere maschile sia Femminile e che l'uso del femminile non è ancora linguisticamente riconosciuto come una forma da applicare a persone dei due generi. Se Seehofer si è affidato al linguaggio burocratico per chiedere alla collega di tornare sui propri passi, il Consiglio economico della Cdu non le ha mandate a dire. Parlando alla Augsburger Allgemeine, il segretario generale dell'organizzazione che rappresenta gli interessi di 12 mila pmi tedesche vicine alla Cdu ha accusato la ministra Lambrecht di non prendere il proprio lavoro sul serio. «Il tempo per una riforma del diritto fallimentare che crei trasparenza sta per scadere», ha affermato Wolfgang Steiger. Il compito della ministra, ha ricordato Steiger «è evitare a tutti i costi che un'ondata di fallimenti spazzi via le aziende sane. Il ministero deve subito erigere delle dighe contro questa eventualità». Nominata a giugno 2019 in sostituzione della precedente Guardasigilli Katarina Barley eletta al Parlamento europeo, la ministra Christine Lambrecht è stata bacchetata anche dalla Verein Deutsche Sprache (VDS), l'associazione per la tutela e la promozione della lingua di Goethe. «Il fatto che fra tutti quelli che esistono, sia proprio il ministero della Giustizia a non essere in grado di formulare un testo giuridicamente vincolante è notevole», ha osservato impietoso il presidente della VDS, Walter Krämer. Matematico e statistico di formazione, ed economista di professione, Krämer ha poi ricordato che soprattuto i testi legali devono essere a priva di fuoco laddove «questa formulazione ambigua sembra un invito a contestare la legge». Il fatto che i testi legali dovrebbero riflettere l'uguaglianza tra uomini e donne è una questione diversa, ha concluso Krämer «ma il solo uso della forma femminile è privo di qualsiasi ragione e di ogni regola linguistico-grammaticale».
Ottavio Cappellani per ''La Sicilia'' l'11 ottobre 2020. La letteratura è piena di donne che odiano gli uomini (al contrari della cosiddetta società, cioè per strada, dove si legge poco), ma questa Pauline Harmange, il nuovo caso letterario francese (i francesi sono più bravi di noi ad avere casi letterari, ma non è difficile, per i francesi, la lettura, è ancora un valore) sembra avere una marcia in più. Il suo libro “Moi les hommes, je le detéste”, più o meno “io gli uomini li detesto”, è stato duramente attaccato da un consigliere del ministero francese per la parità di genere, Ralph Zurmély, che ha minacciato un’azione legale contro l’autrice per “misandria” con queste parole: “Il libro è un’ode alla misandria senza motivazioni. Vorrei ricordarvi che l’incitamento all’odio sulla base del sesso è reato!”. E questo mi rende Paulina e le sue fiere ascelle pelose più che simpatica. I consiglieri dei ministeri non sono scrittori né editori. In ogni caso l’attacco del tipo alla tipa ha fatto schizzare le richieste del libro, stampato in poche copie da una piccola casa editrice gestita da volontari, la Monstrograph, che di fronte all’enormità delle richieste ha annunciato di avere interrotto le pubblicazioni e ceduto il libro a una casa editrice più grande. Harmange, bisessuale, è stata accusata dal “Daily Mail” di ipocrisia, perché è sposata con un uomo (suppongo da un giornalista che sarebbe meglio facesse il consigliere di un qualche ministero del farsi gli affari degli altri). Paulina ha replicato al Guardian che “mio marito è un brav’uomo, questo non mi impedisce di dire che le donne non dovrebbero fidarsi degli uomini che non conoscono”. Il che mi sembra di un buon senso disarmante. Sono uomo, parlo con gli uomini, e quello che dicono delle donne è davvero aberrante. C’è una frase che mi ha colpito del libretto “Le donne sono invitate dalla società ad amare gli uomini. Io vorrei rivendicare il diritto di non farlo”. Questa ragazza, che ha tutta la dolcezza che manca alle italiane che la pensano come lei, sembra stia soltanto combattendo per un ideale di amore puro. E per farlo è ovvio che bisogna bruciare tutto quello che amore puro non è: le pressioni sociali, il ruolo imposto, l’immagine e l’immaginario maschile. Sono in tanti ad attaccare questa giovane scrittrice dall’improvviso e inaspettato successo, che ha scritto un libro del tutto genuino, distante e molto dagli attacchi agli uomini studiati a tavolino di alcune scrittrici nostrane. Ma se è vero che l’attacco del burocrate ministeriale (non deve starci molto con la testa, dato che, in un’intervista a “Mediapart” ha detto di avere intimato all’editore di cessare la pubblicazione del libro) è stata la causa della ribalta, è anche vero che il libretto tocca alcuni argomenti, e con splendide motivazioni, tanto da fare saltare i nervi ad alcuni maschi. Mentre scrivo ricevo una telefonata. Parliamo del pezzo che sto scrivendo. Mi dicono: “L’odio in base al sesso non è una cosa giusta. L’odio non va propagato mai”. Sono d’accordo. Ma questo è un ragionamento squisitamente ‘politico’, non letterario. Lo dico da sempre, e mi sembra il caso di ripeterlo: la politica non dovrebbe mai interferire sulla pagina scritta, che è il luogo della libertà estrema. In Francia hanno avuto il coraggio di spernacchiare il burocrate e andarsi a comprare il libro. Invito gli editori italiani a darsi da fare. Anche perché, ragazze, Pauline ha ragione. I maschi sono essere orripilanti. E se ve lo dico io dovreste credermi.
Da leggo.it il 9 ottobre 2020. «Belle donne per tutta la città, per tutti i gusti e di tutte le nazionalità. Le puoi invitare in spiaggia e cantare loro d'amore, al tramonto non potran dire di no», così Lazise (Verona), cittadina veneta che poggia sul Lago di Garda, si promuove in uno spot turistico della cittadina del lago di Garda. «Un' infelice trovata», secondo l'Adci Art Directors Club Italiano, l'associazione che riunisce i pubblicitari italiani. «Parole sessiste che ci riportano all'età della pietra». «Al giorno d'oggi un professionista della comunicazione non può in nessun modo presentare un messaggio promozionale di questo tipo, ed è ancora più paradossale che siano le amministrazioni comunali ad approvare contenuti di questo genere - commenta Vicky Gitto, presidente di Adci - Come associazione di categoria sono anni che ci impegniamo, grazie anche al progetto Equal, nel promuovere campagne pubblicitarie che rappresentino immaginari evoluti contro ogni tipologia di discriminazione».
Dagospia il 9 ottobre 2020. Estratto dal libro “Politicamente corretto- la dittatura democratica” di Giovanni Sallusti, edizioni Giubilei Regnani. È uno sport primitivo, la caccia all’uomo in carne, ossa e caratteri genitali (il massimo della “discriminazione di genere”, tra l’altro, se volessimo restituire alle parole il loro senso originario) riverniciata a passatempo perbene della classe dirigente occidentale, che ha smarrito ogni direzione esterna al cerchio perverso del Politicamente Corretto. Ai nostri lidi l’ha teorizzato espressamente nel suo ultimo libro Lilli Gruber, che dell’ideologia ipercorrettista incarna la versione fustigatrice, quasi un’Erinni del Politicamente Corretto. Il titolo è, letteralmente, un programma: politico, biopolitico, morale, teleologico: “Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone”. È caccia aperta alla persona di sesso maschile, siamo anche oltre la criminalizzazione teorica che ne fa la Murgia (una dilettante nell’utilizzo del manganello tardofemminista rispetto alla furiosa Lilli), siamo all’invito dichiarato a farla finita con questa bestia in sembianze umanoidi, il maschio, a ricavare le conseguenze pratiche dal suo status di essere abietto, meramente pulsionale, sostanzialmente inferiore. È un grande pogrom (si spera solo) culturale contro chiunque sia dotato di pene, non se ne vergogni e non chieda per questo scusa al mondo, quello che pare auspicare la giornalista ultraprogressista, peraltro avvezza nella sua trasmissione “Otto e mezzo” a valorizzare quasi esclusivamente ospiti maschili, da Paolo Mieli a Marco Travaglio ad Andrea Scanzi, e a litigare ogni volta che interloquisce con l’unica leader politica donna esistente oggi in Italia, che si chiama Giorgia Meloni e con gran rosicamento di Lilli sta a destra. Il problema principale con l’animale-maschio, secondo l’equilibrata diagnosi della Gruber, sta anzitutto nella sua “cultura delle tre V”. Sintetizzata con le parole dell’intervista a “Io Donna”, supplemento del Corriere attraverso cui Lilli ha lanciato l’uscita del libro (come capita a tutte le eroine in lotta dura contro l’establishment, off course): “Le tre V maschili, volgarità, violenza, visibilità, risultato di una virilità impotente e aggressiva, devono essere sostituite da empatia, diplomazia, pazienza. Gli uomini devono essere rieducati”. Nel loro contenuto espressamente grottesco, sono frasi densissime, dietro ogni parola pulsa un totem dell’ideologia politicamente corretta. Proviamo a scomporle, a risalire agli elementi ideologici di base. Solo gli uomini sono volgari (e qui basta la superficiale esperienza di vita di ciascuno di noi per passare oltre). Solo gli uomini sono violenti, assioma che la cronaca si è già da sempre incaricata da smentire (il campionario va da partner maschili sfregiati con l’acido a evirazioni riuscite o tentate a vessazioni psicologiche non di rado con utilizzo strumentale dei figli) e che è stato definitivamente stracciato da un report del Viminale del 2017. In esso si evidenziava come quell’anno in Italia fossero state uccise 236 persone all’interno delle Relazioni Interpersonali Significative: famigliarità o prossimità affettiva consolidata. Ebbene, le donne erano 120, gli uomini 116, cui ne andavano aggiunti 4 ammazzati all'estero dalle loro partner che non avevano accettato la fine della relazione, o per soldi. Centoventi a centoventi, parità perfetta nella contabilità demente dell’orrore, cui però ci obbliga il sacro dogma del Politicamente Corretto, così ben illustrato da Lilli, sul monopolio testosteronico della violenza. No, i carnefici come le vittime non sono identificati dal genere, sono persone connotate dai loro comportamenti criminali. La violenza non è radicata nel cromosoma maschile, ma molto più originariamente dentro quel legno storto dell’umanità sezionato da Immanuel Kant (sì, un maschio, ma fidati Lilli, non totalmente un cretino), che non reputò di aggiungere specifiche sessuali alla sua ricognizione realista sulla condizione dell’essere umano. Per quei 120 casi è ridicolo parlare di “maschicidio”? Sì, ma non più di quanto sia ridicolo parlare di “femminicidio”: la soppressione fisica dell’altro, che è persona prima che maschio o femmina (almeno così funziona nell’Occidente cristiano, ma come vedremo il Politicamente Corretto mette nel mirino anche questa certezza residua), è atto immane legalmente e moralmente in quanto tale, a prescindere dall’apparato genitale della vittima. L’omicidio incarna già le colonne d’Ercole dell’umano, e una delle tante vittorie recenti del Politicamente Corretto è stata far passare come normale, e anzi doverosa, l’insultante formula “femminicidio”. Insultante per la donna, perennemente ridotta al suo genere (una sorta di quota rosa dell’omicidio), e insultante soprattutto per l’uomo. Ogni volta che la narrazione perbene sente il bisogno di tuonare contro il “femminicidio”, implicitamente sta certificando una gerarchia delle vittime, e quindi delle esistenze. Il maschio è ontologicamente una vittima di serie B (interessante sarebbe da indagare quanto di maschilismo irriflesso ci sia in questa visione per cui un uomo virile non può essere sopraffatto da una donna, per rivoltare i canoni delle Gruber contro loro stesse), un’esistenza di serie B, è materiale di scarto, vuoto a perdere, e strutturalmente sempre carnefice. Piuttosto oscuro il passaggio dell’autrice sulla “visibilità” maschile, a maggior ragione visto che trattasi di una signora che appare ininterrottamente da lustri su canali televisivi nazionali in prima serata. Interessante e rivelatore invece l’appunto successivo sulla “virilità impotente e aggressiva” dell’animale/maschio. Un giudizio radicalmente e fin esplicitamente sessista, l’irrisione denigratoria sulla mancata potenza sessuale, qualcosa che se praticato a parti invertite comporterebbe minimo la scomunica sociale del maschio bavoso che riduce la sua valutazione sulla donna a quella su un oggetto sessuale, e ipersessualizzato. Ma il doppiopesismo, del resto, è condizione necessaria e intrinseca del femminismo persecutore, e a volte sbeffeggiatore, politicamente corretto. Al termine di un’ospitata nel salotto gruberiano, Matteo Salvini si sentì rivolgere la seguente domanda, fondamentale da un punto di vista politologico e che sicuramente tormentava il sonno di tutti gli spettatori: “È contento che non deve più girare da ministro dell’Interno in mutande per le spiagge italiane come ha fatto quest’estate?”. Mentre l’interlocutore provava a focalizzare la situazione che stava vivendo, dover rispondere dell’enormità di essersi recato al mare in costume da bagno, la giornalista (competente, rigorosa ed istituzionale) vibrò il colpo di grazia: “E magari senza la pancia... Questo lo dico per l’occhio delle ragazze”. Risate, titoli di coda. Più che commentare, tentiamo un esperimento mentale, perché l’ideologia la puoi smascherare solo così, riconducendo la sua pretenziosità all’evidenza dell’empiria, alla pernacchia della realtà. Rovesciamo i poli attoriali della scena, mantenendone intatta la sostanza. Un conduttore maschio di successo si rivolge con tono canzonatorio a una politica donna: “E poi, se proprio deve tornare in spiaggia in mutande, veda di tornarci senza la cellulite. Sa, lo dico per gli occhi dei maschietti”. Chiaro cosa sarebbe accaduto, no?
Così la nuova dittatura soft costruisce l'"uomo corretto". Nel saggio di Giovanni Sallusti un'analisi dell'ideologia dominante e del suo potere di escludere ogni dissenso. Corrado Ocone, Martedì 13/10/2020 su Il Giornale. Sul politicamente corretto, l'ideologia che oggi domina nel mondo intellettuale occidentale, ci sono buoni testi che affrontano il tema ad ampio spettro e in maniera esaustiva: da quello di Douglas Murray, che parla di «pazzia delle folle», all'altro, in Italia, di Eugenio Capozzi. Cosa aggiunge ad essi il volume di Giovanni Sallusti, appena pubblicato, è presto detto: la capacità di spiegare a tutti, anche ai lettori veloci e distratti, questo fenomeno, e soprattutto i pericoli per la nostra civiltà che da esso derivano. Rischi evidenziati sin dal sottotitolo, che ha solo apparentemente il sapore dell'ossimoro e del paradosso: Politicamente corretto. La dittatura democratica (Giubilei Regnani, pagg. 133, euro 13). Anche se l'autore usa un registro giornalistico «di pancia», non disdegnando però l'ironia e il sarcasmo, e condisce di esempi concreti presi dalla cronaca recente il suo racconto, non si può non ammettere come il volume segua uno sviluppo logico e lineare e tocchi i principali aspetti teorici della faccenda. Partendo infatti dalla sua identità personale, di maschio, bianco, cristiano ed eterosessuale, Sallusti snocciola davanti ai nostri occhi quattro capitoli, che sono veri e propri «atti», come li chiama, di una tragedia che è quella dell'Occidente odierno. Il quale non è tanto semplicemente al «tramonto», o in «declino», ma ha sviluppato una strana «malattia»: quella di una civiltà che odia se stessa, la sua cultura, le sue tradizioni, la sua storia. E che vuole non migliorarsi ma autoannullarsi per costruirsi daccapo, su basi astratte in parte surreali e in parte pericolose. La cultura che indirizza questa trasformazione in pochi anni ha preso il dominio delle menti più colte, e della più vasta opinione pubblica «riflessiva», vuoi per ribellione verso la cultura classica, cioè la vera cultura, vuoi per il naturale spirito gregario (la «morale del gregge» di nietzschiana memoria) che contraddistingue l'essere umano. La sua particolarità è di continuarsi a credere controccorrente e rivoluzionaria pur costituendo ormai, con tutta evidenza, il nuovo conformismo di massa, e anche di élite avendo attecchito nelle università, nei media, e in genere in tutti i sistemi di formazione e informazione. Ritornando all'identità di Sallusti, i quattro elementi di cui è composta costituiscono, per i nuovi conformisti, qualcosa di cui vergognarsi, sentirsi colpevole: qualcosa che bisogna assolutamente sradicare negli specifici ambiti in cui hanno corso. Essere maschio significa appartenere a una cultura fallocratica, cioè aggressiva e sopraffattrice a prescindere, che ci rende «colpevoli» anche se siamo le persone più miti che possano esserci. La «colpa» di essere bianchi è invece quella di non aver vissuto le esperienze piene di senso (presunto) che avrebbero quelle degli appartenenti ad altre razze. Quanto al cristianesimo, esso viene trattato alla stregua di una superstizione che va coltivata di nascosto per non offendere i fedeli di altre religioni, ai quali è però concesso di ostentare simboli e vestiario come forme di rispetto per la loro identità «altra». L'eterosessualità è invece una «colpa» per il semplice fatto che chi la pratica, rivolgendo la propria attenzione esclusivamente all'altro sesso, riduce i rapporti fra gli esseri umani ad una sola dimensione e per giunta quella biologica, mentre il gender è qualcosa di fluido e creativo che uno dovrebbe poter indossare e riporre poi nell'armadio come un qualsiasi vestito. Sallusti, oltre a indicarci diversi cortocircuiti logici ed etici a cui va incontro il politicamente corretto, mostra con chiarezza come questa ideologia, nata per includere e riconoscere le diversità fra gli uomini, finisca per imporre una sorta di «pensiero unico» che esclude perché impedisce a priori ogni possibile messa in discussione dei suoi diktat. Il fatto che essa agisca in nome di buoni sentimenti, e con intenti democratici, non la fa essere diversa da una qualsiasi dittatura storica, di cui anzi rappresenta una evoluzione e radicalizzazione: il suo essere soft e «gentile» la fa raggiungere in modo pervasivo le mente, oltre ai corpi, degli individui. Chi pensa altrimenti, è delegittimato moralmente prima che intellettualmente. E a volte finisce per esserlo anche penalmente, come mostrano proposte di legge come quella che in Italia porta la firma dei deputati Zan e Scalfarotto contro la «omobitransfobia». Su di essa l'autore di questo libro si sofferma in pagine lucidissime, a conclusione del suo volume. Ritornando invece all'operazione di reset e reengineering connessa al politicamente corretto, è evidente che si tratta di una malattia già presente, con diversi gradi e modalità di espressione, nei totalitarismi che hanno funestato la storia del Novecento, tutti protesi a creare l'«uomo nuovo», e in genere in buona parte della vicenda storica della sinistra. Soprattutto quella di più evidente derivazione illuministico-giacobina, elemento sempre in contraddizione nel marxismo storico con l'altro del realismo politico. Di fronte a questa tensione trasformatrice e palingenetica, che oggi assume le forme rarefatte delle utopie verdi e digitali, il liberalismo, sulle orme del cristianesimo, ha sempre tenuto in conto l'imperfezione dell'essere umano, il suo inestricabile mix di bene e male. E in verità, a ben vedere, è proprio la perdita di questo sentimento tragico dell'esistenza, la malattia più profonda che ci ha colto e di cui questa ideologia terminale è la più compiuta espressione.
Stefano Candiani imputato per istigazione a delinquere: nel mirino il video "sul quartiere in mano agli immigrati". Libero Quotidiano il 13 ottobre 2020. Guai per Stefano Candiani. Il senatore della Lega, assieme all'assessore comunale (sempre del Carroccio) Fabio Cantarella, è imputato per propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. Il motivo? Un video pubblicato su Facebook, in cui i due leghisti descrivevano il rione San Berillo, a Catania, come "patria dell'illegalità", un "quartiere in mano agli immigrati clandestini" dove "regnano spaccio, contraffazione e prostituzione". I pm avevano chiesto l'archiviazione, perché "il fatto non sussiste" o "non costituisce reato", ma l'associazione antimafia Rita Atria si era opposta dopo avere denunciato la pubblicazione e così il gip Giuseppina Montuori ha deciso di proseguire.
DAGONEWS il 9 ottobre 2020. Il Museo Guggenheim ha annunciato che il capo curatore Nancy Spector lascerà il museo dopo 34 anni anche se un'indagine indipendente ha dimostrato che non si è comportata in modo razzista con Chaedria LaBouvier, curatore ospite della mostra "Basquiat’s Defacement: The Untold Story". L'annuncio non ha fatto molta chiarezza sulla disputa durata mesi e iniziata a giugno quando LaBouvier ha presentato un reclamo, denunciando anche sui social il comportamento razzista di Spector e altri del museo. «Lavorare al Guggenheim con Nancy Spector e altri è stata l'esperienza professionale più razzista della mia vita» ha scritto LaBouvier su Twitter. LaBouvier è stata la prima curatrice nera a organizzare una mostra al museo con "Basquiat’s Defacement: The Untold Story". Dopo le sue accuse, il Guggenheim ha assunto lo studio legale Kramer Levin per esaminare più di 15.000 documenti e fare interviste con gli attuali ed ex dipendenti del museo di tutti i dipartimenti, nonché con altre persone affiliate al museo. L'indagine non ha trovato prove che LaBouvier fosse stata “soggetta a trattamento avverso sulla base della sua razza". LaBouvier in un tweet ha scritto di non aver partecipato alle indagini e di non essere stata intervistata. Ma il Guggenheim ha ribattuto: «Sappiamo che gli investigatori hanno contattato la signora LaBouvier più volte, ma lei non ha risposto alle loro richieste di intervista». Spector è andata in congedo all'inizio di luglio e ora sta "lasciando definitivamente la Fondazione Guggenheim": «Sono così contenta che il Consiglio della fondazione abbia portato avanti un'indagine indipendente che ha esaminato i fatti confermando ciò che sapevo dall'inizio, ovvero che non ho trattato in modo razzista il curatore ospite della "Defacement di Basquiat: The Untold Story".
Rihanna si piega ai musulmani: "Mi scuso per la canzone offensiva". La cantante si è scusata sui social per aver impiegato una canzone nella sfilata di lingerie contenente alcuni versi di un hadith del Profeta: "Offensiva". Roberto Vivaldelli, Giovedì 08/10/2020 su Il Giornale. Con l'Islam non si scherza. Lo sa bene la cantante Rihanna, che nelle scorse ore si è scusata sui social media per aver usato una canzone nella sfilata di lingerie contenente alcuni versi di un hadith del Profeta, facendo letteralmente infuriare gli islamici sui social. Nel suo spettacolo Savage X Fenty Volume 2, pubblicato su Amazon Prime la scorsa settimana, è stato utilizzato il brano Doom del produttore londinese Coucou Chloe, dove nei testi viene campionato di un hadith, recitato dal Mishary bin Rashid Alafasy. Come riporta Libero, gli hadith, come noto, sono dei precetti molto importanti per i musulmani, perché sono considerati dalla tradizione dei pronunciamenti diretti del Profeta. Il pezzo in questione, peraltro, si riferisce al Giorno del Giudizio e la fine dei tempi. Dunque, l'uso del brano in un contesto frivolo di questo tipo, unito all'utilizzo di un testo sacro, ha scatenato la furia di molti utenti musulmani che si sono riversati sui social accusando Rihanna di non aver avuto sensibilità e attenzione per il mondo dell'Islam. In un post pubblicato su Instagram, Rihanna ha voluto scusarsi pubblicamente: "Vorrei ringraziare la comunità musulmana per aver segnalato un’enorme svista che è stata involontariamente offensiva nel nostro Savage X Fenty Show; ancora più importante, vorrei scusarmi con voi per questo errore onesto ma imprudente". Comprendiamo, prosegue, di "aver ferito molti dei nostri fratelli e sorelle musulmani e ne sono incredibilmente sconfortata! Non suono con nessun tipo di mancanza di rispetto verso Dio o verso qualsiasi religione e quindi l’uso della canzone nel nostro progetto è stato del tutto irresponsabile". Anche Coucou Clhoe ha dovuto scusarsi: "Voglio scusarmi profondamente per l’offesa causata dai campioni vocali utilizzati nella mia canzone Doom. La canzone è stata creata utilizzando campioni di tracce Baile Funk che ho trovato online. All’epoca, non ero a conoscenza che questi campioni usassero testo da un hadith musulmano. Mi assumo la piena responsabilità del fatto che non ho ricercato correttamente queste parole e voglio ringraziare quelli di voi che hanno avuto il tempo di spiegarmelo; abbiamo rimosso la canzone da tutte le piattaforme di streaming". Curioso notare come nel mondo dello show business ogni provocazione estrema - anche blasfema - sia lecita purché non offenda l'islam. Ogni limite può essere superato, nel nome di qulsiasi causa cara a qualche superstar, purché non si tocchi il Profeta. Chiamasi nientemeno che "sottomissione".
Pietro De Leo per "Libero Quotidiano" l'8 ottobre 2020. Non è certo una notizia cattiva quando lo show biz, oramai uso a mercificare ogni pertugio della vita umana, si pone qualche domanda sul come maneggiare simboli religiosi. A patto, però, che questo scrupolo venga osservato sempre, e non solo quando si comincia ad avere, evidentemente paura. La pop star Rihanna, in questi giorni, ha rivolto pubbliche scuse ai musulmani di tutto il mondo. L'antefatto è il seguente: durante lo show 2020 di Savage x Fenty, il marchio di lingerie di proprietà della cantante, trasmesso in streaming online, ad un certo punto a far da colonna sonora ai corpi sinuosi di modelle intimo è stata mandata una canzone, Doom, del produttore inglese Cocou Chloe, che contiene un passaggio tratto da un hadith di Maometto. accuse per la sfilata Gli hadith, come noto, sono dei precetti molto importanti per i musulmani, perché sono considerati dalla tradizione dei pronunciamenti diretti del Profeta. Il pezzo in questione, peraltro, si riferisce al Giorno del Giudizio e la fine dei tempi. Dunque, il contesto ultra mondano, vagamente libidinoso trattandosi di un evento di intimo, unito all'utilizzo di un testo sacro ha scatenato la furia di molti utenti musulmani che si sono riversati sui social accusando Rihanna di non aver avuto sensibilità e attenzione per il mondo dell'Islam. Ai profili social di persone comuni, però, si sono affiancate anche voci di un certo peso nel mondo della moda "inclusiva", cioè che unisce promozione dei prodotti a rispetto delle varie culture e retaggi multiculturali vari. È il caso, ad esempio, della blogger di moda Arooj Aftab che interpellata sul punto dalla BBC ha tuonato: «Quando ho visto quel video, mi sono sentita a disagio». E ha aggiunto: «Penso che ogni musulmano abbia il diritto di sentirsi offeso». Un incidente mediatico e probabilmente anche di marketing. Di fronte al quale la popstar ha pensato di mettere una toppa diffondendo delle pubbliche scuse attraverso il suo account instagram: «Vorrei ringraziare la comunità musulmana per aver segnalato un'enorme svista che è stata involontariamente offensiva nel nostro show», definendo il proprio errore «onesto, ma imprudente». E ha riconosciuto: «Comprendo di aver ferito molti dei nostri fratelli e sorelle musulmani». Dunque una zelante e copiosa dichiarazione di pentimento. Peccato, però, che la stessa Rihanna non ebbe la stessa premura un paio d'anni fa, quando invece la sua iniziativa urtò la sensibilità cattolica. Il contesto era sempre modaiolo, ovvero l'evento di beneficienza Met Gala di New York. Il tema dell'iniziativa era «Corpi Celestiali. La moda e l'immaginazione cattolica». Solo che l'"immaginazione" fu concepita nel senso più largo del termine. I vipponi si presentarono mescolando retaggi visivi del cristianesimo ad allusioni sessuali. Tipo l'attrice e cantante Solange Knowels, che abbinò un'aureola in testa ad un abito corto con stivaloni sadomaso. Madonna invece esibì una corona con tre croci. Ma a monopolizzare i flash fu Rihanna, nella veste di una papessa dall'erotismo travolgente, con abito inguinale e finta tiara, tempestati di perle. E siccome alla sfilata era abbinata una mostra di abiti sacri, Rihanna non si fece mancare neanche una foto in posa ammiccante davanti ad una (vera) veste papale. Anche allora ci furono proteste via Twitter, ad esempio la blogger conservatrice Allie Beth Stuckey, che definì "sacrilega" quell'eruzione di pacchianeria blasfema. Nessuno si sentì in dovere di porgere le scuse. Evidentemente, nell'esercito dei jet set internazionale, l'uguaglianza è solo uno slogan.
Non si può più dire "migranti": ecco il nuovo lessico anti-razzista. Negli uffici pubblici della capitale tedesca Berlino spunta il manuale per educare gli impiegati ad una comunicazione rispettosa delle diversità: non si potrà più dire "migrante" o "straniero". Vietate pure le parole con accezione negativa che contengono il termine "nero". Alessandra Benignetti, Mercoledì, 07/10/2020 su Il Giornale. "Schwarzfahrer" è il termine che si usa in tedesco per indicare chi viaggia senza biglietto sui mezzi pubblici. Letteralmente si traduce "passeggero nero". Pepe Danquart, nel 1992, intitolò così un cortometraggio da Oscar. Ora, però, questa, assieme a tante altre parole, dovrà sparire dal lessico utilizzato nella capitale tedesca. Se non dalle bocche del popolo, perlomeno da quelle dei funzionari della città. La svolta politically correct di Berlino è contenuta in un documento di 44 pagine votato dal Senato rosso-rosso-verde. L’obiettivo? Evitare le discriminazioni ed educare i dipendenti pubblici ad usare una comunicazione più rispettosa della "diversità". Insomma, dopo il vocabolario femminista, in Germania arriva quello anti-razzista. Per non offendere nessuno, quindi, ora i furbetti di metro e bus dovranno essere chiamati non più "Schwarzfahrer", ma "passeggeri senza un valido biglietto". La lista è lunga. Meglio evitare di dire "anschwärzen", ovvero mettere in cattiva luce, letteralmente "in una luce nera". Gli impiegati dovranno optare per un più neutro "diffamare". E ancora, bando alle parole "straniero" e "richiedente asilo". Per non turbare i nuovi arrivati nel Paese, negli uffici pubblici berlinesi si dovrà usare rispettivamente "residente senza la cittadinanza tedesca" e persone "abilitate a ricevere protezione". Ovviamente anche il termine migrante è considerato discriminatorio. Più corretto specificare che si tratta di "persone con una storia internazionale" o di "migranti per lavoro" se invece sono arrivate in Germania per motivi economici. Il pamphlet è stato distribuito in migliaia di uffici, assieme ad un incentivo di 150 euro per i dipendenti, che nei prossimi tre anni dovranno adeguarsi ai nuovi standard della città multiculty. Un percorso che, spiega al corrispondente de La Stampa uno dei promotori dell’iniziativa, il senatore verde Dirk Behrendt, dovrebbe portare la capitale tedesca ad essere sempre più tollerante. Non solo. Il governo vuole passare letteralmente dalle parole ai fatti a partire dal 2024, quando a sostituire i dipendenti che andranno in pensione, con tutta probabilità ci saranno anche moltissimi immigrati. Tra le sensibilità tutelate dalla nuova lingua del politicamente corretto c’è anche quella delle persone transessuali e persino degli anziani. Sarà vietato, per esempio, pubblicare annunci di lavoro adatti a persone "giovanili". "Berlino è una metropoli caratterizzata per la diversità dei suoi cittadini – si legge sul sito della città-Stato - l’apertura al mondo, la tolleranza e il rispetto reciproco sono importanti se vogliamo che la convivenza funzioni bene". "Tuttavia – specifica il Land - di tanto e in tanto, si verificano casi di discriminazione e di violenza razzista". Per combatterli ora ci sarà anche un nuovo lessico.
L'ultima follia femminista: ecco il colore "rosso mestruazioni". Laurie Pressman, vicepresidente del Pantone Color Institute, azienda statunitense che si occupa principalmente di tecnologie per la grafica, spiega che l'obiettivo della società era quello di "ottenere una tonalità rossa accesa e avventurosa". Roberto Vivaldelli, Mercoledì 30/09/2020 su Il Giornale. Rosso come le mestruazioni. L'ultima conquista del politicamente corretto liberal è la nuova tonalità di rosso ideata da Pantone, ispirata a "un flusso mestruale e costante" e pensata nell'ambito di una una campagna più ampia di sensibilizzazione in favore dei diritti delle donne. La nuova tonalità si chiama “Period”, ossia mestruazione. Una scelta, spiega l'Huffpost, contro lo "stigma" del ciclo femminile. Laurie Pressman, vicepresidente del Pantone Color Institute, azienda statunitense che si occupa principalmente di tecnologie per la grafica, spiega che l'obiettivo della società era quello di "ottenere una tonalità rossa accesa e avventurosa che facesse sentire le persone orgogliose di ciò che sono. In grado di celebrare con passione l’eccitante e potente forza vitale con cui sono nate, di poter parlare spontaneamente e apertamente di questa funzione corporea pura e naturale". Il prodotto dell'azienda americana è anche gender free, e pensato per "esortare tutti, indipendentemente dal sesso, a sentirsi a proprio agio a parlare spontaneamente e apertamente di questa funzione corporea pura e naturale". Soprattutto, Period è il frutto di una collaborazione con il marchio svedese di prodotti femminili Intimina, che commenta così il lancio del prodotto: "Cosa si ottiene unendo un marchio di prodotti sanitari intimi e un’azienda di vernici? Color sangue. Non stiamo solo dipingendo muri, stiamo abbattendo quelli che contribuiscono alla stigmatizzazione che riguardano le mestruazioni". Intimina ha fatto una donazione ad ActionAid, ente di beneficenza che lavora con donne e ragazze che vivono in povertà. "Oggi nel mondo, milioni di donne e di ragazze soffrono a causa del pregiudizio associato al ciclo mestruale", ha dichiarato Jillian Popkins, direttrice delle politiche di Action Aid Uk al Guardian, "molte ragazze perdono giorni vitali di scuola, o addirittura la abbandonano del tutto, e questo è uno dei motivi per cui tante donne vivono in povertà per tutta la vita. Questa campagna contribuirà a cambiare la situazione". Come ricorda Il Messaggero, l'intera industria globale del design si affida al sistema dei colori Pantone, una griglia nata nel 1963 per risolvere il problema dell'identificazione dei colori nell'industria della stampa. Dal 1999 in dicembre Pantone individua il Colore dell'Anno - nel 2020 il Classic Blue - come barometro dell'umore del momento e bussola per l'industria della moda. L'azienda non è assolutamente nuova a iniziative di questo tipo, sempre in odore di politicamente corretto: in maggio ha pubblicato l'Arancione Pippi Calzelunghe in collaborazione con la campagna di Save the Children "Girls on the Move". Ha poi creato in joint venture con la Ocean Agency e Adobe tre nuove sfumature di azzurro, giallo e viola - Glowing Blue, Glowing Yellow and Glowing Purple - basate sui colori fluorescenti prodotti dal corallo minacciato dal riscaldamento degli oceani.
Un colore per il sociale. Pantone lancia “Period”, il nuovo colore rosso mestruazioni: campagna contro lo stigma del ciclo. Redazione su Il Riformista l'1 Ottobre 2020. Casa Pantone ha coniato un nuovo rosso, quello del ciclo mestruale. Si chiama “Period” e richiama esattamente quello del ciclo di una donna. Una provocazione? No, una strategia di sensibilizzazione contro lo stigma delle mestruazioni. La famosa azienda statunitense leader nel settore dei colori, in collaborazione con un marchio svedese di prodotti femminili Intimina ha messo su la campagna che già sta riscuotendo un grande successo. “Non stiamo solo dipingendo muri, stiamo abbattendo quelli che contribuiscono alla stigmatizzazione che riguardano le mestruazioni”, si legge sul sito dell’azienda che nel suo campionario vanta circa 2.625 colori diventati punto di riferimento a livello mondiale. Il nuovo rosso fa parte della campagna Seen+Heard, creata per responsabilizzare e incoraggiare tutti, indipendentemente dal sesso, ad avere conversazioni più accurate e oneste sulle mestruazioni. “Volevamo ottenere una tonalità rossa accesa e avventurosa”, ha dichiarato Laurie Pressman, vicepresidente del Pantone Color Institute, “che facesse sentire le persone orgogliose di ciò che sono. In grado di celebrare con passione l’eccitante e potente forza vitale con cui sono nate, di poter parlare spontaneamente e apertamente di questa funzione corporea pura e naturale”. Volevamo fosse “originale e in grado di rappresentare un flusso costante”, ha aggiunto Danela Žagar, presidentessa del brand Intimina. “Nonostante miliardi di persone abbiano le mestruazioni, se guardiamo alla cultura popolare le rappresentazioni del ciclo sono sempre imprecise e oggetto di derisioni, umiliazioni. Basta è abbastanza, è il 2020. La tonalità rossa ‘Period’ di Pantone è esattamente ciò di cui parla la nostra campagna Seen + Heard: rendere visibile il ciclo, incoraggiare conversazioni positive e normalizzare le mestruazioni nella nostra cultura, nella nostra società e nella nostra vita quotidiana”. Le mestruazioni restano un tabù in molte parti del mondo: in India alle donne è proibito cucinare o toccare chiunque perché considerate impure nei giorni del flusso. In alcune regioni del Nepal le donne vengono fatte dormire nelle “capanne delle mestruazioni”. Uno stigma vivo anche in occidente. Basti pensare che negli Stati Uniti una ragazza su cinque è vittima di “povertà mestruale”: i prodotti di igiene femminile non hanno prezzi accettabili. Tutta l’industria del design si affida ai colori Pantone. Una griglia nata nel 1963 per risolvere il problema dell’identificazione dei colori nell’industria della stampa. Dal 1999 in dicembre Pantone individua il Colore dell’Anno – nel 2020 il Classic Blue – come barometro dell’umore del momento e bussola per l’industria della moda. L’azienda non è d’altra parte nuova a iniziative di sensibilizzazione su temi sociali: in maggio ha pubblicato l’Arancione Pippi Calzelunghe in collaborazione con la campagna di Save the Children “Girls on the Move“. Ha poi creato in joint venture con la Ocean Agency e Adobe tre nuove sfumature di azzurro, giallo e viola – Glowing Blue, Glowing Yellow and Glowing Purple – basate sui colori fluorescenti prodotti dal corallo minacciato dal riscaldamento degli oceani.
Caterina Belloni per “la Verità” l'1 ottobre 2020. Da qualche giorno le aziende e i creativi di tutto il mondo possono contare su una nuova sfumatura di rosso. In inglese si chiama «period», che in italiano si tradurrebbe «ciclo». Un appellativo decisamente insolito per un colore, se non fosse che serve a spiegare il concetto da cui è stato ispirato. La nuova nuance lanciata dalla multinazionale americana Pantone, infatti, rappresenta le mestruazioni. Se fosse solo una trovata pubblicitaria sarebbe già discutibile, ma il problema è che questa tonalità innovativa ha anche una finalità a sfondo sociale: abbattere i pregiudizi su «quei particolari giorni del mese». Dietro il progetto del rosso rivoluzionario c' è una collaborazione tra l' azienda statunitense, che si occupa di tecnologie per la grafica e di catalogazione dei colori (ne ha identificati già 2.625) e un marchio svedese di prodotti femminili: Intimina. Insieme hanno pensato di proporre un prodotto che punta a un obiettivo anche politico: portare in piena luce un fenomeno naturale, che in genere resta nell' ombra e a proposito del quale c' è una forma di riservatezza estrema, quasi una negazione. Di ciclo mestruale in effetti non si parla nelle conversazioni tra amici, perché non è un argomento interessante e talvolta genera imbarazzo e disagio. Una cosa che del resto accade anche per altre espressioni corporee, funzionali e quotidiane, che si preferisce non pubblicizzare a cena o quando si beve un caffè. Le mamme raccomandano ai loro bambini «discrezione» su questi temi sin da quando sono alla scuola materna, ma la loro attitudine non ha influito sulle due aziende. Anzi. Nella presentazione del nuovo prodotto la vicepresidente del Pantone Color Institute, Laurie Pressman, ha precisato: «Volevamo ottenere una tonalità rossa accesa e avventurosa che facesse sentire le persone orgogliose di ciò che sono. In grado di celebrare con passione l' eccitante e potente forza vitale con cui sono nate, di poter parlare spontaneamente e apertamente di questa funzione corporea pura e naturale». Peccato che più che portare alla luce un fenomeno che tutti conoscono - fosse anche solo per gli spot tv sugli assorbenti - si sia finito per mettere sotto i riflettori qualcosa di assolutamente privato. Se infatti è sacrosanto che nel 2020 sia noto anche agli uomini il fatto che le donne ogni mese hanno il ciclo, pare eccessivo che su questa vicenda si debba costruire una scelta estetica, magari decidendo di dipingere di rosso Period le pareti di casa o di acquistare un mobile che abbia inserti nella stessa tonalità. Forse nella continua battaglia per la valorizzazione del genere femminile, questa volta si è presa una cantonata. L' intenzione dei creativi di Pantone forse era buona, ma il risultato finale potrebbe diventare destabilizzante. E poi, se davvero si deve lavorare perché il periodo del ciclo mestruale non sia un problema e a causa sua le donne non finiscano vittima di pregiudizi, bisognerebbe assumere altre decisioni. Ad esempio - come è accaduto in Gran Bretagna - si potrebbe ridurre la tassazione su assorbenti e prodotti igienici femminili. O ancora si dovrebbe ragionare con i datori di lavoro perché vengano riconosciute ore di permesso alle signore che soffrono troppo durante il ciclo mestruale. Solo ipotesi di azioni che aiuterebbero ad affrontare circostanze delicate, senza cercare di «normalizzarle» in modo maldestro. Quanto all' orgogliosa annotazione che il ciclo ha un ruolo chiave nella creazione della vita umana, va segnalato che anche le tonalità traslucide di ovuli e spermatozoi meriterebbero la stessa attenzione. Che sia un' idea per nuovi colori da mettere in catalogo?
Simone Pierini per "leggo.it" il 30 settembre 2020. Un gruppo di pappagalli ha iniziato a insultare i visitatori di uno zoo del Regno Unito e sono stati rimossi. Il 15 agosto il Lincolnshire Wildlife Park ha adottato cinque pappagalli grigi africani e li ha messi insieme in una stanza per isolarli. Tuttavia, mentre erano in "quarantena", hanno imparato una serie di oscenità che hanno poi rivolto ai clienti. Il personale è rimasto sotto choc quando si è reso conto di quello che era successo. Il parco ha rapidamente rimesso i pappagalli in isolamento quando hanno iniziato a imprecare contro gli ospiti. Steve Nichols, CEO del Friskney Park, allo Standard.co.Uk ha dichiarato: «Ogni tanto ne trovi uno che impreca ed è sempre divertente. Li troviamo sempre molto comici quando insultano». Ma, ha aggiunto che questi uccelli appena adottati erano rimasti bloccati insieme senza niente da fare e lo zoo si presto ritrovato con una stanza «piena di pappagalli che imprecavano tra loro». «Più imprecano, più ridi di solito, il che li spinge a imprecare di nuovo», ha detto Nichols. Quando i pappagalli sono stati esposti al pubblico, ci sono state segnalazioni di insulti a un cliente per 20 minuti. Il sig. Nichols ha dichiarato: «Lo abbiamo trovato molto divertente e i clienti stavano bene, non erano affatto un problema. Ma eravamo preoccupati perché avevamo dei bambini in arrivo».
Vittorio Sabadin per "La Stampa" il 29 settembre 2020. Il British Museum non rimuoverà più dalle sue collezioni oggetti che vengono contestati per motivi ideologici o politici. Basta con la furia iconoclasta alimentata dal movimento «Black Lives Matter» e basta anche con le richieste di restituzione di reperti da parte dei Paesi che li possedevano. Le statue e gli oggetti resteranno dove sono. La decisione del più importante museo londinese sarà imitata da altre istituzioni, che non ne possono più delle continue richieste di decolonizzare le collezioni, di chiedere scusa, di rimuovere busti di fondatori che tre secoli fa erano razzisti. A fare decidere i direttori è stata una durissima presa di posizione del governo britannico, contenuta in una lettera del ministro della Cultura, Oliver Dowden: i musei che ricevono finanziamenti pubblici, «non devono intraprendere azioni motivate dall'attivismo o dalla politica», ma devono continuare ad «agire in modo imparziale». Le decisioni prese di recente da alcune istituzioni «minacciano la comprensione del nostro passato collettivo» e non sono giustificate. Ma il passaggio decisivo era nelle righe conclusive: la questione è importante in quanto «il governo sta effettuando una revisione della spesa nella quale ogni esborso sarà valutato con attenzione». Se volete ancora soldi pubblici, ha detto in sostanza Dowden, smettetela di dare retta agli scalmanati che stanno portando all'estremo una giusta protesta, e continuate a difendere e a rappresentare la storia britannica, «giusta o sbagliata che sia», come ha aggiunto il premier Boris Johnson. Le manifestazioni in favore del «Black Lives Matter» erano state particolarmente vivaci in Gran Bretagna, con l'abbattimento a Bristol della statua del mercante Edward Colston, gettata in mare, e l'imbrattamento del piedistallo della statua di Winston Churchill in Parliament Square. Il clima pesante aveva indotto molti dirigenti di musei a piegarsi: il British Museum, la Tate Gallery, l'Imperial War Museum, la National Portrait Gallery, lo Science Museum, il Victoria and Albert e la British Library si erano detti pronti a rimuovere, ridiscutere o spiegare meglio al pubblico gli oggetti contestati. Il British Museum aveva persino rimosso il busto di uno dei suoi fondatori, Sir Hans Sloane, perché possedeva schiavi e la sua collezione di 71.000 pezzi, interamente donata allo stesso museo, era stata creata nel contesto dell'impero britannico. Per il governo conservatore di Boris Johnson si era ormai raggiunto un livello di arrendevolezza non più sopportabile. Il Natural History Museum era arrivato a definire «offensiva» la collezione di Charles Darwin, perché raccolta in un viaggio colonialista. Il suo direttore, Michael Dixon, aveva detto persino che «i musei sono stati creati per legittimare un'ideologia razzista». A Downing Street la pensano diversamente: è necessario e doveroso combattere contro la discriminazione razziale, ma non lo si deve fare cancellando la propria storia. Il British Museum ha approfittato della nuova disposizione ministeriale per porre fine alle diatribe sulla restituzione ai paesi d'origine di numerosi reperti che custodisce da tempo: i Marmi del Partenone, la Stele di Rosetta, un Moai dell'Isola di Pasqua, i Bronzi del Benin. La trattativa con la Grecia per i Marmi aveva fatto qualche passo avanti, ma ora si fermerà. I fregi erano stati portati a Londra nel 1812 dall'allora ambasciatore britannico nell'impero Ottomano, Edward Bruce, 7° conte di Elgin. All'epoca, l'Acropoli era una fortezza turca e il Partenone era oggetto dei tiri delle artiglierie e dei fucili: considerato dai greci un predone, a Londra Elgin è invece ritenuto il salvatore delle metope di Fidia. Si bloccherà probabilmente anche la restituzione all'Isola di Pasqua del Moai Hoa Hakananai' a che troneggia nella Wellcome Gallery, portato a Londra nel 1868 dal capitano di una nave inglese come regalo per la regina Vittoria. La Stele di Rosetta, presa alla Francia dopo la sconfitta di Napoleone, continuerà ad accogliere i visitatori nella sezione egizia, e resteranno al loro posto i Bronzi del Benin, saccheggiati nel 1897 dalle truppe inglesi nel palazzo imperiale. Niente dunque si muoverà più dalle teche per ragioni politiche o perché lo chiede una schiera di attivisti. Il British si è impegnato a «contestualizzare e reinterpretare» la descrizione degli oggetti contestati, in modo che «il pubblico sia messo nella condizione di comprenderli nella loro integrità»: il massimo possibile, per una nazione disposta a discutere il proprio passato, ma non certo a vergognarsene.
Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 26 settembre 2020. La Camera ha rispedito in commissione Trasporti il testo unico del nuovo Codice della strada. Speriamo che dal nuovo passaggio ne esca profondamente mutato, oppure non ne esca affatto, perché è un testo grottesco, bacchettone, oscurantista e sessuofobico. Qualcuno ricorderà, in questo tempo di ignoranti e dilettanti allo sbaraglio, un filmetto (nel senso di breve, non per la qualità) di Fellini intitolato Le tentazioni del dottor Antonio, del 1962, inserito nel film a episodi Boccaccio '70 (gli autori degli altri episodi erano giganti quali Vittorio De Sica, Visconti e Monicelli). Il dottor Antonio, interpretato de Peppino De Filippo, è un piccolo-borghese offeso dalla procacità di Anita Ekberg che, in posa aggressivamente avvenente, campeggia su un manifesto issato proprio di fronte alla finestra di casa sua, un manifesto che pubblicizza le qualità nutrizionali di un bicchiere di latte. Il povero Antonio è scandalizzato, ossessionato da quelle forme prorompenti, da quella femminilità ubertosa. Bene, oggi il dottor Antonio, e tutti i suoi consociati e consociate nella stessa delirante paranoia per cui una coscia, un seno, un sedere (ma chiamiamolo pure culo, come facciamo nella vita di tutti i giorni in molti ambiti) rappresentano la tentazione di Satana, ecco, oggi il dottor Antonio sarebbe contento e per brindare stapperebbe una sana bottiglia di acqua minerale liscia. Nel nuovo Codice della strada in discussione, infatti, tra una serie di provvedimenti razionali (sanzioni più salate per chi guida col telefonino, nuovi e più efficienti test antidroga, posti auto riservati alle donne incinte) c'è un capitolo che viene dritto dritto dalle menti retrive, represse, e moralistiche che oggi, guarda tu l'ironia della sorte, passano per progressiste, emancipate, liberatrici. Vogliono liberarci vietando di vedere l'immagine di un bel corpo, quei corpi che, per dire, nella Grecia classica facevano bella mostra di sé nella statuaria e nelle arti figurative. Secondo questi sgangherati, vociferanti moralizzatori della strada, si tratta di evitare che nelle nostre città appaiano affissioni sessiste, che propongono stereotipi offensivi di genere (perdonate l'orrida espressione, riportiamo la schifosa lingua con la quale ormai siamo costretti a comunicare tali questioni) oppure anche discriminatorie nei confronti dei credi religiosi, di orientamenti sessuali (oggi la sessualità è un "orientamento") lesivi del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, delle abilità fisiche e psichiche, e chiediamo scusa a tutti quelli che abbiamo lasciato fuori, non è certo per discriminarli, è che la nostra capacità di elencare tutti gli offesi del pianeta Terra ha i suoi limiti naturali. Ma limitiamoci alla questione delle affissioni definite sessiste (sulle altre questioni è giusto tenere alta la guardia) che saranno, così prevede il nuovo Codice della strada, bandite. Ora, in primo luogo, chi definisce cosa è sessista? Torniamo al comune senso del pudore, quella barzelletta per la quale, ad esempio, due omosessuali non potevano baciarsi in pubblico e forse nemmeno passeggiare mano nella mano? E chi decide cosa è pudico o impudico? Che la questione si ponga, non lo neghiamo, ma neghiamo che la si possa affrontare con lo spirito dei Talebani che, dal loro punto di vista, hanno le loro ragioni. Ma noi siamo in Italia, non in Afghanistan. Ma per farci un'idea di cosa è o sarebbe sessista, abbiamo scorso, sul sito di un importante periodico, una serie di manifesti e locandine che, se entrasse in vigore il nuovo Codice, sarebbero probabilmente proibite. Sono esattamente del genere di quella del film di Fellini: belle donne, belle ragazze, mai integralmente nude ma certo più o meno discinte, chiaramente seduttive, che reclamizzano le cose più disparate, dall'olio lubrificante alla sagra della battitura del grano alle lavatrici a, naturalmente, costumi, biancheria intima eccetera. Ci piacerebbe sapere chi è quel dottor Antonio che ha deciso che se sono a capo di un'azienda che produce reggiseni o costumi da bagno, allora non posso mettere una bella modella su un cartellone per pubblicizzare il mio prodotto, perché spargo il veleno del sessismo. E piacerebbe anche sapere perché lo Stato mi deve impedire di pubblicizzare quello che mi pare grazie alla bellezza maschile, femminile, transgender, quello che vi pare, ma solo con messaggi approvati dal gran consiglio dei bacchettoni, spargendo non già il venefico gas del sessismo, ma quello della tristezza e dell'autoritarismo etico. Sia chiaro, non stiamo dicendo che tutta la pubblicità è lecita, che ogni slogan è ammissibile, ma Belen in reggiseno che problema vi dà?
Ilaria Venturi per repubblica.it il 25 settembre 2020. E' la pagina del "bentornati a scuola", con i desideri dei bambini: quest'anno vorrei..."fare tanti disegni coi pennarelli", "andare sempre in giardino per la ricreazione" dicono gli alunni nel disegno della pagina. Ma c'è un terzo bambino nero che dice: "Quest'anno io vuole imparare italiano bene". Una frase che indigna e scatena la polemica sui social: "E' razzismo". E poi, a parte il razzismo, "c'è sempre questa ottica vetusta di rimarcare le carenze e non le potenzialità". Gli insegnanti chiedono di ritirare il manuale. Il testo è nel manuale di letture "Le avventure di Leo" per la classe di seconda elementare edito dal Gruppo Editoriale Raffaello. "Ancora una segnalazione sui libri di testo - s'indigna l'organizzazione no profit Educare alle differenze nella sua pagina Facebook postando la foto della pagina - Un libro che entra in classi interculturali in cui bambine e bambini nati e cresciuti in Italia hanno colori diversi, famiglie miste, adottive, genitori che provengono da altri paesi ma vivono qui da anni o che sono a loro volta nati e cresciuti qui. Ma anche bambini arrivati da poco che portano con sé le loro culture d'origine. Bambini che continuiamo attraverso rappresentazioni come questa ad additare come stranieri, come altro rispetto a una presunta normalità italica e a scimmiottare con un linguaggio imbarazzante che sembra preso da un pessimo film degli anni Trenta". Sfogliando il manuale si trovano letture per portare i bambini a ragionare sulla diversità. Nelle pagine successive si legge un testo intitolato "Un amico venuto da lontano" che comincia così: "Questa mattina la maestra ci ha presentato Emmanuel, un amico con la pelle scura venuto da tanto lontano. Quando Emmanuel ha parlato ha sbagliato tutte le parole, allora noi bambini ci siamo messi a ridere, ma la maestra ha detto: Provate voi ad andare in un Paese dove tutti parlano un'altra lingua!". Ma è la rappresentazione grafica del bambino straniero con evidenti difficoltà comunicative a scatenare lo sdegno. Scrive in Facebook Francesca Sempio, insegnante di scuola primaria a Milano: "Mi mancano le parole per dire quanto razzisti, beceri, lontani dalla realtà delle classi, siano gli autori e gli editori di questa cosa che non riesco a chiamare libro. Insegnanti, riprendiamoci la libertà di insegnamento. Effettuiamo la scelta alternativa al libro di testo unico. Per fortuna, i nostri alunni non sono bidimensionali né stupidi come li dipinge questa pagina".
Scuola, bufera su libro: "Io vuole imparare italiano..." La vignetta col bimbo nero sul libro di seconda elementare fa arrabbiare gli insegnati: ''è razzista''. Il Gruppo Editoriale si scusa per la svista. Rosa Scognamiglio, Venerdì 25/09/2020 su Il Giornale. ''Quest'anno io vuole imparare bene l'italiano''. Recita così l'illustrazione contenuta nelle pagine d'apertuna del manuale di seconda elementare in cui un bimbo nero pronuncia una frase sgrammaticata, senza concordanza tra verbo e soggetto. ''Ritiratelo subito dal mercato, è razzista'', s'indigna il popolo di Facebook che esprime all'unisono contrarietà per il tono discriminatorio della vignetta. Il ''libro incriminato'' è Le avventure di Leo, edito dal Gruppo Editoriale Raffaello. Nelle prime pagine, sono rappresentati degli studenti al primo giorno di scuola che esprimono i loro desideri in previsione del nuovo anno. ''Io vorrei fare tanti disegni coi pennaraeli'', dice un alunno; ''io vorrei andare a fare ricreazione sempre in giardino'', seguono altri. C'è poi un terzo bimbo, dalla chioma riccioluta e la pelle scura, che replica ai compagni: ''Io vuole impare bene l'italiano''. Una scelta di dubbio gusto, quella della ''frase sgangherata'' attribuita al ragazzino straniero, che ha fatto letteralmente infuriorare gli insegnanti: ''è un libro razzista'', scrivono sui social. Ma non è finita. Sebbene sia fuori da ogni ragionevole dubbio che il libro sia stato concepito sulla scia di un sentimento xenofobo, nelle pagine successive del manuale, vengono riproposti altri contenuti piuttosto discutibili. Nella lettura Un amico venuto da lontano compare un ennesimo ''testo della discordia'': "Questa mattina la maestra ci ha presentato Emmanuel, un amico con la pelle scura venuto da tanto lontano. - racconta un bimbo - Quando Emmanuel ha parlato ha sbagliato tutte le parole, allora noi bambini ci siamo messi a ridere, ma la maestra ha detto: Provate voi ad andare in un Paese dove tutti parlano un'altra lingua!". ''Mi mancano le parole per dire quanto razzisti, beceri, lontani dalla realtà delle classi, siano gli autori e gli editori di questa cosa che non riesco a chiamare libro - scrive Francesca Sempio, insegnante elementare a Milano - Insegnanti, riprendiamoci la libertà di insegnamento. Effettuiamo la scelta alternativa al libro di testo unico. Per fortuna, i nostri alunni non sono bidimensionali né stupidi come li dipinge questa pagina". Dopo le segnalazioni, il Gruppo Editoriale Raffaello si è subito scusato per la ''svista'' promettendo di apportare le correzioni al manuale in tempi brevi.
"Sei nera o sei sporca?". Altre frasi razziste nei libri scolastici: ed è polemica. Clarissa Cancelli su La Repubblica il 26 settembre 2020. "Sei nera o sei sporca?". In un libro di letture per bambini di prima elementare. Dopo le polemiche scatenate da una vignetta razzista su un libro scolastico del Gruppo Raffaello - che ha chiesto scusa e ha rimosso - continuano le polemiche. Al centro della polemica, stavolta, è una pagina di un manuale di prima elementare dell’Ardea Edizioni. Un utente ha postato l’immagine della lettura: nel dialogo tra due bambini si associa il colore della pelle alla sporcizia. Nei commenti sotto il post si scatena l'indignazione.
"Sei sporca o sei tutta nera?": nuova bufera su un testo per le elementari.
A sollevare il caso è Marwa Mahmoud, consigliera comunale Pd di Reggio Emilia. La Repubblica il 26 settembre 2020. Una vignetta su un libro per le elementari con un bimbo che si avvicina a una bimba dalla pelle scura e le chiede: "Sei sporca o sei tutta nera?". È il nuovo caso che fa discutere dopo la polemica scoppiata ieri per un libro di testo per la seconda elementare che conteneva la frase 'Io vuole imparare italiano bene' corredata dall'immagine disegnata di un bambino dalla pelle scura. A sollevare il nuovo caso è Marwa Mahmoud, consigliera comunale Pd di Reggio Emilia, prima della storia reggiana col velo, da sempre in prima fila per battaglie di integrazione interculturale. "Una narrativa inferiorizzante che accosta la pelle nera alla sporcizia è inaccettabile - scrive Marwa Mahmoud su Facebook pubblicando l'immagine - È giunta l'ora di fare seriamente i conti con il colonialismo mai rielaborato e la percezione interiorizzata che ciò che nero è inferiore e male. La scuola oggi ha un ruolo ancora più rilevante che nei decenni passati, ha il dovere di educare alle diversità e alla ricchezza che da esse ne deriva", conclude. Il caso le è stato segnalato da genitori di origini africane che "si son visti questi brani sui sussidiari di scuola dei figli". Si tratta di un testo, estratto da un libro del 1996 ("Caro bruco capellone" di Mondadori, ristampato da Giunti col titolo "Caro librino mio") riportato nel libro “Rossofuoco” di Ardea Editore, per le prime tre classi di scuola primaria. Un altro episodio che "fa rabbia, frustrazione", sottolinea Mahmoud, ma non solo. "Per me è palesemente discriminatorio - aggiunge - nonché razzista, per chi può avere un colore della pelle non caucasico. Accostarlo alla sporcizia vuol dire ritenerlo inferiore e penso che questo non sia né pedagogico né educativo".
Polemiche sul libro delle elementari, il problema non è il razzismo ma lo stereotipo. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 26 Settembre 2020. “Ciao né” e “mica dormo”, le famiglie emigrate da sud a nord, poi ritornate giù, anche se dopo solo un mese, si portavano in eredità, nei figli, frasi di questo tipo, che consideravano distintive in meglio: avevano fatto progresso, e qualche dialettismo, imparato a scuola o in fabbrica, lo confondevano per italiano. Lo usavano in ogni occasione per fare figura, mostrarsi più avanti degli altri. Anche solo imitare un accento settentrionale era sinonimo di progresso. E in verità, gli strafalcioni nella lingua, sono essi una caratteristica distintiva degli italiani del passato, di quelli di adesso, lo saranno nel futuro. Che l’italiano lo conoscono meglio, alla fine, quelli che arrivano da fuori, dovendolo studiare, più di noi che adagiandoci su un’italianità nativa inframmezziamo frasi spesso solo umoristiche, parole improbabili. I dialettismi sono l’inciampo di tutti, nella lingua. E gli scivoloni, nei libri di testo sono una costante, una trappola in cui si cade da sempre. “Mica” è, solo, il caso delle Avventure di Leo, il libro dei buoni propositi per i bambini delle scuole primarie, con l’illustrazione del bambino di colore che promette: quest’anno io vuole imparare italiano bene. Questo libro ha scatenato un mare di polemiche. E’ razzista o no? Io, da bambino sarei cascato su quest’anno, avrei detto st’anno, anzi, ogni tanto mi scappa pure mo’. Che magari non è razzismo, solo superficialità, razzismo sarebbe stato se alla frase ci avessero aggiunto mizz Rozzella, che è una battuta facile, la prima a circolare sui social. Sì, superficialità, che anch’essa però è un segno di poco rispetto della diversità, delle differenze. C’è un libro di testo, sempre per le elementari, in cui gli alunni debbono colorare i bambini di una illustrazione: i maschi costruiscono, fanno capriole pazzesche. Le femminucce preparano la tavola. È lo stereotipo il problema vero, più di un razzismo che è poi conseguenza di una scuola fatta male, che insegna poco e non si prefigge mai di spiegare le particolarità come essenza dell’umanità, delle culture. Se si facessero le pulci ai libri di testo, si riderebbe tanto, ci si arrabbierebbe tanto. Ma pure a leggere tanta parte dei testi giornalistici, dei discorsi politici, di molti romanzi di successo. La scuola no, la scuola non può scivolare così, perché ciò che ci infilano in testa da bambini, se è un concetto sbagliato, diventa un cavallo di Troia che fa saltare in aria gli equilibri che l’educazione scolastica dovrebbe costruire. La scuola serve a spazzare via le rappresentazioni, i luoghi comuni, quella vignetta, più che una svista, è un pezzo di passato che non passa, che riporta in mente “il calabrese” che il preside introdusse nella classe del maestro Perboni: “Entrò il direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, con i capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte, tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita”. Questo era il calabrese del libro Cuore, per molti è stato il calabrese per sempre, per alcuni lo è ancora. Ogni stereotipo che entra in una scuola è un masso di granito che si alza fra i bambini. Dopo. Servono anni a decine per sminuzzarlo.
Andra Amata, 27 settembre 2020 su Nicolaporro.it. L’ortodossia del politicamente corretta censura qualsiasi illustrazione che possa essere disallineata al suo rigido dogmatismo. E così la verità diventa inoperativa se risulta incompatibile con i canoni del pensiero unico che plasma la realtà al linguaggio dell’indifferentismo. L’omologazione che ne deriva rappresenta un depauperamento della società, che si sostanzia della diversità senza vocazioni egemoniche sulle molteplici culture che l’attraversano.
Vignetta incriminata. La bufera provocata dalla vignetta, presente sul manuale di letture Le avventure di Leo edito dal Gruppo Editoriale Raffaello per la seconda elementare, raffigurante un alunno nero che dice: «Quest’anno io vuole imparare italiano bene» è il sintomo di una semplificazione vincolata al cliché accusatorio di razzismo. Una sorta di reazione sanzionatoria che obbedisce ad uno schema automatico da cui si origina l’indignazione convenzionalista. Il manuale con la vignetta incriminata è stato segnalato per istigazione al razzismo e gli insegnanti ne hanno chiesto il ritiro dalla fruizione scolastica. La frase criminalizzata dalle vestali del politicamente corretto, con enfatico zelo censorio, non mi pare che possa essere inquadrata nella diffamazione razzista, perché esprime l’attitudine volitiva dello straniero ad integrarsi e la carenza linguistica raffigurata nella vignetta non indica un deficit strutturale ma l’esordio di un percorso inclusivo di apprendimento.
Testi scolastici immigrazionisti. Sono ben altri i testi scolastici su cui infervorarsi per la loro tendenza ad indottrinare gli studenti affinché assorbano acriticamente progetti di sostituzione etnica. Emblematico il silenzio dei novelli censori quando si evidenziavano gli estratti di un testo di geografia Geo Green 2 edito da Paravia per la scuola media in cui veniva descritta l’emergenza sull’«invecchiamento medio» e sulla diminuzione dei «giovani europei» con un manifesto ideologico dai toni imperativi: «Gli immigrati extraeuropei (africani, asiatici, sudamericani) rappresentano già oggi una parte consistente della popolazione giovane d’Europa. La vera sfida sociale e demografica del continente consiste nel “passare il testimone”: gli immigrati devono poter entrare nella società e nell’economia europee a ogni livello professionale e civile; solo accettando gli immigrati l’Europa anziana (che detiene la ricchezza economica e le radici culturali europee) permetterà l’esistenza dell’Europa futura». Educare significa offrire ai giovani gli strumenti per decodificare la complessità della realtà e non catechizzarli all’immigrazionismo o al modello di cui è alfiere l’ex “presidenta” della Camera Laura Boldrini che eleva il migrante ad «avanguardia della globalizzazione che ci offre uno stile di vita da emulare». La cupola del politicamente corretto vorrebbe detenere l’autorità medioevale per concedere o negare l’imprimatur, la preventiva autorizzazione alla pubblicazione di un libro affinché sia conforme ai suoi precetti. Sicuramente lo avrebbe concesso al volume In prima!, della collana Zoom dell’editore Loescher, rivolto ai ragazzi di prima media, che si schiera apertamente per accogliere senza filtri il flusso migratorio – «gli immigrati sono una presenza indispensabile, soprattutto in alcuni settori lavorativi come l’edilizia, il lavoro domestico, l’assistenza a bambini e anziani» – e per lo ius soli – «i figli di stranieri nati in Italia continuano a non aver diritto alla cittadinanza italiana». Si potrebbero citare tanti esempi di testi che orientano ad un pensiero, manipolando la libera capacità critica che dovrebbe essere l’obiettivo prioritario del sistema educativo. Invece, da alcuni manuali emerge la narrazione di una visione acritica sul tema dell’immigrazione con la finalità di plasmare i cittadini del domani al verbo tossico del politicamente corretto. Per tanti anni il sistema scolastico ha tollerato che gli studenti si formassero sulle omissioni dei manuali di storia rispetto alla tragedia delle foibe, provocando sul sentimento di appartenenza nazionale il “delitto” della memoria reticente e infierendo sul martirio di migliaia di italiani vittime della pulizia etnica dei comunisti jugoslavi del maresciallo Tito. Ieri per ragioni ideologiche si imponeva il bianchetto sulle pagine buie della storia che evocavano i delitti partigiani, oggi la stessa tendenza soverchiante la si vuole applicare per imporre l’omologazione al pensiero dominante intervenendo sin dalle fasi embrionali del processo educativo. Andra Amata, 27 settembre 2020
Il Pd vuole "Bella Ciao" a scuola "Cantatela con l'Inno di Mameli". Alcuni deputati dem hanno presentato una proposta di legge per inserire il canto partigiano nei programmi scolastici. Alberto Giorgi, Venerdì 25/09/2020 su Il Giornale. Il risultato delle Regionali deve aver dato alla testa al Partito Democratico. Già, perché ora i dem tornano alla carica su una questione a loro molto cara: affiancare Bella ciao all’Inno di Mameli, facendo sì che il canto simbolo dei partigiani e della resistenza entri di diritto nei programmi scolastici di tutto il Paese a decorrere dall'anno scolastico 2020/2021. La pensata non è nuova e anzi risale alla scorsa primavera, quando l’Italia era in piena emergenza coronavirus. In data 30 aprile, infatti, un gruppo di parlamentari dem – tra cui Piero Fassino, Michele Anzaldi, Stefania Pezzopane, Patrizia Prestipino e Gian Mario Fragomeli – presentano a Montecitorio una proposta di legge per inserire nei programmi scolastici lo studio della canzone "rossa" per eccellenza, così da ottenere il riconoscimento ufficiale della canzone simbolo della lotta partigiana come canto ufficiale dello Stato italiano, quasi alla pari dell'Inno di Mameli. Oltre all’idea in sé, stupiscono anche le tempistiche, visto che in quelle difficili e durissime settimane l’Italia era in ginocchio e terrorizzata dalla pandemia di coronavirus, che continuava a mietere vittime. Con il Paese congelato dalla serrata e dalla paura, alcuni deputati del piddì hanno però pensato bene di badare ad altro e di interessarsi a Bella ciao. In quel 30 aprile, allora, a Montecitorio fa capolino la seguente proposta di legge: "Riconoscimento della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della nascita de dello sviluppo della Repubblica". Ma come detto non è tutto. "Non meno importante, infine, la legge dispone anche che in tutte le scuole, all’insegnamento dei fatti legati al periodo storico della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della lotta partigiana, venga affiancato anche lo studio della canzone Bella Ciao", come spiegato dal dem Fragomeli. Dalla scorsa primavera a questo autunno, perché praticamente all’indomani del risultato elettorale del referendum, delle Regionali e delle Comunali, la proposta di legge – come rende noto Il Tempo – è stata appena licenziata dalla commissione e approderà dunque in Aula, dove il Pd farà di tutto per ottenerne l’approvazione. D’altronde, secondo loro, come si legge all’interno della proposta di legge stessa, "Bella ciao è un inno facilmente condivisibile e non è espressione di una singola parte politica, visto che che tutte le forze politiche possono ugualmente riconoscersi negli ideali universali ai quali si ispira la canzone". Il blitz del Pd sulla canzone partigiana è tutto condensato nell'articolo uno del provvedimento che potrebbe diventare legge. All’articolo uno, infatti, si legge: "La Repubblica riconosce la canzone Bella ciao quale espressione popolare dei propri valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. La canzone Bella ciao è eseguita, dopo l'inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo". Insomma, Bella ciao come secondo inno nazionale.
Azzolina difende Bella Ciao: "Parte del patrimonio culturale". Ad aprile, un insegnante assegnò l'esecuzione musicale di Bella Ciao. Il deputato di FdI, Rampelli, aveva chiesto l'intervento del ministro dell'Istruzione. La risposta di Azzolina: "Il canto è parte del patrimonio culturale". Francesca Bernasconi, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. "Il brano Bella Ciao è parte del patrimonio culturale italiano". Così, il ministro dell'istruzione, Lucia Azzolina, si è espressa in difesa del noto canto, al centro di un'interrogazione presentata dal deputato di Fratelli d'Italia, Fabio Rampelli. Tutto parte da un compito assegnato agli alunni delle scuole medie dell'Istituto Ottaviano Bottini, di Piglio, in provincia di Frosinone. Lo scorso aprile, un insegnante di musica aveva assegnato come compito l'esecuzione di Bella Ciao, che sul sito della scuola veniva definita "simbolo della Liberazione che abbiamo festeggiato il 25 aprile". Una notizia che aveva sconcertato il deputato FdI: il 25 aprile, aveva commentato Rampelli, "rappresenta oggettivamente la liberazione dell’Italia dalla dittatura e dall’occupazione nazista". Invece, "l’inno partigiano è divisivo perchè rappresenta una parte politica ben definita, purtroppo protagonista anche di violenze efferate e ingiustificate, anche nei confronti di civili, preti, donne e bambini". Secondo il deputato, si legge nell'interrogazione, "è inaccettabile che temi di natura chiaramente politica, surrettiziamente presentati come formativi, vengano inseriti nell’attività scolastica di ragazzi che le famiglie affidano alla scuola per ragioni didattiche e non certo per vederli sottoporre a un’attività propagandistica, a meno che non ci sia lo spazio per uno studio plurale e imparziale degli accadimenti". Infine, Rampelli aveva lanciato un appello al ministro Azzolina, chiedendole se non ritenesse necessario "adottare le iniziative di competenza per evitare la diffusione di una visione politicizzata della storia nelle scuole, evitando che sia altresì consentito un indottrinamento delle nuove generazioni". Non solo. Il deputato FdI chiedeva anche un indirizzo rivolto ai dirigenti scolastici, perché distinguessero "la festa della Liberazione dall’inno dei partigiani", considerato "divisivo ed evocatore di violenze storicamente accertate". Ma, rispondendo per iscritto all'interrogazione di Rampelli, Lucia Azzolina difende Bella Ciao, definendolo un canto "parte del patrimonio culturale italiano, noto a livello internazionale, tradotto e cantato in tutto il mondo. È un canto che diffonde valori del tutto universali di opposizione alle guerre ed agli estremismi". Inoltre, la canzone avrebbe sempre fatto parte del libro di testo adottato dalla scuola: "In particolare- spiega Azzolina- il brano in questione, assegnato con lo scopo di essere suonato con il flauto dai discenti, rientra nel novero dei canti popolari in trattazione nell’ambito della musica leggera e precisamente nel capitolo dedicato alle "Canzoni del presente e del passato"". E conclude riaffermandone il valore in quanto parte del patrimonio della cultura italiana. La situazione ha sollevato anche questioni giudiziarie. Il ministro dell'Istruzione, infatti, ha ricordato come lo scorso maggio fosse stata ricevuta dal Ministero "una nota con la quale la dirigente scolastica dell’istituto comprensivo di Piglio, notiziava che in data 2 maggio la stessa aveva sporto querela contro ignoti per il reato di diffamazione a seguito della lettura di alcuni post, apparsi su Facebook, nei quali veniva offesa l’immagine della scuola e di una docente di musica per aver assegnato ad una classe il compito di svolgere con uno strumento musicale (flauto dolce) la canzone Bella Ciao". Da questo punto di vista, sarà l'autorità giudiziaria a definire eventuali responsabilità.
Dritto e Rovescio, Giuseppe Cruciani su Bella Ciao: "Non ha un'impronta italiana, proprietà dei comunisti". Libero Quotidiano il 02 ottobre 2020. Siamo a Dritto e Rovescio, il programma di Paolo Del Debbio su Rete 4, la puntata è quella di giovedì 1 ottobre. E in studio si parla della priorità del Pd: insegnare Bella Ciao in tutte le scuole italiane, proposta accompagnata da un disegno di legge. Proposta cancellata in modo netto da Giuseppe Cruciani, che prima di battibeccare sul tema con Sara Manfuso spiega: "Nessuno nelle classi italiane ha bisogno di cantare canzoni, non si canta neppure l'Inno italiano figurarsi Bella Ciao. Penso che Bella Ciao sia una canzone di cui si sono appropriati, legittimamente, dopo la seconda guerra mondiale sostanzialmente i comunisti - rimarca il conduttore de la Zanzara -. Non vale per tutti, non ha un'impronta italiana, non ha un valore trasversale: è una canzone di una parte politica, quella di sinistra. È questa la realtà dei fatti, si vuole introdurre a scuola qualcosa che appartiene a una stagione politica che si è conclusa", conclude un impeccabile Giuseppe Cruciani.
Insegnante minaccia alunni: "Canta Bella Ciao o sei fascista". Insegnante di scuola media minaccia alunni di brutto voto se non intonano Bella Ciao: "Chi non canta, è fascista". Rosa Scognamiglio, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. "Se non canti Bella Ciao, vuol dire che sei fascista e ti metto un brutto voto". Con questa frase un'insegnante di scuola media avrebbe intimato ai suoi studenti di intonare l'inno della Resistenza partigiana minacciando una sfilza di insufficienze a chiunque si fosse rifiutato di farlo. Dalle parole ai fatti, il passo è breve. Così, con metodi educativi piuttosto discutibili, una professoressa ha ben pensato di politicizzare la classe - virando verso una inequivocabile ideologia di sinistra - con la minaccia di un brutto voto sul registro qualora i giovanissimi alunni avessero osato delle rimostranze o si fossero rifiutati di cantare i versi di Bella Ciao. Ma non è tutto. A quanto pare, l'insegnante si sarebbe spinta ben oltre il semplice ammonimento. La faziosa educatrice avrebbe talora apostrofato con l'appellativo "fascista" coloro che non avrebbero assecondato la sua richiesta perentoria. Dunque, spaventati dalle conseguenze di un eventuale diniego sulla media in pagella, i ragazzini non avrebbero potuto far altro che compiacere l'insegnante. A dare notizia dell'accaduto è stata la Lega Prato che, stando a quanto si apprende dalla testa d'informazione GoNews.it, ha riportato la segnalazione di un genitore - l'identità dell'uomo non è stata rivelata per evitare la gogna social – il quale riferiva della presunta condotta diseducativa adottata dalla professoressa durante le ore di lezione. "Abbiamo letto con molta preoccupazione la richiesta d'aiuto di un genitore di un bambino di seconda media: questi denunciava ieri sul suo profilo Facebook che la professoressa di Italiano avrebbe minacciato gli alunni di una classe di seconda media di cantare Bella ciao, pena un brutto voto. - si legge nella nota trasmessa dal gruppo consiliare Lega Prato - L'insegnante avrebbe anche detto agli alunni che se non avessero intonato Bella ciao sarebbero stati dei fascisti. Speriamo si sia trattato di un frainteso, perché altrimenti sarebbe un fatto gravissimo: tanto più apostrofando come fascisti dei bambini colpevoli di non aver imparato una canzone. Per questo chiediamo lumi alla presidenza della scuola media interessata. Pretendiamo quindi chiarezza: questi sarebbero metodi inaccettabili, trattandosi eventualmente di una educatrice che si rivolge a minori con pregiudizio e minacce". Al momento la vicenda resta ancora da accertare ma non è escluso che, nei prossimi giorni, possa essere ulteriormente dettagliata da altre eventuali testimonianze. Nel caso in cui, tale segnalazione fosse confermata, le conseguenze per l'insegnante potrebbero avere persino conseguenze giudiziarie fino alla sospensione dal servizio.
Bella ciao a scuola. Ma i ragazzi sanno della strage partigiana di Mignagola? Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
La paventata introduzione del canto “Bella ciao” nelle scuole, per il 25 aprile e/o per manifestazioni celebrative della Resistenza ha suscitato aspre polemiche. Perché questi temi continuano ad essere così divisivi? Può valere la pena far capire a scolari e studenti come mai tali questioni continuino ad essere così “irritanti”, a 75 anni di distanza, offrendo loro uno squarcio di verità su un periodo storico che ha conosciuto non solo luci, ma anche ombre. Importante, però, che questo avvenga senza faziosità e giudizi, sulla scorta di fonti autorevoli e, meglio ancora, attraverso le dichiarazioni rese in sede processuale dagli stessi protagonisti e testimoni. Non bisogna temere i fatti, proprio per avere un panorama equilibrato e completo di quella pagina drammatica della nostra storia e per consentire ad ognuno di maturare un giudizio personale. Dopotutto, a scuola si va per questo. “Anche a Treviso ci fu un eccidio rosso come quello delle Fosse Ardeatine a Roma” scrive Bruno Vespa nel suo “Vincitori e vinti” del 2005 in riferimento alla “Strage della Cartiera Burgo”. Una vicenda di 75 anni fa, iniziata il 27 aprile ’45 e terminata ai primi di maggio: la struttura industriale, a 7 km da Treviso, era stata adibita dai partigiani a campo di concentramento per i prigionieri fascisti e per i civili anche solo sospettati di collaborazionismo. La cartiera giunse a raccogliere circa 2000 persone rastrellate nella zona: militari repubblicani, ausiliarie, civili più o meno legati al passato regime, possidenti. Per quanto misconosciuta, la strage è ampiamente documentata - oltre che dai rapporti dei Carabinieri - dalle testimonianze dei partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi che furono chiamati a deporre nel processo del 1949. In realtà, questo eccidio presenta caratteristiche diverse rispetto a quello delle Fosse Ardeatine. Innanzitutto fu compiuto a guerra finita e non fu una rappresaglia condotta nel solco delle pur terribili leggi di guerra dell’epoca (anche se con 5 vittime in più): si trattò di processi sommari, torture ed esecuzioni che, come riportavano i Carabinieri, nemmeno tenevano conto dei nomi degli imputati. Anche sui numeri non c’è corrispondenza con le Ardeatine: materialmente furono recuperati “solo” 100 morti; secondo il cappellano delle Brigate nere don Angelo Scarpellini, le uccisioni furono 700, mentre per il maresciallo dei Carabinieri Carlo Pampararo, 900. Per vari storici furono, comunque, diverse centinaia. Il numero non è chiaro perché, come documenta il partigiano e storico comunista Ives Bizzi, i corpi di molte vittime vennero disciolti nell’acido solforico della cartiera o bruciati nei suoi forni, oppure seppelliti in luoghi remoti o gettati nel fiume Sile. Tale dettaglio fu confermato nel 2007 al Gazzettino anche dal partigiano rosso Aldo Tognana, ex comandante della piazza militare di Treviso: «Il parapetto sul Sile era tutto sporco di sangue, di notte avevano portato lì prigionieri fascisti e non, e li avevano uccisi e gettati nel fiume.»
Inoltre, emergono dal processo torture, stupri ed efferatezze sui prigionieri che si spinsero fino alla crocifissione. “Tutti i prigionieri venivano portati in cartiera – dichiarò al processo del ’49 il partigiano comunista Marcello Ranzato - i tedeschi - senza che loro venisse torto un capello - venivano custoditi nel garage; i fascisti, invece, in altri locali del pianterreno della cartiera. Questi venivano bastonati e seviziati, tanto che alle volte udivo urla e rumore di percosse. Venivano anche fatti processi sommari. Simionato Gino, “Falco”, (il loro capo n.d.r.) era uno dei più attivi seviziatori e percuoteva le sue vittime con zappe o badili nelle ore notturne”. Come riportato in “La cartiera della morte” (Mursia 2009) di Antonio Serena, con prefazione di Franco Cardini, il 27 aprile furono catturati presso Olmi sette fascisti della Banda Collotti che portavano con sé dell’oro; questo fu spartito fra partigiani comunisti e democristiani. I prigionieri furono tutti uccisi, anche una donna incinta, amante di Gaetano Collotti. Il 29 aprile, don Giovanni Piliego si recò alla cartiera per confessare dei prigionieri visitati il giorno prima, ma questi erano già stati uccisi. Si rivolse così al vescovo Mantiero che protestò con il CLN e con gli americani. Il 30, militari Usa giunti con una jeep, imposero la cessazione delle attività, ma gli ammazzamenti continuarono. "Dopo la liberazione abbiamo avuto cinque giorni di carta bianca – testimoniò il partigiano Romeo Marangone - Abbiamo continuato gli arresti”. In realtà, come testimoniò don Ernesto Dal Corso, parroco di Carbonera, le esecuzioni proseguirono ben oltre il 30: “La maggior parte delle uccisioni avvenne dietro una specie di processo presenziato da tali Polo Roberto, Sponchiado Antonio, Brambullo Giovanni, Zancanaro Silvio, Trevisi Gino”. Anche dopo lo stop ordinato dal CNL, invece, “Simionato Gino ha ammazzato un numero di 37 persone, dicono, a colpi di badile”. Spiega lo studioso Massimo Lucioli: “Testimoni oculari riferirono al processo come il giorno 4, un sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana, Luigi Lorenzi, di 20 anni, (catturato nonostante il lasciapassare del CLN) venne preso di mira perché aveva difeso un’ausiliaria dalle violenze dei partigiani. Altri raccontarono di come egli portasse una medaglietta religiosa al collo: minacciato di crocifissione e rifiutando di togliersela avrebbe risposto: “Muoio come Nostro Signore. La croce che Gesù Cristo ha portato non può far paura a un cristiano”. Stando alle testimonianze e ai referti, Lorenzi fu inchiodato a due assi di legno, frustato e poi gli venne spaccata la testa. Come da lettera del Comune di Breda, il giorno 8 la madre di Lorenzi andò dal sindaco, il partigiano Giuseppe Foresto (che aveva contatti con i partigiani della cartiera) il quale le rispose, mentendo, che suo figlio era stato rimesso in libertà due giorni prima”. Su denuncia dei familiari delle vittime, fu istruito il processo già nell’estate del ’45, ma in un brutto clima: “Nessuno vuole parlare – riferiscono i rapporti dei CC - tutti sono terrorizzati, perché i colpevoli sono in circolazione, coloro che potrebbero dare preziose notizie, vivono ancora sotto l'incubo della rappresaglia”. Il processo a carico del solo Gino Simionato e di altri ignoti andò avanti fino al 1954, quando il giudice Favara così sentenziò: “Pur essendo altamente deplorevole l’indiscriminazione con cui taluni partigiani o patrioti ebbero a sfogare la mal repressa rabbia, troppo spesso senza accertarsi prima della colpevolezza dei singoli individui rastrellati […] dichiaro non doversi procedere a carico degli imputati in ordine ai reati loro rubricati, perché estinti per effetto amnistia. Si trattava dell’amnistia promulgata dal segretario del PCI Palmiro Togliatti nel 1946, poi reiterata nel ’53.
Convenzione di Faro: ora la furia iconoclasta dell’Islam è più vicina. Redazione il 24 Settembre 2020 su culturaidentita.it. La Convenzione di Faro è il patto noto anche come Convenzione quadro del consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, sottoscritto dagli Stati membri del Consiglio d’Europa tranne che Francia, Germania, Svezia e Spagna. La sintesi della Convenzione indichi “un modello di sviluppo economico fondato sui principi di utilizzo sostenibile delle risorse”, cosa che non promette nulla di buono (l’associazione ai talebani ambientalisti è immediata), ma è quell’enfasi sulla “promozione del dialogo interculturale” che nascondeva, secondo noi, delle potenziali insidie: infatti all’Articolo 7 intitolato Patrimonio culturale e dialogo leggiamo che “Le Parti Firmatarie devono impegnarsi al rispetto per la diversità delle interpretazioni del patrimonio culturale di un determinato Paese” e a “stabilire i procedimenti di conciliazione per gestire equamente le situazioni dove valori contraddittori siano attribuiti allo stesso patrimonio culturale da comunità diverse”. Non occorre essere dotti come Papa Ratzinger per sentir l’odore del famigerato quanto fallace politicamente corretto che ha già avuto in Italia l’esito di metter le mutande alle statue nei Musei Capitolini per non offendere “il patrimonio culturale di una diversa comunità”. Non basta. C’è quella parola nel succitato Articolo 7 della Convenzione, “interpretazioni”, che produce anch’essa più di un sospetto. Bene, oggi è stata accolta con sostanziale favore la ratifica della Convenzione di Faro: con il voto favorevole della Camera, l’Italia si è aggiunta infatti ai paesi che avevano già ratificato la “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società”. Questo testo potrebbe ora trasformarsi in un’arma geo-culturale utilizzabile contro il patrimonio culturale dell’Italia per le possibili interpretazioni degli Articoli 4 e 7, appunto. Dice Vittorio Sgarbi: “Cosa vuol dire? Dovremo censurare Pasolini, Céline? Come è possibile che si scriva una cosa così insensata e che ottenga anche il vostro plauso? La cultura è libera e profondamente provocatoria, la vita di Pasolini è una contraddizione costante al politicamente corretto. Dobbiamo velare, come fece Renzi, le statue romane al Campidoglio per accogliere il presidente dell’Iran? Questo è il limite a cui siamo subordinati? È chiaro che chi come noi ha una legge formidabile, che nessun’altro paese ha avuto, come la legge Bottai del 1939 sulla tutela del patrimonio, non ha bisogno di piegare il capo per assumere indicazioni da chi ha consentito globalizzazione, distruzione, sconvolgimento del patrimonio senza tutela. Noi abbiamo una sufficiente garanzia di tutela del patrimonio, che è nei principi fondamentali espressi dall’estetica italiana, da Cesare Brandi, da Roberto Longhi, da Bottai con la sua legge, e dobbiamo accettare queste lezioncine ridicole di buon senso fasullo che sono il simmetrico della persecuzione di Salman Rushdie, cioè l’idea che qualcuno deve contenere il suo linguaggio?”. E oggi in nell’Aula di Montecitorio la Lega ha protestato contro la ratifica esponendo dei manifesti raffiguranti i Bronzi di Riace con lo slogan “Nulla da nascondere”: Con l’approvazione di questa Convenzione c’è il rischio di prestare il fianco alla furia iconoclasta dell’Islam più radicale…Al di là delle critiche che avevamo già espresso, riteniamo tuttavia che non si debba buttare via il bambino con l’acqua sporca: nonostante i suoi limiti la Convenzione Faro difende il presupposto che la conoscenza e l’uso dell’eredità culturale rientrino pienamente fra i diritti umani ed in particolare nell’ambito del diritto dell’individuo a prendere liberamente parte alla vita culturale della comunità e a godere delle arti. L’articolo 2 in particolare riconosce il valore identitario del patrimonio culturale e proprio l’Italia ha un’alta capacità di attrazione culturale nel mondo: il sistema culturale in Italia rappresenta, secondo dati Symbola riferiti al 2018, 96 miliardi di euro e complessivamente muove 265 miliardi di euro, con 1,55 milioni di occupati, ma è di fronte una crisi senza precedenti. Secondo la Convenzione dell’UNESCO del 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, il patrimonio culturale immateriale “sono le pratiche, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, le abilità – così come gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati – che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, gli individui riconoscono come parte del loro patrimonio culturale”, riconoscendo quindi come meritevoli di tutela anche le arti dello spettacolo, la danza, il teatro, la musica. Ora, dal momento che negli articoli 10 e 14 la Convenzione di Faro valorizza la relazione fra patrimonio culturale e sviluppo economico e prescrive l’impegno a sviluppare le tecnologie digitali per migliorare l’accesso al patrimonio culturale, è allora opportuno impegnare il governo italiano a portare avanti iniziative, anche di carattere normativo, in sede europea per superare il sotto-finanziamento riservato alla cultura nei quadri finanziari pluriennali dell’Unione europea e promuovere iniziative, anche di carattere normativo, per la costituzione di un Fondo europeo per la cultura, che operi con i principali attori del settore creditizio nazionale e a favorire in sede europea la realizzazione di una piattaforma digitale europea per la fruizione del patrimonio culturale e paesaggistico nazionale e degli spettacoli promossi da produzioni italiane, coinvolgendo le imprese culturali e creative nazionali.
Tensione alla Camera: "Ora la parola "partigiano" è diventata sconveniente". Il centrodestra contesta duramente la presidente di turno, Maria Edera Spadoni (M5s): "Decisione partigiane". E lei replica: "Richiamo chi usa parole sconvenienti". L'affondo di Delmastro: "Ora "partigiano" è sconveniente". Francesca Bernasconi, Mercoledì 23/09/2020 su Il Giornale. Momenti di tensione sono scoppiati in Aula alla Camera, quando il centrodestra ha contestato la presidente di turno, Maria Edera Spadoni, del Movimento 5 Stelle. A far scattare le proteste è stata la decisione della Spadoni di revocare una votazione sulla Ratifica ed esecuzione della Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro, riguardante l'eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro. La revoca è stata decisa data l'impossibilità di alcuni deputati di partecipare alla votazione, essendo ancora riuniti nella commissione Finanze. La decisione non è piaciuta al centrodestra. Il primo ad insorgere è stato Simone Baldelli di Forza Italia, seguito dagli esponenti della Lega e Fratelli d'Italia. In particolare, Andrea Delmastro Delle Vedove, di FdI, ha pronunciato l'intervento più duro nei confronti della presidente Spadoni, arrivando a surriscaldare il clima già teso. Delmastro, infatti, ha accusato Maria Edera Spadoni di non saper dirigere l'Aula della Camera, assumendo decisioni "faziose" e "partigiane". A seguito di queste dichiarazioni, la presidente 5 Stelle ha richiamato all'ordine il deputato: "Se un deputato pronuncia parole sconvenienti è facoltà della presidenza richiamare all'ordine". Al che il centrodestra è insorto nuovamente: "Prendiamo atto che non si può più pronunciare la parola partigiano in Aula perchè sconveniente", ha ironizzato Bordonali della Lega. E anche Delmastro ha risposto a tono al richiamo all'ordine della Spadoni. "Lei ha ritenuto che "partigiano" fosse un termine sconveniente- ha attaccato il rappresentante FdI- Nella lingua italiana significa "seguace o fautore per lo più fazioso". E io di quello la accusavo". "Ma - continua il deputato - storicamente partigiano designa anche altro. Ma anche in quel caso io non lo definirei sconveniente". Poi, l'affondo: "Trovo disarmante il silenzio della sinistra che sente dire che partigiano è un termine sconveniente". Per il centrodestra, l'annullamento della votazione crea un precedente pericoloso, perché l'idea è che non si possanno annullare le votazioni a causa delle sedute di commissione. La presidente, però, sostiene che il voto non sia stato annullato, ma revocato e che non siano stati creati precedenti. In ogni caso, per placare gli animi dopo il duro intervento di Delmastro, la Spadoni ha detto: "Revoco il richiamo all'ordine, andiamo avanti".
Polemiche per le statue di due pesci: "Sono pornografiche". Oltre alle accuse di oscenità, le statue dei due pesci hanno ricevuto anche contestazioni relative ai soldi pubblici spesi per la loro realizzazione. Gerry Freda, Lunedì 21/09/2020, su Il Giornale. In Marocco hanno destato scandalo e ironia delle sculture raffiguranti due pesci immortalati nell’atto di fare un salto fuori dall’acqua. Le contestazioni avanzate all’indirizzo delle statue attenevano essenzialmente al fatto che le stesse avrebbero offeso la morale locale in quanto “pornografiche”. Di conseguenza, giovedì è iniziata la demolizione delle controverse sculture, realizzate da un artista rimasto nell’anonimato. I pesci della discordia erano stati ubicati all’interno di una rotatoria nella città costiera di Mehdia, nella provincia di Kénitra, nel nordovest del Paese. Obiettivo delle due sculture, di colore pesca, era rendere omaggio alle tradizioni marinare e ittiche della località citata, ma le stesse non hanno fatto altro che indignare numerosi cittadini, a causa della loro, accusavano i contestatori, “forma eccessivamente fallica”. Il motivo dominante della protesta di alcuni residenti era appunto il fatto che le statue somigliavano “più a dei peni che a dei pesci”. Altre critiche, diffuse principalmente tramite i social, hanno invece messo in evidenza i soldi pubblici che sarebbero stati sprecati dalle autorità locali per tale progetto artistico di dubbio gusto piuttosto che per iniziative ben più importanti e utili per la collettività. In particolare, un utente ha postato sul web, nel quadro delle polemiche relative alle due sculture di Mehdia, il seguente messaggio di fuoco nei riguardi dei politici del posto: “Pesci pornografici. La gente della provincia di Kénitra chiede riforme e le autorità rispondono con quelle sculture”. Mentre infuriava la protesta, molti cittadini si sono inoltre chiesti quale influente personalità locale potesse avere promosso la realizzazione di quella controversa opera artistica. Secondo molte indiscrezioni, i due pesci dalla presunta forma fallica sarebbero stati commissionati su iniziativa di Abderrahim Bouras, presidente del consiglio municipale di Mehdia. L'amministrazione della vicina città di Kenitra si è subito tirata fuori dalle polemiche, chiarendo di non avere mai condiviso o cofinanziato l'iniziativa artistica del comune di Mehdia. Fatto sta che, per placare la collera dei cittadini, le istituzioni del posto hanno alla fine deciso di eliminare la chiacchierata installazione, la cui demolizione è appunto cominciata giovedì.
Dall'islam alla patria questa "Commedia" è tutta da censurare. Altro che Charlie Hebdo! La critica più feroce a Maometto è stata prodotta non da vignettisti francesi ma da un poeta italiano, si chiamava Dante Alighieri e scrisse un lungo poema intitolato Divina Commedia. Camillo Langone, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. Altro che Charlie Hebdo! La critica più feroce a Maometto è stata prodotta non da vignettisti francesi ma da un poeta italiano, si chiamava Dante Alighieri e scrisse un lungo poema intitolato Divina Commedia che, forse per distrazione, è ancora presente nei programmi scolastici. Per distrazione o totale incomprensione del canto XXVIII dove l'autore getta i «seminator di scandalo e di scisma», tra cui il fondatore della religione islamica, nel fondo della nona bolgia. In versi tra i più sconci e impietosi dell'Inferno il profeta arabo appare «rotto dal mento infin dove si trulla», ossia dove si emettono i peti. Al confronto appaiono piuttosto rispettose, le caricature che nel 2015 causarono 12 morti nella redazione del settimanale satirico francese (il processo ai complici di quel massacro compiuto in nome di Allah si tiene proprio in questi giorni a Parigi). Il cristianissimo Dante col maomettanissimo Maometto non fa satira, non usa l'ironia, non ricorre a eufemismi e mostrandolo sventrato descrive il «tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia». Molto offensivo! Poco inclusivo! Anche Papa Francesco dovrebbe trovarvi da ridire, lui che ha firmato la Dichiarazione di Abu Dhabi, documento cattolicamente eretico e dunque mondanamente allineato in cui le diverse fedi vengono dichiarate equivalenti. Gesù e Maometto pari sono per l'ineffabile pontefice gesuita che, coi cadaveri di Charlie Hebdo ancora caldi, disse che non si deve ridicolizzare la fede altrui, di qualunque fede si tratti, e che il blasfemo «si aspetti un pugno».
Che cosa dovrebbe aspettarsi ora questo Dante Alighieri?
L'Italia pullula di statue dedicate a un siffatto islamofobo: che farne? Imbrattarle come a Milano è stato imbrattato Montanelli, abbatterle come negli Usa è stato abbattuto Colombo? I nuovi iconoclasti non se ne sono ancora accorti, di un così riprovevole personaggio, ma appena lo faranno sarà a rischio il grande monumento di Trento, simbolo dell'italianità trentina, e quello di Firenze a cui Leopardi dedicò una poesia importante. Alle orecchie contemporanee il suo poema suona insopportabilmente monoculturale, monoetnico. «Diverse lingue, orribili favelle»? Poteva scriverlo solo un reazionario insensibile al fascino del meticciato... Poi se il poeta fosse stato un sincero democratico non avrebbe collocato in Paradiso l'antenato Cacciaguida (un ultrazzista, un suprematista fiorentino), non gli avrebbe fatto da megafono quando dice che «sempre la confusion de le persone, principio fu del mal de la cittade», non gli avrebbe consentito di discriminare perfino gli abitanti di Figline Valdarno, di definire puzzolenti i contadini di Signa. Il trisavolo per giunta fu un crociato: in una Commedia riveduta e corretta, riscritta a misura di sensibilità immigrazionista da un Erri De Luca o da un Franco Arminio, dovrebbe starsene sprofondato nel nono cerchio infernale, assieme a Matteo Salvini e Donald Trump. Aleggia un nuovo Braghettone: come Daniele da Volterra coprì le nudità divenute intollerabili della Cappella Sistina, uno scrittore moralista (i succitati oppure Gianrico Carofiglio) potrebbe coprire i versi capaci di angosciare gli studenti non bianchi. «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / / non donna di province, ma bordello!» sono endecasillabi da cui trasuda imperialismo, colonialismo ante litteram: non posso credere che un simile testo sia ancora insegnato tale e quale, senza omissioni, nelle scuole di conformismo che sono le scuole italiane... Oggi la Divina Commedia non si potrebbe più scrivere: fino a quando potremo leggerla?
Dagospia il 19 settembre 2020. Dal profilo Facebook di Marco Esposito. Stefano Barigelli: La Gazzetta ha scelto una società disponibile perché come sapete la legge tutela i minori in foto quindi andava firmata una liberatoria la società aveva i bambini che vedete quel pomeriggio in cui abbiamo scattato la foto. La Gazzetta non fa i casting per la gioia degli ipocriti, siamo il giornale più antirazzista del mondo perché ci occupiamo di sport: il razzismo nel nostro mondo non esiste dai tempi di Owens
Da notizie.it il 19 settembre 2020. La prima pagina della Gazzetta dello Sport di sabato 19 settembre accoglie con la scritta “Serie A ti amo” la nuova stagione, ma sui social c’è chi non pare entusiasta della scelta di soli bambini maschi e bianchi, abbozzando critiche di stampo sessiste e razziste al quotidiano sportivo nazionale. “Serie A ti amo”: così intitola la prima pagina della Gazzetta dello Sport, in occasione della ripartenza della nuova stagione 2020-2021. L’immagine di bimbi felici (o quasi) che indossano le maglie delle 20 squadre del campionato avrebbe dovuto alleggerire i toni, ma così non è stato. Sui social gli utenti come al solito si dividono tra favorevoli e contrari alle scelte editoriali della Rosea, ma questa volta non c’entrano le dichiarazioni o specifici termini linguistici. Obiettivo della foto è quella di donare un sorriso e un’aria di spensieratezza. ma qualcuno cha voluto scovare il pelo nell’uovo. “Tutti bianchi e nemmeno una femminuccia”: questa è stata la reazione della maggior parte degli utenti su Twitter, che implicitamente accusano la Gazzetta di non aver dato il giusto spazio al mondo femminile e alla diversità etnica. I non complottisti hanno voluto difendere la scelta dell’immagine, o quantomeno concentrarsi sul vero obiettivo: un ritorno al calcio spensierato e e intriso di speranza. Già perchè a molti poi è sfuggita la frase più importante presente nel sommario: “Si gioca! Facciamo tutti il tifo per il campionato della Speranza“. L’unica parola che in questo momento di profonda crisi dovrebbe unire gli italiani, soprattutto quando di mezzo c’è lo sport più amato dagli italiani.
Da liberoquotidiano.it il 16 settembre 2020. Fausto Leali rischia la squalifica a tempo record. Il Grande Fratello Vip è iniziato con un discorso su Benito Mussolini che potrebbe costargli l’uscita dalla casa più spiata d’Italia già nelle prossime ore. Il cantautore 75enne si è infatti lanciato in alcune frasi piuttosto scivolose sul Duce: “Se fai nove cose giuste e una sbagliata, la gente ti ricorderà solo per quella sbagliata. Prendiamo ad esempio Mussolini, ha fatto delle cose per l’umanità, ma poi è andato con Hitler. Il quale nella storia era un fan di Mussolini”. Qui arriva il taglio della regia, che però ha censurato quando ormai il danno era fatto: addirittura in diretta si sono sentite anche le voci di un paio di concorrenti che davano ragione a Leali. Un episodio abbastanza sconcertante, ma non è il solo che ha caratterizzato le prime 24 ore di un GF Vip fuori controllo: prima la De Blanck è stata mostrata completamente nuda mentre si cambiava, poi la Vento ha lasciato la casa perché le mancavano i cani.
Da liberoquotidiano.it il 17 settembre 2020. Hanno fatto scalpore le parole di Fausto Leali su Benito Mussolini e Adolf Hitler al Grande Fratello Vip, il programma condotto da Alfonso Signorini su Canale 5. Ma in difesa del cantante ecco che si schiera Iva Zanicchi, ospite di Barbara D'Urso a Pomeriggio 5, sempre sulla rete ammiraglia Mediaset. "Si è espresso male. E poi quello che ha detto lui lo senti dire spesso e volentieri anche da tanta gente", ha minimizzato la Zanicchi. Per inciso, Leali aveva detto in buona sostanza che Hitler era un fan del Duce e che Mussolini inventò le pensioni e "fece tante cose buone". Contro Leali, però, si è schierata Vladimir Luxuria, ospite in collegamento: "Vero che la stazione di Milano è in stile fascista, ma da quella stazione partivano i treni che portavano gli ebrei dal campo di concentramento. Fausto Leali ha detto dei falsi storici che vanno chiariti. E mi preoccupano anche i concorrenti che hanno annuito", ha commentato. E di fatto anche la D'Urso ha preso le distanze da Leali: "Come ti viene in mente di parlare di Hitler e Mussolini dopo 24 ore?", ha tagliato corto la conduttrice.
Fausto Leali elogia Mussolini al Gf. L'Anpi: "Conoscere la storia può evitare figuracce". Dopo le esternazioni di Fausto Leali su Benito Mussolini al Grande Fratello Vip, che hanno indignato pare dell'opinione pubblica, è intervenuta l'Anpi. Francesca Galici, Giovedì 17/09/2020 su Il Giornale. Le dichiarazioni di Fausto Leali al Grande Fratello Vip sono quasi diventato un caso politico, dopo essere diventate uno dei principali argomenti di discussione mediatici nel corso delle scorse ore. A meno di 24 ore dal suo ingresso, infatti, il cantante si è lanciato in un paragone azzardato visto il contesto, disquisendo su quanto di giusto avrebbe fatto secondo lui Benito Mussolini per l'Italia durante la sua dittatura. Le parole di Fausto Leali sono rimbalzate velocemente dai social a tutti i media, con dibattiti anche in tv e sui quotidiani nazionali e anche l'Anpi in queste ore ha voluto esprimere il suo parere. Il discorso di Fausto Leali è avvenuto in un momento di grande relax nella Casa, durante il quale i concorrenti dialogavano sulla percezione del preconcetto e del giudizio verso il prossimo. "Se fai nove cose giuste e una sbagliata, la gente ti ricorderà solo per quella sbagliata. Prendiamo ad esempio Mussolini, ha fatto delle cose strepitose", ha detto il cantante a Enock Barwuah, Pierpaolo Pretelli, Massimiliano Morra e Patrizia De Blanck, che si trovavano con lui in giardino. Quali "cose strepitose" avrebbe fatto Benito Mussolini lo spiega lo stesso Leali: "Ha fatto delle cose per l’umanità, per le pensioni, le cose… Poi è andato con Hitler. Hitler nella storia era un fan di Mussolini". Fausto Leali ha eccessivamente semplificato un discorso troppo complesso da trattare con quella leggerezza in un contesto televisivo come quello del Grande Fratello. Le sue parole sono state immediatamente estrapolate e fatte oggetti di attacchi, spesso strumentali e poco argomentati, da parte degli utenti della rete. È bastato che Fausto Leali nominasse il duce per sconvolgere l'opinione pubblica e quello che, fino a quel momento, è apparso agli occhi di tutti come un uomo maturo placido e tranquillo, agli occhi di alcuni si è subito trasformato in una sorta di attivista dell'estrema destra. Non è mancato anche un commento dell'Associazione Nazionale Partigiani Italiani, l'Anpi, che raggiunta dall'Adnkronos non ha comunque speso molte parole per il cantante del Grande Fratello: "Non abbiamo nulla da dire, se non che conoscere la storia può evitare brutte figure". Domani andrà in onda la seconda puntata del Grande Fratello Vip 5 condotta da Alfonso Signorini e non è escluso che il giornalista e presentatore non affronti la tematica. Proprio Signorini, nel corso della prima puntata e a pochi minuti dall'inizio era stato paragonato al duce da Pupo, opinionista del programma.
Pomeriggio 5, impensabile Iva Zanicchi: "Hitler e Mussolini? Lo dicono in molti", la difesa di Fausto Leali. Libero Quotidiano il 17 settembre 2020. Hanno fatto scalpore le parole di Fausto Leali su Benito Mussolini e Adolf Hitler al Grande Fratello Vip, il programma condotto da Alfonso Signorini su Canale 5. Ma in difesa del cantante ecco che si schiera Iva Zanicchi, ospite di Barbara D'Urso a Pomeriggio 5, sempre sulla rete ammiraglia Mediaset. "Si è espresso male. E poi quello che ha detto lui lo senti dire spesso e volentieri anche da tanta gente", a minimizzato la Zanicchi. Per inciso, Leali aveva detto in buona sostanza che Hitler era un fan del Duce e che Mussolini inventò le pensioni e "fece tante cose buone". Contro Leali, però, si è schierata Vladimir Luxuria, ospite in collegamento: "Vero che la stazione di Milano è in stile fascista, ma da quella stazione partivano i treni che portavano gli ebrei dal campo di concentramento. Fausto Leali ha detto dei falsi storici che vanno chiariti. E mi preoccupano anche i concorrenti che hanno annuito", ha commentato. E di fatto anche la D'Urso ha preso le distanze da Leali: "Come ti viene in mente di parlare di Hitler e Mussolini dopo 24 ore?", ha tagliato corto la conduttrice.
Fausto Leali al Gf Vip: «Mussolini ha fatto cose buone per l’umanità». Rischia l’espulsione. Gabriele Alberti mercoledì 16 settembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Fausto Leali a rischio espulsione. Assurdo e ridicolo. L’amatissimo cantante che si è integrato benissimo con gli altri concorrenti del Grande Fratello Vip 2020 è un passo dall’essere buttato fuori dalla casa. Il motivo è stato un ragionamento pienamente legittimo pronunciato dall’artista nella casa del reality condotto da Signorini su Benito Mussolini e Adolf Hitler. Il programma sta raggiungendo vertici di conformismo degni di un “Di martedì” od “Otto e mezzo” della Gruber. Non è sfuggita una frase pronunciata da Fausto Leali. Il discorso è caduto su Benito Mussolini e afferma: “Ha fatto delle cose per l’umanità, le pensioni. È andato poi con Hitler. Nella storia, Hitler era un fan di Mussolini”. In sottofondo si sono udite anche voci di gieffini non inquadrati che commentavano: “È vero”. Questo era il succo del discorso: “Se fai nove cose giuste e una sbagliata, la gente ti ricorderà solo per quella sbagliata, prendiamo in esempio Mussolini…”. Ecco, per il solo fatto di avere pronunciato il nome del capo del fascismo la produzione è andata in tilt. Senza seguire il filo del discorso, visto che Fausto Leali non è certo un nostalgico, né è andato al Gf vip per fare propaganda politica. Rischiare la squalifica per questa frase è semplicemente ridicolo. “Se fai nove cose giuste e una sbagliata, la gente ti ricorderà solo per quella sbagliata. Prendiamo ad esempio Mussolini, ha fatto delle cose per l’umanità, ma poi è andato con Hitler. Il quale nella storia era un fan di Mussolini”. E’ vero che il capo del nazismo ammirasse il Duce, non sembra una grande verità scandalosa. Eppure a quel punto la regia ha cercato di mettere una pezza, tagliando anche il vociare di qualcuno che diceva : E’ vero”. Mandando la pubblicità. Che si arrivi a censurare un concorrente per un’opinione tutto sommato più volte ascoltata -tra l’altro condivisa da alcuni presenti- quando il programma ha già raggiunto vette di tresh indecoroso, è il colmo.
Da "liberoquotidiano.it" il 20 settembre 2020. Ora, per Fausto Leali, l'espulsione dalla casa del Grande Fratello Vip (il reality condotto da Alfonso Signorini su Canale 5) è davvero vicina. Dopo le polemiche a tempo record per le controverse frasi su Benito Mussolini ed Adolf Hitler, ecco il "bis" del cantante sulla parola "negro". Parlando con gli altri inquilini, infatti, ha usato in modo disinvolto la parola "negro", stigmatizzata però dagli altri concorrenti del Gf Vip. A quel punto, stizzito, Leali ha replicato: "Ma dai smettila... nero è il colore, negro è la razza". A quel punto è intervenuto Enock Barwuah, fratello minore di Mario Balotelli, che ha puntualizzato: "Però da casa ci guardano. Non deve passare 'sta cosa del negro, sennò diventa una cosa comune". A quel punto Leali fa una mezza retromarcia: "Assolutamente, gli uomini di colore sono i bianchi". Dunque rincara: "Allora cosa devo fare con la canzone Angeli negri, la cancello?", chiede. Così si inserisce Patrizia De Blanck: "Neri devi dire. Ora ti fanno la stessa cosa di Mussolini, mo so cazzi", ha chiosato come sempre in modo piuttosto genuino. Ma Fausto Leali non arretra: "La canzone è nata anni fa, che colpa ne ho io?". E ancora, il fratello di Balotelli: "Ho capito cosa vuoi dire, ma e una parola che non deve essere detta, sennò la gente pensa che è normale, ma è non è normale perché se a me la dicono per strada mi dice quella cosa lì...", lascia in sospeso la frase. Ma sui social sta già montando la polemica, feroce, contro Fausto Leali: in molti chiedono a gran voce la sua espulsione.
"Nero è il colore, negro è la razza". Fausto Leali ancora nella bufera. Ancora un discorso scivoloso per Fausto Leali, di nuovo al centro della polemica per le sue esternazioni all'interno della Casa: stavolta per lui l'accusa è di razzismo. Francesca Galici, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. È ancora polemica su Fausto Leali dopo le sue esternazioni sul fascismo e su Benito Mussolini. In serata, infatti, il cantante si è addentrato in un altro discorso sdrucciolevole che rischia di riportarlo al centro dell'attenzione mediatica. I social si sono già scagliati contro di lui, stavolta colpevole di aver utilizzato la cosiddetta n-word all'interno della casa del Grande Fratello. Il cantante si trovava in Casa a discutere con i suoi compagni di avventura, una situazione comune durante il reality. Nel gruppetto riunito nel grande soggiorno della Casa, oltre a Fausto Leali, c'erano anche Dennis Dosio, Patrizia de Blanck, Tommaso Zorzi, Adua Del Vesco ed Enock Barwuah. Proprio il fratello di Mario Balotelli è stato al centro della discussione, perché il fulcro del discorso è stato per diversi minuti il concetto di razza. Un argomento scivoloso che ha portato Fausto Leali a pronunciare la frase che è stata poi ripresa sui social con l'intento di attaccarlo: "Nero è il colore, negro è la razza". Poche parole, che sono bastate a scatenare un nuovo focolaio di accuse contro il cantante. I concorrenti all'interno della Casa si sono immediatamente resi conto di quanto detto da Fausto Leali, tanto che Tommaso Zorzi si è subito messo le mani nei capelli. L'influencer conosce molto bene le dinamiche dei social e ha capito che quella frase, detta in quel modo, avrebbe potuto far nascere un vespaio di polemiche, cosa che è puntualmente accaduta. Enock Barwuah ha ribattuto all'istante, invitando Fausto Leali a evitare l'utilizzo di certi termini all'interno della Casa per non lanciare messaggi fuorvianti ai giovanissimi in ascolto. Dal suo punto di vista, invece, Fausto Leali ha provato a difendere la sua scelta di utilizzare certi termini, spiegando alle giovani leve delle Casa, poco più che ventenni, che per tanti anni, e fino a poco tempo fa, in Italia quello era un termine come un altro, utilizzato tranquillamente nel dialogo quotidiano. A tal proposito, il cantante ha portato come esempio uno dei suoi successi del passato, Angeli negri, prodotto nel 1999. "Che nessuno mi venga a dire che sbaglio a incazzarmi, se le cose non le senti sulla tua pelle non lo puoi sapere. Io e la mia famiglia ci combattiamo su ‘ste cose qua, da sempre. Fuori avrei reagito malissimo, ho paura di come potrei reagire qua", ha sbottato Enock Barwuah, secondo il quale Fausto Leali è stato razzista, motivo per cui è probabile che domani sarà la sua nomination.
"Nero è il colore, negro è la razza", Fausto Leali squalificato dal Gf Vip. Fausto Leali espulso dal Grande Fratello per utilizzato la parola "negro" all'interno della Casa, riferito a Enock Barwuah in un contesto discorsivo. Francesca Galici, Lunedì 21/09/2020 su Il Giornale. La terza puntata del Grande Fratello Vip, la seconda del lunedì, deve affrontare lo spinoso caso di Fausto Leali. Il cantautore si sta mostrando senza filtri all'interno della Casa e il suo comportamento, però, sta causando alcuni malumori sui social a causa di alcune sue esternazioni.
Gogna mediatica per Leali. Già venerdì scorso, infatti, il cantante è stato ripreso da Alfonso Signorini per alcune frasi relative a Benito Mussolini e al fascismo. In queste ore, però, il cantante si è addentrato in un altro discorso spinoso e ha apostrofato con la n-word il fratello di Mario Balotelli, Enock Barwuah, scatenando feroci polemiche all'esterno della Casa. Se per il richiamo al fascismo, Fausto Leali è stato solamente ammonito, stavolta la produzione ha deciso di squalificare il concorrente. Essendo il Grande Fratello un programma popolare, con un pubblico spesso molto giovane, quindi sensibile, gli autori avrebbero deciso di allontanare dalla Casa il cantante, sia come gesto dimostrativo, sia per evitare in futuro ulteriori episodi di questo tipo. In una sola settimana, Fausto Leali ha toccato due temi sui quali gli italiani di oggi sono particolarmente suscettibili. Dure le parole di Alfonso Signorini contro il cantante. Il conduttore ha stigmatizzato il comportamento del concorrente e motivato la sua esclusione, senza però classificare Leali come fascista o razzista, come qualcuno sui social ha azzardato, ma etichettando le sue parole come "leggere". "Nero è il colore, negro è la razza", ha detto Fausto Leali sabato sera, giustificando così il suo apostrofare Enock come "negro". Il cantante ha provato a spiegare il suo punto di vista, ragionando sul significato che quella parola, da sempre, ha nella lingua italiana e ricordando che lui stesso, diversi anni fa, ha composto una canzone dal titolo Angelo negro. Primi minuti di puntata dedicati a un monologo di Signorini sull'etimologia della parola "negro", prima di entrare nella Casa per un recap e per parlare direttamente con Fausto Leali. "Non si può più utilizzare questa parola nel mondo", dice il conduttore al cantante. "Non possiamo permettere che un programma questo, certe parole, questa parola in particolare, possa essere usata con leggerezza", insiste Alfonso Signorini. Ovviamente, Fausto Leali si difende e spiega le sue ragioni: "Io con il razzismo non c'entro niente. C'era una bella amicizia con Enock, mi spiace si sia interrotta. Sono d'accordo con te che è stata una battuta del cavolo". Anche Enock dice la sua: "Dicendolo fai passare fuori che è normale dirlo, ma non è normale". Patrizia de Blanck ha stigmatizzato la parola detta da Leali ma ha spiegato che, secondo lei, sia necessario educare col tempo le persone più mature, che nella loro generazione sono state abituate a parlare in un certo modo, in un tempo in cui certe parole erano di utilizzo quotidiano. "Io ho memoria, di Ruggero Orlando che usava il termine negro. Ha perfettamente ragione Enock quando dice che oggi non è ieri ma da parte di Fausto c'è un piccolo ritardo culturale", ha dichiarato Fulvio Abbate. "Il pubblico ti conosce bene sia come grandissimo artista, che come grande uomo. Al di là delle tue reali intenzioni, però, il peso delle parole che hai pronunciato deve avere una sola conseguenza: Fausto sei ufficialmente squalificato dal Grande Fratello", ha comunicato Alfonso Signorini. Vibranti le proteste da parte di alcuni concorrenti della Casa, soprattutto Maria Teresa Ruta e la contessa Patrizia de Blanck, che ne ha chiesto il perdono e il reintegro.
Chiara Maffioletti per il "Corriere della Sera" il 22 settembre 2020. Fausto Leali è stato eliminato dal Grande Fratello Vip . Unico epilogo possibile dopo una sola, disastrosa settimana in cui il cantante - con lo stesso candore di chi proprio non afferra la gravità di quello che dice - si è prima inerpicato in una rivalutazione in diretta tv dell'operato del Duce (che, a suo dire, avrebbe fatto «cose per l'umanità», tra cui «le pensioni»), poi, a distanza di qualche ora, nella traballante spiegazione del perché il suo aver dato del «negro» a Enock Barwuah, fratello di Mario Balotelli, non sarebbe un'offesa: «Nero è un colore, negro una razza». A nulla è valso il gelo con cui gli altri concorrenti hanno accolto le sue motivazioni (tra cui la perdibile «gli uomini di colore siamo noi bianchi perché cambiamo colore continuamente») e nemmeno la più esplicita obiezione del calciatore, 27 anni, che ha ricordato a Leali, 75, di non «usare quella parola. Non devi. Se dici una cosa del genere vuol dire che sei abituato a dirlo: noi ci battiamo per i diritti e questo non lo tollero. Siamo in tv, ci guardano, certi messaggi non possono passare perché nessuno da casa deve sentirsi giustificato a utilizzare certi termini». Ma pur tra un «certo, certo» e l'altro, Leali non si è nemmeno avvicinato a un mea culpa, aggiungendo anche: «Allora cosa devo fare con la mia canzone Angeli negri la cancello? Che colpa ne ho io?». Quella canzone era del 1968 e da allora, per fortuna, qualcosina è cambiato. La legge sul Divorzio, per dire, sarebbe arrivata solo due anni dopo. Eppure già allora avrebbe dovuto essere abbastanza chiaro quello che dopo le frasi di Leali in tanti hanno iniziato a ribadire, indignati, sui social, e cioè che esiste una sola razza, quella umana. E dire che tutto è nato da un momento leggero, di divertimento. Il che rende i contorni della vicenda se possibile più inquietanti: non solo il cantante non voleva offendere nessuno, ma era certo di non farlo quando, per sostenere Barwuah che invocava un applauso per aver lavato i piatti, ha cercato di incitare gli altri urlando: «Perché è negro non lo applaudiamo?!». E giù a ridere. Leali, seriamente, pensava di essere spiritoso. Come ancora lo pensano in troppi, magari figli di epoche in cui cantare di «un povero negro» che prega per avere un angelo del suo colore era normale, accettato. Ma siamo nel 2020 e, come ha ricordato il calciatore, «nessuno deve sentirsi giustificato a utilizzare certi termini». Meno che mai in un reality show.
Grande Fratello Vip, il "negro" di Fausto Leali: "Massacrato dal politicamente corretto, tanto rumore per nulla". Daniela Mastromattei su Libero Quotidiano il 20 settembre 2020. Ci risiamo. Fausto Leali di nuovo nel tritacarne. Dopo le frasi su Benito Mussolini, ora viene ripreso dal mondo web per aver usato il termine "negro", durante una conversazione con gli altri concorrenti del Grande Fratello Vip. E c'è già chi fuori dalla Casa ne chiede l'espulsione. Insomma il cantante rivolgendosi a Enock Barwuah, lo ha chiamato “nero”. I ragazzi gli hanno fatto notare prontamente che non ci si rivolge così ma lui ha insistito: “Ma dai smettila nero è il colore, negro è la razza“. Il discorso è proseguito e Enock ha cercato di spiegare il suo punto di vista: “Però da casa ci guardano non deve passare sta cosa del negro, sennò diventa una cosa comune”. E Leali: “Assolutamente gli uomini di colore sono i bianchi – ha ironizzato - . Allora cosa devo fare con la canzone ‘Angeli negri’, la cancello?”. Il siparietto si è chiuso con l'intervento della scoppiettante contessa De Blanck: “Neri devi dire. Ora ti fanno la stessa cosa di Mussolini mo so cazzi tuoi“. Tanto rumore per nulla. Facciamo un po' di chiarezza: il termine negro indica una persona generalmente appartenente a una delle etnie originarie dell'Africa subsahariana e caratterizzate dalla pigmentazione scura della pelle. In senso più ampio, può applicarsi ad altri gruppi etnici con caratteristiche somatiche analoghe, come ad esempio i negritos delle Filippine o gli australiani aborigeni (da Wikipedia). Cito pure l'Accademia della Crusca: «Sull’uso di negro, nero e di colore per descrivere e caratterizzare una persona, o un gruppo di persone, in base al colore della sua (o della loro) pelle si è discusso non poco, negli ultimi decenni. E tuttora si continua a discutere, a voler scorrere, in Internet, i forum dedicati al tema. Non è un caso. Perché non vi è dubbio che l’argomento e le connesse scelte linguistiche presentino alcune incertezze e insidie sia sul piano squisitamente lessicale, sia su quello dell’accettabilità o dell’interdizione sociale. Molti lo ignorano, fino agli anni Settanta, negro, nero e di colore venivano usati quasi come sinonimi e con connotazioni di significato molto simili. Subito dopo, in seguito alle lotte dei «neri» americani, alcuni traduttori hanno cominciato a bandire l’uso di negro in favore di nero, che pareva rendere più fedelmente l’anglo-americano black, simbolo e parola-chiave dei movimenti per i diritti delle minoranze negli Stati Uniti. Il resto lo hanno fatto negli anni Novanta i dibattiti sul «politicamente corretto», importato dai paesi anglosassoni. Prendiamocela con gli americani e gli inglesi invece di bacchettare Fausto Leali.
“Altissimi negri…” Io canto, e non chiamatemi razzista. Michel Dessì l'11 giugno 2020 su Il Giornale. Quando è troppo è troppo! Ora la situazione ci sta sfuggendo di mano. Non si può dire più nulla. Nulla. Altrimenti sei razzista. Con il dissenso cresce anche la censura. Hanno addirittura cancellato dal catalogo di Hbo il famosissimo film “Via col Vento”. “È un film del suo tempo che raffigura alcuni pregiudizi etnici e razziali che erano, disgraziatamente, dati per assodati nella società americana” ha detto un portavoce della celebre tv a pagamento su Variety. Speriamo solo non censurino l’Alligalli di Edoardo Vianello. Come farebbero i vecchietti in vacanza senza il ballo che da decenni li accompagna nelle serate d’estate? Soprattutto ora che si deve ballare a due metri di distanza. Io lo canto, e me ne infischio.
“Nel continente nero
Alle falde del Kilimangiaro
Ci sta un popolo di negri
Che ha inventato tanti balli
Il più famoso è l’hully gully
Hully gully, hully gu…”
Dopo la morte ingiusta e orribile di George Floyd in migliaia si sono rivoltati. Da nord a sud. Da est a ovest. Dall’America all’Italia; dalla Francia al Brasile. Nel Mondo si è accesa la lampadina del razzismo. Una scusa per molti di portare scompiglio e caos. I giornali di sinistra le hanno chiamate invasioni pacifiche. Io, in molti casi, di pacifico ho visto ben poco. La folla, dopo la morte dell’afroamericano Floyd, si è scagliata contro le statue di diversi personaggi accusati di essere “razzisti” o “schiavisti”. I manifestanti dal Minnesota a Londra, fino in Belgio, hanno preso di mira diverse effigi. Hanno scatenato tutta la loro rabbia e frustrazione su delle statue che sono state abbattute. Tirandole con delle corde. Poi, in molti casi, incendiate e buttate in laghi o specchi d’acqua. Ma che hanno in testa? Speriamo solo non lo facciano in Italia. Già si sono fatti sentire i “Sentinelli” (non so chi siano e non lo voglio sapere) questi pazzi vorrebbero abbattere la statua di Indro Montanelli. “E’ un razzista” dicono… Ma come può essere un gesto liberatorio abbattere la statua di un giornalista libero e senza padroni?
Da video.repubblica.it il 2 ottobre 2020. Il vicepresidente e assessore alla Cultura della Regione Calabria, Nino Spirlì, è intervenuto a un dibattito organizzato dalla Lega a Catania in vista del processo a Salvini per il caso Gregoretti. “Userò le parole negro e frocio fino all’ultimo dei miei giorni, in calabrese dico nigru per dire negro, non c’è altro modo”. Spirlì, che sul suo profilo si definisce tra le altre cose "Omosessuale a tempo perso e cattolico praticante", da tempo conduce una crociata contro il politically correct e l'uso della parola "gay". Prima di mostrare un rosario il vicepresidente della Regione ha coronato il suo discorso attaccando “la lobby frocia, che ti impedisce di chiamare le cose col loro vero nome”.
La provocazione. Nino Spirlì, il vicepresidente leghista della Calabria: “Dirò negro finché campo, nessuno me lo può impedire”. Redazione su Il Riformista il 2 Ottobre 2020. Forse erano parole che volevano essere una provocazione, ma le frasi pronuncia dal vicepresidente della Regione Calabria Nino Spirlì, esponente della Lega, stanno provocando un polverone politico. Facciamo un passo indietro. Dal palco di un convegno organizzato dal Carroccio a Catania, l’assessore alla Cultura della giunta Santelli si lancia in u ampio discorso sul politicamente corretto e spiega: “Non ci vogliono far dire più ‘negro’. Ma in calabrese io non ho altri modi per dirlo, in dialetto calabrese u nigru è u nigru, non c’è altro modo per dire negro. Nessuno mi può impedire di usare questo termine. Io userò le parole negro e frocio finché campo”. Non solo. Il vicepresidente leghista aggiunge parlando degli omosessuali che “nessuno può venire a dirmi ‘non puoi dire che sei ricchione perché sei omofobo’. Io lo dico e guai a chi mi vuole impedire di dire la parola ricchione per dire che sei ricchione”, afferma riferendosi a sé stesso. Poi aggiunge rivolto al pubblico: “Se esistono le ere questa è l’era della grande menzogna, siamo in mano a delle bruttissime lobby che si sono unite, hanno fatto una lobby delle lobby. Quella a cui avrei dovuto appartenere io, per esempio, è una delle peggiori: non c’è cosa più brutta della lobby frocia. Quella che dice che non devi dire quella parola, non devi avere quell’atteggiamento, se non sei comunista non sei omosessuale. Ma io ho pure un compagno, no non si può. Sei sposato? Ma siete pazzi? Avete mai visto due uomini che si sposano? Un bambino con due padri o con due madri? L’avete mai visto in natura? Avete mai visto in natura un cucciolo di cane che ha due padri che abbaiano allo stesso modo? Mi sembra una follia”. E alla fine del suo discorso, Spirlì mostra quindi alla platea il rosario che aveva in tasca, regalatogli da delle suore, invitando i giovani a frequentare le chiese.
Dagospia il 3 ottobre 2020. NINO SPIRLÌ A “LA ZANZARA”. Nino Spirlì (Lega, vicepresidente Calabria) a La Zanzara su Radio 24 : “Non mi dimetterò mai, ho detto cose sacrosante. Ricevo molti consensi”. “Mussolini ha fatto cose positive”. “Fascismo e comunismo sono la stessa cosa, uno schifo”. “Contrario a matrimonio e adozioni gay, non faccio parte della lobby frocia”. “Lobby frocia esiste e agisce per nomine e potere”. “A 24 anni sono stato stuprato, nessuno mi impedirà di dire frocio, negro e zingaro”. “Vogliono bruciare le parole come i Nazisti quando bruciavano i libri”. “Chi vuole mie dimissioni fa parte di dittatura, vogliono cancellare chi non la pensa come loro”. “Parola gay è più insultante di Frocio”. “Sono contrario a matrimonio e adozioni gay, un bambino non può crescere in coppia omosessuale”. “Vendola ha pagato un figlio, pratica nazistoide”
Nino Spirlì, Filippo Facci: se neanche un gay è libero di usare la parola "frocio". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 03 ottobre 2020. La madre di un bambino della scuola privata Faes (Milano) ieri ha fatto un casino perché in una vecchia canzoncina (forse «Il pianto di Zambo») c'era la terribile espressione «povero negretto». Ma non appartiene, questa madre, a nessuna «lobby del politically correct»: è solo conformista. Probabilmente non esistono, le «lobby del politically correct»: è appunto conformismo di maniera, caricatura del progressismo a cui una parte della sinistra e del centro (facciamo centrosinistra, anzi, sinistracentro) si ossequiano secondo autentiche mode. Sta di fatto che anche il signor Nino Spirlì in ogni caso non ne fa parte. Principalmente perché stiamo parlando di un signore che è di centrodestra, assessore della Regione Calabria. Poi perché è amico di Matteo Salvini, ma soprattutto perché dice, nel suo linguaggio comune, «negro», «frocio», «ricchione» e «zingaro». Dunque? Dov' è la novità? La novità è che secondo gli stessi canoni del «politically correct» il signor Spirlì è particolarmente patentato per esprimersi: perché non è negro, non è zingaro - per adottarne il linguaggio - ma è frocio e ricchione, questo sì, oltre ad avere la delega regionale per la Cultura. Ecco quindi un caso di scuola: sarebbe piuttosto dura sottoporre Spirlì al consueto processo alle intenzioni riservato a chiunque rifiuti la continua sterilizzazione del linguaggio. Ergo, ieri, partecipando a uno dei contro-eventi organizzati dalla Lega in sostegno politico a Salvini (indagato a Catania per sequestro di persona per il caso della nave Gregoretti), Spirlì ha detto: «Ci stanno cancellando le parole di bocca, come se utilizzando la parola zingaro volessimo dare a priori un giudizio negativo; negro è la stessa cosa, per poter dire negro io parlo calabrese e dico "mamma passa u nigru", e sapendo che in dialetto calabrese "u nigru" è "u nigru" e non c'è altro modo per dirlo, nessuno mi può dire che io, come minoranza calabrese, non possa utilizzare il termine che meglio riconosco. Così come nessuno può venirmi a dire che non posso utilizzare la parola ricchione perché omofoba: io lo dico, e guai a chi me lo vuole impedire. Per cui dirò negro, e frocio, fino all'ultimo dei miei giorni».
USI ANGLOSASSONI. E andrebbe anche bene: se fosse, la morale, che ciascuno di noi parla come gli pare. E se nessuno, d'un tratto, non facesse l'offeso per espressioni che un tempo non lo offendevano. Peccato che sia esattamente quello che succede in Italia, in accoglienza di consuetudini anglosassoni che anticipano gli orientamenti che l'Occidente di retroguardia (noi, per esempio) scopre con puntuale ritardo. In Italia ci va ancora bene, perché dire «negro» o «ricchione» in genere non produce - non ancora - conseguenze tipo licenziamenti o allontanamenti dai luoghi di lavoro: da noi, se va male, ti cacciano da qualche social network o ti arriva un esposto dell'Ordine dei Giornalisti. Altrove è molto peggio. Volete un altro caso di scuola? Nell'ottobre dell'anno scorso, in una scuola del Wisconsin, una guardia giurata «negra» di 48 anni è stata licenziata perché, nel dire a uno studente negro di non usare la parola «negro», ha pronunciato la parola «negro». Rileggete, se necessario; rivolto a uno studente ribelle che lo insultava e lo chiamava «negro», la guardia ha risposto «non chiamarmi negro» per altrettante volte. Diventò un piccolo caso nazionale e vi evitiamo gli strascichi.
RITARDO CULTURALE. Torniamo a noi involuti, noi che abbiamo ancora il problema di spiegare - chessò - a un ghanese che «negro» un tempo fu una bella e normale parola, ma che poi è scaduta ed è diventata nero (black) che poi è diventata afroasiatico o afroamericano (sette sillabe) prima di acquietarsi sul demenziale extracomunitario o immigrato di colore, espressione che peraltro ai negri non piace. Qualcuno di noi, impunito, continua a scrivere negro negli articoli e addirittura a farci dei titoli di giornale. Nella maggioranza dei vocabolari, come detto, la voce riporta: «Chi appartiene alle diverse razze del ceppo negride, originarie del continente africano». L'altra mattina in edicola vendevano le celeberrime carte «Dal Negro» e le canzoncine per bambini con espressioni scorrette (ma anche per i grandi: riascoltate «Negro» di Marcella Bella del 1975 o la celeberrima «I watussi») non sono state ancora bruciate in piazza.
Ma noi siamo in ritardo culturale, con poca o nessuna voglia - nel nostro caso - di accelerare. Come visto, abbiamo addirittura assessori alla Cultura che sono omosessuali e però dicono «frocio» e «ricchione», facendone una battaglia culturale che non avrebbe senso se altri non facessero la loro, stupidissima: «Se esistono le ere - ha detto ieri Spirlì, - questa è l'era della grande menzogna... hanno fatto una lobby delle lobbies: quella a cui avrei dovuto appartenere io, per esempio, è una delle peggiori, non c'è cosa più brutta della lobby frocia, quella che ti dice che non devi dire quella parola, non devi avere quell'atteggiamento». Il resto ci interessa poco, perché il fatto che Spirlì sia contrario ai matrimoni gay è tutto un altro discorso, al pari della sua fede cattolica. Insomma, fare una crociata sulle parole e offendere Nino Spirlì sembra complicato. Potete sempre ripiegare sul fatto che è terrone, se davvero vi sono rimaste solo le parole.
Renato Farina per “Libero quotidiano” il 5 ottobre 2020. Quando si ha davanti un libro bello e si vorrebbe lo leggessero in tanti, è buona regola mostrare quanto sia utile per illuminare un angolo di mondo. Tipo: l' autore Pinco spiega perfettamente quel che è capitato a Pallino, e che tanto vi ha colpito. Nel caso dell' opera breve e potente di Giovanni Sallusti cercare una prospettiva particolare di interesse è ridicolo. Qui è implicato l' universo grande e la molecola infinitesima. Il saggio si intitola con semplicità Politicamente corretto. La dittatura democratica (Giubilei Regnani, pagine 134, 13). Democratica è aggettivo sarcastico, dittatura è la realtà. Come il comunismo in Urss, oggi il politically correct coincide con l' aria che respiriamo, è il nome forbito dell' atmosfera sociale tirannica in cui si muoviamo ed esistiamo. Una corazza invisibile che lega la lingua e trancia i sentimenti. È la formalina in cui viene immerso qualsiasi concetto-parola-interpunzione che per essere giustificati devono germinare nel vivaio, anzi mortaio, dove ogni barlume creativo è preventivamente purificato, pastorizzato, privato del gusto unico che somiglia alla nostra identità. Altrimenti se osi discostarti sei un morto che cammina. E non sarai fiocinato nobilmente alla Moby Dick ma schifato come una mosca merdaiola.
ETICHETTA OVVIA. C'è un problema. Questa formula ("politicamente corretto") la troviamo dappertutto spesso per contestare questo filtro che amputa la libertà. Udire e riudire tale espressione la trasforma in un' etichetta ovvia, la riduce a rovescio simmetrico delle accuse di razzismo, omofobia, sessismo con cui la sinistra - e persino la destra che è supina al codice linguistico totalitario - è usa marchiare il nemico. Sallusti spiega di che «lacrime grondi e di che sangue» l' ideologia che vorrebbe farsi passare per suprema forma di rispetto del prossimo. Sallusti racconta sulla propria pelle come le reti della dittatura (anti)democratica cerchino di catturare lui, la sua vita, il suo nome, il sentimento di sé. Direbbero i filosofi che il suo libro è una specie di fenomenologia dello schiavismo contemporaneo. Egli però non si accontenta di smascherare il mostro che ci tende ovunque agguati, ma propone di sfidarlo. Il suo è un manifesto di ribellione operativa. Stanno costruendo in Parlamento una legge che trasforma in reato passibile di carcerazione la manifestazione di pensieri e parole non previsti dal vocabolario "politicamente corretto". La proposta è allora - prima che ci sbattano in galera ma anche dopo - di adoperare il libretto vietato dell' uomo bianco e cristiano, messo all' indice dai nuovi Torquemada, rispetto a cui l' originale spagnolo era una violetta timida. Dal punto di vista teoretico (il genere è quello, non è semplicemente un libello polemico) Sallusti dimostra come l' assalto alle parole - e noi di Libero ne sappiamo qualcosa - è la via breve per evitare qualsiasi confronto di idee. La parola giudicata aprioristicamente come tabù è fatta coincidere con la persona, vista perciò stesso come spregevole. Dire «famiglia naturale» squalifica nel profondo l'"io", chi usa senza vergogna e addirittura con simpatia questi lemmi è perciò stesso tenuto per appestato. Lockdown, lockdown! Funzionava così con gli ebrei: pronunciare il proprio nome e cognome era prova di delitto. In Unione Sovietica il solo nominare Dio e l' anima erano trattati quali distintivi dell' essere spie americane e giustificava nove grammi di piombo nella nuca. Da noi trattasi di totalitarismo zuccherato, laccio di seta cinese, «nichilismo gaio», secondo la definizione di Augusto Del Noce, «gulag rosé» come la chiamava Giovanni Testori, «dittatura del relativismo», sostenne Joseph Ratzinger. Non si crede in nulla, non esiste la verità, salvo quella che carica di colpa e impone la denigrazione della nostra essenza occidentale, con il suo fardello difettoso ma amato, che è il lascito di nostro padre e nostra madre. Anzi siamo noi stessi, belli o brutti: e ci rifiutiamo di gettare questo nostro dna tra i rifiuti rinnegandolo. È un prezzo che in tanti non siamo disposti a pagare per sopravvivere.
IL FILO DI ARIANNA. Tutte le persone - è bene chiarirlo- hanno un valore unico e irriducibile, identici per dignità. I guai cominciano se ti definisci per quello che senti e vedi come tuo connotato, oltre il colore degli occhi. Dice di sé Giovanni Sallusti: «Piacere, sono maschio bianco cristiano eterosessuale». Questa frase è il filo di Arianna che ci consente di uscire da questo labirinto soffocante dove il Minotauro ci insegue per sbranarci. Ognuna di queste quattro determinazioni, in fondo innocenti e descrittive, è una bestemmia flagrante per il fondamentalismo correttissimo. A ciascuno di questi attributi corrisponde un capitolo a sua volta coincidente con un articolo del codice penale istituito dal Poterazzo regnante sulle coscienze. La Psicopolizia del pensiero unico ha un suo protocollo d' ingaggio. Individuarlo al seguito di Sallusti ci permetterà di giocarcela contro il Minotauro. Chi vince non si sa, ma almeno capire le tattiche e le strategia della Bestia totalitaria aiuta.
MASCHIO. Parola-concetto tabù perché riafferma il binomio e l' alterità dei generi sessuali, un dato biologico e anatomico che il politically correct intende abolire. "Maschio" risulta particolarmente grave perché teso ad affermare la specificità, per natura machista e sessista, del genere maschile.
BIANCO. Termine maledetto, perché chi lo pronuncia senza battersi il petto rivendica l' appartenenza a una civiltà, quella occidentale, la cui esistenza e specificità sono ritenute un cancro. Il linguaggio purificato è la chemioterapia necessaria. "Bianco" infatti equivale a dichiararsi negrieri. Qui l' opera di riscrittura storica del Politicamente Corretto è massiccia, perché si tratta di negare un' evidenza, ovvero che la dignità della persona, i diritti individuali e la stessa democrazia politica sono esclusivi figli politici della civiltà occidentale.
CRISTIANO. Risulta, qualora sia addirittura accompagnato dall' esibizione della croce o del rosario, particolarmente grave perché è assimilato a crociato belligerante e assassino, se pronunciato anche solo con leggero orgoglio e gratitudine. Occorre aggiungere per non essere scotennati come membri del Ku-Klux-Klan almeno l' appellativo di "dialogante" e/o "ecumenico". Vietato alludere alle radici cristiane dell' Europa: sgarbo inaccettabile verso l' islamismo e verso i cultori dell' inesistenza di qualsivoglia radice, solo foglie al vento, diademi con l' oroscopo. Esempio indicativo tra i tanti che saranno raccontati: la scomunica a Marina Nalesso, giornalista del Tg2, perché andata in onda col Crocifisso.
ETEROSESSUALE. Parola-bomba. Rivelatrice di un fallocentrismo disdicevole. Risulta particolarmente grave perché rimanda a un rapporto tra un maschio individuato come tale e una femmina individuata come tale e perché rischia di far riemergere il nesso tra il sesso e la procreazione, che il Politicamente Corretto intende abolire. L' eterosessualità rischia poi di reintrodurre nel dibattito il concetto di "famiglia" come comunità naturale. La famiglia è l' avversario mortale in quanto crea uno spazio domestico e privato che ripara dall' Unica Ideologia e del controllo dei suoi funzionari.
CONCLUSIONE. Ribellarsi. Chi tace acconsente. Bisogna contrattaccare, smetterla con l' autocensura e gli eufemismi che - avrebbe detto Churchill - nutrono il coccodrillo nell' eterna illusione di essere mangiati per ultimi. Distruggeremo questa gabbia con le nostre bestemmie, esercitando il potere dei senza potere. Come l' ortolano di Praga che tolse dalla vetrina il cartello «Proletari di tutto il mondo unitevi» e fece impazzire il regime.
Marco Travaglio e Fausto Leali sono due razzisti, ma l’Odg sarà rigoroso come il GfVip? Redazione su Il Riformista il 23 Settembre 2020. Ieri Marco Travaglio, sul Fatto Quotidiano, ha polemizzato con Renato Brunetta definendolo mini-indovino. La parola “mini” è riferita alla statura fisica di Brunetta. “Mini” è un modo per insolentire il direttore del Riformista Economia. È come dire terrone a un meridionale, o negro a un africano, o frocio a un omosessuale. Ci si può anche passare sopra con un’alzata di spalle: che Travaglio sia razzista è indiscutibile e noto. Peggio per lui. Però c’è una coincidenza che ci ha colpito: sempre ieri, Il Grande Fratello ha deciso di espellere il mitico Fausto Leali perché ha definito negro il signor Balotelli. Il Grande Fratello ha stabilito che questo modo di esprimersi è un segno di razzismo e che il razzismo non deve entrare nella casa del Grande Fratello. L’Ordine dei giornalisti prenderà qualche misura analoga nei confronti di Travaglio? Se non lo farà, niente di male, per carità: non saremo mai noi a chiedere repressione. Solo dimostrerà di essere molto meno serio e rigoroso della giuria del Grande Fratello.
Da "ilmessaggero.it" il 15 settembre 2020. JK Rowling, la “mamma” di Harry Potter, di nuovo accusata di transfobia. Nel suo ultimo libro, infatti, il cattivo è un serial killer maschio che si veste da donna per uccidere le sue vittime. “Troubled Blood”, scritto dalla Rowling sotto lo pseudonimo di Robert Galbraith, uscirà il 15 settembre nel Regno Unito e racconta le gesta del detective Cormoran Strike, impegnato a capire cosa è successo a Margot Bamborough, comparsa nel nulla. Il detective teme che la donna sia caduta vittima di Dennis Creed, che è stato soprannominato un “serial killer travestito” per aver ucciso le sue vittime indossando abiti femminili.
La recensione. Una prima recensione del libro di 900 pagine è apparsa sul Daily Telegraph. Il critico del magazine britannico afferma che «la morale del libro sembra essere: non fidatevi mai di un uomo travestito». Immediatamente, l'opinione negativa ha fatto il giro del web e la Rowling ha visto di nuovo il suo profilo Twitter sommerso di accuse di omofobia e transfobia. Follower furiosi si sono precipitati su Twitter per condividere i loro pensieri, rendendo #RIPJKRowling uno dei principali trend Twitter del Regno Unito. In minoranza i lettori che, invece, hanno detto che «Troubled blood» non è affatto transfobico e che i detrattori sono troppo ansiosi e dovrebbero leggerlo prima di saltare alle conclusioni. Il giornalista dell'«Observer» Nick Cohen ha scritto: «Ho letto l'ultimo romanzo di Strike e dire che è anti-trans è una cazzata totale. Non posso dire perché senza rivelare il finale. Quindi finché non lo leggerete voi stessi, cosa che dovreste fare, dovrete fidarvi di me». «Non è anti-trans in quanto tale - gli risponde su Twitter un follower - ma gioca con il timore che le donne trans siano maschi cis che vogliono copiare le donne». Alché Cohen ha risposto: «Leggi il dannato libro».
La guerra degli scrittori. Nuovo manifesto firmato da 1.200 intellettuali per difendere i diritti dei transessuali. È un'altra risposta alle polemiche nate dai commenti «scorretti» di JK Rowling. Con la quale si schierarono pochi mesi fa molte personalità di...Massimiliano Parente, Domenica 11/10/2020 su Il Giornale. Vi ricordate la polemica sui trans, che non andavano chiamati i trans ma le trans, al femminile? Questione superata, siamo andati ben oltre. Abbiamo visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare, perfino Vladimir Luxuria in crisi esistenziale perché in Parlamento non poteva andare liberamente nel bagno delle donne. Problemi grossi. Ma non è finita qui. È bello perché la libertà di bagno, di pensiero e di espressione gli intellettuali se la tirano dove vogliono, a seconda dei casi. Sono intellettuali per questo, d'altra parte, cioè usano l'intelletto, invenzione degli umanisti, cosa che secondo loro uno scienziato, per esempio, non fa, ecco perché citano sempre Pier Paolo Pasolini e mai Albert Einstein, Einstein non era un'intellettuale, non usava l'intelletto, bella faccenda. In ogni caso cosa fanno gli intellettuali? Spesso e volentieri si mobilitano per la libertà, ovvio. Tipo tre mesi fa si sono mobilitati contro la dittatura del politicamente corretto e del pensiero unico, quando la scrittrice di J. K. Rowling fu accusata di transfobia perché aveva polemizzato con un articolo che per includere i trans nel genere femminile definiva le donne «persone che hanno le mestruazioni». La Rowling twittò: «Sono sicura che esistesse una parola per queste persone, aiutatemi Danne? Done? Dumne?». Secondo la Rowling l'attivismo trans stava danneggiando il concetto di donna. Si può essere d'accordo, non d'accordo, se ne può discutere, ma chiedere la censura, il silenzio è da Santa Inquisizione. O da fascisti. O da comunisti. Fate voi. Ecco dunque, all'epoca, la mobilitazione intellettuale, giustissima, in difesa della libertà di pensiero della Rowling, un vasto schieramento liberal di centocinquanta intellettuali angloamericani, da Salman Rushdie a Noam Chomsky. Di certo non transfobici, semplicemente contrari a ogni forma di censura e di cancellazione del pensiero. Bene, e ora che succede? Esattamente il contrario. Editori, giornalisti, scrittori, si mobilitano contro l'uso della parola trans, perché «le donne trans sono donne, gli uomini trans sono uomini, i diritti trans sono diritti umani». Tra i firmatari di questa lettera aperta per supportare la comunità trans e non binaria degli Stati Uniti e Canada ci sono Stephen King e Margaret Atwood, anche perché, come riporta il Guardian, «c'è un'aspra divisione riguardo i diritti dei trans nel mondo letterario». Certo che questo mondo letterario ha un gran daffare, una volta a difendere la libertà di parola, un'altra a censurarla. In ogni caso con chi ce l'hanno stavolta? Di nuovo con la Rowling, che continua a difendere l'identità del sesso delle donne e non deve esprimere le sue opinioni perché è transfobica, così è deciso, perché nel suo nuovo romanzo criminale ha inserito un serial killer che si veste da donna per attirare le sue vittime (qui è partita una contropetizione per difenderla dalla petizione contro di lei). Inoltre deve tacere «in quanto è legittimata nel mondo britannico solo perché è l'autrice di Harry Potter». Mi sfugge il senso, tra l'altro, del fatto che l'autrice di Harry Potter non possa avere pensieri, ma tanto il senso non conta molto in questi dibattiti. L'importante, ricordatevi, è firmare lettere, appelli, manifesti, strappandosi i capelli per qualcosa affinché emerga l'intelletto, l'intellettuale sotto il cuoio capelluto.
Adesso arriva pure il Netflix per gli islamisti. Daniele Bellocchio il 16 settembre 2020 su Inside Over. Ci sono Hollywood, Bollywood e Nollywood, sono questi i grandi templi dell’industria cinematografica mondiale. Produzioni statunitensi, indiane e africane. Ma, oltre a queste realtà ce n’è una che sta crescendo in modo esponenziale e lontano dai riflettori della stampa internazionale: si tratta di Kannywood, l’industria cinematografica con sede a Kano, nel nord della Nigeria, che realizza film soltanto in lingua hausa e che ha come peculiarità quella di produrre pellicole tutte conformi ai principi della legge islamica. I film realizzati nella Hollywood del nord della Nigeria trattano due temi principalmente: amore e morale e il tutto, ovviamente, è molto influenzato dalla fede musulmana. Le pellicole terminano con la scritta, nei titoli di coda, “Gloria a Dio” e inoltre, in alcune storie, viene denunciata la corruzione dei costumi delle classi dirigenti, viene sottolineata la devozione ad Allah e vengono evidenziati i comportamenti corretti di un buon musulmano. Prima di essere distribuito ogni film passa sotto il rigoroso controllo della censura religiosa che elimina tutto ciò che va contro i dettami della fede. In un’intervista comparsa sulla rivista Africa, Isma’el Muhammad Na Abba, il segretario esecutivo dell’ufficio della censura , il Kscb, Kano State Censorship Board, ha spiegato: ”Non vogliamo che ci sia contatto fisico tra uomini e donne, no baci, no strette di mano, nessuna nudità o abiti trasparenti. Temi come la prostituzione, l’omosessualità, l’adulterio o il consumo di alcolici possono essere rappresentati a patto che sia chiaro che è peccato; la danza e il canto sono ammessi ma non deve esserci contatto fisico tra uomini e donne”. La maggior parte dei film viene poi distribuita e venduta sulle bancarelle della città nigeriana e quindi in epoca di coronavirus, con i mercati chiusi e la gente costretta a restare in casa, il rischio che l’industria dei film ”halal” potesse subire un duro colpo è stato concreto. Gli amministratori di Kannywood hanno avuto però un’idea straordinaria e sono stati capaci di trasformare quella che era una condanna a morte in ciò che loro stessi oggi definiscono ”una benedizione”. I vertici di Kannywood hanno deciso di ampliare Northflix, la piattaforma di streaming online di Kannywood che, da quando le autorità a marzo hanno imposto blocchi per contenere la pandemia di coronavirus, ha visto raddoppiare il numero di abbonati, passati da 40mila a 80mila, e le entrate sono triplicate. Jamil Abdussalam, Ceo e co-fondatore di Northflix ha dichiarato all’Afp: “Il coronavirus è stato una benedizione per noi dal punto di vista degli affari, nonostante le interruzioni che ha causato all’economia globale”. Kannywood è diventata la principale fonte di intrattenimento per gli 80 milioni di cittadini dell’Africa occidentale che parlano Hausa e da quando è nato nel 1992 con solo sette società di produzione, il settore è cresciuto fino a includere 502 gruppi di produzione, 97 studi di montaggio e impiega oltre 30mila persone. “Non è stato un caso, ma il risultato di una strategia aziendale consapevole”, ha aggiunto Kabiru Sufi, un economista di Kano che ha attribuito il successo delle piattaforme di streaming all’astuto senso degli affari dei dirigenti e alla loro tecnologia. E il Ceo di Northflix a tal proposito ha aggiunto: ”Northflix in precedenza utilizzava il sistema pay-per-view ma è rapidamente passato agli abbonamenti a tariffa fissa capendo che in questo modo avrebbe potuto diffondesi in tutti gli angoli del mondo”. La tariffa è di appena 1.500 naira al mese, quattro dollari, e nonostante la fine del confinamento, il successo di Northflix non sembra andare incontro a una flessione. La tecnologia, si sa, è irreversibile e ora come non mai i film e le tematiche proposte dalla Hollywood dell’islam stanno raggiungendo sempre più persone e ottenendo sempre maggior consenso e ammiratori. Da un punto di vista dell’intrattenimento non si può far altro che fare un plauso alla piattaforma di streaming nigeriana che ha saputo trasformare un momento di crisi in un’opportunità. Ma in questo caso specifico; si è certi che si può parlare solo di intrattenimento e che non ci sia invece un disegno più esteso di voler clericalizzare la società attraverso le soap e la proposizione di un immaginario halal patinato?
«Omosessualità contronatura». Potenza, bufera sulla frase di un consigliere di Fratelli d'Italia. Il 14 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Frase sessista durante il dibattito in aula per approvare una mozione contro la legge Zan sull’omotransfobia. Poi le scuse di Michele Napoli, ex Forza Italia. «Diciamocelo con chiarezza, così usciamo dagli equivoci: l’omosessualità è contro natura perché contraddice la legge naturale della vita, il diritto naturale, che è un diritto sacrosanto, la differenza tra sessi e la riproduzione della specie». A poche ore dalla tragica morte di Maria Paola Gagliano, queste le parole del capogruppo di Fratelli d’Italia nel Consiglio comunale di Potenza, Michele Napoli – un passato in Forza Italia prima di approdare a Fdi nel 2018 – durante il dibattito su una mozione contro la legge Zan, ovvero la legge contro l’omotransfobia. La mozione è stata poi approvata a maggioranza, con 28 voti del centrodestra, dall’assemblea municipale del capoluogo lucano. In pochi minuti, intanto, il video è diventato virale sui social ed è scoppiata la bufera. Poi, con una nota inviata all’Ansa, Napoli si è scusato. «Nel corso del mio intervento – ha detto – ho usato delle espressioni assolutamente infelici e mi dispiace molto per questo. Mi scuso per aver espresso male alcuni concetti e mi dispiace se le mie parole hanno offeso qualcuno. L’obiettivo del mio intervento – ha concluso – era ribadire la centralità del ruolo della famiglia naturale nella nostra società e il dovere delle Istituzioni di difenderla». I consiglieri di opposizione di centrosinistra, hanno evidenziato di aver «assistito ad un dibattito surreale, intriso di retaggi medioevali, che offende l’intelligenza e la sensibilità dei potentini (oltre che dell’intera comunità regionale)». Il gruppo «La Basilicata possibile» ha subito abbandonato l’aula per protesta e, in un un post su Facebook, Francesco Giuzio ha scritto: «Ho creduto e sperato che i consiglieri di maggioranza avrebbero votato seguendo la loro coscienza. E ho sbagliato clamorosamente. Chiedo scusa, io per loro, ai cittadini di Potenza che si vergognano come me per questa macchia indelebile sulla nostra comunità». Poi ha postato il video, ha riportato le parole di Napoli, «l’omosessualità è contro natura», e ha sottolineato: «Lo ha detto sul serio. Ma veramente meritiamo di ascoltare questi rigurgiti di oscurantismo?». Sdegno e critiche al centrodestra potentino anche dai consiglieri regionali Mario Polese (Italia Viva) e Marcello Pittella (Partito democratico).
Corato, il candidato sindaco e la frase sessista: «Ma una donna senza rossetto dove va?» Le parole del candidato sindaco del centrodestra al Comune di Corato (Bari), Gino Perrone, è stata pronunciata ieri sera in un comizio in piazza, ripreso e postato su Facebook. La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Settembre 2020. L’immagine «è il biglietto da visita della città», che deve dunque presentarsi bene, come una donna: «se una donna è bella per sua natura è bella per sua natura, ma se non si mette almeno un pò di rossetto, per addobbarsi, ma dove va?» La frase sessista, che ha suscitato più di una critica online, è del candidato sindaco del centrodestra al Comune di Corato (Bari), Gino Perrone, che l’ha pronunciata ieri sera in un comizio in piazza, ripreso e postato su Facebook. Lo spezzone infelice, in cui tra l’altro parlava dei luoghi degradati del locale cimitero, è stato ripreso e rilanciato da molti siti.
«Proprio non ci riescono a non ridurre la donna a oggetto. Oggi è la volta del candidato sindaco della destra a Corato che paragona con una battuta sessista l’arredo urbano al rossetto che una donna deve mettersi per valorizzare la propria bellezza, «altrimenti dove va?». Per fortuna non c'è Perrone che tenga, le donne libere vanno per il mondo, vestite e truccate come vogliono. E sicuramente sapranno come votare, soprattutto in Puglia e a Corato». Così la portavoce della Conferenza nazionale delle donne democratiche Cecilia D’Elia.
Nel nome del buonismo "cambiano" la Pietà: Gesù diventa nero. La Pontificia Accademia per la vita posta il fotomontaggio contro il razzismo. Ira sul web: "Non toccate Michelangelo, vade retro". Luca Sablone, Martedì 15/09/2020 su Il Giornale. Non è la prima volta che Gesù viene reso protagonista di alcune discutibili modifiche in nome dell'antirazzimo. Già nel gennaio 2018, ad esempio, Fabio Viale aveva eliminato la figura del Salvatore sostituendola con quella di un ragazzo nigeriano nudo, con gli occhi chiusi e una croce tatuata sul braccio destro. Una nuova versione della Pietà di Michelangelo promossa in occasione dell'inaugurazione della sede milanese di una galleria d'arte toscana. Ora a scatenare le polemiche è stato un tweet della Pontifical Academy Life, che ha allegato una foto con tanto di commento: "An image that is worth a speech". Un'immagine che vale un discorso. Dall'immagine si può notare che Gesù è stato "dipinto" di colore nero. La scelta del monsignor Paglia ha inevitabilmente provocato forti reazioni contrarie, anche perché non è così che si rende omaggio all'uguaglianza dei diritti umani. Taroccare un capolavoro dell'arte, custodito nella basilica di San Pietro, da molti è visto come una vera e propria offesa. Il fotomontaggio provocatorio è stato criticato da diversi siti cattolici conservatori, con l'accusa di andare a braccetto con Black lives matter. Ed è proprio sul social che si sono palesate le prese di posizione più dure: "Non toccate Michelangelo"; "Vade retro".
"Messaggio contro il razzismo". Non è tardata ad arrivare la replica della Pontificia Accademia per la Vita, che ha smentito le voci su un possibile tipo di connessione con il movimento attivista internazionale: "È una manipolazione politicizzata, quell'immagine vuole essere un messaggio contro il razzismo a trecentosessanta gradi". Fabrizio Mastrofini, il portavoce della Pav, ha voluto spiegare: "Questi commenti non sono mai casuali ma rispondo da un ordine di scuderia al quale tutti si accodano senza ragionare con la propria triste. È una triste situazione ecclesiale".
Il vescovo promuove il Gesù bambino nero: "Non c'è futuro senza integrazione". Come fa notare l'edizione odierna de La Verità, non è la prima volta che il consigliere spirituale della Comunità di Sant'Egidio crei scandalo per aver inseguito gli immigrati e il mondo Lgbt: nel 2007 fece dipingere nel duomo di Terni l'affresco di un Giudizio universale riveduto e corretto, "con vasta iconografia gay oltre a due transessuali e una coppia di omosessuali". E ovviamente spese parole al miele nei confronti di Marco Pannella, il padre della legge sull'aborto in Italia, quando morì: "Un uomo di grande spiritualità, che sa aiutarci a sperare e che ha speso la vita per gli ultimi".
Nicola Sarkozy in tv: "Scimmie e negri, si può dire ancora?". Sconcerto in diretta: "Questo è razzismo". Mauro Zanon su Libero Quotidiano il 12 settembre 2020. Per pubblicizzare il suo ultimo libro, Le temps des tempêtes, l'ex presidente francese Nicolas Sarkozy ha accettato giovedì sera anche l'invito di Quotidien, trasmissione molto seguita dalla Parigi radical-chic, in onda sul canale Tmc. Alle domande dell'intervistatore, il giornalista Yann Barthès, Sarkozy ha risposto inizialmente con il suo solito atteggiamento da piacione, suscitando anche alcuni sorrisi tra gli opinionisti progressisti presenti in studio. Ma ad un tratto, la situazione è precipitata: Sarkò, tra una battuta l'altra, ha associato infatti il termine «singes», scimmie, e «nègres», negri, come se niente fosse. Prima ha criticato «le élite, che si turano il naso, che sono come le scimmie e non ascoltano nessuno», poi si è interrotto e, convinto di risultare simpatico, ha pronunciato queste parole: «Non lo so più: abbiamo ancora il diritto di dire "scimmie"? Perché non abbiamo più il diritto di dire... Come si dice? 'I dieci piccoli soldati' ora? Si dice così. Già la società progredisce!». A nessuno è sfuggito il riferimento al celebre romanzo di Agatha Christie Dix petits nègres, che è appena stato ripubblicato e ribattezzato in francese "Ils étaient dix", con la parola "nègre" sostituita nel libro dalla parola "soldat" per volere del nipote della giallista britannica, James Prichard. E a nessuno è andata giù l'associazione maldestra avanzata dall'ex inquilino dell'Eliseo. «E così un ex presidente della Repubblica francese associa spontaneamente le scimmie ai "negri"il razzismo senza mascherina», ha denunciato il segretario nazionale del Partito socialista, Olivier Faure. Anche Ségolène Royal, ex candidata alle presidenziali del 2007, che perse proprio contro Sarkozy, ha manifestato la sua indignazione: «Ahimè, è sulla falsariga del suo deplorevole discorso di Dakar del 2007, durante il quale aveva affermato che "l'uomo africano non è entrato abbastanza nella Storia"». Audrey Pulvar, assessora di origini martinichesi del comune di Parigi, ha twittato: «Oggi non si può più dire niente ma si può mettere il segno uguale tra "negro" e scimmia, in un abissale silenzio, senza essere contraddetti. È un razzismo puro e profondo, disinvolto, naturale. In tranquillità». Accuse pesanti sono arrivate anche dal leader degli ecologisti Yannick Jadot, che ha parlato di "naufragio razzista" dell'ex capo dello Stato francese. L'unica persona che ha provato a difenderlo è stata Rachida Dati, la sua fedelissima ministra della Giustizia. Ma è stata l'unica, appunto.
L'ultima dalla Germania: i gradi dei militari saranno anche femminili. Esponenti di maggioranza e di opposizione hanno reagito esortando il governo Merkel a pensare piuttosto ai problemi veri e urgenti dell’esercito. Gerry Freda, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. Il governo tedesco, nella persona del ministro della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer, ha messo a punto una riforma intesa a rafforzare il "lessico femminile" tra i ranghi delle forze armate nazionali. Il piano è appunto inteso a istituire dei gradi militari di genere femminile, così da assicurare la parità dei sessi all’interno della Bundeswehr e scongiurare qualsiasi discriminazione ai danni delle donne in divisa. La svolta promossa dal ministero della Difesa di Berlino al fine di cancellare il “maschilismo verbale” dal mondo delle forze armate non sembra però al momento riscuotere ampi consensi. Nel dettaglio, il progetto della Kramp-Karrenbauer è diretto a introdurre, accanto ai tradizionali gradi militari di genere maschile, i loro equivalenti al femminile. Ad esempio, affianco al tradizionale vocabolo “Bootsmann” (marinaio) verrà introdotto l’equivalente femminile “Bootsfrau” (“marinaia”) e, inoltre, accanto all’abituale grado di “Maggiore” spiccherà quello di “Maggioressa”. Finora, il vocabolario degli ambienti militari ha costantemente utilizzato termini di genere maschile indifferentemente per donne e uomini. Negli ultimi anni, le donne in servizio nella Bundeswehr hanno iniziato a venire qualificate premettendo i termini “Frau” (signora) o “Madame” al rispettivo rango militare, declinato tradizionalmente al maschile (Ad esempio, “Frau Major” e “Madame Major”, ossia “Signora Maggiore” e “Madama Maggiore”). La riforma del governo Merkel per assicurare la parità di genere lessicale nella sfera militare riprende un progetto messo a punto anni fa dalla Commissione federale per le pari opportunità nell’esercito, mai tradotto però in provvedimenti concreti a causa della forte opposizione da parte delle stesse donne in servizio nella Difesa. Proprio queste hanno nuovamente alzato la voce contro il recente tentativo della Kramp-Karrenbauer di imporre dei vocaboli femminili nel contesto dei gradi militari. Le donne tedesche arruolate nell'esercito si sono appunto ultimamente coalizzate contro l’apparente riforma femminista dell’esecutivo Merkel lanciando sui social lo slogan “Gradi militari differenti in base al genere non c’entrano niente con l’emancipazione”. Sul web, molte delle promotrici della protesta hanno indicato numerose ragioni della loro contrarietà all’iniziativa del ministero. Tra queste, il tenente Wiedke Hönicke ha scritto: “L’uniforme non conosce colori della pelle o caratteri sessuali, ci rende tutti uguali, tutti camerati. Ci unisce, così come il grado militare, che è lo stesso per tutti”. La stessa ha poi concluso: “Per me, l’uguaglianza non significa gradi militari distinti in base al genere delle persone, ma vuol dire solamente uguaglianza di diritti e di doveri”. La proposta della Kramp-Karrenbauer ha suscitato le critiche anche di molti esponenti politici, sia di maggioranza sia di opposizione, che hanno reagito al piano di “femminilizzazione lessicale” accusando l’attuale ministro della Difesa di trascurare, come il suo predecessore Ursula von der Leyen, i reali bisogni dell’esercito tedesco per concentrarsi su problemi futili. La von der Leyen era stata infatti criticata in passato per non avere mosso un dito riguardo alla carenza di risorse e di armamenti efficienti patita dalla Bundeswehr, preferendo al contrario provvedimenti effimeri e meramente propagandistici come l’istituzione di asili-nido nelle caserme e l’introduzione di orari di lavoro flessibili per il personale militare. Tra i politici di maggioranza, contro la recente proposta del ministero della Difesa si è inizialmente scagliato l’esponente socialdemocratico Siemtje Möller, che ha tuonato: “Quando parlo con delle donne in divisa, loro non si lamentano per i ranghi non declinati al femminile, ma per la carenza di dispositivi di protezione adeguati, di stivali, di uniformi, e di tute della loro misura. Dei gradi con desinenze al femminile potrebbero anche sembrare carini, ma non risolvono il problema della carenza di equipaggiamenti, che danneggia soprattutto le soldatesse”. Esortazioni affinché il ministro della Difesa del governo Merkel si occupi di questioni militari più gravi e urgenti, come appunto la scarsità di risorse adeguate per la Bundeswehr, piuttosto che di rivoluzioni lessicali sono state avanzate anche da Agnes Strack-Zimmermann, rappresentante della forza di opposizione Partito Liberale Democratico (Fdp). Per il momento, la Kramp-Karrenbauer non ha reagito pubblicamente al coro di critiche, ma dovrà prendere una decisione definitiva sul piano di riforma lessicale delll'esercito non oltre la fine della prossima settimana.
"Questo film incita alla pedofilia". È bufera contro Netflix. Un film francese distribuito da Netflix è stato criticato perchè, secondo gli utenti del web, inciterebbe alla pedofila e sessualizza il corpo delle minorenni. Alla protesta più di 660mila persone. Carlo Lanna, Venerdì 11/09/2020 su Il Giornale. Il colosso dello streaming mondiale da giorni è nell’occhio del ciclone. Lo scorso 9 settembre sul catalogo di Netflix è stato condiviso il film Cuties, produzione francese che è stata molto apprezzata al Sudance Film Festival, tanto da vincere il premio come Migliore Regia di un drama straniero. Anche se baciato dalla critica, il lungometraggio non è stato mai accolto positivamente dal pubblico. Fin da quando il trailer e il post è stato diffuso sui canali social di Netflix, Cuties ha ricevuto diverse critiche. Nelle ultime ore, però, la situazione è sfuggita di mano, tanto è vero che molti utenti, ora chiedono la rimozione del film dal catalogo di Netflix perché "sessualizza il corpo delle minorenni" e perché risulta essere un "film che incita alla pedofilia". La vicenda ha scatenato una vera e propria bufera che si abbattuta come un tornato sul colosso dello streaming. Il web accusa Netflix di aver realizzato un film con scene di balli sensuali di ragazzine di appena 11 anni in uno show che è chiaramente indirizzato a un pubblico di soli maggiorenni. Le accuse hanno fatto calare a picco che quotazioni della compagnia che perde 9 miliardi in borsa in un giorno solo. Il caso che è stato soprannominato "tutti contro Netflix" è iniziato poche ore fa, quando la piattaforma lancia il film. La commedia francese, scritta e diretta dalla franco-senegalese Maimouna Doucouré al suo debutto in campo cinematografico, racconta della vita di Amy, ragazzina senegalese che si unisce alla scuola di danza della scuola soprannominata appunto "cuties", (in lingua originale "mignonnes"), prendendo confidenza con la sua femminilità ed entrando in conflitto con una famiglia dai valori tradizionali musulmani. Non è la storia ad aver scatenato la bufera, ma è una scena del film che ha fatto insorgere gli utenti e il pubblico dei social. Come quella di un ballo fin troppo sensuale, che secondo gli utenti, è impensabile per delle ragazzine di 11 anni. E su Twitter c’è chi afferma che il film "incentiva la pedofilia", e chi si scaglia contro gli adulti i quali, durante le riprese, "non avrebbero visionato su quanto stava per accadere sul set". E cosi con l’hashtag #cancelnetflix, più di 660mila persone si sono uniti al coro dei dissidenti. Il film però viene difeso a spada tratta dalla critica la quale afferma che "la volontà era proprio quella di denunciare un ambiente che può iper-sessualizzarsi, quello della danza, soprattutto in un'età in cui le giovani farebbero di tutto per integrarsi". Ma l'hashtag è ancora in tendenza e le richieste sono moltissime di cancellare da Netflix "una produzione pericolosa" resiste anche nella giornata di oggi. Non resta che attendere i prossimi risvolti sulla questione.
La nota di Netflix. Poco dopo Netflix ha diffuso una nota per spiegare ciò che è accaduto: "Cuties è un racconto sociale contro la sessualizzazione dei bambini. È un film pluripremiato e una storia potente sulla pressione che le giovani ragazze subiscono sui social media e dalla società man mano che crescono - e incoraggiamo chiunque abbia a cuore questi temi così importanti a guardare il film ".
L’Egitto ha deciso: demolire le piramidi. Michele Serra su L'Espresso" il 13 settembre 2020. A che punto sono la “cancel culture” e il dibattito annesso? È stato giusto verniciare di rosa la statua di Indro Montanelli a Milano, migliorandola molto? Perché abbattere, a Bristol, la statua di uno schiavista inglese e non l’intera Bristol, costruita casa per casa con i soldi della tratta degli schiavi e con la rapina delle Colonie? Oltre all’autobiografia di Woody Allen e ai suoi film, va sequestrato anche il suo clarinetto? Rimuovendo da Punta Dogana l’opera dell’uxoricida-suicida Saul Fletcher non gli avranno fatto un favore postumo, visto che l’opera era veramente brutta e l’unica offerta d’acquisto era di cento euro, trattabili? E perché mai numerosi omini Michelin eretti in mezzo mondo dovrebbero farla franca, considerando che il trasporto su gomma è tra i maggiori responsabili dell’inquinamento e dell’effetto serra? Che cosa abbattere? Che cosa conservare? Le piramidi È iniziata in Egitto la demolizione delle piramidi, millenario monumento allo schiavismo, al potere assoluto e alla televisione trash, che deve almeno la metà del suo fatturato a programmi che spiegano che sono state costruite dagli alieni e potrebbero decollare da un momento all’altro. Il problema è che l’appalto per la demolizione è stato vinto dalla Tutmosi Brothers, che in osservanza delle regole stabilite dalle Belle Arti del Cairo utilizza l’antico protocollo edile “oh issa!”: migliaia di schiavi spostano a mano i massi e li riportano a valle, servendosi di funi e slitte di legno, rimettendoli nella stessa cava dalla quale furono estratti più di quattromila anni fa. Di qui nuove accuse di schiavismo e un conseguente problema, molto dibattuto sui social: come si demolisce una demolizione, qualora sia chiaro che questa demolizione calpesta i diritti e lede la dignità della manodopera impiegata? La polemica investe, di riflesso, anche l’abbattimento della statua del vecchio schiavista di Bristol: è stata abbattuta rispettando le misure di sicurezza? E i cocci sono stati rimossi secondo legge, e smaltiti negli appositi cassonetti per residui monumentali? Cattedrali gotiche Costruite con il sangue di milioni di operai, sono per giunta considerate gravemente discriminatorie nei confronti delle persone basse, che al cospetto di quelle guglie altissime si sentono a disagio. Nell’impossibilità di abbatterle - sarebbe troppo costoso - si fa strada sui social più radicali l’idea di capitozzarle, riportandole a un’altezza più rispettosa delle minoranze. In segno di dialogo il governo francese ha proposto la distribuzione gratuita di trampoli per i diversamente alti, da distribuire all’entrata delle principali cattedrali del Paese. La Grande Muraglia Le autorità cinesi hanno fatto sapere che non se ne parla nemmeno: la Muraglia rimane al suo posto, anche se è ormai comprovato che non è stata costruita rispettando le quote rosa, che nella Cina di duemila anni fa erano conosciute solo come un piatto della cucina tradizionale. Anche se la sua struttura a una sola corsia non è adeguata alle esigenze della Cina moderna, Pechino fa sapere che non è vero, come sostiene il sito noncelovoglionodire, che la Muraglia sia in concessione ai Benetton e a Società Autostrade. L’opera è di molto antecedente, e lo dimostra l’ottimo stato di conservazione. Condomini degli anni Settanta Specie quelli piastrellati e con le balaustre dei balconi in alluminio e cacca di piccione, sono considerati uno dei manufatti più brutti della storia umana. Ed è su questo punto che sui social si è accesa una appassionata discussione. Abbatterli tutti, con gli abitanti dentro, come sostengono alcuni siti di architettura radicale, accusati di ricevere finanziamenti dai produttori di ruspe e macchine da sterro? Oppure, al contrario, abbattere tutti gli edifici belli delle nostre città, il cui evidente scopo è far sfigurare quelli brutti, come si legge nell’ appello “contro la discriminazione estetica” firmato da numerosi intellettuali, anche sobri? Decisione non semplice: tra cose belle e cose brutte, qual è la maggioranza che opprime, quale la minoranza da difendere?
Dagospia il 10 settembre 2020. Michele Serra risponde su ''Repubblica'' all'accusa di Michela Murgia sul Festival della Bellezza di Verona, dove sono tutti maschi tranne una Jasmine Trinca a fare da figurina/gettone femminile: ''alcuni di Loro, sottolinea giustamente Murgia, sono "bei nomi dell'intelligenza progressista", che ha l'indubbio onere di doversele fare, certe domande. (Gli intellettuali non progressisti sono invidiabilmente dispensati da questa e altre domande). (…) Perché non me ne ero accorto prima? Semplice: perché ero stato invitato a Verona, il 19 di settembre, per un'intervista pubblica a Gianni Morandi. Io e lui, punto e basta. Indubbiamente due maschi sullo stesso palcoscenico, ma non in numero tale da far sospettare l'assembramento (…) non sono stato invitato a un convegno di ventotto uomini, tutti insieme nello stesso posto e nello stesso giorno. Sono stato invitato a una serata in coppia con Gianni Morandi. Sto cercando di glissare? No, ho solo ritenuto giusto e interessante spiegare come sono andate le cose; perché non si pensi che un numero così cospicuo di misogini, o di grulli, abbia aderito per misoginia, o per grullaggine, a un'adunata di genere. (…) Ora però arriva la parte difficile del mio discorso. Perché mi sono dato due possibili risposte: non ci vado, perché non sono d'accordo con quel programma; ci vado lo stesso, anche se non sono d'accordo con quel programma. Sono le sole due risposte chiare. Purtroppo, sono tutte e due sbagliate. Provo a spiegare perché. La prima risposta - non ci vado - è eticamente la più limpida. Un passo indietro rispetto a una situazione certo non cercata, ma ugualmente imbarazzante. Ma ha almeno due evidenti, e gravi, controindicazioni. Primo, spegne per una sera un palcoscenico, quello dell'Arena, faticosamente riaperto dopo mesi di buio, come tutti i palcoscenici, penalizzando il lavoro tenace di molte persone e un pubblico, quello di Morandi, in larga maggioranza femminile e popolare. Per non appesantire il già ricco dibattito pro e contro la "cancel culture", mi limito a dire che sono contro la "autocancel culture". Secondo, la scelta di non andare genera, inevitabilmente, la sgradevole sensazione (sgradevolissima per un intellettuale o un artista) di una decisione presa per opportunismo o addirittura per quieto vivere, pur di non inimicarsi settori di opinione pubblica molto propensi alla sentenza secca, spesso all'anatema, piuttosto che alla dialettica. (…)
Michela Marzano per la Stampa il 17 settembre 2020. In Francia, esistono ancora dei certificati di verginità. In che senso? si chiederà senz' altro qualcuno. Tanto più che anch' io me lo sono chiesta. Scioccata di fronte alla querelle che si è scatenata oltralpe, dopo che il governo ha annunciato una legge per vietare questo tipo di certificati. Ieri, su Libération, un gruppo di medici e ginecologi ha infatti pubblicato un appello chiedendo all' esecutivo di ripensarci. E la Francia si è spaccata. I firmatari del testo - va precisato - non sono affatto favorevoli alla pratica, che giudicano anzi barbara, retrograda e sessista: il certificato viene in genere richiesto dai genitori o dai futuri sposi di giovani donne cui viene allora controllata l'integrità dell'imene. Ma questi medici e ginecologi sostengono anche che, quando sono loro a fornire i certificati, salvano la vita a ragazze fragili, sole, impaurite e oppresse. E che una legge che impedisca loro di continuare a farlo implicherebbe solo un peggioramento della situazione per tutte coloro che, non potendo proteggersi da sole, sarebbero probabilmente costrette a recarsi all' estero o a sottomettersi a visite clandestine. E quindi? Continueranno senz' altro a chiedersi in tanti. Quindi la proposta dei firmatari della petizione contro la proposta di legge è quella di non vietare, ma educare, al fine di dare strumenti a tutti e tutte per modificare stereotipi e comportamenti. Una sorte di male minore. Come se sul piatto della bilancia ci fosse, da un lato, il diritto all' intimità e alla privacy e, dall' altro, il diritto alla salute. Io, però, ho qualche dubbio che le cose stiano esattamente così. Nonostante sia sempre in prima linea per difendere la necessità di superare attraverso l' educazione i problemi legati al sessismo, al non rispetto dell' uguaglianza e ai fondamentalismi piuttosto che obbligare per legge a modificare certi comportamenti, questa volta non ce la faccio proprio a essere contraria a questa proposta di legge sui certificati di verginità. Sono estremamente sensibile al rischio che possono correre tante giovani donne, e penso che si debba escogitare tutti insieme il modo migliore per proteggerle. Ma sono anche convinta che la legge abbia sempre un valore simbolico, e che vietare qualcosa significa quindi dare un messaggio, indicare una strada e, nel caso specifico, significare che nel 2020 questa pratica è un' inaccettabile barbarie. Non intervenire e sperare che un giorno, forse, le cose cambieranno, significherebbe avallare l' idea che una giovane donna debba sottomettersi al volere dei genitori o del futuro marito, e quindi legittimare la dominazione e la violenza e l' intrusione nella sfera intima e il non rispetto non solo del corpo ma anche della persona. Come insegno ai miei studenti universitari, non c' è un modo giusto o sbagliato di essere o di amare, anche semplicemente perché ognuno di noi è diverso e la diversità è indice di ricchezza. Ma questo non significa che non ci sia un modo giusto o sbagliato di agire o fare o comportarsi. Nulla legittima l' oppressione e la dominazione né tantomeno il non rispetto della dignità e della libertà della donna. E anche se esiste una differenza fondamentale tra norme giuridiche e norme morali, è bene che la legge vieti queste pratiche immorali, incarnando i valori della libertà, dell' uguaglianza e della fraternità che sono alla base della République.
La Francia si spacca sui certificati di verginità per le ragazze. I medici: "Sbagliato vietarli". Pubblicato mercoledì, 16 settembre 2020 da Anais Ginori su La Repubblica.it Gli attestati sono richiesti da genitori o futuri mariti: il governo vorrebbe abolirli nell'ambito di un progetto contro il "separatismo", in particolare islamico. Ma secondo molti operatori la legge rischia di mettere in pericolo le giovani più fragili. "No alla legge che vieta i certificati di verginità". Il sorprendente appello viene da un gruppo di ginecologi e medici francesi schierati contro la decisione del governo di approvare una legge per vietare questa pratica sessista, umiliante, rendendo penalmente responsabili i dottori che si prestano a rilasciare i certificati. Secondo i firmatari del testo pubblicato su Libération la proposta dell'esecutivo, che fa parte del progetto più ampio contro il "separatismo" in particolare islamico, rischia di mettere in pericolo le ragazze che vivono in famiglie integraliste. I certificati di verginità vengono rilasciati dopo un controllo dell'integrità dell'imene e vengono di solito richiesti da giovani, o piuttosto da genitori e futuri mariti. I medici firmatari sottolineano che si tratta di un fenomeno minoritario. "Siamo decisamente contrari ai test di verginità" precisano. "È una pratica barbara, retrograda e totalmente sessista. In un mondo ideale, tali certificati dovrebbero naturalmente essere rifiutati". Poi però aggiungono: "Ci capita di dover fornire questo certificato a una giovane donna per salvarle la vita, per proteggerla perché è indebolita, vulnerabile o minacciata". Secondo i firmatari approvare un bando con reato penale significa abbandonare le ragazze a pratiche clandestine, o a viaggi all'estero per ottenere comunque gli attestati, mentre oggi la consultazione è l'occasione di aiutare le ragazze "a prendere coscienza e a liberarsi dal dominio maschile o familiare". L'appello è sottoscritto tra gli altri dal direttore del reparto ostetricia-ginecologia dell'ospedale parigino Bicêtre, dalla presidente del collettivo femminista Cfcv Emmanuelle Piet e dal presidente di Gynécologie Sans Frontières (Gsf) Claude Rosenthal. Il ministro dell'Interno Gérard Darmanin, accompagnato dalla sottosegretaria alla cittadinanza Marlène Schiappa, aveva annunciato la settimana scorsa la misura appoggiandosi su una decisione dell'Ordine dei Medici. "Tale esame - ha scritto il consiglio nazionale dell'Ordine nel 2017 - non ha alcuna giustificazione medica e costituisce una violazione del rispetto della privacy di una giovane donna, in particolare quando minorenne". L'idea che nella Francia del 2020 ci siano ancora donne (e medici) che si occupano certificati di verginità, con nessun valore legale, sembra incredibile. Ma la soluzione, dicono i medici promotori dell'appello al governo, non è una legge. "Significa attaccare gli effetti trascurando la causa che affonda le sue radici nell'ignoranza e nella paura. Solo l'educazione - concludono i firmatari - permetterà l'emancipazione di queste giovani donne".
Stefano Montefiori per corriere.it il 16 settembre 2020. «Basta vestirsi normalmente e andrà tutto bene», dice il ministro dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer, sperando così di spegnere la polemica. Ma una frase che voleva essere distensiva ha rilanciato la protesta delle ragazze francesi, che lunedì hanno cominciato ad andare a scuola in crop-top (con l’ombelico in vista), minigonna, o braccia scoperte. Che cosa significa «vestirsi normalmente?», in un Paese dove il senso del pudore sembra stia cambiando e il canone finora abituale viene messo in discussione? Per decenni le donne francesi hanno potuto — se volevano — prendere il sole in spiaggia a seno scoperto, ma il 26 agosto due di loro sono state invitate a rivestirsi dai poliziotti a Sainte-Marie-la-Mer, poco lontano dalla Spagna, in seguito alle proteste di una famiglia preoccupata per il «turbamento» dei bambini. Venerdì scorso una 22enne è stata respinta all’ingresso del Museo d’Orsay a Parigi perché gli inservienti hanno giudicato il suo abito troppo scollato, e qualche settimana prima era toccato a un’altra ragazza essere bloccata all’entrata di un supermercato «Casino» di Six-Fours-les-Plages, nel Sud, perché l’agente di sicurezza la riteneva poco vestita. Accanto a questi casi straordinari, finiti sui giornali, c’è l’infinita serie di piccoli soprusi che le donne francesi denunciano con forza ormai da mesi, sull’onda del movimento #MeToo: ogni giorno, soprattutto in certe periferie ma anche nel centro della capitale e delle altre metropoli, una gonna corta viene interpretata come un invito a manifestare avances, un vestito leggero scambiato per un’allusione sessuale, una maglietta sbracciata considerata un ammiccamento che rende lecito qualsiasi commento. Che cosa sta succedendo alla Francia, il Paese che il topless lo ha inventato e che un immaginario forse un po’ sorpassato associava a una libertà femminile serena, al riparo da oscurantismi, nervosismi e frustrazioni machiste? Le liceali protestano contro regole che in un contesto normale e pacificato sarebbero di «buon senso», come dice il ministro Blanquer: non si va a scuola vestiti come in spiaggia, questo dovrebbe essere banale e valere per maschi e femmine. Il problema è che poi il richiamo alla «tenuta corretta», in tanti istituti, viene applicato solo alle ragazze, ritenute colpevoli altrimenti di distrarre i compagni, e di indurli in tentazione per colpa di abiti non sufficientemente castigati. Siamo all’eterna questione dell’uomo che molesta, o magari violenta, ma è la donna che deve dimostrare di non averlo incoraggiato. Così i social media francesi da lunedì sono pieni di foto di studentesse più o meno scollate, con cartelli che dicono «invece di coprire le ragazze educate i vostri figli», e messaggi che spiegano: «I ragazzi possono vestirsi come vogliono, mentre noi veniamo costantemente riportate alla questione della sessualità. In questi giorni ci sono 30 gradi, andiamo in giro scoperte solo perché fa molto caldo. O dovremmo metterci un maglione per fare stare tutti tranquilli?». La protesta delle studentesse delle scuole medie e dei licei francesi imbarazza anche il governo, perché se il ministro Blanquer alza gli occhi al cielo provando a minimizzare, la collega alla Cittadinanza ed ex ministra alla Parità donne-uomini, Marlène Schiappa, si schiera con la protesta: «In tutta la Francia ci sono ragazze che hanno deciso di mettersi in gonna, décolleté, crop-top o di truccarsi, per affermare la loro libertà rispetto a giudizi o atti sessisti. Da madre, le sostengo con vicinanza e ammirazione».
Da "ansa.it" il 18 settembre 2020. Il ministero dell'Istruzione tramite l'Ufficio scolastico regionale del Lazio ha chiesto un approfondimento sulla vicenda relativa al liceo Socrate di Roma nella quale la vicepreside avrebbe invitato le alunne a non indossare abiti succinti. I banchi infatti sono stati tolti per rispettare il distanziamento - si è in attesa dell'arrivo di quelli monoposto - e le gonne troppo corte, secondo la docente, attirerebbero gli sguardi dei professori e dei compagni di sesso maschile. L'osservazione non sarebbe piaciuta però alle studentesse che oggi si sono presentate in massa in gonna ed hanno affisso cartelli di denuncia contro il sessismo. "E' ovvio che le studentesse e gli studenti debbano frequentare le lezioni con un abbigliamento decoroso, in segno di rispetto verso l'Istituzione che la scuola rappresenta e verso sé stessi. Non è però condivisibile che la motivazione posta alla base di tale doverosa condotta faccia riferimento a un ipotetico e deprecabile voyeurismo dei docenti (uomini). Docenti che, peraltro, svolgono un importante ruolo educativo". Lo dice il presidente dell'Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli. "Si deve evitare - spiega il dirigente sindacale - che, a causa di un evidente e marginale incidente comunicativo, la categoria dei docenti sia percepita dall'opinione pubblica in maniera distorta e degradata e che il liceo Socrate venga erroneamente rappresentato come presidio di una cultura oscurantista. L'episodio dimostra, una volta di più, quanto sia fondamentale utilizzare le parole correttamente e consapevolmente". "La corretta comunicazione a scuola è fondamentale. Suggerire a studentesse e studenti, ma anche agli insegnanti, un abbigliamento adatto al luogo e conforme a codici di comportamento condivisi è assolutamente legittimo". Lo scrive su Facebook Vittoria Casa, presidente del MoVimento 5 Stelle in commissione Cultura a Montecitorio che sottolinea: "Viceversa è sbagliato chiedere a delle studentesse di non indossare una minigonna perché altrimenti ai professori può cadere l'occhio.
Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 19 settembre 2020. La vicepreside del liceo Socrate di Roma ha suggerito alle allieve di non andare più a scuola in minigonna, altrimenti ai professori «casca l'occhio». Succede che, in quella scuola così piena di occhi, al momento scarseggino i banchi, e le studentesse assistano alle lezioni sedute sul pavimento, dove le loro gambe scoperte attirerebbero gli sguardi concupiscenti di alcuni insegnanti. Non si ha notizia di allievi maschi a cui la vicepreside abbia chiesto di non indossare magliette a maniche corte per evitare che a qualche prof «caschi l'occhio» sugli avambracci tatuati. Il guardonismo resta una questione eminentemente maschile. E interclassista: ne soffrirebbero i professori di liceo come i coatti del sabato sera. A lasciare esterrefatti è la cura proposta dalla vicepreside. Invece di chiedere un cambio di atteggiamento ai guardoni, ha chiesto un cambio di abbigliamento alle guardate. Come se il guardonismo fosse indiscutibile e immodificabile, una specie di virus della mascolinità da cui ci si può solo proteggere: con un paio di pantaloni e domani, chissà, con un burqa. In questa storia dove gli adulti di ambo i sessi non brillano per innovazione, la figura migliore l'hanno fatta le ragazze, che hanno reagito al sopruso presentandosi a scuola in minigonna. E se a qualcuno continuasse a cascare l'occhio? Anziché coprire le gambe, si potrebbe coprire l'occhio. Arrivassero addirittura i banchi, non esiterei a parlare di salto di civiltà.
Flavia Amabile per “La Stampa” il 19 settembre 2020. «Io mi vesto come voglio». Giulia è andata a scuola in minigonna ieri mattina e lo considera «un gesto politico necessario». Se non fosse per il cellulare in mano le sue parole sembrerebbero riemergere dalle lotte femministe degli anni Settanta, e non è poi un gran segnale se un gruppo di liceali decide di organizzare una rivolta andando a scuola in minigonna riportando indietro di quarant' anni l'orologio degli obiettivi dei diritti da rivendicare. La decisione delle studentesse è di due giorni fa, dopo aver sentito il racconto di alcune ragazze del quinto anno del loro istituto, il liceo Socrate di Roma. Nessuno l'avrebbe mai immaginato, ma tutto nasce dal ritardo nella consegna dei banchi monoposto. «Ci hanno detto che la vicepreside del liceo ha chiesto di non indossare la minigonna perché in questi giorni non abbiamo i banchi, rischiamo di turbare qualche professore». Anche Bea ieri era in minigonna: «Nessuno ci ordini di coprirci, guardino il muro o la lavagna se sono messi così male che un paio di gambe sono un problema». Le parole esatte della vicepreside sono ancora da chiarire, ma su una frase le ragazze del liceo Socrate sono tutte d'accordo ed è quella che ha scatenato la protesta. Non bisogna indossare la minigonna «perché a qualche professore può cascare l'occhio». E' la frase che scatena la protesta, che fa decidere di respingere la raccomandazione non tanto per la regola quanto per il motivo. Le studentesse del collettivo Ribalta femminista, hanno lanciato un appello sui social: «I nostri corpi non possono essere oggettificati: domani (ieri, ndr) siete tutte e tutti invitati a venire a scuola con una gonna, ci vestiamo come vogliamo». Ieri mattina quindi gran parte delle studentesse sono arrivate in minigonna e hanno attaccato alcuni striscioni alle pareti della scuola per spiegare anche a compagne e compagni di liceo che cosa stava accadendo: «Non è colpa nostra se gli cade l'occhio!» «Vogliamo essere libere di esprimerci - spiega Federica - i nostri professori ci insegnano proprio questo ogni giorno. Impedirci di indossare una minigonna perché per qualcuno può essere un problema è una contraddizione, non ci stiamo e vogliamo che se ne parli. Non possono esserci richieste solo per le ragazze, diventa discriminazione, disparità di genere, maschilismo». Alla vicenda manca ancora la versione ufficiale della vicepreside. Un'indagine è in corso. La ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina ha chiesto un approfondimento attraverso l'Ufficio scolastico regionale. E Carlo Firmani, il preside del liceo, al termine di una lunghissima giornata, diffonde una nota da cui trapela il suo imbarazzo. Non ha ancora i dettagli, quindi, aspetta una denuncia con nomi e fatti precisi «per poter procedere, una volta chiarita l'identità delle persone coinvolte nel presunto episodio, nel rispetto dovuto a tutti, agli accertamenti del caso». Il preside tiene però a precisare l'attenzione del liceo « alle questioni di genere» e sottolinea che «nessuna valutazione personale, quale che sia, potrà mai ergersi a criterio discriminatorio nei confronti di chicchessia». Promette comunque «un'ampia riflessione collettiva», I docenti smentiscono divieti: «Sulle minigonne al Socrate mai alcun veto», fanno sapere e esprimono solidarietà alla vicepreside. La presidente della commissione Scuola e pari opportunità del consiglio regionale del Lazio Eleonora Mattia (Pd), ha preso le distanze dalle parole della vicepreside, che «nascondono il germe di un proibizionismo per lo meno insidioso» e ha annunciato di voler convocare il preside e la vicepreside del liceo Socrate. «L'episodio dimostra, una volta di più, quanto sia fondamentale utilizzare le parole correttamente e consapevolmente», commenta il presidente dell'Associazione nazionale Presidi, Antonello Giannelli. Secondo Mario Rusconi, presidente dell'Anp del Lazio: «Il problema, purtroppo, viene da lontano: in questi anni abbiamo dato troppa importanza all'istruzione e troppo poca all'educazione del cittadino». La vicenda del liceo Socrate infatti non è l'unica. Pochi giorni fa, in una scuola elementare di Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi, la dirigente scolastica ha tentato di imporre un dresscode agli scolari, in pantaloni per i maschi e gonna per le femmine.
Erica Dellapasqua e Ester Palma per il “Corriere della Sera - ed. Roma” il 21 settembre 2020. C'è una studentessa che scrive al Corriere della Sera . E ci sono i rappresentanti degli studenti, o perlomeno di una parte consistente dei ragazzi, del liceo classico e scientifico Socrate che redigono una lettera per esprimere sostanzialmente lo stesso concetto: la frase della vicepreside che avrebbe invitato le ragazze dell' istituto a non indossare minigonne - perché, vista l' assenza dei banchi legata all' emergenza Covid, «se no ai prof cade l' occhio» - sarebbe stata totalmente fraintesa. Un misunderstanding che avrebbe poi innescato «la conseguente risposta spontanea delle ragazze e dei ragazzi della nostra scuola», si legge nella missiva sottoscritta dai ragazzi. Che prosegue: «La questione è stata risolta con la professoressa e con la dirigenza, perché la comunità scolastica tutta condivide una serie di valori fondamentali e fra questi c' è proprio l' anti sessismo». Anche Iris Maria Greco, studentessa dell' ultimo anno nel noto liceo della Garbatella ribadisce, scrivendo al Corriere, che «le parole della professoressa sono state totalmente strumentalizzate e una semplice questione di decoro è stata trasformata in un inno al progressismo e in una lotta per i diritti, accusando i nostri docenti maschi di essere dei pervertiti. Le cose nella realtà non stanno così, tuttavia a causa della cattiva informazione che ha favorito la divulgazione di queste erronee informazioni, la scuola e i nostri professori si trovano sotto accusa in una situazione assurda». Iris si schiera quindi senza mezzi termini dalla parte della docente di Educazione fisica e vicepreside accusata di sessismo nei confronti delle studentesse. E sottolinea al telefono: «È stato tutto un fraintendimento, una questione che avrebbe dovuto restare interna alla scuola, non finire sui giornali e in televisione. E oggi molti di noi, studenti e professori del Socrate, proviamo una grande amarezza». Ecco il suo racconto: «La nostra situazione in questo inizio anno è molto difficile a causa delle nuove regole imposte dal Covid. Non abbiamo ancora i banchi che pare arriveranno solo a fine ottobre, stiamo sulle sedie. E nelle aule fa ancora molto caldo, per cui tante ragazze indossano abiti leggeri e minigonne. Per questo la prof ci ha consigliato, solo consigliato, di evitarle, per non offrire ai docenti, che sono, e tengo a precisarlo, maschi e femmine, lo spettacolo del loro intimo per cinque ore di seguito, tutto qui. Perché non sarebbe consono all' ambiente scolastico. È decoro, non sessismo». La questione sarebbe partita da alcune ragazze della classe che si sono sentite offese dalle sue parole e hanno protestato. «Ma se ne avessero parlato con lei, prima di far scoppiare il caso, sono sicura che la cosa sarebbe rientrata». Aggiungono, infine, i rappresentanti degli studenti: «Giornali e tv hanno ricamato sulle parole della prof manipolandole e ritraendo un Socrate che non è quello che viviamo». Ma è sulle «vere» problematiche che sembrano essere tutti d' accordo e «chiudono» il caso con una domanda: «Cara Ministra Azzolina, invece di fare accertamenti sulla professoressa, perché non viene a farli nella nostra scuola? Si accorgerà che non abbiamo banchi per studiare».
Arianna di Cori per “la Repubblica” il 19 settembre 2020. Chiara (nome di fantasia, ndr) è seduta al bar vicino al liceo Socrate di Roma. Rigira nervosamente tra le dita una sigaretta ormai spenta, il suo unico scudo contro una battaglia divenuta improvvisamente molto più grande dei suoi 18 anni appena compiuti. È tesa. Non si aspettava che la sua denuncia contro le parole della vicepreside («Se vi vestite così ai prof cade l'occhio», avrebbe detto la docente a una sua compagna che indossava una gonna corta), si sarebbe trasformata in un caso mediatico. Tanto che persino il ministero ora chiede accertamenti. La forza di Chiara è la consapevolezza di non essere sola. Dopo le infelici esternazioni, fatte il primo giorno di scuola, grazie al tam tam sui social, quasi tutte le alunne del liceo hanno risposto presentandosi in massa l'altro ieri con gonne e shorts. Chiara e le compagne hanno affisso un cartellone a scuola, ormai rimosso, che recita "Se gli cade l'occhio non è colpa nostra". Insieme hanno scattato una foto che le ritrae in posa, divertite. «Lo abbiamo fatto per tutte le ragazze, mica solo per quelle del Socrate - dice - a scuola vogliamo sentirci protette».
Chiara, quello che avete fatto è un gesto coraggioso. Anche il vostro preside vi ha difese: ha ribadito che la scuola non impone alcun dress code, e ha promesso di verificare l'accaduto. Non basta questo per rassicurarti?
«Sono preoccupata perché si sta scatenando un polverone assurdo. E sì, un po' temo ripercussioni, quest' anno ho anche gli esami. Leggo decine di commenti sui social di gente che parla a sproposito, ci dicono che "non stiamo pensando ai problemi veri della scuola italiana", ci accusano di aver strumentalizzato le parole della vicepreside per farle perdere il lavoro. E tutto questo mi fa male, perché tanti di questi detrattori da tastiera sono ragazze come me. Quello che abbiamo fatto è stato cercare di far emergere come le giovani donne vengono viste nel 2020. La mia è una scuola bella, aperta, progressista, che ha sempre fatto della libertà di espressione un vanto, per questo le parole della vicepreside mi hanno colpita. Non me lo sarei mai aspettato».
Ripercorriamo la vicenda. Cosa è accaduto?
«Intanto facciamo una premessa. Nelle nostra scuola - e non è certo colpa del preside o della vicepreside - non sono ancora arrivati i banchi. Passiamo la giornata appollaiate su sedie senza nemmeno i braccioli, è ovvio che la gonna può salire un po' e non c'è nemmeno il banco che ci copre. Forse la vicepreside ci avvertiva per questo motivo. Ma è una situazione già stressante per noi: devo prendere appunti sul cellulare, ogni tanto sono costretta a mettermi in ginocchio a terra per scrivere, e da quanto sappiamo staremo così almeno fino a fine ottobre. Nelle classi fa un caldo atroce, le restrizioni Covid non ci permettono di accendere i ventilatori, abbiamo misurato nelle aule addirittura 37 gradi, pensare di mettersi i pantaloni lunghi è follia».
Non devi mica giustificarti.
«Lo so, infatti da una parte so di aver fatto qualcosa di bello, non potevo stare zitta. Ma questo aggiunge altra ansia a una situazione di grande incertezza».
Torniamo al primo giorno di scuola. La vicepreside entra in aula, richiama una tua compagna, che quel giorno portava una gonna, all'esterno, le dice l'ormai nota frase "ai prof cade l'occhio". Come hai reagito quando lo hai saputo?
«La mia amica è una ragazza particolare, molto timida. Lì per lì me lo ha riferito come se nulla fosse. Ma ho continuato a pensarci per tutto il giorno. Era un tarlo. Non solo mi aspettavo da una donna più grande di me come la vicepreside un atteggiamento materno, comprensivo, mi sono anche chiesta come avrebbe reagito un'alunna più giovane, di 14 anni, non ancora strutturata. Mentre ci confrontavamo con il resto della classe abbiamo saputo che la stessa frase era stata detta anche ad altre ragazze, in altre sezioni. E così, quasi naturalmente, è nata la protesta pacifica delle gonne».
Sei già riuscita a confrontarti con il preside sull'accaduto?
«No, ormai dobbiamo aspettare giovedì prossimo, la nostra scuola è un seggio e chiuderà. Non mi tirerò indietro. E spero che sia possibile chiarire con la vicepreside che non credo abbia agito contro di noi, ma forse ci poteva far capire la situazione in modo diverso».
Che messaggio ti auguri che passi da questa vicenda, detrattori a parte?
«Siamo nel 2020. Non è possibile che ancora oggi si additi una ragazza che porta la gonna come una "facile". Le nostre mamme e nonne hanno combattuto per questo, eppure oggi siamo tornati indietro. E poi c'è un altro tema importante».
Quale?
«Così si finisce per far passare i professori uomini come dei maniaci guardoni. È un messaggio malato. Abbiamo tutti gli occhi per guardare, magari è capitato anche a me di vedere un prof giovane e pensare "è carino", tra me e me. Il pensiero non è un reato, ma esternarlo sì, in particolare in un ambiente protetto come la scuola. Non è una questione morale, né un eccesso di politically correct : è già stressante camminare per strada, con un vestito, e sentire fischi, commenti, apprezzamenti fuori luogo. Almeno in classe vogliamo sentirci libere. E a chi dice: "così si finisce per sdoganare un abbigliamento poco consono" rispondo che non è vero. Questo vuol dire svilire il ruolo educativo della scuola».
Cecilia Gentile per "la Repubblica" il 19 settembre 2020. «Viva i social. Grazie a loro un professore non può più permettersi di dire una cazzata». La scrittrice Lidia Ravera, assessora regionale alla Cultura nella prima giunta Zingaretti, esulta per la pronta reazione delle studentesse del liceo Socrate, che con ironia e determinazione hanno preso le distanze dalle raccomandazioni della vicepreside. «I nuovi banchi devono ancora arrivare e in minigonna vi si vedono le cosce. Ai professori ci cade l' occhio», aveva detto l' insegnante invitandole a coprirsi.
Ravera, cosa pensa di questa raccomandazione?
«È figlia della solita logica: la donna deve coprirsi altrimenti tenta l' uomo. Mentre è l' uomo che deve essere messo in un angolo con i ceci sotto le ginocchia».
Se l' aspettava nel 2020?
«Dimostra che la rivoluzione femminista è lenta. È come un fiume carsico: si inabissa per poi tornare fuori. La reazione delle ragazze però conferma che la rivoluzione va avanti, anche se non è conclusa».
A fare la raccomandazione è stata una donna.
«Non viviamo tempi facili per le donne. Non demonizzerei la vicepreside. Magari lo ha fatto con intenti protettivi, materni. Non è detto che sia stata mossa da atteggiamenti polizieschi. Ma ha sbagliato comunque: le ragazze hanno diritto a vestirsi come vogliono, a scuola e altrove. Piuttosto, in questa espressione "ci cade l' occhio", mi sembra di intravedere una forma di gentilezza, di benevolenza verso il genere maschile, quasi che fosse inevitabile. Della serie: metti la paglia vicino al fuoco, non può che bruciare».
La vicepreside ha sottolineato che senza i banchi davanti, le cosce scoperte sarebbero state troppo evidenti.
«Dunque i banchi come il burca. Le ragazze devono indossare i banchi».
Le studentesse sono state molto coraggiose. Non hanno avuto paura di ritorsioni.
«E questo è un fatto molto incoraggiante. Magari non sanno spiegarti bene cosa è il femminismo, però hanno introiettato un principio: che non possiamo essere giudicate attraverso l'abbigliamento, l'aspetto, l'età. Che non siamo continui oggetti del desiderio. Che non si possono dare obblighi al genere femminile per i comportamenti disdicevoli dei maschi. Io che faccio parte della generazione delle mamme e forse anche delle nonne, so quanto ci è costato tutto questo».
Molte cose sono cambiate dall' inizio delle battaglie femministe.
«Proprio in questi giorni ho trovato una mia vecchia foto di IV ginnasio, l' attuale I liceo classico: tutte le ragazze, tranne me, sono in grembiule nero. I ragazzi erano vestiti normalmente. Dunque alle elementari maschi e femmine vanno con il grembiulino: bianco le bambine, blu i bambini. Passato il periodo in cui rischi di sbrodolarti e devi proteggere i vestiti, l' obbligo del grembiule, questa volta nero, passa alle ragazze, solo a loro. I ragazzi no, vestono come vogliono. Sono tutti gesti che dicono al stessa cosa».
Anche in Francia c' è stata la stessa modalità di reazione attraverso i social di fronte alle regole del dress code prescritte da alcune scuole.
«Sono le reazioni di chi pretende rispetto. Mai nessuno contesta l' abbigliamento maschile. Nessuno dice niente ad un ragazzo che va a scuola in bermuda. La donna invece è il diavolo tentatore e deve coprirsi con un saio. Questo vuol dire che bisogna ancora continuare a ripetere umilmente e modestamente le stesse cose. Sono contenta della reazione delle studentesse del Socrate. Dimostra il loro grado di consapevolezza».
Minigonne della discordia a Roma: "Io, vicepreside femminista ho solo dato un consiglio". Pubblicato sabato, 19 settembre 2020 da Antonio Iovane su La Repubblica.it. La professoressa del liceo classico e scientifico Socrate respinge la ricostruzione che ha fatto salire le studentesse sulle barricate della rivolta anti-sessista. E spiega: "E' stato un equivoco, un fraintendimento". "Un equivoco, un fraintendimento". La vicepreside del liceo classico e scientifico Socrate respinge la ricostruzione che ha fatto salire le studentesse sulle barricate della rivolta anti-sessista. È il 14 settembre, primo giorno di scuola, i banchi monoposto non sono ancora arrivati, fa caldo e molte ragazze indossano le gonne. La vicepreside, secondo la testimonianza che ha provocato l'incidente, prende da parte alcune di loro e spiega che quella mise è provocante e a qualche professore potrebbe "cadere l'occhio". Apriti cielo: la storia vola veloce di bocca in bocca finché, per protesta, le studentesse non decidono di presentarsi a scuola in gonna sulla scia di una protesta analoga delle studentesse francesi.
Vicepreside, innanzitutto come sta?
"Ho attraversato momenti migliori".
Ci racconti la sua versione.
"Nella nostra scuola fa molto molto caldo e ragazzi e ragazze spesso hanno un abbigliamento estivo, per cui è una cosa assolutamente normale. Ma la differenza, rispetto alla normalità, è che sono seduti solo sulle sedie senza i banchi. E quindi un abbigliamento che non ha comportato mai nessun tipo di problema può diventare scomodo per le ragazze che sono costrette a restare a lungo sedute su una sedia".
E a quel punto lei è intervenuta.
"Sì, mi sono sentita di consigliare alle ragazze di indossare un abbigliamento più comodo seppure leggero che consentisse loro di stare sedute senza doversi preoccupare perennemente della posizione in cui trovavano. Tutto qui".
E quella famosa frase sui professori a cui può cadere l'occhio?
"Nessuna frase, è stato un discorso di sguardi, ho semplicemente trasmesso loro quello che stava accadendo a me in quel momento. La persona che hanno di fronte, anch'essa costretta a una posizione fissa per via del distanziamento, si può trovare durante il suo lavoro a dover decidere di direzionare il suo sguardo a destra e a sinistra, in alto e in basso. E potrebbe trovarsi difficoltà nel pensare di posare questo sguardo in un punto che gli crea imbarazzo".
Quindi il senso del suo richiamo qual era?
"Cercare di immedesimarsi nell'altro e nell'altra. Ripeto: anche nell'altra, perché questo è un discorso che vale per tutti i docenti, uomini e donne. Tutti si potrebbero trovare in una situazione di difficoltà".
Poi però si è scatenato il putiferio...
"Mi dispiace che questo equivoco non sia stato chiarito sul nascere".
Quindi per lei c'è stato un fraintendimento?
"Credo che la scuola in questo particolare momento sia ingessata in regole molto ferree. Il mio messaggio probabilmente è stato inteso come una ennesima regola, che però suonava come una ulteriore limitazione solo per le ragazze. Potrebbero aver pensato che si trattasse di una discriminazione di genere".
Nella sua scuola c'è il dress code?
"Mai, per scelta. Riteniamo che lasciare ai ragazzi la libera espressione dell'abbigliamento sia una cosa importante. Naturalmente nel limiti del rispetto per se stessi e per gli altri".
Ha ricevuto molti messaggi?
"Tantissimi, sto ricevendo la solidarietà di colleghi e amici. E questo mi dà conforto. Non vorrei diventare la portabandiera di una campagna tra divisa sì e divisa no. Non mi sento rappresentata da nessuna parte in questa diatriba".
Lei si considera una femminista?
"Non so più nel 2020 cosa possa voler dire. Sicuramente negli anni '80 lo sono stata. Nel 2020 vorrei che il messaggio fosse di una reale parità tra i generi che non passa attraverso i centimetri degli indumenti ma attraverso le possibilità che le donne accedano alle stesse possibilità lavorative degli uomini. In questo senso, da madre di due figlie, mi sento molto femminista".
Dovesse tornare indietro c'è qualcosa che non rifarebbe?
(Ride) "Alla luce di questa bufera probabilmente moltissime cose. Ma il messaggio l'avrei continuato a mandare, e lo avrei fatto accertandomi di più di come era stato recepito dall'altra parte".
Ci sarà una riflessione nella scuola su quanto accaduto?
"Sì, e va fatta insieme a persone che possano spiegarci meglio questi meccanismi".
Il ministro dell'Istruzione, Lucia Azzolina, ha detto che approfondirà. È preoccupata per come potrebbe evolvere questa vicenda?
"In cuor mio no. Il mio lavoro di insegnante l'ho sempre fatta in modo decoroso".
Stefano Montefiori per corriere.it il 10 settembre 2020. «O si copre, o lei non entra», hanno intimato i funzionari del Museo d’Orsay a una giovane donna con abito scollato. Dopo un breve litigio all’ingresso la visitatrice ha ottemperato mettendosi la giacca, e con l’amica che l’accompagnava ha contemplato, umiliata e intabarrata, nudi celebri come «L’origine del mondo» di Courbet o la «Colazione sull’erba» di Manet. Poi, il giorno dopo, Jeanne ha scritto una feroce lettera aperta, raccontando nei dettagli l’accaduto su Twitter, con lo pseudonimo Tô’. «È martedì 8 settembre, il caldo aumenta nel pomeriggio e le braccia si scoprono. Ho voglia di andare al museo d’Orsay, e non sospetto che il mio décolleté sarà un oggetto di discordia. Arrivata all’ingresso non ho il tempo di mostrare il biglietto che la vista dei miei seni turba la funzionaria incaricata del controllo delle prenotazioni, che parte salmodiando: ”Ah no, non è possibile, non si può lasciare passare una cosa simile”, mentre la collega cerca di convincerla a lasciare perdere. Chiedo che cosa stia succedendo, nessuno mi risponde ma fissano i miei seni, mi sento a disagio, l’amica che mi accompagna è sconvolta. Un altro agente, di sicurezza stavolta — i seni, quest’arma di distruzione di massa — si avvicina e mi intima ad alta voce: ”Signora le chiedo di calmarsi”. Sono calmissima, vorrei solo capire perché non posso entrare nel museo. ”Le regole sono le regole”. Arriva un altro responsabile, nessuno ha il coraggio di dire che il problema è il décolleté, ma tutti fissano apertamente i miei seni, designati alla fine con un ”questo”». «Le regole sono le regole», ripetono i funzionari. Non lo dicono, ma la famosa regola potrebbe essere l’articolo 7 del regolamento interno: «Gli utenti devono conservare una tenuta decente e un comportamento conforme all’ordine pubblico e devono rispettare la tranquillità degli altri utenti». Giudicare della decenza di un abito può essere operazione delicata, affidata alla sensibilità di chi è chiamato a farlo. La donna diffonde quindi una sua foto con lo stesso vestito, scattata qualche ora prima al ristorante dell’Hotel Meurice. Davvero quella è una tenuta indecente? Ci si aspetterebbe questa obiezione all’ingresso del Museo della rivoluzione islamica di Teheran, non all’Orsay di Parigi, città che anzi un tempo aveva fama di essere gioiosa e liberale. Ma se nella spiaggia di Pérpignan vengono multate (senza alcuna base giuridica) due bagnanti in topless, può capitare che pochi giorni dopo una donna in vestito scollato sia bloccata all’ingresso di uno dei musei più visitati al mondo. Dopo la sua denuncia, anche un’altra ragazza su Twitter ha raccontato di essere stata respinta di recente per motivi analoghi, colpevole di avere lasciato braccia e ombelico scoperti «per il caldo, non certo per esibizionismo». Jeanne protesta soprattutto contro il sessismo. «Io non sono solo i miei seni, non sono solo il mio corpo. Mi domando se gli agenti che volevano proibirmi di entrare sanno a che punto hanno obbedito a dinamiche sessiste. Non può essere il giudizio arbitrario su che cosa è decente e cosa non lo è a determinare l’accesso o meno alla cultura». Ma la questione è anche se la nozione di decenza in Francia stia cambiando, e se quei funzionari abbiano ubbidito a un nuovo canone — più severo, più castigato — ispirato al neo-puritanesimo americano o magari al concetto di «modestia» propagandato nelle periferie (e non solo) dagli islamisti radicali. In serata la direzione del museo ha preso posizione — «Siamo profondamente dispiaciuti per questo incidente e presentiamo tutte le nostre scuse alla persona coinvolta» — imputando l’accaduto a un «eccesso di zelo» dei funzionari, dipendenti di una società esterna.
Benedetta Perrilli per "d.repubblica.it" il 14 settembre 2020. Indossava un abito troppo scollato per poter visitare le sale del museo d'Orsay, a Parigi, e così una visitatrice è stata costretta a indossare una giacca per poter ammirare l'esposizione. Un gesto che ha fatto molto discutere e che non poteva non essere vendicato dalle attiviste di Femen. Le femministe, note per le loro azioni di protesta a seno nudo, si sono introdotte nel museo e hanno posato in topless, con le mascherine e mantenendo le distanze di sicurezza, mostrando sul corpo le scritte "Non è osceno" e "L'oscenità è nei vostri occhi". In un comunicato hanno spiegato la ragione della dimostrazione citando anche l'episodio delle due donne in topless a Sainte-Marie-la-Mer alle quali gli agenti di polizia hanno chiesto di indossare il costume: "Il museo d'Orsay ospita numerose opere, molte delle quali nudi femminili e maschili, così come il celebre dipinto L'origine du monde di Gustave Courbet. Per quegli agenti un abito scollato è un problema, ma non crea loro alcun problema fissare i seni di una donna e giudicare com'è vestita". Le attiviste hanno spiegato di voler combattere il pregiudizio sul corpo della donna che "ogni volta è come se venisse etichettato osceno o sconveniente" e che "solamente ricordando che il corpo non è osceno e sostenendo Jeanne (la turista allontanata dal museo) e tutte le donne vittime di discriminazioni sessiste si ferma la sessualizzazione del corpo delle donne". Jeanne, la studentessa protagonista dell'incidente avvenuto l'8 settembre al museo francese, aveva raccontato su Twitter di essere stata discriminata all'ingresso a causa del suo abbigliamento. La lettera aperta, nella quale raccontava come due agenti le avessero imposto di indossare una giacca per poter entrare nel museo, era diventata subito virale e costretto il museo a pubblicare delle scuse. Intanto la rentrée scolastica è stata segnata in Francia, oltre che dall'emergenza Covid, anche da una polemica sul dress code sessista imposto dalle scuole. Vari gruppi femministi e molti studenti hanno indetto per il 14 settembre una protesta contro la decisione di alcuni istituti scolastici (in particolare il liceo Pierres Vives di Carrières-sur-Seine) di vietare indumenti giudicati "indecenti" come shorts, minigonne e crop top. Gli stessi indumenti che chi partecipa alla protesta #Lundi14septembre ha deciso di indossare in forma ancora più audace. La protesta, nata spontaneamente sui social, ha ottenuto il sostegno della ministra Marlène Schiappa, delegata responsabile della cittadinanza, che in un tweet ha commentato: "Come madre le sostengo con sorellanza e ammirazione". A favore del movimento anche le attiviste de Les Glorieuse che spiegano: "Osate top, gonne e trucco per reagire alle loro proposte sessiste. Vi invito a farlo tutti, senza preoccuparvi del vostro genere, uomini, donne, non binari. L'abbigliamento non ha un genere e possiamo indossare quello che vogliamo. Dimostriamoglielo".
Le entrate di seno e le uscite di senno. Roberto Marino il 13 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. CHI HA visto le foto è rimasto sconcertato: tutto ha la scollatura di Jeanne, una studentessa di 22 anni, la prima persona al mondo a essere respinta all’ingresso di un museo, tranne un aspetto conturbante, malizioso, ammiccante. Il seno è abbondante, ma casto, composto, ordinato, somiglia a quello delle balie da latte ciociare, per secoli supplenti di tette per i rampolli dell’aristocrazia romana. Un seno da ciaciona, non da bonazza, senza pensieri tinti, neanche paragonabile a quelli che si vedono su certi tappeti rossi del cinema, con capezzoli al vento in cerca dello scattino portafortuna. La povera Jeanne è stata bloccata da una donna davanti al Museo d’Orsay di Parigi, la vecchia stazione adattata che ospita opere d’arte e capolavori dell’Impressionismo. Non è stato un uomo a fermarla, ma un’altra donna. Una mortificazione incredibile, un imbarazzo da trauma psicologico. Una follia. L’episodio ha fatto il giro del mondo e qualche altro museo si è subito affrettato a rilanciare, offrendo pacchetti di visite a occhi chiusi, senza stare con il centimetro in mano a contare la larghezza del décolleté. Cosa sia passato per la testa dell’addetta al controllo resta un mistero. Il Museo d’Orsay ospita un’infinità di quadri con nudi, a partire dal celebre “L’origine del mondo”, di Gustave Courbet. Secoli e secoli di arte hanno esaltato la bellezza femminile. Corpi e forme lontane dalla mercificazione della donna di oggi, risalgono a prima di Cristo: hanno attraversato i tempi portando sensualità, turbamenti, attrazione senza che mai venissero considerati sconci, volgari. L’incredibile episodio di Parigi ci riporta in epoche buie. E il fatto che sia stata proprio una donna a spalancare la porta della fobia per la nudità femminile crea molte perplessità. Persino l’Italietta appena uscita dal boom economico, con i vigili urbani a misurare sulle spiagge i bikini e i pretori bacchettoni e ipocriti, con le forbici pronti a sequestrare film e riviste scollacciate, non ha mai avuto esitazioni nell’esibire la bellezza nuda arrivata dalla genialità degli artisti. E nessuna nei musei è mai entrata dopo il famigerato invito: «Rosalia, componiti».
Luca Beatrice per mowmag.com il 10 settembre 2020. E pensare che proprio in quelle sale dalla metà degli anni ’80 è esposto L’origine du monde, il piccolo capolavoro di Gustave Courbet e mai prima di allora (il quadro era stato dipinto nel 1885) un pittore aveva osato rappresentare in maniera così realistica il sesso femminile, ai tempi tutt’altro che glabro, nonostante la storia dell’arte sia ricca di nudi, alcuni dei quali erotici, ammiccanti, provocatori. Quando L’origine arrivò finalmente al Musée d’Orsay, lascito degli eredi dello psicanalista Jacques Lacan, sembrarono davvero piegate le ultime resistenze della censura. D’altra parte, Parigi è sempre stata la capitale della sessualità più libera già dagli anni ‘60, il cinema faceva passare modelli di donne emancipate e dominatrici come Brigitte Bardot e Jane Birkin, il laicismo e la libertà d’espressione, i bigotti erano invitati a trasferirsi altrove. Negli anni ’70 si impose la Body Art e tante artiste donne lavoravano con il proprio corpo nudo, un corpo contro, politico, aggressivo nei confronti del modello femminile proposto dai media e adottato dai maschi. Un secolo dopo il quadro di Courbet, le pornostar andavano in tv, in parlamento, alla Biennale di Venezia. Per non parlare della moda che scopriva centimetri di pelle, lavorava con le trasparenze fino al nude look e nelle spiagge era assolutamente normale il topless. Oggi, anno di (s)grazia 2020, viviamo in un’epoca bacchettona, moralista, pretesca, talebana e sessuofobica che, in nome del più stucchevole politicamente corretto, censura, impone le mani sugli occhi, tarpa le ali, tranne poi massacrarsi di seghe sui siti porno, gratuiti e di libero accesso anche per i minori (provate a digitare sul motore di ricerca “giochi per bambine”, compariranno sex toys mica le Barbie).
Tinder mi ha bloccato per sempre per colpa di una segnalazione falsa. Un paio di giorni fa una giovane donna orientale di bell’aspetto, in visita al Musée d’Orsay, è stata fermata all’ingresso da solerti guardiane (donne pure loro): non aveva la mascherina? Aveva la febbre? Non si voleva detergere le mani? Niente di tutto ciò, semplicemente la ragazza si era presentata con un abito scollato, come se ne usano tanti nella calda estate, che lasciava intravedere un seno piuttosto generoso. Al museo ci si veste più decorosamente, le hanno detto, o ti copri o non entri. La giovane ha obbedito, ma dopo aver concluso la visita ha pubblicato un post sui social raccontando l’accaduto, di cui non risultano precedenti almeno in Occidente. Notizia ripresa dalle maggiori testate, il dibattito divide le opinioni tra chi evidentemente equipara il museo a una chiesa (nonostante le numerose opere a soggetto sacro il museo non è un luogo di culto) e chi sostiene che di questo passo arriveremo presto ai diktat della Santa Inquisizione. Mi prendo la responsabilità di ciò che sto per scrivere e se da qua in poi qualcuno mi odierà, pazienza. Evviva chi mostra il proprio bel corpo, soprattutto il seno che è un inno alla vita, alla maternità, alla sessualità. Lo avevano capito i pittori, Botticelli e Velazquez, Tiziano e Goya: oggi lasciamo decidere al personale di sorveglianza? Altre sarebbero le cose da vietare per decenza:
le canotte su braccia mollicce con relativo alone di sudore.
I bermuda e i pinocchietti su gambe pelose, prevalentemente maschili.
Sandali tipo Birkenstock su piedi nudi, prevalentemente maschili, con unghie mal curate. Agli uomini andrebbe fatto obbligo, tranne che in spiaggia, l’uso della scarpa chiusa.
Tshirt con marchi troppo vistosi, a meno che uno non sia pagato dall’azienda a scopo pubblicitario.
Fantasmino o calzino corto che fuoriesce dal mocassino. Un’aberrazione.
Mutandone bianco o nero reso troppo visibile da stoffe trasparenti.
Capelli sporchi, mal curati, con evidente ricrescita o tintura dozzinale.
La regola da osservare è che da una certa età in poi è meglio coprirsi. In quanto alla giovane e bella orientale, obbligarla a chiudere il decolleté è un sopruso politico indecente, specchio di una società malata che sta tornando al Medioevo.
Elisabetta Sgarbi per il ''Corriere della Sera'' l'11 settembre 2020. Bisogna decidere una volta per tutte se l' arte deve essere «morale» e «giusta» oppure no. La civiltà europea, a partire dai greci, si è battuta per un' arte che avesse libertà assoluta, anche di essere degenerata, sbagliata, immorale e contro il sistema di giustizia di volta in volta vigente. Abbiamo nella nostra storia accresciuto una sensibilità che oppone l' arte ai decreti del potere, anche se questi sono considerati giusti in quel determinato frangente storico. E la nostra civiltà europea dovrebbe avere acquisito anche un' altra consapevolezza, che i valori morali e le norme di legge hanno una valore storico, non sono legge di Dio. Gli Stati Uniti sono una civiltà relativamente giovane, e non hanno questa consapevolezza. Peccato per loro. Ma io, da donna, rivendico la possibilità dell' arte di essere immorale e ingiusta, anche maschilista e antifemminista: e lo rivendico perché rivendico la libertà dell' arte e la mia di essere donna come voglio io e non come è «giusto» che sia. Peraltro, nessun artista degno di tale nome potrebbe, nel processo creativo, tenere conto di regole esterne. Potrebbero imporgliele, ma questo si chiama violenza. Bisogna essere vigili, e dobbiamo esserlo soprattutto noi donne. Cedere a questa lusinga del potere, oggi, potrebbe significare legarsi le mani e la mente per il futuro. Con il mio film, da me diretto e prodotto, presentato alle Giornate degli autori della Mostra del Cinema di Venezia, Extraliscio - Punk da balera, ho avuto l' onore di ricevere il «Premio Siae». Ho abbracciato la band di soli uomini su cui ho fatto il film, convinti che sia stato giudicato il nostro lavoro non il nostro genere. Ho pensato di avere avuto un premio per la qualità del mio lavoro, non perché sono donna. Altro discorso è quanto promosso dalla Berlinale. Mi sembra anch' esso una concessione al politically correct, ma in fondo diventa un premio alla qualità della interpretazione e poco importa se maschile o femminile. Quindi ci può stare.
Dagospia il 9 settembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Luigi Mascheroni: Caro Dago, Adesso il problema è che alla Mostra del cinema di Venezia (come da articolo della prestigiosa rivista Variery che ha fatto parecchio arrabbiare il direttore Alberto Barbera) non ci sono abbastanza giurati di colore... Poi non ci saranno abbastanza asiatici, poi non abbastanza disabili, poi non abbastanza gender fluid, e poi per fare stare tutti loro in giuria, toglieranno attori e registi...Comunque, come quest’anno dopo le polemiche delle scorse edizioni, le registe femmine accettate al concorso sono diventate quasi la metà, l’anno prossimo spunterà di sicuro un afroamericano (o due, o meglio ancora due donne Afroamericane) in giuria. Il merito conta poco. Il genere, ormai, tutto.
Dario Ronzoni per linkiesta.it il 9 settembre 2020. Dopo il Festival del cinema di Berlino, anche l’Academy che assegna gli Oscar cambia le regole, in nome di una maggiore inclusione e diversità. A partire dall’edizione 2024, per poter essere candidati al titolo di Miglior Film (Best Picture), le pellicole dovranno presentare o nella storia o nel team di produzione una quota variabile di persone provenienti da categorie sottorappresentate (donne, Lgbtq, etnie minoritarie negli Stati Uniti, disabili). La qualità, insomma, viene subordinata (o soltanto collegata?) alla giustizia sociale. Il film dovrà ottemperare ad alcuni obblighi specifici, elencati in un catalogo delle regole che somiglia a un manuale Cencelli delle discriminazioni. Per l’esattezza, dovrà soddisfare almeno due di quattro standard diversi.
Il primo, lo standard A, riguarda la «rappresentazione sullo schermo, i temi e la narrazione», cioè quello che vede il pubblico. Un film può venire candidato se almeno uno dei protagonisti, o uno dei comprimari di peso, appartiene a una minoranza razziale. E per non lasciare spazio a dubbi, vengono anche elencate: «Asiatico, ispanico/latino, nero/afroamericano, indigeno/nativo/nativo dell’Alaska, mediorientale/nordafricano, nativo delle Hawaii o di altre isole del Pacifico, altro». Se proprio non si riesce, «almeno il 30% degli attori in ruoli secondari o minori dovrà provenire da almeno due dei seguenti gruppi sottorappresentati», cioè «donne, minoranze razziali, Lgbtq, persone con disabilità cognitive o fisiche, o che sono sordi o con problemi di udito». Terza possibilità, «la storia principale»: almeno quella dovrà vertere su uno dei gruppi sottorappresentati ma succitati. Insomma, basta che parli di donne, di minoranze, di disabilità, di tematiche omosessuali.
Il secondo standard, il B, considera invece la direzione artistica e il gruppo di progetto. Anche qui, bisogna soddisfare almeno uno di questi criteri. Il B1 recita: «Almeno due delle seguenti posizioni devono essere affidate a persone provenienti da gruppi sottorappresentati: direttore del casting, direttore della fotografia, compositore, designer dei costumi, regista, tecnico del montaggio, parrucchiere, truccatore, producer, designer della produzione, set decorator, tecnico del suono, supervisore agli efetti visivi, autore». E almeno una di queste deve appartenere a un gruppo razziale (sempre di quelli elencati prima) minoritario. Il B2 chiede soltanto che almeno «sei» posizioni di quelle non elencate (tranne gli assistenti alla produzione) siano affidate a gruppi sottorappresentati o di etnie minoritarie. E il B3 vuole che «almeno il 30%» della troupe del film appartenga alle ormai note categorie sottorappresentate.
Il terzo standard, il C, parla di soldi e opportunità di carriera, e per ottenerlo bisogna soddisfare entrambi i criteri presentati: «L’azienda che si occupa del finanziamento o della distribuzione del film deve prevedere stage e apprendistati pagati per i gruppi sottorappresentati». Per la precisione, gli studios più importanti o le aziende di distribuzione più grandi «devono avere in essere apprendistati o stage pagati per i gruppi sottorappresentati» e «soprattutto nel settore della produzione, della produzione fisicale, della post-produzione, della musica, degli effetti visuali, delle acquisizioni, della distribuzione, del marketing e della pubblicità». E quelli più piccoli e/o indipendenti? Per loro basta che ci sia almeno un minimo di due posizioni affidate a chi proviene dai gruppi sottorappresentati (ma almeno uno deve essere di una etnia minoritaria), negli stessi settori. Il secondo criterio prevede che chi si occupa della produzione o del finanziamento del film offra opportunità di lavoro o di sviluppo delle competenze fuori dal capitolo di spesa per persone dei gruppi sottorappresentati. Non si specifica quante.
Infine lo standard D, che prevede un criterio solo: «La rappresentazione nel marketing, nella pubblicità e nella distribuzione». In questi settori, si specifica, «più posizioni dirigenziali interne dovranno essere coperte da persone provenienti dai gruppi sottorappresentati». E segue l’ormai noto catalogo. Una svolta, insomma, che punta ad accrescere la diversità in un settore a lungo dominato da uomini bianchi. Nonostante le polemiche, puntualissime, che hanno accolto il nuovo regolamento, va notato che – almeno a un primo sguardo – i requisiti non sono troppo costrittivi. In generale gli standard B e D sono quelli più semplici da soddisfare (le posizioni di truccatore o parrucchiere sono già occupate da donne, per capirsi), mentre è evidente che lo standard A sarebbe di maggior impatto, anche se (soprattutto nel caso di film storici) non può essere adatto a tutte le trame.
Ora arrivano i corsi per i bianchi: "Vi dovete sentire in colpa". Si tratta di veri e propri corsi di "rieducazione" per i bianchi che lavorano per le agenzie federali: gli stessi che il Presidente Usa Donald Trump ha deciso di cancellare. Roberto Vivaldelli, Venerdì 11/09/2020 su Il Giornale. Nei giorni scorsi aveva fatto molto discutere la decisine del Presidente Usa Donald Trump di ordinare alle agenzie federali di fermare i corsi di sensibilità sulla razza, sostenendo che siano "divisivi" e che facciano "propaganda antiamericana". Ma il tycoon aveva davvero così torto? Negli Stati Uniti si respira sempre più un clima insopportabile, frutto di una politica identitaria che porta a scontri ideologici e divisioni razziali che si rischiano di far sprofondare il Paese verso l'abisso di una "guerra civile" culturale e nelle strade. Come riporta Italia Oggi, infatti, il giacobinismo Usa è ormai arrivato a un punto tale che alcuni settori strategici dell'amministrazione americana, ovviamente ostili a Trump, organizzano veri e propri seminari per "rieducare" i dipendenti bianchi sul tema del razzismo, affiancati in questo da un giornale importante come il New York Times. Per farsi un'idea della follia politicamente corretta che sta investendo gli Usa basta dare un'occhiata all'elenco di alcuni corsi di rieducazione reso noto ieri dal sito Zero Hedge. Il Dipartimento del Tesoro, riporta il sito americano, ha organizzato sessioni di addestramento per spiegare agli impiegati che "tutti i bianchi (white people) contribuiscono al razzismo". Per questo motivo chiede che i membri bianchi degli staff "superino il loro razzismo interiore" e si rendano conto del loro "pregiudizio razziale inconsapevole, dei privilegi e della fragilità dei bianchi". Se il The National Credit Union Administration ha organizzato seminari per 8.900 dipendenti per spiegare che "l'America è stata fondata sul razzismo e sulla schiavitù della popolazione di colore", il Sandia National Laboratories ha organizzato un "reducation camp" di tre giorni per i dipendenti bianchi di sesso maschile per insegnare loro "come decostruire la cultura patriarcale", e obbligarli a scrivere una "lettera di scuse alle donne e alla popolazione di colore". Non è da meno l'Argonne National Laboratories che ha organizzato seminari per convincere i dipendenti bianchi ad ammettere che "essi hanno tratto beneficio dal razzismo" e "pentirsi per avere inflitto pene e angoscia al popolo nero (black people)". E così via. Questo senso di colpa, retaggio religioso del calvinismo protestante, è il fulcro dell'ideologia totalitaria del politicamente corretto, insieme al nuovo perbenismo di sinistra. È la cultura del piagnisteo, la stessa che vuole cancellare la storia e demolire le statue dei confederati. Trump ha deciso di cancellare questi corsi. In un memo di due pagine del direttore dell'Office of Management and Budget, Russell Vought, si legge che, "secondo notizie di stampa, ai dipendenti del ramo esecutivo è richiesto di frequentare corsi in cui gli viene detto che “virtualmente tutti i bianchi contribuiscono al razzismo” o in cui gli viene chiesto di dire che “traggono vantaggi dal raszzimo”. Questo tipo di corsi non è solo contrario ai valori fondamentali sui quali la nostra nazione è fondata - si legge nel memo -ma accresce anche le divisioni ed il risentimento all'interno della forza lavoro federale". Di qui la decisione di dare istruzioni alle agenzie governative perché sospendano questi corsi.
Da tltonline.it l'8 settembre 2020. L’Università degli Studi del Molise non si identifica nelle posizioni politiche o nelle opinioni dei singoli docenti. Garantisce la libertà di insegnamento, richiama al rispetto dei valori costituzionali e alla tenuta di atteggiamenti rispettosi della dignità umana. Nel condannare ogni forma di discriminazione, l’Ateneo si fa promotore di una giornata di studi alla quale il Rettore Luca Brunese ha invitato personalmente la dottoressa Elly Schlein, svizzera di nascita, Vicepresidente della Regione Emilia Romagna, fatta oggetto di una infelice battuta sessista da parte del docente universitario Gervasoni sui social.
Da unimol.it l'8 settembre 2020. In riferimento a quanto pubblicato dagli organi di stampa negli ultimi giorni, a proposito della vicenda che ha interessato il prof. Marco Gervasoni, il Rettore, prof. Luca Brunese, ha inserito nell’ordine del giorno del Senato Accademico, convocato il prossimo 10 settembre, un punto specifico per valutare eventuali violazioni del codice etico, secondo le procedure previste dall’Ateneo. Di tale iniziativa è stato informato anche il Ministro dell’Università, prof. Gaetano Manfredi.
Luca Di Bartolomei per wired.it l'8 settembre 2020. Quando si dice seguire una parabola: Marco Gervasoni, storico contemporaneo dell’università del Molise, craxiano per formazione, è diventato un hater sui social network per passione – e perché piace alla destra a cui si è legato, ovviamente, quella della Lega e del salvinismo che rifiuta ogni limite di continenza verbale? E pensare che nel 2000, da giovane ricercatore, il professore dedicava i suoi studi a Piero Gobetti, il liberale amico di Gramsci odiato dal fascismo; nel 2020 Gervasoni, cinquantaduenne nemico dichiarato del politicamente corretto, scrive gli editoriali per La Verità di Maurizio Belpietro, uno che la parola con la F non la manda in stampa neanche per errore. I fatti ormai sono noti: la vicepresidente della Regione Emilia Romagna Elly Schlein è stata scelta dal settimanale L’Espresso per la sua copertina, che la indica come un modello di sinistra possibile. Giusto? Sbagliato? Macché! Per Gervasoni il problema si è rivelato del tutto un altro, e così pressante da dedicargli un post su Twitter: “Ma che è, n’omo?”, ha twittato l’accademico nato a Milano. L’offesa a Schlein è l’ultimo atto di una carriera che ormai sembra una corsa a spararla sempre più grossa, in cui quelle che un tempo avremmo definito – almeno – gaffes diventano medaglie da appuntarsi al petto, in un’infinita rincorsa all’indicibile. Non è neppure un commento sessista, quello di Gervasoni: è solo un bercio da bulletto, un gridolino da recordman degli insulti social. Il seguito della faccenda è prevedibile: il suo pubblico di riferimento applaude e ci mette il carico da 11: è il modello della sinistra che vuole per il popolo solo le racchie, si obietta (un acuto follower di Gervasoni aggiunge che le donne veramente belle sono solo nel porno o negli harem dei miliardari. Ed ecco bello e pronto l’immaginario erotico degli amici del professore). Qualcuno s’incazza con lui e tra questi escono anche commenti sull’aspetto fisico dello stesso Gervasoni, scadendo al suo livello. Dagospia titola su questa mesta dinamica e lui non si fa scappare l’occasione: dice che il suo post voleva essere proprio questo, una provocazione per mettere a nudo la cattiva coscienza della sinistra? “Un esperimento sociale”, ma certo: come abbiamo fatto a non pensarci? Come giustificazione non sta in piedi, ma questo ovviamente a Gervasoni non interessa, perché lo storico è abituato a spararle grosse e cerca la rissa per presentarsi come l’eroe della sua parte. Il nostro nasconde il suo profilo social sotto il ritratto di François-René de Chateaubriand, lo scrittore romantico francese che fuggì dalla Francia rivoluzionaria e finì per combattere contro il suo paese con l’esercito degli emigranti, una specie di Vandea in esilio. Fenomenale scrittore e animatore del romanticismo francese, grande e confuso reazionario che ebbe la conservazione e soprattutto la straordinaria considerazione di sé come bussola politica. ?Ecco, Chateaubriand non mi sarà simpatico ma – immaginandocelo, non senza qualche difficoltà, traslato nel mondo odierno – non avrebbe mai scritto quegli insulti su Twitter. ?Andrebbe fatto sapere al Gerva che la maschera dietro la quale nascondere i suoi rancori e i suoi interessi che si è scelto non è la più adatta. E non è nemmeno l’unica. Qualche anno fa (quando era direttore scientifico della Fondazione Craxi) il nostro aveva scritto un libro sugli anni Ottanta uscito per Marsilio nel 2010, Storia d’Italia degli anni ottanta, un peana al decennio della Milano da bere e di quello che per burla veniva chiamato edonismo reaganiano? Il decennio veniva letto tutto in chiave mediatica tra le tv di Berlusconi e i film dei Vanzina. ?Certo, c’erano anche i grandi mutamenti sociali e i nuovi modelli ideali, ma tutto appariva solo immagine (e neppure immaginario). La passione di Gervasoni per Craxi era – e probabilmente è ancora oggi, anche se ormai i suoi miti appaiono soprattutto salviniani – un’idolatria più delle piramidi che l’artista Filippo Panseca costruiva per il segretario del Psi che delle intuizioni politiche del leader milanese. E Craxi che non era propriamente uno che le mandava a dire un figuro della pochezza di argomenti di Gervasoni non lo avrebbe mai lasciato avvicinare.
Francesca Schianchi per ''La Stampa'' il 7 settembre 2020. Non basta essere giovani, poliglotte, coraggiose. Non basta aver preso 23mila preferenze con una propria neonata lista, ed essersi guadagnate a furor di popolo la carica di vicepresidente dell'Emilia-Romagna. Nell'Italia social del 2020, ti mettono in primo piano sulla copertina di un settimanale descrivendoti come «possibile leader» di una nuova generazione di sinistra, e arriva un signore più versato per l'insulto che per l'analisi politica che non trova di meglio da commentare, a favore del suo modesto pubblico: «Ma che è, n'omo?», che battuta originale, dagli di gomito tra follower. Non è la prima volta, né sarà purtroppo l'ultima, che sui social il commento scade a livello da spogliatoio di calcetto. Ed è già insopportabile così: ma l'episodio che ha coinvolto ieri Elly Schlein, la 35enne vice di Bonaccini alla guida dell'Emilia, presa di mira per la foto sulla copertina dell'Espresso, non è stato scatenato da un anonimo hater in cerca del suo quarto d'ora di (mediocre) notorietà. Stavolta a scatenare la polemica è stato Marco Gervasoni, professore di Storia contemporanea dell'Università del Molise, così fiero del suo acuto commento da tornarci sopra rispondendo ai follower: uno mantiene il livello scrivendo che «le più belle sono tutte nel porno, o nell'harem di qualche multimiliardario» mentre «al popolo restano le racchie ecologiste e speronamotovedette» e lui, soddisfatto, ribadisce che «a me fanno schifo e non ho nessun timore a dirlo». O ancora, a chi ricorda che Schlein ha vissuto a lungo in Svizzera, risponde allusivo «citofonare Soros», illazione che il professore saprà sicuramente dimostrare. Salvo poi, quando la polemica è scoppiata, e c'è chi chiama in causa l'università in cui insegna per chiedere una presa di posizione, uscirsene che si trattava di un «esperimento di psicologia sociale e politica»: per dimostrare che anche i «comunistelli», come chiama lui chi la pensa diversamente, gli hanno risposto tirando in ballo il suo aspetto fisico. Come avevamo fatto a non capirlo. L'estate scorsa, quando la Luiss ha deciso di chiudere il rapporto con Gervasoni, la destra sovranista che lo ha eletto a punto di riferimento ha sbraitato per un po' alla censura. Riferito alla nave guidata da Carola Rackete, se n'era uscito via Twitter che «Sea Watch bum bum, a meno che non si trovi un mezzo meno rumoroso»: affondiamola pure. Naturalmente dopo aver fatto scendere i migranti, ma questo lo ha spiegato dopo. «Il linguaggio dei social è sintetico e goliardico», si è difeso. La stessa giustificazione dei tanti leoni da tastiera senza nome. Si offende e si mette alla gogna, si insinua e magari si mette in circolo sessismo o razzismo, salvo poi nascondersi dietro la "goliardia". Detto da un professore universitario, da chi forma i giovani, fa ancora più impressione. E il coraggio di Schlein, capace di dichiarare in pubblico di avere una fidanzata, senza timori verso quel meschino esercito di odiatori con e senza volto, si staglia ancora più interessante nel panorama della politica italiana.
Perché Elly Schlein dà così fastidio. È giovane, intelligente, fluente, trasuda sostanza, rovescia tutte le ortodossie. Parecchio irritante. C'è chi l'attacca per l'immagine, la forma, la foto sulla copertina dell'Espresso, chi su quel piano la difende. Nessuno che abbia il coraggio di passare dall'involucro al merito, e rispondere alle sue critiche. Susanna Turco il 07 settembre 2020 su L'Espresso. «Ma persino i voti, le preferenze, ritenevano non fossero miei. Un dirigente del Pd me l'ha proprio chiesto: "Ma tu, di chi sei figlia?"». Una frase smozzicata rimasta fuori dalla lunga e densa intervista a Elly Schlein pubblicata domenica dall'Espresso torna in mente adesso che il web è stato sommerso dal servizio che il settimanale gli ha dedicato: migliaia di tweet, storie, post di persone che si sono sentite riconosciute in un modo o nell'altro, nella loro domanda di futuro, si sono rispecchiate negli interrogativi e le questioni di una giovane politica, una che il problema della distanza con la realtà lo sente tutti i giorni; e non da una posizione di opposizione e protesta, ma stando dentro le cose, governandole. L'avevamo lasciata fuori, quella frase, perché conteneva molti elementi impliciti, risaliva troppo indietro nella serie delle cause: il maschilismo nei partiti, anche in quelli di sinistra e nel Pd in maniera plastica, un Paese ancora troppo patriarcale. Ricordavamo però che Elly Schlein era stata l'unica donna in un parterre tutto di uomini, nella giornata finale della kermesse “Tutta un'altra storia” voluta da Zingaretti all'inizio della campagna elettorale emiliana, a novembre 2019. E che, significativamente, quella domenica al Fico di Bologna l'unica altra a salire su un palco di tutti uomini, era stata la moderatrice. Una donna sul cui ruolo, interrogati, gli astanti in prima fila avevano laconicamente risposto: «È la fidanzata di». Un episodio fra tanti che si cita per ricordare come ancora una volta, la politica possa essere lontanissima persino dall'uguaglianza che predica. Lo testimonia la frase «di chi sei figlia»: difficile (impossibile?) che a una donna sia attribuita sufficiente credibilità da pensare che possa avercela fatta da sola, senza padri, padrini, capi corrente, capi fazione, capi partito. Una banalità. È notorio l'adagio per il quale se non puoi batterli, puoi metterti con loro. Meno nota la variante: se non puoi batterli, puoi offenderli. Ed è dunque in qualche modo nelle cose che, nel mezzo dell'eccezionale numero di reazioni all'intervista a Elly Schlein (c'è chi l'ha proposta segretaria del Pd, chi ministra, chi presidente del Consiglio), una personalità come quella di Marco Gervasoni, docente all'Università del Molise, si sia sentita in titolo di commentare non la sostanza di quanto detto dalla vice presidente dell'Emilia-Romagna, ma la sua forma estetica nella foto di copertina. Non la sostanza: l'involucro. Un sintomo del grado di difficoltà incontrato, evidentemente. Un sintomo anche del grado di fastidio che è capace di suscitare l'irrompere nella scena di una giovane, intelligente, fluente, densa di passione e di studio, che trasuda talmente tanta sostanza da rovesciare tutte le ortodossie. Faccenda parecchio irritante, ne conveniamo. Si può misurare un abisso per sottrazione? Certo che si può. E così come è nelle cose che i Gervasoni parlino, è nelle cose che una come Elly Schlein non risponda neppure, e anzi si rifiuti di farlo, tagli fuori tutto quel che lo riguarda. Non retweet, non commenti, non interviste. Perché il livello del dibattito non può essere portato dove lo vogliono i Gervasoni. Né può proseguire su quell'onda, come se fosse davvero interessante farlo: non lo è. Ad aggravandum, si deve putroppo notare come la politica invece proprio a Gervasoni abbia voluto rispondere. I tanti attestati di solidarietà arrivati a Schlein da molta sinistra e anche dal Pd zingarettiano da lei definito «inerte», non hanno travalicato infatti il livello estetico dell'immagine, dell'aspetto, delle allusioni. Nessuno si è finora disturbato a rispondere nel merito alle proposte, alle critiche, alle osservazioni mosse da Schlein a gran parte del suo mondo, anche con coraggio non comune («abbiamo un elefante immobile, il Pd, e dall'altra parte 14 sigle di sinistra, tutte uguali. Un panorama respingente»). Non Zingaretti. Non gli esponenti delle 14 sigle. In questo senso, purtroppo, chi allude per offendere e chi allude per difendere finisce in qualche modo per colludere, come in un perverso girotondo, alla perpetuazione dello stesso modello. Alla cristallizzazione di un mondo nel quale, quando la sostanza fa paura, si passa allora all'involucro. Come fossimo sempre condannati a restare imbozzolati in quell'adagio di Coco Chanel: «Vestite male e noteranno il vestito, vestite bene e noteranno la donna». Ma lei commerciava in moda, il suo era marketing: e ormai vecchio di quasi cent'anni. Non serve solidarietà al vestito: serve smettere di parlarne. «Il pensiero è come l'oceano, non lo puoi bloccare non lo puoi recintare»: furono le sardine, lo scorso novembre, a fare della canzone di Lucio Dalla il loro inno. Ecco se si staccano gli occhi dai Gervasoni e dalle solidarietà demo-piddine, il «pensiero che da fastidio» viene discusso nel merito dal mare del web, che lo sta usando per incarnare la sua domanda di futuro. Una fame fortissima, che è difficile da vedere, e alla quale è ancora più difficile proporre una risposta. Tanto che già torcersi le mani, chiedendosi come fare, risulta irritante come una reazione fuori scala. Per fortuna, a quanto pare, la protegge il mare.
Antonio Riello per Dagospia il 7 settembre 2020. Saul Fletcher (nato a nel Lincolnshire nel 1967) era un artista britannico che aveva acquisito una certa fama con le sue opere fotografiche. Ma era noto soprattutto per le sue collaborazioni con il gruppo musicale Placebo e per una sbandierata amicizia con l’attore Brad Pitt. Il 22 Luglio 2020, a Berlino, dopo aver ucciso a pugnalate la compagna, Rebeccah Blum, si è tolto la vita. Una brutta storia. Uno dei tanti femminicidi-suicidi (le ragioni scatenanti sembrano tutt’ora ignote agli investigatori tedeschi) di cui la “cronaca nera” è sempre purtroppo prodiga. Questa tragedia ha una particolarità che la rende “speciale”. La (ex) gallerista di Fletcher, Alison Jacques, ha rimosso, dopo l’accaduto, ogni possibile traccia della sua collaborazione professionale con l’omicida dal sito della propria galleria. Sostiene semplicemente che vada ricordata solo la vittima, la Signora Blum (una curatrice di Arte Contemporanea di origine Americana) e che venga drasticamente istituita una “Damnatio Memoriae” digitale verso l’assassino-artista. La Collezione Pinault di Venezia ha rimosso, per le stesse ragioni, una grande opera di Fletcher in esposizione. Art Newspaper (nota rivista di settore) scrive, senza mezzi termini, che il mercato dell’Arte dovrebbe punire gli artisti “eticamente riprovevoli” facendone letteralmente svanire i lavori. Ovvero togliendoli da mostre, musei e aste. Ovvero annullandone, almeno nei desiderata, il valore di mercato. Una tesi interessante, con dei punti a favore e degli altri che lasciano inevitabilmente perplessi. Di certo il femminicidio è un reato particolarmente odioso che dovrebbe essere sempre sanzionato in maniera esemplare. E anche il ricordare (e comunque, in qualche modo, celebrare) più il nome delle vittime che quelle degli assassini ha una sua stringente ed onorevole logica. Amara considerazione: da sempre sono i nomi dei delinquenti quelli di cui ci si ricorda, i nomi degli uccisi invece vengono spesso cancellati dalla memoria collettiva (uno scandaloso paradosso). Difficile non essere completamente d’accordo su questi due punti. Il problemi nascono, come al solito del resto, quando la vita privata e la carriera si mescolano (o vengono mescolati da qualcun altro). Diversi artisti del passato non hanno avuto una esistenza propriamente specchiata, almeno per gli standard attuali. The Guardian, saccente ma autorevole quotidiano britannico, ha addirittura stilato un “lista nera” di 10 artisti con accertate tendenze criminali. Filippo Lippi non era uno stinco di santo. Mise in cinta una giovane suorina (che, ad onore del vero, comunque poi sposò). Un Michelangelo Buonarroti giovane, nel 1496, vendette un angelo al mercante Baldassarre del Milanese. Era stato appena fatto da lui, ma fece credere al compratore fosse un’antichità romana ritrovata in uno scavo. E, secondo il professor Rab Hatfield, che nel suo libro “The Wealth of Michelangelo” si occupa approfonditamente di questi aspetti della vita del grande genio del Rinascimento, in più di una occasione avrebbe fatto abbondantemente la cresta sui costi dei materiali. Insomma era un po’ imbroglione. Il Caravaggio! Il sublime pittore dell’età barocca, a Roma, nel 1606, assassinò in una rissa, un certo Ranuccio Tommasoni e dovette di conseguenza fuggire dalla capitale. Benvenuto Cellini, scultore di grande ed imperitura fama, fu addirittura un pluriomicida confesso. E non erano, i suoi, solo omicidi dettati dalla collera. La storia dell’Impressionismo è anche quella degli abusi perpetrati a danno di giovanissime modelle da parte di artisti regolarmente sposati…..una mostra alla Gare d’Orsay nel 2015 l’ha ampliamente evidenziato. E le prostitute erano una compagnia abituale degli stessi artisti. Egon Schiele, il venerato pittore austriaco, fu processato dalle autorità asburgiche per avere avuto rapporti sessuali con minori (risultò colpevole). Quello che fece passare Auguste Rodin a Camille Claudel, non gli fa certo onore, nè come artista nè come uomo. E Paul Gauguin a Tahiti si accompagnava abitualmente con adolescenti quasi-bambine….onestamente disgustoso. Il “mostro sacro” dell’Arte Contemporanea, Pablo Picasso, non ha risparmiato al gentil sesso attenzioni che oggi porterebbero, nel migliore dei casi, ad una pubblica censura. Ebbe parecchie amanti minorenni. Rubò anche delle statuette antiche al Louvre, non era uno scherzo (come qualcuno scrisse…) e se le tenne per sempre nel suo studio. Lucien Freud, eminente pittore britannico, in una recente (e mai smentita) biografia di William Feaver viene dipinto come un vero e proprio “Sexual Predator”, una sorta di Weinstein del tempo. Per non parlare (nel corso dei secoli, e comunque anche oggi) del diffuso sfruttamento di aiutanti ed assistenti (sempre sottopagati). E diversi sono stati gli artisti con rapporti piuttosto “problematici” (per usare un eufemismo) con i rispettivi apparti fiscali. Spesso sfruttatori e qualche volta evasori, non proprio un bel ritratto. Ma gli standard etici fino a che punto sono assoluti? Quanto ci entra il “politicamente corretto”? Insomma, secondo certi parametri attuali, sono tanti gli artisti, significativi o meno, che potrebbero essere valutati come “eticamente scorretti”. Li togliamo tutti dai musei? Una seria e dettagliata “Damnatio Memoriae” finirebbe per lasciare molte pagine bianche nelle Storie dell’Arte. Rimarrebbero forse solo il Beato Angelico e pochi altri….E il mercato? Investitori, aste, etc. etc.? Che conseguenze pratiche potrebbe affrontare? Esiste, tra l’altro, un’altra ambigua questione sul campo: il lato oscuro del compratore d’arte è sempre in agguato e la curiosità morbosa non dorme mai. Il mostro cattivo ha, dopo tutto, per molti un suo (ovviamente discutibile) fascino. Ad esempio esiste costante una richiesta, non disprezzabile da un punto di vista dei prezzi, degli acquerelli di Adolf Hitler. Sicuramente non sono apprezzati per la loro performance artistica, ma proprio perchè realizzati da un criminale. Etica e Mercato non hanno mai convissuto facilmente assieme e questo è, comunque lo si voglia vedere, un fatto storicamente accertato.
Si dice avvocata o avvocato? Il dibattito è aperto…Ma per la sociolinguista non ci sono dubbi: “Si dice avvocata”. Francesca Spasiano su Il Dubbio il 3 settembre 2020. Un lettore ci scrive e ci chiede di abbandonare l’uso del termine avvocata perché lo ritiene scorretto. Ecco la sua lettera, seguita dalla risposta della sociolinguista Vera Gheno che non ha dubbi: “In italiano si dice avvocata”.
“Gentile redazione, sono rimasto perplesso e imbarazzato sull’ aver riscontrato su una testata come la Vostra, nel pur pregevole articolo dedicato all’avvocato turco deceduto in carcere di Erdogan, l’utilizzo del termine "Avvocata" al posto del termine corretto, che è Avvocato perché è termine "neutro", indistintamente abbinabile a persona di sessi diversi. Il termine avvocato non ha sesso. Advocare verbo latino che indica chiamare a sé non ha connotazioni di genere. L’Avvocata, per intenderci, individua, per quanto mi risulta, la sola Madonna Madre di Nostro Signore ( ovviamente per chi come me cerca di essere credente), precisamente in una invocazione presente in una preghiera. Il termine Avvocata tanto ora in voga è nato in una accezione negativa, ossia riferito a "chiaccherona moglie di avvocato” e poi accezione via via mutuata nell'uso comune ( cito fonti autorevoli linguisticamente parlando – Treccani). Il termine Avvocato termina al maschile ma non per questo può essere soppressa la sua neutralità, la stessa di altre parole come ad esempio "il Giudice" ( sbagliato pronunciare o scrivere La Giudice o peggio La Giudicessa); oppure "Il ministro", "il sindaco". Orrore è pure udire sempre più spesso in Tv "la ministra", "la sindaca". Questi riscontri televisivi smentiscono la diffusa propaganda e convinzione che Noi italiani ( e sono fiero di esserlo pregi e difetti) ci sforziamo di essere un popolo elevato culturalmente, che tale vuole rimanere, e quindi ingiustamente popolo sottovalutato o sottostimato spesso da cittadini di altri paesi Europei. Ma allora, come prima cosa, mi chiedo perche non riprendiamo almeno pubblicamente a parlare l’italiano corretto e ad usare i termini corretti”. Lettera firmata
Abbiamo chiesto a Vera Gheno, sociolinguista e docente presso l’Università di Firenze di rispondere al nostro lettore: «Per rispondere basterebbe consultare un dizionario aggiornato negli ultimi dieci anni – spiega – in italiano si dice avvocata».
Professoressa Gheno, ci spieghi perché è più corretto linguisticamente.
«Per vari motivi: storicamente, prima nel latino e poi nell’italiano, i femminili professionali sono stati usati tutte le volte che ce n’era bisogno. Cioè tutte le volte che una donna ricopriva un certo ruolo, anche in maniera inattesa. Già nel latino troviamo l’uso di ministra, in senso di governatrice. Più avanti troviamo la giudicessa o giudichessa riferito ad Eleonora d’Arborea, amministratrice del XIV secolo in Sardegna. Ma i femminili professionali non solo sono corretti storicamente e linguisticamente, sono attesi anche dalla morfologia della lingua: l’unica differenza tra maestra e avvocata, è che al primo termine il nostro orecchio è abituato. La mancata presenza nell’uso è dovuta semplicemente all’assenza delle donne in determinati ruoli».
Restando in ambito giuridico, ci può fornire altri esempi?
«Il femminile di magistrato è magistrata. Sarebbe da evitare l’uso di “magistrato donna”, per non moltiplicare le forme. Così come i femminili di procuratore legale e procuratore della Repubblica sono procuratrice legale e procuratrice della Repubblica. Non è necessario usare la forma procuratora, che pure sarebbe possibile. In ogni caso il genere neutro non esiste in italiano, altrimenti non avremmo la sarta, la professoressa. Negli ultimi 30 anni, a partire dalle “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” del 1987 di Alma Sabatini, che fu tra le prime a compiere una ricerca sistematica sull’argomento per l’italiano, il consiglio dei linguisti è quello di preferire, laddove la forma non sia particolarmente penetrata nell’uso, le forme a suffisso zero: quelle "in - a" e non "in - essa". “La presidente”, ad esempio, invece di presidentessa: una parola che è già ambigenere».
Perché?
I femminili in “- essa” sono nati in un periodo storico in cui questo suffisso veniva spesso usato in modo canzonatorio, oppure per indicare la "moglie di" (come la sindachessa). La forma avvocatessa – osservano i linguisti – non è mai entrato troppo nell’uso. Il dizionario Zingarelli, uno dei più precoci in questo senso, registra oltre 800 forme femminili di nomina agentis a partire dal 1994: sfogliandolo si può agilmente constatare che la forma che termina in “a” è preferenziale».
Come spiega allora una certa resistenza nell’uso?
«I problemi sorgono quando ci si confronta con femminili “insoliti”, poco sentiti e poco conosciuti. Alcuni li definiscono neologismi, e li trattano con la stessa diffidenza riservata generalmente alle parole nuove. Altri li reputano superflui, o cacofonici, o una corruzione dell’italiano tradizionale. Ma non è propriamente così. Peraltro, non si pensi che la reazione di fastidio per i femminili sia legata per forza a una bassa scolarizzazione o a scarse competenze comunicative: spesso, una persona con un livello culturale basso, tenderà a usare istintivamente il femminile professionale, dimostrando così involontariamente quanto la forma sarebbe di per sé naturale nella coscienza di un parlante medio».
Ma in ambito professionale, spesso sono proprio le donne le più refrattarie all’uso del femminile.
«La questione si è politicizzata, diventando un’istanza femminista: molte donne non vogliono essere additate come tali, per non rientrare in un certo stereotipo culturale. In molti contesti, tra cui quello giuridico, il titolo maschile è percepito come corretto, mentre quello femminile risulta svilente. Questo è un problema che noi donne dobbiamo discutere con noi stesse: non è un problema linguistico, ma culturale».
Quanto influisce nell’evoluzione di una lingua la riflessione socio- politica?
«Tendenzialmente le evoluzioni linguistiche sono dovute alla pressione dell’uso effettivo. “L’uso colto”, aggiungerebbe il linguista Lorenzo Tomasin: le élite culturali diventano élite linguistiche. Ma io credo che i cambiamenti linguistici avvengano dal basso, non si possono imporre. Si tratta di un circolo: l’uso influisce sulla codifica della lingua, poi i linguisti sono più o meno rapidi a tenerne conto, introducendo queste modifiche nelle grammatiche. E così diventano norma».
Rispetto all’Italia, a che punto è il dibattito negli altri paesi europei?
«Gli spagnoli e i francesi, i nostri parenti linguistici più stretti, hanno un ente preposto all’approvazione delle parole: L’Academia Española e l’Académie Française. In Italia, invece, la Crusca non ha un ruolo prescrittivo ma descrittivo. In questo senso l’italiano è più "anarchico". Negli ultimi anni le due accademie, francese e spagnola, hanno aperto ai femminili professionali, ammettendo che sono linguisticamente giustificati. In tedesco abbiamo già il caso famoso della cancelliera Angela Merkel ( in tedesco Bundeskanzlerin). Se guardiamo collettivamente alle 27 lingue dell’Europa, si può dire che è in atto una riflessione interluinguista su come rendere le lingue più inclusive. Le lingue prive del genere grammaticale, come l’inglese, vanno in direzioni differenti: spokswoman ( la portavoce) diventa spokesperson, elimilando l’indicazione di genere. Noi abbiamo qualche problema in più».
Marta Colombo per giornalettismo.com il 31 agosto 2020. Adele è tornata a far parlare di sé su tutti i social. Stavolta, però, la superstar britannica si trova al centro di una polemica sull’appropriazione culturale. Nel suo ultimo post su Instagram, la cantante posa con un bikini con la bandiera giamaicana e con i capelli legati nei nodi Bantu in occasione del celebre carnevale londinese di Notting Hill, cancellato a causa della pandemia. La scelta del costume-tributo alla Giamaica, però, non è assolutamente piaciuta a tantissimi utenti sui social media, che dopo aver visto il post, l’hanno reso virale con critiche pesanti per la scelta di acconciatura di Adele. Di solito, quando una donna bianca indossa una pettinatura tradizionalmente associata alle donne nere, come le treccine o i nodi Batu, si parla di appropriazione culturale non solo perchè si sta effettivamente appropriando una parte integrante di una determinata tradizione, ma anche perchè, per centinaia di anni e ancora oggi, le donne nere sono state e sono derise e offese per le loro acconciature, spesso definite «non professionali», «non eleganti», o «di cattivo gusto», mentre quando una bianca le indossa è «trendy». Altri utenti, invece, hanno accusato gli americani di “esagerare”, in quanto il carnevale di Notting Hill è stato creato da britannici di origine caraibica e africana appunto per celebrare le loro culture in una grande festa che coinvolge tutta la città. L’intento di Adele era un tributo per la cultura Giamaicana ma, come tanti altri personaggi di spicco negli ultimi anni, il risultato non è stato apprezzato. Un utente ha spiegato così il motivo per il quale fosse infastidita dalla foto della cantante: «Le donne nere sono discriminate per indossare le pettinature tradizionale come i nodi Bantu e le triccine ma le persone bianche non lo sono, non è giusto ed è per questo che le persone sono arrabbiate».
Marino Niola per “il Venerdì - la Repubblica” il 30 agosto 2020. Instagram rimuove la foto nature della modella. Ma il vero oggetto della censura non è il nudo bensì la taglia. E forse anche il colore della pelle. È il caso di Nyome Nicholas-Williams, una ventottenne indossatrice curvy che ha prestato la sua immagine a marchi come Adidas e Dove. I suoi fan si sono incazzati neri per la decisione e hanno deciso di protestare condividendo lo scatto con l'hashtag #iwanttoseenyome. Eppure, l'immagine, scattata dalla fotografa Alexandra Cameron, è in realtà molto pudica. Le braccia infatti coprono quasi integralmente il seno. Come se non bastasse il social voleva addirittura chiudere il suo profilo nonostante le pagine di Instagram siano piene di ragazze molto più nude di Nyome. Però bianche. E soprattutto magre. A volte scheletriche. Ma questo evidentemente non crea nessun problema né etico né estetico. A essere in gioco non è il comune senso del pudore, ma il fatto che mai come in questo caso si adottano due pesi e due misure. Per fortuna la censurata ha deciso di ribellarsi a quella che considera giustamente una decisione due volte razzista. E così va al cuore del problema. Perché il suo scopo è di «promuovere l'amore per sé stessi e l'inclusività» liberando le persone dalla dittatura del format. Si tratta di una battaglia davvero importante, perché l'omologazione del corpo femminile è in realtà la nuova schiavitù delle donne. E passa attraverso una forma di persuasione apparentemente soft, ma di fatto totalitaria. Talmente subdola che molte donne se la autoinfliggono. Piegandosi a un diktat che considera l'oversize come uno stigma, mentre trova normale, se non addirittura desiderabile, un corpo anoressico. Con conseguenze nefaste sulle libertà individuali e sulla felicità delle persone. Perché non tutte hanno la forza di Nyome.
Carlo Verdone tuona contro il politicamente corretto: "Basta, è una patologia". Carlo Verdone dal palco del Piccolo Cinema America si sfoga contro il politicamente corretto esasperato che incatena gli sceneggiatori e lancia un monito sul futuro del cinema. Francesca Galici, Sabato 29/08/2020 su Il Giornale. Quella di Carlo Verdone ora è una voce di rottura nel panorama cinematografico italiano. Il celebre attore e regista romano, infatti, ieri è salito sul palco del Piccolo Cinema America e ha condannato con toni duri il politicamente corretto imperante negli ambienti della sinistra, a cui strizza l'occhio anche la kermesse romana. Il protagonista di alcune delle commedie all'italiana più divertenti tra gli anni Ottanta e Novanta ha pronta una nuova produzione, che non è stata ancora portata in sala a causa della pandemia di Covid. Si vive una volta sola non verrà lanciato in anteprima sulle piattaforme di streaming come hanno fatto alcuni suoi colleghi, perché Carlo Verdone preferisce aspettare che si possano nuovamente portare i film nei cinema il prossimo anno. Il cast del film è di quelli d'eccezione, perché accanto all'attore e regista ci sono anche Anna Foglietta, Rocco Papaleo e Max Tortora. È proprio prendendo spunto dal suo nuovo film, che è stato presentato in anteprima alla stampa qualche mese fa, che Carlo Verdone ha detto la sua sul politicamente corretto, puntando il dito contro i censori e i nostalgici della buoncostume. "Il mio ultimo film, permettete la presunzione, credo mi sia venuto molto bene", dice Carlo Verdone parlando alla folla, prima di spiegare cosa ha fatto scattare in lui la rabbia contro il politicamente corretto. "Quando ho fatto vedere il film, a un certo punto c'è stata una critica che mi ha fatto la critica perché c'era in primo piano il sedere di mia figlia, che aveva gli slip", spiega Verdone raccontando la scena al pubblico del Piccolo Cinema America. "A un certo punto (la critica, ndr) mi ha fatto un articolo contro: 'È disgustoso...'. Sembrava una critica del 1932, ma che cavolo è? Ma non può stare con le mutande così? A quel punto là mi sono cascate le braccia", conclude Carlo Verdone, evidentemente esasperato per il clima che si respira nel Paese. A questo punto il regista lancia un monito: "Guardate che se continuiamo così, con questo politicamente corretto portato all'esasperazione noi avremo dei grossi problemi in sede di sceneggiatura". Secondo Carlo Verdone, infatti, il politically correct che piace tanto agli ambienti radical chic è un "errore micidiale, perché a forza di seguire il politicamente corretto, uno si sente sempre incatenato in qualche modo". Per lui, l'attività censoria in atto è fortemente limitante alla libertà di espressione, soprattutto nel mondo dell'arte. Una catena che per il regista influirà negativamente sulla qualità delle pellicole: "Faremo meno ridere, avremo meno battute, non si potrà dire nulla perché si offende quello... Sono d'accordissimo, fumiamo di meno, però ci sono delle cose sulle quali francamente non sono d'accordo."
Alla platea dell'arena del Piccolo Cinema America, Carlo Verdone ha spiegato che sono tanti i colleghi a pensarla come lui: "Anche tanti miei colleghi iniziano ad averne un po' le palle piene di questo politicamente corretto, perché sta diventando un po' una patologia. Basta per cortesia".
Politically correct ma no alla censura. Alberto Contri su Il Riformista il 26 Agosto 2020. Nel corpo sociale si è ridotta da tempo l’influenza di agenzie di senso come i movimenti, le religioni, i partiti, i corpi intermedi, mentre l’uomo moderno naviga in balìa di social network e mass media di un livello culturale sempre più basso. Si tratta di un uomo che ha però mantenuto l’istinto primordiale di schierarsi, raggrupparsi in ambienti e microcosmi in cui sentirsi a proprio agio e riconoscersi, fenomeno ben descritto negli anni Sessanta dallo psicologo Abraham Maslow con la sua ben nota piramide dei bisogni. Oggi, cosa trova di meglio che abbracciare un qualche movimento che lo faccia sentire immediatamente dalla parte giusta e non gli chieda niente altro se non gonfiare il petto partecipando a qualche manifestazione e gridare qualche slogan? Ecco cosa è diventato il politically correct. Il Cambridge Dictionary lo definisce così: “Chi è politicamente corretto ritiene che il linguaggio e le azioni che potrebbero essere offensive per gli altri, specialmente quelle relative al sesso e alla razza, dovrebbero essere evitate”. Come non essere d’accordo? Fosse davvero così, sarebbe un principio di grande civiltà. Nel tempo, purtroppo, è diventato sinonimo di una sorta di perbenismo alla rovescia, determinato a stigmatizzare e delegittimare, chiunque non segua i dettami del pensiero dominante. Gli effetti di un mal compreso politically correct li vediamo con l’abbattimento delle statue in ogni parte del mondo in sostegno del movimento Black Lives Matter, che ha ben più di una ragione per esistere e manifestare, mentre chi abbatte una statua di Colombo dimostra di non avere alcun senso della storia e della contestualizzazione di simili personalità nella cultura del loro tempo. Analogamente succede con le battaglie in favore della parità di genere e del diritto di non essere discriminati in base al proprio orientamento sessuale. C’è chi ha deciso di cancellare il simbolo di Venere dalle confezioni degli assorbenti igienici, “per includere i clienti che mestruano ma non si identificano come donne”. La British Medical Association ha invitato i suoi 160.000 aderenti a non chiamare mai più futura mamma una donna incinta, “per rispetto degli uomini intersex o trans che potrebbero essere gravidi”. L’Università di Bordeaux-Montaigne ha annullato un dibattito con la filosofa Sylviane Agacinsky in seguito alle proteste degli studenti che la ritenevano omofoba per la sua posizione contro l’utero in affitto. Questi sono solo alcuni dei moltissimi esempi di un politically correct mal digerito e peggio applicato. Contro i quali si è finalmente levata la voce di oltre 150 accademici, scrittori, artisti e giornalisti di fama mondiale, che hanno pubblicato una lettera aperta su Harper’s Magazine per denunciare il clima di caccia alle streghe che domina nel mondo della cultura e dei media dopo l’uccisione di George Floyd. I firmatari hanno stigmatizzato “la nuova intolleranza degli estremisti dell’anti-razzismo e dei demolitori di statue, di tutti coloro che guidano “epurazioni” nelle redazioni, censurano le opinioni diverse, impongono un pensiero unico politically correct”. Osservando la nascita di questo nuovo conformismo ideologico, già due anni fa, l’Economist – settimanale di cultura notoriamente progressista – aveva pubblicato un lucido e coraggioso editoriale, titolando in copertina: “La dittatura della tolleranza”. “Le quote costringono le aziende e le università a valorizzare di più le identità che la competenza. Una orwelliana polizia del pensiero censura le opinioni politiche e sociali, la lingua, e persino i costumi di Halloween. Qualsiasi opinione contraria all’ortodossia libertaria si scontra con una forma di tolleranza zero che etichetta chi la esprime come razzista, omofobo o transfobico. I gruppi di minoranza stanno imponendo i loro valori e i loro stili di vita a tutti gli altri”. L’Economist ci aveva visto molto giusto, e aveva ben compreso che quella ortodossia libertaria stava diventando il pensiero unico dominante, capace di eliminare qualsiasi riflessione articolata, qualsiasi giudizio storico-sociale, in grado di far perdere il senno (e pure il senso del ridicolo) alle più importanti multinazionali, convinte da blasonati consulenti che cavalcando i temi della diversità e dell’inclusione si vende di più. Ma c’è di peggio. Da Nike a Coca Cola, tutti i più famosi brand che hanno sposato in vario modo la causa del Black Lives Matter, sono ora nuovamente accusati di sfruttare tramite intermediari il lavoro di veri e propri schiavi in Cina e in Vietnam. Un rapporto dell’Australian Strategic Policy Institute sostiene che Apple, BMW Calvin Klein, Abercrombie & Fitch, GM, LL Bean, North Face, Gap, Volkswagen e Nike, tra gli altri, sfruttano catene di fornitura basate su persone che lavorano “in condizioni che ricordano fortemente il lavoro forzato”. E ancora: Lewis Hamilton e famosi calciatori si inginocchiano in difesa dei diritti civili, ma non profferiscono parola sulla clamorosa violazione degli accordi internazionali che avevano concesso ad Hong Kong la libertà che oggi la Cina gli toglie. Non può non tornare alla mente un antico, curioso proverbio dei nostri vecchi: “fa fino e non impegna”. Questa è l’amara realtà dell’attuale politically correct. Con in più una paradossale eterogenesi dei fini, che oggi sta diventando una vergognosa farsa: la sacrosanta battaglia per la parità dei diritti trasformata in una intolleranza da sfruttare commercialmente.
Censura sinistra. Andrea Indini il 30 agosto 2020 su Il Giornale. Statene certi. Avete una posizione netta sui migranti? Vi fiocca addosso l’accusa di razzismo e xenofobia. Criticate le baracconate della sinistra al governo? Vi beccate dei fascisti. Osate pungolare un donna? Ecco che faranno di tutto per farvi passare per sessisti. Che molto spesso i giudizi travalichino in insulti è una drammatica piaga da stigmatizzare e contro cui serve un impegno constante. Ma attenzione: questo non deve diventare il lasciapassare per i soloni del politicamente corretto di decidere cosa si può e cosa non si può dire. Due esempi recenti.
Il primo, che in quanto assurdità ha dei livelli spaziali, coinvolge in prima persona Matteo Salvini. La Lega lancia un sondaggio. Sceglie quattro ministri: la Fornero (quella della legge sulle pensioni che ha inguaiato non poche persone), la Bellanova (quella della sanatoria che ha regolarizzato un bel po’ di immigrati), la Lamorgese (quella che sta riaprendo i porti e ha promesso di smantellare i decreti Sicurezza) e la Azzolina (quella delle barriere di plexiglas e dei banchi-girello). Ora, i progressisti sono saltati alla gola delle camicie verdi accusandole di sessismo perché tra le scelte non figurava nemmeno un maschio. È vero che quella lista avrebbe potuto annoverare altri ministri pessimi. Che dire di Danilo Toninelli? E Luigi Di Maio? E Alfonso Bonafede? Giusto per citarne alcuni… di sicuro Salvini non lo vede di buon occhio ma le quattro che ha servito su un piatto d’argento ai propri elettori/supporter hanno un valore politico molto forte. Andiamo a ritroso. Contro la Azzolina Salvini sta portando avanti una campagna martellante: vuole pure presentare una mozione di sfiducia per farle scontare il caos in cui ha gettato le scuole a poche settimane dal rientro. La Bellanova e la Lamorgese sono scelte scontate dal momento che la lotta all’immigrazione clandestina è il cavallo di battaglia del Carroccio e che i giallorossi stanno di fatto smantellando quanto fatto da Salvini quando sedeva al Viminale. Dulcis in fundo, con un tuffo nel passato, la Fornero. Una scelta neanche troppo stramba se si considera che, in cambio degli aiuti, Bruxelles starebbe chiedendo al premier Conte di cancellare “quota 100”, introdotta dalla Lega per rimediare ai pasticci dell’ex ministra montiana. Una scelta politica, insomma. Per anni ci hanno riempito la testa con l’importanza delle quote rosa, un paraocchi inventato dal politicamente corretto per nascondere le vere battaglie che si dovrebbero fare a sostegno delle donne. Ne siamo diventati a tal punto succubi che, in piena emergenza Covid, si è trovato il tempo per accusare Conte di non aver scelto abbastanza esperte tra i 450 cervelloni arruolati nelle task force governative. E il premier, anziché tirar dritto, si è inchinato e ha subito imbarcato un po’ di signore.
Quando poi crediamo di averle viste tutte, ecco essere prontamente smentiti. E veniamo all’ultima follia: le critiche alla modella armena Armine Harutyunyan scelta da Gucci. Qui il sessismo diventa addirittura body shaming. Sui social criticano la maison per aver scelto una “brutta”. Ai più non piace, mentre per i soliti soloni è l’incarnazione della “bellezza non comune”, “splendore della diversità”. Tutto è soggettivo, ma (senza ovviamente scadere nell’insulto) si potrà ben esprime un’opinione a riguardo senza essere linciati? Oggigiorno no. Nelle ultime ore, però, i difensori della modella devono aver rischiato un infarto quando l’hanno vista fare il saluto romano davanti l’Altare della Patria. Forse, forse, a riguardarla bene, non gli piacerà più così tanto?
L'asse tra Boldrini e Azzolina: il duro attacco contro la Lega. Secondo Laura Boldrini gli attacchi della Lega e di Matteo Salvini al ministro Azzolina sono "un assalto sessista". Federico Giuliani, Domenica 30/08/2020 su Il Giornale. Altro che una critica alle proposte messe sul tavolo da Lucia Azzolina riguardo la riapertura delle scuole. Le parole usate da Lega e Matteo Salvini per attaccare la confusionaria gestione del ministro dell'Istruzione non sarebbero altro che un "assalto sessista". "La Lega è riuscita a fare l’assalto alla ministra Azzolina non sui temi, ma è stato un assalto sessista": a parlare è niente meno che Laura Boldrini. Direttamente dalla Festa provinciale dell'Unità di Bologna, in riferimento al sondaggio lanciato dalla Lega sui social nei giorni scorsi, l'ex presidente della Camera ha duramente attaccato Salvini. Addirittura, secondo Boldrini quella "non è più politica, ma è misoginia". A dar manforte all'esponente del Partito Democratico troviamo anche il ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano, che, intervistato insieme a Boldrini dalla giornalista Tiziana Ferrario, ha usato parole emblematiche. "Non c’è solo tema di giustizia, di civiltà. Lancio un appello a Salvini a leggere i commenti nei confronti della Azzolina", ha dichiarato lo stesso Provenzano. Tornando all'ex presidente della Camera, nei giorni scorsi, parlando con l'HuffPost, Boldrini aveva espresso solidarietà a Lucia Azzolina: "Trovo che quello che sta accadendo ai danni delle donne che hanno un ruolo nella sfera pubblica e politica di questo Paese sia molto grave. C’è il rischio che si vadano a normalizzare gli insulti violenti e sessisti che vengono indirizzati alle donne su tutte le piattaforme, mentre non è assolutamente normale". Nel mirino di Boldrini è finita la presunta "gogna" usata dalla Lega. E ovviamente, in mezzo all'occhio del ciclone, ha trovato spazio anche Matteo Salvini, reo di non aver mai preso le distanze da questo modus operandi. In giornata, a margine degli Stati generali della scuola per un incontro con docenti e famiglie, a Baia San Giorgio, a Bari, Salvini aveva criticato Azzolina, senza tuttavia scendere in attacchi sessisti. "Non è possibile avere un ministro che non dà il minimo della certezza della sicurezza: in tutta Europa le scuole o sono già riaperte o stanno riaprendo in sicurezza, senza mascherine, senza plexiglass, senza problemi, senza banchi con le rotelle", ha dichiarato il leader leghista. Salvini ha annunciato anche la presentazione di una mozione di sfiducia al ministro Azzolina "perché veramente non è in grado di garantire il lavoro degli insegnanti e il futuro degli studenti". "Con una signora come la Azzolina alla guida io temo che per la scuola sarà un problema", ha concluso il leader del carroccio. La replica di Azzolina è arrivata con alcune dichiarazioni rilasciate al Tg3. "Se la mozione di sfiducia di Salvini è legata al plexiglass di cui parla da 4 mesi, voglio rassicurarlo perché non è scritto in nessun documento", ha sottolineato il ministro. "Capisco che si faccia campagna elettorale, ma la scuola dovrebbe restare fuori perché così si spaventano le famiglie e gli studenti. Le famiglie vanno rassicurate", ha quindi concluso Azzolina.
Ester Viola per mowmag.com il 2 settembre 2020. Arrivo quando è stato già detto tutto e meno male. Un po’ di ribalta non si nega a nessuno, eccoci quindi con i due inutili casi di cronaca polemica degli ultimi dieci giorni.
Caso 1. Armine Harutyunyan. Giovane ragazza, modella, artista figlia di artisti, pare di talento, secondo me pure già vagamente benestante prima che Gucci la chiamasse qualche anno fa a sfilare, ha una faccia strana – labbrucce sottili e naso grosso – e perciò è asimmetrica. La simmetria e l’ordine generano quello che da tempi greci è concetto di bellezza, poi il signor concetto è cambiato anche perché l’industria dei vestiti per prima si è impegnata a scassarlo, quindi nel 2020 ognuno la pensa come più gli garba. Io la trovo un niente di che ma chi se ne frega di me, comunque è alta e secca allampanata e perciò gli abiti eccentrici le donano, che è tutto quello che so della moda. Fin qui, nessuna indecenza nel ragionamento, mi pare. Anzi facciamo tutti ponti d’oro per Armine Harutyunyan: asimmetrico è chiunque a parte Kate Moss, è un sollievo questa tempesta di normalità sui cartelloni pubblicitari, così quando si apre all’improvviso la telecamera frontale le mattine che ho dormito poco mi dico un vabbé più convinto, che sarà mai, in fondo sono interessante. Poi ci ripenso e prenoto il parrucchiere, levami per favore questo castano da sorcio depresso. Insomma i social hanno fatto la loro brava tirata per Armine, siccome il bar ormai è aperto 24 ore al giorno si generano discussioni uguali a quelle degli anni 90 con Oliviero Toscani ma più lunghe, coi dettagli infiniti, che palle. Le posizioni dell’utenza sono varie, finemente sfumate, tutte corrette e molto, molto articolate. Sta andando avanti da tre giorni, le ho raccolte quasi tutte e procedo dunque ad elencare:
Opinione 1. L’Ottimista. Finalmente la società civile s’è svegliata, tutto è bello a modo suo.
Opinione 2. Il Realista. È brutta, perché negarlo, brutto non è un disvalore, liberiamo la categoria.
Opinione 3. Il Cafone. È un cesso, altroché.
Opinione 4. Lo storico dell’Arte. La bellezza ha canoni più oggettivi di quelli che pensate, è la vita che ci divide in belli e brutti. Su Claudia Schiffer vi dividereste? Ovviamente no.
Opinione 5. Quello che riconosce i fenomeni ammaestrati. Vi state facendo infilare nel sacco per la centesima volta da Alessandro Michele.
Opinione 6. L’osservatore più acuto. Guardate che dall’angolo destro invece è incredibilmente intensa, è il fotografo che esagera apposta i difetti.
Opinione 7. Il Puro di Cuore. Il problema è che nel 2020 non si deve parlare così.
Opinione 8. Il Soldato del Giusto. È bodyshaming.
Opinione 8: La reduce del metoo. È patriarcato.
Opinione 9. Quello che ne capisce. È marketing, fessi.
Opinione 10. Quella che ne capisce. I Gucci di Tom Ford ancora me li sogno la notte.
Tutti costoro sono accomunati da una convinzione di ferro, questa: che il mondo in fondo segua il flusso delle loro micragnose riflessioni. Vediamo. Che si dice del bello e del brutto là fuori? Dai dispacci ufficiali risulta che le persone più seguite dell’universo – le Kardashian, Beyoncé, varie - si lisciano con botox e filtri, si impiantano culi di gomma, si sbiancano o s’abbronzano con lo spray, si stirano, si sbiondano, si controllano le foto come maniache e fanno ritirare quelle del Superbowl dove sono venute male. Sul fronte TikTok non ne parliamo: ci sono undicenni di trent’anni che praticano l’arte dell’eyeliner e delle mossette ballerine. Sanno cos’è una posizione a tre quarti per rimpicciolire nasi, sfinare vite, fare il regghetòn. Esperte totali di estetica classica dalla prima media. Volevo quindi rassicurare i commentatori del web: questo movimento di normalizzazione è per noi anziani, le giovani sono devotamente dedicate all’arte di apparire carine, come nel 1950, forse pure peggio. Ma noi continuiamo pure a scialare con le nostre scemenze sui social, siamo proprio i vecchi al bar.
Caso 2. Valentina Ferragni. È entrata tra gli influencer Optimates per cooptazione, insomma campa superbamente dell’indotto del cognome. Valentina Ferragni è una magnifica ragazza di poco più di vent’anni, sapete quei visi biondi con gli occhi verde fiammingo che spargono luce tutt’intorno, è la dote migliore per fare belle foto, nasci benedetta dal dio dell’obiettivo. E in effetti figura molto bene su Instagram. In più raccomandata perché la sorella è la proprietaria di una delle SpA del cartello dell’internet e Chiara è una ragazza generosissima e supportive: hey sono le mie sorelle, facciamo raggiungere anche a loro sette milioni di follower! Il follower è pesce di cannuccia, piglia tutto, segue, obbedisce. Dov’è la notizia. Spesso Internet si deve mobilitare a favore di Valentina Ferragni perché certi hater, quegli stronzi, fanno notare che non è una taglia 38. La fine della storia è che la nostra scrive o si fa scrivere un furbo comunicato social in cui dice che non le importa di essere taglia 43 perché nella vita bisogna essere felici, sani e allegri. Non dimenticherò mai quando l’ho vista in quarantena impegnata in una pubblicità dello swiffer pattinando in casa con uno skateboard. Quanto avrà guadagnato in quei trenta secondi, 5000 euro? Che bel lavoro. Con tutto quello che ho studiato me li meritavo pure io, un po’ di soldi gratis. E tuttavia questo dice di me: Hater! Io odio, per la miseria, certo che odio. Qua abbiamo i furbetti dell’internet che si fanno vacanze a scrocco e pigliano banconote per una pattinata in soggiorno sullo skate, ci mancherebbe pure che qualche fesso si mettesse ad apprezzare e fare l’inchino. Mi calmo. Tanto noialtri reazionari da old economy siamo i perdenti al grande gioco dei social. L’unica cosa che ci resta è sceglierci bene la nullità che vogliamo arricchire con la nostra attenzione. Questo naturalmente mi qualifica come hater di secondo livello. La parte più interessante della storia è questa. Che io sono cattiva. Perché non riesco a essere positive e supporter per chi ha dimostrato tanta tanta forza confessando che sì, pesa 54 chili e non si vergogna. Platea commossa, lacrime di ringraziamento nelle storie di Valentina. Vedete qual è la rivoluzione silenziosa: il consumatore è riuscito nell’impresa di farsi fregare il doppio di prima. È proprio lo scemo per eccellenza, il consumatore, l’ultimo della catena alimentare del capitalismo. Si merita tutto. Ci hanno sempre detto che primo sintomo di intelligenza è la curiosità. Sapere, parlare, confrontarsi. La discussione è importante, la discussione costruisce, la discussione paga. Verissimo, ma adesso ne paga solo alcuni. Curiosità è un concetto che s’è evoluto, come quello di bellezza. Sintomo moderno d’intelligenza è il chi se ne frega. Vince chi non partecipa. Disinteressarsi sembra una fuga, invece è la soluzione.
Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 29 agosto 2020. Benvenuti nel mondo alla rovescia, in cui il Brutto viene spacciato per Bello, la libertà di espressione viene bollata come body shaming, ossia derisione del corpo, e il giudizio estetico - parte fondante delle facoltà della Ragione, come ci ha insegnato Kant - viene imbrigliato dalle ipocrisie del politicamente corretto. L'armena 23enne Armine Harutyunyan è stata scelta da Gucci come volto e corpo per le sue sfilate e campagne promozionali, essendo considerata dal celebre marchio come «una delle 100 modelle più sexy del mondo». Molti, guardando le sue foto, hanno pensato semmai il contrario, cioè che sia una racchia inspiegabilmente finita nel regno per eccellenza della Bellezza. E lo hanno dichiarato pubblicamente sui social, attaccando Gucci per la scelta. Ora, la casa di moda avrà avuto le sue mille ragioni per puntare su Armine. La prima potrebbe essere quella di far parlare di sé, di sconvolgere il comune cittadino con una provocazione. Un'altra potrebbe essere l'obbedienza ai canoni del politically correct per cui bisogna capovolgere tutte le certezze alle quali finora eravamo ancorati: non esistono più maschi e femmine ma mille generi fluidi, i clandestini non sono migranti illegali ma poveri profughi, il brutto non è brutto ma un «bello anticonvenzionale». Un'altra ragione potrebbe essere la sincera convinzione, da parte del direttore creativo di Gucci, che Armine sia una bellissima donna (idea contestabile, ma legittima). Ciò non toglie tuttavia il diritto di critica da parte di non la pensa così e trova la Harutyunyan bruttina o bruttissima. Ed è assurdo che tutti costoro, per aver osato esprimere un'opinione estetica, vengano bollati come «sessisti», «misogini», fautori del «body shaming» o «razzisti», essendo la modella in questione un'armena (leggasi a riguardo quanto scrivono siti come quello dell'Huffington Post e di Radio 105). Vorremmo ricordare agli illiberali, che pretendono di imporre una visione unica della realtà anche quando essa fa a pugni con l'evidenza, il buon senso e il senso comune, che il parere di natura estetica, se non offensivo, è sempre lecito, che sia rivolto a maschi, femmine, animali, monumenti, opere d'arte. Certo, intelligenza vuole che non si riduca la valutazione complessiva su una persona a quell'unico aspetto né che il giudizio sulla bellezza o bruttezza influenzi il parere sugli altri aspetti, finendo per occultare altre eventuali qualità. Ma, a maggior ragione quel giudizio diventa lecito, anzi necessario, per una modella che vive della sua bellezza. È come esprimere un'opinione sulle qualità tecniche di un calciatore. Essa riguarda l'elemento che fa di loro ciò che sono. Dopodiché possiamo sdilinquirci a fare distinzioni tra "ciò che è bello" e "ciò che piace", a ricordare che la Bellezza è oggettiva e si auto-impone, laddove il gusto resta soggettivo e può riguardare ciò che bello non è. Oppure possiamo spingerci a relativizzare il Bello, a dire che esso cambia a seconda dei tempi e dei luoghi, delle culture e dei singoli individui, e sostenere che la Bellezza è negli occhi di chi guarda. Va bene tutto ma, ai nostri umili occhi, Armine risulta brutta. Molto brutta. E vogliamo rivendicare il diritto di pensarlo e dirlo. Ciò non toglie che ella possa essere un'ottima persona, intelligentissima, e magari una professionista brava a sfilare. Ma, per le fattezze che non ricordano esattamente la Venere di Botticelli, le avremmo preferito un milione di altre donne come testimonial di Gucci. Sennò, viene da dire, il modello potevo farlo pure io (e dai, Gucci, arruolami come bello «non-convenzionale»).
Da “Libero Quotidiano” l'8 settembre 2020. Da giorni non si fa che parlare di Armine Harutyunyan, la modella scelta da Gucci insultata sul social (e non solo) perché la sua bellezza non rientra nei canoni. Anzi, per molti è proprio brutta. Leggete quest'articolo che Vittorio Feltri ha scritto nel 1981: è la prova che la bellezza è solo un'opinione. Ieri come oggi. Non faccio per vantarmi, ma di brutte me ne intendo. Credo che tutti gli uomini si siano macchiati la fedina amorosa almeno con una Fosca, più o meno segretamente; ebbene, io ne ho avute tre o quattro, e pubblicamente, poi ho smesso di contarle. Se c' è in giro una racchia, posso stare tranquillo: sarà mia. Senza sforzo. Né mio, né suo. Personalmente mi rassegno come davanti a una calamità naturale cui non vale la pena d' opporsi. Di solito mi siedo e aspetto la consumazione degli eventi, ma talvolta, come un condannato desideroso d' espiare in fretta la pena, prendo io l' iniziativa e m' avvio al patibolo. Il boia va agevolato per reciproco interesse. A parte gli scherzi, il mondo è pieno di gente normalmente brutta, basta guardarsi attorno. Le donne belle, belle sul serio, quelle che proprio ti fanno trasalire eccetera, non sono a nostra portata di mano: o sono di un altro, o sono su Playboy o sullo schermo del cinema, oppure non so dove, mai comunque nei dintorni. Comprendo perfettamente che, questi, non sono pensieri carini, e me ne scuso con le fidanzate passate e future, ma è inutile fingere ancora. E salutiamo con soddisfazione questo film liberatorio, Passione d' amore, che al di là delle forzature sempre consentite nelle sintesi artistiche, rende la realtà così com' è e come la viviamo: brutta, bruttina, raramente sufficiente a seconda delle alterne vicende della fortuna. Un film, di per sé, sarebbe ben poca cosa, senonché, nella fattispecie, è un segno che (sia pure oltre cento anni dopo il romanzo di Tarchetti, cui la pellicola s' ispira) il senso comune è cambiato o sta cambiando. La bruttezza, poiché esiste ed è sicuramente più diffusa del suo contrario, viene finalmente celebrata per ciò che vale: un elemento con il quale l' umanità ha rapporti familiari. Anche le persone più gradevoli sono spesso orrende, almeno una volta al giorno. E allora perché insistere con la presentazione agiografica dei personaggi, femminili specialmente, implicati nelle vicende cinematografiche? Non è forse più giusto dire racchia alla racchia e racchio al racchio? D' accordo che l' arte può essere sublimazione, ma c' è modo e modo di sublimare; dovendo rappresentare una "signora così così" ci sono tre alternative: crearla a sua immagine e somiglianza, esagerare in positivo o in negativo. Quest' ultima soluzione è indubbiamente la migliore perché, se è vero che l' orrido mal si concilia con le aspettative del pubblico, che ama identificarsi con splendidi eroi, è altrettanto vero che un confronto fra brutti è fortemente consolatorio per le parti in causa. L' esaltazione del brutto fa bene alla salute, giova all' igiene mentale, mette al riparo dalle recrudescenze nevrotiche, è incoraggiante: mal comune mezzo gaudio, si dice, e noi sappiamo quanta saggezza vi sia in queste quattro parole lise. Adesso siamo agli inizi, ma quando il concetto di "bruttezza uguale a tutti noi" avrà preso piede, allora - scusate il bisticcio - ne vedremo delle belle: pensate che sollievo, e mi riferisco specialmente alle donne, non dover più, la mattina, litigare con lo specchio delle nostre brame; basta con le righe nere sugli occhi, basta col rossetto, basta con gli estenuanti e patetici sforzi di assomigliare a Ornella Muti. La quale, poi, con rispetto parlando, dal vero non sarà così "inumana" come al cinema; magari ha la gastrite o il raffreddore da fieno o chissà quali affezioni dello stesso tipo che rendono repellenti, a tratti, le nostre fidanzate. D' altra parte il processo d' accettazione del brutto, ovvero di noi medesimi, è in atto da parecchio con alti e bassi: il cinema del dopoguerra accanto a Silvana Pampanini e Gina Lollobrigida offriva Anna Magnani che delle tre è la più rimpianta, e non certo per questioni connesse all' eros. E la Masina è stata forse una vamp? Eppure, quando recentemente la Tv ha replicato La Strada, l' indice di gradimento è "impazzito". Perché la qualità non sposa necessariamente seni turgidi e prorompenti, vita sottile e glutei marmorei. Al cinema come nel quotidiano. Il guaio però è la moda, creatrice di miti effimeri e durevoli ad un tempo: miti edificati sullo stato di grazia delle cellule esterne. Un anno vanno le prosperose, un altro le secche, e poi le cavallone e poi le oche mimetizzate da cigni. Quindi, esaurito il ciclo, si ricomincia da capo, come se l' umanità per piacersi potesse modellarsi secondo i capricci del momento. E non ci rendiamo conto che il nostro senso estetico quando viene mandato all' ammasso, ne esce frustrato, avvilito. Il gusto invece, se educato in proprio, rivela una sorprendente adattabilità alle situazioni: sa trovare l' ago più bello anche nel pagliaio più brutto. Per esempio una volta avevo una collega con una piccola ma inconfondibile gobba; faceva impressione. Ma a forza di starle accanto mi persuasi che quella gobbetta, su quella schiena e sotto quella testa, in fondo era un quid irresistibile. La corteggiai, ammetto. Ma non vi dico come è andata a finire.
Oggi non si può dire «brutta» Domani neppure «Stupido»...Dunque, Gucci sceglie una modella brutta, molta gente commenta che è brutta (come era naturale, geniale strategia di marketing) e succede un casino: è body shaming e sessismo. Massimiliano Parente, Lunedì 31/08/2020 il 31 agosto 2020 su Inside Over. Dunque, Gucci sceglie una modella brutta, molta gente commenta che è brutta (come era naturale, geniale strategia di marketing) e succede un casino: è body shaming e sessismo. Dicono che è una «bellezza non convenzionale», che è il nuovo modo di chiamare una bruttezza convenzionale. Ma le modelle non dovrebbero essere belle? No, in un mondo che vuole rendere tutto uguale, e dove anche la bellezza è discriminante. Tuttavia immaginate se Gucci avesse scelto come modello Steven Hawking, sono sicuro che nessuno gli avrebbe detto che è brutto e paraplegico, sia perché non era un modello, sia perché aveva un cervello che lo rendeva veramente diversamente abile, che ai miei occhi lo rendeva bellissimo. E però, attenzione, una persona molto intelligente, un genio, non discrimina i meno intelligenti? Se diciamo che Einstein è un genio non stiamo discriminando, che so, Michela Murgia quando dice una delle sue tante stronzate? Non è brain shaming? Oltre a essere sessista, perché è una donna, quindi potrebbe fare pure la modella e sarebbe bellissima (Giuliano Ferrara no, è più intelligente ma è sempre stato un orrido ciccione, per questo non ha mai fatto il modello, ma non è una donna). Non sono certo un simpatizzante di Matteo Salvini ma gli insulti alla sua faccia e alla sua pancia non si contano sotto i suoi tweet, e nessuno si è mai lamentato di body shaming, neppure lui. Curiosamente gli insulti sulla faccia di Zingaretti sono infinitamente meno, segno che chi fa body shaming contro Salvini sono proprio i paladini di sinistra del politicamente corretto. Per carità, non è che Salvini sia bello, però se si mettesse una parrucca e facesse il modello diventerebbe una bellezza non convenzionale e potrebbe sfilare per Gucci. In ogni caso se una modella brutta con le sopracciglia come i baffi di Freddie Mercury è una bellezza non convenzionale, tutte le altre modelle convenzionali la offendono, non è che si può dire «bella questa» e «bella questa», così come trovare una magra bella offende le grasse e una pornostar maggiorata offende chi ha una prima di seno. A essere offensivo nel politicamente corretto è che esista una gerarchia delle cose. Credo che prima o poi ci arriveremo: dare del deficiente a qualcuno è un'offesa politicamente scorretta, perché se è deficiente non sarà certo colpa sua, e non puoi fare del brain shaming. In quest'idea dove non esistono più gerarchie, in questa nuova società marxista-capitalista dove tutti sono uguali, tutto è offensivo a meno che tutto non sia messo sullo stesso piano. Io negli anni ho scritto centinaia di stroncature di romanzi mediocri (inclusi quelli della Murgia, che però sarebbe una splendida modella di Gucci) e mi rendo conto di aver fatto book shaming. Chiedo scusa.
La modella di Gucci Armine Harutyunyan fa ancora discutere: in un fake il saluto romano. Da repubblica.it il 30 agosto 2020. Dopo la discussione sul suo aspetto fisico e il body shaming che ha impazzato sui social, la modella armena Armine Harutyunyan, scelta da Gucci, è ancora presa di mira. Questa volta con un fake originato da una foto che ha lei stessa postato su Instagram. Nei giorni scorsi, Harutyunyan è stata insultata ed è stata al centro di discussione perché il suo viso, con i tratti tipici della popolazione armena, non si conforma agli stereotipi dei canoni di bellezza occidentale. Alcuni sono arrivati a ipotizzare che la scelta della casa di moda sia stata un'azzeccata mossa pubblicitaria, visto che le foto della modella, spesso accompagnate da insulti e offese, sono state tra le più viste in rete. Dopo il body shaming, arriva il fake, con la strumentalizzazione di una foto che la modella ha postato su Instagram. Di fronte all'Altare della patria, a Roma, Harutyunyan si è fatta fotografare con un braccio alzato e l'altro teso verso il basso, una gamba sollevata come in un passo di danza. La scritta diceva: "Ave sunstroke", cioè "ave colpo di sole" e le lettere che compongono la parola "Caesar" in sovraimpressione. Per alcuni la prova che la modella fa il saluto fascista, una tesi smentita però da un'altra foto, sempre postata su Instagram che mostra la stessa posa da un'altra angolazione, dalla quale si vede bene che si tratta di un atteggiamento scherzoso, che nulla ha a che vedere con il braccio teso di mussoliniana memoria.
Saluto shock dell'icona chic. Marco Gervasoni per “il Giornale” il 30 agosto 2020. Contrordine compagni. Armine Harutyunyan, la modella delle sfilate e della pubblicità di Gucci dalla bellezza «non convenzionale», come si dice con un termine che sarebbe molto piaciuto a George Orwell e alla sua novalangue, non può essere più il vostro mito, la vostra Marianna rivoluzionaria che conduce il popolo del femminismo, del politicamente corretto, della lotta al bieco maschilismo. Sì, è vero, l' avete difesa strenuamente contro quattro imbecilli che l' hanno insultata in quanto «brutta» - ma diciamo pure che i canoni della bellezza sono relativi fino a un certo punto, e Armine non vi rientra. Gli odiatori ci sono cascati, ma anche voi femministe e progressisti avete contribuito a creare un evento, non facendo spendere un euro di pubblicità a Gucci ma permettendo di parlare del marchio per giorni: quello che qualsiasi impresa desidererebbe. E anzi, care femministe e progressisti, vi siete spinti persino oltre, a nobilitare una ditta, il cui scopo è (ci mancherebbe) macinare profitto, in un' azienda etica, in un attore politico capace di dire: siamo tutti uguali, belli e brutti non conta più. Peccato che l' egualitarismo di Gucci si fermi di fronte alle altre sue modelle, ragazze splendide, e che i suoi vestiti e i suoi prodotti non siano alla portata di tutti, anzi - altro che uno vale uno. Ci siete cascati di nuovo, care femministe e progressisti del politicamente corretto, ma questa volta la figura barbina è doppia perché Armine, il simbolo dell'«antifascismo» (un termine che vuole dire ormai tutto e il suo contrario) che cosa ti fa? Scatta una fotografia in cui, di fronte all' Altare della patria, saluta romanamente con il braccio destro alzato, mentre sorride un po' enigmaticamente. Armine non lo sapeva, e forse non conosce neppure il significato di quel gesto, ma da lì a pochi metri Benito Mussolini aveva proclamato il ritorno dell' impero sui colli fatali di Roma. La fotografia, scattata nel giugno scorso, è stata postata sulla pagina Facebook della modella ma ha cominciato a circolare ieri, provocando frizzi e lazzi di godimento e di sfottò: aspettiamo cosa diranno ora gli antifascisti in servizio attivo e permanente. Rimane il dubbio che le coincidenze non siano casuali, e che ci sia lo zampino di un volpone della comunicazione per promuovere il brand. Sia questo o altro, la lezione è sempre questa, care femministe e progressiste; a imporre la morale al mondo e le lezioncine ideologiche troverete sempre qualcuno che, con un gesto futurista, farà vedere quanto siete ridicoli.
No, Armine non è bella ed è giusto essere sinceri. Elena Loewenthal per “la Stampa” il 30 agosto 2020. Stando all' iconico marchio di moda per il quale sfila quest' anno, Armine Harutyunyan è una delle cento donne più sexy del mondo. E' una ragazza di 23 anni con un nome importante che viene dall' Armenia. Un viso spigoloso, due occhi neri scavati sotto un paio di sopracciglia folte, dritte e meditabonde, e un sorriso pieno di intelligenza. Ma nelle fotografie che ormai spopolano in rete indossa quasi sempre un' espressione accigliata, come se lei ce l' avesse con tutto il mondo. E forse ha ragione. Perché da quando è uscita in passerella, Armine è stata investita da un' onda anomala di bodyshaming, di pesanti insulti rivolti al suo aspetto. Un vero e proprio uragano tutto frutto dei soliti leoni (e non meno leonesse) da tastiera che, pronti a dettare al mondo le proprie leggi, l' hanno caricata di un ricco assortimento di improperi, al cui confronto "racchia" è una carezza. Come capita sempre nel mondo virtuale, non è tardata la formazione di uno schieramento opposto, con massiccia levata di scudi a difesa di Armine. Il che non è solo legittimo, ma sacrosanto. Il punto, però, non è tanto il dovere morale e civile di salvaguardare - anche se solo virtualmente - una giovane donna vittima di insulti, quanto la strategia adottata quasi all' unanimità: non è vero, Armine è bellissima. No, non è questa la strada. Armine non è bellissima, e nemmeno bella. Sarà pur vero che non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace, ma per l' appunto Armine bella proprio non lo è. Obiettivamente, per lo meno sulla base di canoni estetici assodati da secoli. Per lei, per quel suo sguardo profondo e intelligente, per quell' ovale che ovale non è ma triangolo, per quelle sopracciglia spinose, si può dire che è "particolare", "interessante", che "ha dei bei capelli" (anche se forse portarli dietro le orecchie e appiccicati alla testa non aiuta a valorizzarli). Ma bella? Diciamocelo sinceramente, proprio no. Il punto, allora, è questo.E cioè che per un autentico progresso, per una educazione collettiva attraverso e dentro la rete, è forse giunto il momento di tentare una via che sfugga dall' antitesi del politicamente corretto/scorretto e s' inoltri sul terreno spinoso ma inevitabile della sincerità. In altre parole, non negare l' evidenza, ma accoglierla civilmente. Riconoscere che Armine bella proprio non lo è, magari ammettere pure che è bruttina. Ma che la bellezza non è una virtù né tanto meno un merito. Non è una virtù come non lo è essere bianchi invece che neri. Non è un merito come non lo è essere bruni invece che biondi. E dunque chi non è bello ma brutto non è carente né colpevole di nulla. E proprio perché essere belli non è una virtù ma una fortuna (e neanche sempre quella), anche se non si è belle si può essere brave a sfilare, portare bene l' abito, essere interessanti, intriganti, professionali, simpatiche e chi più ne ha più ne metta. Negare l' evidenza che Armine non è bella non serve per combattere il pregiudizio e l' odio da tastiera. Anzi, può dare sponda all' ottusità di chi se la prende con lei solo perché non è bella, solo perché obiettivamente (e statisticamente) una delle cento donne più sexy del mondo non lo è. Il vero progresso, insomma, non può prescindere da una certa dose di lucidità. Anche se, a giudicare dagli sconfortanti spettacoli di cui la rete dà prova quotidianamente, non ultimo quello ai danni dell' intrigante modella armena, la strada per arrivare ad assunti semplici come "è brutta, è brava" (attenzione, non "è brutta ma brava", che dice tutto il contrario) è ancora piuttosto lunga.
Dieci grazie per la modella "diversamente bella" e per la spiegazione di oscure dinamiche. Il cinismo del marketing, la finestra di Overton e le ipocrisie delle campagne radical riassunte in una sola iniziativa. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 31 agosto 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. Innanzitutto complimenti di cuore alla simpatica Armine Harutyunyan per aver fatto fessi tutti quanti e per essere riuscita a diventare famosa e, si spera, anche ricca. L’augurio per lei è che abbia un carattere forte e un pizzico di opportunismo per sfruttare al massimo la visibilità del momento senza farsi ferire nel profondo dalle critiche feroci che le vengono rivolte non a priori, come vorrebbero farci credere, ma per il ruolo che ricopre. Un sentito grazie a Gucci perché con la scelta della sua nuova modella ci ha fornito delle importanti chiarificazioni sul mondo della moda, ma non solo. Abbiamo finalmente capito che il concetto di “bello assoluto” e di “moda” non sono legati. Anzi. Ne avevamo avuto qualche sentore già da qualche anno, vedendo sfilare in passerella vestiti-incubo, probabilmente disegnati dopo severe indigestioni di mitili, ma ora ne abbiamo la certezza: sulla bellezza e lo charme è da qualche decennio che il mondo del fashion ha le idee molto confuse. Anche sul concetto di “nuovo” occorrerebbe qualche ripetizione, dato che una sosia di Armine fu scelta da Vuitton e Jean Paul Gauiter negli anni ’90 e si chiamava Rossy de Palma. Grazie Gucci per aver dato una svegliata a quei pochi uomini etero rimasti che stravedono per le modelle, individuandole come riferimento estetico del corpo femminile. Grazie anche per aver svelato a molte ricche signore che non sarà un vestito firmato a renderle assolutamente belle e desiderabili e che possono investire i loro soldi in attività molto più costruttive per acquisire autentico fascino: sport, cultura, viaggi, salute. Grazie Gucci perché ci ha anche confermato che questo non è il paese del merito, dove né i più intelligenti, colti e preparati occupano i posti di potere, (su questo c’eravamo arrivati già da un po’), né quelli considerati più belli diventano degni di sfilare in passerella. “Demeritocracy”: un marchio tutto italiano che ora abbiamo divulgato a livello internazionale con lo slogan: “Incompetenti e inadeguati di tutto il mondo, unitevi e accorrete in Italia: avrete i posti migliori”. Grazie per averci ricordato i livelli di ridicolo cui si possono spingere le campagne buoniste-progressiste, con la loro stucchevole, falsa retorica dell’inclusività e per aver offerto un saggio di come siano in grado di ottenere esattamente l’opposto a quanto si prefiggono apparentemente, suscitando l’ira e il risentimento del pubblico. Ora, infatti, sui social circolano foto di una abbacinante Claudia Schiffer 20enne: una sorta di esorcismo estetico-arianizzante in stile “periodico tedesco del 1938”. Complimenti, risultato raggiunto. Ma lo sappiamo che lo fate apposta, ce ne siamo accorti. Grazie infatti per averci svelato un classico trucco della "Finestra di Overton". La tecnica è chiara: porre il rappresentante di una minoranza che fa comodo in un ruolo per il quale non è chiaramente adeguato, e quando il popolo, prevedibilmente, grida crucifige! replicare inviperiti: “Ecco, lo attaccate perché è diverso. Siete degli …isti e degli …ofobi”. Grazie Gucci per averci proposto un esempio di scuola sul cinismo del marketing, dove pur di far parlare del proprio marchio si espone al prevedibilissimo ludibrio generale una ragazza di 23 anni, la quale, speriamo, non riporti danni all’autostima per questa gogna evidentemente programmata. Un cinismo paragonabile a quello di un teatro d’opera che facesse cantare un giovane tenore inguaribilmente stonato per ottenere pubblicità grazie ai pomodori lanciatigli dal pubblico. (Includiamo anche gli stonati, no? Forse che solo quelli dotati di una voce bella e potente, di una tecnica vocale sicura, sono degni di cantare in teatro?). Grazie Gucci anche per aver assestato un colpo mortale al relativismo politicamente corretto, almeno nella sua dimensione estetica. Tutti quei fantocci che oggi sdottorano di Armine citando i “diversi canoni di bellezza contro gli stereotipi occidentali” si sarebbero messi meno in ridicolo se si fossero spalmati di catrame e poi cosparsi di piume. Il concetto di modella “diversamente bella” sembra infatti uscito da una battuta dell’ultimo cabarettista di Zelig. Grazie di cuore per aver qualificato la credibilità etica degli stilisti, che ora fanno i paladini contro il body shaming dopo aver proposto per decenni modelli di bellezza scheletrici, mandando in analisi eserciti di ragazzine affette da dismorfismo e anoressia. Prima la criminale taglia 38, poi le modelle curvy, (da ospedalizzazione immediata), adesso le diversamente belle. Sono per caso in convenzione con il Centro Nazionale Psichiatria dell’Adolescenza? Grazie Gucci per averci dato ancora una volta conferma del fatto che stiamo vivendo lugubri tempi inversivi dove ogni cosa è messa alla rovescia, e così facendo, per contro-esempio, fornite un’idea molto chiara di ciò che significa un mondo al dritto. Innalziamo alla vostra iniziativa un calice di aceto, il quale poverino, al confronto con lo Champagne, potrebbe offendersi e sentirsi discriminato.
La modella Armine “Sono più di una faccia, e alle ragazze dico di non omologarsi”. Pubblicato lunedì, 31 agosto 2020 su La Repubblica.it da Serena Tibaldi. Ormai nemmeno si contano più gli articoli, le inchieste e i saggi dedicati alla bellezza di oggi, di come la sua accezione sia sempre più ampia, e di come la moda stia abbattendo stereotipi e luoghi comuni. Peccato che, alla resa dei conti, le cose siano molto diverse: prova ne è la feroce polemica che ha coinvolto Gucci, brand che ha costruito la propria fortuna sulla celebrazione del diverso, e Armine Harutyunyan, modella 23enne armena dal viso assai particolare. In breve: nei giorni scorsi compaiono online diversi pezzi sulla ragazza che la definiscono la nuova musa del direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele. Anzi, lui l’ha addirittura inserita tra le 100 donne più sexy. In realtà, a parte una sfilata a settembre del 2019, Armine non ha più lavorato per il marchio: è tutta una bufala, come lo sono le accuse di “filo-fascismo” mosse alla modella un paio di giorni fa per un selfie davanti all’Altare della Patria a Roma. Ma se la notizia è falsa, a essere vera è la valanga di odiatori che le si è abbattuta addosso sui social network e tra i commenti agli articoli. La sua colpa? Essere troppo “strana”. Attorno ad Armine s’è così scatenato il dibattito su chi abbia diritto d’essere considerato bello. Dibattito di cui lei, in realtà, sa ancora poco: vive infatti a Erevan, la capitale armena dove è nata e cresciuta. Dire che la cosa l’abbia colta di sorpresa è poco.
Armine, secondo lei perché in Italia si parla tanto di lei?
"Onestamente non ne ho idea, solo ora sto capendo quello che è successo. Davvero non me lo spiego, anche perché ho sfilato per Gucci un anno fa, non c’è nulla di nuovo di cui discutere. Non so perché stia accadendo ora!"
Sono state dette molte cose su di lei, anche piuttosto dure. Come ha reagito alle critiche?
"Non è stata la prima volta, quindi ho esperienza sulla faccenda: lo scorso anno, dopo la sfilata per Gucci, un programma TV turco aveva addirittura iniziato a fare la mia parodia. È stata dura all’inizio, non capivo perché ce l’avessero tanto con me, non gli avevo fatto nulla. Inoltre io sono stata la prima modella armena a sfilare per una grande casa di moda: sentivo la responsabilità, il peso del ruolo. Non è stato facile, ma poi grazie alla mia famiglia e agli amici, che mi hanno protetto e sostenuto, l’ho superata".
E stavolta, com’è andata?
"All’inizio mi sono stupita, ci sono rimasta male, è ovvio. Però man mano mi sono resa conto che assieme alle critiche ci sono stati anche tanti dalla mia parte, pronti a incoraggiarmi: e questo aiuta parecchio. Non so perché tutto questo sia successo, e non posso vietare alla gente di parlare, ma posso ignorarli".
Si parla tanto di un’idea di bellezza meno canonica, eppure appena qualcuno osa essere diverso viene criticato senza pietà. Come mai?
"Credo che le persone siano spaventate da tutto quello che è diverso. A parole è facile essere aperti al nuovo, ma poi quando ci si trovano davanti non lo capiscono, non sanno come reagire, e allora attaccano. Per questo non vale la pena di preoccuparsi troppo di loro".
I social media possono creare un’immagine distorta della realtà che può avere pessimi effetti sui più giovani. Lei cosa consiglierebbe a una ragazzina che non si ritrova in ciò che vede online?
"Di non badare troppo a quello che accade attorno a lei, e di non ostinarsi a fare per forza quello che gli altri fanno. Meglio concentrarsi su di sé, su chi è lei e su cosa ama: ci sono molti modi diversi di essere belli".
Parlando di bellezza contemporanea, Gucci ha fatto moltissimo per sdoganare un’estetica lontana dagli stereotipi. Secondo alcuni però si tratterebbe anche di marketing. Lei che è stata parte del mondo del brand, che ne pensa?
"Penso che senza Alessandro Michele io non avrei mai potuto essere una modella, essere scoperta per caso a Berlino e debuttare in passerella da Gucci. Amo la sua visione tanto aperta e no, non credo che sia solo un modo per far parlare: il suo approccio ha cambiato il costume, a prescindere dalle polemiche. E questo bisogna riconoscerglielo".
A proposito di polemiche: come risponde a quelli che l’hanno accusata di aver fatto il saluto romano in un selfie a Roma?
"Che non è assolutamente vero! Ero con i miei amici, avevo in testa una corona d’alloro, volevo solo rendere omaggio agli antichi Romani: era uno scherzo, e basta! Non so come qualcuno ci abbia potuto vedere dell’altro".
Non ha ancora affrontato sui suoi social media tutto quello che è accaduto negli ultimi giorni: una scelta voluta?
"Per ora non mi sembra necessario, davvero, anche perché come dicevo non ne sono ancora pienamente consapevole. Vivere qui in Armenia in un certo senso mi ha protetto".
Qual è la lezione che si può imparare da tutto questo?
"Che è meglio essere diversi che omologati al resto, anche se non tutti ti capiranno. Alla fine è un problema loro, non mio".
Parliamo di futuro: che piani ha?
"Oltre a fare la modella sono una grafica e una set-designer, e al momento lavoro come designer per la più grande compagnia armena: è un lavoro che mi viene naturale, i miei nonni sono pittori e professori d’arte, ce l’ho nel sangue".
Ma lei, quando si guarda allo specchio, cosa vede?
"Vedo una persona che è più di una faccia, che ha tanti interessi, tante cose da dire e da fare. E che non ha tempo per chi la vuole abbattere".
Marco Zucchetti per “il Giornale” il 29 agosto 2020. A Luigi Di Maio questo Giornale non ha mai perdonato nulla. Il curriculum mediocre, le gaffe a ripetizione, le giravolte politiche senza ritegno, il clientelismo di cui il suo Movimento è portatore: da anni azzanniamo le sue terga grilline, simbolo dell' antipolitica nemica di ogni meritocrazia. Però, dato che anche un orologio rotto due volte al giorno segna l' ora giusta, capita che oggi sia doveroso difenderlo. Fa impressione, non ci viene facile, ma davanti al politically correct ottuso, dieci, cento, mille Gigino. Tutto ha inizio con la fotografia del ministro degli Esteri con l' omologo cinese Wang Yi, postata qualche giorno fa. Di Maio sfoggia un' abbronzatura imbarazzante che sembra più che altro una tostatura. Roba che in Lombardia così scuro non diventi nemmeno se cadi nell' altoforno della fabbrichetta. La cosa non passa inosservata e sui social si scatena il finimondo di meme: Di Maio con la maglietta della Roma di (...) (...) Aldair, Di Maio come prodotto fallato che ti arriva quando su Internet ordini Obama, Di Maio in Una poltrona per due, in Indovina chi viene a cena?, che schiaccia a canestro come Michael Jordan...Invece di reagire alla grillina - cioè prendendosela col mondo e coi poteri forti - per una volta il ministro dà prova di sagacia e riposta un collage di fotomontaggi, fra cui lui protagonista di Tototruffa '62: «Ragazzi... dall' anno prossimo prometto crema protezione 50. Grazie per avermi reso la giornata più leggera». Peccato che la leggerezza non si addica al clima attuale, al Black Lives Matter e ai suoi alfieri ideologizzati. E dunque ecco piovere critiche indignate sui social, col corollario di un articolo sulla versione online del New York Times in cui si ricorda che «negli Usa chi fa ironia sulla black face si dimette o viene licenziato, perché la pratica è considerata altamente offensiva. Ma forse in Italia lo è meno». E fa niente se nessun nero al mondo può essersi minimamente sentito ferito. Sembra incredibile scriverlo qui, ma se dobbiamo scegliere tra la innocente libertà di scherzare su un' abbronzatura e il totalitarismo orwelliano di censori sciocchi in cerca di razzismo immaginario, allora ci teniamo Di Maio. Perché in una democrazia un ministro degli Esteri inadatto si può giubilare alle elezioni; in una dittatura del pensiero unico è probabile che il diritto di voto venga tolto alla prima battuta cromaticamente scorretta.
Enzo Verrengia per "La Verità" il 28 agosto 2020. Negro e indiano: parole proibite nel mondo orwelliano del politicamente corretto, dove la comunicazione si carica di retaggi scaduti per i normali cicli della Storia. Così la mannaia della nuova censura si abbatte su Agatha Christie. Ad opera dei francesi, stavolta, che trasformano il titolo transalpino del suo capolavoro, Dieci piccoli negri, in Erano in dieci. Come se non fosse bastato, a suo tempo, l'intervento inquisitorio degli americani, che lo cambiarono in Alla fine non rimase nessuno fin dalla prima uscita del romanzo, nel 1938. Dame Agatha, nella sua vena intoccata da considerazioni di opportunità, aveva usato per il libro e l'impianto della trama la filastrocca «Dieci piccoli indiani», popolarissima nei Paesi di lingua anglosassone. Peccato che al di là dell'Atlantico fervessero sensi di colpa per il trattamento riservato ai nativi e lo schiavismo. Non valevano due considerazioni. Le tribù indiane erano in guerra tra di loro e, come gli Aztechi di Apocalypto, scivolavano verso l'autoestinzione, soltanto accelerata dalle armi da fuoco. Quanto allo schiavismo, gli africani imbarcati sulle navi dei negrieri venivano catturati e venduti dai loro conterranei. Il «buon selvaggio» esisteva solo nella mitologia illuminista, da cui scaturirono la Rivoluzione francese, il Terrore, la ghigliottina e le tricoteuse, le terribili spettatrici delle esecuzioni, cui assistevano sferruzzando, tra un sogghigno e l'altro. Agatha Christie non era oppressa da rimorsi epocali. In Inghilterra lo schiavismo era stato abolito senza una guerra civile e le popolazioni di colore del Commonwealth, specialmente delle Antille, concorrevano a formare una versione moderna dell'impero romano. Dieci piccoli indiani rimane un esempio perfetto di intrigo ad alta tensione, che ripropone le unità aristoteliche di luogo, tempo e azione. Sull'«Isola del Negro», ora divenuta in Francia l'«Isola del Soldato», i dieci condannati a essere uccisi uno dopo l'altro per scontare peccati trascorsi e dimenticati, danno prova del fatto che la civiltà avanzata dell'occidente, quella del diritto e della giustizia, non assolve mai se stessa. Tanto meno lavandosi la coscienza con correzioni formali del lessico. Eppure, a voler modificare il titolo della scrittrice è stato un suo diretto discendente, il pronipote James Prichard, dichiarando: «Ritengo che Agatha Christie voleva innanzitutto divertire e non le sarebbe piaciuta l'idea che qualcuno fosse ferito da una sua frase». Verrebbe da pensare all'espressione latina excusatio non petita, accusatio manifesta. Se non fosse che la Christie faceva narrativa allo stato di massima eccellenza, con un meccanismo ad orologeria inimitabile. Ma tant' è: la parola «negro» ricorre 74 volte nel testo originale e viene del tutto epurata in quello rivisto, e nella copertina della nuova edizione francese si legge Erano in dieci. Tutti contenti? Nessuno si sente ferito? O è il contrario, per quanti temono il ritorno dell'Inquisizione?
"La cancel culture crea mostri anche nel mondo dell'arte". Il giovane regista Daniele Bartolini porta alla Biennale Teatro uno spettacolo che svela i disastri del politicamente corretto in America. Stefania Vitulli, Sabato 29/08/2020 su Il Giornale. Forse perché vive e lavora in Canada, immerso nella cultura anglosassone ormai da anni, con il suo centro di produzione «Dopolavoro teatrale». Forse perché appartiene alla «generazione di mezzo», i millennial che cercano sempre disperatamente di capire tutto. Sta di fatto che per rispondere alla chiamata di Biennale Teatro sulla censura, il regista, drammaturgo e performer Daniele Bartolini ha scelto il tema culturale del momento, la cancel culture. Che però è anche il tema più spinoso e controverso che potesse selezionare. Così ha concepito The Right Way, sostenuto dall'Ambasciata canadese a Roma e da Villa Charities, il centro italocanadese a Toronto: spettacolo per un solo spettatore che apre e chiude la Biennale. Ogni giorno, a Cà Giustinian, per venti minuti a turno, tra le 10 e le 20, si va in scena dal 15 al 21 settembre. È prevista interazione con gli attori, utilizzo di un casco di realtà virtuale e pure alcune scene di nudo, per cui il tutto è adatto a un pubblico adulto: il fine è indagare, insieme a chi guarda, le conseguenze sulla produzione artistica e culturale di una nuova forma di censura.
Censura nel 2020, in Occidentale: pareva impossibile.
«Il mondo nordamericano e forse anche british attraversano un cambiamento radicale, mai visto prima. Se ne parla tanto, ma mi pare non ci sia comprensione esatta di ciò che sta accadendo nelle menti delle persone: le voci alle quali viene dato un microfono e consentito di esprimersi non sono più tutte quelle di prima».
Come ha deciso di affrontare la questione?
«Come se fossi un reporter che torna da un viaggio: il mio non è un atto di polemica, però la cancel culture qui in Canada, come in tutti gli Stati Uniti, è ormai un discorso enorme. Se commetti un errore o fai qualcosa che può essere ritenuto offensivo presso gruppi ritenuti di minoranza, si crede fermamente che tu debba sparire, essere cancellato, perdere il tuo posto di lavoro».
Le conseguenze sull'arte?
«Ad esempio, circolano documenti sulla revisione del linguaggio di Shakespeare, che potrebbe essere offensivo rispetto ad alcune minoranze. Ora, che tu lo ritenga giusto o no, è una correzione rispetto a un materiale che ha cinque secoli. Qui, ora, ha molto valore chi crea un'opera più ancora dell'opera, quindi ci si chiede: chi è autorizzato a parlare di determinati argomenti e chi non lo è? Ci viene detto che non possiamo parlare più di tutto: eppure di alcune cose, anche se non abbiamo conoscenza, abbiamo sensibilità».
Qualche esempio?
«Sean Penn fece Milk (un film sul primo gay dichiarato a essere eletto a una carica politica negli Usa, ndr) come attore trasparente che entra in qualcosa che non conosce: adesso si sta diffondendo l'idea che per parlare di una cosa devi far parte di quel gruppo».
Quindi per interpretare un omosessuale devi essere omosessuale o aver «militato» come omosessuale?
«Diciamo di sì. Al Pacino che in Scarface faceva il cubano oggi potrebbe essere ritenuto un caso di appropriazione culturale. Ricordate la black face di Carmelo Bene in Otello? Sarebbe inconcepibile, anzi, per qualcosa che andrebbe eliminato da un copione o da un testo, pena la mancata produzione artistica o rappresentazione o pubblicazione, è stata coniata un'espressione: problematic. Molte persone si stanno spaventando e non si stanno esprimendo per via della cancel culture perché non l'hanno mai affrontata. Altri stanno prendendo le misure e credo che presto ci saranno una serie di reazioni».
In che modo The Right Way indaga questa forma di censura?
«Mi sono chiesto che cosa perdiamo quando cerchiamo di essere a tutti i costi inclusivi e tolleranti, che cosa cerchiamo di cancellare per fare ordine. Quale può diventare quindi il ruolo dell'arte e dei suoi necessari meccanismi sovversivi? Oppure l'arte deve addirittura prestarsi a divulgare questi concetti?».
Che cosa accade nello spettacolo?
«Il mio artigianato teatrale avviene di solito fuori dallo spazio scenico teatro/platea e avviene in un ambiente site specific. In The Right Way lo spettatore entra nel cervello di un regista che si occupa di teatro di narrazione, il mio, attraverso un microfilm fatto in 3D con la virtual reality. E vede immagini legate ai temi di censura e autocensura contemporanea. Tolto il casco di realtà virtuale, lo spettatore dovrà provare a creare o correggere un'opera in diretta su un set cinematografico».
Su che cosa hai lavorato per il serbatoio di questo disorientamento?
«Alcuni punti di partenza sono stati la problematicità dell'essere bianco oggi o dell'essere italiano in Nord America rispetto alle minoranze, alla sessualità. Che cosa accade nella testa di un individuo nel momento in cui c'è un movimento molto forte che ti sussurra che cosa è giusto pensare e come è giusto agire? Sotto la spinta di queste censure, creeremo un mostro? Politicamente corretto ormai non va inteso nel senso di politicamente bilanciato, ma di rettificato con una correzione politica: quello che racconto è un processo di morte di un certo modo di intendere il fare cultura e il fare teatro».
Nadia Vandelli per "ilprimatonazionale.it" il 25 agosto 2020. Dopo la natura "censurata" dalla Bbc per evitare scompensi emotivi nei giovani, adesso si rende più "inoffensiva" la punteggiatura: anche un punticino in più potrebbe turbare un ragazzo al giorno d’oggi. Almeno stando ad alcuni esperti di linguistica, secondo i quali nel testo di messaggi WhatsApp o sui social il punto viene ormai concepito come "aggressivo". La cosiddetta Generazione Z, quella degli attuali adolescenti o massimo ventenni, è cresciuta nell’era della messaggistica istantanea, ergo il segno di punteggiatura finale non è più comunemente usato. Le abitudini di comunicazione si sono per così dire "evolute" (anche se in effetti il termine esatto sarebbe "involute").
Acute osservazioni. La bella dottoressa Lauren Fonteyn, progressista, coi tatuaggi in vista e col piercing al setto, ha twittato: “Se invii un messaggio di testo senza un punto, è già ovvio che hai concluso il messaggio. Quindi, se aggiungi quel segnale aggiuntivo per il completamento, vi verrà letto qualcos’altro e tenderà ad essere interpretato come un tono negativo”. Secondo il Telegraph, i linguisti sono tutti più o meno concordi sul fatto che il punto è diventato ormai superfluo, dato che i messaggi di testo vengono conclusi premendo "invia". Owen McArdle, linguista dell’Università di Cambridge, ha dichiarato al Telegraph: “Non sono sicuro che questo valga però per le e-mail. Immagino che dipenda da quanto queste siano formali”. Insomma, voi non sarete tutti linguisti di fama come lui, ma potevate arrivarci comunque. Secondo il Daily Mail, nel 2015, uno studio della Binghamton University di New York ha concluso che le persone che finiscono i messaggi con il punto sono, addirittura, percepite come "insincere".
Neolingua coccolosa. Lo studio ha coinvolto 126 studenti universitari, tutti appartenenti alla generazione di ‘snowflake’ che passa la vita a offendersi su internet, e i ricercatori hanno scoperto che i messaggi di testo che terminano il punto venivano associati dai baldi giovani a segnali di persone false e cattive. Insolitamente, invece, i testi terminanti con un punto esclamativo (quello che un tempo nel "galateo di Internet" era paragonato all’urlare) sono considerati sentiti o più profondi. Celia Klin, professoressa che ha condotto la ricerca, ha commentato così: “I ‘texter’ fanno affidamento su ciò che hanno a disposizione: emoticon, errori di ortografia deliberati che imitano i suoni del parlato e, secondo i nostri dati, la punteggiatura”. Quindi il punto, che di per sé significa che una conversazione o parte di essa è finita, col suo suono definitivo è troppo rude per i ragazzi di oggi e gli si attribuisce un significato "intimista". Altro che neolingua di Orwell, per il futuro il linguaggio sarà carino e coccoloso, mutuato da quello di Federico Moccia.
Laura Zangarini per il "Corriere della Sera" il 25 agosto 2020. I direttori del Festival internazionale del cinema di Berlino Mariette Rissenbeek e Carlo Chatrian hanno annunciato ieri un importante cambiamento: a partire dall'edizione 2021 (11 -21 febbraio), i premi per l'interpretazione diventeranno neutri rispetto al genere. I riconoscimenti per il miglior attore e la migliore attrice saranno sostituiti da un Orso d'argento per la migliore performance protagonista, e un Orso d'argento per la migliore interpretazione non protagonista, assegnati ciascuno su base neutra rispetto al genere. «Crediamo che, in campo attoriale, non separare i premi in base al genere costituisca un segnale per una maggiore consapevolezza verso la sensibilità di genere nell'industria cinematografica», hanno dichiarato Rissenbeek e Catrian, rispettivamente direttore esecutivo e direttore artistico della Berlinale. L'Orso d'argento per attore e attrice viene assegnato dal 1956. I vincitori dell'edizione 2020 del festival, svoltasi poco prima della diffusione della pandemia Covid-19, sono stati Elio Germano, protagonista di Volevo nascondermi , il film di Giorgio Diritti dedicato al pittore Antonio Ligabue; e Paula Beer interprete di Undine , di Christian Petzold. Il festival ha anche confermato l'eliminazione del Premio Alfred Bauer (riconoscimento intitolato al direttore della Berlinale dal 1951 al 1976), sospeso quest' anno a causa delle rivelazioni sul legame di Bauer con il nazismo (era un funzionario di primo piano del Ministero della propaganda guidato da Joseph Goebbels). Al suo posto sarà consegnato il Premio della Giuria - Orso d'argento. Oltre alla ridefinizione dei premi, la Berlinale ha fatto sapere che, per l'edizione 2021, proseguono i piani per organizzare un festival in presenza. E inoltre l'European Film Market (EFM), uno dei principali mercati cinematografici del mondo che nel periodo del festival rappresenta il centro degli affari per gli addetti ai lavori, lo si sta pensando come un modello ibrido di attività online e offline. «Festival e mercati sono luoghi di incontro e comunicazione - hanno sottolineato Chatrian e Rissenbeek -. Questo vale sia per il pubblico che per l'industria. Una caratteristica importante dei festival risiede proprio nel loro vivace rapporto con gli spettatori. Durante la pandemia è diventato ancora più chiaro che abbiamo bisogno di analoghi spazi di esperienza nel regno della cultura. Siamo lieti - hanno proseguito i due direttori - che, in tutto il mondo, si stiano nuovamente svolgendo festival con un pubblico fisicamente presente, e auguriamo ai nostri colleghi ampio successo». La programmazione e il numero totale dei film ospiti della Berlinale 2021 saranno definiti dalla direzione nelle prossime settimane. E una delle sezioni del festival, la sezione «Generazione», mostrerà solo film con una durata di almeno 60 minuti, senza cortometraggi.
Il politically correct uccide il cinema: "No a premi per donne e uomini". Alla Berlinare niente più premi per uomini e donne ma solo statuette gender neutral: questa la novità della prossima edizione, che vedrà anche l'abolizione del premio dedicato al suo fondatore. Francesca Galici, Lunedì 24/08/2020 su Il Giornale. Il politically correct che abolisce il genere sbarca anche nel mondo del cinema e al Festival internazionale del cinema di Berlino, dove dalla prossima edizione verranno assegnate solo statuette neutre. È quando deciso dal comitato organizzatore della Berlinale, che ha anche annunciato che l'edizione che si svolgerà a febbraio sarà in presenza e non in via telematica. Nonostante i contagi siano in aumento anche in Germania, infatti, il Paese vuole cercare un nuovo equilibrio e ritrovare la normalità che con il Covid si è persa. La ripartenza delle manifestazioni, però, porterà delle novità importanti soprattutto alla Berlinale, che per la prima volta annullerà le premiazioni per il miglior attore e la migliore attrice ma assegnerà un unico riconoscimento gender neutral. Si rompe, quindi, la tradizione che perdura da decenni e che accomuna tutte le manifestazioni dedicate al cinema, anche i premi Oscar. Gli unici Leoni d'argento che verranno assegnati saranno quello per la miglior performance da protagonista e quello per la miglior performance da non protagonista, "ciascuno dei quali conferitsu base gender-neutral", si legge sul sito della kermesse. Anche il cinema si inchina all'ideologia gender, imposta da una certa dittatura di pensiero. Mariette Rissenbeek e Carlo Chatrian, direttori del Festival internazionale del cinema di Berlino hanno motivato la loro decisione radicale: "Crediamo che non separare i premi nel campo attoriale sulla base del genere costituisca una segnale per una maggior consapevolezza sulla sensibilità di genere nel cinema". Un'altra mossa che farà discutere è l'eliminazione dell'Alfred Bauer Prize. Il premio intitolato all'uomo che ha dato i natali a uno dei festival cinematografici è stato cancellato perché sono stati tracciati dei contatti tra il giurista e storico del cinema con il nazismo. In una società che mira alla cancellazione della storia, una politica che in Germania ha preso piede già dal secondo dopo guerra, viene eliminato il riconoscimento dedicato all'uomo grazie al quale la manifestazione è nata nel 1951. La prima edizione del premio Alfred Bauer risale al 1987, l'edizione successiva a quella della sua morte, sopraggiunta nel 1986. Bauer è stato uno dei più grandi studiosi e storici del cinema tedesco del suo tempo e mantenne la direzione artistica della Berlinare per ben 26 anni, fino al 1976. La prossima edizione prenderà il via l'11 febbraio e si protrarrà per 10 giorni, fino al 21 febbraio. L'edizione 2020 è stata una delle ultime grandi manifestazioni che si sono tenute in Europa prima della conclamazione dell'epidemia e, quindi, della panddemia Covid. Nel 2021, in occasione del settantenario della kermesse, i direttori hanno sottolineato la "vitale relazione con il pubblico".
Dagospia il 25 agosto 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Leggo che i direttori del Festival del cinema di Berlino, Mariette Rissenbeek e Carlo Chatrian, hanno annunciato un “importante cambiamento” (Zagarini, “Corriere della Sera”): a partire dall'edizione 2021 i premi diventeranno neutri rispetto al genere. I riconoscimenti per il miglior attore e la migliore attrice saranno sostituiti da un Orso d'argento per la migliore performance protagonista e un Orso d'argento per la migliore interpretazione non protagonista, assegnati su base neutra. Ma perché l’Orso? L’Orsa non ha niente da dire di fronte a una palese discriminazione? Nell’Orsologia non esiste il genere neutro? Un lettore
Cristina Marconi per “il Messaggero” il 27 agosto 2020. Si può nel 2020 concludere un grande appuntamento nazionalpopolare cantando versi che celebrano la grandezza dell' impero britannico e di un passato coloniale in cui molti cittadini del Regno Unito non si riconoscono più? Nel dubbio, i vertici della BBC hanno diplomaticamente deciso di limitarsi a una versione strumentale di Rule Britannia! e Land of Hope and Glory, i due pezzi incriminati, uno del 1735 e uno del 1901, con la scusa che il Covid non permette di riunire un coro abbastanza grande per interpretarli con tutta la magnificenza del caso, nella serata finale dei Proms, ossia le otto settimane estive di appuntamenti di musica classica che finiranno il 12 settembre con la cerimonia alla Royal Albert Hall. Una decisione che ha fatto infuriare molti spettatori, buona parte dei conservatori e il premier Boris Johnson: «Credo sia ora di smetterla con il nostro pusillanime imbarazzo sulla nostra storia e sulle nostre tradizioni».
IL NO DELLA SINISTRA. E non ha trovato sostegno neppure nel Labour - «Ascoltare musica patriottica non è e non deve essere un ostacolo al fatto di ragionare sul nostro passato e trarne lezioni» - con il leader Keir Starmer che ha criticato la scelta di privare i telespettatori di uno dei tradizionali momenti di gioia di fine estate. Nella serata finale dei Proms, di solito non è solo il coro a cantare ma tutti e 5mila gli spettatori alla Royal Albert Hall e spesso la gente da casa, creando uno dei grandi appuntamenti nazionali del paese. Secondo il direttore generale uscente della BBC, Tony Hall, è proprio perché questo clima sarà impossibile da ricreare con le restrizioni dovute al Covid che è meglio limitarsi alla versione strumentale, mentre il suo successore Tim Davie, che subentrerà la settimana prossima, avrebbe fatto pressione per fare in modo che i due pezzi, in un modo o nell' altro, fossero suonati e che si evitasse la scelta drastica di censurarli. «Per fugare ogni dubbio, queste canzoni verranno cantate l' anno prossimo», ha spiegato un portavoce della tv di stato, spiegando di «capire la delusione» delle persone e di non vedere l' ora di poter assistere allo spettacolo completo nel 2021. Parole diplomatiche, che però celano a malapena quello che è il vero problema, svelato da un articolo del Sunday Times nel fine settimana, ossia che molti membri dell' orchestra si sentono a disagio all' idea di suonare pezzi così connotati da un punto di vista storico nell' anno del Black Lives Matter e dell' abbattimento, tra le altre, della statua del mercante di schiavi Edward Colston a Bristol. Un terzo pezzo, Jerusalem, verrà presentato in una nuova versione, dedicata alla generazione Windrush, dal nome della prima nave che portò immigrati dei Caraibi nel Regno Unito nel 1948.
IL CANONE. Ma la mossa della BBC rischia di attirare più critiche che altro, dal momento che i britannici sono obbligati a versare un canone da circa 180 euro all' anno e che in molti, davanti all' avanzata di concorrenti come Sky o Netflix, sono sempre più riluttanti a pagare, tanto più con un governo che fin dall' inizio ha dimostrato di voler attaccare il ruolo della Bbc, la cui missione è quella di «informare, educare, intrattenere» ma che viene sempre più spesso accusata di essere parziale, politicizzata, irrilevante. In realtà in molti, nella querelle su Rule Britannia!, hanno fatto notare come proprio la mancanza di diversità etnica ai piani alti abbia portato a una decisione dettata dal panico, che sta privando i britannici di tutte le origini di uno dei rari momenti di gioia collettiva di questo strano 2020.
Da “la Verità” il 23 agosto 2020. Indignazione (ma anche commenti divertiti) per una bravata di una giovane donna ad Agrigento. Una bionda si è infatti fatta immortalare a cavalcioni della statua di Andrea Camilleri nella centrale via Atenea, ponendogli la borsetta in mano, e ha postato lo scatto sui social. «La giovane chieda scusa ad Agrigento, alla famiglia Camilleri e allo scultore», ha tuonato il sindaco, Calogero Firetto.
Da liberoquotidiano.it il 23 agosto 2020. Alba Parietti nudista per caso: il settimanale Nuovo l’ha pizzicata in una spiaggia di Formentera, dove la nota opinionista televisiva è andata in vacanza. Presto la Parietti si è resa conto che sono tutti senza veli e allora si adegua: arrivata con un trikini nero, presto si accorge di essere circondata dai nudisti. E che problema c’è: la 59enne in un primo momento sfoggia il topless, dopodiché si infila la maglietta ma si sfila con disinvoltura il costume in riva al mare. Tra l’altro la Parietti mostra anche un nuovo taglio di capelli che la ringiovanisce, ma non è questo il vero motivo per cui si fa notare. Dopo le vacanze, Alba a settembre sicuramente tornerà nei salotti tv in qualità di opinionista, ma potrebbe anche essersi suo figlio Francesco in qualità di concorrente del Grande Fratello Vip.
Giada Oricchio per iltempo.it il 24 agosto 2020. Dopo tre giorni, torna a infiammarsi la polemica per la copertina di "Gente", la rivista diretta da Monica Mosca. Il settimanale ha dedicato la prima pagina a Chanel, la figlia di Ilary Blasi e Francesco Totti: lato B in primo piano e viso pixellato per rispettare la Carta di Treviso sui diritti dei minori nell'ambito dell'informazione. Il massimo dell'ipocrisia visto il titolo: "A 13 anni Chanel Totti è la gemella di mamma Ilary". Avendo nascosto il volto, va da sé che il riferimento può essere solo al fondoschiena tonico. La Rete ha messo subito in evidenza che la copertina era "volgare, inopportuna e con sfumature pedofile". A 13 anni sei una bambina che si affaccia alla vita e il direttore Monica Mosca si è dimenticata che Chanel non ha gli anticorpi per sopportare il vouyerismo sul suo lato B, non è mamma Ilary (come scrive Gente) o una qualsiasi donna adulta che sceglie consapevolmente di mettere in mostra il proprio corpo. Chanel ha subìto "un'aggressione mediatica", non ha cercato o voluto questo tipo di attenzioni. È stata sbattuta in prima pagina e messa alla mercé dei criticoni. Un commento per tutti: "Eh però, io mia figlia non la mando al mare con il tanga". Poco importa che fosse un costume intero. Ilary Blasi e Francesco Totti hanno taciuto fino a stasera quando entrambi nelle Instagram Stories hanno pubblicato la copertina della rivista con l'emoji della faccina arrabbiata a coprire il lato B e un messaggio: "Ringrazio il direttore Monica Mosca per la sensibilità dimostrata mettendo in copertina il lato B di mia figlia minorenne senza preoccuparsi del problema sempre più evidente della sessualizzazione e mercificazione del corpo delle adolescenti". La maggior parte dei follower ha espresso solidarietà alla coppia, ma qualcuno ha rinvangato il passato ricordando le foto sensuali di Ilary. Ebbene, era maggiorenne e a quell'età le donne - cari maestrini puritani - hanno il diritto di fare del proprio corpo ciò che vogliono.
Dagospia il 24 agosto 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Sono molto dispiaciuta e amareggiata per le reazioni generate dalla pubblicazione sulla copertina di Gente numero 34 della foto di Francesco Totti e della figlia Chanel, scattate in spiaggia. Come direttore ho sempre inteso valorizzare le donne e più in generale sostenere i valori della famiglia: era l’intento anche di questa pubblicazione, in cui si è voluto semplicemente ritrarre la famiglia Totti in un momento di normalità. In alcun modo, ovviamente, abbiamo mai inteso uscire da questo obiettivo. Monica Mosca Direttore di Gente
Figlia di Totti in copertina, Ordine dei giornalisti segnala direttrice "Gente" a consiglio di disciplina. Da adnkronos.com il 24 agosto 2020. Il presidente dell'Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna, in accordo con il segretario Guido D’Ubaldo, ha deciso di "procedere con la segnalazione al collegio di disciplina territoriale competente della direttrice responsabile di Gente, Monica Mosca, al fine di valutare la sussistenza di eventuali violazioni della Carta di Treviso - inserita nel testo unico della deontologia - per aver pubblicato in copertina del settimanale la foto della figlia minorenne di due personaggi noti del mondo dello sport e dello spettacolo focalizzando l’attenzione sull’aspetto fisico. Anche la Commissione Pari Opportunità del Cnog ha stigmatizzato l’episodio". E' quanto si legge in una nota dell'Ordine dei giornalisti a proposito della pubblicazione sulla copertina di “Gente” del lato b di Chantal, la tredicenne figlia di Francesco Totti e Ilari Blasi, in una foto rubata mentre la giovane era al mare con il padre. "Noi abbiamo anticipato la notizia - spiega Verna all'Adnkronos - ma la segnalazione sarà fatta il 27 agosto, quando riapriranno gli uffici dell'Ordine ancora chiusi per la pausa estiva".
Chanel Totti in copertina accende l'ira dei genitori: "Si mercifica il corpo delle adolescenti". Una foto in costume, di spalle, di Chanel Totti sulla copertina di un noto settimanale ed è polemica per la sessualizzazione del corpo delle adolescenti; scoppia la rabbia di papà Francesco e mamma Ilary Blasi. Francesca Galici, Lunedì 24/08/2020 su Il Giornale. Da giorni sui social è montata la polemica contro il settimanale Gente, che nel numero in edicola ha dedicato la copertina a Francesco Totti ma, soprattutto, a sua figlia Chanel. La secondogenita del Capitano e di Ilary Blasi è una bellissima ragazzina ma, appunto, è poco più che una bambina. La scelta di metterla in copertina, di spalle, dando evidenza al suo corpo non è piaciuta al popolo della rete, sempre pronto a stigmatizzare comportamenti ritenuti sbagliati, e nella serata di ieri è arrivato anche l'intervento dei genitori della piccola Chanel. Chanel Totti è nata il 13 maggio 2007, a meno di due anni di distanza dal fratello Cristian. Il 10 marzo 2016, invece, è nata Isabel, la piccola di casa. La famiglia Totti è molto unita e sia Francesco che Ilary tengono particolarmente alla privacy dei loro bambini. Solo negli ultimi anni i tre fanno brevi apparizioni sui social dei genitori. Chanel, come tutte le ragazzine della sua età, ha aperto un suo profilo Instagram e uno TikTok ed è soprattutto in quest'ultimo che è la ragazza è particolarmente attiva, con contenuti tipici per le ragazzine della sua età. Da ormai diversi anni, Chanel somiglia tantissimo a sua madre Ilary Blasi. Bellissima ma ancora acerba, la ragazzina è stata celebrata dal settimanale Gente. La scelta di dedicarle la copertina, scegliendo uno scatto che la ritrae in costume e di spalle, non è però piaciuta. Sono immediatamente piovute critiche sul giornale, che ha oscurato il volto della ragazza ma ne ha messo in evidenza il lato B, un comportamento che ai più è apparso ipocrita ma, soprattutto, poco rispettoso nei confronti di una ragazzina di appena 13 anni. "Davvero dobbiamo spiegarvi che mettere in copertina il lato B a nudo di una tredicenne non è accettabile anche se le censurate il volto? E che commentarla sessualmente, oggettificandone il corpo, è una violenza verbale a una bambina?", si legge tra i tanti commenti su Twitter. Dopo giorni di silenzio, nella serata di ieri sia Francesco Totti che Ilary Blasi sono intervenuti su Instagram con un post pubblicato nelle loro storie, con il quale stigmatizzano quella foto: "Ringrazio il direttore Monica Mosca per la sensibilità dimostrata mettendo in copertina il lato B di mia figlia minorenne, senza curarsi del problema sempre più evidente della sessualizzazione e mercificazione del corpo delle adolescenti". Nel tardo pomeriggio era intervenuto anche il Telefono Azzurro, che su Twitter aveva criticato con forza la scelta del settimanale: "Quando si parla di tutela dei minori è fondamentale che il mondo dell'informazione si schieri in prima linea: i principi della Carta di Treviso devono rappresentare un cardine in ogni scelta editoriale". Dopo la segnalazione di Telefono Azzurro è arrivata anche la denuncia del Moige all'Ordine nazionale dei giornalisti. Il movimento dei genitori, per voce del vicepresidente Elisabetta Scala, ha ritenuto "inaccettabile e perverso pubblicare sulla copertina di una rivista l'immagine di una tredicenne con il suo lato b in evidenza". In quest'azione, secondo il Moige, c'è l'aggravante del fatto che si sia fatto "esplicito riferimento ad esso e a quanto somiglia a quello della madre. Non c'è dubbio in proposito perchè il viso invece è coperto per tutelare l'identità della minore. E non può essere una giustificazione il fatto che si tratti di figlia di personaggi noti". Duro l'affondo finale da parte dell'associazione: "Questo nuovo andamento della comunicazione mediatica di iper-sessualizzazione dell'infanzia e dell'adolescenza, ai confini con l'istigazione alla pedofilia, deve produrre un unanime reazione di indignazione e al contempo essere immediatamente fermata dalle istituzioni che si occupano di tutelare i nostri figli e di salvaguardare un giornalismo e una comunicazione mediatica corretti e rispettosi dei minori". È di queste ore la comunicazione dell'Ordine dei Giornalisti, che sul suo sito ha diramato una nota ufficiale: "Il Presidente Carlo Verna, in accordo con il Segretario Guido D’Ubaldo, ha deciso di procedere con la segnalazione al collegio di disciplina territoriale competente della direttrice responsabile di Gente, Monica Mosca, al fine di valutare la sussistenza di eventuali violazioni della Carta di Treviso – inserita nel testo unico della deontologia – per aver pubblicato in copertina del settimanale la foto della figlia minorenne di due personaggi noti del mondo dello sport e dello spettacolo focalizzando l’attenzione sull’aspetto fisico. Anche la Commissione Pari Opportunità del Cnog ha stigmatizzato l’episodio". Immancabile la replica di Monica Mosca, che dopo le dichiarazioni dell'Ordine dei Giornalisti ha deciso di parlare in prima persona: "Sono molto dispiaciuta e amareggiata per le reazioni generate dalla pubblicazione sulla copertina di Gente numero 34 della foto di Francesco Totti e della figlia Chanel, scattate in spiaggia". La direttrice del settimanale Gente aggiunge: "Come direttore ho sempre inteso valorizzare le donne e più in generale sostenere i valori della famiglia: era l’intento anche di questa pubblicazione, in cui si è voluto semplicemente ritrarre la famiglia Totti in un momento di normalità. In alcun modo, ovviamente, abbiamo mai inteso uscire da questo obiettivo".
Michela Marzano per “la Stampa” il 25 agosto 2020. Perché nemmeno le donne riescono a integrare l'ABC della grammatica del rispetto? Com' è che, nonostante le battaglie, le prese di posizione, le analisi femministe, siamo proprio noi donne che continuiamo a inciampare sugli stereotipi sessisti, a fare gaffe e a non capire che, nel Paese, c'è una sensibilità a fior di pelle e non è più possibile dare adito a polemiche che fanno male prima di tutto a noi stesse? "Ho sempre inteso valorizzare le donne", ha commentato ieri amareggiata Monica Mosca, la direttrice di Gente, segnalata al collegio di disciplina dell'Ordine per aver pubblicato in copertina una foto della figlia tredicenne di Francesco Totti, Chanel, in costume da bagno. Sempre ieri, il movimento "Non Una di Meno" ha scritto una lettera aperta alla sovrintendente dell'Arena di Verona, Cecilia Gasdia, lamentando la presenza in cartellone di Gustav Kuhn e di Placido Domingo, entrambi accusati di abuso di potere e molestie sessuali. Due fatti molto diversi, certo. Ma che nella propria eterogeneità fanno emergere uno dei problemi centrali di fronte ai quali ci troviamo oggi in Italia: l'assenza di sensibilità nei confronti di ciò che fa male alle donne. Eppure, le protagoniste di entrambe le vicende - obietterà senz' altro qualcuno - sono donne. Due donne che, tra l'altro, occupano posti di responsabilità e che - ne sono convinta - difendono l'onore delle altre donne ma che poi, al dunque, agiscono esattamente come avrebbero agito i propri colleghi maschi, senza forse nemmeno interrogarsi sulle conseguenze (anche solo simboliche) delle proprie scelte. Il vero nodo del problema, d'altronde, non è il sesso o il genere di chi ha deciso di pubblicare la foto di Chanel o di ingaggiare Domingo e Kuhn, ma la difficoltà che abbiamo ancora oggi, nel nostro Paese, a costruire e a far emergere una vera cultura del rispetto. Non si tratta ovviamente di evocare la censura o il divieto. Anzi. Spesso è proprio quando si censura qualcuno o gli si vieta di dire o fare o mostrare qualcosa che quel qualcosa, poi, diventa interessante o degno di attenzione. Non sto quindi dicendo che Cecilia Gasdia non doveva inserire nel programma dell'Arena di Verona Placido Domingo e Gustav Kuhn, o che Monica Mosca non doveva pubblicare la foto della figlia di Totti. Sto semplicemente ragionando sull'opportunità di pubblicare certe foto o di invitare certe persone, ben sapendo che, come dice giustamente Ilary Blasi, la madre di Chanel, esiste un problema di mercificazione del corpo adolescente e che, come spiegano le attiviste di "Non Una di Meno", la voce delle vittime delle molestie sessuali non è ancora sufficientemente ascoltata. Il vero problema, quindi, è culturale e valoriale. È la mancanza di una consapevolezza profonda di quello che vivono tante ragazze e tante donne, ma anche l'assenza generalizzata di rispetto dell'altro, della sensibilità altrui, delle sue ferite e delle sue umiliazioni. Quella cultura e quella consapevolezza che siamo tutte e tutti chiamati a diffondere e a insegnare se vogliamo davvero sbarazzarci degli stereotipi e costruire una società inclusiva ed egalitaria. Non basta "stare dalla parte delle bambine o delle donne" quando si prende la parola in pubblico. Non basta nemmeno essere donne per agire correttamente. In fondo, sesso e genere dovrebbero poter diventare "neutri", come suggeriscono saggiamente gli organizzatori del Festival del cinema di Berlino che, sempre ieri, hanno deciso che a partire dal 2021 non ci sarà più un Orso d'argento al "miglior attore" o alla "migliore attrice", bensì alla "migliore performance", indipendentemente dal sesso o dal genere di chi recita. È d'altronde necessario essere in sintonia con chi l'emarginazione e la violenza la subisce sulla propria pelle - uomo, donna o trans -, essere consapevoli delle conseguenze delle proprie scelte, e andare anche controcorrente, uscendo dal coro della volgarità o del politicamente corretto. E poi avere il coraggio della non-complicità con l'assenza di spirito critico e di empatia. Sentire o capire cosa può far male. Pensare dal punto di vista di qualcun altro, come direbbe Hannah Arendt.
Gianluca Piacentini per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 25 agosto 2020. La scelta iniziale era stata quella di non rispondere per non alimentare voci, cattiverie, calunnie. Un comportamento a cui poi ha fatto posto la consapevolezza che una copertina così non poteva passare sotto silenzio, col timore che il silenzio potesse essere considerato anche un assenso. Francesco Totti e Ilary Blasi hanno riflettuto a lungo sulla possibilità di replicare o meno al settimanale «Gente», che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in costume (di spalle) della loro Chanel, 13 anni compiuti da poco, sottolineandone le forme simili a quelle della madre. Ma dopo che l'hashtag #ChanelTotti è stato a lungo tra le prime tendenze di Twitter, la coppia ha deciso di rispondere, sempre attraverso i social network, manifestando tutto il proprio disappunto. «Ringrazio il direttore Monica Mosca - le parole su Instagram di Totti e di sua moglie in un "comunicato congiunto" - per la sensibilità dimostrata mettendo in copertina il lato b di mia figlia minorenne senza curarsi del problema sempre più evidente della sessualizzazione e mercificazione del corpo delle adolescenti». Tantissime le risposte da parte dei tifosi, quasi tutti in difesa della famiglia Totti, per cui le «paparazzate» non sono mai state un problema, bambini compresi (oltre a Chanel ci sono Cristian, 15 anni, e Isabel, 4) e spesso anzi si divertono con i fotografi a cui, ad esempio, offrono da bere sotto il sole estivo. «Volto censurato, ma lato b messo in primo piano. Ha 13 anni, non vuole essere ripresa neanche nei video familiari con i genitori, ma non vi vergognate?», uno dei commenti apparsi su Twitter. «Che schifo, sessualizzare una ragazzina di appena 13 anni e mettere il suo sedere in copertina è vergognoso... è una minorenne! Spero in una bella denuncia da parte della famiglia Totti. Il ricavato della causa alle vittime di abusi sessuali». Le critiche maggiori sono per la direttrice del giornale, a cui si rivolgono in molti. Non a caso Francesco e Ilary nella loro risposta non hanno attaccato il paparazzo, perché ritengono non ci sia niente di male a fotografare un papà al mare con la figlia, ma la direttrice per l'uso fatto di quella fotografia. «Dovrebbero intervenire l'Ordine dei giornalisti (come è poi accaduto, ndr ) e il Garante dei minori riguardo alla pubblicazione della foto della piccola Chanel Totti non c'è più limite a niente....che si fa per vendere una copia in più...nessuno compri questo rotocalco». L'associazione Telefono Azzurro ha denunciato l'accaduto «e sensibilizza gli organi di informazione a tutelare sempre bambini e adolescenti, rispettandone l'immagine e la privacy. I mezzi di comunicazione hanno, infatti, una grande responsabilità nella costruzione di una società che promuova un ambiente di crescita positivo per i più giovani. Su questo tema la Carta di Treviso disciplina appunto i rapporti tra stampa e infanzia».
Da "ilmessaggero.it" il 26 agosto 2020. Nei giorni scorsi su Gente è apparsa una foto di Chanel Totti in costume da bagno con il lato B in primo piano. Lo scatto della figlia 13enne di Francesco Totti e Ilary Blasi ha fatto infuriare i genitori e scatenato polemiche. Selvaggia Lucarelli su Instagram ricorda un episodio simile avvenuto nel 2011 con protagonista Aurora Ramazzotti. La ragazza, all’epoca 15enne, venne paparazzata al mare con la madre Michelle Hunziker, ritratte di spalle e in bikini. “Nessuno fiatò. E la lista sarebbe lunga” scrive la giornalista. Aurora risponde: “Non erano tempi social, per questo "nessuno fiatò". Questa cosa ha inciso indelebilmente sulla mia crescita e non auguro a nessuno di passare quello che ho passato io”. Selvaggia ribatte: “Erano già tempi social e il giornalismo esisteva già da un po’. Quello che colpisce è che si deleghi ai social il dovere di indignarsi e di sensibilizzare. Nessuno ritenne necessario dire qualcosa. Nessuna polemica, solo una riflessione”.
"Io pago ancora le conseguenze..." Aurora e lo sfogo per Chanel Totti. Dopo la polemica su Chanel Totti, è stata chiamata in causa anche Aurora Ramazzotti per una vicenda simile del passato, che l'ha segnata nel profondo. Francesca Galici, Martedì 25/08/2020 su Il Giornale. La cover del settimanale Gente dedicata a Chanel Totti in costume, in una posa che ne evidenziava le curve e il lato B, ha creato molto scalpore. Sui social quell'immagine è stata oggetto di discussione fin dal principio, da quando la rivista è uscita in edicola, ma solo dopo l'intervento diretto di Francesco Totti e Ilary Blasi, genitori della ragazza, è nato il caso mediatico che ieri ha visto l'intervento, tra gli altri, dell'ordine dei giornalisti e del direttore della rivista, Monica Mosca. Poco fa ha deciso di intervenire anche Aurora Ramazzotti, in virtù del fatto che in passato anche lei si è trovata nella stessa situazione di Chanel, solo con meno clamore mediatico. Chanel Totti è una bellissima ragazza che, crescendo, sta acquisendo con sempre maggiore definizione i tratti somatici di sua madre. Ha solo 13 anni ed è nel pieno dell'età adolescenziale, un'età particolarmente delicata per le ragazzine, soprattutto in una società come la nostra, dove sono continuamente bersagliate da immagini di donne dai fisici scultorei che richiamano una perfezione in realtà inesistente. Modelli artefatti che alimentano dei meccanismi mentali nelle adolescenti, che si acuiscono in ragazze come Aurora e Chanel, che in casa hanno un esempio di donna che viene presa come modello da tantissime altre donne. Michelle Hunziker e Ilary Blasi sono tra le donne più belle del Paese e paragonare le figlie, ancora acerbe e in fase di crescita, fisicamente alle loro madri può essere deleterio per il loro sviluppo mentale. Infatti, proprio a proposito di questo, Aurora Ramazzotti è voluta intervenire per dire la sua. Ormai abbondantemente maggiorenne con i suoi 23 anni, Aurora è una giovanissima donna che ancora fa i conti con la pressione psicologica subita in passato, quando sulle copertine insieme a sua madre, in costume, c'era lei. "Non erano tempi di social, per questo 'nessuno fiatò'. Non credo che solo perché nessuno si è ribellato all'epoca debba normalizzarsi oggi una cosa che è sbagliata", ha premesso Aurora Ramazzotti. La figlia di Eros e di Michelle Hunziker ha, quindi, raccontato il suo calvario: "Questa cosa, come tante analoghe, ha inciso indelebilmente la mia crescita e non auguro a nessuno di passare quello che ho passato io. Ne sto pagando i conti ancora adesso". Aurora Ramazzotti, quindi, riprende il discorso dei modelli fuorvianti per le giovanissime, ma anche i per i giovanissimi, che sono bombardati di immagini troppo speso modificate con Photoshop. Ora la famiglia Totti ha fatto scudo su Chanel per evitare altre situazioni simili.
Dagospia il 23 agosto 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ma quale body positivity, i rotoli di ciccia di Arisa sono stati sdoganati da tempo grazie al porno, dove da anni spopola il chubby e c’è spazio per ogni genere di perversione. Nel porno trova spazio ogni fantasia, nel porno non c’è spazio neppure per il porno femminile perché il porno maschile ha inglobato pure quello, dalla dominazione a ogni declinazione dell’immaginario lesbo. Il porno ha fatto sì che anche se ti piacciono le novantenni o farti schiacciare le palle o farti spalmare di feci o farti una donna senza gambe tu possa trovare una community, un immaginario. Quindi Arisa ha semplicemente postato una foto porno che ha riscosso successo proprio perché porno. Il resto è solo una gara di narcisismi, Naike Rivelli si entusiasma per la forma sformata di Arisa così si vedrà meglio il suo corpo perfetto postato in continuazione in ogni posa (ma a me per esempio piace più la madre, le ho fatto una proposta ma non mi risponde), più Arise ci sono più le Naike si sentono fighe e politically correct. Invece devono tutti ringraziare il porno, perfino la Murgia lì avrebbe un mucchio selvaggio di spasimanti arrapati. Baci, Massimiliano Parente
Chanel Totti non ha scelto di mostrare il corpo e ha diritto di essere una minorenne spensierata. Notizie.it il 25/08/2020. La copertina di Gente che mostra il lato B della figlia tredicenne di Francesco Totti e Ilary Blasi ha cancellato l'identità della ragazza, costringendola ad assomigliare alla madre e a mostrare le parti più attraenti del suo corpo. “Sul corpo delle donne non passeranno”. Tra le prime a porre la questione della mercificazione del corpo femminile in televisione è stata Lorella Zanardo, scrittrice femminista che con la sua pubblicazione “Il corpo delle donne”, nel 2010, affrontava con coraggio la questione della televisione “spazzatura”, dell’avan-spettacolo permanente, dello sfruttamento mediatico del corpo per scopo di lucro. La tv commerciale, le veline, le letterine, c’era e c’è sempre un “ine” mortificante e disponibile per ridurre la donna a pure cornice folkloristica, rappresentando cosi una società che va via via scomparendo (e ne siamo felici); uomini attempati vicino a ragazze seminude e possibilmente mute. Una donna ai margini, subordinata o tutt’al più sorridente, oggetto di sketch televisivi dove l’uomo la osserva come un cane bastonato con la bava alla bocca e prova maldestramente a sedurre, mentre la telecamera la guarda dal basso. Quanti ne ho visti, nella mia adolescenza, di questi sketch da commedia all’italiana. Sono nata nel boom della televisione spazzatura, tette al vento e tante amiche che sognavano solo di fare le veline. C’è stato un momento, piuttosto lungo, che ha segnato la mia generazione, nel quale sembrava impossibile affermarsi in questo paese, riuscire a diventare qualcuno o qualcosa scegliendo la strada dei libri e non quella dei casting televisivi. Poi per grazia ricevuta, fortuna o educazione ci siamo evolute da quel modello che però persiste nel palinsesto televisivo italiano, in nome del Dio denaro. In questo delirio di modelli sconvolti e di riferimenti valoriali precari, sono le nuove generazioni ad essere oggi a rischio. Proprio la generazione di Chanel, che ha l’aggravante imperdonabile di chiamarsi “Totti” di cognome e di avere tredici anni, che anni meravigliosi i tredici anni. Una fase delicata che va protetta, gestita, sicuramente non abusata, non sbattuta in prima pagina senza volto, senza identità, ridotta a sedere sculettante privo di alcun diritto o premura. Un gesto eticamente discutibilissimo, privo di notizia, voyeurismo scellerato sulle spalle di una ragazzina che non ha ancora scelto chi e cosa vorrà essere nella vita e che ora in quel sedere perfetto potrebbe riversare complessi o eccessive aspettative. La foto in prima pagina del settimanale Gente non mostra il suo viso (non lo può mostrare proprio perché le regole della deontologia professionale lo impongono), ma mostra il suo lato B, sottolineando come la somiglianza alla madre Ilary Blasi sia ormai inequivocabile. Così, la povera Chanel è condannata due volte: la prima ad assomigliare alla madre (deve essere per forza all’altezza della sua bellezza) e la seconda a mostrare le parti più attraenti del suo corpo (proprio come la mamma nella sua carriera televisiva). Il circolo mediatico ha già scelto per lei ed è questo il torto più grande, la cancellazione della sua identità. C’è un particolare non trascurabile, per il quale Chanel deve essere assolutamente protetta e difesa: lei non ha scelto di mostrare il suo corpo a nessuno e finché non lo sceglierà, ha il diritto di essere una minorenne spensierata, non solo la figlia di Ilary Blasi, show girl dal corpo sempre perfetto e spesso mostrato (legittimamente) in televisione. Chanel ha il diritto di essere semplicemente una ragazzina, di poter fare le sue scelte liberamente senza che nessuno osi passare sul suo corpo. La scelta di pubblicare quella foto è stata una scelta violenta che ha giustamente scatenato la reazione dei genitori Ilary e Francesco Totti che sui social hanno polemizzato con la direttrice di Gente Monica Mosca che definiscono insensibile ai temi della “sessualizzazione e mercificazione del corpo delle adolescenti”. Un tema enorme che ci coinvolge anche come madri, angosciate da questa contemporaneità cosi sfuggente, dai social con i balletti ammicanti, dalle foto sempre più provocatorie di quelle che fino a poco tempo prima erano solo “le nostre bambine” che non leggono certo “Gente”, semmai vanno su Tik Tok. Ma si sa: la gente dà buoni consigli, se non può più dare cattivo esempio.
N.B. Nell’articolo abbiamo inserito la copertina di Gente, ormai girata su tutti i social, preoccupandoci però di tagliarla in modo tale che non siano visibili particolari del corpo della tredicenne che non riteniamo opportuni mostrare.
Giampiero Mughini per Dagospia il 25 agosto 2020. Caro Dago, francamente mi pare che ci sia troppo fracasso attorno al fatto che un settimanale italiano è comparsa un foto della figlia tredicenne di Totti e signora in cui la ragazza era inquadrata “da un angolo malizioso”. Fossi un lettore di quel settimanale e avessi visto la foto incriminata avrei detto fra me e me “Che bella figliola che hanno Totti e Ilary Blasi” e sarei passato innanzi. Nel caso ci si è messo di mezzo, mi sembra, pure l’Ordine dei giornalisti, l’istituto il più inutile dell’intera storia repubblicana. In fatto di foto “maliziose” la nostra epoca è tutto fuorché innocente. Ne vengono scaraventate a tonnellate ogni giorno sui vari media. Se prima o poi ci sarà il Giudizio Universale tu stesso, Dago, non la farai franca e fermo restando che io sono un gran nostalgico delle splendide foto di Umberto Pizzi sul tuo sito. Quel Pizzi che sta via via raccontando sul “Fatto” le guerre mondiali che combatteva per riuscire a fotografare l’uno o l’altra vip in pose compromettenti, ossia mentre uscivano da un locale con qualcuno che non era il rispettivo marito o la rispettiva sposa. Accadde il finimondo qualche decennio fa per una foto pubblicitaria di Oliviero Toscani in cui una gran bella ragazza in shorts era fotografata da dietro e dal basso. La foto di per sé stessa non è mai innocente. Tutto dipende da come tu la guardi. In molti si lamentarono quando “L’Espresso” pubblicò le foto martoriate del corpo di Pier Paolo Pasolini dopo la notte in cui aveva trovato la morte. A mio parere il settimanale romano aveva fatto benissimo a pubblicare quelle foto, che te lo rendevano palpabile l’orrore di quella notte. Ho conservato da qualche parte la foto di una ragazzina (apparsa sulla copertina di un rotocalco francese) che era rimasta incastrata a mezza vita con le gambe nell’acqua dopo non ricordo più se un terremoto o un maremoto in Messico o in Guatemala. La ragazza rimase in quelle condizioni per giorni, perfettamente lucida e consapevole, finché non morì. Glielo leggevi in volto che stava guardando la morte che si avvicinava lentamente. Leonardo Sciascia protestò contro la pubblicazione di quella foto. Io decisi di conservarla pur di custodire la mia commozione per la sorta di quella ragazzina. Forse la sola volta in vita mia in cui non ero d’accordo con quello che scriveva Sciascia.
Da leggo.it il 22 agosto 2020. Naike Rivelli contro Caterina Collovati sulla foto di Arisa: «Maestrina frustrata...Evviva la fica». Il post di Arisa contro il body shaming continua a tenere banco. La cantante nei giorni scorsi ha pubblicato su Instagram una fotografia al mare, in costume, senza nascondere le imperfezioni di un fisico normale e oggi in suo supporto si leva anche la voce di Naike Rivelli. La showgirl replica alla conduttrice tv Caterina Collovati dandone della "maestrina frustrata" e tacciandola di perbenismo. Ma procediamo con ordine. Nei giorni scorsi la foto di Arisa in costume aveva riscosso numerosi consensi - tra cui anche quello di Fedez e Caterina Balivo - ma anche qualche parere contrario. Tra queste fila, Caterina Collovati, che aveva commentato così la foto: «La moda del poitically correct ha rimbambito tutti... body positivity e balle varie, che noia! Ciò che balza all’occhio in questa foto non sono i rotolini di ciccia di #rosalbapippa in arte #arisa che trovo anche divertenti. È quel pube sbattuto in faccia al lettore che mi pare fuori luogo». Oggi è arrivata la replica di Naike Rivelli, che ha commentato un repost pubblicato sul profilo Instagram di Dagospia proprio con la foto di Arisa e il commento della Collovati. La Rivelli, nota per le sue provocazioni hot sui social, si è schierata totalmente dalla parte della cantante. Queste le sue parole: «Che coglioni.. quanto perbenismo assurdo! Evviva la fica! Evviva il pube, evviva una donna che fa uno scatto meraviglioso! Che noia che ci debba sempre essere quell’aggiunta da maestrina frustrata che vuole fare L’intellettuale...Instagram è un social dove ognuno Posta qualcosa di proprio, che lo rappresenta! Stare lì a guardare quello che fanno gli altri (almeno che non stanno postando cose controproducenti per il prossimo o il pianeta) è da stupidi.. non so chi sia Caterina Collovati. So chi è @arisamusic e le faccio un applauso. È solo una cazzo dì bellissima foto ragazzi! Bisogna finirla di creare di tutto una polemica ! Basta manipolare e strumentalizzare gli scatti fatto nei propri social dagli artisti veri, per far parlare di se e riceve mezzo secondo di visibilità mediatica. Che orrore! Che Palle che Noia è che Bassezza! ??????????Politically Scorrect».
Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 27 agosto 2020.
Brilli, perché il topless fa ancora discutere?
«In parte dipende dalla moda. Una volta lo facevamo sempre: io stessa indossavo un millimetro quadrato di costume e basta. Adesso il topless è sparito dai radar e sorprende. Ma proprio non capisco come possa offendere qualcuno: le ragazze erano oscene? Offendevano la morale pubblica?»
Che ne pensa del comportamento della polizia?
«I poliziotti hanno esagerato e sono stati ripresi. Ma quel che mi intristisce è la mancanza di solidarietà al femminile. Mi dispiace che la denuncia sia arrivata da una donna che per qualche ragione si è sentita minacciata dal corpo di altre donne che non facevano niente di male».
Topless libero, sempre?
«Certo. L' ostentazione del corpo è un' altra cosa. Poi tutto è opinabile, basta usare il cervello».
Perché mettere in discussione una conquista degli anni Settanta?
«Perché il corpo delle donne fa sempre paura. E questo tipo di aggressioni non sono altro che il tentativo di esercitare un potere sul nostro corpo».
Come si dovrebbe reagire?
«Il problema è che quando si viene colpiti nell' emotività non si riesce a essere brillanti, a trovare la battuta giusta per rispondere. Direi alle ragazze di non farsi mettere mai sotto, di non permettere agli altri di dire loro cosa fare. Io avrei mandato dei cioccolatini ai poliziotti dicendogli: siate meno acidi».
Mattia Marzi per "Il Messaggero" il 24 agosto 2020. Tra urletti sexy e gemiti decisamente imbarazzanti, la voce di Ariana Grande con Rain on me sul pianeta Terra la si sente praticamente ovunque: il suo duetto con Lady Gaga ha totalizzato finora più di 300 milioni di stream su Spotify e 190 milioni di visualizzazioni su YouTube. Un trionfo. La popstar di Boca Raton - classe 1993 - non è nuova a certe atmosfere: su vocalizzi sensuali e ammiccamenti vari ci ha costruito la carriera sin dai tempi di Problem, una delle sue prime hit (era il 2014 e lei aveva 21 anni). Se anche la voce di Poker face, Lady Gaga, una che di solito anticipa le tendenze piuttosto che inseguirle, l'ha voluta al suo fianco, allora significa che il sexy-pop - sempre più spesso porno-soft - delle principali stelline del pop-rap internazionale, che sembrano puntare tutto su riferimenti espliciti al sesso (basti guardare i loro videoclip, un trionfo di sederi, seni prorompenti e balli che nulla lasciano all'immaginazione), è ormai un fenomeno ben consolidato. Che avanza ovunque.
I NUMERI. I numeri parlano chiaro. E non solo quelli di Ariana Grande, che è la più nota con 18 miliardi di ascolti su Spotify, 16 per le visualizzazioni dei suoi video su YouTube, 220 milioni di followers tra Instagram e TikTok (la popolarità degli artisti, ormai lo sanno tutti, non si misura più in copie vendute). Sotto di lei c'è la coetanea Camila Cabello, nota anche per l'hit Havana, una base salsa e video ambientato nei bassifondi della capitale cubana. Dopo il successo dello scorso anno con Señorita (il duetto con il fidanzato Shawn Mendes, accompagnato da un video nel quale i due simulavano rapporti sessuali spinti - oltre 1 miliardo di views su YouTube), a dicembre ha pubblicato l'album Romance contenente il singolo My oh my, nel cui testo flirta con un partner: «Stasera la brava ragazza voglio lasciarla a casa», canta con la vocina sexy. Doja Cat, 24 anni, losangelina di origini sudafricane, ha conquistato le classifiche con hit come Say so e Boss bitch. Chissà se i 2 milioni di mi piace sotto al video di Juicy su YouTube (155 milioni di visualizzazioni) sono per la canzone o per le tette prosperosissime e i lati b della rapper e delle ballerine. Seni esagerati e fondoschiena tondissimi spesso mostrati sui social, mossette e coreografie piccanti. Niente di nuovo, sia chiaro: dagli Anni 80 in poi le dive del pop hanno sempre giocato con il proprio corpo (ricordate il sederone di Jennifer Lopez? I tabloid britannici sostennero pure che la cantante avesse sottoscritto una polizza da un miliardo di dollari per assicurarlo - ma la notizia fu poi smentita) e hanno continuato a farlo anche in tempi recenti (si pensi a Beyoncé, a Rihanna o alla reginetta delle provocazioni Miley Cyrus, che nel 2013 sul palco degli Mtv Video Music Awards mise via i panni della ragazzina acqua e sapone lanciata dalle serie Disney twerkando sul palco e strusciandosi maliziosamente su Robin Thicke).
DOPPI SENSI. Ma se fino a qualche anno fa provocazioni del genere si muovevano sul filo del fraintendimento (la mente va inevitabilmente ai testi ricchi di ambiguità e doppi sensi di Madonna, da Like a Virgin in giù), oggi capita spesso di trovare riferimenti espliciti al sesso nei testi o nelle clip delle stelline del pop-rap internazionale. Le natiche grandi e tirate a lucido di Nicki Minaj, mostrate nel 2014 nel video della hit Anaconda (allusione elegantissima), hanno ispirato una generazione di cantanti - le ventenni Mulatto e Flo Milli sono solo le ultime arrivate - e che hanno puntato alle vette delle classifiche giocando su luoghi comuni e stereotipi, senza vergognarsi di mostrare tutto, o quasi. Basti guardare l'ultimo video di Cardi B con Megan Thee Stallion: il titolo, Wap, acronimo che sta per Wet ass pussy, è tutto un programma. In due settimane la clip ha raggiunto quota 130 milioni di visualizzazioni su YouTube.
STEREOTIPI. Ad essere giudicate per la mercificazione del proprio corpo, però, le protagoniste del pop porno-soft non ci stanno. Rispondendo alle femministe che l'hanno accusata di promuovere un'immagine volgare e machista della donna, la stessa Cardi B ha detto senza esitazioni: «Le benpensanti si mettano di fronte allo specchio e imparino a sfruttare ciò che hanno in mezzo alle gambe».
Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 27 agosto 2020. Che fa, madame, concilia? Allora si copra. La scena (due gendarmi che si aggirano tra gli ombrelloni e invitano le bagnanti in topless a coprire le nudità) sembra uscita da una di quelle commedie anni '70, colori aciduli e battute a mitraglia, magari con Louis de Funès, visto che siamo in Francia, ma no: il fatto è avvenuto pari pari la settimana scorsa a Sainte-Marie-la-Mer, a sud di Perpignan, è finito, con foto, su un profilo facebook, ha, inevitabilmente, incendiato i social, provocato polemiche, critiche, indignazioni, un hashtag (#seinsnus seninudi) che ha imperversato su Twitter, spaccato il paese, fino a provocare la reazione del ministro dell'Interno a difesa delle libertà individuali e infine le scuse pubbliche della gendarmeria nazionale. Insomma, a 56 anni dal suo debutto ufficiale su una spiaggia di Saint Tropez il topless fa ancora discutere. Addirittura fa ancora notizia. Potrebbe perfino trasformarsi in una multa, se non in un affare di Stato. Tutto è (ri)cominciato molto banalmente a metà pomeriggio del 20 agosto, quando una mamma sotto l'ombrellone sulla spiaggia libera di Sainte-Marie-la-Mer ha pensato bene di chiedere l'aiuto dei gendarmi per aiutarla a proteggere i suoi due bambini, scioccati dalla vista di due donne che prendevano il sole senza «il pezzo sopra». I due agenti due giovani riservisti volontari, hanno poi precisato in Comune sono partiti in missione e hanno chiesto alle signore di coprire le nudità che avevano spaventato i piccoli. Due signore hanno obbedito, una terza, anche lei colta in fallo, avrebbe invece continuato a prendere il sole senza reggiseno. Marie, un'altra bagnante lei però in costume intero ha assistito alla scena e ha espresso il suo choc su Facebook, aprendo il dibattito nazionale. La Francia si scopre puritana? Il #metoo ispira la censura? Dopo il burkini vietato alle musulmane, il monokini vietato alle disinibite, il corpo delle donne diventa sempre più esiguo? Alla fine il ministro dell'interno Gérald Darmanin ha deciso di dire la sua su Twitter: «Senza alcun fondamento due donne sono state riprese per come erano vestite sulla spiaggia. La libertà è un bene prezioso. Ed è normale che l'amministrazione riconosca quando sbaglia». Cosa che l'amministrazione ha fatto prontamente e con qualche ironia. La portavoce della Gendarmeria Nazionale, la tenente-colonnello Maddy Scheurer ha precisato via Twitter: «Io porto sempre l'uniforme in servizio (faccina smiley), ma abbronzarsi in topless è naturalmente autorizzato sulla spiaggia di Sainte-Marie-la-Mer. I due gendarmi avevano buone intenzioni ma hanno sbagliato». In realtà, ci volevano i gendarmi a ridare lustro al topless, perché il desiderio di prendere il sole senza troppi lacci si è affievolito nei decenni. Non sorprende che le due donne redarguite in Francia fossero entrambe ultra cinquantenni. A Parigi, già da qualche anno il municipio ha espressamente vietato il monokini (e anche il costume tanga) alle donne che vogliono approfittare del sole cittadino di Paris Plage, la spiaggia attrezzata ogni estate sul Lungosenna. Ma i divieti in realtà servono a poco, perché la maggioranza delle donne ormai il topless se lo interdice da sé. Il solito sondaggio (di Ifop per viehealthy.com) rivela che sono ormai soltanto il 22 per cento le francesi che prendono il sole in topless (anche occasionalmente): erano il 43 per cento nell'84. In Europa, amano ancora l'abbronzatura semi-integrale soltanto le spagnole (48 per cento) e le tedesche (32 per cento). Le italiane (appena il 15 per cento toglie il sopra in spiaggia) sono invece tra le meno interessate. Tra i motivi: la salute e l'estetica, ma anche il timore di aggressioni o commenti. Vittima dei corsi e ricorsi storici, il topless non è più di moda, come ha certificato anche il sociologo Jean-Claude Kaufmann, autore nel '95 di Corpi di donne, sguardi di uomini : «I marcatori culturali sono radicalmente cambiati. Quello che era di moda, che era tendenza, è diventato antico. Le ragazze in particolare spesso stigmatizzano duramente quelle che considerano di una certa età (magari di 50 anni!) che osano togliere il pezzo sopra del costume. È un fenomeno che ci fa pensare». Non tutte le ragazze però sono tornate a coprirsi. Magari fuori moda sulle spiagge, i seni al vento sono diventati un'arma di protesta per le piazze. È con l'accusa di «esibizione sessuale» che alcune militanti Femen sono state condannate a Parigi per essere entrate nude dalla cintola in su dentro al museo Grévin. L'avvocato francese Thierry Vallat mette comunque in guardia le ragazze ormai devote al costume intero: se il topless diventasse sempre meno praticato «il comune sentire potrebbe subire un cambiamento, diventare più restrittivo e influenzare una tendenza contraria alla liberalizzazione: se scoprire i seni diventasse un'abitudine ultra minoritaria, potrebbe diventare comprensibile che una famiglia si opponga alla vista di una donna in topless».
Claudio Sabelli Fioretti per il “Fatto quotidiano” il 26 agosto 2020. Francesco Totti, quello che sputò su un avversario durante una partita, si è adontato perché la direttrice del settimanale Gente ha mostrato il culetto della bambina tredicenne Chanel sulla copertina del suo settimanale. Come dargli torto? Però non si può negare che il culetto dei bimbi non è un "Lato B", come lo ha definito Francesco Totti, quello che sputò sull'avversario, ma un culetto, semplicemente un culetto, anzi, un culetto santo. Tra l'altro consentire alla bimbetta di esporlo all'aria, come ha fatto il papà, potrebbe essere dannoso, lo sconsiglio a tutti i papà del mondo perché potrebbe causare un raffreddore. Altro che "sessualizzazione" (sessualizzazione?) come ha detto Francesco Totti, quello che sputò sull'avversario. Per questo ci permettiamo di consigliare alla bimba Chanel la prossima volta, anche contro l'opinione del papà, di indossare lunghi mutandoni di lana che non espongano il suo culetto all'aria aperta e non perché i porcelloni italiani potrebbero essere portati a sessualizzare, ma perché i culetti scoperti sono inutili e pericolosi per la salute. E poco raffinato.
Ps: invito comunque la direttrice di Gente, Monica Mosca, a smetterla di sessualizzare. È ancora meno raffinato che mostrare il culetto della figlia tredicenne. E meno raffinato che sputare sugli avversari.
Pps: Qualcuno sa se la bimba Chanel, la figlia di Francesco Totti, quello che sputò sull'avversario, ha mai perdonato il papà per averla chiamata Chanel? Forse andare in giro a culetto scoperto è la sua vendetta?
Da il "Corriere della Sera" il 17 agosto 2020. Si chiama Luz Noceda, ha 14 anni ed è dominico-americana. Una teenager con il pallino per la stregoneria che pur non essendo nata con dei poteri, riesce a farsi ammettere a una scuola di magia e a diventare l'apprendista di una grande strega. E fin qui sembra il personaggio di una qualsiasi storia per ragazzi. Ma in questi giorni la protagonista della serie animata The owl house sta facendo parlare di sé perché è il primo personaggio bisessuale a comparire in un cartoon Disney: dopo le cotte per i compagni maschi, infatti, Luz Noceda è sempre più legata ad Amity, un'amica evidentemente innamorata di lei. La relazione fra le due adolescenti è ancora in via di sviluppo nelle puntate (la serie animata ha debuttato a gennaio negli Usa ed è già stata riconfermata per la seconda stagione), ma trova ampio spazio nel sedicesimo episodio, intitolato «Enchanting Grom Fright», in cui le due ragazzine vanno insieme al ballo della scuola. Una piccola rivoluzione inclusiva nella storia della Disney, fortemente voluta dalla creatrice della serie Dana Terrace che su Twitter ha raccontato di essere stata intenzionata fin dall'inizio a rappresentare la comunità Lgbtq+, anche perché lei stessa dichiaratamente bisessuale. Ci è voluta tanta testardaggine, ha scritto Terrace, perché il suo approccio non è stato accolto bene da «una certa leadership Disney» che non voleva venissero mostrate relazioni gay o bisessuali. Dopo le prime difficoltà, però, ha aggiunto di essere ora «pienamente sostenuta» dall'attuale direzione. Se un protagonista bisessuale non aveva mai fatto capolino tra i programmi per bambini della Disney, in anni recenti era apparso invece qualche personaggio gay (anche in The owl house, peraltro, una studentessa ha due papà), rompendo lentamente dei tabù sempre più obsoleti. A debuttare era stato un personaggio in carne ed ossa della serie Andy Mack , nel 2017: per la prima volta nella storia di Disney Channel, un ragazzino faceva coming out e diceva le parole «sono gay». Nello stesso anno, anche il remake in formato live action della Bella e la Bestia includeva una novità rispetto al cartoon: Le Tont, braccio destro del pretendente di Belle Gaston, era esplicitamente omosessuale. Nell'animazione i primi esempi sono invece più recenti: c'è una coppia di paperi gay in DuckTales , cartone che segue le vicende degli eredi di Paperon de' Paperoni. C'è Office Specter, una poliziotta-ciclope lesbica che compare nel cartoon Onward della Disney Pixar, uscito in primavera, e poi c'è il cortometraggio Out , sempre firmato Disney Pixar, approdato a maggio su Disney+: come anticipa il nome, in questo caso il coming out è proprio al centro della trama che ha per protagonista Greg, un uomo adulto, in difficoltà nel rivelare la propria omosessualità ai genitori. La scia di polemiche, ogni volta, non manca. Ma non mancano neanche gli incoraggiamenti a normalizzare situazioni che sono già ampiamente parte della vita reale, dando magari uno spunto per parlarne più serenamente in famiglia. «La rappresentazione è importante - ha ricordato in proposito la creatrice di The owl house -. Combattete sempre perché venga realizzato quel che volete vedere».
Pierluigi Panza per corriere.it il 13 agosto 2020. Per due giorni e due notti il regista Christof Loy e la direttrice d’orchestra Joana Mallwitz sono stati ininterrottamente al telefono per mettere a punto il primo “Così fan tutte” pensato interamente in epoca Covid. Seconda e ultima opera in scena quest’anno al Festival di Salisburgo nel Grosses Festspielhaus dimezzato nei posti, la rappresentazione ha tenuto brillantemente insieme i rigidi protocolli Covid — che non prevedono intervallo — con le urgenti esigenze della prostata: con un po’ di tagli ben effettuati l’opera pensata è durata un paio d’ore con donne protagoniste: oltre alla Mallwitz che ha diretto una compagine dei Wiener di quasi soli uomini le brave Elsa Dreisig (una Fiordiligi con tatuaggio, però, troppo in evidenza) e Marianne Crebassa (Dorabella). Sono Loy, e anche la Mallwitz, che ci hanno risparmiato l’ultima follia del politically correct. Come dichiara il regista tedesco, «molti chiedevano che il titolo fosse cambiato in Così fan tutti per dare un senso che tutta la gente lo fa», cioè che tutta la gente tradisce, non solo le femmine ma anche i maschi. Però: che riflessione sottile e che scoperta alla base di questo suggerimento per le «pari opportunità»! Peccato che in italiano — e Loy che ha studiato filologia italiana a Monaco lo sa — il neutro non esista e il cambio di titolo (chi siamo noi per cambiare il titolo a Mozart?) lo avrebbe fatto risultare al maschile. Un’assurdità. Che poi — ma questi sono territori inesplorati per i cancel culture dalla gomma in mano — il significato dell’opera di Mozart e Da Ponte non è affatto quello di denigrare le donne colte sul fatto bensì il contrario: mettere alla berlina le sicurezze dei maschi e mostrare in quali contorsioni dei sentimenti la Natura spinga l’animo umano («a me pare necessità del core»), che trova salvezza solo nella reciproca comprensione («Qua le destre: siete sposi / abbracciatevi e tacete»).
(ANSA il 14 agosto 2020) - Il Dipartimento di Giustizia Usa ha accusato la prestigiosa università di Yale di violare la legge sui diritti civili discriminando le domande di ammissione degli studenti asiatici e bianchi a favore di quelli afroamericani, usando la razza non come uno dei fattori, secondo quanto stabilito dalla Corte Suprema, ma come fattore predominante o determinante. E' la seconda offensiva dell'amministrazione Trump contro una università della Ivy League, dopo quella contro Harvard per una vicenda analoga. Due anni fa l'amministrazione Trump aveva sostenuto la causa di un gruppo di studenti asiatici contro Harvard. Ora il Dipartimento di Giustizia ha ordinato a Yale, che respinge ogni accusa, di sospendere l'uso della razza o dell'origine nazionale nel processo di ammissione per un anno, dopo il quale dovrà chiedere l'ok del governo per cominciare ad riutilizzare questo fattore.
Paolo Mastrolilli per ''La Stampa'' il 12/10/2020. Dopo Harvard, tocca a Yale. L' offensiva dell' amministrazione Trump contro il sistema di ammissione nelle università americane dell' Ivy League continua, con la nuova causa presentata giovedì. In teoria l' obiettivo è difendere la comunità asiatica dalle discriminazioni, che favoriscono l' accettazione di studenti di altri gruppi etnici, come neri e ispanici. In realtà si tratta di un attacco all' affirmative action, la «discriminazione positiva», che il governo lancia usando gli asiatici, ma col vero obiettivo di aiutare i bianchi, perché rappresentano la base elettorale fondamentale per il capo della Casa Bianca. L' azione affermativa è una pratica usata da decenni negli Usa, attraverso leggi e regolamenti nel settore pubblico e privato, per correggere le discriminazioni. Serve ad evitare che gruppi specifici siano penalizzati in base a razza, sesso, religione, nazionalità, età, disabilità, o altre caratteristiche. Le origini risalgono all' era della Reconstruction, ossia il periodo seguito alla Guerra Civile, in cui si cercava di ricostruire la società dopo la fine della schiavitù. La Corte Suprema ha riconosciuto la sua validità, purché il bilanciamento delle pari opportunità non venga perseguito con le quote. Nel caso delle università è lecito tenere presente la razza come uno degli elementi per l' ammissione degli studenti, perché è ovvio che chi viene dalle minoranze più svantaggiate va valutato considerando il suo handicap di partenza. Negli Usa, del resto, fino agli anni Sessanta i neri non avevano neppure il diritto di andare negli stessi bagni dei bianchi. Il colore della pelle però non deve diventare l' elemento decisivo e definitivo, stabilendo quote fisse di ammissione. Per rispettare questi criteri, le università hanno adottato complessi sistemi di valutazione, ma i bianchi più conservatori le accusano di aver esagerato nella direzione opposta, discriminando loro. Per anni hanno cercato di sollevare il problema, senza grande successo, perché la denuncia veniva dal gruppo etnico chiaramente più privilegiato nella storia degli Usa. Allora Edward Blum, leader del movimento contro l' affirmative action, ha pensato di cambiare strategia, mettendo una minoranza contro l' altra. Così ha aiutato la Students for Fair Admission, gruppo di studenti di origine asiatica, a fare causa alle università che li escludono, nella speranza di usarli come grimaldello per scardinare l' intero sistema, e quindi favorire anche i bianchi. Il primo obiettivo è stato Harvard, ma nell' autunno del 2019 la giudice Allison Burroughs ha dato ragione all' università, che si era difesa dicendo di considerare la razza come un elemento per l' ammissione, ma non in maniera esclusiva e senza stabilire quote. In effetti gli studenti asiatici costituiscono il 20% degli ammessi dall' ateneo di Cambridge, contro il 6% della popolazione totale americana: ciò avviene per loro merito, ma è difficile sostenere che sono penalizzati. Ora quindi l' attenzione si è trasferita su Yale, citata in tribunale dal dipartimento alla Giustizia, che l' accusa di violare il Civil Rights Act del 1964. Il presidente dell' università, Peter Salovey, ha risposto che la causa si basa su «statistiche imprecise e conclusioni infondate. Yale non discrimina contro alcun candidato di qualsiasi razza o etnia. Le nostre pratiche sono legali e non cambieranno». Le università non usano quote, ma sostengono che se prendessero solo gli studenti con i voti migliori, senza considerare anche altri elementi, la diversità finirebbe. Trump però ha un interesse elettorale a favorire i bianchi, e quindi appoggia Blum. La sua strategia punta ad arrivare alla Corte Suprema, nella speranza che la maggioranza conservatrice da lui creata metta fine ad ogni forma di affirmative action.
Borrelli: "Con il caldo i cavalli non devono circolare". Stramazzano sotto il sole: indigna più un cavallo che muore alla Reggia di Caserta che un bracciante senza diritti. Rossella Grasso su Il Riformista il 12 Agosto 2020. Stramazza al suolo e muore in una torrida giornata di metà agosto. Succede a Caserta, nei giardini della Reggia. La vittima è un cavallo, di quelli che trainano le carrozze per i turisti. Uno di quelli immortalati in tante foto e cartoline dalla Reggia. Le foto del corpo senza vita del cavallo hanno fatto il giro del web e indignato i più. E’ diventata anche una questione politica visto il classico interessamento del consigliere regionale Emilio Borrelli che non ha perso un attimo per lanciare in pasto al web una delle sue proverbiali invettive contra mundi infamis. “Reggia di Caserta, un cavallo utilizzato per il trasporto delle carrozze stramazza al suolo per la fatica e per il caldo come segnalato dai presenti”, scrive con tanto di documentazione fotografica con i classici bambini presenti i cui volti dovrebbero essere oscurati da (bravo) giornalista professionista. E invece no. Il “terribile episodio” di cui si dà notizia è stato “segnalato dai presenti”. Dunque non si sa se il cavallo fosse vecchio o se avesse problemi di cuore o di qualsivoglia altra sorte. Ma ormai è andata, il popolo del web è stato avvisato e l’indignazione è partita. La vicenda del povero cavallo stramazzato è stata talmente sentita da stimolare addirittura una nota della direzione della Reggia: “Questa mattina uno dei cavalli del servizio carrozze ippotrainate, gestito in concessione dalla società Tnt, è deceduto. Gli organi competenti stanno effettuando in queste ore tutte le verifiche che il caso richiede. La Direzione della Reggia di Caserta esprime profondo dispiacere per l’accaduto”. È diventata anche l’occasione per un po’ di campagna elettorale in vista delle regionali. “Nonostante le temperature elevatissime e la morsa dell’afa, i cavalli continuano a salire e scendere a pieno carico, trainando carrozzelle – spiega Stefano Buono, candidato alle prossime elezioni regionali per la lista Davvero – Partito Animalista – Uno di loro oggi non ha più resistito e poco fa si è accasciato in terra. È morto. Ora verrà presto sostituito come si sostituisce un bus per turisti, era quello il suo utilizzo. Una scelta barbara che arreca atroci sofferenze a questi poveri animali, è ora di dire basta a questo sfruttamento e predisporre il divieto, come già fatto a Napoli, almeno nelle ore più calde”. “Denunceremo il titolare della carrozza. È qualcosa di vergognoso. Chiediamo ordinanze in tutti i comuni che mettano fine a tutto ciò. Con le condizioni di caldo estremo dei prossimi giorni i cavalli non devono circolare”, continua la nota di Verdi- Europa Verde di Borrelli. Ora, con tanto di rispetto per il povero cavallo, ma tutta questa attenzione e indignazione non è un pochino eccessiva? Infondo è solo da secoli che i cavalli sono animali da tiro, fedeli amici dell’uomo, che lo hanno accompagnato lungo viaggi chilometrici, lo hanno aiutato nell’agricoltura e nei lavori pesanti. “Viviamo in un’era altamente tecnologica e pensare di utilizzare questi poveri animali per il trasporto umano, invece che mezzi moderni ad impatto zero, è qualcosa di anacronistico, surreale ed egoistico”, spiega Borrelli che forse ignora il valore storico del cavallo con la carrozza. E infine: “Vigileremo con i nostri volontari per impedire che questi poveri animali vengano fatti circolare in condizioni climatiche critiche”, conclude la nota di Borrelli. E a questo punto il pensiero va al numero impressionante di anziani che muore d’estate per il caldo. Va al capitano della polizia municipale di Napoli Ciro Colimoro, deceduto il 7 agosto scorso in seguito a un malore. Va a tutti gli operai, ai braccianti e a tutti quelli che lavorano sotto il sole in condizioni estreme e per due spiccioli ci muoiono anche. Morti, non poche, che non fanno più notizia, o almeno non quanto quella del cavallo.
Da "Libero Quotidiano" l'8 agosto 2020. Al momento delle presentazioni: «Buongiorno, sono una persona con la cervice, mi chiamo Tizia ma puoi chiamarmi anche Tizi*, così sono neutra. Lavoravo nel campo dei diritti dell'uomo che poi sono diventati diritti delle persone perché le donne, pardon, gli individui con il ciclo, si sentivano esclusi». Tecniche di abbordaggio: «Ciao, individuo con le mestruazioni, stasera ti va di uscire con me, individuo senza mestruazioni?». In ufficio tra colleghi: «Mi presteresti un assorbente, non sono un individuo con l'utero ma mi sento il ciclo e quindi ne ho proprio bisogno...». Benvenuti in un mondo politicamente corretto che sconfina nel teatro dell'assurdo, un posto che sembra uscito dal set di un film comico. O dell'orrore. Dove un'azienda che produce assorbenti, per non urtare la sensibilità del mondo gender, s' inventa i maschi col ciclo spiegando che gli assorbenti servono anche a coloro che non sono donne ma si sentono tali (ne ha parlato ieri Daniela Mastromattei su Libero).
Ipocrisia linguistica. E, quando vi trovate davanti a una fanciulla, trattenete la vostra lingua, soppesate le parole, mettete il silenziatore ai vostri pensieri e non osate mai chiedere se ha un ragazzo: potrebbe guardarvi come se le aveste domandato se ha appena fatto una strage. Voi non ci arrivate a certi ragionamenti, ma se vi informate sul fidanzato date per scontato che la signorina sia etero. Meglio dire: «Ti vedi con qualcuno?». L'ultima lezione di ipocrisia linguistica arriva nientemeno dall'americana Cnn. Un suo giornalista è riuscito nell'impresa di parlare della prevenzione ginecologica senza mai pronunciare la parola "donna", preferendo sostituire il sostantivo che da secoli ispira poeti e scrittori con la locuzione «individui con una cervice». Il responsabile della comunicazione dell'emittente statunitense, Matt Dornic, come riporta Italia Oggi, ha rivendicato la scelta linguistica definendola «inclusiva» e si è difeso dalle accuse di chi trovava folle la decisione o non sapeva esattamente che cosa fosse la cervice. Qualche mese fa la scrittrice J.k. Rowling, creatrice del maghetto Harry Potter, è finita sulla graticola infernale del web per aver scritto in un tweet che il sesso è un dato reale, biologico. La parola "donna", che in italiano deriva dal latino domina e vuol dire "padrona", adesso sta diventando un'offesa, una parolaccia da scaricatore di porto. Ma a tutti coloro che sostengono questa folle pulizia linguistica chiediamo di immaginare cosa accadrebbe se, a furia di non usarlo più, il termine cadesse in disuso.
Lo scenario. Se per rispettare il mondo gender tutti continuassimo a dire «individuo con l'utero» o «individuo con le mestruazioni» la donna sparirebbe del tutto dalle nostre conversazioni. Ma così non ci sarebbero più i femminicidi: gli omicidi commessi dall'uomo violento contro la donna sarebbero dei crimini come gli altri e tutte le battaglie fatte dal gentil sesso finirebbero alle ortiche. Un mondo dove tutto è uguale, dove la forma conta più della sostanza. Dove non esistono più i sessi e la biologia, con i suoi cromosomi X e Y, potrebbe rimanere chiusa nei libri ad ammuffire nelle biblioteche con tutti i suoi principi di genetica. Provate a immaginare adesso un altro scenario: un nostro antenato morto nell'Ottocento (ma basterebbe anche un nostro nonno defunto qualche anno fa) ritorna in vita e ascolta i dialoghi tra gli individui con utero e quelli senza cervice. Di certo penserebbe di essere finito in una gabbia di matti e preferirebbe tornarsene all'inferno.
Un grande successo il Festival ad Anagni. Emanuele Beluffi il 7 Agosto 2020 su culturaidentita.it. Ad Anagni nella città dei Papi il 4 e il 5 agosto la terza edizione del Festival di CulturaIdentità non ha tradito le aspettative di una kermesse culturale all’insegna del politicamente scorretto. Arte e Fede i temi centrali su cui sono intervenuti i numerosi ospiti (da Alessandro Meluzzi a Diego Fusaro, passando per Francesco Maria Del Vigo vicedirettore del Giornale ad Alessandro Sansoni direttore responsabile di CulturaIdentità a Cesare Biasini Selvaggi direttore editoriale di Exibart, dal critico Angelo Crespi al cda Rai Giampaolo Rossi, con Magdi Cristiano Allam, Laura Tecce, il Cardinal Camillo Ruini, Gaetano Quagliariello e tanti altri), moderati dal padrone di casa Edoardo Sylos Labini, non senza un occhio di riguardo all’attualità: dagli imbrattatori di statue e rovesciatori di monumenti al comitato di salute pubblica governativa sulle fake news, al capovolgimento delle parole destra e sinistra. A destra si difende la libertà d’espressione vietata dalla sinistra, anche quando ti si contesta rumoreggiando (Alessandro Meluzzi quasi non fa in tempo a prender la parola che un personaggio del pubblico s’infiamma per poi sparire chissà dove). Un’atmosfera gaia ma grave, al Festival, perché grave è lo spirito del nostro tempo e proprio Meluzzi lo dice senza troppo ciurlar nel manico: tra leggi potenzialmente liberticide come la Zan-Scalfarotto, una Chiesa ridotta a una ONG e idoli à la Greta Thunberg dall’ecologismo prêt-à-porter, viviamo in un brodo melenso di generosità che riempie l’abisso nel quale stiamo sprofondando. Così la Fede diventa low coast, come la definisce Diego Fusaro, una Fede liquida offerta da una Chiesa, quella di Papa Bergoglio, arrendevole all’ateismo del consumismo dilagante. Arrendevole anche verso l’Islam: memorabile la verità lapalissiana di Magdi Cristiano Allam, per cui l’ordinamento giuridico dell’Islam (sharī‘a) è totalmente in contrasto con quello italiano, mentre l’islamofobia è la nuova griglia inquisitoria superlaicista che vieta la critica all’Islam contro l’articolo 21 della Costituzione in difesa della libertà di parola. Ma del resto, per dirla con Giampaolo Rossi, “anche in Occidente il verbo cristiano è visto come una colpa da perseguitare”. E in tempi di fake news imperanti, non può passare inosservata la puntualizzazione di Federico Mollicone: dobbiamo capire che c’è un clima da Ministero Della Verità come ai tempi di Orwell. Il primo testo lo presentò Emanuele Fiano, che prevedeva che il Presidente della Commissione anti fake news spettasse all’opposizione, cioè a Fiano stesso. Peccato che ora sia alla maggioranza e non più all’opposizione, tipico esempio di eterogenesi dei fini. Incredibile a dirsi, l’Italia è l’unico Paese al mondo in cui si scende in piazza contro l’opposizione, uno sport in cui i campionissimi sono le Sardine, come fa notare Francesco Maria Del Vigo: i pretoriani del Governo, che protestano per-non-si-capisce-bene-quale-motivo. Del resto, prosegue Del Vigo, è passata l’idea per cui la piazza è di proprietà della sinistra, se ci va la destra è invece un fenomeno urticante: si veda la manifestazione della Meloni, con il rispetto rigoroso delle distanze sociali al contrario di quanto avvenuto con la manifestazione dello scorso 25 aprile: vuol dire allora che il virus colpisce di più quelli di centro-destra? La vera piazza, quella più rutilante, in realtà l’abbiamo vista dall’altra parte, mentre dalle parti del PD ogni tanto col desiderio di “pettinare il proprio ego rispolverando l’eskimo di gioventù dal loro salotto fasciato di libri che hanno preso con Repubblica senza averli mai letti“. Eppure libertà e verità sono valori non negoziabili, come puntualizzato da Alessandro Sansoni e Gaetano Quagliarello, soprattutto alla luce di questo transumanesimo che sta andando per la maggiore e che sta facendo strame non solo della Fede ma anche della Natura. Ma se dici Fede dici Bellezza e il Festival di CulturaIdentità è (anche) il festival dell’Arte e della Bellezza: Angelo Crespi in difesa del bello contro l’orrido nell’arte contemporanea riempie di senso il premio CulturaIdentità conferito allo scultore Jago, artista self made e autore di un discorso ipnotizzante sulla necessaria (e fattibilissima) democratizzazione della bellezza e dell’arte.
GP di Monza? “È fascista”: l'ultima idiozia di sinistra, se la prendono pure con i poster della Ferrari…Libero Quotidiano il 06 agosto 2020. Italia ospiterà non uno, ma due Gran Premi di Formula 1 in questa stagione, il cui calendario è stato adeguato all’epidemia da coronavirus che ha colpito il mondo intero. L’Italia è stato il primo paese europeo a farne le spese in maniera importante, ma è anche quello che, allo stato attuale delle cose, sembra essersi ripreso meglio degli altri. E così la F1 correrà sia a Monza che a Imola: inizia già ad esserci una certa attesa per la gara del 6 settembre, che si disputerà in Lombardia, seppur ovviamente senza pubblico. Nelle scorse ore è comparso sui social il poster ufficiale del GP d’Italia che è incredibilmente finito in pasto alle polemiche perché, secondo alcuni di sinistra, lo stile del manifesto è troppo fascista. Solo perché è realizzato in stile futurista, con le frecce tricolori che sorvolano la Villa Reale e una macchina rossa in primo piano che ovviamente richiama la Ferrari. “A chi il Gran Premio? A noi”, ha commentato Roberto Invernizzi, ex vice presidente di centrosinistra della Provincia di Monza, richiamando la retorica fascista. Una polemica che sembra fuori luogo e fuori dal tempo, ma con gli “intellettuali” di sinistra è lecito aspettarsi di tutto.
Da "corriere.it" il 5 agosto 2020. Ha suscitato una bufera su Twitter lo spot lanciato da Audi per pubblicizzare l’ultimo modello della RS 4. Nella réclame davanti all’auto sportiva, di colore rosso, prodotta dalla casa automobilistica tedesca compare una bambina con occhiali da sole mentre mangia una banana. Dopo le polemiche sul social network e le accuse di «sessismo», Audi si è scusata e ha immediatamente ritirato lo spot.
Le critiche. La pubblicità era accompagnata dallo slogan «Lascia che il tuo cuore batta più forte. Sotto ogni aspetto». I più benevoli hanno affermato che la posa della bambina è «provocatoria» e «pericolosa » perché in quella posizione nessun autista sarebbe stato in grado di vedere la piccola e avrebbe rischiato di investirla. I più duri affermano che l’immagine è «sessualmente suggestiva, in quanto le banane e le auto sportive sono state spesso viste come simboli della lussuria maschile».
Le scuse. L’azienda ha rilasciato un breve comunicato nel quale oltre a fare mea culpa dichiara di aver aperto un’indagine interna per capire come sia nata la pubblicità. Poi le scuse: «Vi ascoltiamo e chiariamo: ci prendiamo cura dei bambini» si legge nella nota. A maggio era finita nella bufera un’altra casa automobilistica tedesca, la Volkswagen. Quest’ultima aveva rilasciato uno spot «razzista» in cui si vedeva una mano bianca sollevare un uomo nero come un fantoccio. Anche in quel caso la pubblicità era stata ritirata dopo le polemiche.
La priorità dei giallorossi? Il pensiero unico sui gay. Ira di cattolici e moderati. Il testo sull'omotransfobia approda in Aula. È il solo che trova d'accordo la maggioranza. Fabrizio Boschi, Martedì 04/08/2020 su Il Giornale. Si dice (e si legge) che è una legge attesa da 25 lunghissimi anni. Ma la domanda è: attesa da chi? Perché certamente non tutti ritengono la legge sulla omotransfobia della massima priorità. Eppure certi nostri politici il 3 di agosto, in piena pandemia e con l'economia al collasso, non hanno altro di meglio da fare che pensare a come arginare le discriminazioni e le violenze fondate su sesso e orientamento sessuale. Ma tant'è, e ieri c'è chi ha visto approdare nell'aula della Camera il ddl contro l'omotransfobia e la misoginia, come il primo uomo su Marte. Tra questi il relatore del provvedimento, l'onorevole Pd Alessandro Zan, che tratta la cosa come un avvenimento storico: «Un successo e un segnale di civiltà per dare piena dignità a tutte le persone del nostro Paese». Senza tener conto del fatto che tanti suoi concittadini la dignità l'hanno persa da tempo ma non a causa della loro sessualità, quanto invece a causa della povertà provocata dalle scelte sbagliate dello Stato nel quale vivono. Il testo si ispira alla legge Mancino del 1993 che prevede il carcere per «chi inciti a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». In pratica il decreto legge Zan vuole estenderla ai reati di violenza «fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere». Si vorrebbe poi istituire, il 17 maggio, la «Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia». Zan ha ricordato che sono passati «24 anni dalla prima proposta» che risale al 1996 a firma di Nichi Vendola e che da allora il Parlamento «ha fallito per ben sei volte». Eppur un motivo ci sarà. Lega e Fratelli d'Italia sono nettamente contrari («un bavaglio alla libertà d'espressione e di opinione che apre la strada a pericolose derive liberticide»). Contraria anche Forza Italia: «È pericolosa - attacca la deputata di azzurra e vicepresidente della commissione Affari costituzionali, Annagrazia Calabria - Mira a una sorta di pensiero unico, è una legge ideologica e liberticida, una legge illiberale e ingiusta». Anche se nel partito non tutti sono d'accordo: «Forza Italia nasce come partito liberale e come tale si è spesso dimostrato pronto a combattere ogni tipo di discriminazione», il commento più morbido della senatrice Barbara Masini. «Non possiamo permettere che venga approvata una legge che vuole istituire una sorta di tribunale di inquisizione», il pensiero di Ciro Maschio di Fdi. Per Luca Paolini della Lega «non c'è nessuna emergenza» che giustifichi un provvedimento ad hoc, essendo reati e pene già previsti nell'ordinamento giuridico. Il popolo del Family day leva gli scudi contro la legge e denuncia Zan. Per la Chiesa una legge contro l'omofobia «rischierebbe di aprire a derive liberticide, per cui più che sanzionare la discriminazione si finirebbe col colpire l'espressione di una legittima opinione». E nel mondo gay e lesbo impera la confusione. L'Arcigay invita a non fare «giochi politici sulla pelle delle persone». L'associazione lgbt scrive al presidente di Forza Italia Silvio Berlusconi, per incoraggiarlo a prendere una posizione di sostegno al ddl Zan. Mentre Arcilesbica contesta l'uso dell'espressione «identità di genere, perché in altri Paesi viene usata per pretendere il riconoscimento del cambio di sesso sulla base della sola auto-definizione». Forse c'è bisogno di altri 25 anni.
Fabrizio Cannone per ''la Verità'' il 3 agosto 2020. Chi non vede la pericolosità di movimenti violenti ed eversivi come quello del Black lives matter, riducendolo a giovani maleducati e scapestrati, ignora tutto della saldatura tra le istanze antirazziste dal basso e quelle mondialiste e globaliste dall'alto. Eppure, sono decenni che assistiamo attoniti all'alleanza ideologica tra l'Open society di George Soros e i centri sociali, okkupati e autogestiti. Un'ennesima prova di ciò la si ha nel sostegno di molte multinazionali - la lista sarebbe troppo lunga per citarle qui - al movimento antirazzista, americano e internazionale, il quale dopo l'affaire Floyd ha preso vigore e ha ancora il vento in poppa. Così, dopo le censure alla destra e ai populisti del mondo intero attuate da Youtube, Facebook e Twitter, Google si è inventata la possibilità tecnica di «support Black-owned business». Cioè di «sostenere le aziende dei Neri» (citato dal comunicato ufficiale dell'impresa fondata da Sergey Brin e Larry Page nel 1998). Jewel Burks, una responsabile di Google negli Stati Uniti, dichiara a tal proposito che «come donna nera, imprenditrice e googler, sostenere le aziende di proprietà dei Neri () è una mia passione». (Immaginiamo un solo istante che cosa accadrebbe se una ipotetica Mary Smith dicesse che come bianca ha la passione di sostenere le attività dei bianchi: no comment, please!). E così, dopo l'irruenza antirazzista dei Blm - che ha causato già vari morti - la Burks e la sua équipe hanno trovato una modalità con cui «a partire da oggi, gli operatori del commercio negli Stati Uniti, con un profilo aziendale verificato su Google, possono aggiungere un attributo di proprietà nera al proprio profilo, facilitando la ricerca e il sostegno da parte della clientela». Quindi, se abbiamo capito bene, si favorisce l'acquisto nelle aziende gestite da Neri, sulla base non del prodotto, della qualità o del prezzo, ma del colore della pelle del proprietario. Il tutto, da una società leader come Google, non è stato fatto alla carlona, ma con l'ausilio di enti specializzati. Come la Us Black Chambers inc. (Usbc), che coordina le «145 camere di commercio nere», per il sostegno e la promozione «delle imprese nere». «Spero, così conclude la Burks, che questo attributo (riconoscibile attraverso l'inserimento di un cuoricino nero sul proprio profilo) e gli strumenti e la formazione di Google, possano servire come risorse aggiuntive per le aziende di proprietà dei neri e delle persone che li supportano». I conti però non tornano affatto. Se si mette in avanti il colore della pelle, cara signora Burks, il fatto può diventare un boomerang facile facile. E trasmettere ad altre comunità etniche (bianchi, asiatici, meticci, latinos), religiose (cattolici, ebrei, mormoni, rastafariani, eccetera) o sessuali (etero, gay, trans, bisessuali, genderfree, e altro) la stessa idea, legittimandone l'uso. Ma in tal modo cosa resta dell'uguaglianza tra esseri umani, della fraternità sociale e dell'unione dei cittadini? E il merito, così tipico del self-made-man, dove va a finire? Invitando la gente a fare acquisti nelle aziende tenute da Neri (black business), non si legittima così proprio l'astio verso i medesimi, visti come una comunità chiusa e un piccola società a parte, all'interno della grande nazione americana? Alcuni dicono che oggi il razzismo, che in fondo non è altro che l'importanza esagerata data ai tratti esterni dell'essere umano (rispetto all'interiorità), risorge a sinistra. E questa è una delle conclusioni di un saggio di fondo, da poco pubblicato in italiano (R. Weikart, Da Darwin a Hitler, edizioni Passaggio). Sarà un caso, ma come si spiega che proprio il Paese che produsse il Kkk tra i bianchi pare dirigersi ora a grandi passi verso una nuova ghettizzazione, voluta stavolta - quasi una sorta di nemesi storica - dai cittadini neri?
Carlo Nicolato per “Libero Quotidiano” il 2 agosto 2020. Allarme rosso dell' alfiere britannico del politically correct, la Bbc: andare in bicicletta è tanto salutare per noi e per il pianeta, specie in tempi di Covid, ma è così maledettamente bianco, ricco, se non addirittura suprematista. La Bbc si è accorta che i neri non vanno in bicicletta, o che se ci vanno lo fanno in condizioni deleterie a loro rischio e pericolo, che le città ricche hanno le piste ciclabili e i quartieri poveri e disagiati, oltre a soffocare nello smog, non le hanno. Che a Londra ad esempio lo stereotipo di chi va al lavoro in bici è quello dell' hipster bianco col grano o del professionista benestante, mentre le donne rappresentano solo il 27% e i Bame, come li chiamano in Inghilterra (Black, Asian, and minority ethnic), solo il 15%. Di chi è dunque la colpa? Il problema, fa notare la Bbc, è che «le voci coinvolte nelle discussioni sull' infrastruttura ciclistica spesso mancano di diversità di razza, genere, classe, abilità fisica e persino stile ciclistico» e che le decisioni prese in favore delle piste ciclabili e per rendere la vita del ciclista migliore sono influenzate da una «piccola élite di appassionati», una sorta di circoli di benpensanti con buone relazioni con funzionari locali, cioè con i politici. Tali gruppi sono generalmente composti da gente che sta bene e che quindi può permettersi anche di pensare a migliorare la fruibilità del loro mezzo di trasporto preferito che nel contempo è sport e stile di vita. I loro interessi però non necessariamente coincidono con quelli di «persone con background, bisogni e realtà di quartiere diversi». Ciò sarebbe particolarmente evidente in una città come Londra dove varie ricerche avrebbero evidenziato come «il ciclismo sia dominato da un particolare gruppo demografico - professionisti maschili benestanti che possono permettersi biciclette specializzate e abbigliamento performante». Il che avrebbe creato anche un pericoloso circolo vizioso in quanto, secondo un' altra ricerca datata 2011 riportata dalla Bbc, il fatto che in giro per la capitale inglese si vedano in bicicletta solo personaggi di tal fatta, cioè bianchi ben vestiti e alla moda, scoraggia tutti gli altri a fare uso delle due ruote: «L' invisibilità dei ciclisti neri e asiatici» dice sorprendentemente la ricerca «riduce le loro opportunità di vedere il ciclismo come un mezzo di trasporto». Insomma, se ci sono meno neri in bicicletta ancora una volta è colpa di un retrogrado sistema i cui meccanismi sono manovrati da maschi, bianchi, preferibilmente ricchi che se ne infischiano degli immigrati, delle periferie e della loro sicurezza. Il nero sulle due ruote, protesta la Bbc, è così genericamente malvisto che una ricerca della Stanford University fa notare come a Oakland in California il 60% dei ciclisti fermati dalla polizia sia afroamericano quando lo stesso gruppo compone solo il 28 per cento della popolazione della città. La prestigiosa testata british insiste su questo punto cruciale, sottolineando il fatto che la mancanza di infrastrutture ciclabili nelle periferie che rende l' uso delle due ruote complicato e pericoloso si fonda specie in America su basi di disparità razziale. Gira e rigira alla fine qualcuno dirà che se gli afroamericani non vanno in bicicletta in fondo è colpa di Colombo. Di chi se no?
Da “Italia Oggi” il 3 agosto 2020. Il celebre vignettista e cartoonist, Altan, nella sua intervista al Foglio, ha detto di essere assolutamente in sintonia con il movimento del politically correct perché questo è un movimento che si propone di ridurre la volgarità e di estendere la gentilezza nelle relazioni fra le persone e nel mondo. È un fatto veramente sorprendente sentire fare questa affermazione da uno, Altan appunto, che ha vissuto una vita intera (diventando famoso e guadagnandoci pure un sacco di soldi; onore al merito, intendiamoci) disegnando un personaggio orrendo che ficca compulsivamente e con visibile compiacimento, la punta dell'ombrello nel sedere di un altro, mentre pronuncia una frase scurrile. La conversione di Altan, moderno san Paolo sbalzato dal cavallo, è sorprendente come la notizia del bambino che morde un molosso. Solo che Altan ha cambiato direzione senza nemmeno mettere fuori la freccia per indicare che cambia direzione e per dire che è pentito di ciò che ha fatto sinora. Fra i chic si fa così. Parbleu!
Festa del sacrificio, sgozzano agnelli in pubblico? Se protesti sei islamofobo. Fausto Carioti Libero Quotidiano il 02 agosto 2020. Uno Stato laico al punto da vietare le «messe con popolo» per nove settimane, impedire l'accesso alla Comunione e agli altri sacramenti della Chiesa cattolica, mandare i carabinieri nelle chiese per interrompere i funerali. Non così inflessibile con chiunque, però. Si vedesse, in questi giorni, un uomo in divisa intervenire, si sentisse la voce di un sindaco o di un prefetto alzarsi contro il rituale barbaro e illegale della macellazione fai-da-te praticato da tanti islamici in Italia. Silenzio, omertà, resa totale. La festa musulmana del sacrificio, "Id al-adha", è arrivata anche quest' anno, a ricordarci che qui da noi i figli di Allah godono sempre di uno speciale salvacondotto, grazie al ricatto dell'etichetta da «islamofobo», pronta per essere appiccicata su chiunque contesti certe loro pratiche. Si celebra il sacrificio del montone da parte del "profeta" Abramo, il cui mito è stato ripreso dal Corano. Abramo si sottomette ad Allah e il suo gesto è di esempio per tutti i fedeli di una religione il cui stesso nome, islam, significa «sottomissione». A commemorazione del suo gesto si uccide un agnello, una capra o un altro animale, le cui carni saranno poi mangiate, e ciò deve avvenire secondo le sacre regole: sgozzandolo con un taglio alla gola, senza stordimento, e lasciandolo morire lentamente, dissanguato. È uno di quei casi in cui le norme dell'Italia "sovrana" sono peggiori di quelle europee. I regolamenti della Ue, infatti, stabiliscono che tutti gli animali da macellazione siano pietosamente storditi prima dell'uccisione, ma consentono alle singole nazioni di derogare. Cosa che il nostro Paese ha fatto con un decreto del 1980, che consente «la macellazione senza preventivo stordimento eseguita secondo i riti ebraico ed islamico da parte delle rispettive comunità». Le prescrizioni di legge sono comunque rigorose: l'operazione deve essere compiuta in una struttura autorizzata, ovvero in un macello, da personale qualificato e addestrato, usando «un coltello affilatissimo in modo che possano essere recisi con un unico taglio contemporaneamente l'esofago, la trachea ed i grossi vasi sanguigni del collo», e adottando in ogni fase «tutte le precauzioni atte a evitare il più possibile sofferenze e ogni stato di eccitazione non necessario». Indicazioni che la comunità ebraica, il cui rituale per la carne kosher è simile all'islamico, ha sempre rispettato. Lo stesso non si può dire di quella musulmana, dove è diffusa la macellazione compiuta dal capofamiglia con coltellacci e senza preparazione né rispetto del povero animale. Può avvenire in casa, dentro la vasca da bagno, oppure in un cortile, in un garage o addirittura in spazi pubblici, che talvolta le comunità islamiche locali reclamano apposta. Ogni anno, durante la festa del sacrificio, macellerie clandestine e macellai improvvisati sono scoperti in diverse città d'Italia, ma rappresentano una quota minima del fenomeno, che infatti prosegue indisturbato. Nessuna autorità ha interesse a sollevare il problema, meglio guardare altrove ed evitare così le scontatissime accuse di razzismo. La Lega anti-vivisezione è una delle poche associazioni animaliste che prova a obiettare qualcosa: «Non sono rari i casi di macellazione "familiare", eseguita per festeggiare delle ricorrenze religiose», avverte sul proprio sito senza specificare altro, ricordando però che si tratta di «una pratica illegale e perseguibile per legge». Vero. Ma perseguire e condannare sono due cose diverse. Può succedere infatti che i tribunali italiani, le poche volte in cui sono chiamati a occuparsi di queste vicende, finiscano per consentirle. Come ha fatto la corte d'appello di Genova nel 2016, quando assolse due rom musulmani che avevano macellato un capretto in mezzo alla strada, nel modo più crudele. I giudici di primo grado li avevano condannati, ma i loro colleghi dell'appello hanno stabilito che «trattandosi di un sacrificio religioso, si può presupporre che fosse volontà degli imputati non discostarsi dalla consueta prassi operativa». Allah è grande, la giurisprudenza italiana un po' meno. Una nazione declina anche così, assieme al rispetto per le proprie leggi. A grande richiesta dei nuovi arrivati seguiranno la poligamia, l'eredità dimezzata per le donne e altri simili avanzamenti dei diritti civili, lungo la strada indicata da Maometto, noto progressista e fautore del dialogo tra le religioni, vissuto tra il VI e il VII secolo.
Da “Libero Quotidiano” l'1 agosto 2020. Il consorzio Igp che promuove il radicchio di Chioggia, la famosa "rosa di Chioggia", per la nuova pubblicità ha utilizzato un reggiseno fatto di radicchio indossato da una modella, accompagnato dalla scritta: «Un radicchio da mangiare». Ma il nuovo spot non è piaciuto ad alcune femministe che oltre ad accusare il direttore del Consorzio per questo spot sessista, hanno scritto al sindaco di Chioggia, Alessandro Ferro, chiedendo che la pubblicità fosse immediatamente cancellata.
Da ilmessaggero.it il 31 luglio 2020. Licenziamenti in vista nella squadra di "The Ellen DeGeneres Show". La popolarissima attrice comica, conduttrice dell'omonimo talk show, si è scusata per i comportamenti inappropriati che sarebbero emersi da parte di alcuni membri del team della trasmissione, trasmessa da più emittenti in tutto il Nord America. Un'indagine interna, provocata da alcuni articoli di Buzzfeed in cui dipendenti dello show lanciavano accuse di razzismo e intimidazione nella redazione del programma, ha portato ad accertare «carenze» nella «gestione quotidiana dello show». Le confessioni dei dipendenti avevano dipinto l'ambiente dello show come «dominato dalla paura». In una e-mail allo staff del programma, Ellen si è scusata e ha dichiarato di essere «impegnata a garantire che ciò non accada più». «Dobbiamo essere tutti più attenti al modo in cui le nostre parole e azioni influiscono sugli altri, e sono contenta che i problemi del nostro show siano stati portati alla mia attenzione», ha aggiunto. La società di produzione dello show, WarnerMedia, ha dichiarato che «a seguito di una indagine» darà corso a «diversi cambi di personale». Tra le accuse, rivolte su Buzzfeed da dipendenti ed dipendenti, il licenziamento dopo un periodo di malattia o di congedo per lutto, "microaggressioni" razziste, la diffida a rivolgere la parola alla conduttrice. E da ultimo allusioni sessuali da parte di importanti membri dello staff nei confronti del personale più giovane. Tutte critiche in netto contrasto con l'immagine pubblica di DeGeneres e del suo spettacolo. La comica, il cui mantra è «siate gentili l'uno con l'altro», ha sempre descritto il suo programma come «un luogo di felicità». Dopo la pubblicazione delle accuse, WarnerMedia ha intervistato dozzine di dipendenti sull'atmosfera del programma. Ellen ha aspettato che si concludesse l'indagine prima di rispondere con una mail inviata all'intero staff e pubblicata dall'Hollywood Reporter. Mail dove assicura che verranno presi provvedimenti per «correggere i problemi» che sono emersi. «Il primo giorno del nostro show (che conduce da 17 ann, ndr.), ho detto a tutti nel nostro primo incontro che The Ellen DeGeneres Show sarebbe stato un luogo di felicità: nessuno avrebbe mai alzato la voce e tutti sarebbero stati trattati con rispetto», ha scritto. «Ovviamente qualcosa è cambiato e ne sono delusa». «Chiunque mi conosca - ha aggiunto - sa che è l'opposto di ciò in cui credo e di ciò che ho sperato per il nostro spettacolo». Poi ha preso le distanze dalle accuse, sottolineando: «Le persone che lavorano con me e per me parlano a nome mio. E se travisano chi sono questo deve finire». Ellen non ha mancato di fare riferimento ai problemi di emarginazione incontrati in prima persona quando negli anni '90 ha rivelato di essere gay. «Da persona che è stata giudicata e ha quasi perso tutto per essere solo quella che sono, capisco davvero e ho una profonda compassione per coloro che sono guardati in modo diverso, o trattati ingiustamente, o - peggio - ignorati. Pensare che sia successo questo è terribile per me». «Sono così orgoglioso del lavoro che facciamo e del divertimento e della gioia che tutti aiutiamo a diffondere nel mondo. Voglio che tutti a casa amino il nostro spettacolo e voglio che tutti quelli che lo creano adorino lavorarci». Dal canto la WarnerMedia ha spiegato: «Sebbene non tutte le accuse siano state confermate, siamo delusi dal fatto che i primi risultati dell'indagine abbiano indicato alcune carenze relative alla gestione quotidiana dello spettacolo», ha dichiarato la società in una nota. «Abbiamo identificato diverse modifiche del personale da adottare, insieme a misure adeguate per affrontare le questioni sollevate e stiamo facendo i primi passi per attuarle. Warner Bros ed Ellen DeGeneres sono impegnati a garantire un posto di lavoro basato sul rispetto e l'inclusione. Siamo fiduciosi che queste azioni ci condurrà sulla strada giusta». Ma poco prima che la dichiarazione di Warner fosse diffusa, è uscita una nuova accusa su Buzzfeed ancora più grave: molestie sessuali e comportamenti sessualmente inappropriati da parte di alcuni "pezzi grossi" della trasmissione. Tra gli accusati anche l'autore e produttore esecutivo dello show, Kevin Leman, che avrebbe fatto una serie di commenti sessuali inappropriati nei confronti di giovani dipendenti. Leman ha rilasciato una dichiarazione, subito dopo la pubblicazione dell'articolo di Buzzfeed, negando categoricamente le accuse. «E se il mio lavoro di autore è quello di inventare battute - e, durante questo processo, possiamo occasionalmente spingerci al limite della correttezza - sono inorridito dal fatto che alcuni dei miei tentativi di umorismo possano aver causato offesa. Ho sempre mirato a trattare tutti i membri dello staff con gentilezza, inclusività e rispetto. In tutto i miei abbi nello show, per quanto ne sappia, non ho mai avuto un singolo reclamo sul mio comportamento, e sono devastato oltre ogni immaginazione che sia stato pubblicato un articolo così dannoso e fuorviante», ha concluso.
DAGONEWS il 3 agosto 2020. Lo staff di Ellen DeGeneres si dice sollevato per il fatto che il comportamento della presentatrice sia finalmente venuto a galla così come l’ambiente tossico in cui erano costretti a lavorare. Due ex membri dello staff hanno riferito a The Sun che le "scuse e le smentite della conduttrice 62enne che ha detto di non sapere nulla di ciò che accadeva dietro le quinte sono delle complete stronzate. «Per oltre un decennio Ellen ha trattato il suo personale in modo orrendo, il che è ironico visto come si mostra davanti alla telecamera. È come se ci fossero due persone diverse. Una è terribile, affamato di potere e urla costantemente a tutti per tutto ciò che non va nella produzione dello spettacolo. L'altro personaggio interpretato da Ellen è ciò che il mondo vede: una donna esilarante, gentile e generosa, sostenitrice impavida della comunità LGBTQ». Gli ex membri dello staff hanno rivelato che lo show aveva un alto turnover del personale a causa della pressione che DeGeneres metteva, ma nessuno aveva mai voluto farsi avanti visto che tutti sapevano quanto potere lei abbia nel suo ambiente. «Non può continuare a vivere una bugia e trattare le persone in questo modo. La sua reputazione e il suo comportamento disgustoso è stato smascherato». La WarnerMedia la scorsa settimana ha avviato un'indagine dopo che i dipendenti hanno reso pubblico quello che succedeva dietro le quinte.
Il pensiero unico del politically correct americano è il nuovo autoritarismo. Michele Marsonet su Il Dubbio il 31 luglio 2020. Statue abbattute e giornalisti licenziati: per quanto strano e incredibile possa sembrare, gli Stati Uniti d’America stanno diventando un Paese in cui la libertà di pensiero e di parola è sempre più in pericolo. Negli Usa è in pericolo la libertà di espressione. Per quanto strano e incredibile possa sembrare, gli Stati Uniti d’America stanno diventando un Paese in cui la libertà di pensiero e di parola è sempre più in pericolo. E uso i termini “strano” e “incredibile” proprio perché, da sempre, siamo abituati a pensare l’America come il Paese in cui tale libertà è invece garantita integralmente, caratteristica che la rende – o, forse, la rendeva – il principale avversario dei tanti regimi autoritari, di destra e di sinistra, che oggi pullulano nel mondo. Com’è noto, tale situazione è una conseguenza diretta della prevalenza spesso asfissiante del politically correct nella cultura americana. Da quando in molti ambienti intellettuali si è diffusa la convinzione che soltanto alcune idee siano per l’appunto “corrette”, e che quelle non in linea vadano semplicemente eliminate, si è verificata una deriva illiberale che, sotto certi aspetti, può anche essere definita “autoritaria”. Per fortuna le pulsioni autoritarie riguardano, per ora, soltanto il mondo universitario e della cultura in genere. Non hanno (ripeto: per ora) coinvolto l’assetto politico e istituzionale della nazione, che resta fermamente democratico con libere elezioni e l’alternanza al potere di partiti tra loro in competizione per conquistare il consenso degli elettori.Tuttavia, ciò che sta accadendo oggi negli Usa induce a essere pessimisti. In altre parole è opportuno chiedersi se l’America di domani sarà ancora un Paese – come quello che abbiamo conosciuto – in cui a ognuno viene garantita la libertà di parlare e di scrivere ciò che vuole, per quanto dissonanti le sue idee siano rispetto a quelle di chi sta cercando di imporre, e con successo, un “pensiero unico” dai cui canoni non è lecito derogare. Il fatto è che l’epicentro di questo mutamento epocale è proprio il mondo accademico. Vi sono dei docenti italiani che, quando parlano di Harvard, Princeton o Columbia University, lo fanno con toni ieratici, e i loro occhi contemplano in quel caso un mondo di perfezione, nel quale il merito vince sempre e il dibattito fluisce libero, spontaneo e diretto come si presume avvenisse nell’Accademia platonica. La realtà, però, è ben diversa, e sono tanti gli episodi che lo dimostrano. A Harvard agli studenti repubblicani o in genere conservatori la libertà di parola non è concessa. Essi rappresentano una esigua minoranza e avrebbero bisogno di uno sponsor che concedesse aule per organizzare convegni e dibattiti. Non vi sono tuttavia direttori di dipartimento e presidi di facoltà che si assumano una simile responsabilità poiché, se lo facessero, subirebbero contestazioni violente e rischierebbero pure di perdere la loro posizione istituzionale.A Princeton alcuni coraggiosi hanno tentato di impedire che il nome di Woodrow Wilson, rettore dell’ateneo nel primo scorcio del ’900, venisse rimosso da facoltà e dipartimenti. Ma gli studenti, appoggiati dalla stragrande maggioranza del corpo docente, l’hanno avuta subito vinta. Il risultato è che il nome di questo presidente, da sempre icona del progressismo americano, è sparito da Princeton, quasi fosse stato un criminale. Nei campus Usa ormai si può solo parlare di alcuni argomenti mentre altri sono tabù, e negli gli stessi insegnamenti si segue fedelmente questo trend. La qualità dell’istruzione ovviamente ne risente, e chissà se in futuro i prestigiosi atenei dianzi menzionati continueranno ad occupare i primi posti nelle classifiche mondiali. Classifiche peraltro elaborate in Cina, anche se molti non lo sanno. Giunti a questo punto è difficile pensare che nelle università americane la tendenza possa essere invertita. Al contrario, pare crescere con costanza l’ansia liberticida che, come tutti sanno, coinvolge pure la stampa e il mondo dell’informazione in genere. Non si contano giornalisti e direttori licenziati in tronco per aver osato esprimere opinioni non in linea con il mainstream corrente. Ma un’America dominata dal pensiero unico non è più l’America, e rischia di assomigliare sempre più al suo principale competitor strategico: la Repubblica Popolare Cinese. Negli anni ’60 del secolo scorso Allan Bloom scriveva che all’università spetta la ricerca della verità e la lotta contro le false credenze, e che non può invece essere il luogo della sperimentazione democratica come volevano gli studenti di quel periodo. Parole profetiche, che allora vennero ascoltate mentre oggi sono cancellate senza remore.
10 pensieri sulla dittatura del buonismo. Giancristiano Desiderio, 27 luglio 2020, su Nicolaporro.it.
1. Non c’è alcuna emergenza. Se il governo non sa lavorare senza emergenza rassegni le dimissioni. Un governo che crea un’emergenza che non c’è è un governo anti-costituzionale.
2. Il governo nato contro i pieni poteri vuole il potere assoluto, lo stato d’emergenza, i poteri speciali perché loro sono buoni. Come Jeeg Robot. Non c’è niente da fare: viviamo in una perenne condizione di strisciante totalitarismo e la fonte di questo disagio della civiltà è la subcultura di massa da cui rampollano tutti i miti peggiori della modernità.
3. Verrà la dittatura dei buoni sentimenti. E sarà la peggiore.
4. Il liberalismo non è una dottrina dei diritti ma una teoria della libertà che oppone seri limiti al potere. Non dimenticatelo mai, altrimenti perderete diritti e libertà.
5. Siamo tutti contenti per i fondi europei. Resta la sensazione, avvertita da pochi, di aver fatto la questua.
6. Con i fondi europei riusciamo a finanziare per altri due anni la decrescita felice e il socialismo di Stato, poi ci toccherà rifare la questua.
7. A me piace come la Merkel governa l’Italia.
8. La scuola non potrà riaprire fino a quando il governo non smetterà di colpevolizzare i cittadini per la diffusione del Covid e non dirà che il controllo dell’epidemia dipende da una sicurezza relativa del metodo sanitario del tracciamento. Non siamo un paese serio ma un paese che per convenienza e per ignoranza crea alibi e miti che inevitabilmente diventano commedie e tragedie.
9. Se i banchi rotanti sono, come dice la ministra, “didattica innovativa” allora Aristotele, che faceva lezione passeggiando, non aveva capito un cazzo.
10. Prima per insegnare serviva: laurea, abilitazione, concorso. Poi: laurea, abilitazione. Quindi: laurea. Oggi: iscrizione all’università. Conclusione: scuola finita, sfinita, esaurita. Ciao ciao.
“Se non sei d'accordo con noi, vali zero”: la manipolazione del pensiero unico. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 24 luglio 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. Qualche tempo fa, su Libero, abbiamo dato risalto a un videomessaggio virale dell’artista Alberto Melari che spiega su quale meccanismo psicologico si regga gran parte del mercato dell’arte contemporanea: “Io, critico, decido cosa è artisticamente valido, ne scrivo con parole alate, eleganti, fumose ed espongo il manufatto in una mostra. Se tu, fruitore, pensi che quell’opera sia solo un pastrocchio, sei uno stupido e un ignorante”. Così, temendo di essere esclusa da una presunta élite intellettuale, la maggioranza delle persone è portata ad apprezzare, spesso, manufatti del tutto insignificanti, per non dire di peggio. Insieme alle tante congratulazioni, l’autore del video “I falsi artisti” si è attirato prevedibili insulti da tutto il mondo: “sciocco e incolto” sono le più comuni offese che, ovviamente, gli danno implicitamente ragione. Se ci si riflette, lo stesso meccanismo manipolatorio viene utilizzato da decenni - e in modo sempre più massiccio – anche per supportare il cosiddetto “pensiero unico”, quello che Robert Hughes definiva «La cultura del piagnisteo, il frutto dell’ossessione per i diritti civili e dell’esaltazione vittimistica delle minoranze». Alle soglie dell’approvazione del disegno di legge più liberticida che sia stato concepito dal 1943, quello Zan-Scalfarotto-Boldrini sull’”omotransfobia”, vale la pena riesaminare la questione. Forse per l’alto tasso di emotività che lo permea, il pensiero unico è molto violento e reattivo. Appena qualcuno si azzarda a sostenere un’idea leggermente contraria, gli si dà subito del fascista, nazista, maschilista, razzista, antieuropeista, populista, omofobo (appunto), islamofobo, xenofobo, o gli si toglie direttamente l’audio in trasmissione. Non si entra nel merito delle questioni, ma si oblitera la persona in una sottocategoria antropologica senza nemmeno ascoltarla. Provate sui social a criticare educatamente alcuni “diritti civili” o alcune “minoranze”: sarete fatti a pezzi, sempre che Facebook non vi abbia prima messo in quarantena. Torna ancora, quindi, il meccanismo manipolatorio di scuola, arcinoto agli psicologi, chiamato “Sottomissione” che consiste nel fare leva sul bisogno di appartenenza ed accettazione. Viene stabilita un’idea comune, un pensiero di gruppo, per poi esigere che il manipolato si sottometta a ciò che decide il gruppo per sentirsi parte di esso, anziché esserne escluso o rifiutato. Quando, poi, tali idee intercettano i più superficiali buoni sentimenti, quando offrono la scusa per riempirsi la bocca della parola “empatia”, o per spalmarsi sul viso la biacca del politicamente corretto, la manipolazione può anche lasciare il posto a una violenza psicologica selvaggia. Una volta “sub-umanizzato” l’interlocutore, parte come niente l’insulto sull’aspetto fisico, sui figli, sul passato, sulla vita privata, sui propri cari (vivi e defunti), e fioccano gli auguri di morte violenta, meglio se a testa in giù. L’odio totale trova legittimazione poiché l’interlocutore non è più una persona, ma è diventato semplicemente un “…ista” o un “…ofobo”. Come tale, se ne possono fare polpette godendo della piacevole sensazione di aver fatto la cosa giusta. Tale convincimento, alla fine, si sedimenta nel comune sentire fino a far proporre leggi brutalmente censorie e liberticide, come il Ddl “contro l’omofobia” attualmente al vaglio della Commissione Giustizia della Camera. Spesso il meccanismo manipolatorio nasce da una sindrome narcisistica: così come il critico d’arte chic ritiene di possedere maggiore cultura e sensibilità rispetto agli altri, così l’alfiere del pensiero unico ritiene di essere un individuo moralmente superiore. Questo spiega come mai gli appartenenti alla presunta élite culturale (giornalisti, accademici, artisti, scrittori) ne siano i primi e più compatti fautori: difendono, con esso, il rango sociale cui appartengono, o per nascita, o per faticosa ascesa. A destra invece, o perché si è, talvolta, orgogliosamente “plebei” – quindi non ricattabili - o perché troppo strutturati per subire una manipolazione psicologica, si nota una dialettica più vivace e libera. E’ pur vero che nel soffocante conformismo dei media, a volte, l’unico modo per farsi ascoltare è quello del turpiloquio esplosivo. Non è un caso che alcuni fra i principali leader “populisti” utilizzino toni accesi e provocatori: l’urlo liberatorio, la parolaccia, la ribellione “del monello contro il parruccone” che, in effetti, riscuotono simpatia (incomprensibilmente per gli avversari) presso larghe fasce della popolazione. La “rottura dello schema” attira audience e riesce a far filtrare qualche concetto intuitivo. Alla lunga, però, tale stile non paga perché ribadisce lo stereotipo sugli “…isti” e sugli “…ofobi” e fortifica la cittadella narcisistica dei benpensanti che rispondono: “Allora, è vero: siete dei volgaroni violenti e pericolosi!”. Basta, infatti, pochissimo per essere inchiodati sulla croce del bon ton. Come difendersi, allora? In primis, riconoscere di essere vittima di un banale meccanismo manipolatorio che nasconde la fragilità razionale dell’aggressore. Importante è non farsi trascinare dall’ira, così come dai sensi di colpa o di inadeguatezza, non accettare attacchi personali, ma rimanere graniticamente sul piano della logica, incatenandovi l’avversario, senza mai trascendere. Facile allora, che lo scontro venga concluso dallo stesso manipolatore, ormai disarmato, che si disimpegnerà con la frase tipica: “Ora scusa, ma non ho tempo da perdere con uno come te”. Il pensiero unico, infatti, ha i minuti contati.
Maurizio Caverzan per “la Verità” il 25 luglio 2020. L'ultimo libro di Giuseppe Culicchia, E finsero felici e contenti. Dizionario delle nostre ipocrisie (Feltrinelli), è un saggio talmente lucido e godibile che andrebbe letto nelle scuole, corso di educazione civica, oppure adottato nelle facoltà di Scienze politiche e Scienze della comunicazione. Cinquantacinque anni, torinese, autore di Tutti giù per terra, da cui è stato tratto l'omonimo film con Valerio Mastandrea, da libraio Culicchia è diventato scrittore, saggista, traduttore dall'inglese e dal francese. La sua satira demolisce uno a uno i luoghi comuni dello storytelling da salotto, non necessariamente televisivo.
Cominciamo da lei, Culicchia: genitori?
«Mio padre, nato a Marsala, arrivò ventenne a Torino nel 1946. Essendosi innamorato della fidanzata di un suo amico, volle allontanarsi da quella storia. Mia madre era un'operaia tessile piemontese, figlia di un'operaia tessile. Si conobbero a metà degli anni Cinquanta e si sposarono».
Infanzia dura?
«Ero il figlio del barbiere meridionale. Diciamo che ho sperimentato sulla mia pelle una forma di razzismo senza peli sulla lingua. Ma ho avuto la possibilità di gustare gli agnolotti e il cous cous».
È vero che ha fatto il libraio prima di diventare scrittore?
«Per dieci anni. Ho scritto Tutti giù per terra nel 1994, ma fino al '97 ho continuato a stare in libreria. Non ero sicuro di riuscire a mantenermi con le parole».
Era partito piuttosto bene.
«Sì, ma avrei potuto gestire meglio la situazione. A 28 anni ero già felice di aver pubblicato il mio primo libro. Non avevo un agente e non ce l'ho tuttora».
Formazione?
«Sono stato ventenne nel 1985, l'epoca dei paninari. Doveva ancora arrivare la prima ondata migratoria di nordafricani. Torino era molto diversa, c'era stata la marcia del 40.000 e si avvertivano i primi effetti della crisi».
Amici, politica?
«Frequentavo gli ambienti punk e i tifosi del Toro. Ascoltavo i Clash, i Sex pistols, creste verdi o rosso ciliegia».
Che cosa le ha ispirato questo libro?
«Ero in vacanza in Baviera nel 2005 e iniziavano a infastidirmi certi vocaboli che leggevo sui giornali. Le riforme del lavoro che in realtà erano controriforme. Le bombe intelligenti e le vittime civili chiamate danni collaterali. In alcune università americane fu bandito Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain».
Che lei aveva tradotto.
«La censura di Twain scattata per l'uso della parola "negro" era una follia. Twain era un abolizionista, si era arruolato nell'esercito sudista, disertando dopo due settimane. Mi tornò alla mente la profezia di George Orwell sulla neolingua».
Da allora, anni di raccolta di storpiature linguistiche e doppiopesismi?
«Adesso il tema è molto sentito. Quando Feltrinelli ha deciso di pubblicare il dizionario non erano accaduti fatti che l'hanno reso ancora più attuale».
Che cos' è l'ipocrisia?
«C'entra con il mestiere di attore, con la recita che inizia dopo che ci siamo guardati allo specchio e andiamo in ufficio. Per di più ora, ciò che un tempo si diceva al bar diventa di dominio pubblico tramite i social, che trovo molto antisocial. La signora che ha postato un vecchio scatto alle Maldive la incontriamo sotto casa; per cercare lavoro miglioriamo il curriculum. Tutti vogliamo mostrarci meglio di ciò che siamo».
È una maschera che riguarda anche il pensiero?
«Ci si uniforma alle mode e ci si astiene da esprimere il proprio per non essere criticati».
L'omologazione è frutto di superficialità o del potere del pensiero unico?
«Il condizionamento è forte. Qualche anno fa nel quartiere Aurora di Torino alcuni cittadini pakistani si organizzarono in ronde per fronteggiare lo spaccio degli africani. Se fossero stati italiani, avremmo letto titoli sbrigativi. Invece, siccome erano pakistani si scriveva: poveracci, non possono avere gli spacciatori sotto casa. Un caro amico che vive in piazza Vittorio a Roma, modello d'integrazione, mi ha raccontato che poco alla volta la convivenza si è complicata e ora c'è un comitato antidegrado: "Mia moglie, appena vede qualcosa che non va, chiama la polizia: sarà mica diventata improvvisamente fascista?". Ecco, mi sembra che gli slogan prevalgano sul tentativo di capire».
Di fronte a certi argomenti scatta il riflesso condizionato.
«Un gigantesco cane di Pavlov. Se Dolce e Gabbana, di sicuro non due omofobi, si dichiarano contrari all'utero in affitto cadono sotto la pubblica esecrazione. Chi non si allinea è fascista. Lo sarà anche Marco Rizzo, uno degli ultimi orgogliosi comunisti, per aver detto che la maternità surrogata è mercificazione del corpo della donna?».
Il personaggio meno ipocrita e quello più ipocrita di oggi.
«Il più ipocrita è sicuramente il premier olandese Mark Rutte che dice peste e corna dell'Italia e condona le tasse ai grandi marchi della new economy. Uno che non si è mai preoccupato di essere politicamente corretto è Sinisa Mihajlovic. Ha riscosso unanime solidarietà quando si è saputo che aveva la leucemia, ma appena ha detto che in Emilia Romagna avrebbe appoggiato la candidata di Matteo Salvini è stato sommerso di critiche».
Un altro capolavoro è stata l'idea di Michela Murgia di sostituire patria con matria?
«E pazienza se esisteva già madrepatria. A volte l'ideologia ci fa coprire di ridicolo. Se dobbiamo chiamare assessora una donna, il mio dentista uomo devo chiamarlo dentisto?».
Per l'omicidio delle donne si parla di femminicidio perché è un fenomeno diffuso?
«Il trattamento linguistico specifico non è una questione di quantità. A questo punto adottiamolo per tutte le minoranze: migranticidio, gaycidio, lgbtqicidio, diversamentabilicidio. Nelle intestazioni delle lettere tipo cari/e compagni/e c'è chi comincia a usare l'asterisco car* compagn*. Ma un conto è leggerlo, un altro pronunciarlo».
Per il sesso valgono mille sfumature.
«Una docente inglese ha raccontato sul Guardian di esser stata rimproverata da una sua apparente studentessa perché le si è rivolta con il pronome femminile "she", mentre, siccome ha una personalità multipla, avrebbe dovuto usare il plurale, "them". Alla fine ha dovuto scusarsi e spiegare che non voleva mancarle di rispetto. Ormai si cammina sulle uova... Ma c'è una cosa che mi preme dire».
Prego.
«Non vedo nella sinistra lo stesso impegno per difendere i diritti civili anche nel promuovere i diritti del lavoro. Oggi, per un figlio che si è laureato si spera in uno stage da 400 euro al mese, 3 euro all'ora. Poi ci lamentiamo se i migliori se ne vanno all'estero. Su questi temi la sinistra è scomparsa. Anzi, sei contestato se ricordi che la legge che ha introdotto il precariato l'ha fatta il primo governo Prodi. L'Italia ha compromesso il futuro delle giovani generazioni, che cosa ne sarà tra vent' anni? In Germania lo Stato rimborsa alle famiglie tutto quello che hanno speso per la formazione dei giovani perché la loro istruzione riguarda il futuro del Paese».
Perché se si promuovono tutti, la scuola non deve lasciare indietro nessuno e i genitori 1 e 2 spianano la strada ai ragazzi aumenta il disagio adolescenziale?
«Forse sarebbe stato meglio pensarci prima di abolire il voto di condotta. Quando s' inizia ad andare a scuola si entra in un'istituzione pubblica e si compie il primo passo da cittadino. La messa in discussione del principio di autorità ha portato alla deriva attuale dell'uno vale uno. Ma qui ci vorrebbe un altro libro».
È davvero convinto che quando Martina Navratilova si dichiarò omosessuale c'era più tolleranza di oggi?
«Fu molto coraggiosa a esporsi, ma aveva vinto nove volte Wimbledon ed era una figura di riferimento. A confronto con l'ossessione attuale per la correttezza gli anni Settanta erano più liberi. C'era un giornale come Il Male che faceva vignette con il Papa in piscina. La satira era accettata. Di recente quando la Navratilova ha detto che le tenniste transgender sono avvantaggiate rispetto alle donne, una cosa scontata, è stata espulsa dalle associazioni Lgbt».
Con la cancel culture siamo oltre il politicamente corretto: cosa pensa del manifesto dei 150 intellettuali di Harper' s Magazine?
«Penso che ci voleva una presa di posizione così in America. E forse non solo lì. Cosa significa che chi non è di colore non può scrivere un romanzo sul razzismo? Se è esistito, di sicuro Omero non ha partecipato alla guerra di Troia. Isaac Asimov era un robot anche lui? Se la letteratura fosse solamente scrivere di sé sarebbe davvero triste, non tutti gli scrittori hanno la vita di Ernest Hemingway. Però Halle Berry non ha potuto interpretare il ruolo di un trans perché non appartiene a quella minoranza. E all'ultima Festa del cinema di Roma Martin Scorsese è stato accolto dalle proteste delle femministe perché nei suoi film non ci sono donne protagoniste. Trovo intollerabile l'intolleranza di chi si professa tollerante».
Nel suo libro nota che dire «ho anche amici gay» vuol dire essere omofobi: è indispensabile il ddl Zan per tutelare le persone omosessuali?
«Di sicuro l'Italia, Paese mediterraneo, cattolico e legato a una certa idea di famiglia, non è tra i più tolleranti nei loro confronti. Non conosco il decreto nel dettaglio, ma una legge non può risolvere la questione alla radice perché chi si esprime in modo irrispettoso, certo non cambia modo di pensare perché sanzionato».
La parola chiave del nuovo conformismo è inclusività?
«Il paradosso sta nel fatto che da un lato si rivendicano le differenze delle minoranze, dall'altro, se dici che le differenze esistono vieni attaccato perché dobbiamo essere tutti uguali».
Com' è stata accolta dagli editori l'idea di questo dizionario?
«Senza problemi. Non hanno eccepito su nulla, ma si sono augurati che i lettori fossero dotati di autoironia. È un libro divertente, ma non accomodante. Credo che alcuni possano essere in disaccordo, ma anche che il confronto sia un'occasione di arricchimento. Vale aldilà del mio libro».
Non sarà troppo ottimista?
«Forse sì, il mio è un auspicio».
Quella legge che uccide le libertà. Il progetto di legge sull'omotransfobia è un'aberrazione dal punto di vista di almeno tre culture politiche diverse. Marco Gervasoni, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. Il progetto di legge sull'omotransfobia è un'aberrazione dal punto di vista di almeno tre culture politiche diverse. Quella cattolica democratica, perché implicitamente mette in discussione molti punti della dottrina, come hanno giustamente lamentato i vescovi. Quella conservatrice, perché esso tende ad imporre un modello di società individualistica e disgregata, dove la tradizione è cancellata e persino combattuta. Per quanto noi si sia più vicini a quest'ultima cultura, crediamo però che anche quella liberale dovrebbe inorridire se questo progetto diventasse legge. Come ha del resto spiegato Silvio Berlusconi, specificando che una forza liberale deve opporvisi, proprio in nome della libertà. Dobbiamo infatti ricordare che la legge recante il nome del deputato Pd Zan poco o nulla riguarda la tutela degli omosessuali e dei trans. Essi, in quanto cittadini italiani uguali agli altri (e ci mancherebbe) sono già garantiti dal codice civile e da quello penale. Peraltro, sul piano dell'aggressione ai gay, il nostro paese registra cifre assai più basse che altri, in cui le comunità islamiche sono ben diffuse: a Ixelles in Belgio, ieri, sei ragazzi sono stati lapidati, fortunatamente non a morte, perché uno di loro «sembrava» gay, e lasciamo intuire chi fossero i lapidatori. Questo lo tengano a mente le associazioni Lgbt, sempre in prima linea per l'accoglienza. Quindi il progetto di legge Zan è del tutto inutile per difendere gli omosessuali. Ma allora perché premono tanto? Perché è la classica legge ideologica tanto cara ai progressisti; serve a legittimare e ad affermare un tipo di società nuova, in cui la famiglia non sarà più fondata sul rapporto tra un uomo e una donna, oltre ad investire la questione delle adozioni dei bambini e dell'utero in affitto. Se questa legge passasse, le associazioni Lgbt avrebbero pieno diritto a rivendicare questa forma di società, ma ne avrebbe molto meno chi invece la ritenesse una barbarie, perché rischierebbe l'accusa di omofobia. Si capisce quindi che la finalità della legge è perseguire le opinioni: non è emendabile, volendole togliere la parte «liberticida» non ne resterebbe più nulla perché il suo obiettivo è esattamente quello. Un liberale la deve combattere, proprio perché essa censura le opinioni. In linea con altre leggi che la sinistra nella precedente legislatura ha cercato di introdurre. Per affermare il modello progressista fondato sulla tirannia delle minoranze, bisogna infatti condizionare le maggioranze attraverso i media ma anche zittire coloro che si oppongono alla narrazione progressista. Il progetto si muove nel solco di analoghe leggi approvate in altri Paesi europei: anche quelli che impartiscono pompose lezioni di Stato di diritto a Ungheria e Polonia. Ma allora perché qualcuno, che pretende dirsi liberale, sostiene la legge? Perché, a partire dagli anni Sessanta, il liberalismo classico si è trasformato in qualcosa di diverso, e persino opposto: in libertarismo, cioè nell'idea che ognuno possa fare quello che gli garba senza rispettare i costumi sociali, le tradizioni, le eredità culturali, persino i dati biologici. Per anni su queste colonne il filosofo Nicola Matteucci, uno dei maestri del liberalismo italiano, ha insistito che esso sarebbe morto se fosse diventata una dottrina dei diritti a discapito dei doveri. A coloro che ancora si dicono liberali spetta cercare di salvarlo, anche impedendo a una legge censoria ed autoritaria di nascere.
IMMAGINE MARXISTA. E ALLORA? Marco Molendini per Dagospia il 23 luglio 2020. C'è un antico vezzo a cui i politici non si sottraggono: spararla, meglio se grossa, scegliendo un tema assai popolare e usare le reazioni come cassa di risonanza. Difficile trovare un'altra lettura per le uscite fuori tempo massimo dell'europarlamentare leghista e candidata in Toscana per la Lega Susanna Ceccardi e per il controcanto di Georgia Meloni a proposito di Imagine, canzone fra le più popolari e suonate del mondo, scritta nel 1971 e, per la verità, non nuova ad anatemi, a volte ridicoli. Come è in generale ridicolo stare a dibattere se Imagine sia o meno una canzone marxista. Non credo, con tutto il fervore dell’epoca, che John Lennon si sia messo a scrivere la sua canzone nella camera da letto della tenuta di Titte hurst park ad Ascott pensando voglio scrivere un inno comunista. È vero, però, che il suo testo pur essendo ispirato a un sentimento di concordia universale, ha più volte suscitato reazioni. Come quando, tre anni fa, in Pakistan venne definita inno dell'ateismo e perciò proibita a scuola. Qualche tempo prima era stata proibita in una scuola religiosa del Devon perché ritenuta anti religiosa. E qualcun altro pensò di vietarne l'uso in molte chiese, anno 2012, ai funerali per quel suo verso «imagine there's no haeven» (immagina che non ci sia un paradiso). Sempre in Gran Bretagna, quando venne fatta una sorta di hit parade delle canzoni più suonate durante le esequie (la più gettonata era My Way di Sinatra), si scoprì che un quarto delle agenzie di pompe funebri rifiutava l'uso di Imagine. Anche l'accusa di essere una canzone ideologicamente comunista non è nuova: finchè era vivo, Lennon non se ne occupava più di tanto. L'autore di Working class hero rispondeva «può essere un manifesto comunista ma nel mondo non ci sono governi veramente comunisti e io non mi sento particolarmente comunista né parte di alcun movimento politico». Piuttosto idealizzava una patria immaginaria, Nutopia, che avesse come inno nazionale tre secondi di silenzio. Ma il contenuto di Imagine più che altro è farina di un pacifismo sognatore anni 70, figlio della filosofia peace & love, ispirato ad alcuni versi elementari di Yoko Ono, scritti quando faceva parte del movimento di artisti Fluxus e contenuti nel libro Grapefruit del 64. Brevi epigrammi come Cloud piece: «Imagine the clouds dripping/Dig a hole in your garden to/put them in» (Immagina le nuvole che gocciolano / Scava una buca nel tuo giardino / per metterle dentro). E come Tunafish sandwhich piece: «Imagine one thousand suns in the/sky at the same time./Let them shine for one hour/Then, let them gradually melt/into the sky/Make one tunafish sandwich and eat» (Immagina mille soli /nel cielo allo stesso tempo/lasciali brillare per un'ora/ Quindi, lasciali sciogliere gradualmente nel cielo/ Prepara un sandwich al tonno e mangialo). Ma il testo è stato suggerito anche da un libro di preghiere, Christian prayer, che gli aveva regalato Dick Gregory, attore e combattente dei diritti civili. Una canzone schierata, ma che c’è di male. Fossi stato la Ceccardi o la Meloni avrei risposto che non me ne fregava nulla di stare a disquisire su un brano amato nel mondo e che appartiene alla storia, a meno che non volessi alzare un po’ di canizza, tipo quelli che amano abbattere le statue o disquisire se Via col vento sia un film razzista.
Ernesto Assante per “la Repubblica” il 23 luglio 2020. Beh, passando i giorni la situazione migliora dalle parti del centrodestra. Pochi giorni fa Susanna Ceccardi, europarlamentare e candidata della Lega in Toscana, aveva ribadito la sua contrarietà a "Imagine" di John Lennon, considerata un «inno marxista». Per Giorgia Meloni invece, intervistata da Luca Telese su La7, «è l'inno dell'omologazione mondialista», ma per fortuna è «una bellissima canzone». Peccato per quel testo, dice la Meloni, che immaginando un mondo senza confini, religioni e possesso e, ricordiamolo, anche senza guerre, cupidigia, fame e uccisioni, non la «appassiona». Ci dispiace, sinceramente, anche perché allo stesso modo immaginiamo sia probabile che non si appassioni all'ascolto di "Vita spericolata" di Vasco, "Highway to hell" degli Ac/Dc e probabilmente anche "Emozioni" di Battisti, perché inneggia alla guida a fari spenti nella notte. Ed è un peccato, perché di politici capaci di ascoltare meglio le canzoni di Lennon, ma anche di Vasco o di Battisti, ci sarebbe bisogno oggi più che mai.
Antonio Polito per il “Corriere della Sera” il 23 luglio 2020. Effettivamente l'inglese ti cambia. Ci sono canzoni che sembrano belle, epiche, indimenticabili. E poi basta tradurre o farsi tradurre il testo, che ci era completamente sfuggito nell'estasi musicale, per capire che no, non è la nostra cultura, e insomma, come si dice oggi, «quelle parole non mi rappresentano». Si capisce dunque che, a furia di canticchiare Imagine sotto la doccia, a due donne di destra come Ceccardi e Meloni non sia venuto in mente prima, nel mezzo secolo trascorso dall'incisione del disco, che si trattava di un testo pericolosamente cosmopolitico e irenista. «Imagine there' s no countries» non suona effettivamente bene alle orecchie di una sovranista; e per giunta «no religion too». Senza dire che la frase «all the people sharing all the world» è chiaramente indice di una deriva «mondialista» ante litteram, visto che è stata scritta prima della mondializzazione. Si vede che la destra italiana non ha altro a cui pensare. Solo che nel ruolo di ideologo della sinistra globalista il ragazzo che quando compose Imagine aveva trent' anni è vagamente improbabile. Oltre che un sognatore («You may say I' m a dreamer»...), era un tipo alquanto imprevedibile, ondivago e provocatorio, e forse anche per questo è finito nel mirino di un pazzo (a proposito, l'assassino di Lennon fu trovato dalla polizia mentre, tranquillamente seduto sul marciapiedi del Dakota Building, leggeva Il giovane Holden di Salinger, anche quello un libro il cui testo inglese meriterebbe una riconsiderazione postuma perché tanto «identitario» non mi pare). A discolpa dell'imputato, morto quarant' anni fa, e solo per riconciliare la destra italiana con un musicista in definitiva non inferiore a Battisti, vorremmo perciò segnalare anche una sua canzone che, se tradotta, potrebbe in fin dei conti piacere anche alle sovraniste dei nostri giorni, che si intitolava Revolution e nella quale Lennon condannò il '68 politico e violento: «Dici di volere una rivoluzione/ ma quando parli di distruzione/ sappi che non puoi contare su di me». E quanto alla sua sospetta appartenenza alla «cultura dei diritti», sarebbe meglio non dimenticare quell'altra canzone, Run for your life , in cui, agli albori della minigonna, faceva l'apologia del delitto d'onore: «Preferirei vederti morta, piccola/ piuttosto che con un altro uomo/ sai che sono un ragazzo malvagio/ farai meglio a correre per la tua vita, bambina...». Insomma, l'uomo fu complesso: capita spesso agli artisti. E a meno di non voler lanciare una versione canterina e di destra della «cancel culture», bruciando le registrazioni di Imagine in tutte le radio private e pubbliche del Paese, non resta che chiudere gli occhi, dimenticare l'inglese, e abbandonarsi alle note di una delle canzoni più magnificamente smielate della storia della musica: «I hope one day you will join us».
Definì "negra" la Kyenge, tribunale assolve vicesindaco di Civitanova. Il collegio presieduto dal giudice Daniela Bellesi ha assolto Fausto Troiani dall'accusa di diffamazione con l’aggravante dei motivi di odio razziale. Federico Garau, Sabato 18/07/2020 su Il Giornale. Colpita per esser stata definita "negra" dal vicesindaco di Civitanova Marche (Macerata) Fausto Troiani, aveva immediatamente sporto denuncia dando avvio ad un procedimento penale per direttissima nei suoi confronti, ma l'esponente del Pd Cecyle Kyenge Kashetu non ha ottenuto soddisfazione come evidentemente si attendeva. Il tribunale di Macerata, per la precisione il collegio presieduto dal giudice Daniela Bellesi ha infatti tenuto conto delle obiezioni sollevate dal legale del vicesindaco di Civitanova Marche assolvendolo dalle accuse a lui rivolte. Il termine per la deposizione delle motivazioni di tale scelta giuridica è ora di novanta giorni. Tutto era nato da un commento postato su Facebook da Fausto Troiani, in calce ad un intervento in cui veniva condiviso un articolo riguardante proprio l'europarlamentare di origini congolesi."Rimane negra", si leggeva nel post in questione, con riferimento esplicito all'ex ministro per l'immigrazione del governo di Enrico Letta. A causa di questa frase il vicesindaco Fausto Troiani, già noto per altri sfoghi in ambito politico, era subito balzato al centro delle polemiche. L'europarlamentare Cecyle Kyenge Kashetu aveva pertanto deciso di intervenire immediatamente, sporgendo denuncia alla procura della Repubblica di Macerata. Procura che aveva dato avvio ad un procedimento per direttissima a carico del vicesindaco di Civitanova, accusato di diffamazione con l’aggravante dei motivi di odio razziale a seguito della denuncia depositata dalla politica originaria della Repubblica democratica del Congo. L'esito del procedimento a carico di Fausto Troiani, tuttavia, non si è concluso come la stessa esponente del Pd si attendeva dato che, nonostante la richiesta da parte della procura della Repubblica di Macerata di una condanna a sette mesi di reclusione, il tribunale ha deliberato in modo differente. L'avvocato difensore del vicesindaco, il dottor Gian Luigi Boschi, è riuscito a centrare i punti giusti dinanzi al collegio presieduto dal giudice Daniela Bellesi. Il primo punto sottolineato dal legale è che non sussistano prove certe ed incontrovertibili del fatto che il commento fosse partito da un account di Facebook attribuibile senza dubbio alcuno al suo cliente. A ciò si aggiunga inoltre che proprio il termine "negra" che ha fatto scattare la reazione di Cecyle Kyenge Kashetu non debba essere interpretato con un'accezione negativa, come invece accade nei paesi di lingua anglosassone. Tutti elementi che hanno spinto il tribunale di Macerata a pronunciarsi in favore dell'assoluzione di Fausto Troiani: bisognerà attendere dunque 90 giorni, come chiesto a fine udienza, per poter leggere le motivazioni depositate.
Addio "slave" e "blacklist" nella programmazione informatica: il politicamente corretto conquista Linux. Carmine Di Niro su Il Riformista il 14 Luglio 2020. Il politicamente corretto sbarca anche nella programmazione informatica su pc e a chiedere maggiore attenzione ai temi dell’uguaglianza razziale, emersi fortemente con la protesta del movimento "Black Lives Matter" dopo la morte a Minneapolis di George Floyd, è addirittura Linus Torvalds, l’ideatore di Linux. Torvalds ha infatti approvato una sorta di "linea guida" in cui viene suggerito di non utilizzare più termini storici della programmazione informatica come "slave" (schiavo) o "blacklist" (lista nera), da non utilizzare perché intrinsecamente razzisti. Anche i codici sorgenti di Linux devono fare quindi i conti col politicamente corretto: basta quindi con dualismi come master/slave, letteralmente padrone e schiavo, termine utilizzati per indicare un hardware principali ed uno secondario che dipende dal primo, che potrà essere sostituto da alternative come primary/secondary o leader/follower, scrive ZdNet. Addio anche al classico blacklist/whitelist, che potrà essere rimpiazzato da terminologia come denylist/allowlist o blocklist/passlist per non associare più black (nero) a cattivo e white (bianco) a buono. Prima dell’open source di Linux, erano stati giganti social come Twitter o mega corporation come Google e Microsoft a eliminare riferimenti al razzismo, mentre recentemente il Mit di Boston, il Massachusetts Institute of Technology, ha rimosso dal web un database usato per “addestrare” intelligenze artificiali proprio perché conteneva parole razziste e misogine.
Da "repubblica.it" il 17 luglio 2020. Chiamare "Eskimo", cioè eschimese, un gelato, è razzista e offensivo verso gli Inuit e tutte le popolazioni artiche e della Groenlandia, e quindi un popolare prodotto di lusso della gelateria danese Hansens, la cui sede centrale è in periferia di Copenhagen, ha deciso di cambiare nome al suo prodotto. Si chiamerà O'Payo, dal nome del tipo di cioccolato con cui viene prodotto. In Danimarca hanno protestato, con successo, soprattutto gli esponenti politici e della società civile della Groenlandia, territorio autonomo del regno. Avevano da tempo fatto notare che la parola "Eskimo" significa "mangiatore di carne cruda" e non è originaria della lingua Inuit. E che in ogni caso definire un popolo "mangiatori di carne cruda" fosse molto offensivo.
Lettera di Massimiliano Parente a Dagospia il 19 luglio 2020. Caro Dago, a pensarci la cancel culture potrebbe avere un aspetto positivo. Voglio dire, dove non è arrivata la ragione, stai a vedere che, involontariamente, ci arriva il politicamente corretto. Non servono le parole, bastano le immagini, veramente indecenti. Te ne invio due a titolo esemplificativo veramente naziste dove si vedono due maschi bianchi, un maschione bianco immaginario molto potente, addirittura onnipotente, e il primo maschio bianco etero del mondo dalla cui costola verrà creata una femmina bianca stupida, così stupida che mangerà l’unica cosa vietata in un paradiso, una mela. Nella seconda immagine c’è il figlio del suddetto maschio immaginario onnipotente bianco che cena con i suoi seguaci, tutti maschi, e non si vede nessuna donna, al limite in cucina. C’è maschilismo, sessismo, razzismo e omofobia, veramente disgustoso, cancelliamo? Io direi di sì, e nel caso siate d’accordo sono disposto a portarmi dietro anche la femminista cattolica Michela Murgia (giusto per portarmi vernice e pennelli perché non credo che un essere nato da una costola possa fare granché) Baci,
Ottavio Cappellani per la Sicilia il 19 luglio 2020. Se questa settimana volete fare la vostra bella porca figura davanti a un piatto di spaghetti alle vongole dandovi un’aria da intellettuale sbarazzino dovete per forza citare la “cancel culture”, ossia la cultura del cancellino: la tendenza ad evitare, sui media, discorsi scomodi in nome del “politicamente corretto”. A causa di questa “tendenza” due intellettuali “ammerigani”, si sono dimessi, perché vogliono il dibattito e lo vogliono, cazzo, sporco. Si tratta di Bari Weiss, del prestigioso auanagana New York Times, e di Andrew Sullivan del prestigiosissimo “maccarone m’hai provocato?” “New York Magazine”. Lamentano entrambi (e come dice la mia amica “giornalista rai”, Anna Mazzona: “E che je voi di?’”) una certa censurella borghesuccia, perbenista, secondo la quale, di ogni argomento scomodo è meglio tacere. La Weiss, sul “NYT” aveva avuto la “mission” di pubblicare opinioni reazionarie-trumpiane, contrarie alla linea editoriale del quotidiano, “bibbia” dei liberal-newyorkesi, così per capire cosa pensano i “cafonauti” (caro Dogui, quanto ci manchi in questi tempi bui) dell’Ammeriga, e cercare di dare un senso alla vittoria del “pussy-grabber”, dell’agguantatore seriale di passera (secondo la sua stessa definizione di se stesso) Donald Trump. Certo, è difficile riuscire nella mission se poi il direttore ti boccia ogni voce discordante dal pensiero unico politicamente corretto. Anche Sullivan si è dimesso, lamentando che oggigiorno, se vuoi essere all’interno del circuito “che conta” ammerigano, devi solo “parlare male di Trump, senza capire i motivi che lo hanno portato alla vittoria”. Per fortuna questa rubrichetta è proprio, ma davvero, un simbolo del politicamente corretto, e mai mi sognerei di dare spazio all’opinione di un elettore di Salvini. E però mi hanno segnalato la chiusura di una pagina di una casa editrice vicino a “Casapound”. Volevano che io esternassi a loro favore. La casa editrice si chiama “Altaforte”, e l’anno scorso era già stata bandita dal Salone del libro di Torino. Qualche giorno fa la sua pagina Facebook è stata cancellata. Ovviamente io mi sono dissociato dalla mia stessa dissociazione. Questo è il riassunto del mio pensiero, che ho espresso a Lorenzo Scandurra (il mio amico che mi ha chiesto l’endorsement): “Ma vi siete scimuniti? Ma da quando la Destra è contraria alla censura? Ma siete pazzi a ribellarvi alla censura? Piace a me, che sono di sinistra!”. Questo per dire che coloro che si lamentano della “cancel culture” sono ipocriti: la vita è tutta una censura, e chi non lo capisce è “naif”. In ultimo: una certa Maiorino, dei Cinquestelle, tipo che è una pazza, ha fatto un video con l’intento di censurare Dagospia (il sito più letto in Italia dalla gente che piace alla gente che non piace, o una cosa del genere). Dago aveva definito le chiappe della ministra Azzolina (Francesco Scimemi – comprate il suo libro, “Magicomio”, sostiene che “Azzolina!” sia una imprecazione, e non una ministra) “chiappone impiegatizie”. Vorrei “censurare” anche io Roberto D’Agostino (che ha appena compiuto 72 anni, auguri!). Le chiappone della Azzolina sono bellissime!
Filippo Facci: la sinistra contro Susanna Ceccardi, se la donna è leghista insultatela senza freni. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 16 luglio 2020. Pronti, via: «Scema», «fascista», «nazista», «vai a casa tua», «buffona», «questa cretina», «barbie nazista», «cervello da oca», «omofoba», «troglodita», «inetta», «gentaglia», «odiatrice degli ultimi», «fascista» (no, già detto). Abbiamo appena elencato alcune espressioni leggermente colorite pronunciate all'indirizzo di Susanna Ceccardi, candidata del centrodestra alle Regionali della Toscana. Attenzione, non sono solo i soliti insulti «social» magari anonimi, è tutta presa diretta dopo che lei era andata nel cuore della Toscana ex rossa, quella del Quartiere popolare di Livorno. I residenti che l'hanno presa a maleparole sono decine. Posto che di difendere Susanna Ceccardi non ce ne frega più di tanto, si prenda almeno atto dell'innegabile disparità di trattamento che riguarda i cosiddetti fomentatori di odio, quelli che il luogo comune usa schiacciare esclusivamente nell'area dell'indecifrabile destra. Facciamoci bastare un ultimo esempio: la Ceccardi, su un social, aveva postato il suo sdegno per il video in cui si vedeva un immigrato che arrostiva un gatto dopo averlo ammazzato, questo a Campiglia Marittima, Livorno; lei, al video che ritraeva anche una signora disperata e urlante, si era limitata a mettere una didascalia: «Lo shock di una signora, le sue urla disperate per cercare di fermare un immigrato che arrostisce un povero gattino». La «prova gattino» dovrebbe mettere d'accordo tutti, su internet. Seguiva imbarazzato silenzio? No, neanche: «È vergognoso che siamo ridotti a far mangiare i gatti alle persone, è vergognoso che uno come Salvini invece porti a casa 15mila euro al mese». Era una risposta firmata con nome e cognome. E non c'è speranza. Ora non c'è da tirarla lunga, non c'è da additare le infinite campagne delle boldrini d'Italia e di chi vede omofobie e autoritarismi dappertutto: il problema, in Italia, è della sinistra. Punto. Solo la sinistra può risolverlo. Punto. La destra può solo continuare a incassare (il classico «ti voglio bene» di Salvini) e a candidare più donne che uomini, visto che di governatrici ne può vantare qualcuna contrapposta a candidati di sinistra regolarmente maschi. Il ragionamento medio del popolo di sinistra, a badarci, resta questo: «Non è colpa nostra, sono loro che sono fascisti». Anche basta. Il ragionamento di Rosa Maria Di Giorgi, membro dell'ufficio di presidenza del gruppo Pd alla Camera, resta questo: «Essere antifascisti è la precondizione stessa della democrazia». Non è solo una nota cazzata, una galera intellettuale: nel luglio 2020 le precondizioni della democrazia paiono altre, molto più sentite e urgenti, come quelle di tornare a far governare un Parlamento democratico che non sia ostaggio di un eterno stato d'emergenza. In Italia il problema della democrazia - i grillini non li citiamo neanche - è un problema che deve risolvere la sinistra. Punto.
Dagospia l'11 luglio 2020. IL TWEET DI DAVID ADLER SU CIAO DARWIN: «Cambio canale e sulla televisione di Berlusconi Canale 5 vedo il programma Ciao Darwin, in cui italiani applaudono perché una straniera nera viene sommersa dall’acqua per aver dato risposte sbagliate a un quiz. Il tutto con la supervisione di due uomini in abito elegante e una donna in silenzio in bikini».
Fabrizio Boschi per “il Giornale” l'11 luglio 2020. Siamo davanti all' ennesimo delirio mediatico. Il caso Floyd negli Stati Uniti ha fatto impazzire tutto il mondo. E così, anche un programma di varietà e divertimento, può diventare bersaglio per urlare gratuitamente al razzismo. Perché va anche bene tacciare Ciao Darwin, il programma di Paolo Bonolis, come trash. Ma da qui a definirlo razzista ce ne vuole. E tutto questo perché l' altra sera a fine trasmissione, come in ogni puntata, il gioco finiva con una donna nera dentro la solita vasca di vetro che ad ogni risposta sbagliata si riempie di acqua. Ma la puntata era italiani contro stranieri e la sfida funziona così. Ma vallo a far capire ai buonisti del colore della pelle. E ovviamente c' è chi se la prende anche con Silvio Berlusconi. David Adler, un economista americano, fondatore dell' associazione Progressive International (con Bernie Sanders e Yanis Varoufakis), è intervenuto a gamba tesa. «Ho acceso la tv italiana - ha scritto sui social - e ho trovato il canale Mediaset di Berlusconi che trasmetteva uno show chiamato Ciao Darwin, nel quale gli italiani applaudono mentre una straniera nera viene affogata in una vasca d' acqua per aver risposto male a delle domande. Il tutto osservato da due uomini con un completo e da una donna silenziosa in bikini». Subito si sono scatenate le reazioni dei fan del programma, che hanno provato a far capire ad Adler il meccanismo che rende lo show così di successo. Nonostante il clamoroso scivolone, Adler non ha cancellato il tweet e allora ha ricevuto anche la replica ironica di uno degli autori: «Mi dispiace che tu abbia perso la parte migliore, quando uccidiamo tutti i concorrenti che hanno perso, senza distinzione tra bianchi e neri. Ai bambini a casa piace». L' ex ministro greco Yanis Varoufakis fa di peggio, chiedendo la chiusura delle reti Mediaset. Vabbè, e perché non la reintroduzione della pena di morte allora?
Francesco Tortora per "corriere.it" il 13 luglio 2020. Dopo 88 anni i Washington Redskins cambiano nome. L’annuncio è arrivato lunedì 13 luglio quando la squadra di football americano ha ufficializzare la svolta storica. Nel corso degli ultimi anni il team della capitale statunitense aveva ricevuto critiche e inviti a cambiare l’appellativo «razzista» che offende la popolazione dei nativi americani, ma il proprietario Daniel Snyder si era sempre rifiutato sostenendo che il soprannome Redskins (Pellerossa) rendeva omaggio agli amerindi e rappresentava «l’onore, il rispetto e l’orgoglio» della squadra.
La svolta. Tutto è cambiato alla fine di maggio dopo la morte di George Floyd e le successive proteste degli afro-americani che hanno incendiato gli Stati Uniti. Dieci giorni fa il team di Washington ha annunciato che avrebbe effettuato un «esame approfondito» del nome «alla luce dei recenti eventi in tutto il Paese». Sia Washington Post sia il canale sportivo ESPN hanno confermato l’annuncio ufficiale, ma sostengono che bisognerà aspettare ancora del tempo prima di conoscere il nuovo nome della squadra di football.
Le critiche di Trump. Diverse altre squadre americane hanno nomi e loghi che richiamano i nativi americani, come la squadra di baseball dei Cleveland Indians, che ha fatto già sparire la mascotte «Chief Wahoo» dalle divise e da quasi tutto il merchandising e ha annunciato che sta pensando di cambiare anche il nome. Il Presidente Donald Trump ha espresso la sua contrarietà: «Sembra che - ha scritto in un tweet la settimana scorsa - i Washington Redskins e i Cleveland Indians, due leggendari team sportivi, cambieranno il loro nome per essere politicamente corretti».
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 15 luglio 2020. «Perché pubblicare qualcosa di stimolante per i nostri lettori o scrivere qualcosa di audace, quando possiamo assicurarci il risultato pubblicando il nostro 4000° articolo in cui sosteniamo che Donald Trump è un pericolo per il paese e il mondo? Così l’autocensura è diventata la norma». Bari Weiss e Andrew Sullivan sono due giornalisti noti negli Stati Uniti ma non è detto che loro nome debba dirvi qualcosa. Però ricordatevi le loro dimissioni nel 2020,estate del virus cinese, perché segnano il momento più basso per la libertà di espressione, e la cosa più grave è che uno dei giornali finiti nella fogna del politically correct e' il New York Times che si pregiava di pubblicare "all the news that's fit to print". Non era stato toccato il fondo con le dimissioni di James Bennet, responsabile delle pagine op-ed, massacrato per aver pubblicato un articolo del senatore repubblicano Tom Cotton che chiedeva l’impiego dell’esercito contro i manifestanti per le strade degli Stati Uniti. Figuratevi se col clima da guerra civile stoltamente aizzato da esponenti del Partito Democratico, che pensano così di vincere le elezioni spaventando la gente, dividendo le fazioni e le razze, tenendo alta la paura e chiusi i negozi e le attività economiche, che sarebbero in piena ripresa nonostante il virus cinese non sia stato ancora debellato, figuratevi se possono trovare udienza parole come “l’importanza di comprendere gli altri americani, la necessità di resistere al tribalismo e la centralità del libero scambio di idee per una società democratica”. La cancel culture, cultura della cancellazione del passato, delle differenze, delle statue, dei monumenti, della storia, è in piena ebollizione. Parti' col me-too, tutte vittime sempre anche quelle che il presunto carnefice lo avevano adeguatamente spolpato, ora continua con antifa e Black lives matter, tutti colpevoli, tutto sbagliato, e con la storia si cancella la cultura. Chissà se quel gruppone di intellettuali scrittori giornalisti, tutti di matrice progressista, che hanno finalmente ritenuto di avvertire il pericolo della dittatura politically correct che loro stessi hanno contribuito ad affermare, e firmato su Harper's Magazine un documento di allarme pubblico, pensavano di ottenere risultati immediati e di lanciare il nuovo Verbo tollerante. Certo non sembra, non nella libertà di espressione e professione di Andrew Sullivan e di Bari Weiss. Li avevano assunti tutti e due all'indomani della batosta elettorale del 2016, un po' per dar mostra di trasversalità, un po' per provare a intercettare quel pubblico silenzioso ma molto attivo al momento del voto che li aveva evidentemente traditi, o che loro molto più banalmente non erano stati in grado di ascoltare. Così il veterano corsaro del giornalismo cartaceo e on-line, Andrew Sullivan, uno che negli anni '90 aveva preso un manifesto progressista come the New Republic e lo aveva trasformato in un giornale addirittura conservatore in politica estera e liberista in politica economica, uno che si era poi inventato un blog, Il Daily Dish che fruttava cifre a sei zero con soli $20 di abbonamento l'anno, uno da sempre gay e conservatore, era finito tre anni fa al New York Magazine. Che è la rivista liberal indispensabile vademecum per la vita radical chic nella Grande Mela, da quel che si dice a dove si va a quel che si indossa a come si mangia. Ma da qualche anno gradualmente e' anche manifesto delle vittime del me too e di un politically correct aggressivo. Bari Weiss era invece stata assunta dal Wall Street Journal al Times per dare un robusto contributo di opinione moderata e perfino conservatrice alla pagina op-ed , opinioni ed editoriali, importante branca dalla redazione separata del New York Times. Fino a ieri le piaceva suscitare forti polemiche su social come Twitter poi deve essere diventato troppo duro da sopportare. Scrive infatti che "Twitter non è nella gerenza del New York Times. Ma è diventato il suo vero direttore". Come l'etichetta appiccicatale da un articolo di Vanity Fair che la definiva la conservatrice che i radical chic amano odiare. Sono due pezzi da novanta, intendiamoci, anche se lei si definisce "una femminista che ha sbagliato", una che è stata a sinistra e al centro, ha 36 anni ed è quindi più giovane di venti di Sullivan. Storie diverse, esperienze diverse, Ma, ripeto, due pezzi da novanta. Eppure non ce l'hanno fatta e quasi contemporaneamente hanno rinunciato a un'impresa che li stava isolando professionalmente e torturando personalmente, dimettendosi. Ma non senza alzare il tono della polemica e senza raccontare quel che è loro capitato, soprattutto lei, la Weiss, che ha accompagnato le dimissioni con una lettera terribile pubblicata sul suo sito e sul profilo Facebook, e che inchioda la pochezza di quello che fu un grande giornale. Sullivan ha invece deciso di essere più soft, ma attenzione, se il direttore del magazine ha annunciato le dimissioni del suo collaboratore dicendo che è giusto che sulla rivista scrivano persone che ne esaltano la linea, Sullivan ha promesso di dire tutto nell'ultimo editoriale la prossima settimana. Scrive la Weiss che al NY Times si respirava un vero e proprio clima di terrore, per le pressioni dei social media e la dittatura dei clic. "La ragione della mia assunzione era piuttosto chiara: il fatto che il giornale non fosse stato capace di prevedere il risultato delle elezioni del 2016 era la dimostrazione che non aveva il polso del Paese che intendeva raccontare". Buone intenzioni presto tradite, il giornale non ha più alcuna intenzione di dare spazio a voci alternative, e presto è tornato a trionfare il politically correct: «Gli editoriali che appena due anni fa sarebbero stati facilmente pubblicati oggi metterebbero in difficoltà il caporedattore o il giornalista, forse fino a licenziarli. Se si ritiene che un pezzo possa avere un contraccolpo interno o sui social media non viene proprio pubblicato». Di qui discende la condizione di vita durissima in cui la giornalista si è trovata: «Sono stata oggetto di costante bullismo da parte dei colleghi che non la pensano come me. Mi hanno chiamata nazista e razzista; ho imparato a ignorare i commenti sul fatto che “scrivo sempre di ebrei”. Diversi colleghi che sono stati amichevoli con me sono stati presi di mira da altri colleghi. Sui canali Slack dell’azienda sono costantemente sminuita, così come quel che faccio. Alcuni colleghi insistono sul fatto che devo essere allontanata se questo giornale vuole essere veramente inclusivo, mentre altri postano l’emoji dell’ascia accanto al mio nome. E altri che pure lavorano al New York Times mi chiamano pubblicamente bugiarda e bigotta su Twitter, senza paura che quel che dicono venga punito. Perché non viene mai punito».
Il maccartismo è in mezzo a noi, stop al politicamente corretto. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 15 Luglio 2020. Nel mondo anglosassone (prima nel Regno Unito, poi negli Usa, speriamo che sia risparmiato il Canada) è iniziata una nuova stagione di “maccartismo” che – come sempre avviene – si appresta ad attraversare l’Atlantico verso Est, in direzione dell’Europa. Innanzitutto chi era Joseph McCarthy e che cosa significa la campagna che prese il suo nome nella prima metà degli anni ’50 del secolo scorso? McCarthy era un senatore repubblicano del Wisconsin che divenne il principale protagonista di una dei periodi più bui della democrazia americana nella seconda metà del secolo scorso. Quanto al concetto di “maccartismo”, a costo di sembrare eccessivamente corretti, riproduciamo la definizione che l’Enciclopedia Treccani ha attribuito a questo evento che Eleonor Roosevelt criticò con parole durissime: «È stata una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai avuto». Secondo l’Enciclopedia per “maccartismo” si intende un «atteggiamento politico che ebbe diffusione negli Stati Uniti d’America negli anni intorno al 1950, caratterizzato da un’esasperata contrapposizione nei confronti di persone, gruppi e comportamenti ritenuti sovversivi; fu così chiamato dal nome del senatore J. R. McCarthy (1908-1957), che diresse una commissione per la repressione delle attività antiamericane operando attacchi personali (per mezzo di accuse pubbliche in genere non provate) nei confronti di funzionari governativi, uomini di spettacolo e di cultura, ecc. da lui considerati comunisti e, in quanto tali, responsabili di minare i fondamenti politici e ideologici della società americana. Il termine è rimasto in uso nella polemica politica soprattutto per indicare un clima di sospetto generalizzato (caccia alle streghe) determinato da un anticomunismo ottuso e, alla lunga, controproducente». Soprattutto – ci permettiamo di aggiungere – presunto e quasi mai provato. Diciamo che il procedimento non differiva molto da quello delle nostre procure: si mettevano insieme sospetti, indizi, gogne mediatiche, denunce e delazioni (non c’erano i trojan) per evitare l’ostracismo e il carcere. Ovviamente anche negli Usa vi era (forse esiste ancora) un Partito Comunista che negli anni ’30 aveva conosciuto una certa attività militante (gli iscritti non furono mai più di 50mila) “coperta” durante il Secondo conflitto dall’alleanza con l’Urss. Ma la Commissione di inchiesta contro le attività anti-americane (vecchio arnese in funzione da decenni al Congresso) intensificò la sua opera quando il senatore McCarthy riuscì, da membro, a diventarne presidente. La Commissione lavorava a pieno ritmo. Alle maggiori università del paese fu chiesto un controllo sui principali libri di testo in uso. McCarthy, sfruttando la psicosi collettiva della sovversione, del complotto e l’isterismo dell’opinione pubblica (un covid ante marcia), riuscì in quattro anni ad indagare sulla posizione di più di tre milioni di impiegati e funzionari di ogni livello del governo federale. Duemila persone si dimisero dal servizio, circa duecento furono allontanate perché la loro lealtà alle istituzioni americane lasciava adito a dubbi. La furia inquisitoria della Commissione si scatenò sulla Mecca del cinema. Una delle più famose celebrità accusate di attività anti-americane fu l’attore e regista britannico Charlie Chaplin, al quale fu cancellato il visto di rientro, quando quest’ultimo lasciò gli Usa per un soggiorno in Europa nel 1952. Ma la caccia ai comunisti di Hollywood era cominciata diversi anni prima. Già nell’ottobre 1947, Walt Disney aveva testimoniato davanti alla Commissione, denunciando molti autori e registi hollywoodiani. Ma il vero terremoto arrivò quando il famoso regista Elia Kazan, vincitore di tre premi Oscar, accusato di partecipare ad attività eversive, fece i nomi dei colleghi che come lui, anche se per un breve periodo, avevano simpatizzato per il Partito Comunista Americano. In quegli anni molti degli attori interrogati cominciarono a collaborare come Gary Cooper e Ronald Reagan (che era stato fondatore di un sindacato degli attori). Altri, capeggiati dal grande Humphry Bogart, organizzarono sit in e proteste a Washington. La vicenda è descritta nel film Come eravamo di Sydney Pollack (1973). Il commediografo e poeta tedesco Bertold Brecht, rifugiatosi negli Usa dopo l’avvento del nazismo, fu accusato dalla Commissione di condurre attività anti-americane. Così si rassegnò a ritornare a Berlino Est nella Ddr. Anche l’autore e scrittore Arthur Miller, marito di Marylin Monroe, finì sotto inchiesta, ma in suo aiuto giunse la famiglia Kennedy (Robert Kennedy, allora giovane avvocato, era un collaboratore di McCarthy e John un amico). Per denunciare il clima di persecuzione Miller scrisse un dramma su di un episodio di stregoneria montato ad arte a Salem alcuni secoli prima. In quegli anni, molti produttori, sceneggiatori, attori e registi furono allontanati dall’industria cinematografica soltanto per essersi rifiutati di collaborare con la Commissione, appellandosi al Primo e al Quinto Emendamento della Costituzione (che difendono il diritto di culto, parola e stampa). Particolare clamore suscitò all’epoca il cosiddetto gruppo degli Hollywood Ten, ai quali appartenevano il regista Edward Dmytryk (poi divenuto collaborazionista) e nove sceneggiatori, imprigionati proprio per essersi rifiutati di collaborare con la Commissione. Difficile calcolare le vittime del maccartismo. Le persone che subirono il carcere furono centinaia, ma decine di migliaia persero il lavoro, semplicemente per essere citate in giudizio dalla Commissione (come accade ora se una donna accusa di essere stata molestata tanti anni prima). In quegli anni, del resto, bastava anche solo essere sospettati di omosessualità per finire nelle “grinfie” del maccartismo. Per quanto riguarda la lista nera di Hollywood, si stima che più di 300 tra attori e registi furono allontanati dall’industria cinematografica e addirittura dagli stessi Stati Uniti. Inoltre, liste di sospetti comunisti erano presenti in quasi tutti gli ambiti lavorativi, nell’università e nelle amministrazioni statali, dove il controllo rasentava l’isterismo collettivo. Ad un certo punto McCarthy (la sua popolarità stava calando da quando le sedute venivano riprese dalle tv e l’opinione pubblica si accorse della sua pochezza) cominciò ad indagare anche sul presidente Ike Eisenhower, il quale, molto seccato, fece circolare le prove di malversazioni del senatore del Wisconsin, che gli procurarono una mozione di censura da parte del Senato. A conferma di quanto scriveva Péguy: «Non ho mai conosciuto un ladro che si atteggiasse a moralista mentre ho conosciuto dei moralisti che erano dei ladri». Non rieletto. McCarthy si dedicò ad una delle sue attitudini più coltivate (l’alcolismo) che lo portò ben presto alla morte. Per quanto abominevole e negletto, il maccartismo si inseriva nel contesto internazionale della Guerra Fredda, a cui si erano aggiunte nel 1949 la vittoria della Rivoluzione comunista in Cina e l’anno dopo la Guerra di Corea. Intanto l’Urss, nelle zone di sua influenza in Europa, aveva dato corso alle cosiddette democrazie popolari e a regimi totalitari. Che negli Usa ci fossero delle spie sovietiche faceva parte del gioco; ma questa situazione non giustificava affatto la spietata “caccia alle streghe” in cui furono coinvolte anche persone di idee vagamente progressiste. Ma quale giustificazione ha il maccartismo di ritorno (magari con una nuance di sinistra) di questi nostri sciagurati tempi? Chi non la pensa in maniera politicamente corretta – se non rischia la galera – è costretto alle dimissioni perché viene bandito dai suoi colleghi che ne chiedono la rimozione (sia esso un docente, un giornalista, un intellettuale o un manager, un produttore, un attore o un regista). Le notizie che arrivano da Oltreoceano sono allucinanti. A parte l’accanimento contro le statue allo scopo di riscrivere la storia e di fare espiare alle immagini di pietra o di bronzo le colpe dei personaggi che rappresentano, è ormai proibito non solo avere un’opinione diversa, ma difendere il diritto altrui di averla. Dopo il Me too (una vera e propria caccia al maschio predatore), sta montando una sorta di autorazzismo bianco, che – è solo questione di tempo – arriverà a demonizzare i grandi filosofi greci perché pedofili. Vi sono poi le espressioni del “gender” che non solo negano il sesso come elemento naturale (è così per tutti gli esservi viventi, comprese le piante) ma pretendono che tutti aderiscano a questa versione della biologia, pena la gogna, la morte civile, l’apartheid. Tra un po’ essere eterosessuali sarà considerato una inaccettabile discriminazione in nome di un principio reazionario: quello di Adamo ed Eva nella Genesi.
La storia di quando Kirk Douglas affrontò il maccartismo. Redazione su Il Riformista il 8 Febbraio 2020. Nella celeberrima scena di Spartacus in cui l’arrogante generale Crasso pronuncia la minacciosa frase: «In ogni città e provincia liste di dissidenti sono già compilate», comunicando a Sempronio Gracco ciò che la sua vittoria significherà e immaginando il suo nome presente «In testa!» nelle liste, Kirk Douglas rimanda non ad una scelta cinematografica, ma ad una politica. Si riferisce, infatti, alla ribelle decisione dell’attore e produttore di Spartacus di inserire in testa ai titoli di coda del film il nome dello sceneggiatore, Dalton Trumbo, perseguitato in quegli anni dall’irrazionalità del maccartismo. Il fenomeno anticomunista di caccia alle streghe che prese il nome da Joseph McCarthy, senatore repubblicano del Wisconsin, e che travolse l’America sotto la presidenza Truman, proprio nei primi anni Cinquanta. “La paura rossa” colpì anche la parte più scintillante della comunità hollywoodiana, registrando in totale più di cento coinvolti tra attori, registi, sceneggiatori e musicisti, vittime di un’isteria di massa che li colpevolizzava di nutrire simpatie o legami con il comunismo e per questo ostracizzati con false accuse di spionaggio e attacco governativo. Nel mirino della commissione per le attività anti-americane finirono nomi del calibro di Charlie Chaplin, per il quale l’FBI si attivò affinché venisse cancellato il suo visto di rientro; Gary Cooper, Arthur Miller, e come conseguenza anche Marilyn Monroe, moglie dello scrittore, che arrivò a chiedere aiuto a John Fitzgerald Kennedy. Molti furono obbligati a denunciare i loro colleghi, come i registi Elia Kazan e Edward Dmytryk, mentre lo sceneggiatore Dalton Trumbo finì nella Black list e costretto a trasferirsi in Messico, dove continuò il suo lavoro sotto falso nome. È proprio per Dalton Trumbo che Douglas decise di battersi nella stenuante resistenza al maccartismo. Nel 1959 lo volle come sceneggiatore di Spartacus e nel momento di massimo vertice della sua carriera, Douglas prese una posizione che avrebbe potuto causargli addirittura la sospensione delle riprese. Diverse persone inserite nella lista nera restarono infatti escluse dall’industria dello spettacolo per molti anni, sebbene si è soliti far terminare il maccartismo nel gennaio del ‘55, quando McCarthy si dimise dalla presidenza della commissione parlamentare d’inchiesta, in seguito a una mozione di censura contro di lui votata dal Senato. La mozione era stata presentata dopo che il senatore si era inimicato gli alti gradi dell’esercito con una campagna in cui accusava loro di simpatie comuniste. La lista nera terminò simbolicamente solo nel 1960, quando il nome di Trumbo, che era membro del Partito Comunista dal 1943 al 1948, nonché uno dei famosi “dieci di Hollywood” filocomunisti, fu inserito nei titoli di testa di altri film di successo.
Renato Farina, schiaffo alla sinistra: "Anche Ezio Mauro è stufo del politicamente corretto". Renato Farina su Libero Quotidiano il 15 luglio 2020. Il linguaggio politicamente corretto, con regole invisibili ma penetranti come l'umidità nelle ossa del vocabolario, è stato inventato - ricorda Ezio Mauro - nelle università americane per fini molto nobili. Doveva servire a difendere le minoranze emarginate dalle prepotenze di chi scarica le proprie pretese di superiorità su neri, omosessuali, islamici, donne, ciechi, sordi, paralitici schiacciandoli sotto una gragnola di parole-pietre. Si è trasformato però, ammette Mauro, nella pretesa di far confluire in una zona grigia e dunque priva di vivacità, di forza, di libertà, i differenti modi di intendere la vita e dunque le differenti opinioni. Per difendere la diversità, si arriva a negare la diversità. E dalla Bibbia sappiamo che dar nome alle cose è la massima espressione della libertà di ogni uomo/donna. Sappiamo che le parole possono fare male. Ma metterle nei gulag è da regimi totalitari. I quali assicurano di farlo per il bene del popolo, per preservarlo dai sabotatori. Ogni regime ha le sue parole tabù e quelle talismano. Il regime avanzante dice negro guai, nero sì, anzi meglio evitare e dire africano; bianco si può dire ma solo se è per stigmatizzarne la pretesa di superiorità, forse bisognerà dire come in America "caucasico", qualunque cosa significhi. Gay si può, frocio solo se chi lo dice è gay, sodomita o pederasta no. La frontiera del vietato guadagna ogni giorno centimetri. L'allarme scatta in qualunque ambito delle cose quotidiane. L'ultima scoperta è di ieri, prendendo il treno. L'altoparlante in stazione annuncia che «i livelli business ed executive» sono in coda. Dire "classe" crea apartheid, ghettizza e umilia chi prende la carrozza economica, vuoi mettere invece "livello"? Non si dice "classe seconda o economica" ma "livello standard". Non so se sarà emanato un anatema, e se davanti a una signora o a un signore elegante si potrà elogiarne "la classe". Non se ne può più. Ogni parola può essere una notizia di reato. Anche quelle riposte in un angolo della mente, ancora informi, magari germogliate nel sonno, sono trattate come un pericolo pubblico dal nostro gendarme interiore. E ci si prepara con terrore all'arrivo di qualche app cinese sperimentata ad Hong Kong per smascherare chi le ospita in segreto e non le ha denunciate all'autorità competente per la derattizzazione.
EUNUCO. Il fatto è persino a sinistra si comincia a sentirsi soffocare. Non che si abbia amore sconfinato per il diritto degli altri ad esprimersi secondo i propri canoni. È che se uno non si aggiorna, anche se è il campione dei progressisti e purifica tre volte al giorno la lingua con la candeggina, avverte il rischio crescente di mettere per distrazione il piede su un escremento canino. Peggio ancora, a furia di penitenze linguistiche, l'immacolato si rende conto di essere ormai un eunuco della parola. Si accorge che per timore di urtare con un avverbio i fachiri o con un aggettivo le lottatrici di sumo, soffoca in sé immagini e concetti, li smussa prima ancora di averli partoriti, li fa nascere anemici, tisici, tiepidamente degni solo di essere vomitati. E così Ezio Mauro ha detto basta. Finiamola. Nei dovuti modi. Senza mai debordare dai canoni interiorizzati del politically correct, ma si percepisce cha avrebbe una gran voglia di lacerare la cortina mielosa subentrata a quella di ferro. Chessò: un porca-vacca liberatorio. Banalizzo? Gente volgare noialtri. Devi farne di strada caro Ezio per entrare nel club, ma è un piccolo passo per te, e un gigantesco balzo per la sinistra italiana. È infatti la prima volta che un intellettuale di riferimento di questa area tira una cannonata contro il feticcio che si è mostruosamente ingigantito con la penetrazione anche da noi del movimento "Black Lives Matter" (Le vite dei neri contano) che ha raccolto nel suo ventre, in nome della tolleranza per i diversi, la caccia allo scalpo dei vivi e dei morti che non si adeguino alla loro intolleranza. Dice ora il direttore emerito di Stampa e di Repubblica che la difesa dei deboli deve potersi affermare senza il mitra di leggi e convenzioni che impediscano le espressioni anche radicalmente avverse. C'è un problema. La famosa "società aperta" teorizzata da Karl Popper ha sempre vissuto di un dogma: tolleranza con tutti meno che con gli intolleranti. Chi decide chi sono gli intolleranti? Come definire un "intollerante"? È facilissimo scivolare nel regime dei pensieri obbligatori. E la società aperta e liberale diventa allora il regno degli ipocriti, con i lager segreti dei diversamente pensanti. Mauro, sulla prima pagina di Repubblica, si è posto sulla scia del manifesto dei 150 intellettuali pubblicato su Harper' s. Costoro hanno scritto: «Abbiamo bisogno di una cultura che lasci spazio a esperienze, rischi e persino errori».
CONCESSIONE. Le firme vanno da Noam Chomsky, linguista e che dunque la sa lunga, a Salman Rushdie, che la sa lunga anche lui, essendo inseguito da una condanna a morte di Khomeini per i suoi "Versi satanici"; all'autrice della saga di Harry Potter, J. K. Rowlings; a Martin Amis, il favoloso autore più anticomunista tra i progressisti anglosassoni. Hanno costoro pesi e appartenenze diverse, ma nessuno di loro è accusabile di essere vicino a razzismo, fascismo o altre categorie da proscrizione che abbondano in Italia e nel mondo per mettere fuori gioco la destra politica o i tradizionalisti cristiani. Interessante: non è che per fare questo manifesto hanno scartato, in base a qualche elenco, gli "impresentabili"? Mauro chiede che a destra, dinanzi alla concessione del diritto di praticare i campi del dialogo da parte dei 151 (i 150 più Mauro), si mettano insieme anche molti meno intellettuali non-progressisti, diciamo così, pronti a scrivere e firmare un manifesto in cui promettano di non approfittare dell'autorizzazione dei progressisti. Se ci passa una bozza magari, anche senza essere intellettuali, ci mancherebbe, gli diamo un'occhiata. Intanto, visto il peso formidabile che hanno Repubblica ed Ezio Mauro, una bella prova di coerenza attiva aiuterebbe. In questi giorni è in discussione in Parlamento la legge Zan-Boldrini. Essa intende educare il popolo estirpandone, con la minaccia del carcere, l'odio di genere. In pratica si mette fuori legge qualunque espressione avversa ai matrimoni gay, alle adozioni per transgender eccetera. Un bel "no, fermatevi" sarebbe gradito.
Gianluca Veneziani per "Libero Quotidiano" il 15 luglio 2020. È la storia di un continuo tradimento, di una relazione di influenza e infedeltà tra due grandi forme d'arte. Il rapporto tra letteratura e cinema è sin dall'origine caratterizzato da uno scambio unidirezionale: di solito è un libro a fornire lo spunto per un film, raramente viceversa. Ma questo legame è connotato anche da una sempre maggiore autonomia artistica del cinema, da una sua sempre più spiccata libertà, fatta di licenze e contaminazioni. Il cinema insomma non è più «figlio di un dio minore», come avverte nel gustosissimo saggio "Dal libro al film" (Leima, pp. 320, euro 20) il critico cinematografico e autore di bestseller tradotti in tutto il mondo Pino Farinotti, artefice, tra l'altro, del celebre "Dizionario Farinotti", oggi curato da sua figlia Rossella, e del romanzo "L'eroe" (Nave di Teseo). In "Dal libro al film", terzo volume della trilogia sul rapporto libro-film, basato sul corso nel master Artiracconto, tenuto da Farinotti con Gianni Canova e Antonio Scurati alla Iulm, viene fuori il rapporto di amore e odio che ha legato alcuni grandi scrittori al mondo del grande schermo. Si va dai corteggiamenti non troppo corrisposti, come quello di Pavese che «avrebbe fatto carte false per vedere i suoi libri diventare film» ma era destinato a restare un autore poco cinematografico per via della sua scrittura, fatta di «introspezione più che di azione»; e si arriva a Hemingway, «lo scrittore perfetto per essere maltrattato dal cinema»: alcuni suoi romanzi dall'epilogo tragico vennero trasposti suo malgrado in film a lieto fine, al punto che lo scrittore minacciò di presentarsi con un fucile alla Paramount, se i suoi testi originali non fossero stati rispettati. La storia di queste incomprensioni e di questi tradimenti aiuta a inquadrare meglio il fenomeno delle trasposizioni cinematografiche politicamente corrette di alcuni capolavori letterari. Una prassi cominciata prima delle ondate del Me Too e del Black Lives Matter, ma figlia della medesima intenzione di compiacere il milieu culturale di sinistra. Nel testo di Farinotti emergono alcuni casi esemplari. Uno è quello di Tarzan ritoccato in chiave ecologista-terzomondista: se nel libro del 1912 Tarzan e Jane alla fine si dividono perché lei preferisce la civiltà alla giungla e sposa un altro uomo, nel film "The legend of Tarzan" del 2016 il protagonista e Jane si trasferiscono di nuovo in Africa e tornano a vivere nella foresta. Quindi c'è il caso di James Bond, il macho e seduttore figlio della penna di Ian Fleming che tuttavia, nel film "Skyfall" del 2012, non disdegna gli amori omosessuali: all'antagonista gay che lo accarezza sui pettorali e gli dice «Con me potresti fare una nuova esperienza», 007 risponde: «Chi ti dice che sia nuova?». E ancora, è simbolico il riadattamento della storia di Robin Hood, l'eroe sostenitore del cristianissimo Riccardo Cuor di Leone, che nel film "Robin Hood - Principe dei ladri" del 1991 curiosamente si fa assistere da un musulmano, interpretato da Morgan Freeman, mentre ne "L'origine di una leggenda" del 2018 è affiancato da un Little John nero (il ruolo qui è di Jamie Foxx). Ma si potrebbero citare anche il Riccardo III di Shakespeare ambientato, nel film omonimo del 1995, negli anni '20 del '900 come denuncia contro il nazifascismo; o "La battaglia" di John Steinbeck che, nella pellicola del 2016 In Dubious "Battle - Il coraggio degli ultimi", viene trasformato da racconto crudo di uno sciopero di braccianti nell'epopea del partito marxista-leninista americano. Tutti casi di deformazione in cui, come avrebbe detto Schopenhauer, la Rappresentazione (cinematografica) mal si accorda alla Volontà (di chi scrisse il libro).
Intellettuali in rivolta: viva la diversità d’opinioni, basta col politically correct. Michele Marsonet su Il Dubbio il 13 luglio 2020. Molti intellettuali americani e inglesi si sono apertamente ribellati alla dittatura del politically correct. La rivista Harper’s Magazine ha infatti pubblicato un manifesto firmato da nomi prestigiosi e di tutte le tendenze politiche. Insomma progressisti e conservatori uniti per di contrastare un fenomeno che negli Stati Uniti e in Inghilterra ha assunto dimensioni epocali, e giudicato dai firmatari pericoloso per le sorti della democrazia liberale.Il problema di fondo è il seguente. E’ lecito che qualcuno si veda censurare un articolo solo per il fatto di aver espresso opinioni discordanti da quelle dei talebani del politically correct? E può una rivista licenziare un collaboratore che osa mettere in dubbio il “pensiero unico” che si va diffondendo a macchia d’olio? Si può, infine, consentire a un ateneo la messa al bando di grandi personaggi del passato che hanno contribuito alla sua fondazione?Se parlassimo di Cina, Russia o Iran la risposta sarebbe implicita. In quei contesti sono le autorità governative a decidere cosa è corretto e cosa non lo è. Il dissenso degli intellettuali, ma anche dei comuni cittadini, non è ammesso e, al contrario, viene represso con durezza a volte estrema. Basti ricordare il caso di Hong Kong per rendersene conto. C’è una Verità di regime che i capi del partito al potere impongono senza remore per impedire che nella società civile si sviluppi il libero dibattito.Ora molti rappresentanti del mondo culturale e accademico anglo-americano hanno deciso che la misura era colma, e che occorreva fare qualcosa per impedire che Usa e Regno Unito diventino pericolosamente simili ai tanti regimi tirannici e autoritari che purtroppo prosperano nel mondo. Superando le differenze politiche, anche grandi, che li dividono, questi intellettuali hanno ritenuto opportuno parlare con voce unica per ribadire che la diversità d’opinione è sacrosanta e va difesa in ogni caso, anche quando non si concorda con quanto qualcuno dice e scrive. Per ricordare a quale livello di intolleranza siamo giunti, è importante osservare che tra i firmatari figura persino Noam Chomsky, celebre linguista e filosofo del linguaggio considerato – da sempre – un guru della sinistra radicale americana. Innumerevoli le sue prese di posizione contro l’establishment Usa, senza fare distinzioni tra democratici e repubblicani. Ebbene, anche Chomsky, uno dei simboli della contestazione studentesca degli ultimi decenni, ha firmato ed è sceso in campo per spezzare una lancia in favore della libertà di opinione e di parola. Con lui femministe storiche come Margaret Atwood e Gloria Steinem, intellettuali conservatori quali Francis Fukuyama, romanzieri colpiti dall’anatema degli ayatollah iraniani come Salman Rushdie. Ma anche l’autrice della saga di Harry Potter J.K. Rowling, messa in croce per aver detto che la distinzione tra uomo e donna appartiene alla natura, è non è un’invenzione culturale delle élite al potere.Un altro dei firmatari, il saggista anglo-olandese Ian Buruma, licenziato dalla New York Review of Books per aver pubblicato un saggio non in linea con le opinioni correnti, ha notato a questo proposito che “l’aria si è fatta irrespirabile”. O si trova il modo di porre termine a questa incredibile ondata di intolleranza (e di violenza), oppure le nazioni culla del liberalismo sono destinate in breve tempo a diventare dei Paesi autoritari. Chomsky, tuttavia, ha aggiunto considerazioni interessanti anche perché riguardano un’icona del pensiero marxista come Antonio Gramsci, tuttora popolare non solo in Italia e in Francia, ma anche nell’ambiente accademico anglo-americano. Il famoso linguista, oggi 92enne, sostiene che occorre battersi contro la “fabbrica del consenso”, indipendentemente dal fatto che, a proporla, sia la destra o la sinistra. Aggiunge inoltre che la celebre “egemonia culturale” elaborata da Gramsci, con i suoi corollari quali le figure degli “intellettuali organici”, altro non è che un tipico strumento della suddetta fabbrica del consenso. Chi la teorizza è convinto di stare dalla parte giusta perché ha compreso lo sviluppo inevitabile delle leggi marxiane della Storia, ed è quindi autorizzato ad imporre agli altri la propria visione del mondo. Cosa succede se non si riesce a convincere qualcuno circa la bontà della suddetta visione? In quel caso si deve ricorrere, sempre in nome della Storia, a metodi coercitivi (per il suo stesso bene). In altri termini lo si “rieduca”, magari in appositi campi come accadeva in passato nell’Unione Sovietica e accade ancor oggi nella Repubblica Popolare Cinese. Chomsky, socialista libertario (e spesso confuso), rifiuta nettamente questo metodo affermando che abbiamo a disposizione soltanto due strade: “possiamo fare come Hitler e Stalin o possiamo difendere la libertà di parola”, e tertium non datur. Adesso bisogna ora capire fino a che punto il manifesto sarà efficace, e se le tante autorità accademiche e giornalistiche che hanno ceduto senza combattere ai nuovi talebani avranno dei ripensamenti. La situazione è particolarmente grave in un’America che appare in guerra con se stessa, proprio quando la Cina comunista sta sviluppando la sua battaglia per l’egemonia globale. Anche Chomsky, per quanto in tarda età, ha compreso che la tolleranza nei confronti delle opinioni altrui – e la loro difesa – rappresenta il vero baluardo della democrazia.
La lettera che denuncia il conformismo ideologico dilagante. Piccole Note il 9 luglio 2020 su Il Giornale. Una lettera aperta contro il politically correct, che negli ultimi tempi ha assunto un carattere così aggressivo da risultare una minaccia alla libertà di pensiero e di espressione. A firmarla sono scrittori, giornalisti, esponenti della cultura, americana e non, bianchi e neri. Non un gruppuscolo di suprematisti bianchi, anzi, tanto che la lettera addirittura addita il presidente Trump come una minaccia per le libertà civili. Tra i firmatari il guru della sinistra americana Noam Chomsky, intellettuali del calibro di Francys Fukuyama, lo storico David Greenberg, lo scrittore Mark Lilla, docenti universitari, luminari e giornalisti vari. Promotore dell’iniziativa, Thomas Chatterton Williams, scrittore afroamericano, direttore di Harpers e collaboratore del New York Times. Nella missiva, pubblicata su Harpers e rilanciata da altre testate, si registra come le accese polemiche anti-razziste e la forte polarizzazione politica hanno immesso una nuova variabile nel dibattito culturale-politico, imponendo criteri che “tendono a indebolire le nostre regole sulla libertà di parola e sulla tolleranza delle differenze a favore della conformità ideologica“. Le lotte per la libertà contro le discriminazioni, infatti, spesso prendono la forma del “dogma” o scadono nella “coercizione” altrui. Invece, “l’inclusione democratica cui aspiriamo può essere raggiunta solo se critichiamo il clima intollerante che si è manifestato da tutte le parti”. “Il libero scambio di informazioni e idee, linfa vitale di una società liberale, sta diventando sempre più limitato“, si legge. Si registra, infatti, una forte “‘intolleranza verso le visioni divergenti“, che si realizza con l’additare alla “pubblica vergogna” quanti la pensano diversamente, condannati così “all’ostracismo”. Inoltre, è comune “la tendenza a dissolvere complesse questioni politiche in una cieca certezza morale“. Un clima insano generalizzato, continua la missiva, nel quale è ormai usuale chiedere “rapide e severe punizioni per le trasgressioni percepite del linguaggio e del pensiero”. Richieste che vengono soddisfatte dalle autorità preposte con “punizioni affrettate e sproporzionate”. Ed elenca: “I direttori vengono licenziati per la pubblicazione di pezzi controversi; i libri vengono ritirati per asserite mendacità; ai giornalisti è vietato scrivere su determinati argomenti; i professori vengono indagati per aver citato opere letterarie in classe […] i responsabili di enti e istituzioni sono allontanati per quelli che a volte sono solo dei goffi errori”. Il risultato di tutto questo “è stato quello di restringere costantemente i confini di ciò che si può dire senza correre il rischio di incorrere in ritorsioni“. Ormai “scrittori, artisti e giornalisti” sono consapevoli che “se si discostano” da una visione che gode di un consenso generalizzato “o mancano di sufficiente zelo nel manifestare la propria adesione” alla stessa mettono a rischio non solo la propria reputazione e la carriera, ma addirittura il “posto di lavoro” e i loro stessi “mezzi di sussistenza”. Ribadendo l’importanza della libertà di pensiero, di parola e di espressione, anche a costo di errori, i firmatari della missiva dichiarano che non può esistere giustizia senza libertà e rigettano una lotta per la giustizia che calpesti la libertà altrui. Quadro inquietante, ma reale, del mondo attuale e dei fermenti culturali che l’attraversano. Non è cosa nuova: anche in passato si sono avute lotte sociali e politiche in nome della giustizia a scapito delle libertà altrui (con esiti nefasti). Il punto è che nell’era dei social e dei media globali tutto si è fatto più veloce, dilatato, virale. La rete, nella quale si è ormai impigliati in maniera più o meno irrevocabile, peraltro, si presenta come parte terza – la cui terzietà sarebbe assicurata da misteriosi quanto esoterici algoritmi -, ma in realtà gestisce narrazioni e modula, allargando o restringendo le sue maglie, ciò che è gradito e ciò che non lo è. “Cerca una maglia rotta nella rete che ci stringe….” (Eugenio Montale, “In limine“).
Pierluigi Battista per il ''Corriere della Sera'' il 9 luglio 2020. È una rivolta contro le intimidazioni, contro l'ondata censoria che rischia di sommergere non solo in America università e giornali, contro il ricatto morale di chi consiglia il silenzio e l'omertà sulle nuove e violente forme di intolleranza per non dare armi e pretesti a Trump. Decine di scrittrici e scrittori, intellettuali, artisti dicono in un appello che la doverosa battaglia contro il razzismo e contro la politica del presidente degli Stati Uniti accomodante con i gruppi che del suprematismo bianco fanno una bandiera non può nascondere i pericoli di un nuovo fanatismo oramai sempre più spavaldo e prepotente, di una nuova ideologia manichea e brutalmente estremista che nel nome del Bene distrugge ogni opinione differente, ogni obiezione critica, ogni dissenso. Da Martin Amis a Margaret Atwood, da Salman Rushdie a Anne Applebaum, da John Banville a Noam Chomsky, da Khamel Daoud a Jeffrey Eugenides, e poi Ian Buruma e Olivia Nuzzi, Michael Ignatieff e Paul Berman, Michael Walzer e JK Rowling, solo per citare alcuni dei più famosi, circa 150 intellettuali escono allo scoperto per difendere i principi della libertà d'espressione minacciata non da una censura poliziesca tipica delle dittature, ma da una forma pervasiva e violenta di intolleranza che non si limita a mettere il bavaglio ai contemporanei, ma vuole fare tabula rasa del passato, di tutti gli autori che dall'antichità non si sono piegati ai dettami della nuova inquisizione che vede ogni opinione difforme un delitto, in ogni rappresentazione artistica e culturale anche del passato un attentato malvagio alle vittime dell'oppressione. Il pensiero corre alla statua di Cristoforo Colombo abbattuta, a quelle di Abraham Lincoln, il presidente che ha abolito la vergogna della schiavitù, o di Winston Churchill, l'eroe della battaglia contro Hitler, cioè del vertice del razzismo, deturpate o vandalizzate, oppure al linciaggio cui è stata sottoposta JK Rowling, l'autrice di Harry Potter, indicata al ludibrio come persecutrice dei transgender per aver difeso il principio dell'identità biologica delle donne e soprattutto, questo è il punto, per essere intervenuta in difesa di una donna che aveva perso il posto di lavoro, licenziata in un attimo, per aver sostenuto analoghe opinioni. Una circostanza, appunto, in cui un'opinione diversa, discutibile come tutte le opinioni, viene equiparata a una manifestazione di malvagità, ispirata dalle peggiori intenzioni e dunque meritevole di essere punita. La libertà d'opinione è messa a dura prova se le persone vengono liquidate, come Ian Buruma alla New York Review of Books , per aver pubblicato posizioni dissonanti, come se il conflitto delle idee, la discussione aperta, anche aspra, ma libera e tonificante, la battaglia culturale condotta lealmente, argomento contro argomento, tesi contro tesi, non fosse l'ossigeno delle società democratiche fondate sul pluralismo e non sul manicheismo di una lotta tra un Bene e un Male da censurare. Una deriva pericolosa che in alcune università americane è sfociata nella messa al bando di opere di Shakespeare, come il «Tito Andronico», accusate nientemeno di essere neanche tanto inconsapevolmente un'apologia dello stupro, o di Euripide e di Sofocle, fino all'espulsione tra i piani di studio del «Grande Gatsby», delle opere di Hemingway e naturalmente, come poteva mancare?, di «Lolita» di Nabokov. Ma anche, per esempio, al divieto a Londra di esporre opere di Egon Schiele, già perseguitato un secolo fa a Vienna per «oscenità» e i cui nudi oggi rappresenterebbero secondo la nuova Inquisizione una diminuzione sessista dell'immagine della donna. Ora, con questo appello, per la prima volta gli intellettuali cercano di mettere un argine a questa deriva di intolleranza, con un gesto coraggioso di cui i firmatari sono pienamente coscienti, e infatti già si avvertono i primi segni di timide marce indietro per prevenire eventuali attacchi. È la prima volta, ma importante. Gli intolleranti potrebbero cominciare a non avere vita facile.
Paolo Mastrolilli per ''La Stampa'' il 9 luglio 2020. «Sento una marea montante di militanti a sinistra che hanno la mentalità della purga». Non usa toni sfumati Michael Walzer, professore emerito all'Institute for Advanced Study di Princeton e storico direttore della rivista Dissent, per spiegare come mai ha firmato l'appello di Harper' s. «È importante difendere il principio della libertà di parola, e resistere alle gang coalizzate contro chi dice cose o sostiene persone politicamente scorrette. Vogliono ripulire le istituzioni, i giornali, le accademie, da chi ha opinioni reazionarie o non sensibili. Bisogna prendere posizione contro ciò, e farlo prima che molti siano colpiti. Alcuni dei firmatari, tipo Noam Chomsky, sono persone con cui raramente mi trovo d'accordo, però penso che questo sia un buon gruppo eclettico, che rappresenta bene le diverse componenti del mondo intellettuale americano».
«Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo?».
«Esatto. Uno dei fattori che hanno ispirato la dichiarazione è l'incidente del New York Times, cioè le dimissioni forzate del responsabile degli editoriali James Bennet, per la pubblicazione dell'articolo del senatore di destra Cotton. Quel commento non mi sarebbe piaciuto, se lo avessi letto, ma licenziare Bennet è la risposta sbagliata. Dobbiamo prevenire simili incidenti».
Stanno avvenendo anche nel mondo accademico?
«Certo. Nelle università ci sono stati sforzi da parte di alcuni professori per censurarne altri, o richiedere che ricevessero tutoraggio sulle opinioni politicamente corrette. Anche agli studenti viene chiesto di seguire corsi ideologicamente giusti. Parecchie università di élite sono nel mezzo di discussioni sulle opinioni scorrette riguardo la storia americana».
Cosa pensa del movimento per abbattere le statue?
«Non ho alcuna compassione per i generali confederati. Le loro statue erano state erette per un motivo politico, e quindi possono essere tolte per un motivo politico. Ma le campagne contro Grant o Jefferson, mirate a trasformare radicalmente la storia del Paese, sono isteria a cui dobbiamo resistere. Sono pronto a discutere degli schiavi di Jefferson, ma vorrei anche onorare l'autore della Dichiarazione d'indipendenza, e spiegare che gli esseri umani sono complessi. Alcuni che hanno fatto grandi cose ne hanno fatte anche di terribili. Siamo un misto di bene e male. A metà dell'800, ad esempio, chi sosteneva l'abolizione della schiavitù era ferocemente contro gli immigrati irlandesi cattolici, e viceversa. Dobbiamo riconoscere la complessità, non solo emettere condanne per ostracizzare figure storiche. La nostra dichiarazione è una risposta adulta al problema».
Trump usa il tema delle statue per la sua campagna elettorale.
«Appunto. Questa è la ragione per cui noi liberal e la sinistra dobbiamo parlare, perché la cultura della cancellazione favorisce lo sfruttamento politico da parte della destra».
Discutendo di «correttezza politica», il governatore di New York Mario Cuomo mi disse: «Nella nostra città ogni giorno si parlano oltre 150 lingue, questo significa che tutti i conflitti del mondo sono presenti. Se ognuno si sentisse libero di dire e fare ciò che vuole, avremmo una guerra civile permanente. La correttezza politica sarà pure ridicola, ma alle volte serve anche un po' di ipocrisia per tenere insieme le nostre società».
Aveva torto?
«No. Le discussioni tra ebrei e palestinesi a New York sono più infuocate di quelle che avvengono in Medio Oriente. È giusto avere limiti, a patto di non imporre la censura».
Usa, da Rushdie a JK Rowling, oltre 150 intellettuali contro la nuova intolleranza "politically correct". Pubblicato mercoledì, 08 luglio 2020 da La Repubblica.it. Ci sono femministe come la romanziera Margaret Atwood, afroamericani come il jazzista Wynton Marsalis, guru della sinistra radicale come Noam Chomsky, paladini della libertà di parola come Salman Rushdie e l'autrice di bestseller JK Rowling o il saggista Ian Buruma, tra gli oltre 150 accademici, scrittori, giornalisti e artisti di fama mondiale che hanno sottoscritto una lettera aperta pubblicata su Harper's Magazine, ripresa dal New York Times e da molte importanti pubblicazioni mondiali. Si ribellano contro il clima di caccia alle streghe che domina nel mondo della cultura e dei media dopo l'uccisione di George Floyd, la nuova intolleranza degli estremisti dell'anti-razzismo e dei demolitori di statue, di tutti coloro che guidano "epurazioni" nelle redazioni, censurano le opinioni diverse, impongono un pensiero unico politically correct. I firmatari hanno sostenuto e partecipato alle manifestazioni contro la brutalità della polizia e le disuguaglianze razziali che si sono moltiplicate negli Stati Uniti e in tutto il mondo dopo la morte di George Floyd. Era disarmato e afroamericano. Un ufficiale di polizia si è inginocchiato sul suo collo per quasi nove minuti a Minneapolis il 25 maggio fino a soffocarlo. Tuttavia, la lettera dice anche che le reazioni sono andati a scapito del dibattito aperto e hanno permesso al conformismo ideologico di erodere la tolleranza delle differenze. Nella lettera si legge anche che "le potenti proteste per la giustizia sociale e razziale" non dovrebbero trasformare "la resistenza in un brand dogmatico e coercitivo". Il libero scambio di informazioni e idee sta diventando sempre più limitato, avvertono i firmatari che aggiungono che la censura si sta diffondendo ampiamente in tutta la cultura attraverso la pratica del "public shaming", la "gogna pubblica", una tendenza a dissolvere questioni politiche complesse in una "accecante certezza morale" e un'intolleranza di opinioni opposte. "Le cattive idee si sconfiggono attraverso la loro esposizione, l'argomentazione e la persuasione, non cercando di zittire o allontanarle. Rifiutiamo qualsiasi falsa scelta tra giustizia e libertà. L'una senza l'altra" non possono esistere, aggiunge la lettera...
La guerra degli scrittori. Nuovo manifesto firmato da 1.200 intellettuali per difendere i diritti dei transessuali. È un'altra risposta alle polemiche nate dai commenti «scorretti» di JK Rowling. Con la quale si schierarono pochi mesi fa molte personalità di...Massimiliano Parente, Domenica 11/10/2020 su Il Giornale. Vi ricordate la polemica sui trans, che non andavano chiamati i trans ma le trans, al femminile? Questione superata, siamo andati ben oltre. Abbiamo visto cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare, perfino Vladimir Luxuria in crisi esistenziale perché in Parlamento non poteva andare liberamente nel bagno delle donne. Problemi grossi. Ma non è finita qui. È bello perché la libertà di bagno, di pensiero e di espressione gli intellettuali se la tirano dove vogliono, a seconda dei casi. Sono intellettuali per questo, d'altra parte, cioè usano l'intelletto, invenzione degli umanisti, cosa che secondo loro uno scienziato, per esempio, non fa, ecco perché citano sempre Pier Paolo Pasolini e mai Albert Einstein, Einstein non era un'intellettuale, non usava l'intelletto, bella faccenda. In ogni caso cosa fanno gli intellettuali? Spesso e volentieri si mobilitano per la libertà, ovvio. Tipo tre mesi fa si sono mobilitati contro la dittatura del politicamente corretto e del pensiero unico, quando la scrittrice di J. K. Rowling fu accusata di transfobia perché aveva polemizzato con un articolo che per includere i trans nel genere femminile definiva le donne «persone che hanno le mestruazioni». La Rowling twittò: «Sono sicura che esistesse una parola per queste persone, aiutatemi Danne? Done? Dumne?». Secondo la Rowling l'attivismo trans stava danneggiando il concetto di donna. Si può essere d'accordo, non d'accordo, se ne può discutere, ma chiedere la censura, il silenzio è da Santa Inquisizione. O da fascisti. O da comunisti. Fate voi. Ecco dunque, all'epoca, la mobilitazione intellettuale, giustissima, in difesa della libertà di pensiero della Rowling, un vasto schieramento liberal di centocinquanta intellettuali angloamericani, da Salman Rushdie a Noam Chomsky. Di certo non transfobici, semplicemente contrari a ogni forma di censura e di cancellazione del pensiero. Bene, e ora che succede? Esattamente il contrario. Editori, giornalisti, scrittori, si mobilitano contro l'uso della parola trans, perché «le donne trans sono donne, gli uomini trans sono uomini, i diritti trans sono diritti umani». Tra i firmatari di questa lettera aperta per supportare la comunità trans e non binaria degli Stati Uniti e Canada ci sono Stephen King e Margaret Atwood, anche perché, come riporta il Guardian, «c'è un'aspra divisione riguardo i diritti dei trans nel mondo letterario». Certo che questo mondo letterario ha un gran daffare, una volta a difendere la libertà di parola, un'altra a censurarla. In ogni caso con chi ce l'hanno stavolta? Di nuovo con la Rowling, che continua a difendere l'identità del sesso delle donne e non deve esprimere le sue opinioni perché è transfobica, così è deciso, perché nel suo nuovo romanzo criminale ha inserito un serial killer che si veste da donna per attirare le sue vittime (qui è partita una contropetizione per difenderla dalla petizione contro di lei). Inoltre deve tacere «in quanto è legittimata nel mondo britannico solo perché è l'autrice di Harry Potter». Mi sfugge il senso, tra l'altro, del fatto che l'autrice di Harry Potter non possa avere pensieri, ma tanto il senso non conta molto in questi dibattiti. L'importante, ricordatevi, è firmare lettere, appelli, manifesti, strappandosi i capelli per qualcosa affinché emerga l'intelletto, l'intellettuale sotto il cuoio capelluto.
Gli intellettuali americani contro il “clima da gogna pubblica”. Il Dubbio l'8 luglio 2020. Un folto gruppo di intellettuali, scrittori, artisti e pensatori ha firmato una lettera per sottolineare la necessità, in un clima di “gogna pubblica e ostracismo”, di un “dibattito pubblico e della tolleranza delle differenze”, messi in pericolo dal “conformismo ideologico”. Un folto gruppo di intellettuali, scrittori, artisti e pensatori ha firmato una lettera per sottolineare la necessità, in un clima di “gogna pubblica e ostracismo”, di un “dibattito pubblico e della tolleranza delle differenze”, messi in pericolo dal “conformismo ideologico”. Tra i firmatari della lettera aperta, pubblicata sul magazine Harper’s, ci sono nomi del calibro di Noam Chomsky, Roger Cohen, Francis Fukuyama, il campione di scacchi Garry Kasparov e Margaret Atwood. Oltre a questi, anche J.K. Rowling, duramente criticata di recente per le per sue affermazioni sui transgender, e Salman Rushdie, costretto a nascondersi per anni a causa della fatwa contro i suoi "Versetti satanici". L’appello nasce dal clima nato dopo le proteste per la morte dell’afroamericano George W. Floyd, che ha scatenato un’onda emotiva di cancellazione del passato scomodo (quello schiavista, piuttosto che razzista o omofobo). Il gruppo di intellettuali ha voluto celebrare nella missiva “le richieste più ampie di maggiore uguaglianza e inclusione nella società” scaturite dalle recenti proteste per la giustizia razziale, sottolineando pero’ che insieme a queste si è “intensificata una nuova serie di atteggiamenti morali e impegni politici che tendono a indebolire le nostre norme di dibattito aperto e tolleranza delle differenze a favore del conformismo ideologico”. Una deriva, quest’ultima, che gli intellettuali respingono, esortando a rifiutare la chiusura in dogmi, censura e coercizione. “Le forze dell’illiberismo stanno guadagnando forza nel mondo, e hanno un potente alleato in Donald Trump che rappresenta una vera minaccia alla democrazia”, hanno affermato i firmatari, sottolineando però che “l’inclusione democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se facciamo sentire la nostra voce contro il clima intollerante che ha preso piede in tutte le parti”. “Il libero scambio di informazioni e idee, linfa vitale di una società liberale, sta diventando sempre più limitato”, hanno proseguito nella lettera aperta. “Mentre ci aspettiamo questo dalla destra radicale, la censura che si sta diffondendo ampiamente anche nella nostra cultura”, ha aggiunto, puntando il dito contro le “richieste di punizioni rapide e severe in risposta a trasgressioni percepite come tali del linguaggio e del pensiero”. Tanti gli esempi che riguardano scrittori, editori e giornalisti: “Qualunque siano le argomentazioni su ogni particolare caso, il risultato è stato quello di restringere costantemente i confini di ciò che si può dire senza la minaccia di rappresaglia”. “Questa atmosfera soffocante”, hanno denunciato gli intellettuali, “alla fine danneggerà le cause più vitali del nostro tempo. La restrizione del dibattito, da parte di un governo repressivo o di una società intollerante, fa invariabilmente male a chi non ha potere e rende tutti meno capaci di partecipazione democratica. Il modo per sconfiggere le cattive idee è attraverso l’esposizione, l’argomentazione e la persuasione, non cercando di zittire o desiderando che spariscano”. “Dobbiamo preservare la possibilità di essere in disaccordo in buona fede senza terribili conseguenze professionali”, hanno concluso i firmatari, “rifiutando la falsa scelta tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra”.
Valentina D'Amico per "movieplayer.it" il 7 luglio 2020. Dopo le polemiche suscitate da una sua intervista, Halle Berry avrebbe rinunciato a interpretare un personaggio transgender scusandosi con la comunità trans. In un'intervista su Instagram Halle Berry aveva parlato del suo nuovo progetto, svelando l'idea di interpretare un personaggio transgender: "Il mio nuovo personaggio sarà una donna che è diventata uomo. Si tratta di un personaggio in un progetto che adoro e sto pensando di interpretarlo. Voglio immergermi in profondità in quel mondo". L'intervista ha attirato addosso all'attrice una pioggia di critiche per aver sbagliato più volte i riferimenti al sesso del suo personaggio con dichiarazioni come "il fatto che questa donna è così interessante per me la renderà probabilmente il mio prossimo progetto". Halle Berry ha deciso così di rinunciare al progetto, scusandosi con la comunità transgender con un post su Twitter in cui sostiene che la comunità trans "dovrebbe avere l'opportunità di raccontare le proprie storie": "Nel weekend ho avuto l'opportunità di riflettere sulle mie considerazioni sull'opportunità di interpretare un uomo transgender, e vorrei scusarmi per quanto dichiarato. Come donna cisgender, ho capito che non dovrei prendere in considerazione questo ruolo e che la comunità transgender comunità dovrebbe avere l'opportunità di raccontare le proprie storie. Sono grata per la guida e per la conversazione critica e continuerò ad ascoltare e imparare dal mio errore. Voglio poter usare la mia voce per promuovere la rappresentazione della varietà sullo schermo, davanti e dietro la macchina da presa."
Radical Chic. In memoria di tutti i Floyd del mondo. Eva Kant il 31 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. «Quando finirà tutto questo?» Non mi riferisco al coronavirus, quello prima o poi riusciremo a sconfiggerlo, ne sono certa. Ma il fanatismo, il razzismo, la cattiveria umana, le ingiustizie, riusciremo mai a debellarli da questo mondo? La vicenda di George Floyd, l’afroamericano ucciso qualche giorno fa senza pietà da un poliziotto che lo ha soffocato premendo con forza il suo ginocchio per lunghissimi 9 minuti sul collo mentre il giovane era a terra, mi fa pensare di no, che non ci riusciremo. Basta che un ignorante e arrogante qualunque indossi una divisa qualunque, da poliziotto o da nazista, e la storia si ripete. «Quando finirà tutto questo?» chiede attonita la giovane promessa del tennis mondiale Coco Gauff. Ha appena 16 anni e mi piacerebbe risponderle che almeno lei ce la farà a vedere la fine di questo scempio, la fine di tutti gli “ismi” che si portano dietro sempre qualcosa di profondamente ingiusto e sbagliato. Ma nessuno la può rassicurare, nessuno è in grado di darle una data, di farle una promessa. Sono secoli e secoli che i violenti arroganti e ignoranti praticano con orgoglio i loro fanatismi, convinti di essere superiori agli altri solo perché sono nati con un colore della pelle diverso. Vedo i filmati dell’arresto e mi vergogno di essere “bianca”. Vedo i filmati delle proteste che stanno letteralmente mettendo a ferro e a fuoco gli Stati Uniti, e non so cosa pensare. Hanno ragione i manifestanti? Solo così ci si può far sentire? Condanno la violenza, sempre. Ma mi sembra di essere in un labirinto senza uscita. Non si può stare zitti di fronte a drammi come quello del povero George Floyd. E d’altronde non porta da nessuna parte sfogare la rabbia con episodi di violenza. Ci eravamo illusi, tutti, che bastasse un presidente nero alla Casa Bianca, per far capire che il colore della pelle è un dettaglio totalmente irrilevante. Non è andata cosi, purtroppo. Era il 1963 quando Martin Luther King pronunciò il suo memorabile discorso con quel refrain diventato una bandiera: “I have a dream”. Sono passati 57 anni, sarebbe finalmente ora che il sogno diventasse realtà. Negli Stati Uniti e in tutto il resto del mondo, compresa questa piccola Italia dove sono troppe le persone trattate con diffidenza e spregio solo perché non hanno la pelle bianca, o perché credono in un dio diverso da quello della religione cattolica. Ma purtroppo stiamo ancora qui, con le lacrime agli occhi, a chiedere sapendo di non poter avere risposte: “Quando finirà tutto questo?”
Non tutti si piegano alla dittatura del politicamente corretto. Roberto Vivaldelli il 9 luglio 2020 su Inside Over. Hanno sfidato il pensiero unico politicamente corretto, anche a costo di essere bersagliati dai media progressisti e radical chic. Sono gli antieroi per eccellenza, quelli che hanno detto “no” e hanno deciso di non piegarsi, o meglio di non inginocchiarsi come impone l’ipocrita rituale imposto dai liberal e dal loro antirazzismo posticcio in omaggio a Black lives matter. Il più noto forse è Charles Leclerc, pilota monegasco della Ferrari, che insieme ad altri cinque colleghi di Formala Uno – Max Verstappen, Kimi Raikkonen, Daniil Kvyat, Antonio Giovinazzi e Carlos Sainz Jr – ha deciso di non inginocchiarsi: “Quello che conta sono i fatti. Non m’inginocchierò, ma questo non significa affatto che sia meno impegnato di altri nella lotta alle discriminazioni” aveva annunciato prima del Gp d’Austria. E così ha fatto. Molti hanno stigmatizzato il gesto di Leclerc: non abbastanza “sottomesso” secondo i codici rituali della cultura del piagnisteo che tanto va di moda ultimamente. C’è poi da fare un’altra considerazione importante. Passi per l’odio indistinto verso il solito occidente, ombelico del mondo, ma lezioni di antirazzismo dalla Formula Uno anche no. Come nota Marco Farci su Atlantico Quotidiano, infatti, mentre punta il dito contro l’America e l’Occidente, la Formula Uno ha stabilito un fondamentale accordo di sponsorizzazione con la compagnia petrolifera dell’Arabia Saudita. E si fa ricoprire di soldi da Paesi non certo campioni di diritti umani come il Barhain o la Cina.
Il coraggio di Sam contro i puritani del politically correct. L’altro grande simbolo della lotta al politically correct si chiama Samantha Leshank, calciatrice statunitense di ventitré anni. Come riporta IlGiornale.it, durante l’inno nazionale prima della partita fra North Carolina Courage e Portland Thorns, Sam ha deciso di dare una grande lezione ai buonisti, non inginocchiandosi come hanno fatto tutte le altre. È rimasta in piedi, perché essere “bianchi” non è affatto una colpa. La giovane, infatti, ha indossato la maglietta dei Black Lives Matter, perché si definisce anche lei “antirazzista”, ma ha rifiutato di inginocchiarsi schierandosi contro la dittatura del politicamente corretto. Il suo gesto, come spiega IlGiornale.it, le è costato caro, dato che è stata attaccata sui social pesantemente da colleghe e dai tolleranti progressisti. Per i buonisti definirsi “antirazzista” non è sufficiente: bisogna umiliarsi, inginocchiandosi, ed espiare quel senso di colpa che attanaglia le coscienze (sporche) dei liberal americani. Come abbiamo già spiegato su questa testata, l’odio di sé – che caratterizza questi nuovi movimenti progressisti che vogliono cancellare la storia – rappresenta un lascito del puritanesimo. Come nota Robert Huges nel suo saggio La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, i Puritani si ritenevano, a buon diritto, vittime di una persecuzione, designate a creare uno Stato teocratico le cui virtù trascendessero i mali del Vecchio Mondo e riscattassero così la caduta dell’uomo europeo. La democrazia americana, nota Hughes, “consistette nell’infrangere la condizione di vittima coloniale, creando uno Stato laico in cui diritti naturali dell’individuo si ampliassero senza sosta a vantaggio dell’eguaglianza”.
Le star nella bufera per aver espresso una semplice opinione. Altri personaggi famosi hanno invece dovuto scusarsi per aver semplicemente detto la loro opinione sulle tensioni sociali negli Usa e su Black Lives Matter. Alcune star (perlopiù cantanti, attori), infatti, avevano preso posizioni al di fuori della vulgata progressista, pagandone le conseguenze in termine di critiche sulla stampa e sui social media. Il rapper Lil Wayne, per esempio, è stato letteralmente massacrato solamente per aver messo in dubbio l’esistenza del “razzismo sistemico” e aver dichiarato, durante una diretta instagram che risale al 28 maggio scorso che occorre differenziare ed è sbagliato generalizzare, prendendosela con tutte le forze dell’ordine indistintamente o con una razza in particolare (quella “bianca”). Parole se vogliamo “banali” e di semplice buon senso, che però ai manifestanti antirazzisti non sono piaciute. Essere bianchi è una colpa, punto e stop. Stessa sorte per Evan Peters, attore di American Horror Story, che ha dovuto scusarsi dopo che gli utenti su twitter lo hanno criticato per aver condiviso un video nel quale un ufficiale di polizia ha uno scontro fisico con un manifestante violento. Altre star hanno invece dovuto rimuovere i videoclip che ritraevano i manifestanti distruggere negozi e commettere reati durante le proteste. Questo è ciò che accade a chi sfida la nuova religione laica del politically correct: la “rivoluzione culturale” non può essere messa in discussione.
Antonello Piroso per La Verità il 7 luglio 2020. 1968, Olimpiadi in Messico. Gli statunitensi Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo nei 200 metri piani, sul podio per la premiazione chinano il capo alzando il pugno chiuso guantato di nero. Una manifestazione «iconica» di protesta a favore dei diritti umani, come precisò Smith, e non un tributo al saluto del Black Power, il movimento per il contropotere afroamericano nell'anno in cui negli Usa erano stati assassinati Martin Luther King e Robert Kennedy.2020, Gran Premio d'Austria. Il pluriridato Lewis Hamilton - en passant, il più pagato della Formula 1, 45 milioni di euro a stagione, strameritati per carità, ma pur sempre 225 volte quello che percepisce dalla Williams il suo collega George Russell, 200.000 all'anno, un povero bianco - decide di genuflettersi in memoria di George Floyd. Hamilton è imitato da molti piloti, 13, ma non tutti, 6. Che indossano sì la maglia nera con la scritta end racism, ma rimanendo in piedi: Kimi Raikkonen, l'ultimo campione del mondo della Ferrari, Max Verstappen, Carlos Sainz (oggi in McLaren e nel 2021 a Maranello), Daniil Kvyat e Antonio Giovinazzi.E soprattutto Charles Leclerc, monegasco di nascita ma italiano d'adozione da quando è alla guida della Rossa. Il Principino Mannaro -gentile, educato, un animale a sangue freddo pronto ad attaccarsi alla tua giugulare se serve alla sua carriera - vedi alla voce Sebastian Vettel - spiega: «Penso che la cosa importante siano i fatti e i comportamenti quotidiani più che i gesti formali. Non mi metterò in ginocchio a terra, ma ciò non significa affatto che sono meno impegnato degli altri nella lotta contro il razzismo». Rivendicando così autonomia di comportamento e indipendenza di giudizio, e rifiutando l'inchino davanti al totem del politicamente corretto, che postula un'adesione incondizionata a iniziative, simboli e slogan plateali e «luogocomunistici». Perché non costano nulla e fanno guadagnare facili consensi soprattutto sui social, dove lo sdegno e il dolore vengono livellati e trasformati in posa, tic, rito «buonista» alla lunga stucchevole. Da #JeSuisCharlie all'#IceBucketChallenge, la sfida della secchiata di ghiaccio, per sensibilizzare e aiutare la ricerca sulla terribile Sla, sono molteplici gli imperativi categorici di stampo moralistico-ricattatorio: se non partecipi, come minimo sei colpevole di favoreggiamento. La Cccp, la Coscienza collettiva corretta politicamente (acronimo che in cirillico sta per Urss), non tollera dissidenza, ma neppure semplici distinguo. Per cui non solo si doveva solidarizzare contro i terroristi islamici che avevano fatto una strage nella redazione di Charlie Hebdo, ma si doveva sottoscrivere anche stile e contenuti della rivista satirica. Così anch' io sono finito alla gogna perché «contro la libertà d'espressione» (per aver sostenuto che non condividevo ogni numero del giornale) e per essere «ipocrita», avendo fatto mia la parola d'ordine (ho dovuto spiegare che mi ero associato proprio per rispetto della libertà d'espressione: non si può essere uccisi per una vignetta, una canzone, un libro, un film). Quanto ai gavettoni a scopo benefico, nell'estate del 2014 perfino il presidente del Consiglio Matteo Renzi si prestò alla bisogna, mentre in America scesero in campo marpioni del beau geste come Mark Zuckerberg, Bill Gates, Jeff Bezos, Tim Cook di Apple - e pazienza se poi qualcuno di loro è accusato di sfruttare la manodopera interna o dei Paesi più poveri del mondo per i propri affari - ma anche un reazionario come l'ex presidente George W. Bush, mentre a sorpresa declinò l'invito Barack Obama, che però fece una donazione di 100 dollari. Una miseria, verrebbe da dire, e per fortuna che Obama non vive in Italia: perché da noi Luciana Littizzetto e Fiorello sono finiti sulla graticola della Santa Inquisizione via Web come milionari tirchi, accusati di essersi prestati a una «pagliacciata di vip di me...». Lei perché si sarebbe limitata a donare 100 euro (annunciati con tanto di video). Lui perché di quattrini non avrebbe proprio parlato. Critiche cui lo showman replicò in punta di fioretto, con un linguaggio da Dolce Stil Novo: «Nessuno di voi mi costringerà a mostrare il bonifico o l'assegno, perché mi dovete proprio ciucciare... Non rompetemi i co... devo rendere conto alla mia coscienza, non a quattro teste di ca...». Com' è che si dice? C'è sempre uno più puro o più «buono» di te che ti epura. Proprio per questo non si dovrebbe omaggiarla, la bontà che si fa autopromozione, deperendo in buonismo da sepolcri imbiancati, grazie alle armi di conformismo di massa. Bisognerebbe stare con Nanni Moretti che quasi 30 anni fa nel suo film Caro Diario sosteneva: «Anche in una società più decente di questa, io mi troverò sempre con una minoranza di persone». Salvo poi scoprire che se non ti accodi alla maggioranza che lo osanna, azzardandoti a esprimere un giudizio meno che lusinghiero sulla sua intera produzione cinematografica, vieni bollato (neanche da lui, quanto dai pasdaran del Pensiero Unico e dell'ideologia del cinema d'autore) come un provocatore, un «rosicone», uno sfigato da esiliare da ogni circolo Aniene della gente che piace. Vale per lui, come per Roberto Benigni, per Walter Veltroni romanziere e cineasta, per il regista Paolo Sorrentino, Jovanotti e Fiorello di cui sopra, ma l'elenco dei «buoni» refrattari alle critiche è lungo. E non serve a nulla provare a spiegare che sei il primo a riconoscere sinceramente le loro qualità e le loro performance da numeri uno, ma che non tutto ti può o deve piacere sempre e comunque: ti imbavagliano con la lettera scarlatta, e amen. Il Principino Mannaro Leclerc ci ha ricordato che «c'è chi dice no», citando il mitico Vasco Rossi che non ha esitato a prendere di petto i «socialmentecatti» (li ha bollati così, gli imbecilli che gli ricordavano che lui era il Blasco per merito... loro!), ma anche a rimarcare un «giù le mani da quel testo» quando se ne sono impossessati i politici: tipo Matteo Salvini o Gianluigi Paragone che l'hanno usata il primo per il «no» al referendum costituzionale del 2016, l'altro per annunciare - quando era ancora grillino - che non avrebbe votato la fiducia all'attuale governo Pd-M5s. E a proposito di class action propagandistiche da cui non si può dissentire: che dire della copertina 2018 del mensile Rolling Stone contro Matteo Salvini, «noi non stiamo con Salvini», scelta assolutamente legittima, ma con quell'aggiunta da fuori di testa: «Da adesso chi tace è complice», che mi ha fatto diventare salviniano per un giorno? Con corollario di polemiche perché l'appello non era tale, ma solo una compilation di dichiarazioni anti Salvini tra cui quelle di Enrico Mentana che smentì di aver aderito (anzi, per meglio dire, specificò che interpellato aveva risposto no, ma che ci si era ritrovato lo stesso). Chi si firma è perduto, come chi aderisce acriticamente a ogni conformistico diktat.E viva il ribellismo intellettualmente anarchico. Se volete tirarvela da intellettuali, citate i Consigli a un giovane ribelle di Christopher Hitchens o La politica del ribelle di Michel Onfray, perché in Italia, si sa, per essere presi sul serio bisogna far finta di essere persone serie. Se invece volete essere meno elitari e più pop, va sempre bene Paolo Villaggio con il suo liberatorio: «La corazzata Potiemkin è una cagata pazzesca». Perché in fondo in ognuno di noi c'è un Ugo Fantozzi in attesa di alzare la testa e di urlare il suo personale «io non ci sto».
Bufera dentro Medici Senza Frontierie: “Organizzazione razzista”. Il Dubbio il 10 luglio 2020. E’ la forte critica contenuta in una lettera scritta da 1.000 impiegati ed ex che accusano l’ong medici senza frontiere di ignorare il razzismo perpetrato dalle sue “politiche, metodo di assunzione e programmi disumanizzanti gestiti da un’elite bianca e privilegiata”. Medici senza frontiere è un’organizzazione “strutturalmente razzista che con il suo lavoro umanitario non fa che rafforzare una mentalità colonialista e la supremazia dei bianchi”. E’ la forte critica contenuta in una lettera scritta da 1.000 impiegati ed ex che accusano l’ong di ignorare il razzismo perpetrato dalle sue “politiche, metodo di assunzione e programmi disumanizzanti gestiti da un’elite bianca e privilegiata”. La lettera, riporta il Guardian, chiede che sia aperta un’indagine indipendente sul razzismo all’interno di Msf dalla quale scaturisca una “profonda riforma che smantelli decenni di potere e paternalismo”. Tra i firmatari c’è Javid Abdelmoneim, presidente di Msf Gb e Florian Westphal, direttore di Msf Germania. Tra i motivi di irritazione degli impiegati di Msf ci sarebbe anche un recente comunicato di Msf Italia sulle proteste degli afroamericani nel quale si invitava a “non usare il termine razzismo e ad iniziare a dire che tutte le vite contano”, che è poi il contro slogan del movimento a proposito del movimento Black Lives Matter. L’anno scorso il 90% dei 65.000 impiegati sono stati assunti a livello locale. Tuttavia la maggior parte dei programmi sono gestiti da manager europei da cinque centri operativi che si trovano tutti in Europa occidentale. Il presidente di tutta l’organizzazione, Christos Christou, ha dichiarato di aver “apprezzato” la lettera che servirà ad accelerare cambiamenti già in atto.
Le confessioni radical chic: piatti mai lavati e quadri gratis. Due personaggi a sorpresa irrompono, senza volerlo, sulla scena del politicamente scorrettissimo e ottengono il massimo punteggio al primo tentativo senza neppure doversi sforzare. Alessandro Gnocchi, Giovedì 02/07/2020 su Il Giornale. Due personaggi a sorpresa irrompono, senza volerlo, sulla scena del politicamente scorrettissimo e ottengono il massimo punteggio al primo tentativo senza neppure doversi sforzare. In una mitologica intervista al Sunday Times, rilanciata ieri dal Corriere della sera, Tony Blair, ex primo ministro inglese, anima del nuovo laburismo, afferma di «non lavare un piatto dal 1997». Piuttosto di fare la spesa, non mangia. Inoltre non stira, non guida, non passa l'aspirapolvere. Durante i mesi di lockdown, trascorsi nella deliziosa villa del Buckinghamshire, non ha voluto personale domestico. Tanto c'era sua moglie Cherie, famoso avvocato e attivista per i diritti civili. Cherie conferma e rilancia: «Il problema è iniziato quando abbiamo lasciato Downing Street. Ha preso l'abitudine di pensare che quello che fa lui è più importante. Ho provato a rieducarlo ma per ora non ci sono riuscita». Quando l'intervistatore fa notare che non va bene comportarsi così, ognuno deve fare la sua parte, Blair risponde con malcelato orgoglio: «Una volta ho fatto una frittata per me e mio figlio». Ma almeno tiene in ordine camera sua? «Sì, certo». Anche il bagno? «Beh, no». Con tanti saluti al femminismo della Terza via. Qualche pagina più avanti, sempre sul Corriere della sera, Fausto Bertinotti spalanca le porte di casa, il buen retiro di Massa Martana, in Umbria e mostra la splendida quadreria assieme alla moglie Gabriella. Ci sono tre serigrafie di Andy Warhol, raffiguranti Mao Zedong. Precisa l'ex presidente della Camera, ex sindacalista, ex rifondatore del comunismo: «Hanno un valore di poche decine di migliaia di euro». Ah, ok. Ci sono poi splendidi pezzi di Mafai, Kokocinski, l'anfora di Patella, lo schema di bicicletta di Mario Schifano, le donne di cartapesta di Pierluigi Manetti, molta arte povera (Gilberto Zorio ed Eliseo Mattiacci). Insomma, roba da veri intenditori, ma Bertinotti, come farebbe un vero aristocratico, sceglie l'understatement: «Ma no, sono di una curiosità dilettantesca». Quest'estate però tutti a Saint-Paul-de-Vence, in Provenza, dove, alla fondazione Maeght è possibile ammirare Miró, Giacometti, Chagall e Picasso. Senza contare, a Vence, la vertiginosa Chapelle du Saint-Marie du Rosaire interamente affrescata da Matisse. Tornando alla sua collezione, Bertinotti prima spiega: «È composta interamente da regali dei miei amici o degli artisti stessi». E poi sfodera il vero capolavoro, roba da far venire il mal di fegato a tutti gli aspiranti snob: «Ho comprato un'unica opera in vita mia, cinquantacinque anni fa, per diecimila lire». Cosa c'è di più chic di non dovere aprire neppure il libretto degli assegni e avere in dono tre Andy Warhol, pazienza se sono soltanto serigrafie dal valore di «poche decine di migliaia di euro»? Cosa c'è di più chic, dicevamo? Spendere in tutta la vita diecimila lire per una piccola serigrafia di Lattanzi, «forse sconosciuto ai più». Sublime. In un'epoca dove il lusso è ritenuto un'offesa, un insulto, la testimonianza di intollerabili disuguaglianze sociali, ecco Fausto Bertinotti mostrarsi circondato da opere d'arte nella campagna umbra. Senza ironia: è il gesto più anticonformista che abbia mai fatto.
L’odio dei politicamente corretti. Andrea Indini il 28 giugno 2020 su Il Giornale. Me ne sono tenuto alla larga il più possibile, tanto lo considero un dibattito stucchevole. Siamo usciti da un’emergenza sanitaria senza precedenti per poi trovarci impantanati in un surreale braccio di ferro tra l’ottusità della dittatura del politicamente corretto e il dono dell’intelletto che, di questi tempi, mi sembra manchi davvero a tanti. Il caso Floyd, l’afroamericano ammazzato da un poliziotto nelle strade di Minneapolis, è stata la miccia per far esplodere un odio che covava sotto da tanto tempo. L’odio contro il buon senso. Così dobbiamo assistere ai raid di un manipolo di scalmanati, che la prof di storia boccerebbe seduta stante, e al moralismo perbenista di chi si fa più censore della censura dittatoriale. E, scherzo del destino, a finire impallinato finisce uno dei boss del politicamente corretto, mister Mark Zuckerberg, colpevole di non essere abbastanza censore. Che mondo assurdo! Verrebbe da chiedere: là fuori c’è ancora qualcuno normale? C’è ancora chi pensa che, se facciamo vedere Aladdin o il Libro della Giungla ai nostri figli, non li cresciamo come pericolosi razzisti? C’è ancora chi ritiene carta straccia l’articolo di Variety in cui bolla come “film scorretti” capolavori come Indiana Jones o Forrest Gump? C’è ancora chi strabuzza gli occhi nel vedere i colossi dei prodotti di bellezza fare a gara per far sparire dai propri magazzini le creme sbiancanti? Secondo me siamo rimasti davvero in pochi. O, per lo meno, in pochi siamo disposti a far sentire la nostra voce. Forse perché sappiamo che a dire l’ovvio ci si becca le accuse peggiori. E così ci ritroviamo, ormai ogni giorno, subissati da notizie folli. L’ultima in ordine temporale? I Simpson, cartone nato dall’abile matita di Matt Groening per deridere il politicamente corretto, hanno fatto sapere che “non useranno più attori bianchi per doppiare personaggi non bianchi”. Ma ciucciati il calzino, direbbe Bart e, facendo spallucce, si attaccherebbe alla bomboletta spray per scrivere sul muro della scuola “Il preside fa schifo”. Se lo facesse su Facebook o su Tik Tok, il comitato studentesco lo impallinerebbe tacciandolo di essere un fomentatore d’odio. Lo stesso capo d’accusa mosso nelle ultime ore contro Zuckerberg. Su Facebook c’è odio? Non più di quello che c’è a un semaforo verde con le macchine congestionate e immobili nel traffico delle sei di pomeriggio. Su Facebook c’è libertà di espressione? Per carità! Apriamo gli occhi una volta ogni tanto. Accusano i vertici del social network di non fare abbastanza censura per fermare l’hate speech. Ma vi assicuro che su tutti i social, come anche i motori di ricerca, la censura c’è eccome. Ne sa qualcosa il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che quando ha scritto che, se le proteste fossero degenerate in disordini e saccheggi, avrebbe dovuto mandare l’esercito a fermare i rivoltosi. L’hanno bollinato come un odiatore. Oggi giorno, ormai, tutto puzza di razzismo. E chi è più puro epura i meno puri. Si arriva persino a riscrivere il passato e a prendersela con le statue. A Milano, per esempio, questa furia iconoclasta è arrivata a prendersela con Indro Montanelli, con le femministe in prima linea ad accusarlo di stupro. Follia! E che dire di Winston Churchill bollato come un razzista o Cristoforo Colombo a cui addossano lo sterminio degli nativi americani. Ma come siamo arrivati a questo punto? È il risultato di anni di campagne nefaste in cui, a tutela delle minoranze più starnazzanti, si faceva a pezzi la normalità. È anche il risultato di innumerevoli (e strapagate) commissioni internazionali contro l’odio che non sono diventate altro che tribunali del popolo pronti a ghigliottinare chi la pensa diversamente da loro. Sono gli estensori del politicamente corretto che si dilettano mentre il popolo, quello vero, fa fatica a tirare a fine mese. Negli Stati Uniti sono stati molto bravi a incanalare la protesta e mettere in difficoltà Trump che, altrimenti, avrebbe rivinto le elezioni a mani basse. “Già prima che scoppiasse la pandemia, mi ero reso conto che ci trovavamo in un momento rivoluzionario in cui ciò che sarebbe stato impossibile o addirittura inconcepibile in tempi normali non solo era divenuto possibile, ma forse anche assolutamente necessario”, ha azzardato a dire tempo fa uno squalo come George Soros. “Poi – ha ammesso – è arrivata il Covid-19, che ha sconvolto radicalmente la vita delle persone e imposto una condotta di vita molto diversa. Si tratta di un evento senza precedenti che probabilmente non si è mai verificato in questa combinazione”.
Ora, fermiamoci un istante e chiediamoci: a chi giova questa folle crociata in nome del politicamente corretto? E soprattutto: siamo sicuri che fa il bene della nostra morente società occidentale? O, come ha profetizzato un gigante come Michel Houellebecq, alla fine di questa pandemia “tutto sarà lo stesso. Solo un po’ peggiore”?
Massimo Arcangeli per “il Giornale” il 28 giugno 2020. Nel 2018 sono rimasto io stesso vittima del puritanesimo oltranzista del politicamente corretto. Dovevo tenere una conferenza sulla presenza della Commedia di Dante nella storia dell'arte, e per la pubblicizzazione dell'evento mi era stata chiesta una locandina. Io avevo mandato un dipinto di Ary Scheffer (Paolo e Francesca, 1835) che raffigura nudi i due sfortunati amanti del V canto dell'Inferno, con i loro corpi avvinghiati l'uno all'altro, e quando l'ho visto sostituito con uno scialbo quadro di Domenico di Michelino (Dante e il suo poema, 1465) ho pensato che la mia immagine non fosse piaciuta. Era andata invece così: Facebook aveva censurato il quadro di Scheffer, perché osceno. Nell'autunno del 2017 aveva subito identica sorte la trevigiana Fontana delle Tette, fotografata dal proprietario di una galleria antiquaria nei pressi del monumento e rimossa dal social network per via dei seni scoperti della figura femminile. L'11 dicembre 2018 una storica concessionaria auto, nata nel 1952, si sarebbe viste rifiutate da Facebook le sue inserzioni. Il motivo? Il nome dell'azienda siamo sempre a Treviso è Negro. E il «santino» elettorale del candidato forzista alle comunali di Vicenza del 10 giugno 2018, che non sarebbe rientrato in giunta per un pelo? Anche la sua promozione era stata respinta dal social: si chiama Michele Dalla Negra. La mannaia del politicamente corretto, che continua a far leva soprattutto sul senso di colpa occidentale, scende sempre più cieca e implacabile su qualunque persona, ente, oggetto, parola o frase possa recare il minimo turbamento al nuovo ordine etico mondiale:
Ovidio, per le scene di stupro ai danni di tante povere ninfe;
Dante, per aver sprofondato Maometto all'Inferno;
Colombo, perché genocida e schiavista;
Shakespeare, misogino e antisemita;
i fratelli Lumière, per aver collaborato col governo di Vichy;
Tex, istigatore al consumo di sigarette e di alcolici;
Pippo e Topolino, per l'inammissibile hobby della pesca;
patria o fraternité nel motto nazionale francese , per finirla una buona volta col maschilismo; mamma e papà, per non turbare i figli delle coppie omosessuali.
Fra le ultime vittime i cioccolatini moretti, ritirati dagli scaffali dei supermercati di una nota catena svizzera;
Via col vento, bandito dal catalogo dei film di un'importante piattaforma americana di servizio in streaming; l'annuncio dell'arcivescovo di Canterbury della prossima rimozione dalle chiese anglicane di monumenti dedicati a razzisti o colonialisti; la rinuncia de L'Oréal a descrivere prodotti cosmetici come schiarenti o sbiancanti.
Ormai è un'ondata di piena, e fra i navigatori virtuali è già partita beffarda la gara per provare a indovinare il prossimo. Le carte da gioco Dal Negro, l'amaro Montenegro, il mitico Negroni? Il «popolo di negri» dei Watussi di Vianello? Oppure il nostro inno nazionale? Dai Fratelli alle Sorelle (d'Italia). Un liberatorio sberleffo in un mondo sempre più cupo, malato di un moralismo esiziale.
Giampiero Mughini per Dagospia il 28 giugno 2020. Caro Dago, in uno dei quotidiani che io compro ogni mattina e che leggo molto volentieri c’è una sfila consistente di pezzi che fanno da linea Maginot a difesa del Bene. Per fortuna non ingombra più del 30 per cento del giornale. Stamane mi ha colpito il pezzo di un semianalfabeta che gridava allo scandalo perché aveva scoperto che il presidente della Regione Siciliana, Nello Musmeci, molti anni fa aveva scritto un libro su Filippo Anfuso, un catanese che è stato al vertice del fascismo italiano degli anni Trenta, e tanto più che il seminalfabeta ne ha dedotto (palesemente senza averlo letto) che era un libro nientemeno che apologetico di un ministro fascista che pure è stato processato e assolto dall’accusa di essere stato il mandante di quei delinquenti che in Francia assassinarono a colpi di coltello i fratelli Carlo e Nello Rosselli. Ripeto, processato e assolto. Il che dovrebbe chiudere l’argomento. Confesso di non conoscere le carte di quel processo, ma la sentenza avrà pure una sua importanza. Assolto. Dipendesse da me, avrei scritto volentieri un libro su Filippo Anfuso, uno che in una bilancia ideale pesa di più e meglio che 50 degli attuali dirigenti del Movimento 5 Stelle. Diciamo una quindicina di volte in più che Dibba o altri cinquestellati che sul “Fatto” vengono trattati coi guanti bianchi e non capisco davvero il perché. Ma torniamo al libro di Musmeci, che a suo tempo avevo ricevuto e letto ma di cui non mi ricordo e che non ho ritrovato sugli scaffali. Solo che in quel lasso di tempo (tra Ottanta e Novanta) avevo conosciuto la figlia di Anfuso, Clarissa, e persino la vedova del ministro. Clarissa era ovviamente innamoratissima del padre e ci mancherebbe altro. Una volta, a Catania, Clarissa mi invitò nella casa che era stata la loro negli anni Trenta e che era ancora la loro, una casa che aveva frequentato Vitaliano Brancati. Su una qualche libreria c’erano a bizzeffe i volantini dell’esperienza fiumana, l’impresa in cui Anfuso era stato un seguace di Gabriele D’Annunzio, assieme a Giovanni Comisso e a mille altri italiani di valore. Supplicai invano Clarissa di vendermeli. Così come rimasi in estasi dinnanzi alla collezione di pittura contemporanea italiana di suo zio, il fratello di Filippo Anfuso. Da come ve la sto raccontando, sarebbe interessante scrivere un libro su Anfuso, e i suoi trascorsi, e i suoi amici, e i suoi parenti? Ovvio che sì, e del resto un libro similare io l’ho scritto trent’anni fa su Telesio Interlandi, il giornalista fascista più accanito e più caro a Mussolini, e sono felice che due anni fa la Marsilio abbia voluto ripubblicarlo. Al tempo della sua prima edizione, il 1991, una marmaglia di semianalfabeti, mi riempì di insulti. Poveracci, gente che non sa nulla di nulla né più né meno del collaboratore del “Fatto” da cui ho preso lo spunto.
Da "huffingtonpost.it" il 25 giugno 2020. Rimuovere l’immagine di San Michele che schiaccia il demonio perché ricorda l’uccisione di George Floyd a Minneapolis. È la petizione lanciata dagli attivisti su Change.org che ha raggiunto 2000 firme in poche ore, come riportato dal Guardian. Gli attivisti hanno coinvolto la corona britannica perché l’Ordine di San Michele e di San Giorgio è una delle massime onorificenze diplomatiche che la regina concede ad ambasciatori e diplomatici e alti funzionari del Ministero degli Esteri che hanno prestato servizio all’estero. La petizione, avviata da Tracy Reeve, afferma: “Questa è un’immagine altamente offensiva, ricorda anche il recente omicidio di George Floyd da parte del poliziotto bianco allo stesso modo presentato qui in questa medaglia. Noi sottoscritti chiediamo che questa medaglia venga completamente ridisegnata in un modo più appropriato e che vengano fornite scuse ufficiali”.
Enzo Verrengia per "La Verità" il 9 luglio 2020. Dopo le statue e i monumenti, il politicamente corretto prende di mira i miti letterari. Ed ecco il nuovo Perry Mason della miniserie Hbo, che del principe del foro creato da Erle Stanley Gardner vuol raccontare gli inizi. Allora si è nella Los Angeles degli anni Trenta del secolo scorso, sull'onda lunga della Grande Depressione. Mason è un giovane legale in male arnese, con una segretaria, Della Street, sboccata e fricchettona anzitempo, e un investigatore privato, Paul Drake, nero, in ottemperanza alla quota obbligatoria che ogni nuova serie americana riserva a ispanici, asiatici e, da ultimo europei dell'est. Tutto, naturalmente, per cancellare la predominanza Wasp. Se non fosse che si rischiano gli anacronismi. Nella società statunitense dell'epoca, le minoranze non lo erano solo per retorica, bensì di fatto, in certi contesti. Comunque, Matthew Rhys, nei panni del protagonista, Juliet Rylance, una tutt' altro che pimpante Della Street, e Chris Chalk a interpretare Paul Drake, non potranno mai sostituire nell'immaginario il trio Raymond Burr, Barbara Hale e William Hopper. Né tantomeno qualsiasi colonna sonora sarà mai all'altezza della sigla incalzante di Fred Steiner, che conteneva la tensione del processo all'americana, ben diverso da quello italiano, con accusa e difesa in condizioni di perfetta parità. Al Perry Mason dell'Hbo bisogna contrapporre l'originale, specialmente ai fini del dibattito sullo stato della giustizia in Italia.«Perry Mason, avvocato. Tenete a mente questo nome. Diventerà famoso»: era il profetico richiamo sulla copertina del primo romanzo che lo vide protagonista, nel 1933. Lo firmava Erle Stanley Gardner (1889-1970), figlio di un povero minatore di Malden, Massachusetts. Impiegato nello studio di un vice-procuratore distrettuale, penalista in California a soli 21 anni, esercitò la professione per i successivi due decenni. Gardner prestò a Perry Mason il proprio acume, la passione forense e l'onestà. Con l'aggiunta di una caratteristica genuina degli avvocati d'oltreoceano: accettare i clienti su basi contingenti, ovvero senza la certezza di una parcella, a meno che non si vinca il processo, che laggiù è appunto una sfida garantista fra pubblico ministero e difensore. La simpatia del pubblico per Raymond Burr identificò l'attore, scomparso nel 1993, con il personaggio. Non a caso. Burr si era laureato in giurisprudenza nel prestigioso ateneo di Stanford. Né si fece mai sfiorare dal timore di essere schiacciato da Perry Mason. Burr amava indossare la toga, e morì poche ore dopo avere girato un ultimo episodio. In seguito la serie andò in crisi, malgrado le aspettative di ulteriori royalties da parte degli eredi di Erle Stanley Gardner. Eppure fu lo stesso Dean Hargrove, della casa produttrice Universal, a non illudersi sulla reazione dei telespettatori: «Perry Mason, il vero unico Perry, è insostituibile». Quando la Nbc trasmise l'ultimo episodio, con Burr malato, il clamoroso successo di audience era prevedibile.
Ecclestone attacca: ''Spesso i neri sono più razzisti dei bianchi...'' L'ex boss della F1 elogia Hamilton nella lotta al razzismo però sottolinea: ''In molti casi i neri sono più razzisti di quanto lo siano i bianchi...'' Antonio Prisco, Venerdì 26/06/2020 su Il Giornale. ''Spesso i neri sono più razzisti dei bianchi'' lo ha detto Bernie Ecclestone, durante un intervista alla Cnn, dichiarazioni che hanno subito scatenato roventi polemiche. La questione del razzismo sta tenendo banco in tutto il mondo e anche il mondo della Formula Uno è sempre più in prima linea nella lotta alle discriminazioni con l'iniziativa "We Race As One", finanziata inizialmente con un milione di dollari donati dal presidente Chase Carey. Nel circus il più attivo sul tema resta senza alcun dubbio Lewis Hamilton, unico pilota di colore in F1, da sempre impegnato in campagne di sensibilizzazione e ultimamente nella creazione della "Hamilton Commission" (una task-force che aiuterà ad incrementare le diversità nell'industria del motorsport). A dire la sua sulla questione è stato Bernie Ecclestone, che in un’intervista rilasciata alla Cnn, ha voluto innanzitutto commentare l’impegno sociale di Hamilton: ''Lewis è speciale. In primo luogo è davvero talentuoso come pilota e poi sembra ora estremamente talentuoso anche ad esporsi e fare discorsi. Questa campagna che sta facendo per le persone di colore è meravigliosa. Sta facendo un grande lavoro e alle persone piace e viene ascoltato''. Resta però scettico sulle possibilità che le iniziative di Hamilton possano cambiare subito a livello pratico le cose: ''Non penso che la Hamilton Commission farà qualcosa di buono o cattivo per la F1. Farà solo pensare le persone, e forse è la cosa più importante''.
Le parole che fanno discutere. Ecclestone si è poi lasciato andare ad una frase che ha dato il via a numerose polemiche: ''Le persone possono riflettere un attimo e dire: ‘Ma che diavolo. Qualcuno potrebbe pensare le stesse cose sui bianchi. In molti casi i neri sono più razzisti dei bianchi'', cercando poi di argomentare il pensiero: ''Penso che serva insegnare l’uguaglianza a scuola. Così i ragazzi crescerebbero senza dover pensare a queste cose. Credo sia completamente stupido abbattere le statue. Avrebbero dovuto lasciarle dove stavano. Anzi, avrebbero dovuto portare i bambini delle scuole a vedere e spiegare perché erano state erette e cosa avevano fatto queste persone, evidenziando le cose sbagliate che avevano fatto''. Stoccata finale all’iniziativa ‘We Race As One’ della F1: ''Non credo che nessuno se ne sia mai occupato. Penso che sia un problema importante, ma è lì da così tanto tempo e nessuno ha fatto nulla. Perché non hanno fatto qualcosa due o tre anni fa? Erano troppo impegnati a vincere le gare o a trovare sponsor o cose simili'', ha concluso Ecclestone.
La Formula Uno si dissocia. Tempo qualche ora ed è arrivata la replica della proprietà americana, diffusa tramite un comunicato ufficiale che fa specifico riferimento alle parole del manager britannico: ''In un momento in cui è necessaria l’unità per affrontare il razzismo e la disuguaglianza, siamo completamente in disaccordo con i commenti di Bernie Ecclestone che non hanno posto nella Formula 1 o nella società'' si legge. Liberty Media poi ha tenuto a sottolineare come al momento Mr.E non ricopra più alcun ruolo, nemmeno onorario, all’interno dell’organigramma della F1: ''Ecclestone non ha avuto alcun ruolo in Formula 1 da quando ha lasciato la nostra organizzazione nel 2017 – recita la nota – il suo titolo di Presidente Emerito, essendo onorifico, è scaduto nel gennaio 2020''.
Da "tgcom24.mediaset.it" il 26 giugno 2020. Una frase di Cesare Cremonini ha scatenato la bufera sui social. Il cantautore, ospite di Alessandro Cattelan nella trasmissione tv "E poi c'è Cattelan" ha raccontato un episodio che riguarda la sua donna delle pulizie: "Ho cambiato nome alla cameriera moldava perché la pago". Apriti cielo. L'artista è stato attaccato ferocemente così come il presentatore colpevole di non aver preso le distanze. Alla fine Cremonini ha replicato con un video in cui balla e bacia la colf. "Ho una donna delle pulzie che si chiama Emilia - ha detto Cesare - Non è vero, non si chiama Emilia, nome che vorrei dare a mia figlia. Lei è moldava e io ho preteso in onore della mia terra di chiamarla Emilia. Non so qual è il nome ma ognuno dovrebbe chiamare le persone come meglio crede, soprattutto le persone che entrano in casa tua. Sono pagate e quindi possono far cambiare il loro nome". La frase non è passata inosservata e su Twitter la marea di commenti contro il cantante ha reso la clip dell'intervista virale, tanto da spedire l'hashtag #Cremonini primo fra i trend.
I COMMENTI - Ecco alcuni dei commenti di protesta apparsi sul social: "Quindi secondo Cremonini se viene pagata una donna delle pulizie le si può cambiare nome perché riceve dei soldi. Quindi al prossimo concerto lo chiameremo Ugo perché viene pagato. Questa quarantena ha rincoglionito molti cantanti. Troppi", "Cremonini ha seriamente detto che se paga una persona la può chiamare come vuole? Che schifo", "la gente non ha ancora capito che si compra la prestazione lavorativa non l'essere umano che la svolge", "quindi Cesare Cremonini pensa sia un suo diritto annullare completamente l’identità di una persona soltanto perché la paga e quella persona fa le pulizie a casa sua? Ma quanto è bello questo classismo sui colli bolognesi".
LA RISPOSTA - La risposta dell'artista non si è fatta attendere. Cremonini ha postato un video sui social in cui balla e bacia la colf. "Non vi preoccupate, noi ci amiamo – dice Emilia – io volevo chiamarti per ringraziarti dopo averti visto in tv. Ricordo ancora il 15 giugno quando sono venuta qui e non potevo parlare tu mi ha detto di non preoccuparmi che mi avresti dato una mano". "Come ti chiami?", le chiede Cesare. "Emilia la rumena" replica lei sorridendo.
"Stai zitta. Sono domande cretine": scontro acceso tra Morelli e la Murgia. Non si placa la polemica tra Michela Murgia e Raffaele Morelli per le affermazioni dello psichiatra sulla femminilità. Francesca Galici, Giovedì 25/06/2020 su Il Giornale. Da diversi giorni tiene banco la polemica sulle parole di Raffaele Morelli a Radio RTL 102.5, quando lo psichiatra è intervenuto per spiegare l'aforisma del giorno condiviso il giorno prima sui social dall'emittente, che ha scatenato vibranti accuse di sessismo. "Un vestito non ha senso a me che ispiri gli uomini a volerlo togliere di dosso", si legge sui profili di RTL. È un aforisma di Francois Segan ma queste parole sono state oggetto di una forte critica, tanto che il giorno dopo è intervenuto in radio Raffaele Morelli, sul quale si sono riversate ancor di più le ire del web. La polemica ha assunto un livello molto elevato, ed è intervenuta anche Michela Murgia, protagonista di uno scontro in diretta con lo psichiatra. "Se una donna esce di casa, e gli uomini non le mettono gli occhi addosso, deve preoccuparsi. Puoi fare l'avvocato o il magistrato e ottenere tutto il successo che vuoi, ma il femminile in una donna è la base su cui avviene il processo", ha affermato Raffaele Morelli in diretta radio su RTL 102.5 nel commentare l'aforisma. "Se le donne non si sentono a proprio agio con il proprio vestito, tornano a casa a cambiarselo. La donna è la regina della forma. La donna suscita il desiderio, guai se non fosse così", ha concluso lo psichiatra. Queste sue parole sono state oggetto di una polemica molto forte sui social, dove l'uomo è stato accusato da più parti di essere sessista, maschilista e misogino. Raffaele Morelli è uno degli psichiatri più noti del nostro Paese, i suoi interventi televisivi numerosi e le sue parole hanno un ampio seguito. In questa polemica si è inserita anche Michela Murgia, che in diretta su Radio Capital ha voluto fortemente l'intervento di Raffaele Morelli per discutere delle sue affermazioni. Più che una discussione, però, quello tra la scrittrice e lo psichiatra è stato un vero e proprio scontro. "Il femminile è la radice in una donna, un dato ontologico. Le bambine giocano con le bambole, i bambini no", ha spiegato Morelli alla Murgia, che si è immediatamente opposta a queste parole, ribadendo che probabilmente i bambini non ci giocano perché non gli vengono date. Questo ha innescato la forte reazione di Raffaele Morelli, che prima ha accusato la scrittrice di fare domande "cretine", poi ha sbottato: "Zitta, zitta: zitta e ascolta". In preda alla rabbia, Michela Murgia ha fatto notare allo psichiatra che non era sua intenzione lasciargli fare un comizio ma che l'intenzione era quella di fare domande. Percepita la profonda visione femminile tra lui e la scrittrice e non volendo essere parte di una ulteriore polemica, Raffaele Morelli ha messo giù il telefono. Le posizioni sinistre ed estremamente femministe di Michela Murgia sono ben note e se le ricorda anche Amadeus, da lei accusato di aver condotto il Sanremo più sessista di sempre.
Morelli esalta la femminilità. Murgia sbaglia. Karen Rubin, Domenica 28/06/2020 su Il Giornale. Michela Murgia ha esposto alla berlina Raffaele Morelli per aver detto che la donna, regina della forma, suscita desiderio, e guai, ha aggiunto, se non fosse così. È diventato politicamente scorretto associare alla donna la femminilità, come se non fossero due lati di una stessa medaglia che attrae il genere opposto. Ancora più scandaloso per le femministe il fatto che lo psichiatra abbia osato sostenere che non c'è lavoro che soddisfi una donna se non è appagata anche la sua femminilità. E come se non bastasse a indispettire le fautrici del gender fluid il medico ha ricordato che alle donne piace un abito che dona. È misogino e sessista, dice la Murgia, mentre in trasmissione veste una maglietta che lascia ben poco all'immaginazione. Guardando le foto che la ritraggono appare spesso con una profondissima scollatura da cui emergono seni molto prosperosi. Non è facile né comodo indossare abiti siffatti ma sono conturbanti, capaci di riaccendere i sensi di chi guarda, perché è inevitabile che accada davanti a un seno esposto. Lo sanno i pittori e gli scultori, lo sa anche la Murgia, che il seno nudo trasforma la donna in un soggetto erotico e non c'è nulla di peccaminoso o di sbagliato. Morelli ha detto che le donne sono sensuali, che suscitano desiderio, che desiderano d'essere desiderate, esattamente come la Murgia quando si esibisce in pubblico con il vedo, moltissimo, e il non vedo. Nulla di criticabile nell'atteggiamento della conduttrice ma neanche in quello dello psichiatra. È stato provocato affinché ribadisse concetti che oggi sono messi in discussione da chi vorrebbe eliminare le differenze tra uomini e donne vivendole come discriminatorie di un presunto individuo senza genere. Per avere pari opportunità la donna dovrebbe rinunciare ai simboli della femminilità, essere un uomo in tutto e per tutto. Non si auspicano le pari opportunità per la donna in quanto donna ma per una donna che si privi della sua identità. È mal tollerato il simbolo della madre o della compagna di un uomo con cui ci sia una relazione fondata sul rispetto delle rispettive prerogative. Non si dica che le bambine amano giocare con le bambole e i bambini con le macchinine perché si rischia la condanna per sessismo e misoginia, il pubblico ludibrio come è capitato a Morelli. Le donne dovrebbero essere fiere della loro capacità di organizzare il mondo in modo più flessibile degli uomini. Sono capaci di essere contemporaneamente donne e madri incarnando Afrodite, la dea sensuale della generatività e creatività che ammansisce la rabbia, e lavoratrici assertive quando sono Atena la dea della saggezza, delle arti e della determinazione strategica. Morelli che ha perso la calma e attaccato il telefono alla Murgia aveva le sue sacrosante ragioni.
Giuseppe Cruciani per “Libero quotidiano” il 26 giugno 2020. E dunque tocca difendere a spada tratta Raffaele Morelli, accusato dal tribunale del politicamente corretto femminista de sinistra di essere misogino, sessista, maschilista, odiatore delle donne e avanti così fino al rogo in piazza. Ricapitoliamo per i lettori che non fossero a conoscenza della questione. Lo psichiatra noto volto tv ha fatto alcune affermazioni che hanno suscitato sdegno e riprovazione in un certo mondo, quasi avesse squartato una femmina in mille pezzi. La prima (dai microfoni di Rtl) è questa: «Se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso deve preoccuparsi perché vuol dire che il suo femminile non è presente in primo piano. Tu puoi fare l'avvocato, il magistrato, il conduttore, puoi ottenere tutti i successi che vuoi e guadagnare tutti i soldi che vuoi, ma il femminile in una donna è la base.
Prima di tutto sei il femminile, il luogo che suscita desiderio e le donne lo sanno bene perché quando escono di casa e indossano un vestito con cui non si sentono a loro agio tornano indietro a cambiarsi, noi uomini non lo facciamo perché non diamo importanza alla forma, mentre la donna è la regina della forma. La donna quando indossa un vestito suscita, chiama un desiderio. Guai se non fosse così».
La seconda, nel corso di un litigio radio con la scrittrice Murgia, suona più o meno in questo modo: maschi e femmine sono cose diverse, le bambine giocano con le bambole, i bambini no. E dunque «il femminile in una donna è la radice, può realizzarsi come vuole nella vita ma deve portare sempre con sé la femminilità». Apriti cielo.
Su Morelli si è riversata l'ira funesta del boldrinismo italico, pronto a negare persino l'evidenza. Perché Morelli, a modo suo, ha più o meno detto che per una donna essere desiderata da un uomo, essere guardata, rimirata, è cosa fondamentale, e se non accade la stessa se ne preoccupa, cerca di rimediare, va dall'estetista, si trucca, cerca un vestito più degno, ne parla ripetutamente con le amiche, magari si reca pure dal chirurgo o da un analista. Insomma, fa legittimamente di tutto per piacersi e piacere di più. Dov' è lo scandalo? Dov' è la novità? Il punto è che spesso la verità sbalordisce perbenisti e ipocriti, quelli che non guardano in faccia la realtà delle cose: per molte donne (e anche per un certo numero di maschietti, per carità) non essere corteggiate, inseguite, non risultare sexy, è un vero e proprio dramma. Nella mia modesta esperienza conosco manager di grandi aziende che se durante la giornata non ripeti continuamente "che figa che sei" ti rompono i coglioni di brutto, giornaliste di grido impazzire per un culo magari eccessivamente rotondo, professioniste dal conto in banca milionario andare in depressione per mancanza di attenzioni sessuali maschili, o anche giovani ragazze che indossano monili, cavigliere, scarpe, con l'unico, esplicito obiettivo di sedurre. È tutto normale, ovvio, scontato, umano. Senza voler far torto a Morelli, a me sembra che lo psichiatra in questione abbia persino affermato delle banalità che solo l'orgia di moralismo in cui siamo invischiati può etichettare come un attentato alla dignità della donna. È del tutto evidente, infatti, che un essere umano non si riassume in un tacco, in una minigonna o in uno slip. E d'altra parte lo stesso Morelli non l'ha detto e molto probabilmente non lo pensa. Parimenti è innegabile che la femmina, almeno quelle che non hanno puntato alla castità o alla repressione degli istinti sessuali, faccia di tutto quotidianamente per attirare lo sguardo altrui. Qualche anno fa ne parlò mirabilmente Vittorio Sgarbi, più o meno con le stesse parole dello psichiatra sotto accusa. «Le donne mostrano caviglie, tette, parti del corpo nude, orecchie con orecchini, labbra dipinte, occhi con il trucco - osservò - non perché sono puttane, ma perché vogliono essere viste. L'uomo può essere seducente, bello, affascinante, ma non mostra le caviglie. La componente del vedere è importante come quella del sentire. Perché una si mette il rossetto? Perché tu la debba guardare. Fino a quando porta un tacco e mostra una caviglia non mi devono rompere il cazzo, io guardo quel tacco e quella caviglia. E lei lo sa». Purtroppo oggi viviamo un'epoca strana. Se parli con una e le fai notare che ha dei bei piedi o le sussurri che ha delle chiappe da favola, rischi la denuncia e se lo fai sul posto di lavoro magari ti licenziano pure. Se all'inizio della serata ti metti a parlare di capezzoli e tralasci Palamara come minimo passi per un vecchio porcone che vede la donna solo come un pezzo di carne. Lunga vita a Morelli dunque, sempre che la nuova Inquisizione non lo costringa alla ritirata e alle solite scuse. Confidiamo che ciò non avvenga.
Simonetta Sciandivasci per “la Verità” il 26 giugno 2020. Raffaele Morelli fa lo psichiatra in tv. Serve altro? Va bene, allora abbondiamo: su Wikipedia c'è scritto che è «psichiatra, psicoterapeuta, filosofo e saggista italiano». Una carriera che è una strada spianata verso un qualche ministero. Mercoledì, collegato a una trasmissione radio di Rtl, ha detto che quando le donne escono di casa e nessuno le nota, devono preoccuparsi; che le donne sono regine delle forme e che se non suscitano il desiderio sono guai. Siccome la fortuna aiuta gli audaci e non gli psichiatri, il caso ha voluto che proprio mercoledì fossero venuti fuori i dati sulle donne che, dopo la maternità, in questo Paese e solo nel 2019 hanno dovuto abbandonare il lavoro: 37.000. Il clima, quindi, era già incandescente senza che arrivasse uno a dirci che quando usciamo di casa anziché badare a non finire investite mentre facciamo una riunione su Zoom o a perdere l'uso degli arti superiori per trasportare la spesa, dobbiamo monitorare quanti maschi nei nostri pressi ci guardano il culo e sapere che se nessuno di loro lo fa, siamo nei pasticci. Il fatto che Raffaele Morelli faccia lo psichiatra in tv ha scatenato le ire di tutte, e naturalmente anche di Michela Murgia, che non si è lasciata sfuggire l'occasione di parlarci, sventare il suo sessismo, incalzarlo come si fa con un ministro che si rifiuti di spiegarci dove sono finiti i quattro quarti delle nostre tasse, prendendosi a un certo punto uno «Stai zitta!», che ha fatto schizzare le quotazioni di Morelli sotto il livello del mare, verso il centro delle terra, laddove non c'è speranza di non finire inceneriti all'istante. C'è bisogno di scomodarsi per Morelli? Come mai a queste grottesche, ridicole uscite che neanche in una grotta materana nel 1960 avrebbero raccolto consenso - laggiù le signore dovevano far trottare muli, galline, figli, panettieri, e tutti nello stesso fazzoletto di casa -, come mai, ecco, non s' applicano mai quegli interessanti criteri di ostracismo che le bolle degli intelligenti si spronano a usare quando a dire scemenze è Salvini? Michela Murgia ama la polemica facile, affonda il dito nella piaga, non resiste all'idea di poter mettere la sua firma su un già sicuro marchio d'infamia. Fa la stessa cosa che faceva quando su Rai 3 stroncava i libri di Fabio Volo, uno di quelli che tutti gli italiani leggono e nessuno ammette di farlo, come con i voti a Berlusconi fino a dieci anni fa.
Cinzia Romani per "Il Giornale" il 24 giugno 2020. La «generazione cagasotto», per dirla con Clint Eastwood che, nei suoi modi spicci, designa come «Pussy Generation» i pedestri seguaci del politicamente corretto, infila un'altra perla nel collare censorio ora di moda. E tocca a Variety, una Bibbia per chiunque si occupi di spettacolo, stringere ancora un po' il cappio intorno allo smagrito collo del cinema. Sospettavamo che la rimozione di Via col vento dal catalogo Hbo in quanto film razzista, fosse soltanto la punta dell'iceberg di un vasto movimento epurativo, innescato dalla rivolta Black Lives Matter e adesso ne abbiamo la conferma: sul sito di Variety, infatti, spunta la lista di dieci film da vedere «preceduti da una spiegazione e forniti di un'avvertenza, riguardante razza, sessualità, disabilità e altro ancora». Titoli da prendere con le molle, insomma, se non da bandire tout court, perché non in linea con i tempi. A scrivere così è Tim Gray, vice-presidente senior del fin qui autorevole gazzettino di Hollywood, al quale una marea di abbonati ha detto bye bye, dopo aver letto, per esempio, che Forrest Gump (1994), «pur essendo condiscendente con i disabili, i veterani del Vietnam e i malati di Aids», tirerebbe la volata al Ku Klux Klan «il protagonista prende il nome dal nonno Nathan Bedford Forrest, primo sostenitore del KKK», spiega Gray e, come non bastasse, sarebbe «ostile agli attivisti della controcultura». Stupido è chi lo stupido fa, dice il protagonista (Tom Hanks) nel film premio Oscar, amato universalmente, e ci sarebbe da ridere. Ma è il tempo sinistro della revisione e allora anche Quentin Tarantino, il padre del «pulp» caro ai cinéfili, finisce nel listone dei cattivi maestri: il suo C'era una volta a Hollywood (2019) vede Leo DiCaprio e Brad Pitt come «due ragazzi bianchi di mezza età, impegnati a resuscitare la vecchia Hollywood»: male, perché nel 1969, quand'è ambientato il film, esistevano hippies e femministe, qui maltrattati al pari dei messicani, ritratti come camerieri o «car valets». Per tacere di Bruce Lee, una delle rare star asiatiche di Hollywood, mal presentato, proprio come «il suprematista bianco» Charles Manson. Né viene risparmiato il capolavoro western di John Ford, Sentieri selvaggi (1956), col veterano della Guerra Civile John Wayne quale «razzista non apologetico», perché cerca la nipote rapita dai Comanchi, mentre «i nativi americani vengono presentati come selvaggi». E Il silenzio degli innocenti (1991), con la negazione dei trans, perché Buffalo Bill (Ted Levine), si trucca da donna, ma da nessuna parte si afferma la sua diversità? Bocciato. Come Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo (1971), in quanto il protagonista (Eastwood) è determinato a far osservare la legge, ma a modo suo, avallando la brutalità della polizia. E se adorate Colazione da Tiffany, sappiate che è indegno lo stereotipo del giapponese, interpretato da Mickey Rooney. Mentre West Side Story, celebre musical del quale Spielberg ha girato l'atteso remake, metterebbe in cattiva luce i portoricani, «ritratti come membri d'una banda». Quanta «insensitivity», da parte vostra, se non notate tutte queste sfumature e, magari, tenete in soffitta il bambolotto nero, con gonnellino di rafia, che vi regalarono da piccini. Vietato vietare, imponeva lo slogan del '68, ma Variety se ne impipa e bandisce Holiday Inn (1942), perché Bing Crosby vi canta con la faccia dipinta di nero, celebrando il compleanno di Abe Lincoln. La trista rassegna non risparmia Indiana Jones e il tempio maledetto (1984): «Spielberg e Lucas sono, in genere, registi compassionevoli, ma qui l'India e i sacerdoti hindu sono stereotipati», chiosa Tim. In nome della giustizia sociale, ogni giorno si distrugge un pezzo di cultura: non è che l'inizio, ma intanto sui social divampa la polemica e, forse, di idiozia in idiozia, i campi di rieducazione potrebbero chiudere i battenti.
DAGONEWS il 19 giugno 2020. Sky avvertirà con un banner i suoi utenti quali film propongono “valori obsoleti”. Dopo la mannaia che si è abbattuta su “Via Col Vento” anche Sky segue il filone di Hbo non censurando i contenuti, ma limitandosi ad avvertire gli spettatori che i contenuti potrebbero urtare la loro sensibilità. A finire nel mirino ci sono i cartoni animati "Aladdin" e "il Libro della Giungla". Anche “Colazione da Tiffany” è tra i film “incriminati” a causa del personaggio asiatico interpretato da Mickey Rooney. "Dumbo" è stato accusato di contenere stereotipi razzisti sugli afroamericani a quel tempo rappresentati sotto forma di corvi neri. L'uccello principale si chiam Jim Crow, un cenno al segregazionista razzista Jim Crow. Cartellino arancione anche per "Flash Gordon" del 1980, con l'antagonista del film, Ming the Merciless, interpretato da Max von Sydow, visto come un classico esempio di "Pericolo giallo". Avvisi anche “Via col vento”, "The Lone Ranger", "Balls of Fury", "The Last Samurai", "Tropic Thunder", "Lawrence d'Arabia", "Trading Places", "The Jazz Singer", "The Littlest Rebel" e i "Goonies". Un portavoce di Sky ha detto: «Sky si impegna a sostenere l’inclusione sia dentro che fuori dallo schermo. Esaminiamo costantemente tutti i contenuti sui canali di proprietà di Sky e agiremo laddove necessario includendo ulteriori informazioni per i nostri clienti per consentire loro di prendere una scelta consapevole al momento di decidere quali film e programmi TV guardare».
SE SEI BIANCA, TI TIRANO LE PIETRE. (ANSA il 19 giugno 2020. ) - La senatrice democratica Amy Klobuchar ha ritirato a sorpresa la sua candidatura alla possibile carica di vicepresidente in un ticket con Joe Biden, affermando che secondo lei la scelta migliore è quella di una donna afroamericana. "E' un momento storico e questo è il momento di una donna di colore", ha affermato. Salgono quindi le quotazioni della senatrice Kamala Harris, della ex candidata a governatrice della Georgia Stacey Abrams, della sindaca di Washington Muriel Bowser e di quella di Atlanta Keisha Lance Bottoms.
Se il politicamente corretto discrimina gli asiatici nelle università. Roberto Vivaldelli il 19 giugno 2020 su Inside Over. Francis Fukuyama, nel suo saggio Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi (Utet), ha descritto perfettamente la deriva della politica dell’identità che sta investendo l’occidente dopo la morte di George Floyd, frutto dell’ideologia liberal: “Il problema con la sinistra odierna sta nelle particolari forme di identità che questa ha deciso sempre di più di esaltare. Anziché costruire solidarietà attorno a vaste collettività come la classe operaia o gli economicamente sfruttati, si è concentrata su gruppi sempre più ristretti che si trovano emarginati secondo specifiche modalità”. Questo si traduce di una vera e propria crociata politicamente corretta e in un approccio puramente ideologico su questioni che riguardano le minoranze, il genere, la razza, il sesso, diritti delle donne, i migranti, le associazioni Lgbt e così via. Che porta, in realtà, a dei veri e propri cortocircuiti, come accade nelle università californiane dove, a seguito delle manifestazioni scoppiate dopo la morte di George Floyd, come riporta Federico Rampini su La Repubblica, viene riproposta la “affirmative action” per riservare corsie di accesso preferenziali agli studenti di colore nell’istruzione superiore. A protestare però non sono i bianchi ma gli asiatici-americani che temono di esserne le vere vittime. Duro il giudizio di Crystal Lu, presidente dell’associazione dei cinesi nella Silicon Valley: “L’università pubblica va a retromarcia nella storia, verso il ritorno al favoritismo razziale”. Dopotutto, gli asiatici-americani sono il primo gruppo etnico col 36% delle matricole, al primo anno dei corsi universitari californiani. Follie come quella appena introdotta, nel nome del politicamente corretto, non fanno altro che aizzare lo scontro razziale. “Il colore della nostra pelle – afferma Lu – ci condannerà, come la lettera scarlatta”.
Corsie preferenziali per gli afroamericani. Come riporta il comunicato stampa, il Board of Regents dell’Università della California ha approvato all’unanimità la proposta di ridiscutere la Proposition 209, che vietava alle istituzioni governative statali di considerare la razza, il sesso o l’etnia come criteri di ammissione nel settore pubblico. I voti del consiglio di amministrazione dell’università dimostrano “la necessità proattiva di contribuire a far fronte alle disuguaglianze sistemiche e perpetue nell’istruzione pubblica” spiega la stessa università in una nota. “C’è uno sforzo straordinario al fine di correggere gli errori causati da secoli di razzismo sistemico nel nostro paese” ha dichiarato John A. Pérez. “Ha poco senso escludere qualsiasi considerazione sulla razza nelle ammissioni quando lo scopo del processo olistico dell’Università è quello di comprendere e valutare pienamente ogni candidato attraverso molteplici fattori”, ha dichiarato il presidente della Uc Janet Napolitano in una nota. “La Proposition 209 ha costretto le istituzioni pubbliche californiane a cercare di affrontare la disuguaglianza senza tener conto della razza, anche laddove consentito dalla legge federale. Le diversità delle nostre università e istituti di istruzione superiore in tutta la California dovrebbero – e deve – rappresentare la ricchezza del nostro stato”.
Follia politicamente corretta in California. L’ideologia ultra-progressista che anima queste iniziative probabilmente non concorderebbe con l’Articolo 3 della Costituzione italiana, secondo il quale “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali”. La Proposition 209, approvata dallo Stato della California nel 1996, si muove sullo stesso principio di uguaglianza e “proibisce di concedere un trattamento preferenziale a (o discriminare) qualsiasi individuo o gruppo sulla base di razza, sesso, colore, etnia o origine nazionale nell’operazione di pubblico impiego, istruzione pubblica o appalti pubblici”. Un principio universale che ora è il politicamente corretto a mettere in discussione.
DAGONEWS il 25 febbraio 2020. Nessuna idea diversa da quella dominante, nessuna critica al finanziatore e massima attenzione a non affrontare argomenti scomodi. È quanto emerge da un sondaggio di ArtsProfessionals sulla libertà nell’arte e nella cultura: otto persone su 10 che lavorano nel settore dicono che condividere opinioni considerare controverse potrebbe portare a "essere ostracizzati professionalmente" o a essere vittima di bullismo. Dal sondaggio emerge che c’è una tendenza all’autocensura per paura di finire nel mirino dei colleghi. In particolare a finire nel mirino sarebbe chi esprime un sostegno a ideologie di destra, chi appoggia partiti conservatori e anche chi ha appoggiato la Brexit. Religione e sessualità sono campi minati e c’è anche chi ha raccontato di aver firmato accordi di non divulgazione, in alcuni casi per non rivelare pratiche corrotte di finanziamento a livello UE, altri per mettere a tacere le voci di molestie sessuali su qualche collega. Quasi il 70 percento delle persone ha dichiarato di non criticare un finanziatore per paura di bloccare gli investimenti futuri e il 40 percento ha dichiarato di essere stato sotto pressione dai finanziatori per aver parlato apertamente.
Da repubblica.it il 28 febbraio 2020. Bufera a Novara per un post su Instagram del calciatore Andrea Sbraga, difensore ventottenne del Novara Calcio, che milita in serie C. Il giocatore ha pubblicato una "storia" (successivamente rimossa) in cui definisce Benito Mussolini "Grande statista lungimirante". Sbraga, alludendo alle vicende recenti dell'infezione da coronavirus, cita una frase di un discorso di Mussolini del 1927 in cui il Duce diceva "Nei prossimi decenni i cinesi invaderanno il mondo con prodotti a basso costo e le epidemie che coltivano al loro interno". La vicenda e' emersa i in consiglio comunale. La consigliera comunale del Partito Democratico Sara Paladini ha chiesto all'amministrazione di prendere posizione "perche' questo calciatore indossa la maglia di una squadra che porta il nome della nostra città. Spiega il presidente del Novara Marcello Cianci "Oggi alle 13 avremo un incontro con tutti i ragazzi. Per spiegare da un lato che se si ha un ruolo pubblico bisogna fare attenzione all'uso dei social e che non è il caso di fare ironia su una situazione delicata come questa. Coglieremo anche l'occasione per spiegare cosa è stato il Ventennio e invitare a leggere bene i libri di storia. Si tratta però di un gesto fatto con ingenuità dal ragazzo. Ricorderemo che bisogna rispettare tutti e che il citato statista (Mussolini) non è un esempio di rispetto". Una difesa arriva da Marina Chiarelli assessore allo Sport a Novara (Fratelli d'Italia) : "Voglio stigmatizzare quanto sta accadendo, il ragazzo non ha scritto quelle parole ma le ha riportate, copiando e incollando. Però ora sta subendo attacchi anche sui social network sgradevoli e che travalicano la questione. Non ha assolutamente inneggiato al fascismo ma ha fatto un post ironico". A Novara ieri sono emersi, al primo test, tre possibili contagi da coronavirus.
SERENA TIBALDI per d.repubblica.it il 21 febbraio 2020. “Sono stufo di sentirmi chiedere le tendenze del momento. Le tendenze non sono niente, non ci devono essere. La cosa più importante è vestire le donne al meglio oggi evitando il ridicolo, non discutere di “cosa va di moda”. Piantiamola di essere succubi di questo sistema”. Dall’enfasi con cui parla si capisce quanto Giorgio Armani ci tenga ad affrontare il discorso. Ancora di più oggi, visto che la sua collezione per Emporio Armani è un inno alla libertà delle donne di vestirsi per stare bene, senza dare retta ai diktat di chi fa moda. “Si parla di donne stuprate in un angolo. Le donne oggi sono regolarmente stuprate dagli stilisti, e mi ci metto anch'io. È indegno quello che succede”. Parole forti, per esprimere un’idea che evidentemente gli sta a cuore. “Penso a certi manifesti pubblicitari” spiega lo stilista, “In cui si vedono donne provocanti, seminude: succede che in molte si sentano obbligate a pensare anche loro di mostrarsi così. Questo per me è uno stupro. Scusate lo sfogo e le parole forti, ma sentivo di doverlo dire”.
Luca Gardinale per “la Stampa” il 12 marzo 2020. Un audio whatsapp incautamente registrato e ancor più incautamente spedito per errore in una chat interna del Pd, con 97 iscritti, rischia di costare caro al vice sindaco di Modena Gianpietro Cavazza. Un dialogo riservato e decisamente «da bar», registrato durante una pausa pranzo tra l' assessore al Bilancio e una dipendente comunale che fa parte della sua segreteria nel corso del quale Cavazza si è lasciato andare ad apprezzamenti decisamente poco eleganti nei confronti di due colleghe di giunta, Ludovica Carla Ferrari e Anna Maria Vandelli. Questo dialogo, per un banale incidente, è stato da lui stesso inviato per errore alle 97 persone, e nonostante la rapida rimozione quell'audiomessaggio di otto minuti è rimbalzato tra gli uffici di piazza Grande e i telefoni dei colleghi di giunta, dei consiglieri comunali e dei dirigenti del Partito democratico. Risultato: grande imbarazzo e nervosismo delle dirette interessate. E il sindaco Muzzarelli? Ovviamente il primo cittadino non ha voluto parlare del caso, ma alle persone più vicine a lui ha fatto notare che non ha per nulla gradito. Cavazza da parte sua, ha cercato di minimizzare parlando di «Battute in libertà, che sottintendono complicità e simpatia, registrate casualmente e diffuse per errore in una chat politica. Me ne dispiaccio - fa sapere il vicesindaco, che ha contattato anche le dirette interessate per scusarsi -, soprattutto per le persone citate, con le quali mi sono già personalmente scusato e che hanno risposto con una risata». Risate che a dire il vero non ci sarebbero state, visto che ieri tutte e due le colleghe interessate hanno replicato più o meno direttamente via social. La più diretta è Ludovica Carla Ferrari, che ha detto: «Non è la prima e non sarà l' ultima volta che si fanno battutacce sul corpo delle donne - scrive l' assessore Ferrari - sappiate tutti, uomini e donne, che non ci fa piacere, anche quando sono in positivo. Immaginate il contrario». In linea, Anna Maria Vandelli: «Ho sempre saputo di essere più bella dentro che fuori - ironizza commentando su Facebook i messaggi di solidarietà ricevuti - in tanti vanno oltre, e quasi non vedono ciò che gli ormoni comandano». E non hanno riso nemmeno al Pd dove numerosi esponenti, oltre ad averlo «scaricato», stanno facendo un pressing più o meno diretto sul sindaco per invitare a far sì che il suo assessore e Vicesindaco si dimetta.
Da nextquotidiano.it il 12 marzo 2020. 97 persone iscritte a una chat nei giorni scorsi hanno ricevuto sul telefonino le parole registrate dal vicesindaco di Modena Gianpietro Cavazza in una conversazione privata, riportate ieri dalla Gazzetta di Modena e dal Fatto Quotidiano. Il sindaco, Gian Carlo Muzzarelli (Pd), pare non abbia preso bene la notizia. Frasi del tipo: “Oggi notavo il c… della collega”. “Hai visto le caviglie…E i baffoni dell’altra?”.
Racconta Il Fatto oggi: “Ero in trattoria, avevo il telefono in tasca”, racconta Cavazza, un passato in Caritas e anima cattolica della giunta di centrosinistra. Nella registrazione chiacchiera con una dipendente del Comune che è una figura nota della sinistra locale. Il vicesindaco non si accorge di aver premuto il pulsante che registra e invia l’audio. A nulla valgono i tentativi di cancellare. Poi arrivano le scuse: “Battute in libertà, registrate e diffuse per errore, che sottintendono complicità e simpatia. Me ne dispiace e mi scuso con le persone citate che hanno risposto con una risata. Stupisce che qualcuno cerchi di trasformarle in qualcosa più di una sciocchezza”.
Sul fascicolo del processo scrive "negro" per indicare l'imputato di colore. La denuncia di un giudice: "L'avvocato si è presentato in udienza con questo fascicolo". E posta la foto delle carte con la scritta "negro". La replica del legale: "I miei fascicoli sono timbrati". Francesca Bernasconi, Venerdì 21/02/2020 su Il Giornale. Sul fascicolo la scritta "negro" è ben visibile. E non si tratta di un cognome, ma dell'appellativo con cui un avvocato di Forlì avrebbe indicato la controparte, sulla cartella portata al tribunale di Ravenna per il processo. L'udienza riguardava il caso di un nigeriano, accusato di lesioni personali, per aver aggredito due poliziotti alla stazione di Faenza, due anni fa. L'avvocato della controparte si sarebbe presentato al processo con un incartamento, recante la scritta "negro", per identificare il nigeriano, che non era indicato con nome e cognome. A denunciare la vicenda è stato l'ex giudice del lavoro, sezione di Ravenna, Roberto Riverso, che su Facebook ha pubblicato la foto del fascicolo. "L’avvocato si presenta oggi in udienza davanti al gup ed al pm del Tribunale di Ravenna ed esibisce un fascicolo sul quale identifica la propria controparte (l’imputato di colore, nei cui confronti si costituisce parte civile) non con le sue generalità ma chiamandola 'negro'", scrive il magistrato sui social. E denuncia il caso come "una barbarie". Al Corriere della Sera, il giudice avrebbe rivelato: "Me l’hanno segnalata, io lavoro a Roma e non sono di certo a Ravenna. Ma non ho avuto dubbi, l’ho pubblicata per fare in modo che tutti sapessero". E aggiunge: "Sono rimasto senza parole, bisogna però reagire. I giuristi hanno il dovere di testimoniare, hanno un dovere in più nei confronti della collettività. Occorre riconoscere e denunciare il razzismo". Dall'altra parte arriva la replica dell'avvocato accusato del gesto, che si discolpa, negando che il fascicolo appartenga al suo studio: "I miei sono timbrati", dice. Ma Riverso spiega al Corriere che "al di là delle responsabilità specifiche, io credo che un problema di razzismo in Italia ci sia". E ribadisce la necessità dei giuristi a "vigilare affinché episodi di questo genere non si ripetano". Infine commenta: "Vedo molti commenti al mio post pubblicato su Facebook che negano che l’episodio segnalato sia riconducibile al razzismo. Ecco, magari iniziamo a far ragionare chi ragiona con la retorica dell''io non sono razzista ma'".
A Firenze solo statue di uomini: «Il 2020 sarà per artiste donne». Pubblicato sabato, 15 febbraio 2020 su Corriere.it da Claudio Bozza. La più antica è la Fontana del Nettuno in piazza della Signoria, scolpita nel 1565 da Bartolomeo Ammannati che vinse il concorso bandito da Cosimo I de' Medici per celebrare i trionfi del Granducato di Toscana. Mentre quella contemporanea più rilevante è «Dietrofront», gigante in marmo realizzato da Michelangelo Pistoletto nel 1984, che oggi sorveglia la trecentesca Porta Romana, uno degli ingressi al cuore della città. Sono 173 le opere d'arte e i monumenti all'aperto di proprietà del Comune di Firenze e curati dalle Belle arti. Per la precisione: 47 statue, nove busti, 19 fontane, 26 monumenti ai Caduti e 73 tabernacoli. Molte sono conosciute in tutto il mondo. Ma nessuna di queste opere, in una delle capitali mondiali delle arti, è stata realizzata da una donna. È il risultato di un censimento disposto dall'assessore alla Cultura Tommaso Sacchi, 37 anni. Che sulla base di questi numeri, di concerto con il sindaco Dario Nardella, annuncia che il 2020 sarà particolare: «Il Comune accetterà donazioni di opere d'arte, sculture in particolare, realizzate esclusivamente da donne - spiega l'assessore -. Questo perché Firenze crede fermamente nella parità. Consapevoli che questa debba divenire spontanea, abbiamo deciso di dare un contributo forte e concreto. Con questa iniziativa speriamo anche che tante artiste, italiane e non, arrivino a Firenze, s'incontrino e dialoghino». Le richieste di donazione di opere d'arte presentate ogni anno a Palazzo Vecchio sono numerose (oltre cinquanta negli ultimi tre anni), ma molte vengono respinte perché non rispondono ai canoni fissati da un'apposita commissione. Ora questo team verrà rinnovato e sarà guidato da tre donne: Cristina Acidini, già Soprintendente al Polo museale fiorentino; Arabella Natalini, curatrice e figlia dell'architetto Adolfo, tra i fondatori del Superstudio (recentemente scomparso,) e Cristiana Perrella, direttrice del Centro per l'arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Saranno loro a valutare se accettare o meno le opere che le artiste vorranno donare alla città, oltre a decidere la loro collocazione. A maggio, sempre a Firenze, si terrà il primo Festival dell'Architettura: le protagoniste saranno in gran parte donne. Mentre a giugno, al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, Marina Abramovic presenterà un'opera-performance ispirata e dedicata alla divina Maria Callas, tra i soprano più noti e amati al mondo e idolo della stessa Abramovic. Lo spettacolo è ispirato alle sette eroine della lirica che muoiono per amore, tutte interpretate dalla Callas nel corso della sua fulgida carriera: Carmen, Tosca, Lucia di Lammermoor, Butterfly, Norma, Desdemona e Violetta. È la prima produzione in assoluto che vede la celebre performer serba nei panni di ideatrice e regista di un'opera lirica. E ad Abramovic, per l'occasione, il sindaco Dario Nardella consegnerà le Chiavi della città, massima onorificenza cittadina. Tutti piccoli passi per colmare il cosiddetto «gender gap», in una città dove su 2.200 strade e piazze totali, solo 99 sono intitolate a donne. L'ultima, qualche giorno fa, è stata dedicata a Margherita Hack.
Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 24 febbraio 2020. Il film di Marco Bellocchio, “Il traditore”, dedicato alla vicenda umana e criminale di “Masino” Buscetta, “pentito di mafia”, anzi, collaboratore di giustizia, idealmente, ha avuto un minuscolo, eppure notevole, sequel nella “casa” che più sta a cuore ai comunque aspiranti famosi, sotto gli occhi del “Grande Fratello Vip” di Canale 5. Clizia Incorvaia, 33 anni, “cresciuta a pane e moda”, così confessa nelle note personali di Instagram, concorrente di punta del reality, rivolgendosi con pupille furenti a un “collega” del condominio, sempre ai suoi occhi colpevole di averla segnalata per il televoto, con serio e tragico rischio di trovarsi sbalzata fuori dalla dimora, nei giorni scorsi, facendo ulteriormente montare in sé sdegno furibondo a bordo piscina, ha così scagliato il dardo del proprio orgoglio isolano: “Tu sei un maledetto! Buscetta! Pentito! Sei un pentito! Un Buscetta, e io non parlo con i pentiti!”. Parole scandite con veemenza, degna del peggiore orgoglio siculo, il dito ammonitore puntato più volte a indicare, a mitragliare l’ “infamità”, sempre a suo dire, commessa, gli occhi vieppiù colmi di sdegno narcisistico e insieme figlio di certo heimat, verso il co-residente Andrea Denver. Tornando alla quiete del Canale di Sicilia, il resto della bio di Clizia Incorvaia racconta una ragazza cresciuta, appunto, a Porto Empedocle, vicereame di Agrigento, che “concluso il Liceo Classico arrivo nella nebbiosa Milano dall’assolata Sicilia, dopo pochi anni mi laureo in scienze della comunicazione all’Università Cattolica”. Su tutto però, Clizia confessa di essere “una fashionista nata... anzi non vorrei essere presuntuosa ma preferisco “trend setter” ossia una che anticipa le tendenze :-)”. Parole, sogni, stimmate, rimmel, lucidalabbra imbevute d’oro, platino e rodio perfettamente nello spirito di un tempo glamour inquadrato selfie dopo selfie. Scansiamo le reazioni, le invettive, la prevedibile e doverosa rabbia “civile” raccolti in pochi istanti in rete dalla trend setter, facendo così levitare l’hashtag #cliziafuori, il minimo che potesse giungerle. Su tutte, le parole dell’Associazione nazionale carabinieri di Carsoli: “La signora in bikini dovrebbe fare meno bagni in piscina, studiare la storia per rispetto di tutte le vittime di mafia”. Forse, ciò che gli uomini dell’Arma d’Abruzzo pretendono da una ragazza bionda cresciuta a Porto Empedocle in una famiglia con bambagia dorata, è ingiusto se non crudele; Clizia infatti vede brillare nel palmarès privato e insieme del gossip un matrimonio con un cantante trendy cui, dopo la nascita di una figlia, Nina, è presto seguito un divorzio altrettanto da “Chi”; dettagli, pura insignificanza, schiuma pregressa, almeno rispetto a questo nuovo affare sempre pubblico che la inquadra, sia pure nell’orrore, la coroncina da non meno protagonista. Intanto, nella tarda giornata di ieri, merito anche della presa di distanza di alcuni sacri sponsor, Mediaset ha diramato una dichiarazione, come dire, austera e insieme attendista: “Il televoto che vedeva coinvolti i concorrenti Clizia Incorvaia, Antonella Elia, Paola Di Benedetto e Andrea Montovoli è stato annullato a causa di un provvedimento disciplinare nei confronti di un concorrente che ha pronunciato frasi inaccettabili”. Parole che annunciano bufera per il “reo” e insieme sibilline, ovvero prendere tempo, sopire, cinismo portatile da impresa commerciale, se non ipotizzare, dài, una via d’uscita, studiare una strategia che renda ipocritamente onore a chi ha combattuto la mafia e alle sue vittime, e insieme suggerire un “non è mai troppo tardi” per chi indicava Buscetta come esempio di empietà etica, un “muffutu” (traduzione per i non siciliani: uno spione) posto che agli occhi del conduttore Alfonso Signorini e di Irene Ghergo, che così presentava le novità dell’edizione: “È un reality estemporaneo, fatto tutto senza copioni. Anche per noi autori e per il conduttore è una sorpresa, non è niente programmato, è tutto possibile!” In ogni caso, la fuoriuscita eticamente poco rimarchevole, con “fango”, della ragazza, ma questi sono dettagli ai nostri occhi insignificanti, priverebbe il format del quadro erotico-sentimentale che si è creato tra lei e un altro concorrente del programma, Paolo Ciavarro, agli occhi di molti utenti, animi semplici, nostalgia da “Bolero film”, una riedizione di Romeo e Giulietta nel contesto reality. A dispetto d’ogni scusa da escogitare, ricorrendo perfino a una recita da antimafia cerimoniale da plesso scolastico elementare, rammentando pure che perfino un ministro della nostra Repubblica, anni addietro, ebbe a dichiarare che “con la mafia occorre convivere”, ben oltre tutto questo, ci sia permessa una riflessione “tecnica” sulla dinamica dell’accaduto, dei semplici fatti. Sia detto con la percezione del siciliano che sa riconoscere tutte le posture di certo costume obliquo, se non implicitamente criminale. E qui parlo da palermitano, da persona che reputa di conoscere gesti, sfumature, e soprattutto la prossemica di un mondo, esatto, di un comportamento individuale che assimileremo, se non direttamente alla mafia, comunque alla “mafiosità”, un modo di occupare lo spazio e insieme di chiarire agli altri i propri intendimenti, la propria tracotanza. Non dovrebbe essere difficile da comprendere che si tratti di una condotta che tende a permeare sovente molti comportamenti di noi siciliani. I gesti e le parole scagliati da Clizia Inconvaia verso la persona ai suoi occhi colpevole di infedeltà non sono affatto come direbbe il poeta, “voce dal sen fuggita”. Sono moti che vengono da un profondo familiare; degradarle alla categoria di una “battuta” sarebbe ipocrita, cose che fanno torto a chi sappia riconoscere gli sguardi di sbieco che in Sicilia dicono di più d’ogni esplicita dichiarazione, minaccia o segno d’astio. Risibili le scusanti presentate da Micol Incorvaia, sorella amorevole, le guance segnate dalle lacrime d’argento del make up: “Trovo che sia allucinante che un modo di dire utilizzato nell’italiano corrente sia letto come un suo inneggiare alla mafia.” (sic) Forse che, tutti noi, ogniqualvolta ci viene voglia di insultare chi ci manca di rispetto gli diamo umilmente del “Buscetta”? “Minchia” che civiltà!, direbbe il filosofo. Si tratta, sappiatelo, di gesti propri di una subcultura che si nutre ora di qualunquismo ora di implicita connivenza, perché, come è segnato sulle piastrelle-souvenir di ceramica di Santo Stefano di Camastra o di Caltagirone, spacciate per umorismo decorativo da tinello: “Facitivi i cazzi vostri!”. Il sequel del film su Tommaso Buscetta, cui si deve, insieme a Gaspare Mutolo, di avere svelato i nomi, meccanismi e le dinamiche di potere di “Cosa nostra” con i suoi “punciuti” e della “cupola”, da aggiornate al tempo delle influencer, ci sta tutto.
A.Spi. per “il Messaggero” il 31 gennaio 2020. Forse bisognerà fermarsi un attimo a riflettere sul politically correct e sul rispetto delle specificità di genere. Perché a furia di voler, giustamente, equiparare uomini e donne, occidente ed oriente, eterosessuali e omosessuali, non solo per il tempo che viviamo ma anche per il passato, si rischia di perdere la visione storica delle cose. Fa infatti discutere la decisione presa dalla prestigiosa università di Yale di cancellare il corso di Introduzione alla Storia dell'arte dal Rinascimento ad oggi, uno dei più seguiti dagli studenti di arte e uno dei più quotati corsi accademici sull'umanesimo occidentale. Il motivo? Perché è frutto di una cultura bianca, eterosessuale, occidentale e maschile. Ad annunciare il pensionamento del corso, che pure aveva incrementato le iscrizioni, un articolo del Yale Daily News, precisando che il corso verrà soppresso dalla primavera per evitare agli studenti un presunto «disagio». C'è la volontà accademica di dare una discontinuità alla visione didattica tradizionale come spiega il preside del dipartimento di Storia dell'Arte, Tim Berringer. «Non si può mettere l'arte europea su un piedistallo, può essere problematico. Non confondo la storia dell'arte europea con quella della storia dell'arte di altri Paesi tutti ugualmente meritevoli di studio» Giusto. Ma non si capisce perché invece di cancellare non si allargano i confini della conoscenza, includendo lo sviluppo dell'arte nel tempo da altri Paesi e culture da esponenti di ogni razza e orientamento sessuale.
Roma Quadraro, drag queen a scuola a leggere fiabe ai bambini: è polemica. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Ester Palma. Drag queen a scuola, a leggere fiabe ai bambini, e scoppiano le polemiche. La notizia è sul sito ufficiale del Campidoglio: «Nell’ambito della Comunità educante diffusa del Municipio VII, presso la Biblioteca Interculturale “Cittadini del Mondo” (ubicata nell’edificio della scuola Damiano Chiesa, con ingresso in via Opita Oppio 41) dal 26 febbraio si terrà un ciclo di tre incontri finalizzati a far conoscere storie di inclusione e amicizia senza pregiudizi di genere. Alle 10.30 dei tre mercoledì 26 febbraio, 11 marzo e 25 marzo “Regine” d’eccezione diventeranno ‘libri viventi’ per narrare alle giovanissime generazioni fiabe e racconti: le Drag Queen Cristina Prenestina e Paola Penelope accoglieranno, insieme agli operatori e alle operatrici dell’associazione “Cittadini del Mondo”, le scuole del territorio che vorranno partecipare agli incontri gratuiti». Il primo incontro, che doveva quindi tenersi domani con i bambini della scuola dell’infanzia, da tre a 5 anni, è stato però sospeso «per colpa del coronavirus». A dare il via è la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: «Due drag queen parleranno di “inclusione” e “amicizia” a bambini dai 3 anni in su in una scuola di Roma. Il tutto pubblicizzato sul sito ufficiale del Campidoglio. Solo a me sembra una follia? Giù le mani dai bambini». Rilancia il presidente del Family Day Massimo Gandolfini: «La matrice ideologica dell’iniziativa è chiara fin dal titolo della locandina che apostrofa bambin* e ragazz* con il famoso asterisco usato dai movimenti lgbt più estremisti per sostituire la coniugazione di genere dei nomi. Come al solito chi dice di voler esaltare le differenze e l’integrazione poi arriva persino a diluire le identità sessuali con un asterisco. Da psicoterapeuta e neurochirurgo ribadisco con forza che l’identità sessuata di una persona prescinde dall’orientamento sessuale e mortificarla al punto tale da inventare una nuova grammatica avvilisce proprio intelligenza dei bambini e della bambine che sono in una fase delicatissima della strutturazione della propria personalità. Oltre tutto qualcuno dovrebbe spiegare a genitori, insegnanti e studenti perché in un’età in cui il bambino è alle prese con l’accettazione e la scoperta del proprio corpo viene proposto il modello ipersessualizzato e caricaturale delle drag queen. Che tutto questo possa offrire del valore aggiunto al racconto di storie sull’amicizia e l’inclusione lo possono credere solo delle menti ideologizzate che propongono teorie prive di basi scientifiche e pedagogiche». L’iniziativa è della Biblioteca Interculturale «Cittadini nel mondo», nata nel 2009 e che dal 2013 ha sede all’interno della scuola «Damiano Chiesa» al Quadraro, dove si svolgono gli incontri con le drag queen e che ha 10 mila libri (di cui oltre 1000 per ragazzi), in più di 25 lingue diverse, da quelle europee a quelle asiatiche e africane, dai contenuti più disparati (arte, storia, letteratura, fumetti, ecc.) e un settore multimediale con oltre 1000 dvd: «L’idea di creare una Biblioteca Interculturale nacque dal desiderio di un padre di voler raccontare una storia al figlio nella propria lingua di origine -si legge sul sito dell’associazione - Il patrimonio culturale di ciascuna persona, sia essa italiana o straniera, va coltivato e mai dimenticato, pertanto leggere libri nella propria lingua e reperire materiali appartenenti alla propria cultura d’origine, sono valori irrinunciabili».
Fabio Franchini per ilgiornale.it il 26 febbraio 2020. Il trionfo del politicamente (s)corretto. In una scuola superiore di Clusone, in provincia di Bergamo, è stato diffuso un test che chiede agli studenti cosa ne pensino dei "marocchini", con domande (trabocchetto) di tutti i tipi e che definire fuori luogo è dire poco. Per esempio, eccone un assaggio: "Secondo te è vero che il comportamento criminale dei marocchini è dovuto alle differenze culturali di questo popolo?", "I marocchini discendono da popolazioni che possiedono abilità meno sviluppate" ,"Sarei disposto ad avere rapporti sessuali con un marocchino". La scuola teatro della vicenda è l’Istituto d’Istruzione Superiore Statale Andrea Fantoni che ha pensato bene di consegnare ai ragazzi e alle ragazze che lo frequentano due fogli: un questionario e una cosiddetta scala di atteggiamenti sulla quale si chiede di esprimere "il tuo grado di accordo riguardo alle seguenti affermazioni" con una range di risposte possibili che va da "sì" all'"assolutamente no". IlGiornale.it è venuto a conoscenza dei due pezzi di carta – nello specifico, quelli compilati da una studentessa di 15 anni, che tornata a casa con quei fogli li ha fatti vedere ai propri genitori – su segnalazione di Max Bastoni, consigliere comunale e regionale della Lega. Il questionario, fa venire la pelle d’oca. Ecco una dopo l’altro tutti i quesiti posti: "Cosa comporta, secondo te, il fatto che i marocchini lavorino in Italia?", "Cosa pensi dell’arrivo di marocchini in Italia?", "Secondo te i marocchini danneggiano la nostra immagine di Stato?", "Pensi che la criminalità è aumentata in corrispondenza all’aumento di marocchini nel nostro Paese?", "Secondo te è vero che il comportamento criminale dei marocchini è dovuto alle differenze culturali di questo popolo?", "Daresti una mano a un marocchino in caso di bisogno?", "Pensi che la convivenza con i marocchini possa arricchire la nostra cultura?", "Ha mai provato ammirazione per un marocchino?", "Hai mai odiato una persona solo perché è marocchina?". E se la raffica del questionario fa accapponare la pelle, la "scala di atteggiamenti" non è da meno: "I marocchini occupano posti di lavoro che spetterebbero agli italiani", "Italiani e marocchini non potranno mai sentirsi a loro agio gli uni con gli altri", "È risaputo che i marocchini hanno aumentato il livello di criminalità in Italia", "I marocchini discendono da popolazioni che possiedono abilità meno sviluppate", "Un mio famigliare ha un bambino con una persona marocchina ed il bambino non assomiglia alla mia famiglia. La cosa mi dà fastidio", "Sarei disposto ad avere rapporti sessuali con un marocchino", "Sarebbe preferibile che i marocchini che vivono in Italia non si recassero in posti dove non sono desiderati", "Se i marocchini si sforzassero di più nel migliorare le loro condizioni di vita in Marocco, potrebbero raggiungere il livello italiano", "Sarei disposto a convivere con individui marocchini", "Avrei problemi a difendere un individuo marocchino", "Sarebbe un problema se uno dei miei genitori si risposasse con un individuo marocchino", "I marocchini sono una razza inferiore". Insomma, domande e affermazioni (mal)poste subdolamente con chissà con quali finalità. Sarà mica un modo per "schedare" quegli studenti e quelle studentesse che non rispondono da "buonisti"? Chissà. Quale sia il senso di un test trabocchetto del genere sfugge proprio, soprattutto perché se lo scopo fosse quello di "combattere" il razzismo, farlo con un'impostazione (volutamente?) discriminatoria nei confronti dei marocchini sarebbe proprio un tanto clamoroso quanto "buonista" autogol...Duro il commento di Max Bastoni: "Ma quando finirà la dittatura del politicamente corretto? Passano gli anni, cambiano i governi, insorgono i popoli. Il copione si ripete, all'infinito. Questo questionario poi è una lente ideologica che altera la realtà secondo un pregiudizio indiscusso e indiscutibile, assunto a priori come porta della verità, del bene e del progresso". Dunque, l’esponente del Carroccio chiosa: "Cosa succede ad uno studente che non condivide la retorica buonista? Viene schedato? Negli anni Settanta gli studenti non omologati alla sinistra extraparlamentare finivano, segnalati dagli insegnanti, sotto la graticola dei servizi d’ordine di Avanguardia Operaia. Oggi finiscono alla gogna o come soggetti da rieducare?".
Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 6 febbraio 2020. Sophie Grau si dice «di genere non binario», e nelle foto sui social ha i capelli corti, tinti arcobaleno, e una maglietta che dice «Gender is over», il genere è finito; la sua amica Iris Klopfer ha i capelli lunghi con ciocche blu e si riconosce «al 100% femmina», anche se come Sophie, che conosce dalle elementari e con cui è da sempre «solo amica», si sente parte della comunità Lgbtqi. Al ballo delle debuttanti di Vienna del 20 febbraio, però, dovranno rispettare la tradizione, anche se sembrerà che siano lì per mandarla a gambe all' aria: tinta castana ai capelli per entrambe,abito a meringa per Iris e frac per Sophie. Insomma dovranno stonare il meno possibile tra le 150 coppie di «debuttanti», anche se sono lì come eccezione: Iris e Sophie sono la prima coppia di donne ammessa all' Opernball dalla sua fondazione, coeva al Congresso di Vienna. Tedesche del Baden-Württemberg, 21 anni entrambe, Sophie studia al Conservatorio e Iris a Medicina: «Iris mi aveva convinta a iscrivermi a danza a dieci anni», dice Sophie, «e da allora guardiamo i video su YouTube, le coreografie, e quella del Ballo di Vienna...beh, toglie il fiato. Quest' estate ci eravamo dette: perché non andiamo?». Scroscio di risate eccitate; domanda inviata «quasi per gioco», a settembre, «e accettata a novembre. Da allora ripassiamo i passi, e io sono andata dal sarto per farmi il frac».
È la mise obbligatoria di un cavaliere. Ma di una dama?
«Ce lo hanno chiesto tutti», sbuffa Sophie, bersagliata, da che è stata ammessa al ballo (e Iris le ha delegato il ruolo di portavoce della coppia), di interviste che ripetono varianti sulla stessa ottusa domanda che chiunque abbia un orientamento non etero spesso si sente fare: chi «fa» il maschio e chi la femmina?
«Il nostro orientamento non è rilevante», protesta Sophie. «Ma per i vestiti abbiamo scelto così: io preferisco i pantaloni. Quindi le ho lasciato la meringa e ho scelto il frac». Peraltro non sarebbe stato possibile fare diversamente: la perfezione della coreografia è la vacca sacra del ballo, al cui allestimento - bisogna staccare tutte le sedie della platea e rifare un pavimento liscissimo, su cui le coppie volteggino - lavorano per 48 ore 650 operai.
«Non è rilevante», il loro orientamento, anche per Maria Großbauer, madrina del ballo e deputata conservatrice: «Basta che sappiano il Dreiviertelvalser », cioè il complicato valzer finale.
«Non è così tremendo», ride Sophie. «E le tradizioni si rinnovano, o muoiono».
Difficile forse è piacere alla reazionaria borghesia viennese che dall' Ottocento organizza il ballo (un rito che ebbe i massimi fasti negli anni dell' Anschluss alla Germania nazista): il ricco ottuagenario Richard Lugner, per esempio, uno che all' Opernball ha portato Sophia Loren e Geri Halliwell, rilascia da settimane interviste in cui dice che «la reputazione del ballo non va distrutta».
Il ballo delle debuttanti, poi, era un rituale dove le fanciulle venivano esibite ai potenziali mariti: quanto di più conservatore e «binario» esista, in termini di genere. Che ci fanno lì Sophia Grau e Iris Klopfer?
«Sembra un controsenso, lo so», si difende Sophia. «Ma ci piace ballare. E prendiamo i costumi d' epoca per quello che sono: drag . Travestimenti » .
Dagospia il 10 febbraio 2020. Da radiocusanocampus.it. Lo scrittore Massimiliano Parente è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. “Ormai scrivo da 25 anni, ho abolito la privacy nella mia vita perché non c’è differenza sostanziale tra quello che vivo e quello che scrivo –ha affermato Parente-. Non ho segreti. Questo comporta anche una vita di isolamento, odio andare in tv, odio fare presentazioni e farmi vedere. La maggior parte degli scrittori invece scalpita per andare ovunque, perché non sono scrittori ma soubrette. Sul suo nuovo libro ‘Tre incredibili racconti erotici per ragazzi’. “E’ un libro comico in cui rappresento situazioni di erotismo estremo, ma raccontate con innocenza. Volevo scrivere un’opera minore per mettere a loro agio tutti gli scrittori che mi odiano, però non ci sono riuscito. Alla fine l’hanno definito un piccolo capolavoro. Volevo dire a tutte le femministe che mi attaccano che io non sono misogino, ma misantropo. Se attacco gli uomini mi rispondono singolarmente, se attacco una donna invece mi rispondo tutte le donne. Nel libro parlo anche di un’influencer che viene stalkerizzata. Se andate a vedere sotto le foto con le tette di fuori che postano queste influencer, 9 su 10 sono commenti di uomini che scrivono cose a sfondo sessuale. Questo però alle influencer fa comodo perché sono follower. Ma se tu hai dei follower e li istighi in quel modo lì può scattare anche qualcosa, ovviamente non è che giustifico lo stalking, però si può fare un ragionamento. In questo periodo qualsiasi cosa diventa sessismo. Su questo ci si può giocare. E’ difficile fare sesso senza essere sessisti, l’unica soluzione è abolire il cazzo, tagliamocelo e facciamo prima. Achille Lauro è idolatrato dalle donne perché ce l’ha piccino. Diventiamo tutti gay, io sono bisex quindi faccio prima degli altri. Io ho un compagno e una compagna, viviamo insieme, abbiamo anche una figlia”.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 9 febbraio 2020. Non è un libro per depravare fanciulli, quasi non ci fossero già abbastanza maestri del settore: sarebbe stato troppo banale per uno come lui. Il titolo dice Tre incredibili racconti erotici per ragazzi (La nave di Teseo, pagine 59, 10). E in effetti la copertina dotata di una Minnie, la fidanzata di Topolino, ignuda alla faccia di Walt Disney (opera di Max Papeschi, all'interno ci sono tre bei disegni di Gipi) induce all' idea che quello screanzato di Massimiliano Parente si dedichi con la sua prosa arrapante a guidare adolescenti acerbi in qualche bordello letterario, come una nave scuola che introduca giovinetti e giovinette agli espedienti della lascivia. Per fortuna, nulla di tutto questo. I ragazzi siamo noi, tristi figure del nostro tempo, qualsiasi età abbiamo, imprigionati in un' idea di sesso, di morale e di piacere così trasgressivo da essere noioso. Tutto si può purché si lasci incasellare nei canoni del politicamente corretto, sessualmente corretto, porcellescamente correttissimo. Senza alcunché di umano e neppure di animale, tantomeno di sanamente folle. Incredibili i racconti lo sono perché raccontano una realtà assurda da noi accettata come se fossimo stati ipnotizzati. A essere incredibile insomma, come lo sono davvero i tre racconti, è questa normalità oscena. Indecente è che noi ci si sia accoccolati dentro i suoi muri con numeri di telefono dove si promettono esperienze di "slave" (da schiavi), cosa comunemente accettata, e non si butti giù questo castello di finta libertà e finto rispetto per gli altri, usando l' ascia.
LO SCENARIO. Si entra in questi mondi, narrati in prima persona, con un ritmo che fa incollare gli occhi fino alla fine, e il sapore che resta in bocca è di consolazione, perché qualcuno - Parente - ci ha rivelato il trucco su cui si regge questa tirannide del sesso per ragazzi idioti. Il sesso a sua volta non è solo "la scopata": il sesso è specie in quest' epoca totalitario, invasivo, e costituisce il nerbo di ogni vicenda a qualsiasi livello del vivere. C'è chi mi ha suggerito di provare a leggere le attuali contese di governo e tra i partiti come conflitti tra schieramenti di genere. Tra omo e bisex contro etero, nelle varia gradazioni possibili e (non) immaginabili. Non credo che Parente abbia costruito a tavolino questo scenario. Il suo talento enorme gli consente di tirare i fili con la facilità di un ragno. A proposito di aracnidi: siamo noi le mosche cadute in questa tela rivelataci da Massimiliano. Ci siamo avvolti e la si subisce quasi fosse una fatwa irreparabile. Siamo tutti ragazzi smidollati, schiavi di conformismo del nuovo tipo, che uccide qualsiasi incanto, sorpresa, trasgressione, ingenuità. Tutto è già blindato da un costume, dove ogni diversità presunta è perfettamente normale, regolata da codicilli premurosi per tutelare il piacere. L' opposto del cattolico pudore, imposto e in realtà favolosamente trasgredito, senza che i preti si scandalizzassero. Confesso. Parente fa rimpiangere l' educazione dell' oratorio.
I PARADOSSI. Avrei dovuto aspettarmela, questa sorpresa. Niente di ovvio e di banale esce dalle sue dita. Massimiliano Parente dacché lo conosco e frequento (ho anche firmato un libro a due mani con lui sul nuovo galateo, Il vero cafone) gioca con il conformismo sbudellandolo. A volte si è esposto pericolosamente a causa di questa sua attitudine. Perché il conformismo è molto stupido, e non accetta ironie che ne rivelino l' idiozia. Per cui si costruisce una legge apparentemente perfetta, come quella contro lo stalkeraggio - qui accade nella prima novella -, ma poi si lascia che mezze calzette famose gettino esche perfettamente coscienti di ferire anime fragili. Le quali a loro volta invocano leggi che fermino la diffusione delle tette in rete, esposte come prede. Con un effetto paradossale, incredibile, devastante. Tranquillo Massimiliano. Mi aspetto che i serpenti e le serpentesse del #Metoo e delle campagne isteriche contro il femminicidio (quasi che non fosse già grave in massimo grado l' omicidio in sé) si rivoltino e ti mordano. Lo fanno inesorabilmente con chi svela la menzogna del "politicamente corretto" non accontentandosi di criticarlo, ma deridendolo. Per quel che conta, sono con te.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 12 febbraio 2020. Com' è noto, il pesce è il nome che a Napoli si dà all' attrezzo che a Milano è chiamato uccello. La distanza di civiltà tra il Nord che sale sui monti e il Sud che scende sul fondo sta anche nella scelta simbolica di quel che definisce l' identità maschile. Su o giù? Diciamo che Del Pesce indubbiamente ha privilegiato nel libro (Lello. Vi amo tutte, Etabeta, pagine 399, 18,) l' affratellamento tra l' ornitologia settentrionale e l' ittica meridionale: un paritario ed efficace "su-e-giù". Quello che J. D.Salinger nel Giovane Holden qualificò con il verbo "stantuffare". Trattasi come nel caso dell' autore americano di un romanzo di formazione. Mi sono concesso lo scherzo salace. Ma perfettamente in tema. Il protagonista, infatti, di questa divertita fatica letteraria casalinga di Raffaele Del Pesce, è proprio il pesce, inteso alla napoletana. Quello cui Alberto Moravia ha dedicato un romanzo chiamandolo pomposamente e/o pompinescamente Lui. C' è una convergenza assoluta tra le vicende del fanciullino Lello e l' attitudine al guizzo inguinale assai precoce. Diciamo pure, per trovare una sintesi, che Lello è talvolta pesce volante, talaltra uccello che si tuffa volentieri in certi intrichi boschivi. Nella breve prefazione, l' autore si preoccupa di precisare che tutto quanto racconta gli è capitato davvero. Non ce ne sarebbe bisogno: la narrazione di una vita diventa letteratura grazie alle parole che colorano i fatti illuminandoli di fascino, trasformandoli in essenze universali. Qui tutto viene trascritto, secondo Del Pesce, dai diari, quelli scolastici e quelli segreti. Dalla terza elementare alla terza media, Raffaele, chiamato Lello, annota puntualmente le sue giornate. Sono quaderni sepolti in qualche cassapanca tra le cianfrusaglie, che Raffaele riscopre, chissà come. Lo fa dopo essere approdato alla pensione, giuntovi al culmine di un' onorata carriera nel campo del commercio e della dirigenza aziendale, succeduti a brevi trascorsi giornalistici in quel di Busto Arsizio, la città che da sempre è gelosa di Varese (capoluogo di provincia, con grande scorno dei bustocchi), e dove Lello, rimasto orfano di padre a soli sei mesi di vita, si trasferì con la famiglia. L'infanzia di Lello è tutta all' epoca del fascismo e della guerra. Ed è scandita da precoci incontri con l' altro sesso. Eventi trascritti nei minuti particolari anatomici, piovuti quali rugiada sulla sua esistenza di fanciullino, sorprendenti, dove la lascivia domina. La narrazione di questi meeting è il filo dell' opera. L' espediente letterario è l' averli inseriti tra una divagazione e l' altra sulle opere architettoniche che il ragazzino vede e descrive camminando lungo la sua vita e i suoi ricordi. Gli edifici, ponti e chiese, sono minutamente descritti, viene annotato l' architetto e l' ingegnere, gli anni della erezione. Ecco: erezione. Ci siamo. Gioco di parole. Impossibile sottrarsi. Proprio tornando da una gita al Sacro Monte di Varese, Lello ha il primo appuntamento con una donna. Accade con la balia di una signora che gli concede l' uso della stanza da bagno. Accade quello che deve accadere, con grandi seni, latte, labbra: molto Amarcord di Fellini. L' atmosfera di quello e di altri incontri del genere (ne leggeremo molti) non conosce la minima reticenza né lascia spazio manzonianamente al pudore. Un autore "professionista", pur nella esplicitezza, di tanto in tanto userebbe ellissi, distrarrebbe con metafore floreali, col detto e non detto, come farebbe Henry James. La verginità letteraria di Del Pesce viene fuori anche da ingenuità esplosive, un favoloso stile naïf, che comunque finiscono per aumentare la sensazione di come la preadolescenza sia un mistero, dove si vede tutto, e non si capisce niente, se non che la tensione sessuale è importante. E va trattata con delicatezza e rispetto. Probabilmente, se un libro del genere fosse stato scritto e pubblicato sessant' anni fa, avrebbe attirato fulmini e censure. Denunce e sequestri. Certe pagine rasentano, letteralmente, qualcosa di scandaloso. Viceversa, al giorno d' oggi andrà via liscio. E sarà quietamente studiato quale esempio di come un ragazzino disinibito, in un contesto assai più chiuso e moralista di quello odierno, scopre gradualmente i cambiamenti del suo corpo e della sua mente. Peccato. Era meglio quando ci si scandalizzava un po'. Se tutto è normale, accettato, che noia. Mi piace notare che il contesto è quello dell' Italia della seconda guerra mondiale, e i sapori sono quelli della cucina tipica di Busto Arsizio, come i "bruscitt", lo spezzatino bustocco con la polenta, che Lello ama mangiare a casa della nonna Teresa. Questi particolari domestici rendono più docile una narrazione la cui scabra sincerità ha, delle volte, veri e propri momenti di crudezza. E se lo dico io, che ne ho viste di tutte, credetemi. L'erotismo con tratti di arte pornografica emerge prepotente proprio perché quel ragazzino era davvero ingenuo. Non sapeva niente, impara tutto stupito. E la prosa vi corrisponde: vivida, scarnificata, volutamente semplice. Proprio com' è quella di un bambino che nel diario annota la raccolta delle violette, mentre in Lello. Vi amo tutte a essere colte sono poetiche prugne e sode patate.
Marino Niola per “il Venerdì - la Repubblica” il 18 febbraio 2020. Troppi artisti occidentali nei programmi. E il professore sopprime il corso. È successo all' università di Yale, dove il tradizionale insegnamento di Introduzione all' Arte: dal Rinascimento ad oggi, fondato dal celebre Vincent Scully, è stato annullato dall' attuale docente facendo sue le accuse di un gruppo di studenti che imputa alla storia dell' arte di limitarsi ad autori bianchi, maschi ed eterosessuali. Promuovendo di fatto l' idea di una superiorità dell' Occidente e del suo canone artistico. Già nel 2016 un gruppo di allievi della stessa università aveva chiesto e ottenuto la chiusura di un seminario di anglistica intitolato Major English Poets, dedicato a personaggi come Chaucer, Shakespeare ed Eliot perché a loro dire, in questo modo venivano trascurati i contributi letterari delle donne, dei colored e dei queer, in nome di una concezione reazionaria della cultura. Fondata su una supremazia di tipo patriarcale e un dominio di tipo coloniale. Dietro queste rivendicazioni c' è l' idea che il giudizio estetico sull' arte e sulla letteratura non siano che il prodotto di questa logica di dominio, erede del colonialismo. Così l' arte viene ridotta a politica e l' unico ruolo dello studioso e dell' insegnante consisterebbe nello smascherare l' ingiustizia di cui grondano i nostri capolavori. Roba da Ecce Bombo. È il classico uso aberrante di un principio giusto. Perché il relativismo culturale, che consiste nel sacrosanto riconoscimento della dignità delle altre identità, non può trasformarsi in una forma di rimozione della propria. Se l' apertura all' altro è una manifestazione di intelligenza, la chiusura a sé stessi è un forte indizio di insipienza. Che rischia oltretutto di scatenare una reazione di rigetto contro il politicamente corretto. Così invece che tutelare le identità si finisce per metterle le une contro le altre.
Simona Antonucci per il Messaggero il 21 febbraio 2020. Madama Butterfly? «Preda del colonialismo sessuale, di uno yankee». Salome? «Orfana, ossessionata dal desiderio di vendetta, abusata dal patrigno Erode». Fiordiligi e Dorabella in Così fan tutte: «Pedine di un gioco cinico che distrugge amore e amicizia». E Gilda, figlia di Rigoletto? «Vittima del padre come Luisa Miller». Damiano Michieletto, regista veneto, 44 anni, è in partenza per un giro del mondo accanto a donne leggendarie, cui grandi compositori hanno regalato pagine di indimenticabile musica. Da Madama Butterfly che debutta oggi al Comunale di Bologna (repliche fino al 27) fino alla Vedova Allegra che accompagnerà a Caracalla (dal 6 agosto) e poi al San Carlo di Napoli (dal 17 al 27 settembre), passando per Milano, dove presenta la sua nuova Salome l'8 marzo, per Tokyo che aspetta Così fan tutte (dal 18 al 24 marzo), per La Fenice di Venezia con Rigoletto e la sua Gilda (dal 23 aprile al 31 maggio) e per il Costanzi che ospiterà Luisa Miller (dal 22 al 31 maggio). A Bruxelles andrà con Rosenkavalier e la sua originale Marescialla, per finire un giro vorticoso di debutti, tra riprese e nuove produzioni, a Berlino, l'anno prossimo, con Jenufa di Janacek «tratta dal romanzo di Gabriela Preissova, una della rare protagoniste di un'opera raccontata con sensibilità femminile e con speranza». Sessanta regie liriche, due premi Abbiati, un Oliver Award, due figli che ha spesso al suo fianco, Michieletto racconta passioni, sogni e tormenti delle sue compagne di lavoro nei prossimi mesi. Cominciando dalla farfalletta, da oggi al Comunale di Bologna. Con Pinchas Steinberg sul podio e le voci di Karah Son (Cio-Cio-San), Cristina Melis (Suzuki), Angelo Villari (Pinkerton) e Dario Solari (Sharpless). «Puccini non scriveva denunce sociali, ma aveva una grande sensibilità nel ritrarre la sofferenza femminile. Bohème, Fanciulla del West, Turandot... E Madama Butterfly che, secondo me, aldilà delle scelte estetiche o registiche, va raccontata per quello che è. Cio-Cio-San è una ragazza di quindici anni che, caduta in miseria, viene venduta da un sensale a un americano sconosciuto. Pinkerton la sposa con un matrimonio burla e le dà anche un nomignolo dispregiativo, farfalletta. Dopo poco, l'uomo l'abbandona per continuare viaggi e affari. È una storia basata su una vicenda che oggi chiameremmo turismo sessuale». Una piaga che coinvolge le donne e i loro bambini, come accade al figlio di Butterfly. «Che è un diverso. Ha connotati europei e orientali. Cresce accanto a una mamma vilipesa per poi essere portato via. Ho visto dei documentari della Bbc che ritraggono con precisione il fenomeno, i matrimoni finti, il mercato delle ragazze povere. Una tragedia legata al potere che opprime e distrugge la femminilità. Ed è per questo che l'ho ambientata in un'anonima periferia orientale dove tutto è in vendita». Il giorno della Festa della donna, l'8 marzo, debutta alla Scala la sua nuova produzione, Salome, di Strauss, diretta dal Maestro Chailly. «Lei è vittima e carnefice. Orfana, cresciuta da una madre che ha sposato il cognato, la giovane donna è una sorta di Amleto allo specchio. Il Profeta che le parla è il fantasma shakespeariano, portatore di verità difficili da sostenere. Salome, che arriva a corte come un trofeo offerto dalla madre al suo consorte, finisce per subire gli abusi del patrigno. La danza dei veli altro non è che la pretesa di Erode di possedere la vergine. Che manderà a morte, quando diventerà inadeguata ai suoi disegni. Uccisa da una famiglia dove non c'è umanità, come quella di Luisa Miller». L'eroina di Verdi arriverà a Roma a maggio. «Per lei ho costruito un allestimento di simmetrie. Sia Luisa, sia Rodolfo, suo spasimante, sono figli di genitori che impongono il loro modello. E il rapporto tra i giovani finisce in tragedia perché straziato dalle famiglie». La famiglia, male necessario. Lei è anche un padre: «Un ruolo molto complicato. Ci si arriva impreparati. Mi spaventa, ma è il ruolo più appassionante della mia vita».
Carabiniere scrive «vaffa…» su Facebook in difesa di Mattarella: condannato a risarcire 2 mila euro. Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandro Vinci. Gli utenti più litigiosi dei social sono avvisati: il «vaffa…» gratuito non è tollerabile dalla legge, perfino se espresso in difesa del capo dello Stato. Lo ha stabilito il Tribunale di Roma con la sentenza 2875 del 10 febbraio scorso. La vicenda risale al 28 maggio 2018, giorno in cui il presidente Mattarella, dopo tre mesi di stallo post-elettorale, conferisce a Carlo Cottarelli l’incarico di formare un nuovo governo. Evidentemente contrariato, un avvocato e professore universitario si sfoga con un lungo post su Facebook , accusando tra le altre cose il titolare del Quirinale di aver «violato la Costituzione», «minato le fondamenta della Repubblica», «negato le radici della democrazia» e di essere «contro il popolo italiano e contro i poveri». Fin dal primo istante, come si legge nella sentenza, il messaggio innesca «una serie di reazioni, ora di mero gradimento, ora di condivisione e violenta manifestazione di odio nei riguardi del Presidente della Repubblica». Un carabiniere però non è d’accordo: «Ma vaffa… – risponde –. Tu non sei nemmeno degno di leccare i piedi a Mattarella. E se scendi in piazza ci sarò anche io, ma dall’altra parte». Parole giudicate dal destinatario «diffamatorie sul piano personale e professionale, nonché apertamente minacciose». Da qui la querela, con conseguente richiesta di danni morali e alla reputazione. Ebbene, a oltre due anni e mezzo dall’accaduto, il giudice monocratico Cecilia Pratesi ha stabilito che il carabiniere dovrà ora corrispondere 2 mila euro all’autore del post a titolo di risarcimento per il «momentaneo disagio che consegue al vedersi rivolgere una parola scorretta». La chiave sta tutta nel definire i confini oltre i quali la critica politica tracima nell’ingiuria o nella diffamazione. In questo senso, il Tribunale ha ritenuto che la volgarità sopra citata, «per quanto sdoganata da un utilizzo diffuso», conservi «una valenza obiettivamente denigratoria, quantomeno se utilizzata in risposta ad affermazioni di tutt’altro tenore linguistico ed al di fuori di contesti giocosi o di veri e propri scontri verbali». Poco importa dunque che l’espressione sia stata scritta per schierarsi dalla parte del Presidente della Repubblica. Quanto al resto del commento, il giudice non ha ravvisato nulla di censurabile. «Tu non sei nemmeno degno di leccare i piedi a Mattarella» è stato infatti considerato «un giudizio valoriale e comparativo (…) del tutto coerente» con il tenore delle critiche che l’avvocato aveva rivolto al Capo dello Stato. Mentre «se scendi in piazza ci sarò anch’io, ma dall’altra parte», sempre secondo la sentenza, «non rappresenta in assoluto una denigrazione e non evoca in alcun modo uno scenario violento, ma prospetta la visualizzazione di una contrapposizione di pensiero e di intenti, senza che vi si possa ravvisare alcun collegamento, neppure implicito, con l’appartenenza del commentatore all’Arma dei Carabinieri». Confronto politico (anche estremamente acceso) sì; offesa personale no. Questo, di fatto, il nocciolo della sentenza 2875. Ciò detto, il giudice ha comunque lasciato intendere come vi possano essere diversi gradi e sfumature, affermando che il «vaffa…» in oggetto ha «varcato appena quella soglia minima di rilevanza (o se si vuole di tolleranza) oltre la quale il pregiudizio diviene risarcibile». Tanto più se a riceverlo è stata «una vittima che vanta un curriculum personale e professionale di rilievo quale è quello esposto e documentato dall’attore». Ad ogni modo, il consiglio resta quello di lasciar sbollire la rabbia. Non ne va soltanto del rispetto della netiquette ma, oggi più che mai, anche della salute del vostro portafoglio.
Andrea Federica de Cesco per corriere.it il 19 febbraio 2020. La storia di Cigarruista, giornalista panamense di 50 anni , è quella di un uomo perseguitato dal proprio nome. Il padre ebbe infatti la bizzarra idea di chiamarlo come uno degli uomini più odiati al mondo, Hitler. «Voleva dimostrare che può esistere un Hitler buono», ha spiegato a El País il direttore de El Capital Financiero . Il cinquantenne non sa dire se è stato all’altezza delle aspettative paterne ma di sicuro quel nome infame gli ha causato parecchie seccature. «Qualche volta ho pensato di cambiarlo. Per mio padre non sarebbe un problema», ha commentato lui. «Ma costerebbe parecchio rifare tutti i diplomi e i documenti». Il nome con cui è stato registrato all’anagrafe (quello di battesimo invece è José Hitler, dal momento che il prete si rifiutò di mettergli come primo nome lo stesso del leader nazista ) si è rivelato un problema anche per quanto riguarda l’iscrizione ad alcuni social network. Con LinkedIn e Twitter non ci sono state difficoltà. La prima piattaforma vieta l’utilizzo di «nomi falsi o inappropriati», mentre la seconda proibisce «espressioni di odio verso persone, gruppi o categorie protette». Nonostante ciò, il sostantivo Hitler non ha fatto scattare campanelli d’allarme. Facebook , che non consente di utilizzare come nome «parole offensive o allusive», non ha invece permesso al giornalista di iscriversi col proprio nome anagrafico . «Ho accettato la cosa e ho usato quello di mio figlio, Carlos», ha detto Cigarruista. «Giornalisti che mi conoscono da sempre hanno iniziato a prendermi in giro. “Ciao Carlos!”, mi dicono. Ridono di me perché non posso usare il mio nome su Facebook», racconta il cinquantenne. E dal momento che a Panama è tradizione dare al primogenito il nome del padre, anche nella scuola del figlio lo chiamano Carlos . Ma lui si è guardato bene dal chiarire l’equivoco. In Germania, dove gli capita di andare abbastanza spesso, si limitano a fargli qualche domanda: «Ricordo la prima volta che ci sono stato: la donna dell’ufficio doganale è rimasta stupefatta quando ha aperto il mio passaporto. Ha chiamato diversi colleghi, che — sorpresi e divertiti — mi hanno chiesto se fosse davvero il mio nome». Il giornalista recentemente ha visitato l’ambasciata israeliana a Panama per celebrarne l’anniversario, ma ancora non ha osato andare in Israele : «So che è un tema sensibile, non mi faccio illusioni». Tornando alle complicazioni online di Cigarruista, anche creare un account Gmail col proprio nome è risultato impossibile . Il servizio di posta elettronica di Google impedisce di registrarsi con «parole degradanti o insulti». E il cinquantenne ha avuto poi rogne con un’impiegata di Google: la multinazionale prevede dei filtri nei messaggi di posta elettronica. «La donna, che doveva invitarmi a un evento, mi ha spiegato che quando provava a inviarmi un’email contenente il mio nome il messaggio le tornava indietro, perché secondo i parametri dell’azienda utilizzando il termine Hitler mi stava bullizzando». Alla fine è stato necessario ricorrere agli articoli del giornalista pubblicati su El Capital Financiero per dimostrare che Hitler Cigarruista era una persona reale.
L’intervento della madre. Il giornalista è abituato agli svantaggi del proprio nome. «La gente mi guarda come se lo avessi scelto io oppure pensa che i miei genitori fossero dei fascisti», ha raccontato il cinquantenne. «Ho detto a mio padre che ha commesso un errore a chiamarmi così, perché non aveva idea di che razza di mostruosità è stato il nazismo . Ma se fosse stata una questione ideologica avrebbe messo dei nomi tedeschi anche ai miei fratelli (che si chiamano Siria Araí e Andrés Avelino, ndr )». Certo, l’intervento della madre fu provvidenziale . «Quando nacque mio fratello disse a mio padre che se avesse chiamato in modo strano anche a lui avrebbe distrutto il certificato dell’anagrafe e avrebbe registrato il bambino con un altro nome e il proprio cognome». Tuttavia chiamarsi Hitler ha anche un vantaggio; l’unico, probabilmente. « Nessuno si dimentica del mio nome. Diverse persone a distanza di 20 anni si ricordano di me. Questo non succede con un Pedro qualunque».
Spettacoli.tiscali.it il 13 febbraio 2020. Scoppia la tempesta attorno alla puntata di Settimana Ventura, il nuovo show condotto da Simona Ventura su Rai 2 la domenica mattina, in particolare sulla frase di Adriano Aragozzini, ospite in studio ed ex patròn del Festival di Sanremo dal 1989 al 1991. Aragozzini ha detto: "Io ho portato il primo artista down a Sanremo, Pierangelo Bertoli". Naturalmente non è offensivo essere definiti down, a meno che non lo si faccia con disprezzo. Ma Bertoli, scomparso nel 2002, aveva la poliomelite, non la Sindrome di Down". Da questo, le proteste del figlio di Pierangelo Bertoli. Alberto Bertoli, figlio di Pierangelo, ha scritto: "La cosa forse più brutta che Aragozzini ha fatto è inserire nell'elenco che stava facendo, mio padre come una categoria: c'è stato il melodico, il cantautore e l'handicappato, il fenomeno da baraccone che già è grave ma inoltre lo identifica con la sua disabilità. Ovviamente non è un disonore essere down ma ci vuole il rispetto sia per l'essenza di una persona oltre sia per la sua disabilità". E non vanno certo confuse tra loro le patologie, specie senza contraddittorio in tv. Il membro del Cda Rai, Riccardo Laganà, ha solidarizzato con la famiglia Bertoli, protestando contro "ospiti ignoranti e conduttori non all'altezza del ruolo". Su questo tema si attende un ulteriore aggiornamento da parte del Consiglio di amministrazione della Rai.
L’ultima del politicamente corretto: niente attori bianchi! Stefano Varanelli, 31 gennaio 2020, su Nicolaporro.it. Un altro, straordinario, capitolo del suicidio etnico-culturale messo in atto dall’Occidente ci è offerto online dalla BBC, dove tal Hanna Flint, critica teatrale e cinematografica, ci annuncia soddisfatta che per gli sceneggiati storici con soli bianchi (All white period drama) è finalmente arrivata l’ora della fine. Intanto non sapevamo neanche che esistesse la categoria “sceneggiati storici con soli bianchi”. Per noi, fino a oggi, esistevano gli adattamenti televisivi o cinematografici dei romanzi di Charles Dickens, di Shakespeare o di Jane Austen. Essendo storie create e ambientate nella Gran Bretagna dei secoli passati, presumevamo che fosse del tutto normale che gli attori coinvolti rispecchiassero la demografia del periodo. E invece no. Un “David Copperfield” con un cast all white è oggi diventato “problematico”. Nei programmi della BBC è ormai tutto un fioccare di PoC (person of color) anche quando il soggetto è l’antica Roma. Abbiamo visto centurioni romani, Machiavelli e Achille tutti interpretati da attori di colore. Perché tutto ciò? Si ritiene forse che odierna l’audience multietnica si rispecchi meglio in un programma multietnico? Va detto però che i cittadini britannici di origine africana sono appena il 3% della popolazione. E chi ha deciso che siano oggi meglio serviti da una ricostruzione inesatta del passato del proprio paese? In realtà la ragione è piuttosto pedagogica. Si inseriscono PoC ovunque perché si vuole inculcare nell’audience (cioè nella popolazione bianca) l’abitudine alla diversità. Questa commistione tra intrattenimento e pedagogia delle masse dovrebbe, già di per sé, mettere in guardia uno spirito liberale. Come dovrebbe farlo anche l’attenzione eccessiva al colore delle persone. Ci sono però due ulteriori elementi che, personalmente, mi mandano in bestia. Il primo è l’assoluta differenza di trattamento quando invece è un bianco (la categoria demonizzata dalla sinistra “risvegliata”) ad appropriarsi di temi e ruoli che non gli appartengono (per valutazione degli stessi “risvegliati”). È il caso, ad esempio, di Scarlett Johansson attaccata per aver interpretato il maggiore Kusanagi di Ghost in the Shell, nonostante nell’anime stesso il personaggio non abbia tratti giapponesi e si tratti di un cyborg. L’attrice si è poi dovuta scusare pubblicamente per aver detto questa frase: “In quanto attrice, dovrei avere la possibilità di interpretare qualsiasi persona, albero o animale, perché questo è il mio lavoro”. Insomma se un bianco interpreta un cyborg in una società futuristica, apriti cielo. Niente da ridire invece sul Machiavelli africano. In realtà l’espressione più esatta sarebbe: “nessuno DEVE ridire”. E arriviamo così al secondo punto. Intellettuali come Hanna Flint liquidano con disprezzo quelli, come voi e me, che criticano queste scelte di casting come un eccesso del politicamente corretto. Siamo una “una minoranza vocale di critici da tastiera – scrive la Flint – completamente fuori strada… perché la Gran Bretagna è sempre stata multietnica”. Siamo di fronte ad un salto di qualità orwelliano quando un’ideologia come il politicamente corretto dimentica di essere tale e si convince di rappresentare veramente la realtà. In questa storia ribaltata, i cast multietnici di oggi riflettono veramente la realtà demografica dell’Europa del passato. Siamo noi (bianchi) ad aver successivamente rimosso la storia degli europei africani a causa del nostro razzismo. L’immagine di una Gran Bretagna in gran maggioranza “bianca”, sarebbe quindi falsa. A sostegno di questa tesi, la Flint cita a proposito una ricerca secondo cui nell’era Tudor ben 350 africani vivessero in Inghilterra. Sì, avete capito bene. Questi numeri, secondo queste persone, dimostrano che la Gran Bretagna (ma potrebbe essere la Francia o l’Italia) non è mai stata interamente bianca. Ci credono veramente? Poco importa. Sta di fatto che stiamo assistendo ad una preoccupante riscrittura orwelliana della nostra storia, solo che invece di cancellare i capi del partito caduti in disgrazia, li coloriamo un po’ più scuri. La distorsione, magari fatta a fin di “bene” nel nome dell’inclusività, diventa piano piano una verità dogmatica imposta dal sistema, e chi non è d’accordo diventa automaticamente un estremista di destra. La BBC pochi anni fa ha presentato un cartone animato sulla Britannia romana il cui il protagonista era un centurione nero e la sua famiglia. Chi ha fatto notare quanto fosse fuorviante far passare una evenienza possibile ma piuttosto straordinaria come un fatto comune, è stato sbeffeggiato e trattato come un ignorante (anche dai giornalisti italiani che hanno riportato la vicenda). L’ignoranza starebbe nel non sapere che l’impero romano comprendeva anche tutto il Nord Africa e quindi fosse pieno di “neri”… come se il Marocco, l’Egitto o la Tunisia avessero la stesse popolazioni dell’Africa subsahariana. Stefano Varanelli, 31 gennaio 2020
In difesa del politicamente scorretto. Andrea Indini il 19 gennaio 2020 su Il Giornale. Era nell’aria. Da qualche anno. I Simpson non avrebbero potuto resistere tanto a lungo sotto i colpi dei crociati del politicamente corretto. La prima testa a capitolare è quella di Apu Nahasapeemapetilon, o meglio quella di Hank Azaria, lo storico doppiatore del personaggio partorito dalla matita di Matt Groening. Già l’anno scorso, dopo le ripetute accuse di “stereotipare” gli indiani con connotati razzisti, era trapelata l’indiscrezione che il proprietario del minimarket di Springfield sarebbe saltato. Quella a cui assistiamo oggi è la triste vittoria dei cannibali della libertà di espressione. E a farne le spese è un cartone, il più longevo nella storia della televisione mondiale (con all’attivo anche un lungometraggio), che, nato progressista, finirà per essere il baluardo di noi conservatori che, checché ne dica la sinistra radical chic, sappiamo ancora farci quattro risate. Dei Simpson Apu non è il mio personaggio preferito. Non rientra nemmeno nella top ten. Doh! Prima di lui, manco a scriverlo, ci sono dei mostri sacri che hanno fatto la storia di questo cartone incredibile che ho iniziato a guardare tutti i pomeriggi quando tornavo a casa dal ginnasio. Homer, ovviamente, li batte tutti. Non solo per le battute taglienti che lo contraddistinguono, ma per quello che rappresenta. Quella condizione di middle class che, sotto sotto, fa parte un po’ di tutti noi: racchiusa in se stessa, a tratti egoista nel difendere lo status quo, dove quello che conta è far quadrare i problemi quotidiani con il lavoro e con la famiglia. È un personaggio semplice e, al tempo stesso, dalle mille sfaccettature e che vanta tutti i difetti che può avere un occidentale (americano o europeo che sia) sulla quarantina: divora tutto quello che può mangiare e trangugia qualsiasi boccale di birra Duff che Boe gli serve al bancone; è riottoso verso qualsiasi regola che gli complichi la vita (financo quando queste si limitano a stabilire come differenziare la pattumiera); si contraddice in continuazione e piega la realtà (e le idee) a suo uso e consumo; è velatamente razzista quando il diverso entra nel suo raggio d’azione, cambia alla velocità della luce qualsiasi convinzione (anche politica) se spinto dall’onda populista che ingrossa a una riunione scolastica o a un incontro con il sindaco Quimby. Vogliamo fermarci qui? Macché. Di Homer si può dire tutto il peggio. E ancora di più: non ha mai voglia di andare a lavorare e, appena può, cerca di fregare la centrale nucleare dove ricopre un ruolo (qui altro capolavoro della narrazione) fondamentale, quello legato alla sicurezza. Le regole, come abbiamo detto, lo annoiano: se può cerca una scappatoia (persino la Messa della domenica è considerata un noioso ostacolo da evitare). È anche un pessimo padre (mette le mani addosso a Bart, è annoiato dalle passioni di Lisa e a volte non si ricorda nemmeno il nome della terza figlia, Meggie) ed è, se possibile, anche un marito peggiore (la moglie Marge è fondamentale quando gli prepara le costolette o la sera quando ha voglia di sesso, sempre che non sia troppo ubriaco per farlo). Insomma, dice e fa tutto quello che buona parte di noi si limita a pensare per non incorrere nel tribunale del politicamente corretto. Ma attenzione! Questo violentissimo ritratto della classe media americana è, a mio avviso, un epico elogio di qualcosa che stiamo perdendo, a poco a poco: la famiglia. Perché, a fronte di tutti questi aspetti negativi, i Simpson ripartono sempre da lì: da loro cinque, inossidabili e in fondo sempre e comunque incollati da un legame che la nostra società occidentale sta cercando di fare a pezzi. Tanto che, con il passare delle puntate e della stagioni, i progressisti hanno iniziato ad accusare Groening di non essere abbastanza progressista. Niente divorzi, niente famiglie arcobaleno, niente battaglie da nuovo millennio. La società si è “evoluta” e non basta più fare a pezzi quel sogno americano che ne ha posto le fondamenta ma bisogna demolire quel lego fondamentale che nonostante tutto tiene ancora duro. La famiglia, appunto. Il bello dei Simpson è che ti fa digerire l’errore quotidiano. Perché, se tutti noi siamo come Homer, allora ci è sempre data la possibilità di sbagliare e rialzarci, cambiare idea come si cambia una maglietta sporca e sentirci comunque intransigenti quando ci guardiamo allo specchio, e soprattutto sentirci al centro dell’universo pur nuotando in un mare di sette miliardi di pesciolini impazziti. Il tutto – e qui sta il capolavoro del politicamente scorretto del cartone – ancorandoci (ancora una volta) alle quattro mura domestiche. I progressisti se ne facciano una ragione e, una volta tanto, imparino dal popolino un lusso gratuito: farsi una risata su questa vita amara.
Marco Giusti per Dagospia il 19 gennaio 2020. Intanto un film che inizia con “I Want to Hold Your Hand” dei Beatles in tedesco (Komm, gib mir deine Hand) e chiude con “Heroes” di David Bowie sempre in tedesco (Helden), non può che farci piangere. Come se non bastassero, sentiamo anche “I Don’t Want Grow Up” di Tom Waits e “Mama” di Roy Orbison. Quanto alla stravaganza dell’idea, quella di costruire un film, appunto questo Jojo Rabbit, sei nomination all’Oscar meritatissime, su un bambino di 10 anni, il piccolo Jojo, interpretato da Roman Griffin Davis, cresciuto nella Germania nazista come piccolo Hitler Jugend che ha come amico immaginario Adolf Hitler, diciamo che non sarà tipico humour ebreo, ma forse tipico humour maori-ebreo, perché il regista, Taika Waititi, celebrato per il fracassone Thor:Ragnarok, ma anche per i suoi primi e più stravaganti film girati in Nuova Zelanda, qui anche sceneggiatore e attore nel ruolo di Adolf Hitler, è appunto di padre maori e di mamma ebrea. Di fatto tutto il film è pieno di amore per la mamma del piccolo Jojo, interpretata da un’incantevole Scarlett Johansson, già pronta per l’Oscar, con le sue scarpette bianche e marroni e il suo buffo cappellino. Siamo in una non meglio identificata cittadina tedesca nel 1944, coi tedeschi che già sanno di perdere la guerra e russi e americani ormai alle porte. Jojo si prepara alla guerra con altri bambini agli ordini di un capitano con un occhio solo non particolarmente convinto, il grande Sam Rockwell, aiutato da una specie di aiutante non meno sballato, l’Alfie Allen di Game of Thrones. La mamma di Jojo, dovendo crescere il figlio da sola, visto che il padre, partito per la guerra in Italia, è scomparso, non si sa se è morto o passato dall’altra parte, cerca di barcamenarsi con i nazisti del posto, anche se poi nasconde una giovane ragazza ebrea, Thomasine McKenzie, in casa, nascosta nella camera della figlia, morta non si capisce come né quando. Quando Jojo incontrerà la ragazza, che non può denunciare perché arresterebbero subito sua mamma, inizierà a ragionare. Il tutto mentre le cose vanno terribilmente peggiorando e i suoi dialoghi con l’Hitler immaginario si fanno sempre più complessi. Non è un film facile e non potrà piacere a tutti, ma se entrate dentro al tipo di umorismo beffardo e amaro di Taika Waititi, diciamo un po’ alla Wes Anderson, ma anche alla Mel Brooks, che infatti è fan del film, ve ne innamorerete. Perché tutti i personaggi, dal piccolo Jojo, nella realtà figlio di Ben Davis, direttore della fotografia dei Guardiani della Galassia, alla ragazza ebrea di Thomasine McKenzie, da Sam Rockwell alla buffa nazista ottusa di Rebel Wilson sono costruiti benissimo, per non parlare dell’Adolf Hitler da fumetto di Taika Waititi e di Scarlett Johansson che ha sulle spalle tutta l’umanità e l’amore materno del film. Già in sala.
Un asterisco tra le parole uomo e donna. Francesco Maria Del Vigo, Sabato 11/01/2020, su Il Giornale. No, gli asterischi qui accanto non sono un refuso. Anzi, sono la nuova stella dei talebani dei diritti civili, che si infiltrano anche nel dizionario e vorrebbero sovvertire pure la grammatica. Si chiama «asterisco di genere». E non è un’invenzione di oggi, esiste da anni. Ma, grazie ai social, è sempre più diffuso. Si sa, nell’elaborare maiuscole scemenze gli intellettuali radical sono dei pionieri. L’asterisco al posto della vocale finale servirebbe - secondo la Treccani -, a evitare l’uso del maschile indifferenziato. Il «maschile indifferenziato», pericolosissimo nemico delle donne. Roba da telefono rosa. Eppure è questa l’ultima ossessione di chi ci vuole fluidi, senza sesso, senza genere: con la scusa del diverso distruggono le identità. Quindi, brutti maschilisti, non dovete più dire: «Cari ragazzi, studiate di più»; ma invece: «Car* ragazz*, studiate di più». Non sia mai che le ragazze si offendano. Il primo cittadino sarebbe meglio chiamarlo sindac*, guai a farne trapelare il sesso. Anche se non ha né senso né suono e dunque non lo si può nemmeno leggere. Magari ci costringeranno a scrivere così anche i giornali e i nostri nomi. Tra duecento anni, quando studieranno le epiche gesta di Luig* Di Maio, non capiranno mai se sia stato un uomo o una donna: Luigi o Luigia? Una bella ca**ata. E scusate gli asterischi.
Da liberoquotidiano.it il 16 gennaio 2020. Sanremo fa ancora parlare di sé. Questa volta il conduttore Amadeus ha inglobato, tra i vari cantanti, anche lui: Junior Cally, il giovane rapper romano. Il "No grazie" della canzone - spiega Il Corriere - è la sua risposta al populismo. "La politica ormai sta su internet e i populisti sono quelli che vorrebbero risolvere i grandi problemi con i video su Tik Tok e le soluzioni buttate lì. Le soluzioni si cercano studiando. In un passaggio parlo di razzismo e mojito e di qualcuno che da sconfitto ricrea un partito presentando cose vecchie sotto una nuova veste". Un chiaro riferimento a Matteo Salvini e Matteo Renzi: "È abbastanza chiaro. La politica ormai è attenzione ai social e voglia di apparire, assecondo i meme con le rime". Restano fuori dalla sua protesta canora 5 stelle e Sardine, che però assicura: "Non mi rappresenta nessuno ma non trovo giusto dire 'non me ne frega nulla della politica".
Massimo Falcioni per tvblog.it il 18 gennaio 2020. Rivoluzionario, corrosivo, dissacrante. Vent’anni fa Rai 2 lanciava Libero, programma che avrebbe cambiato per sempre la seconda serata e l’intero intrattenimento televisivo. Studio circolare, pubblico posizionato come in un’arena e sabbia depositata a terra. “Mi piaceva l’idea di uno show a piedi scalzi, volevo un clima da combattimento di galli, con sporcizia dappertutto”, rivela a TvBlog Giovanni Benincasa, autore di mille trasmissioni che seguì Libero fin dal suo concepimento. L’esordio in tv avvenne il 27 gennaio del 2000, ma il programma prese corpo molto prima al teatro San Genesio di Roma, dove venne realizzato il numero zero. “Credo fosse la fine del 1998 – ricorda Benincasa – come ospiti parteciparono Nino Frassica e Nino D’Angelo. Al termine della registrazione erano tutti disperati: "Cosa abbiamo fatto? E' troppo violento, non ce lo faranno mai fare". Io invece ero soddisfatto. Mandai il materiale a Freccero in seguito a vari rifiuti di altri. Vide i primi tre minuti e ne rimase entusiasta”. Al timone ci fu fin dal principio Teo Mammucari. Nessun dubbio sulla sua scelta, troppo perfetto per quel ruolo di massacratore. “Ero pazzo di lui, il programma nacque per Mammucari. Era un Van Gogh dello scherzo, un maledetto. Lo scoprii in un piccolissimo teatro romano durante la selezione di giovani comici. Chiesi ad un amico di farmi delle riprese all’interno di alcuni cabaret. Quando mi portò il vhs, mi accorsi che i partecipanti erano di gran lunga meno forti di chi li presentava. Si trattava di Teo. Andai a vederlo di nascosto, fu una folgorazione. Io e te potremmo fare grandi cose, gli dissi. Diventammo amici e cominciammo a collaborare. Lo ingaggiai per Gli esami non finiscono mai, programma nel quale personaggi famosi e non ripetevano gli esami di maturità con professori veri. Ci inserii anche Mammucari, che realizzò una supercazzola d’esame irresistibile”. Il passaggio a Libero però non avvenne automaticamente. “Volevo proporre Teo come moderatore in un programma sulle riunioni di condominio nei palazzi più infuocati d’Italia. Il direttore di Rai 3 era Giovanni Minoli, che accettò, ma proprio mentre stavo lavorando al progetto andò a Stream e rimanemmo senza editore. Mammucari ci rimase malissimo e quando gli venne offerta l’opportunità de Le Iene, la accettò. Mi arrabbiai molto”. Uno scoglio che non impedì di ritrovarsi qualche tempo dopo, con Benincasa che sfilò la carta vincente dal mazzo. “Mi venne in mente questa roba degli scherzi telefonici passivi. A Libero aspettavamo la chiamata, non eravamo noi a farla, tranne qualche eccezione. I telefoni sul tavolo squillavano in base agli annunci che pubblicavamo sui vari quotidiani o sui bigliettini che lasciavamo sulle auto o all’università”.
Come vi organizzavate?
“Inventavamo l’annuncio, tipo vendesi appartamento, chiamare dopo le 21. Quando accendevamo le telecamere già sapevamo che avremmo potuto ricevere le chiamate in quella fascia oraria. Nel pomeriggio i redattori erano impegnati a rispondere ai primi curiosi. Qualcuno ci provava, ma la replica era sempre la stessa: no, guardi, mio padre torna per cena, riprovi stasera”.
Le registrazioni andavano per le lunghe?
“Duravano circa tre ore e si andava in onda dopo diversi giorni. C’era un grande lavoro di post-produzione, il montaggio era meticoloso, maniacale. Registravamo al teatro dell’Angelo, lo stesso dove fecero 'Satyricon' di Luttazzi l’anno successivo. Dopo qualche mese le richieste di partecipazione del pubblico erano talmente tante che non c’era più posto in studio. Il successo ci scoppiò in mano, fu impressionante”.
Vi inventaste persino un corpo di ballo di soli anziani.
“L’illuminazione mi venne durante un balletto all’interno di Carramba. Continuavo a ripetermi pensa cosa accadrebbe se adesso al posto delle ballerine apparissero dei vecchi. Se le idee mi restano a galla a distanza di mesi vuol dire che sono buone. Feci un casting, li scelsi personalmente uno per uno”.
Nel 2001 Mammucari passò il testimone a Paola Cortellesi. Come fu scelta?
“Non potevamo sostituire Teo con un altro uomo, il confronto sarebbe stato troppo forte e devastante. Allora scelsi una donna, con l’aiuto di Fabio di Iorio. La Cortellesi fece un programma bellissimo, raffinato, meno violento ma allo stesso tempo molto divertente”.
Durò solo un’edizione, perché poi tornò Mammucari.
“Sì. La sua ultima edizione nel 2004 fu trionfale, a partire dalla sigla ‘Nando’ che diventò un tormentone. Luciano (il suo vero nome, ndr) era un bidello di Ostia amico di Teo”.
Impossibile non parlare di Flavia Vento. L’idea di piazzarla sotto al tavolo come vi venne?
“Mancavano due giorni alla prima puntata e mi avevano sbagliato le misure del cilindro in plexiglass. In origine volevo collocarci vecchi telefoni, tastiere, fili, ma era troppo grande. Ero furioso, casualmente vidi Flavia seduta sugli spalti e le chiesi di entrare là dentro. Realizzammo i fori per farla respirare e andammo in onda così”.
Nel 2006 l’ennesima rivoluzione: alla conduzione arrivò Alessandro Siani e lo show venne promosso in prima serata.
“Volevano fare Libero in prima serata, ma quel programma era nato in seconda serata e lì sarebbe dovuto restare, sia per il tipo di linguaggio che di pubblico. Siani in realtà avrebbe dovuto condurre un altro programma intitolato Boato. Consisteva nell’intrattenere gli spettatori in alcuni stadi durante l’intervallo e al termine delle partite. Sarebbe stato perfetto. Rai 2 alla fine preferì puntare su Libero, si sentivano più tranquilli e sicuri. Non andò bene, sbagliammo una serie di mosse. Quando un programma è cucito su misura per una persona, non sta bene addosso ad un altro”.
Siani venne sostituito da Max Giusti.
“Non fu colpa di Alessandro, mi dispiacque tanto. Fu colpa mia. Siani si può non amare, ma la sua bravura è indiscutibile. Al cinema ha avuto un successo enorme, quindi in parte avevo ragione anche io. Era semplicemente sbagliato il programma. Per quel che riguarda Giusti, Libero a quel punto divenne un’altra cosa. Divertente, ma un’altra cosa”.
Riproporre il programma oggi sarebbe possibile?
“E’ cambiato il mondo. Non esistono quasi più i telefoni fissi, ci sono i social. Andrebbe contemporaneizzato. Sarebbe inoltre improponibile un appuntamento settimanale, occorrerebbe una striscia quotidiana. Oggi l’attesa di una settimana in televisione equivale ad un secolo. La tv è fatta di quotidianità, ora più che mai. C’è un’enorme dispersione, avresti bisogno di almeno tre puntate settimanali per fidelizzare il pubblico. Il filone degli scherzi forse ha rotto, ma con Teo si potrebbero fare altre cose strepitose, è uno dei più forti sparigliatori sul palco”.
Cosa gli farebbe fare?
“Un programma dedicato all’amore. Sì, Mammucari che massacra l’amore. Sarebbe meraviglioso”.
Junior Cally, un nuovo caso a Sanremo. Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Renato Franco. E meno male che doveva essere un Sanremo «all’insegna della donna». Dopo l’uscita infelice («il passo indietro») di Amadeus alla presentazione delle sue 10 compagne di palco, arriva chi lo supera a destra facendo di peggio, ovvero il rapper Junior Cally in gara tra i Big del Festival. Perché se nella canzone che presenterà all’Ariston (No grazie) si occuperà di politica (contro il populismo, contro Salvini e Renzi), è il suo passato a far rabbrividire per i testi in cui la donna viene vilipesa e umiliata. In Strega (brano del 2017) Junior Cally cantava: «Lei si chiama Gioia / balla mezza nuda, dopo te la dà / Si chiama Gioia perché fa la tro.. / L’ho ammazzata, le ho strappato la borsa / c’ho rivestito la maschera». Il video aggiungeva immagini alle parole: Gioia legata a una sedia con un sacco in testa mentre cerca inutilmente di liberarsi. A denunciare il rapper è il blog di Marco Brusati, professore a contratto (di area cattolica) dell’Università degli Studi di Firenze. Che sottolinea, «qui abbiamo la rappresentazione di una costrizione violenta e il racconto di un femminicidio»Gli fa eco Laura Moschini, cofondatrice dell’Osservatorio di genere della Università Roma Tre. Moschini - come ha informato lei stessa sul suo profilo Facebook - ha inviato una segnalazione alla commissione di Vigilanza Rai, chiedendo di non far partecipare il cantante al prossimo Sanremo. Appello subito condiviso dalle donne del Pd: «Condividiamo totalmente questo giudizio e l’appello che giriamo al Presidente della Rai, all’Ad Salini, alla Commissione Parità Rai al Parlamento e alle Autorità preposte». Ma non si tratta di un unicum nel repertorio di Junior Cally perché «troviamo che la donna è rappresentata come oggetto di piacere o come trofeo tribale». Una donna verso cui rivolgere appetiti sessuali. Come in Regola 1 dove immagina di sottomettere Giusy Ferreri (la cantante), Greta Menchi (l’influencer), Elisabetta Canalis (l’ex velina). Altre frasi invece rientrano nel body shaming come quando canta «questa tipa, una balena» (in Cally Whale); oppure quando per insultare i rapper avversari li chiama «senza tette» (sempre da Regola 1), come se il valore di una donna si stabilisse in base alle sue misure. Junior Cally — all’anagrafe Antonio Signore, 28 anni, romano — replica alle accuse attraverso una nota stampa. Premette: «La posizione dell’artista è contro il sessismo, i passi avanti o indietro, e contro la violenza sulle donne». Poi riflette sullo stato dell’arte: «Lungi da Junior Cally scomodare i grandi nomi del cinema, della letteratura e della storia dell’arte, da Tarantino e Kubrick, da Gomorra a Caravaggio e scrittori come Nabokov e Bret Easton Ellis: l’arte può avere un linguaggio esplicito e il rap, da sempre, fa grande uso di elementi narrativi di finzione e immaginazione che non rappresentano il pensiero dell’artista». Quindi cita cantanti che sono saliti sul palco dell’Ariston come Vasco Rossi («è andata a casa con il negro la tro...») e gli Afterhours («sei più bella vestita di lividi»). E altri che ci saranno anche quest’anno come Marco Masini («bella stronza, mi verrebbe di strapparti quei vestiti da putt... e tenerti a gambe aperte»); e Achille Lauro («l’amore è un po’ ossessione, un po’ possesso, carichi la pistola e poi ti sparo in testa»). O, ancora, chi è stato scelto dalla Rai tra i conduttori dell’Altro Festival come Myss Keta («toccami la gamba, passami la bamba, Jo sono la tua tro...»). Le conclusioni a cui arriva sono due: «O si accetta l’arte del rap, e probabilmente l’arte in generale, che deve essere libera di esprimersi, e si ride delle polemiche. Oppure si faccia del Festival di Sanremo un’ ipocrita vetrina del buonismo, lontana dalla realtà e succursale del Parlamento italiano».
Amadeus e le donne, lettera di 29 deputate: "Chieda scusa". La Repubblica il 19 gennaio 2020. Arriva in parlamento la polemica sulla conferenza stampa di presentazione di Sanremo 2020: Boldrini, Madia e altre parlamentari di tutti gli schieramenti scrivono a Salini. Sotto accusa anche il rapper Junior Cally. Arriva in parlamento la polemica sulle parole di Amadeus durante la conferenza stampa di lancio di Sanremo 2020: nel presentare le donne che lo accompagneranno sul palco dell'Ariston, il direttore artistico e conduttore del prossimo festival aveva sottolineato con eccessiva frequenza la bellezza delle sue colleghe, dando l'impressione che questa fosse l'unica qualità presa in considerazione nella scelta del cast, relegando la presenza femminile a un ruolo ancillare. Un atteggiamento che, rilanciato sui social, ha scatenato una vera e propria sollevazione dell'opinione pubblica. Ora 29 deputate di tutti gli schieramenti firmano una lettera in cui chiedono ad Amadeus di scusarsi pubblicamente. Le firmatarie, tra cui Boldrini e Madia (Pd), Muroni (Leu), Vita Martinciglio (M5S), Giannone (Misto), Baldini (Fratelli D'Italia), Lisa Noja (Italia Viva), lamentano inoltre "la presenza del rapper per ragazzini Junior Cally, i cui testi - come già evidenziato alla Rai da molte associazioni di donne - sono pieni di violenza, sessismo e misoginia". La lettera, indirizzata alla commissione di vigilanza sulla Rai, all'ad Salini, al cda di viale Mazzini e all'Usigrai, chiede al servizio pubblico radiotelevisivo di riaffermare il suo impegno "nella lotta alla violenza, alle discriminazioni e ai pregiudizi di genere".
Il testo della lettera. Le deputate dell'Intergruppo per le donne, i diritti e le pari opportunità stigmatizzano quanto affermato da Amadeus nel corso della conferenza stampa di presentazione del prossimo Festival di Sanremo. Risulta del tutto incomprensibile che - attraverso le parole del direttore artistico e conduttore della più importante manifestazione musicale del paese - il servizio televisivo pubblico promuova un modello diseducativo di donna bella e disposta a occupare ruoli di secondo piano per non fare ombra al proprio compagno famoso. È lo specchio di una cultura secondo cui la donna non deve avere meriti particolari, se non quello di essere di bell'aspetto e di saper stare "un passo indietro". E dispiace che, malgrado l'imbarazzo che immaginiamo - e speriamo - da loro stesse provato, le donne presenti alla conferenza stampa in qualità di co-conduttrici non abbiano preso le distanze, né durante né dopo. In aggiunta a tutto questo, poiché tra i cantanti in gara è prevista la presenza del rapper per ragazzini Junior Cally, i cui testi - come già evidenziato alla Rai da molte associazioni di donne - sono pieni di violenza, sessismo e misoginia, appare evidente che la direzione artistica del Festival di Sanremo 2020 sia in palese contrasto con il contratto di servizio della Rai, i cui principî generali prevedono di "superare gli stereotipi di genere, al fine di promuovere la parità e di rispettare l'immagine e la dignità della donna anche secondo il principio di non discriminazione", nonché la promozione e valorizzazione "delle pari opportunità, del rispetto della persona, della convivenza civile, del contrasto a ogni forma di violenza". Si richiede pertanto che, all'esordio del Festival, il direttore artistico e conduttore Amadeus si scusi pubblicamente e riaffermi l'impegno della Rai nella lotta alla violenza, alle discriminazioni e ai pregiudizi di genere.
Laura Boldrini, Veronica Giannone, Rossella Muroni, Flora Frate, Angela Schirò, Susanna Cenni, Silvia Benedetti, Lucia Ciampi, Fabiola Bologna, Vita Martinciglio, Valentina Barzotti, Paola Deiana, Giuseppina Occhionero, Vittoria Casa, Enza Bruno Bossio, Gilda Sportiello, Conny Giordano, Rosa Maria Di Giorgi, Yana Ehm, Marianna Madia, Paola Carinelli, Stefania Pezzopane, Lisa Noja, Marina Berlinghieri, Doriana Sarli, Chiara Gribaudo, Maria Teresa Baldini, Antonella Incerti, Carla Cantone
Giuseppe Candela per Dagospia il 20 gennaio 2020. Pippo Baudo esci dal corpo di Amadeus! Quando mancano due settimane al debutto della 70° edizione del Festival di Sanremo le polemiche continuano a occupare la scena mediatica per la gioia degli indignati di professione. "Ma non sarà troppo? C'è dietro altro?", ci si chiede tra gli addetti ai lavori. Non è un caso che sui social siano comparsi negli ultimi giorni numerosi tweet a sostegno del Festival e del direttore artistico da parte dei giornalisti, sintomo che la puzza di bruciato è diventata più forte. Puzza di manovre politiche. L'ultima polemica riguarda il rapper Junior Cally e un testo nel suo passato che fa discutere, accusato di incitare alla violenza sulle donne. Parole evidentemente imbarazzanti e non condivisibili, una lista di episodi simili ha coinvolto negli anni tanti suoi colleghi. Salvini si arrabbia, fa lo stesso la Santanché, perfino il presidente della Rai Marcello Foa: "Forte irritazione per scelta eticamente inaccettabile. Amadeus riporti il Festival nella giusta dimensione." Frasi che pesano ma che spostano il dibattito, appunto, sul fronte politico. La presenza di Junior Cally tra i big in gara viene annunciata il 31 dicembre, la polemica esplode solo 18 giorni dopo. Per essere precisi il giorno successivo all'ascolto dei brani in anteprima dei giornalisti, quando viene svelato un riferimento a Salvini nel brano "No grazie": "Spero che si capisca che odio il razzista che pensa al Paese ma è meglio il mojito". Perché Foa interviene solo dopo aver scoperto il riferimento a Salvini nella nuova canzone di Cally? Il rapper è assistito da Mn Comunicazioni, una società che gode della stima di Salini, finita nel mirino nelle scorse settimane quando era stata inizialmente scelta per l'ufficio stampa del Festival. Un modo dunque per colpire l'ad? I rapporti tra Salini e il presidente sono tesissimi da settimane ma c'è anche aggiunge un altro tassello. I maligni fanno sapere che il presidente Foa avrebbe molto apprezzato l'idea di avere in gara nomi di diversa appartenenza politica. Politica, dunque. Anche gli attacchi del PD, numerosi e insistenti su Amadeus per la frase "sul passo indietro" pronunciata in sala stampa da Amadeus, avrebbero come principale obiettivo Fabrizio Salini. La sua colpa? Aver cacciato solo la De Santis e non aver concesso alla maggioranza le nomine dei telegiornali. Una mossa che il partito di Zingaretti non avrebbe affatto gradito dimostrandolo con l'astensione di Rita Borioni in Cda e probabilmente puntando alla sua rimozione dal ruolo di amministratore delegato dopo le prossime elezioni Regionali del 26 novembre. Non sono solo canzonette.
Junior Cally a Sanremo, Foa: «Scelta eticamente inaccettabile». Esplode la polemica per la canzone del 2017 contro le donne. Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Renato Franco. Con riferimento all’annunciata partecipazione del rapper Junior Cally al Festival di Sanremo, il presidente della Rai, Marcello Foa, esprime «forte irritazione per scelte che vanno nella direzione opposta rispetto a quella auspicata». «Il Festival - dichiara il presidente della Rai -, tanto più in occasione del suo 70esimo anniversario, deve rappresentare un momento di condivisione di valori, di sano svago e di unione nazionale, nel rispetto del mandato di servizio pubblico. Scelte come quella di Junior Cally sono eticamente inaccettabili per la stragrande maggioranza degli italiani». E chiede che Amadeus sappia «riportare il festival nella sua giusta dimensione». In Strega (brano del 2017) Junior Cally cantava: «Lei si chiama Gioia / balla mezza nuda, dopo te la dà / Si chiama Gioia perché fa la tro.. / L’ho ammazzata, le ho strappato la borsa / c’ho rivestito la maschera». Il video aggiungeva immagini alle parole: Gioia legata a una sedia con un sacco in testa mentre cerca inutilmente di liberarsi. A denunciare il rapper è il blog di Marco Brusati, professore a contratto (di area cattolica) dell’Università degli Studi di Firenze. «Junior Cally? Uno che incita all’odio e alla violenza contro le donne. Per un anno ho lavorato con Giulia Bongiorno per far approvare il codice rosso. Oggi leggo che la Rai e il più importante festival della canzone italiana, usando denaro pubblico, sdoganano femminicidio e stupro. Non ho parole: mi auguro che questo tizio non metta mai piede sul palco di Sanremo». Così il leader della Lega Matteo Salvini, in una nota. All’esordio del Festival, il direttore artistico e conduttore Amadeus si «scusi pubblicamente e riaffermi l’impegno della Rai nella lotta alla violenza, alle discriminazioni e ai pregiudizi di genere». Lo chiedono le deputate dell’Intergruppo per le donne, i diritti e le pari opportunità che stigmatizzano quanto affermato da Amadeus nel corso della conferenza stampa di presentazione del prossimo Festival di Sanremo sulle donne e sulla presenza tra i cantanti in gara del rapper Junior Cally, i cui testi «come già evidenziato alla Rai da molte associazioni di donne, sono pieni di violenza, sessismo e misoginia»...
Junior Cally diventa un caso, Foa: "Eticamente inaccettabile". Pioggia di proteste contro Junior Cally a Sanremo. Marcello Foa reputa la sua partecipazione "eticamente inaccettabile" e tutti gli schieramenti politici si ribellano. Francesca Galici, Domenica 19/01/2020 su Il Giornale. La presenza del rapper Junior Cally sul palco del festival di Sanremo si è trasformato in un caso politico. Dopo la lettera delle 29 deputate di diverso schieramento e il messaggio social di Lucia Borgonzoni, supportata da Matteo Salvini, adesso a esprimere la sua opinione è Marcello Foa, direttore della Rai. La levata di proteste delle ultime ore nei confronti del cantante in gara dal prossimo 4 febbraio ha smosso anche il direttore della tv pubblica, che ha espresso "forte irritazione per scelte che vanno nella direzione opposta rispetto a quella auspicata." Marcello Foa ha ricordato come il festival di Sanremo, specialmente nell'edizione del suo 70° anniversario, dovrebbe essere un momento di aggregazione e di unione nazionale "nel rispetto del mandato di servizio pubblico." Il direttore della Rai ha tuonato contro il conduttore e contro la sua selezione di artisti, con particolare riferimento proprio a Junior Cally: "Scelte come quella di Junior Cally sono eticamente inaccettabili per la stragrande maggioranza degli italiani." Foa auspica che Amadeus, in qualità di direttore artistico e conduttore, sia capace di "riportare il festival nella sua giusta dimensione." L'uomo più in vista del momento in Rai gode di grande stima in azienda, come sottolinea il direttore, proprio per il suo temperamento mite e il buon senso finora dimostrato ma le polemiche che stanno piovendo sul festival di Sanremo si stanno facendo sempre più pesanti. Con il suo comunicato, Marcello Foa ha risposto alla lettera delle 29 deputate ma loro non sono state le uniche a esporsi pubblicamente contro la presenza del rapper sul palco del Teatro Ariston. Sono molti gli esponenti politici che nelle ultime ore hanno fatto sentire la loro voce e molti di loro hanno invocato l'intervento della Vigilanza Rai, e non solo. "Chi predica in maniera esplicita e orgogliosa stupro e femminicidio non merita il palco dell'Ariston. Oggi presenteremo al presidente della commissione di Vigilanza Rai, Alberto Barachini, una richiesta formale di intervento", hanno scritto in una nota i componenti del gruppo Lega in Vigilanza Rai, che hanno fatto seguito alle parole di Matteo Salvini in merito alla questione: "Per un anno ho lavorato con Giulia Bongiorno per far approvare il Codice rosso. Oggi leggo che la Rai e il più importante festival della canzone italiana, usando denaro pubblico, sdoganano femminicidio e stupro. Non ho parole: mi auguro che questo tizio non metta mai piede sul palco di Sanremo." Anche Cinzia Leone, esponente in Senato del Movimento 5 Stelle, ha voluto dire la sua: "Ritengo che la RAI dovrebbe svolgere un ruolo importantissimo nel contrastare la violenza contro le donne. Ma quanto meno esigo possa evitare di fomentarla dando spazio a questi 'cantanti'. Ho ovviamente segnalato tutto con una comunicazione diretta alla Rai." Non ha risparmiato una critica nemmeno Lucio Malan, vice capogruppo di Forza Italia in Senato: "Coloro che si sono indignati per il presunto 'sessismo' di Amadeus dovrebbero dare un'occhiata ai messaggi che trasmette nei suoi brani Antonio Signore, in 'arte' Junior Cally, uno dei 22 big di Sanremo 2020." Dura anche la reazione dei capigruppo della Lega in Camera e Senato, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari, che puntano il dito contro la gestione Amadeus – Salini, colpevoli di una "gestione superficiale" dell'evento. E se da un lato Giulia Bongiorno, senatrice della Lega e presentatrice dell'emendamento sul "codice rosso" auspica che la Rai "non si renda complice di questa barbarie", Silvia Costa del Partito Democratico ritiene "inaccettabile la partecipazione a Sanremo di un cantante che utilizza frasi che sono una vera e propria incitazione alla violenza." Biasimo e sconcerto arrivano anche da Lorenzo Cesa dell'Udc: "Non possono essere abdicate scelte così importanti che influenzano i teenager del nostro Paese. Forse bisognerebbe toglierlo dalla competizione canora." Le senatrici di Fratelli d'Italia Isabella Rauti e Daniela Santanchè, invece, sottolineano la presunta incoerenza della linea del Festival: "Che senso ha portare tante donne ospiti a Sanremo, e sottolinearlo come un 'primato', se poi si fa salire sullo stesso palco un rapper che incita alla violenza sulle donne, allo stupro e al femminicidio?" Anche Codacons si dice pronto ad agire nel caso in cui "Junior Cally lancerà messaggi sbagliati, diseducativi o pericolosi dal palco dell'Ariston." Francesco Pasquali, esponente del Partito Liberale, dà invece un'altra lettura alla polemica: "Ha già vinto Cally. La sua presenza o meno ormai sarà secondaria. È stato un errore della politica fare da cassa di risonanza. Alle spalle è palese che ci siano delle strategie comunicative e propagandistiche per aumentare gli ascolti del Festival. La cosa grave è che un'azienda di Stato come la Rai adotti simili metodi, strumentalizzando il dramma del femminicidio portando sul podio esempi poco edificanti." A seguito della lunga lista di esponenti politici chi hanno già espresso la loro opinione e che probabilmente la esporranno nelle prossime ore, l'ufficio stampa del cantante è intervenuto cpn una nota: "Non capiamo se la polemica sia di carattere musicale o politica." Lo staff delcantante afferma che della partecipazione di Junior Cally si ha notizia dal 31 dicembre "e tutti i suoi testi sono disponibili sul web. Mentre del testo di 'No grazie' selezionato al Festival di Sanremo e delle sue rime antipopuliste si è venuti a conoscenza solo il 16 gennaio da un'intervista al Corriere della Sera. Il giorno dopo, per pura coincidenza, si accendono polemiche legate a canzoni pubblicate da anni in un età in cui Junior Cally era più giovane e le sue rime erano su temi diversi da quelli di oggi." L'ufficio stampa ci tiene a sottolineare che il cantante è contro ogni forma di sessismo e di violenza.
Sanremo, il centrodestra contro la Rai: "Junior Cally è indegno". Ancora bufera su Sanremo a pochi giorni dalla partenza: Lucia Borgonzoni si scaglia con violenza contro Junior Cally per i contenuti delle vecchie canzoni. Francesca Galici, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale. Festival di Sanremo fa rima con polemica. Ogni anno, la kermesse canora più importante del Paese scatena su di sé l'ira di qualcuno. Chi accetta di organizzare e condurre il Festival lo sa bene ed è preparato ma quest'anno Amadeus deve fare i conti con vibranti proteste che lo colpiscono da più parti, con accuse molto pesanti. L'ultima polemica riguarda uno dei cantanti in gara, il rapper Junior Cally. Amato dai più giovani e pressoché sconosciuto agli adulti, il cantante salirà sul palco dell'Ariston con il brano No Grazie, dove non mancheranno i riferimenti politici. Partecipando a Sanremo, Junior Cally ha accettato di mostrare definitivamente il suo volto, visto che fino a questo momento si era sempre esibito con una maschera che ne ha preservato l'anonimato. Tuttavia, la sua presenza non è gradita a causa di alcuni brani del passato violenti e sessisti. A scagliarsi (con decisione) contro il rapper ci sono anche Lucia Borgonzoni e Giulia Bongiorno. In un duro attacco su Facebook la candidata del centrodestra alle prossime elezioni in Emilia Romagna ha espresso con forza il proprio dissenso nei confronti del rapper e soprattutto nei confronti di chi gli ha concesso l'opportunità di calcare un palco così importante. "Non è Sanremo, è Sanschifo", ha titolato la candidata della Lega. Un lungo post che centra il punto sull'inadeguatezza dei messaggi trasmessi dal cantante con quelli che, invece, dovrebbe trasmettere un festival popolare come quello di Sanremo: "Uno schiaffo alle vittime e alle loro famiglie, al dolore, alle sofferenze inaudite delle donne sfregiate e violentate, un insulto senza precedenti a chi si è visto uccidere una figlia, una sorella, una compagna. Il 'cantante' Junior Cally sul palco di Sanremo è disgustoso. Uno che incita al femminicidio, allo stupro, alla violenza non può esibirsi tra i big del festival nazional popolare più famoso del Paese davanti a un pubblico di famiglie, giovani e bambini. È indegno." Nel suo lungo messaggio, Lucia Borgonzioni ha voluto denunciare il fatto come politico ma, prima di tutto, come donna, definendo "scempio" la presenza di Junior Cally a Sanremo. "Uno che canta 'l'ho ammazzata, le ho strappato la borsa. C'ho rivestito la maschera' mentre si muove davanti a una giovane ragazza legata mani e piedi a una sedia e con un sacchetto sulla testa, mentre cerca, inutilmente, di liberarsi non è arte. È schifo, violenza, aberrazione", ha tuonato la candidata concludendo il suo post, nel quale ha allegato un frame del video incriminato. Lucia Borgonzoni non è però l'unica a essersi indignata. Il quotidiano Repubblica ha pubblicato oggi una lunga lettera firmata da 29 deputate di ogni schieramento, nella quale viene analizzata sia la frase di Amadeus e sia la presenza di Junior Cally. "Appare evidente che la direzione artistica del Festival di Sanremo 2020 sia in palese contrasto con il contratto di servizio della Rai", scrivono le deputate, che hanno chiesto le scuse di Amadeus nella missiva, che ha avuto come destinatari la Commissione di Vigilanza Rai, l'amministratore delegato Salini, il cda Rai e l'Usigrai. Durissimo anche l'intervento di Giulia Bongiorno, presentatrice del "Codice Rosso" contro la violenza sulle donne. "Mi piacerebbe che Junior Cally, dopo essersi difeso dalle polemiche sul suo squallido brano sostenendo che l'arte è libertà di espressione rispondesse a tre semplici domande". Ed elenca: "Sa da dove nasce la violenza nei confronti delle donne? La sua mente è mai stata attraversata dal dubbio che rappresentare la donna come un oggetto significa far sentire l'uomo legittimato a fare del corpo della donna quello che vuole? È consapevole del fatto che facendo un uso distorto della sua libertà di esprimersi si fa complice di chi uccide le donne?". Da parte di chi usa i mezzi di comunicazione, la senatrice della Lega si aspetterebbe "maggior consapevolezza" del fatto che "la televisione amplifica qualunque messaggio". Per la Bongiorno, tentare di camuffare l'incitamento all'odio verso le donne con la "libertà di espressione artistica" è "un atteggiamento scorretto, vigliacco e meschino". "Usare il corpo delle donne per fare scalpore - più o meno consapevolmente - è qualcosa che non avrei mai immaginato di vedere, nemmeno nei momenti di maggiore sfiducia", continua l'esponente del Carroccio secondo cui non si tratta nemmeno di "èpater le bourgeois". "Qui si offendono gravemente le vittime di violenza e le loro famiglie, si svilisce l'impegno di chi si batte contro la violenza sulle donne, si calpesta la civiltà". Per la senatrice e avvocato "non è una questione politica, è una questione di umanità - conclude - la Rai, senza indugi, faccia la giusta scelta a e non si renda complice di questa barbarie". Su Facebook non ha mancato di far sentire la sua voce anche Matteo Salvini: "Junior Cally? Uno che incita all'odio e alla violenza contro le donne. Per un anno ho lavorato con Giulia Bongiorno per far approvare il codice rosso. Oggi leggo che la Rai e il più importante festival della canzone italiana, usando denaro pubblico, sdoganano femminicidio e stupro." La speranza di Matteo Salvini è solo una: "Non ho parole: mi auguro che questo tizio non metta mai piede sul palco di Sanremo." Poche ore dopo è arrivato anche il commento di Mariastella Gelmini, che con un tweet si è unita alla polemica del giorno dando la sua opinione sulla presenza di Junior Cally sul palco di Sanremo. "Cosa c'entra Junior Cally, che nelle sue canzoni incita al femminicidio e alla violenza sulle donne, al Festival di Sanremo? Vergogna... La Rai e Amadeus intervengano immediatamente. Questo strambo personaggio non deve assolutamente salire sul palco dell'Ariston", ha scritto il capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati.
Sanremo 2020, Michelle Hunziker stronca Amadeus: "Certe parole sulle donne diventano pesanti come macigni". Repubblica Tv il 20 gennaio 2020. Michelle Hunziker in un video su Instagram critica la conferenza stampa con cui Amadeus ha presentato il Festival di Sanremo 2020. "Sarebbe stato veramente bello vedere che un appuntamento mediatico così importante come il festival di Sanremo avesse una particolare sensibilità le donne. E invece no. Cioè, quello che dovrebbe essere naturale, per chi ha in mano il Festival della canzone italiana, non lo è. E proprio nel 70mo compleanno del festival di Sanremo non hanno prestato attenzione e sensibilità verso un tema così importante: il nostro futuro. Anche perché certe parole, dette con superficialità, possono diventare pesanti come macigni, soprattutto se dette in una conferenza stampa davanti a tutto il paese". Queste le parole della conduttrice tv, sul palco dell'Ariston nel 2018, che insieme a Giulia Bongiorno ha dato vita alla onlus Doppia Difesa in difesa delle donne.
(ANSA il 20 gennaio 2020) - Monica Bellucci dice no al festival di Sanremo. Attraverso il suo ufficio stampa l'attrice dichiara: "Il signor Amadeus ed io ci siamo incontrati mesi fa ipotizzando un progetto insieme. Purtroppo per cause maggiori non siamo riusciti nel nostro fine. Auguro un bel Festival a lui e al suo team e spero in un'altra possibilità nel futuro". Secondo quanto si apprende il forfait della Bellucci non sarebbe da collegare alle polemiche sul festival di questi giorni, né a incomprensioni sul suo cachet.
Michelle Hunziker. Ho pensato molto a quello che è successo in questi giorni... per fortuna siamo in tanti a cercare di invertire una cultura sbagliata rispetto alla percezione che hanno le donne in questo paese... ma evidentemente non basta. Avanti tutta!! #sanremo2020
Selvaggia Lucarelli. Hunziker fa la ramanzina ad Amadeus perché maschilista. Qui intanto sono 2 anni che ho chiesto i bilanci di Doppia Difesa e non se ne vede l’ombra. Sarebbe corretto continuare a parlare di questi temi avendo prima chiarito l’attività della sua fondazione.
Mattia Buonocore. Michelle Hunziker si dissocia da Amadeus ma non da Muccino (che lei ha ospitato sul palco dell'Ariston). Quest'ultimo poteva essere pure innocente ma se tu sei a sostegno delle donne, conosci le loro storie di violenza, e c'è una donna che lo accusa quanto meno ne stai fuori.
Giuseppe Candela. Dai Michelle, tra colleghi è sgradevole. Il tono, il gobbo che legge mentre parla. Due riflessioni per cui mi potete dare del sessista: Hunziker ha fatto Zelig perché moglie di Ramazzotti, ha iniziato mostrando il culo nella pubblicità di Roberta. Prego.
Giuseppe Candela. Praticamente la Hunziker è stata una Novello, una Rodriguez e una Leotta. E oggi è la Hunziker anche per il suo passato da Hunziker.
BubinoBlog. Come mai Michelle Hunziker non ha fatto un video di indignazione anche durante la campagna tv della sua Striscia contro Alessia Marcuzzi? Un attacco per mesi ad una donna e ad una collega di rete, passato nel silenzio. Altro che il pretestuoso attacco ad Amadeus...! #Sanremo2020
Aladino. In risposta a Hunziker. Se il tuo impegno a invertire la cultura maschilista arriva soltanto quando scrivi un tweet per la frase (maldestra ma in buona fede) detta da Amadeus, vuol dire che non ti impegni abbastanza.
Niklaus. In risposta a Hunziker. Comunque questa gogna mediatica contro Amadeus ed il suo #Sanremo2020 è senza pari. Sembra che tutti aspettassero un suo passo falso per distruggerlo. BOH. Buone cose!
Il Messaggero.it il 20 gennaio 2020. Anche Fiorello interviene sul "caso Amadeus". E lo fa per sdrammatizzare dopo le polemiche degli ultimi giorni sulle donne che parteciperanno al Festival di Sanremo. «Amadeus, io, da anonimo, proporrò per te la pena di morte. Ci vuole la pena di morte per te, per quello che rappresenti. Sei l'uomo più cattivo d'Italia». Così Fiorello, con il volto semi-mascherato da una sciarpa, interviene scherzando sulle storie di Instagram. «Sono anonimo - esordisce Fiorello - voglio fare un appello ad Amadeus, conduttore del festival di Sanremo. Amadeus, ti sei messo contro tutti. Ti mancano solo gli anziani. Dì qualcosa contro gli anziani. E soprattutto dì qualcosa contro Fiorello. Perché è l'unico che è rimasto ancora con te, dì qualcosa su di lui, dammi del terrone. E così hai fatto bingo. Le donne ce l'hai tutte contro, la politica tutta, destra e sinistra, tutti quanti. Manca solo Fiorello. Attaccalo», ironizza Fiorello prima di invocare la 'pena capitale': «E io, da anonimo, proporrò per te la pena di morte. Ci vuole la pena di morte per te, per quello che rappresenti. Sei l'uomo più cattivo d'Italia. Da che eri un santo, sessista proprio». Poi più serio conclude: «Volevo dire una cosa alle 29 deputate che ti hanno accusato. Proprio nella politica cercate di fare un passo avanti, non state indietro: voglio vedere un presidente della Repubblica donna e un presidente del Consiglio donna. Non vi lamentate di Sanremo, lamentatevi del vostro settore. Allora sì che avremmo fatto un passo avanti».
Dagospia il 21 gennaio 2020. Da Un Giorno da Pecora. Le polemiche su Sanremo? "Il Festival ha sempre portato polemiche. Mi pare esagerato l'attacco ad Amadeus per la frase sul ''passo indietro'', mi pare proprio esagerata. Ora se ne esce anche la Bellucci, stia in Francia, a Parigi, e non ci rompa le scatole...” Così Maurizio Costanzo oggi al programma di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, condotto da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Perché la Bellucci secondo lei ha deciso di non venire? “Ma non lo so, ora c'è questo andazzo. Claudia Gerini vuole fare un gruppo per boicottare Sanremo: ma cosa le dice la testa a queste, si sono impazzite? Mi dispiace perché lei è una donna intelligente”. Anche Michelle Hunziker ha criticato duramente le dichiarazioni di Amadeus. “Sapete qual è la verità? Che la Gerini, la Hunziker e quant'altri chiedono la grazia alla Madonna pur di fare Sanremo. Siccome la Madonna si è distratta e si è dimenticata di loro, si arrabbiano con Amadeus”. Michelle Hunziker ha già fatto Sanremo. “E come mai non l'hanno richiamata?” Quindi a lei piace la scelta di Amadeus di accompagnarsi a molte donne sul palco dell'Ariston.”Ci sono due bravissime giornaliste del Tg1 fra loro ma non le nominano. Ma mi facciano il piacere va”. Lei, insomma, 'sta' con Amadeus. “Amadeus ha fatto la notte di Capodanno, fa i Soliti Ignoti, ha fatto la Lotteria, ora fa Sanremo: fatelo lavorare in pace e basta”. Laura Boldrini, a Un Giorno da Pecora, ieri ha proposta una conduzione e una direzione artistica sempre composta da un uomo e una donna. “Questo può essere, perché no? Non è una brutta idea. Carlo Conti e Maria De Filippi fecero la coppia”. E' cosa ne pensa della bufera che ha colpito il rapper Junior Cally? "Quando si fa questo casino intorno al testo, si fa la fortuna del testo medesimo. Di conseguenza, questo rapper venderà l'anima sua..." E come vede la presenza di Rula Jebreal all'Ariston? "E' una giornalista molto in gamba, può benissimo fare Sanremo", ha concluso a Un Giorno da Pecora Costanzo.
Maurizio Costanzo sta con Amadeus e silura la Bellucci: "Se ne stia in Francia". Maurizio Costanzo appoggia le scelte di Amadeus per il Festival di Sanremo 2020 e si esprime in maniera negativa contro tutte le colleghe che si sono coalizzate contro il conduttore della kermesse. Luana Rosato, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. A pochi giorni dall’inizio del Festival di Sanremo 2020 Amadeus è al centro di numerose polemiche e, nonostante molte critiche da parte dei colleghi, Maurizio Costanzo ha voluto spezzare una lancia a favore del conduttore e direttore artistico della kermesse. Ritenendo “esagerato” l’attacco ad Amadeus, Costanzo ha sottolineato che ogni edizione del Festival è sempre stata accompagnata da una serie di polemiche che non fanno altro che aumentare l’interesse intorno alla manifestazione musicale. “Il Festival ha sempre portato polemiche. Mi pare esagerato l'attacco ad Amadeus per la frase sul 'passo indietro’, mi pare proprio esagerata – ha commentato il conduttore Mediaset ai microfoni di Un giorno da pecora, silurando anche Monica Bellucci, che ha dato forfait pochi giorni fa - . Ora se ne esce anche la Bellucci, stia in Francia, a Parigi, e non ci rompa le scatole...”. Sulle donne che si stanno coalizzando dopo le frasi di Amadeus ritenute sessiste, Maurizio Costanzo si è detto esterrefatto per questo tipo di atteggiamento e le sue considerazioni sulle colleghe che hanno preso la parola per denigrare il direttore artistico di Sanremo non è stato affatto benevolo. “Perché la Bellucci ha deciso di non venire al Festival? Ma non lo so, ora c'è questo andazzo – ha detto lui - . Claudia Gerini vuole fare un gruppo per boicottare Sanremo: ma cosa le dice la testa a queste, si sono impazzite? Mi dispiace perché lei è una donna intelligente”. Parole forti anche nei confronti di Michelle Hunziker, che attraverso un video pubblicato su Instagram ha espresso il suo parere sulle dichiarazioni di Amadeus dicendosi dispiaciuta perché si aspettava un atteggiamento differente verso una questione attuale e che le sta molto a cuore. “Anche Michelle Hunziker ha criticato duramente le dichiarazioni di Amadeus”, hanno sottolineato i conduttori di Radio 1 ai quali Costanzo ha replicato: “Sapete qual è la verità? Che la Gerini, la Hunziker e quant'altri chiedono la grazia alla Madonna pur di fare Sanremo. Siccome la Madonna si è distratta e si è dimenticata di loro, si arrabbiano con Amadeus”. E, nonostante Giorgio Lauro e Geppi Cucciari gli abbiano fatto notare che Michelle Hunziker, in realtà, è già stata sul palco del Teatro Ariston, ecco che Maurizio Costanzo lancia una sonora frecciata alla collega: “E come mai non l'hanno richiamata?”. Il volto di Canale 5, quindi, appoggia in toto Amadeus ed è certo che il suo Festival sarà di valore. “Ci sono due bravissime giornaliste del Tg1 fra loro, ma non le nominano – ha voluto precisare Costanzo - .Amadeus ha fatto la notte di Capodanno, fa i Soliti Ignoti, ha fatto la Lotteria, ora fa Sanremo: fatelo lavorare in pace e basta”. Infine, una battuta sulla polemica intorno a Junior Cally e ai suoi precedenti testi musicali in cui inneggia alla violenza contro donne – “Quando si fa questo casino intorno al testo, si fa la fortuna del testo medesimo. Di conseguenza, questo rapper venderà l'anima sua” – e su Rula Jebreal all'Ariston, che ha descritto come una “giornalista molto in gamba (che, ndr) può benissimo fare Sanremo”.
Da liberoquotidiano.it il 22 gennaio 2020. Claudio Lippi lancia una frecciatina ad Amadeus, e lo fa dalla puntata di martedì 21 gennaio de La prova del cuoco. Si parla della capacità delle donne di "andare avanti", mentre la figlia Federica cucina insieme ad Elisa Isoardi. A quel punto il conduttore milanese dichiara che "a differenza del mio amico Amadeus, io le donne le faccio andare avanti, non indietro". Dallo studio partono applausi convinti, ma Lippi chiarisce subito che non vuole fare polemica contro il direttore artistico di Sanremo 2020, mentre la Isoardi rimane con gli occhi sbarrati, probabilmente sorpresa dal commento del collega. Il riferimento è chiaramente alla frase tanto contestata di Amadeus, che si è espresso nel seguente modo riguardo alla fidanzata di Valentino Rossi: "Sta accanto ad un grande uomo stando un passo indietro".
Il Messaggero.it il 20 gennaio 2020. Anche Fiorello interviene sul "caso Amadeus". E lo fa per sdrammatizzare dopo le polemiche degli ultimi giorni sulle donne che parteciperanno al Festival di Sanremo. «Amadeus, io, da anonimo, proporrò per te la pena di morte. Ci vuole la pena di morte per te, per quello che rappresenti. Sei l'uomo più cattivo d'Italia». Così Fiorello, con il volto semi-mascherato da una sciarpa, interviene scherzando sulle storie di Instagram. «Sono anonimo - esordisce Fiorello - voglio fare un appello ad Amadeus, conduttore del festival di Sanremo. Amadeus, ti sei messo contro tutti. Ti mancano solo gli anziani. Dì qualcosa contro gli anziani. E soprattutto dì qualcosa contro Fiorello. Perché è l'unico che è rimasto ancora con te, dì qualcosa su di lui, dammi del terrone. E così hai fatto bingo. Le donne ce l'hai tutte contro, la politica tutta, destra e sinistra, tutti quanti. Manca solo Fiorello. Attaccalo», ironizza Fiorello prima di invocare la 'pena capitale': «E io, da anonimo, proporrò per te la pena di morte. Ci vuole la pena di morte per te, per quello che rappresenti. Sei l'uomo più cattivo d'Italia. Da che eri un santo, sessista proprio». Poi più serio conclude: «Volevo dire una cosa alle 29 deputate che ti hanno accusato. Proprio nella politica cercate di fare un passo avanti, non state indietro: voglio vedere un presidente della Repubblica donna e un presidente del Consiglio donna. Non vi lamentate di Sanremo, lamentatevi del vostro settore. Allora sì che avremmo fatto un passo avanti».
Dagospia il 20 gennaio 2020. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. Cosa farò sul palco dell'Ariston? “Ancora non so bene cosa farò. Fino a ieri ero in conduzione al Tg1, andrò a Sanremo la prossima settimana”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Emma D'Aquino, giornalista del Tg1 e tra le donne che saliranno sul palco dell'Ariston con Amadeus. In quale giorno lei sarà a Sanremo? “Ci sarò mercoledì”. Se la definissimo una delle 'bellissime' di Amadeus lei si offenderebbe? “No. Dare del bello ad una donna non è un'offesa. Se mi dici che sono bella ti ringrazio, se mi dici che sono bella e brava mi hai conquistato”.
Lei è sposata o è single? “Non sono sposata ma sto con una persona, sono innamorata”. Lei sta 'un passo indietro' rispetto al suo uomo? “A volte stai un passo indietro, a volte stai un passo avanti, è normale. Si vive insieme, si cammina insieme”. Cosa ne pensa della polemica sulle parole di Amadeus a riguardo? “Amadeus ha chiesto scusa a chi si sentiva offeso e ha fatto un'ottima cosa. Ma diciamoci la verità: ha usato, forse, delle parole non proprio giuste ma voleva dire altro, su dai. Amadeus è una persona molto carina, io lo conosco”.
E su Junior Cally qual è il suo giudizio? “Non conosco la canzone che presenterà. La polemica è su un suo pezzo precedente, e un brano così è chiaro che non vorrei mai sentirlo”. Lei è una star di Instagram. Come molte sue colleghe riceve delle richieste di foto particolari dai follower, tipo immagine dei suoi piedi? “Si, me lo hanno chiesto ma io li blocco subito, immediatamente. Purtroppo mi è successo diverso volte, mi chiedono le foto dei piedi, che ci posso fare. Sembra brutto dirlo ma è così, io però chiaramente li blocco”.
Striscia la Notizia, bomba su Sanremo 2020: Junior Cally, solo una coincidenza? La scoperta clamorosa. Libero Quotidiano il 20 Gennaio 2020. Striscia la notizia, nella puntata trasmessa lunedì 20 gennaio su Canale 5, ha scoperto delle curiose analogie tra il caso Junior Cally, il rapper in gara tra i big al Festival di Sanremo 2020 al centro delle polemiche per via dei testi, violenti e contro le donne, di alcune sue vecchie canzoni, e il caso Achille Lauro, che l’anno scorso ha esordito al Festival con un inno ai morti per droga. I due cantanti, oltre a un passato burrascoso in comune, hanno entrambi pubblicato un libro autobiografico sul loro essere “cattivi ragazzi” di periferia (Sono io Amleto di Lauro e Il principe di Cally) con Rizzoli poco prima della partecipazione al Festival. Coincidenze o abile operazione di pulizia dell’immagine?, si chiedono quelli di Striscia. E che ruolo giocano la Friends & Partners di Ferdinando Salzano, la Mn, dove lavorava l’attuale direttore comunicazione Rai Marcello Giannotti e il vicedirettore di Rai 1 Claudio Fasulo? Un nuovo spunto per la polemica che il programma di Canale 5 ha intrapreso con l'organizzazione della kermesse canora e la rete ammiraglia della Rai.
Sanremo, Zingaretti (Pd): politica stia fuori da beghe (11 febbraio 2019)
(askanews il 21 gennaio 2020.) – “Si tratta di eccezionali talenti italiani. La politica deve stare fuori da queste stupide beghe. Malgrado tutti gli impegni ho seguito i momenti più salienti del festival e su quel palco ci sono tanti talenti eccezionali. Questi due giovani Mahmood e Ultimo sono due talenti veramente incredibili e quindi noi dobbiamo essere contenti perché c’è un elemento di vitalità della nuova generazione che arricchirà lo straordinario patrimonio e la forza della musica italiana. Tutto il resto è noia come dice il testo di una grande canzone. E la noia, lasciamola si noiosi”. Così il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, commentando quanto avvenuto al Festival di Sanremo a margine di un evento a Roma.A chi gli chiedeva se il vincitore del festival rappresenti un simbolo, Zingaretti ha detto: “Anche Ultimo è un simbolo. Un simbolo di riscatto come lui ha spiegato ha iniziato a fare pianoforte perché glielo aveva consigliato la mamma per dargli una possibilità e lui non voleva. Vederlo protagonista a Sanremo, partendo da un bisogno, trionfare nella musica italiana, anche questo è un altro simbolo di riscatto che testimonia la forza di una nuova generazione come i Maneskin anch’essi romani, forza di una nuova generazione, sono tra i gruppi più originali della nostra musica. C’è un grande rinnovamento. Se la politica italiana di rinnovasse come la musica italiana l’80 per cento dei problemi sarebbe risolto. A loro – ha concluso – che si rinnovano almeno non rompiamo le scatole. Pensiamo a rinnovare la politica che è molto meglio”.
Marco Molendini per Dagospia il 20 gennaio 2020. Sono convinto di una cosa, che l'alzata di scudi contro Junior Cally, il cui nome non è stato mai gettonato come in questi giorni, sia stata prevista. Il meccanismo è questo, quando si prepara il minestrone sanremese e parte con una domanda come questa: se arruoliamo quel rapper che ne dice di tutti i colori, che alle donne da della troia e gli farebbe questo e quello (così sostengono i testi delle sue canzoni) e lo portiamo all'Ariston, dove basta uno stormir di fronde per gridare all'uragano, vuoi che non ci sia nessuno che protesti? Che ne chieda l'allontanamento e faccia baccano? Puntualmente siamo arrivati al capitolo del baccano. Operazione riuscita: per il festival e per il rapper che, comunque vada, ha già vinto la sua gara, quella della notorietà. Il fatto è che, per allestire Sanremo, ci vogliono stomaci tosti, foderati di pelo, senza stare troppo a guardare per il sottile. Vedi la storia delle fidanzate arruolate con dichiarazione sconnessa del conduttore e scuse a seguire. Vedi Rita Pavone con la scorta delle sue improvvide e passate esposizioni sovraniste, così ci sarà chi le sparerà contro anche solo per passare il tempo. La regola è quella del tiro a bersaglio: più bersagli ci sono, più tiri si faranno, più titoli si riceveranno, più spettatori (si spera) ci saranno. E' sempre stato così. Quest'anno c'è qualcosa in meno e qualcosa in più. In meno il fatto che a menare le danze sul palco non c'è un personaggio dal carisma sicuro come Baglioni, e nel passato Fazio, Baudo, Bongiorno, Bonolis. Amadeus è il presentatore più trasparente a cui la Rai si affidi da molti anni a questa parte. Da questo fatto nasce la sensazione di una certa sprovvedutezza nell'andarsi a cercare le grane. Persona gentile, uno che non lesina i suoi buonasera, buonasera, può già vantare il credito di essere il direttore artistico-conduttore con il maggior numero di polemiche sulle spalle, ancora prima di cominciare: la prima è stata quella su Rula Jebreal, l'ultima il forfait di Monica Bellucci che qualcuno sospetta si sia saggiamente defilata da quell'allegra brigata femminile chiamata a tappezzare le cinque seratone del festival (a proposito, ma davvero il cachet si aggira attorno ai 20 mila euro a testa, comprese le due fidanzate che sanno stare un passo indietro rispetto ai loro celebri compagni? O Amadeus è un grande stratega o non sa dove mettere le mani. Lo vedremo fra non molto. Considerando che poi arriveranno le polemiche sui costi, sui cachet, sui plagi, nel caso sugli ascolti. E le canzoni? Finora sono state ascoltate solo una volta, in seduta pubblica riservata ai giornalisti. Il vero peso dei pezzi lo si saprà durante la settimana di febbraio.
Dagospia il 20 gennaio 2020.Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. Laura Boldrini a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, oggi ha dato il suo giudizio sulla vicende legate alle accuse di sessismo che stanno animando il Festival di Sanremo, facendo anche alcune proposte per il futuro. Lei è tra le promotrici della lettera indirizzata ad Amadeus in cui gli si chiede di scusarsi per le affermazioni sulle donne. “Con delle colleghe facciamo parte dell'intergruppo della Camera per i diritti delle donne. Le donne si dovrebbero mettere in una posizione di condivisione della conduzione e delle scelte artistiche: non mi piace l'idea che ci sia sempre un uomo e le donne che poi lo accompagnano solo sul palco”. Ma Amadeus è il conduttore, oltre che il direttore artistico. Secondo lei dovrebbero esserci anche delle donne nello stesso ruolo? “Si. E secondo me - ha aggiunto a Un Giorno da Pecora - dovrebbe esserci anche una conduzione condivisa. Vorrei che il servizio pubblico promuovesse le donne che hanno fatto un passo avanti, non quelle che fanno un passo indietro”. E cosa ne pensa della vicenda che coinvolge il rapper Junior Cally? “Ha scritto dei testi agghiaccianti in passato e uno si porta dietro sempre la sua biografia. Come si fa a metter sul palco di Sanremo uno che ha scritto dei testi così misogini e violenti? E poi la ciliegina su tutto questo ce l'ha messa Salvini”. Per quale motivo? “Lui ha detto che a casa sua questo Junior Cally può fare quello che vuole, ma a Sanremo no. E che vuol dire questo? La maggior parte della violenza sulle donne accadono in famiglia, che messaggio manda un leader politico?” In realtà anche Salvini non vuole il rapper sul palco di Sanremo. “Uno che in passato si è contraddistinto per portare bambole gonfiabili in un comizio mi pare non sia credibile quando parla di rispetto delle donne. Anche qui le biografie contano”, ha detto Boldrini a Rai Radio1.
Sanremo 2020, l'appello di Loredana Berté: «Niente premio Mia Martini a chi promuove la violenza contro le donne». Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Arianna Ascione. La sorella di Mia Martini, riferendosi senza fare nomi al caso Junior Cally, ha invitato a non assegnare il riconoscimento ad autori misogini. Quando era in vita Mia Martini fu vittima di voci infamanti, che puntavano ad affossare la sua carriera (oltre che la sua persona). Per questo il premio della Critica di Sanremo, a lei ancora intitolato - lo vinse nel 1989 con il brano «Almeno tu nell'universo» - non dovrà andare ad artisti che promuovono la violenza contro le donne, anche verbale. A lanciare l'appello è Loredana Bertè, vincitrice morale dell'edizione 2019 della kermesse e sorella dell'artista scomparsa nel 1995, che ha chiesto ai giornalisti della Sala Stampa dell'Ariston di «escludere, a priori, una possibile candidatura al "Premio della critica Mia Martini" di qualsiasi artista che promuova attraverso i suoi testi violenza fisica o verbale verso le donne o misoginia in generale». È facile dedurre dal suo messaggio, pubblicato su Facebook, un riferimento (senza fare nomi) a Junior Cally, il rapper in gara a Sanremo 2020 finito nella bufera nei giorni scorsi per i testi di alcuni suoi brani, che a suo avviso andrebbe escluso dalla competizione: «Mia sorella è stata per anni vittima di bullismo "verbale" e non credo che avrebbe mai voluto che il suo nome venisse associato a certi “soggetti” che andrebbero SQUALIFICATI (come avvenuto di recente e giustamente in un'altra trasmissione di successo) per istigazione alla violenza sulle donne e per il pessimo messaggio che arriva ai giovanissimi». Il dibattito insomma continua a tenere banco, in rete e non: Irene Grandi, come altri artisti di Sanremo 2020 prima di lei (Francesco Gabbani e Francesco Sarcina) si è schierata dalla parte di Junior Cally, contro ogni tipo di censura specie se retroattiva («Mi sembra assurdo andare a pescare nel repertorio di un cantante e fare il processo a una canzone di tre anni fa»). Di tutt'altro avviso invece è Ornella Vanoni, che ha affidato a Twitter il suo pensiero: «Sono i giovani sani di mente e ce ne sono tanti che devono bloccare la partecipazione di Junior Cally perché questa è la musica che li dovrebbe rappresentare, è terribile osceno».
Anche i vescovi contro Sanremo: "Nessun rispetto per le donne". Avvenire, il quotidiano della Cei, contro Junior Cally: "Canta le donne senza alcun rispetto". La Rai? "Ha dimenticato il suo ruolo". Francesca Bernasconi, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. Il Festival di Sanremo inizierà senza il pieno consenso dei vescovi. Sul quotidiano della Conferenza episcopale italiana (Cei), Avvenire, infatti, è netta la presa di posizione in difesa delle donne. In particolare, il giornale di proprietà dei vescovi si scaglia contro le dichiarazioni fatte da Amadeus, il direttore artistico della 70° edizione del Festival, in conferenza stampa, quando aveva presentato Francesca Sofia Novello, una delle donne che salirà sul palco dell'Ariston. Il presentatore, infatti, aveva definito la fidanzata di Valentino Rossi come una "ragazza molto bella anche per la sua capacità di stare vicino a un grande uomo stando un passo indietro". E sul direttore artistico si era scatenata una bufera di polemiche. Ma a far storcere il naso ad Avvenire è anche la presenza a Sanremo di Junior Cally, il rapper famoso per i testi sessisti. "Ci sono momenti in cui pensi l'abbiano fatto apposta- si legge su Avvenire- Perché Sanremo, cioè il Festival, vale oro". Quindi, più se ne parla (e non importa se lo si fa positivamente o negativamente, purché se ne parli) più gli incassi aumentano. Quest'anno, riferisce il quotidiano, la previsione di incasso è di 33 milioni di euro. Dura la presa di posizione contro le parole di Amadeus: "Ci sono momenti in cui pensi che l’abbiano fatto apposta perché nemmeno un gaffeur di professione saprebbe fare certe figuracce e invece di scusarsi ripetere all’'nfinito 'sono stato frainteso'". Non piace nemmeno l'invito fatto a un trapper come Junior Cally, che "canta la donna senza alcun rispetto, inscenando in un video - lui dice 'per denunciare' - un femminicidio". Una presenza che stona, soprattutto dopo che il Festival è stato presentato come uno spettaccolo che "sarà incentrato sulle donne". E non bastano le dichiarazioni di chi sostiene che il rapper sia cambiato: "Lo speriamo tutti- scrive Avvenire- Ma servono fatti, non parole". E a chi sostiene che nessuna arte possa essere sottoposta a censura, il quotidiano dei vescovi replica: "In nome della libertà non tutto può e deve essere visto e ascoltato anche dai bambini". Inoltre, il giornale ricorda quando, nel 1993, Nek portò a Sanremo il brano In te, sul tema dell'aborto: "Lo distrussero. La sua colpa? Era pro vita. Perché vuoi mettere quanto fa tendenza essere dalla parte dei trapper, sempre e comunque, piuttosto che – insieme – della vita e dell’integrale dignità femminile?". Infine, il giornale si scaglia contro Sanremo e la Rai, che "sembrano avere dimenticato qual è il vero ruolo che ancor oggi hanno", in quanto "vetrina televisiva più importante del Paese". Per questo, "qualunque azione o parola andrebbe pesata e soprattutto pensata attentamente", perché non basta annunciare di voler promuovere le donne, ma servono poi i fatti.
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 20 gennaio 2020. Inesperienza, faciloneria, superficialità, sessismo? Per ora, le scelte fatte da Amadeus, direttore artistico del 70° Festival di Sanremo, hanno suscitato solo polemiche. Non proprio il viatico migliore per una delle conduzioni più difficili dell' intera annata. Tutto è iniziato con l' invito di Rula Jebreal, la giornalista palestinese con doppio passaporto israeliano e italiano. L'allora direttrice di Rai1, Teresa De Santis, avrebbe esitato per le idee di sinistra della Jebreal e avrebbe richiesto una compensazione a destra. Come se la Jebreal fosse davvero così «scomoda». «La Rai mi ha chiesto di fare un passo indietro, ho rifiutato», ha dichiarato la Jebreal, così il passo indietro lo ha fatto la Rai e Rula ci sarà. Poi fra i big della canzone è stata invitata Rita Pavone, già da tempo ritiratasi dalle scene (i cantanti italiani non si ritirano mai): valanga di critiche sui social: «È sovranista». Poi, nel presentare le dieci donne che lo accompagneranno, Amadeus è incorso in una clamorosa gaffe. Riferendosi alla fidanzata di Valentino Rossi, Francesca Sofia Novello: «Ha la capacità di stare vicino a un grande uomo stando un passo indietro». Parole che hanno suscitato un vespaio di polemiche e costretto il presentatore a invocare il fraintendimento. Poi è scoppiato il caso del rapper Junior Cally, che nelle sue canzoni inciterebbe all' odio e alla violenza contro le donne. È intervenuto persino il presidente della Rai, Marcello Foa, per esprimere «forte irritazione per scelte che vanno nella direzione opposta rispetto a quella auspicata». Qual è la direzione auspicata per il Festival di Sanremo? La responsabilità della scelta di Amadeus è della De Santis. Dietro ad Amadeus c' è Lucio Presta che nella direzione auspicata avrà pur detto la sua. E adesso tutti cascano dal pero, trovando in Amadeus l'anello debole della catena, un facile capro espiatorio. Responsabile di quello che ha fatto, ma anche di quello che non ha fatto.
Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 20 gennaio 2020. Adesso il passo indietro lo deve fare il rapper Junior Cally. Almeno è quello che chiede il presidente della Rai, Marcello Foa, che esprime «forte irritazione per scelte che vanno nella direzione opposta rispetto a quella auspicata. Il Festival, tanto più in occasione del suo 70° anniversario, deve rappresentare un momento di condivisione di valori, di sano svago e di unione nazionale, nel rispetto del mandato di servizio pubblico. Scelte come quella di Junior Cally sono eticamente inaccettabili per la stragrande maggioranza degli italiani». Una presa di posizione chiara e netta quella del presidente all' indomani del nuovo caso che coinvolge il Festival. Nel mirino questa volta è finito il rapper mascherato Junior Cally per un brano di tre anni fa ( Strega ) in cui parlava di un femminicidio: «Lei si chiama Gioia / balla mezza nuda, dopo te la dà / Si chiama Gioia perché fa la tro../ L' ho ammazzata, le ho strappato la borsa / c' ho rivestito la maschera». Il cantante si è difeso spiegando che bisogna distinguere tra opinioni personali («sono contro il sessismo, i passi avanti o indietro e contro la violenza sulle donne») ed espressioni artistiche («l' arte può avere un linguaggio esplicito e il rap, da sempre, fa grande uso di elementi narrativi di finzione e immaginazione che non rappresentano il pensiero dell' artista»). Come dire che un conto è la fiction del testo di una canzone, un altro il pensiero nella vita di tutti i giorni. Una spiegazione che non è bastata al presidente Foa secondo cui invece il Festival dovrebbe «promuovere il rispetto della donna e la bellezza dell' amore. La credibilità di chi canta deve rientrare fra i criteri di selezione. Chi nelle canzoni esalta la denigrazione delle donne e persino la violenza omicida, e ancora oggi giustifica quei testi avanzando pretese artistiche, non dovrebbe beneficiare di una ribalta nazionale». Foa chiede dunque ad Amadeus di «riportare il Festival nella sua giusta dimensione». La politica sulla questione si è accesa come spesso accade quando di mezzo c' è Sanremo. Il coro questa volta però è sostanzialmente unanime e trasversale nel condannare Junior Cally, a partire dalla Lega (di cui il presidente Foa è espressione). Salvini è netto: «Mi auguro che questo tizio non metta mai piede sul palco di Sanremo». E aggiunge: «Leggo che io non gli piaccio, e se non piaccio a questo disadattato è un titolo di merito». Il riferimento è alla canzone che Junior Cally porterà (se la porterà...) a Sanremo: No grazie , un testo proprio contro il populismo e Salvini (ma anche contro Renzi). Il rapper non piace nemmeno al Pd (per Silvia Costa è «inaccettabile un "cantante" che utilizza frasi che sono una vera e propria incitazione alla violenza»), al Movimento 5 Stelle (Cinzia Leone parla di «frasi violente e che istigano alla violenza di genere»), a Forza Italia (Mariastella Gelmini chiede l' intervento della Rai), a Fratelli d' Italia (per Daniela Santanchè «Cally è un rapper che incita allo stupro»). La Rai, come spesso succede, mostra due anime. Se quella di Foa è particolarmente loquace, l' amministratore delegato Fabrizio Salini per ora preferisce il silenzio. Ieri è stata una giornata di lunghe triangolazioni telefoniche tra lui, Amadeus e il neo-direttore di Rai1 Stefano Coletta. La scelta finale è stata quella di aspettare, di prendere ancora un po' di tempo (al Festival mancano due settimane) e valutare con calma, non sulla spinta dell' impulsività. Quando c' era da intervenire Salini in passato lo ha fatto, escludendo Sfera Ebbasta dalla giuria di The Voice per questioni di opportunità, legate alla vicenda non ancora chiarita della tragedia nella discoteca di Corinaldo. Questa volta il caso sembra diverso e soprattutto se si escludesse Junior Cally per una vecchia canzone, la stessa sorte dovrebbe toccare anche a Marco Masini e Achille Lauro. Entrambi sono in gara tra i Big del Festival e due brani di qualche tempo fa allo stesso modo non dovrebbero rientrare nella sfera dell' eticamente corretto. Masini in Bella stronza (del 1995) cantava «mi verrebbe di strapparti quei vestiti da putt... e tenerti a gambe aperte finché viene domattina»; mentre Achille Lauro cinque anni fa in La bella e la bestia diceva che «l' amore è un po' ossessione, un po' possesso, carichi la pistola e poi ti sparo in testa». È fiction o no?
Amadeus al Festival di Santocchio. Augusto Bassi il il 20 gennaio 2020 su il Giornale. Dal palatino Sanremo dei sogni a quello tapino della cronaca. Ricapitoliamo. Amedeo Umberto Rita Sebastiani, in arte Amadeus, ha messo un pollice su per il sedere – e mi auguro si apprezzi il traslato unisex – all’orgoglio femminista e al mantra perbenista, dichiarando con candore adolescenziale che le sue “belle” lo affiancheranno durante la 70esima edizione del Festival perché sono molto belle. Anatema! Scomunica! Gogna mediatica! – anche se preferirei “gogno mediatico”, per non dare adito a ulteriori polemiche. Vi risparmio l’elenco di chi ha disapprovato, rimbrottato, rabbuffato, biasimato, bersagliato, ridicolizzato l’ingenuo presentatore. Addirittura una lettera di 29 deputate, ha ricevuto sul naso il malcapitato Ama. La voce più benevolente verso il Candido si è rivelata quella amica di Luciana Littizzetto, che gli ha discretamente suggerito pubblicamente: «Non dire delle donne che ti affiancheranno che sono molto belle perché essere bella è frutto di una botta di culo, non è una conquista». Mecojoni! La vicenda fomenta molte riflessioni nella testolina post-convenzionale di ogni sano sessista sovranista. Cerchiamo di sminestrarle senza troppa pedanteria sistematica. Se la galante sottolineatura della bellezza rappresenta – perché così è ufficialmente nel percepito – un’implicita ammissione di stupidità, ocaggine, incapacità generalizzata, della donna che la esibisce, io comincerei a parlar bene della ciospaggine e della ciospette. Come la Littizzetto, per esempio. Fossi in Amedeo Umberto, ringrazierei proprio Luciana, che ce l’ha fatta in tv malgrado sia cozzarella. «Tu sei un esempio di ciò che tutte le donne vorrebbero essere, cara Luciana: racchiette di ben meritato successo». A bene vedere neppure la sapida intelligenza della Littizzetto o il suo aspetto buffo e simpatico sono conquiste – in quanto talenti impreveduti e accidentali utili allo scopo precisamente come la bellezza – ma cerchiamo di non sottilizzare. Per il ruolo della cabarettista serve dimostrarsi briose, pimpanti, graffianti, per quello di Filippa, che partecipa alla stessa trasmissione, basta essere bellezze svedesi. Ma proseguiamo. Se sottolineare la discrezione di una donna come Sofia Novello, che non ha mai ostentato protagonismo, ben sapendo di essere riconoscibile solo come “la bella tipa che sta con Valentino Rossi”, è sessismo, inizierei con il non invitare una ragazza solo perché fidanzata di Valentino Rossi e bella tipa, prima di mettere al muro Amadeus per aver imperdonabilmente dichiarato come la giovane sappia stare “un passo indietro” rispetto al celebre compagno. I riflessi pavloviani del correttume sono sempre scemi, sempre ingiusti, ma soprattutto sempre uguali. Possiamo sapere prima chi dirà cosa e come. Potrei già profetizzare come verrà letto questo articolo da chi. L’ideologia progressista cospira affinché si realizzi nel pensiero ciò che si auspicherebbe nella società: l’uguaglianza; che nel pensiero è identicità, è equivalenza, intercambiabilità. Si inizia tutelando le differenze in posizione di fragilità e dopo aver dato loro coraggio le si butta nella centrifuga del livellatore cosmico, per tirarle fuori infeltrite e scolorite come ogni idea certificata dal mass market culturale. Così otteniamo il gay – cioè originariamente il diverso, l’essere umano libero dalle convenzioni, dalle sovrastrutture, dai retaggi medievali, dalle feste comandate – che pretende di sposarsi in chiesa o metter su famiglia. E le disparità che ancora si strombazzano – come quella di trattamento professionale fra uomini e donne – fanno velo sulla vera tirannia, che è quella della mediocrità asfaltatrice. Il problema non è tanto l’uomo circondato da donne, quanto che quell’uomo sia Amadeus e non Jimmy Carr o James Bond. Il problema non è tanto la Littizzetto, quanto Fazio. Il vulnus, come sempre direbbe chi legge l’augusto Augias, non è premiare ciò che si conquista, conquista integralmente arbitraria – chi stabilisce infatti dove inizia il merito in ciò che siamo e in ciò che abbiamo? – ma riconoscere il talento e permettere al talento di esprimersi. Il talento, che è mera adeguatezza a scopi, si rivela gender fluid. Oggi, per esempio, è stata la mia parte femminile a ispirare le illuminanti ponderazioni di cui sopra. Ponderazioni che la segretaria personale ha zelantemente digitato dopo avermi spronato con un’insufflante fellatio.
Dagospia il 22 gennaio 2020. Guia Soncini su Instagram. Quand’eravamo giovani, Sanremo andava così: due settimane prima dell’inizio, autori e maestranze si trasferivano in riviera, cominciavano le prove, e i Felici Pochi cominciavano a ricevere telefonate con retroscena non necessariamente succulenti. Tizio s’è fatto venire una crisi di nervi su un’entrata, Caio mangia fiorentine di nascosto dalla moglie vegana, Sempronio non vuole duettare con l’ospite che è meglio di lui. Poi il festival cominciava, ed era più o meno allora, magari un paio di giorni prima, che le polemiche sul festival diventavano pagine di giornali (era anche l’unica settimana dell’anno in cui i giornalisti delle pagine di spettacoli non erano i figli della serva). Adesso, che a Sanremo mancano due settimane, sono già mille giorni percepiti che ci tocca la dittatura delle pagine degli spettacoli. Moralisti che chiudono i bar, moraliste che un attimo fa si facevano fotografare col culo di fuori o raccontavano in tv le corna subite da un aspirante tronista, tutte unite nello spiegare ad Amadeus e a noi Infelici Molte quale debba essere il ruolo della donna. Che, per carità, non è essere figa (la fighezza, come l’interruzione di gravidanza, è quella roba che va bene solo finché è il nostro turno: quando ci casca la faccia o la fertilità, cominciamo a far la morale alle altre, che osino essere innanzitutto fighe o non voler innanzitutto figliare). Sogno che Amadeus apra la prima serata del festival precisando che, se lui avesse avuto l’aspetto del giovane Alain Delon, non si sarebbe mai preso il disturbo d'imparare a presentare un programma, certo come sarebbe stato d’esser notato anche se restava sullo sfondo. Io, fossi stata bella un terzo della fidanzata di Valentino Rossi, non mi sarei neanche incomodata a imparare a leggere, figuriamoci agitarmi per stare un passo avanti a qualcuno. Intanto, avrete notato quanti premi sta vincendo quel film coreano su come i parassiti d’un sistema si rivoltino contro quel sistema stesso quando non gli conviene più. Praticamente, un film sul MeToo.
La Rai resta in silenzio, le polemiche no. Nessuna decisione su Junior Cally e la fidanzata di CR7. E Salini rischia...Laura Rio, - Giovedì 23/01/2020 su Il Giornale. Ogni giorno una polemica nuova. Stavolta a tenere banco sono i compensi dello stuolo di conduttori, conduttrici e ospiti del Festival. Ma, non preoccupatevi, anche le questioni sul «sessismo» di Amadeus e quelle sulla «misoginia» del rapper Cally non si placano (contro la sua partecipazione si stanno raccogliendo valanghe di firme). Ieri, addirittura, è intervenuto il premier Giuseppe Conte che ha chiesto di dare «a tutti la possibilità di parlare in piena serenità». Mentre Salvini a muso duro in diretta Facebook ha criticato conduttore e ad Rai Salini: «Si vergognino» e ha aggiunto: «C'è una sinistra che, siccome non vince le elezioni, prova a vincere Sanremo». Per calmare le acque, viale Mazzini in una nota alla Commissione Vigilanza Rai ribadisce che «le donne saranno al centro del Festival e non faranno solo coreografia», ma non ci sono ancora decisioni ufficiali su Cally. Sul fronte compensi a chiedere spiegazioni ai vertici Rai sono stati due esponenti della commissione Vigilanza Giorgio Mulè di Forza Italia e Michele Anzaldi di Italia Viva. Mulè si dice «sconcertato» dal compenso che riceverà Rula Jebreal, secondo indiscrezioni rivelate da Dagospia pari a 20-25mila euro, dal fatto che i vertici Rai giudichino tale cachet «nell'ordine dei valori di analoghe prestazioni» perché «essendo un'artista» dovrebbe ricevere al massimo un «rimborso spese» (pare comunque che il cachet verrà dato da Rula in beneficienza). Anzaldi, invece, sottolinea che la tv di Stato «si rifiuta di fare trasparenza sui compensi delle star ingaggiate per il Festival». Il deputato si riferisce alle indiscrezioni del Giornale, secondo cui il cachet delle co-conduttrici del Festival andrebbe dai 25 a 50.000 euro. Non si tratta di cifre da capogiro, comunque importanti se si pensa che appariranno una sola sera o due. Per Georgina Rodriguez, invece, si è parlato addirittura di 130.000 euro in caso venisse accompagnata da Ronaldo, che seduto in platea, attirerebbe orde di spettatori. Insomma, in Rai si continuano a vivere ore di fuoco. Con l'ad Salini trincerato in viale Mazzini ad assistere al fuoco di fila contro l'azienda. E Dagospia fa sapere che, dopo le elezioni regionali, sarebbero già pronte le valigie per lui, colpevole, tra le altre cose, di non aver soddisfatto i desideri del Pd di cambiare i direttori dei tg. Si vedrà Intanto c'è Sanremo.
Sanremo 2020, il vescovo sta con Amadeus: "È stato frainteso sulle donne, ma Junior Cally deve essere escluso". Libero Quotidiano il 22 Gennaio 2020. Il vescovo di Ventimiglia-Sanremo, monsignor Antonio Suetta, appoggia la linea di Avvenire e si dice d' accordo a escludere dall' Ariston del rapper Junior Cally che, in un suo brano, inneggia al femminicidio. "Contenuti di tale violenza, insulsaggine e volgarità - spiega in una intervista al Giornale - oscurano e cassano ogni pretesa o velleità artistica". E le critiche sulle dichiarazioni di Amadeus sulle donne? "Credo che le sue affermazioni siano state esasperate, forse alla ricerca spasmodica di una vena polemica, che ormai non può mancare al Festival di Sanremo. Certamente il dibattito che ne è scaturito può evidenziare qualcosa di giusto e di doveroso, richiamante una giusta valorizzazione della donna che, accanto al prezioso aspetto della bellezza e dell' eleganza, sappia metterne in luce altri valori ancor più determinanti come la professionalità, il pensiero e una significativa testimonianza di vita. Per dirla con la famosa canzone "donne, oltre le gambe c' è di più". Le donne custodiscono e promuovono tale consapevolezza ed è necessario che la cultura in generale, specialmente lo spettacolo, sia attento e deciso nel superare schemi superflui e logori incapaci di rendere giustizia a tanta dignità".
Andrea Laffranchi per il Corriere della Sera il 22 gennaio 2020. Il presidente Foa incalza, l' amministratore delegato Salini non si muove, Amadeus pensa al «suo» Festival a 24 voci. Junior Cally infatti è nella lista dei duetti - come dire: voglio assolutamente che ci sia - anche se fluttua tra coloro che sono sospesi. Il Festival di Sanremo continua a rimanere appeso in un polemico limbo. La politica - da Forza Italia alla Lega, dal Pd al Movimento 5 Stelle - è compatta nel voler defenestrare il rapper dall' Ariston per i testi del suo repertorio che raccontano di femminicidi e rendono un' immagine negativa delle donne. C' è pure una petizione online, lanciata dalle donne del Pd, che chiede la sua esclusione. Viale Mazzini per ora decide di non decidere, temporeggia in attesa di eventi (le elezioni di domenica?). Intanto Amadeus è a Sanremo (ci rimarrà ancora una settimana) perché sono giorni di prove per i cantanti e lui è tra il meravigliato e il frastornato per gli attacchi che arrivano. Qua e là però incassa anche solidarietà. Come quella di Maurizio Costanzo: «Mi pare esagerato l' attacco ad Amadeus per la frase sul "passo indietro". Ora se ne esce anche Monica Bellucci: stia in Francia, a Parigi, e non ci rompa le scatole...». Si schiera contro l' ipotetica censura Francesco Gabbani, uno dei cantanti in gara: «Sono un sostenitore della libertà degli artisti, indipendentemente dalla modalità di espressione anche quando, come in questo caso, non mi appartiene. E ricordiamoci anche che c' è la libertà dell' ascoltatore che può non ascoltare». Nella serata di giovedì gli artisti non eseguiranno il loro brano, ma una cover di una canzone che ha fatto la storia del Festival con un eventuale duetto e lui porterà, senza nessun ospite, «L' italiano» di Cutugno. «Come "Occidentali' s karma" è stata percepita più per la sua dimensione nazionalpopolare anche se nasconde una lettura più profonda legata ai retaggi dell' italianità». Per le cover, l' arco temporale delle 70 edizioni è ben rappresentato: dal 1958 di Nilla Pizzi con «L' edera» che vedrà impegnato il teenidol Riki con la spagnola Ana Mena al 2019 di «Rolls Royce» di Achille Lauro, inserita in un medley di brani di ogni epoca dai Pinguini Tattici Nucleari. I preferiti sono gli anni Ottanta con otto brani, quindi i Sessanta con sette. Mia Martini si sdoppia: Giordana Angi interpreterà «La nevicata del '56» e Achille Lauro ha chiamato Annalisa per «Gli uomini non cambiano». Piace anche Little Tony: Pelù rileggerà «Cuore matto» e Diodato «24 mila baci» che interpretò anche Celentano. Simone Cristicchi, chiamato da Enrico Nigiotti, è l' unico che rifà un proprio brano («Ti regalerò una rosa»). Paolo Jannacci porta «Se me lo dicevi prima» di suo padre Enzo con Francesco Mandelli. Bugo e Morgan faranno «Canzone per te». Fra i duetti annunciati: Masini e Arisa, il tenore Alberto Urso e Ornella Vanoni, Elodie e il pianista siriano Aeham Ahmad, Elettra Lamborghini e Myss Keta, Gualazzi con Simona Molinari, Zarrillo e Leali, Rita Pavone assieme a Minghi, Tosca con Silvia Perez Cruz, Irene Grandi in coppia con Bobo Rondelli, Le Vibrazioni invitano un' altra band, i Canova, Levante fa il triplete con Francesca Michielin e Maria Antonietta, gioca a quattro Rancore con Dardust e La rappresentante di lista. Gente che si sfila, gente che arriva: Al Bano e Romina - i nostri Brad Pitt e Jennifer Aniston - ci saranno: «Lo scoglio da superare - spiega pragmatico Al Bano - era il cachet». Ospiti della prima serata canteranno «i brani che hanno caratterizzato la nostra presenza al Festival e un inedito scritto da Malgioglio». Quanto a Junior Cally ammette candidamente: «Giuro su Dio, non so chi sia!». Il mondo della politica da una parte, quello della musica dall' altra. In difesa dell' arte o presunta tale: «Le polemiche ci stanno, la censura, magari preventiva, certamente no - riflette Enzo Mazza, ceo di Fimi, la Federazione delle case discografiche -. Il rap, e più in generale la musica urban, è costituito da forme di linguaggio spesso molto crude e dirette. È un genere musicale che non a caso, prima negli Stati Uniti, poi in Europa ed Italia, ha goduto di un crescente successo tra le nuove generazioni».
Ilaria Ravarino per il Messaggero il 22 gennaio 2020. Una canzone per prendere in giro chi lo aveva definito «drogato, alcolizzato e sbandato». Un brano contro i giornalisti, i critici, lo stesso Festival di Sanremo. Con questa idea in testa, nel 1982, Vasco Rossi portava in finale all'Ariston la sua celebre Vado al massimo: con la stessa idea in testa, molto probabilmente, quella stessa canzone sarà interpretata da Junior Cally giovedì 6 febbraio, in duetto con i Viito, duo prodigio di Spotify dai testi irrequieti («Non mi piace questa età, Instagram e Lexotan») e i look da eterni fuorisede. Mentre ancora si discuteva dell'opportunità di mantenere in gara il rapper, Sanremo ieri ha svelato in anticipo la composizione dei duetti previsti nella serata speciale del 6, pensata per celebrare i 70 anni del Festival. (…) Quanto a Junior Cally, si moltiplicano le voci a favore di una sua eliminazione: contrari il Moige («Inadeguato per un pubblico di famiglie»), monsignor Giovanni D'Ercole, segretario della Commissione Episcopale per la cultura («Polemiche costruite per fare audience»), i Papa Boys con la lettera aperta ad Amadeus «per riportare luce in un'epoca buia». Una situazione «medievale» per Irma Conti, cavaliere della Repubblica per la lotta alla violenza sulle donne, «inaccettabile» per la senatrice Valeria Fedeli, il senatore di Forza Italia Lucio Malan e l'Associazione giuriste di Potenza («Disprezza le donne e parla di arte?»). La presenza di Cally risulterebbe «intollerabile» a 20 mila firmatari di una petizione online su change.org, oltre che all'intero Consiglio regionale della Liguria, impegnato a «chiedere alla Rai di ritirargli l'invito». Una bagarre che ha finito con l'attirare persino l'attenzione della contestata ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina («Attenzione alle parole violente nei testi») e che difficilmente lascerà Cally e il suo primo, addolorato scudiero Amadeus, indenni.
Da ilmessaggero.it il 22 gennaio 2020. Slitta la decisione su Junior Cally a Sanremo: in Rai sanno che il cantante è blindato da un regolamento che ne impedirebbe l'esclusione pena un maxirisarcimento danni. Dopo l'uscita a gamba tesa del presidente, Foa, l'ad Salini, però, vuole approfondire la questione e al momento da viale Mazzini trapela solo il fatto che nulla sia stato ancora deciso e che potrebbe essere quella di domani la giornata decisiva. Nel frattempo proprio ieri Junior Cally ha "debuttato" all'Ariston con le prime prove segretissime del brano sanremese. Il tutto mentre deflagrava la bomba legata ai testi e al video delle sua canzone sessista del 2017. La petizione dei dirigenti scolastici. Parte da Pollena Trocchia (Napoli), la crociata di dirigenti scolastici, insegnanti, collaboratori scolastici, genitori, contro la partecipazione al Festival di Sanremo del rapper Junior Cally, la cui presenza chiamerebbe in causa la Rai, secondo quanto sostengono i promotori della petizione avviata online, «con l'accusa infamante di complicità e favoreggiamento della violenza sulle donne». Per la dirigente dell'Istituto Comprensivo Gaetano Donizetti di Pollena Trocchia, Angela Rosauro, la presenza sul palco del rapper romano, infatti, non farebbe altro che «sdoganare all'Ariston la violenza sessuale e il femminicidio», ed è per questo che ieri ha avviato una petizione online , riuscendo ad ottenere in poche ore quasi 500 adesioni e più di 2500 condivisioni in varie zone d'Italia. «Inutile riempire le strade con le scarpette rosse e fare manifestazioni contro il femminicidio - ha sbottato la dirigente - se poi la tv pubblica, con il grande megafono dell'Ariston, consente di sdoganare la violenza sulle donne ed il femminicidio. Non possiamo dare questo esempio ai nostri ragazzi, ai giovani, ai quali cerchiamo di trasmettere i valori del rispetto dell'altro e della non violenza». Nella petizione, che ha fatto il giro d'Italia in meno di 24 ore, e indirizzata alla Commissione parlamentare di vigilanza Rai, i firmatari «a nome di tutti i bambini e le bambine e di tutti i ragazzi e le ragazze a cui ci rivolgiamo ogni giorno affinché costruiscano un armonico progetto di vita personale e sociale», scrivono che è «vergognoso nonché pericolosissimo, in termini educativi e formativi, che sia concessa la partecipazione al festival della canzone italiana di Sanremo, al rapper Junior Cally che non disdegna nelle sue canzoni di definire le donne e il rapporto con esse con versi discutibili».
Massimo Falcioni per tvblog.it il 22 gennaio 2020. A La Zanzara Giuseppe Cruciani cita una "fonte certa" che lega la sorte di Amadeus a quella di Junior Cally: "Finché c'è lui direttore artistico, il rapper resta su quel palco". Esibizione senza maschera? “Amadeus ha legato la sua sorte al Festival a quella di Junior Cally”. A lanciare il retroscena è Giuseppe Cruciani che, durante la puntata di martedì de La Zanzara, annuncia di aver appreso da fonti certe la difesa a spada tratta del conduttore nei confronti del rapper romano nel pieno nella bufera per il contenuto di alcuni suoi testi. Nel mirino non c’è certamente No, grazie, il brano che presenterà a Sanremo 2020, bensì sue vecchie canzoni che negli ultimi giorni sono finite improvvisamente sotto la lente d’ingrandimento. “Fonti molto vicine al festival mi riferiscono che ci sia stata una conversazione tra Amadeus e Junior Cally e Amadeus gli avrebbe detto ’finché ci sono io direttore artistico di Sanremo tu resti su quel palco’”. Si fa largo inoltre l’ipotesi che Antonio Signore – questo il suo vero nome – possa presentarsi sul palco dell’Ariston senza la maschera che copre il suo volto e con la quale si mostrò anche la sera dell’Epifania a I soliti ignoti, quando Amadeus lo ufficializzò in gara.
Junior Cally, è un errore chiedere di escluderlo da Sanremo. Angela Azzaro il 21 Gennaio 2020 su Il Riformista. La nuova polemica che ha investito Amadeus, direttore artistico e conduttore di Sanremo 2020, rischia di essere la più seria. Sotto accusa è la partecipazione del rapper Junior Cally che nella canzone Strega del 2017 esalta la violenza sulle donne. Contro di lui si è schierato un gruppo di donne parlamentari di destra e di sinistra, che ha scritto alla commissione Vigilanza Rai, e il presidente di viale Mazzini, Marcello Foa, infastidito probabilmente molto di più dal brano di quest’anno, No grazie, che attacca il sovranismo di Matteo Salvini (con una frecciata pure a Matteo Renzi). Le parole di Strega sono difficili da digerire: «Si chiama Gioia ma beve e poi ingoia/Balla mezza nuda e dopo te la dà/Si chiama Gioia perché fa la troia/Sì per la gioia di mamma e papà». Il rapper si è difeso dicendo che c’è una differenza tra l’artista e l’uomo e che lui personalmente è sempre stato contro la violenza sulle donne. È una posizione un po’ debole, perché non si assume fino in fondo la responsabilità di ciò che ha scritto e cantato, e perché non tiene conto dell’impatto che queste parole hanno sulle giovani generazioni. È difficile vederci uno scarto, la descrizione critica di un mondo. Il brano suona invece molto di più come il racconto quasi sentimentale di una realtà in cui la sessualità di una ragazza è connotata attraverso il pregiudizio sessista, lo stigma, la violenza. E non basta neanche dire che la musica rap è così: cattiva, politicamente scorretta, irritante, brutale. Con tutti e tutte. Non basta perché in questi testi, come in altri, si può leggere l’adesione a un mondo che andrebbe invece capovolto, buttato in aria, modificato. Ma più questa lettura è vera, più è difficile condividere la proposta che il cantante venga censurato, cacciato via dal festival. La canzone non è quella in gara, ma risale a tre anni fa. È come dire che d’ora in poi non si chiede solo di presentare testi corretti, non urticanti, ma di avere il curriculum intonso, una fedina penale senza macchie, insomma di corrispondere a un ideale di purezza che potremmo anche leggere come il ritorno di un nuovo puritanesimo. Vorrei fosse chiaro: la critica è legittima, dovuta. Altra questione è chiedere che chi la pensa diversamente da noi venga silenziato, buttato fuori, espulso, in quanto rappresentante del male assoluto. È sempre la stessa storia, da qualche anno a questa parte: la lotta delle donne per i diritti rischia, spesso, di prendere la strada della censura. Ma serve davvero a qualcosa, ci aiuta a cambiare il rapporto uomo donna, ci aiuta a parlare a quei milioni di ragazzi e di ragazze (sì, anche molte ragazze) che ascoltano i testi di Antonio Signore, in arte Junior Cally, artista ventinovenne che quando incideva Strega ne aveva 26? Resto convinta di no. E a supporto di questo ragionamento si potrebbe leggere il tweet di Matteo Salvini contro la partecipazione del rapper a Sanremo. «Mi vergogno – scrive il leader della Lega – di quel cantante che paragona donne come troie, violentate, sequestrate e usate come oggetti. Lo fai a casa tua, non in diretta sulla Rai e a nome della musica italiana» (le sgrammaticature sono nel testo originale… ndr). Questo tweet è incredibile, a tal punto da chiedersi se sia vero. Purtroppo è vero. E racconta come Salvini abbia capito poco, se non nulla, della violenza contro le donne che avviene nel 90 per cento dei casi in famiglia. Se c’è qualcosa che va reso visibile e non nascosto è proprio la violenza domestica che si consuma dentro le mura, spesso senza trovare voce, sbocco, salvezza. Il leader della Lega critica il rapper ma lo fa con argomentazioni inquietanti: se la violenza non si vede è come se andasse bene, come se il problema fosse non raccontarla, non mostrarla. Salvini probabilmente non voleva dire questo, ma il (caro) lapsus freudiano svela un mondo, una cultura, una mentalità che va ancora sconfitta. Junior Cally, con la maschera che ha portato a lungo e che ha deciso ogni tanto di levare, è esattamente l’opposto. Esibisce un problema e non lo nasconde, lo racconta in un modo che, a mio parere, è pericoloso, ma mai come il voler mettere il silenziatore. Il rischio che vedo è questo. Si censura, si mette il bavaglio e si nasconde la polvere (in questo caso da sparo) sotto il tappeto. La violenza contro le donne non si risolve così, a colpi di un politicamente corretto che come dimostra il tweet di Salvini cela una grande ignoranza dei veri problemi. Molto meglio sentire che cosa ha da dire Junior Cally, affrontare la discussione, chiedergli conto delle cose che canta, invece di cacciarlo. Sono tante le contraddizioni che ci sta consegnando questa edizione di Sanremo. L’insistenza di Amadeus sulla bellezza delle sue partner in scena, la frase sulla fidanzata di Valentino Rossi, Francesca Sofia Novello, secondo lui encomiabile perché «sa stare un passo indietro», ora la polemica sul rapper nato a Focene, alle porte di Roma. Attraverso il festival della canzone italiana si definisce un mondo ancora profondamente misogino, in cui sono tante, tantissime, le battaglie che si devono fare per i diritti e la libertà delle donne. Bisogna capire se sia meglio farle a colpi di censura o a colpi di cambiamento, con la punizione o con la cultura, con più libertà di espressione o meno libertà di espressione…
Federico Vacalebre per ''Il Messaggero'' il 21 gennaio 2020. Se lo chiedessimo a Mogol che cosa ne pensa di una «ipotesi di valutazione etica del repertorio» dei cantanti in gara a Sanremo? E se lo chiedessimo al presidente della Siae, che, per inciso, oltre all' autore dei successi di Battisti, e tanti altri, ha vinto per quattro volte (Al di là nel 61, Uno per tutte nel 63, Se piangi se ridi nel 65 e Se stiamo insieme nel 91) il Festival, piazzandosi al secondo posto (dopo Vito Pallavicini) come autore con il maggior numero di canzoni iscritte in gara (44)? «Non conosco Junior Cally, non so chi sia, non ho ascoltato il pezzo con cui Amadeus l' ha voluto in gara, No grazie, tantomeno quello sotto accusa, Gioia, e mi fa rabbrividire il solo fatto che il titolo faccia rima con troia», premette Giulio Rapetti, prima di entrare nella questione: «Mi preoccupa sentir parlare di commissione etica per le canzoni. Un direttore artistico sceglie i cantanti in base ai brani che gli vengono proposti, tenendo in mente che cosa c' è alle spalle di ogni singolo artista, certo, ma senza commissioni speciali. Se ci sono frasi non potabili non ammette il pezzo, ma, certo, non lo esclude per quello che ha fatto, detto, addirittura cantato in passato l' aspirante concorrente. Sanremo dovrebbe essere il Festival della canzone, non del personaggio, o delle polemiche fine a se stesso, non dimentichiamolo».
Stefano Mannucci per ''il Fatto Quotidiano'' il 21 gennaio 2020. Tanto vale processare tutti. Con effetto retroattivo. Perché il crucifige nei confronti di Junior Cally, il trapper reo di aver inneggiato a una sorta di femminicidio narrativo, dovrebbe innescare una reazione a catena in cui in troppi finirebbero condannati in via definitiva, pure i semidei di rock, metal e soul. Jimi Hendrix che spara alla sua donna in Hey Joe, i misogini Stones e Led Zeppelin, il sultano Prince, l' intera scena rap Usa (che negli Ottanta Tipper Gore, moglie di Al, tentò di censurare con la sponda dell'establishment dem), il Vasco sessista e razzista di Colpa d' Alfredo o Piero Ciampi, che spaccava il naso alla partner e lo cantava. E come dichiarare prescritti i reati autorali di almeno tre dei partecipanti al prossimo Sanremo, il Masini di Bella stronza (1995), Achille Lauro o quegli innocui pazzerelli dei Pinguini Tattici Nucleari, che tre anni fa in Irene dedicavano a una ragazza versi come "questa sera la faccia te la strapperei via, così faresti paura al mondo ma resteresti sempre mia", e "le mie mani Brigate Rosse accarezzano te che sei Aldo Moro"? Si dirà: ma non sono brani scelti da Amadeus. Neppure quello di Junior Cally: gli incriminati Strega e Giada sono noti da tempo, mentre alla kermesse è approdato No, grazie. Qui l' artista rappa: "Spero si capisca che odio il razzista/ che pensa al Paese ma è meglio il mojito/ e pure il liberista di centro sinistra/ che perde partite e rifonda il partito". E viene il sospetto che l' occhio dell' uragano innescato da un blogger cattolico sia in queste barre, con Bongiorno e Salvini (a sua volta infilzato da un boomerang, "lo fai a casa tua", nel tweet anti-rapper) a raccogliere l' indignazione trasversale per spingere il presidente Rai Foa a chiedere la cacciata di Cally da un Festival che vive di polemiche incendiarie e summit convulsi. Il regolamento vieta l'espulsione in corsa di un artista, la priorità è afferrare il timone, mentre il cast perde un pezzo al giorno, vedi Salmo e Monica Bellucci. Cally si è già scusato: "Non sono un gangster". A questo punto, sarà comunque beatificato come un martire della libertà artistica, con enorme giovamento per download e tour. Lui, il 29enne pronto a togliersi all' Ariston la maschera da supereroe per mostrare il suo vero volto, "la mia faccia da cazzo", precisava nel video di Tutti con me, dove il rito era stato già compiuto. La "faccia da cazzo" è di Antonio Signore, 29enne di Focene, litorale a nord di Roma, il paesino ("dove ero l' unico a non drogarsi", giura) che soccombe nel clash sociale con la riccanza di Fregene. La storia del suo alter-ego, Antonio la racconta nell' autobiografia Il principe (Rizzoli). In cui si scopre che prima del successo (due album dirompenti come Ci entro dentro e Ricercato, roba da vetta delle classifiche) era stato un bambino con gli occhi pieni di terrore per gli anni trascorsi in un reparto di oncologia dove altri piccoli gli morivano intorno. Sentiva parlare di una diagnosi di sospetta leucemia causata da un vaccino e si chiedeva: "A che serve andare a scuola se devo morire?". Riconobbe in sé i segni del disturbo ossessivo compulsivo. Una notte, davanti al letto, vide materializzarsi una figura che voleva dialogare con lui: l' altra parte di se stesso, quella sicura e immune da dolori e sentimenti, che lo esortava ad accettarlo in "una stanza solitaria al centro del suo petto", come in una labirintica gestalt psicoanalitica dove le due identità si fondevano e si confrontavano incessantemente. Antonio che perseguiva il fallimento tra rabbia e rinuncia agli studi, succube di una ragazza, Livia, di quelle che da adolescente diresti irraggiungibili: lei lo avrebbe voluto "perbene" e disposto a rinunciare allo sfogo del rap. Antonio che quantificava la povertà della famiglia - il padre lavavetri, la madre donna delle pulizie - ma che sciupava i giorni tra risse, sale giochi, sesso rapido, alcol e tentazioni fuorilegge. Il fratello di un amico finisce dentro per omicidio, lui si becca sei mesi con la condizionale per furto d' auto: i genitori lo scoprono ascoltando Dedica. Antonio che si tatua sul braccio una bara con il numero 2727 per annullare la maledizione di chi gli aveva predetto la morte a 27 anni. Antonio che incontra un altro amore totalizzante, Viola, capelli rossi come la Strega che un personaggio da fumetto come Junior Cally fa a pezzi simbolicamente in quel brano scandaloso. Eccolo il bad boy, il pregiudicato a vita del rap che fa paura per il suo linguaggio inopportuno e scorretto. Politicamente scorretto.
Mattia Feltri per “la Stampa” il 21 gennaio 2020. Fino a un paio di giorni sia voi sia io eravamo all'oscuro dell' esistenza di un rapper di nome Junior Cally. Ora è la volpe cui tutti i cani, alcuni generosamente portatori della similitudine, danno la caccia per i testi violenti e sessisti (riferisco i giudizi dell' intero arco costituzionale, di colpo riconvertito alla grazia), soprattutto inadeguati a quella fioriera di animi gentili che vorrebbe essere il festival di Sanremo. Il presidente della Rai, Marcello Foa, l' ha giudicata una scelta «eticamente inaccettabile», come se l' arte dovesse avere a che fare con l' etica, classica superstizione di chi l' etica l' ha riposta in cantina. L' arte deve ricreare l' attimo, può salire al sublime o disvelare l' indecente, e vi risparmierò l' ozioso elenco degli artisti osceni e dunque grandiosi. Soltanto mi viene in mente che quand' ero ragazzo il ruolo dello scapestrato, drogato, sconcio, renitente ai sacri valori, cioè il Junior Cally del tempo, apparteneva a uno oggi consacrato padre della patria musicale: Vasco Rossi. Una sua canzone, Colpa d' Alfredo, trattava di una ragazza insignita del titolo di prostituta (con un termine più brusco, però) poiché l' aveva mollato per uno con la macchina più grossa, uno di Napoli sobriamente ribattezzato l' Africano. Non so se fosse poesia, se salisse al sublime o disvelasse l' indecente, ma so che la più grande opera d' arte di Vasco Rossi fu un atto di mutismo quando, trent' anni fa, a metà canzone mollò il palco del festival e, siccome c' era il playback, le strofe continuarono senza che ci fosse nessuno a cantarle. E in un sublime istante si disvelò l' indecente ipocrisia di Sanremo.
Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 21 gennaio 2020. Tutti (o quasi) contro Matteo Salvini per il tweet con cui domenica sera ha attaccato il rapper Junior Cally, finito nelle polemiche sanremesi per un vecchio pezzo, «Strega», dai toni violenti. «A proposito - ha scritto il leader della Lega -, mi vergogno di quel cantante che paragona donne come tr...., violentate, sequestrate, stuprate e usate come oggetti. Lo fai a casa tua, non in diretta sulla Rai e a nome della musica italiana». Il più veloce a scovare il punto debole nella frase di condanna di Salvini è stato il viceministro all' Economia, Stefano Buffagni (M5S), che ieri gli ha risposto sempre su Twitter. «Quindi insultare, sequestrare, violentare, stuprare, usare le donne come oggetti, per te va bene ma basta farlo con discrezione dentro casa? Vergogna! Le donne vanno rispettate e amate. Sempre!». A sorpresa, Gianfranco Librandi (Italia Viva) interviene a difesa del capo del Carroccio: «Sono normalmente contro le posizioni di Salvini, spesso pervase di odio. Questa volta però voglio vedere il bicchiere mezzo pieno anche perché mi rifiuto di pensare che il leader della Lega sia favorevole ai femminicidi, agli stupri e ai furti. Mi pare ovvio che, pur volendo esprimere un concetto giusto, il fatto che Cally non debba salire sul palco dell' Ariston, evidentemente non ha trovato le parole giuste per farlo. Forse lo ha fregato il suo linguaggio da bar sport?». Ma il deputato Matteo Orfini, come altri esponenti del Pd, non molla: «La condanna alla violenza sulle donne non è molto credibile quando viene da uno che portò su un palco una bambola gonfiabile per offendere Laura Boldrini - scrive Orfini -. Ma soprattutto, che diamine vuol dire lo fai a casa tua e non in diretta Rai? Caro Salvini, la maggior parte degli episodi di violenza sulle donne avvengono proprio tra le mura domestiche». Parole condivise dalla stessa Boldrini (Leu). Gianni Sammarco, responsabile comunicazione Forza Italia Lazio, tenta una difesa del leader leghista: «Trovo grottesco che adesso ci si scagli contro Salvini per una frase mal riuscita. Si dovrebbe andare alla sostanza è cioè che tutte le forze politiche e tutte le associazioni stanno stigmatizzando la presenza di Cally a Sanremo. E Salini (amministratore delegato della Rai, ndr ) dovrebbe impedire che ciò accada». Posizioni contrapposte che però diventano univoche su un punto: Junior Cally non deve cantare a Sanremo.
Fabio Fabbretti per davidemaggio.it il 23 gennaio 2020. “Sono contro le quote rosa perché se devo pensare che mi hanno presa al Festival solo perché si deve garantire una quota e non perché sono brava mi intristisce e mi arrabbio pure”. Levante, in gara tra i big del Festival di Sanremo 2020 con il brano Tiki Bom Bom, alza la voce per cercare di spazzare via le polemiche che in questi giorni hanno rimesso al centro concetti come i pari diritti e il rispetto verso il gentil sesso, macchiati però da un ingiustificato alone di ipocrisia. “Certo che mi sono fatta un’opinione e ricordo anche la polemica sul numero di donne al Festival che trovo sterile perché bisognerebbe parlare con i dati alla mano. Se alle selezioni si sono presentate meno donne che uomini è successo quello che doveva succedere” ha dichiarato la cantante a La Stampa. Entrando nello specifico dei casi che stanno scuotendo l’opinione pubblica, Levante ci tiene a difendere Amadeus dall’accusa di sessismo: “Amadeus l’ho conosciuto ed è una persona lontanissima dal sessismo. Il problema semmai sta nel linguaggio comune che deve cambiare. Ama ha detto una frase infelice? E’ vero, ma metterlo in croce non mi sembra il caso. Sono contraria al mettere le persone all’angolo e qui sta avvenendo questo, forse anche per altri motivi”. Per l’ex giudice di X Factor non è Amadeus a discriminare la donna, né Junior Cally, di cui prende le difese ricordando che al Festival c’è passato un collega ben più illustre – Eminem nel 2001 – che non scatenò alcuna rivolta come invece sta succedendo nei confronti del rapper romano: “Junior Cally ha un linguaggio molto esplicito e a tratti violento, ma il rap lo conosciamo dagli Anni 80 e nel 2001 Eminem fu invitato come super ospite con testi molto più forti di quello, andate a tradurvi Stan, il suo singolo più famoso e poi ne parliamo. Mi sembra che l’attenzione si stia focalizzando sulla questione femminile anche in maniera offensiva per chi viene veramente discriminata. Non sono i testi di Junior Cally a dover creare una polemica di questa portata. Dovremmo parlare con lo stesso vigore di problemi ben più importanti”. Annunciati, intanto, i duetti della terza serata, Levante canterà la cover Si può dare di più con Francesca Michielin e Maria Antonietta.
Alessandra Magliaro per l'ANSA il 23 gennaio 2020. Ha condotto il festival di Sanremo numero 60 e torna all'Ariston per il 70/o: Antonella Clerici si gode l'adrenalina tipica della vigilia e sulle polemiche che avvelenano queste giornate, in un'intervista all'ANSA, dice: "sono il sale del festival, fanno parte delle regole non scritte del gioco e ci sono sempre state. Sono inevitabili credo, poi però devono esaurirsi, specie se fondate sul nulla, c'è un limite a tutto. Per parole sbagliate, poi chiarite, si fanno discussioni infinite". La Clerici parte dalla sua esperienza: "nel mio Sanremo ci fu il caso Morgan ne vogliamo parlare?". La vicenda del 2010 fu clamorosa: annunciato tra i Big con il brano La sera Morgan fu eliminato 'a tavolino' dopo un'intervista nella quale parlava di uso di droga per fini terapeutici. Le polemiche, guidate dall'allora sottosegretario Carlo Giovanardi, furono infuocate, uno psicodramma nazionale (il caso vuole che Morgan torni in gara quest'anno con Bugo). Antonella Clerici, una delle numerose partner di Amadeus al festival, raggiunta nel backstage della sfilata di alta moda alla Parigi Fashion Week di Tony Ward, il couturier di origine libanese che la vestirà a Sanremo, si riferisce alla frase sessista del conduttore alla conferenza stampa del 14 gennaio che ha scatenato il dibattito (prima che si passasse ai testi del rapper Junior Cally). "Alla polemica in sé aggiungo il ruolo dei social che amplificano tutto sempre, figuriamoci un evento come il festival. Si facevano i gruppi d'ascolto discutendo di canzoni e look, ora il gruppo è trasferito online, ma bisogna dare il giusto peso alle cose e senza essere offensivi. Io stessa sono molto attiva ma guai a giudizi frettolosi, ad insulti, ad offese e se mi capita di ricevere critiche pesanti, come pure è accaduto, non le accetto e banno il profilo", aggiunge. Del prossimo festival dice: "Ama è un amico e io vivo questa cosa come un divertissement. Sarò nella serata del venerdì, quella abbinata ai giovani, e io la musica giovane l'ho sempre seguita da Ti lascio una canzone a Sanremo Young. L'idea insomma mi divertiva". Quindi un riavvicinamento in Rai dopo i problemi delle scorse stagioni ? "Non devo dimostrare niente e sarò all'Ariston senza obiettivi, ma per godermi l'esperienza. Sono in quella fase dell'età guidata dal 'Qui e Ora'". A Parigi per la sfilata di Tony Ward e per qualche ispirazione nel look sanremese? "Avrò abiti iper femminili, eleganti. Ho pensato subito a lui, mi conosce bene, apprezzo il suo lavoro di haute couture. La sfilata appena finita ne è una dimostrazione: ricami, tessuti opulenti, luccichii e finalmente tanto colore e poco nero".
"Ma quale sessismo... Ogni donna al Festival avrà un suo ruolo". La giornalista del Tg1 difende Amadeus: «Basta con il luogo comune belle e sceme». Laura Rio, Venerdì 24/01/2020, su Il Giornale. Anche con Laura Chimenti Amadeus è stato galante, nell'ormai famosa conferenza stampa di Sanremo. L'ha presentata come «uno dei volti storici più belli del Tg1», oltre ovviamente che come «giornalista stimata». E anche lei, anchorwoman dell'edizione delle 20, come le sue dieci (o forse meno, visto i forfait) colleghe prossime co-conduttrici del Festival, assicura di non esserci rimasta male, di non essersi sentita sminuita né tanto meno umiliata. Anzi, si dice sbalordita dal vortice di polemiche che si è scatenato attorno a Sanremo e che ha portato addirittura 29 parlamentari a firmare una lettera per invitare il conduttore a chiedere scusa pubblicamente durante la prima serata della kermesse canora.
Laura, secondo lei le polemiche di questi giorni sono esagerate?
«Sì, perché l'intento di Amadeus andava proprio in direzione opposta rispetto a ciò di cui lo si è accusato. Lui durante il Festival vorrebbe valorizzare l'aspetto intellettivo, interiore e culturale delle donne. Per questo ha pensato di convocarne dieci, per mettere in luce i diversi lati del mondo femminile, da quello della bellezza a quello della professione».
Però in conferenza stampa ha sottolineato soprattutto l'aspetto dell'avvenenza e ha usato quella frase infelice rivolta a Francesca Sofia Novello sulla sua «capacità di stare un passo indietro al suo uomo»...
«Ma è chiaro che è stato frainteso. Questo pensiero non rientra assolutamente nel modo di ragionare di Amadeus. Come ha spiegato, voleva dire che Francesca è una persona così specchiata da non voler approfittare del suo fidanzato famoso, Valentino Rossi. Lei fa la modella, ovviamente deve essere bella e poi è una persona così delicata... Può succedere che, per l'emozione, ci si esprima male. Ma non si può essere messi alla gogna per questo».
Se a lei dicono che è bella si offende?
«Assolutamente no. Lo ritengo un complimento. Se poi aggiungono che sono anche brava è ancora meglio. Però è ora di finirla di pensare che se una donna è brava è brutta e se è bella è scema».
In conferenza non le faceva impressione essere seduta al tavolo con cinque donne, tutte ai lati di un solo uomo?
«Ma perché? Quest'anno è stato scelto lui come direttore artistico e conduttore, per cui lui è al centro. Noi siamo la corolla. Ma non c'è nulla di male, perché ognuna rappresenta qualcosa di importante. In altre edizioni ci sono state presentatrici come Antonella Clerici o Michelle Hunziker».
Lei ed Emma D'Aquino, sua collega al Tg1, che cosa farete sul palco, come mostrerete la vostra «sfaccettatura» di giornaliste?
«Veramente non lo sappiamo ancora. Non ci è stato ancora detto. Mi spiace che nella nostra serata, quella del mercoledì, non sarà con noi Monica Bellucci, che ha scelto di non partecipare. Sarebbe stato un bell'incontro».
E dell'altra grande polemica di questi giorni sui testi misogini e violenti delle pregresse canzoni del rapper Cally cosa pensa?
«Il pericolo, secondo me, viene dall'amplificazione che i social possono dare ai messaggi dei cantanti. In certi casi è lecito avere una giusta preoccupazione nei confronti dei giovani che vedono nei rapper degli idoli da imitare. Detto questo bisogna valutare il testo della canzone presentata».
Avrete un compenso per la vostra partecipazione?
«Figuriamoci, noi siamo dipendenti Rai in trasferta».
Ma pensa che tutte queste polemiche scatenate attorno a una manifestazione così importante e popolare possano aiutare il dibattito sulla questione femminile?
«In Italia e nel mondo c'è ovviamente ancora molto da fare per raggiungere una maggiore parità di genere. Magari la nostra presenza potrà essere un esempio concreto di quanto una donna può valere da tutti i punti di vista».
Junior Cally è sessista? E allora censurate anche i Beatles…Daniele Zaccaria il 21 gennaio 2020 su Il Dubbio. Il festival di Sanremo e le (ipocrite) polemiche sul rapper romano. «Preferirei vederti morta piuttosto che con un altro uomo» cantava il diabolico John Lennon ( Run for your life) nel 1965. Non proprio un’ istigazione al femminicidio ma poco ci manca. Molto più risoluto Jimi Hendrix con il protagonista di Hey Joe ( 1967) che uccide la sua «vecchia signora» a colpi di revolver; un po’ come il Neil Young di Down by the river ( 1969) che fa fuori la fidanzata sul greto del fiume, a pistolettate. O il Johnny Cash di Cocaine Blues ( 1977) che spara alla moglie dopo essersi sparato una copiosa striscia di polvere bianca. Ancora più truculento lo scozzese Tom Jones: in Delilah ( 1967) l’arma del delitto è un gelido coltello che, quando affonda nelle carni, «la fa subito smettere di ridere». Non è necessario evocare l’omicidio per far sfoggio di sessismo si può ad esempio negare uno stupro come Bruce Springsteen in Fire ( 1987): « Mi avvicino a te tu dici di no, ma so che stai mentendo, quando ci baciamo tra noi è il fuoco ». Per non parlare di Frank Zappa, dei Black Sabbath, del machissimo metal, del violentissimo hip pop e via discorrendo. In tal senso il rapper romano Junior Cally, finito nel vortice delle polemiche perché i suoi testi inciterebbero alla violenza sulle donne, è un dilettante. La sua partecipazione alla settantesima edizione del Festival di Sanremo è però a rischio: il presidente della Rai Marcello Foa e un nugulo di parlamentari della repubblica chiedono che venga escluso dalla competizione per un testo – Strega- di tre anni fa che, ai loro occhi, sarebbe una compiaciuta apologia del femminicidio: l’io narrante racconta infatti di avere ucciso una tipa e poi di averle rubato la borsa. Cally non deve essere cacciato per la canzone che porta in concorso ( la solita innocua lagna “anti- sistema”), ma per un brano del 2017. Una censura retroattiva dunque. In fondo Sanremo è un “programma per famiglie”, dicono i censori, una zuppa nazional- popolare, uno show edificante dove trionfano i buoni sentimenti. E tutto deve essere costruito per far brillare la canzone italiana in tutto il suo splendore. Già, la canzone italiana. Chi ricorda per caso il testo di Via Broletto 34 ( 1962) in cui l’elegante Sergio Endrigo racconta come abbia mandato all’altro mondo la sua amata in un raptus di gelosia? « Potete anche gridare, fare quello che vi pare L’amore mio non si sveglierà Ora dorme e sul suo bel viso C’è l’ombra di un sorriso Ma proprio sotto il cuore C’è un forellino rosso Rosso come un fiore Sono stato io Mi perdoni Iddio». In Lella ( 1970), di Edoardo De Angelis il canovaccio è simile ma a fare una brutta fine è l’omonima amate del protagonista, nonché moglie di un noto usuraio romano. «Canzone pasoliniana» dissero i critici dell’epoca prima di spedirla trionfalmente al Cantagiro del 1971. Per venire a tempi più recenti si può citare il celebratissimo Vasco Rossi che In colpa d’Alfredo ( 1980) non uccide nessuna ragazza, ma non risparmia invettive alla sua lei, colpevole di averlo lasciato per un altro: « È andata a casa con il negro, la troia! ». Oltre le Alpi, tra gli chansonnier si può citare la Marinette (1958) di George Brassens (nume tutelare del nostro Fabrizio De André), una «piccola traditrice» che viene «uccisa da un raffreddore prima che io potessi farle saltare in aria le cervella». Oppure il meno conosciuto Michel Sardou che in Le ville de la grande solitude ( 1973) esclama senza vergogna: «Stasera ho voglia di violentare le donne, di forzarle ad ammirarmi e di bere tutte le loro lacrime». Ce n’è anche un mostro sacro del pop- rock come Johnny Halliday che in Requiem pour un fou (1976) fa fuori la sua bella perché lui è semplicemnte un uomo «pazzo, pazzo d’amore». D’altra parte come diceva il belga Jacques Brel «gli uomini piangono, le donne piovono». In fondo quello della sottomissione femminile nella canzone popolare è un filone che viene da molto lontano, almeno dal 1787 quando il librettista Lorenzo Da Ponte termina la stesura del Don Giovanni di Mozart:
«Batti, batti o bel Masetto
la tua povera Zerlina.
Staro qui, agnellina
le tue botte ad aspettare ».
Ora, di fronte a questa galleria la bufera mediatica che si è abbattuta su Junior Cally sembra un venticello stantìo, ipocrita e stantìo, se non addirittura una polemica artificiosa. Creata ad arte per titillare il moralismo più o meno latente dell’opinione pubblica e per far cassa con i residui pavloviani del familismo italico. Con il solito vecchio schema: confondere il pensiero degli autori con le loro opere e assimilarli ai loro alter ego virtuali. Tenere ben distinte realtà e finzione è un esercizio salutare per la mente di ognuno di noi, a meno che non siamo convinti che Quentin Tarantino inciti davvero a bruciare vivi poliziotti legati a una sedia ( Le Iene), Stanley Kubrik a torturare i detenuti ( Arancia Meccanica). O che il Nabokov di Lolita sia veramente un predatore sessuale di ragazzine 13enni come il suo tormentato Humbert Humbert. Questa commistione di generi non è solo ipocrita ma del tutto fuorviante e schizoide. Per una crudele ironia della sorte l’unico femminicidio compiuto in tempi recenti da una rockstar è quello della povera Marie Trintignant, massacrata a suon di botte in una camera d’albergo lituana da Bernard Cantat, il frontman dei Noir Desir, uno dei gruppi europei più impegnati politicamente, schierato contro la guerra, contro lo sfruttamento capitalista, contro la violenza di genere.
Enzo Boldi per giornalettismo.com il 20 gennaio 2020. «Mi verrebbe di strapparti quei vestiti da puttana e tenerti a gambe aperte finché viene domattina». Non è uno dei testi del tanto criticato (anche giustamente) Junior Cally. L’autore di questo famosissimo verso è Marco Masini, anche lui prossimo cantante in gara a Sanremo 2020. Nel Festival delle polemiche, infatti, viene chiamato in causa anche il cantautore toscano che, nella sua nota ‘Bella stronza’, si è reso protagonista di questo passaggio controverso in cui si parla di una reazione istintiva che avrebbe voluto avere – nei confronti di una donna -, ma che non avrà. Come in ogni Sanremo che si rispetti, dunque, non possono mancare le polemiche. E il web ha sollevato la questione Marco Masini dopo aver scatenato – con tanto di richiesta di esclusione dal concorso – quelle che ora mettono a rischio la presenza del Junior Cally sul palco dell’Ariston. I due casi sono diversi: il rapper romano – come già accaduto in passato con Sfera Ebbasta, tra gli altri – ha scritto diverse strofe in cui la donna viene insultata e rappresentata come un oggetto sessuale.
Masini come Junior Cally? Però occorre sottolineare come anche Marco Masini, se si segue questa linea, non è esente da colpe. Il verso incriminato è l’ultimo prima del ritornello finale di Bella Stronza, famossissima canzone scritta con Giancarlo Bigazzi e pubblicata nel 1995. Anche in questo caso, seppur in modo diverso (e meno scanzonato), compare una citazione molto discutibile sulle reazioni di un uomo nei confronti di un rifiuto di una donna.
Il testo di Bella Stronza. «Mi verrebbe di strapparti quei vestiti da puttana e tenerti a gambe aperte finché viene domattina. Ma di questo nostro amore così tenero e pulito non mi resterebbe altro che un lunghissimo minuto di violenza e allora ti saluto… bella stronza». Un testo, quello di Masini, che indica un’intenzione stoppata solamente dalla voglia di non rovinare il ricordo di una storia finita male. Poche parole, a differenza delle numerose ‘dediche’ fatte da Junior Cally nei suoi testi, ma da sottolineare.
Testi controversi, non solo Junior Cally: 10 canzoni, da Sfera Ebbasta a Vasco Rossi. Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Arianna Ascione. Il caso del rapper, finito sotto accusa per alcuni brani considerati violenti e sessisti, è solo l'ultimo in ordine di tempo. «L'arte può avere un linguaggio esplicito e il rap, da sempre, fa grande uso di elementi narrativi di finzione e immaginazione che non rappresentano il pensiero dell'artista»: così si è difeso Junior Cally, al centro dell'ultima polemica pre-Sanremo 2020 a causa di vecchi testi considerati violenti e sessisti. Il rapper non è il solo nel panorama musicale italiano ad aver scritto in passato liriche controverse: Sfera Ebbasta ad esempio è stato ripetutamente accusato di misoginia (in «Hey tipa» ad esempio rappava «vogliono un cazzo che non ride, sono scorcia-troie, siete facili, vi finisco subito»).
Vasco Rossi - Colpa d'Alfredo. In «Colpa d'Alfredo» di Vasco Rossi, scritta nel 1980, compaiono diversi passaggi spinosi, da «È andata a casa con il negro la troia» a «io prima o poi lo uccido» (riferito al suddetto Alfredo). In «Ti taglio la gola» del 1985 invece il rocker di Zocca cantava «appena ti prendo da sola ti taglio la gola».
Afterhours - Lasciami leccare l'adrenalina. «Lasciami leccare l'adrenalina», contenuta nell'album più famoso degli Afterhours di Manuel Agnelli («Hai paura del buio?» del 1997), contiene il verso «sei più bella vestita di lividi».
Marco Masini - Bella stronza. Nella nota di Junior Cally inviata alla stampa per difendersi dalle accuse di violenza e sessismo il rapper ha citato un altro degli artisti in gara a Sanremo 2020, Marco Masini, che in un suo celebre brano del 1995 diceva: «Bella stronza, che hai chiamato la volante quella notte [...] Mi verrebbe di strapparti, quei vestiti da puttana e tenerti a gambe aperte, finché viene domattina».
Achille Lauro - La bella e la bestia. Non è la prima volta che Achille Lauro finisce nel mirino: lo scorso anno (quando portò a Sanremo «Rolls Royce») fu accusato di aver inserito nel testo riferimenti all'uso di droga. Ora invece è tornato alla luce un passaggio de «La bella e la bestia» del 2015: «L'amore è un po' ossessione, un po' possesso, carichi la pistola e poi ti sparo in testa».
Myss Keta - Milano sushi & coca. «Toccami la gamba, Passami la bamba, Kyto, Poporoya. Jo sono la tua troia, Milano, coca, sushi, moda»: è nota per essere molto esplicita nelle sue canzoni (come questa citata, «Milano sushi & coca») anche Myss Keta, nel cast de L'Altro Festival condotto da Nicola Savino.
Fabri Fibra - Venerdì 17. Per colpa di «Venerdì 17», in cui descrive lo stupro e l'assassinio di una bambina, e di altri suoi testi considerati crudi e sessisti Fabri Fibra nel 2013 venne escluso dal cast del Concertone del Primo Maggio: «Il rapper non prende una posizione sulla canzone che scrive - aveva scritto in una lettera aperta pubblicata dall'Huffington Post - è l'ascoltatore che è costretto a riflettere e a prendere una posizione. Nel 2013 sono stanco di essere descritto ancora come il rapper violento: in passato mi accusavano di non rispettare le donne nelle rime, ma io scrivevo quello che vedevo non quello che pensavo».
Emis Killa - Tre messaggi in segreteria. «Preferisco vederti morta che con un altro»: in «Tre messaggi in segreteria» del 2016 Emis Killa ha provato a raccontare la storia di uno stalker ossessionato da una ragazza dal suo punto di vista, e proprio per questo è stato accusato di istigare al femminicidio. «Nelle canzoni racconto la realtà, che a volte è orribile, a volte è sbagliata, ma mai possiamo far finta che non esista. Ho corso di proposito il rischio di essere frainteso perché il mio richiamo alla riflessione e alla consapevolezza non passasse inosservato, e l'ho fatto coi modi e le parole che sono mie» spiegò in risposta alle critiche.
Modà - Meschina. «Devi dirmi scusami e feriscimi, e implorarmi di non ucciderti»: è un verso contenuto in «Meschina», canzone dell'album «Sala d'attesa» del 2008 che parla del tradimento di una donna. In «Vittima» invece Kekko Silvestre cantava «Godo nel vederti persa, vittima della mia rabbia».
Dark Polo Gang - DM. Anche la Dark Polo Gang è stata più volte accusata di sessismo (da «Metti un guinzaglio alla tua ragazza, ci vede e si comporta come una troia», frase inserita in «DM», a «Mi vede e dopo apre le gambe , la scopo e poi si mette a piangere», presente in «Magazine»).
DAGONEWS il 15 gennaio 2020. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha respinto l’appello presentato da tre donne del New Hampshire che erano state arrestate per aver mostrato il seno in pubblico. Heidi Lilley, Kia Sinclair e Ginger Pierro, attiviste della campagna “Free the Nipple”, avevano fatto ricorso, contestando la “Laconia law”, considerata discriminatoria nei confronti delle donne e non degli uomini. Secondo la legge viene vietato il sesso e il nudo in pubblico, ma individua il problema nel seno delle donne e in particolare del capezzolo che non deve essere mostrato e deve essere completamente celato. Nel loro appello alla Corte Suprema, gli avvocati dichiaravano: «Sono state arrestate perché sono donne, per aver fatto ciò che ogni uomo può legittimamente fare. Per il semplice fatto di essere in topless in pubblico, ognuna di loro è stata condannata per aver violato un'ordinanza che criminalizza l'esposizione pubblica del seno femminile». La battaglia legale è iniziata nel 2016, quando Ginger Pierro è stata arrestata su una spiaggia della Laconia per aver praticato yoga in topless. Altre due donne, Heidi Lilley e Kia Sinclair, sono state arrestate tre giorni dopo per aver mostrato il seno sulla stessa spiaggia per protestare contro l'arresto di Pierro.
“La Costituzione è troppo maschile”. E in Spagna è lite governo-linguisti. La vicepremier socialista del governo Sánchez, Carmen Calvo, (a sinistra) con la ministra dell’Uguaglianza Irene Montero, di Podemos. Dalla Real Academia no al piano di Sánchez che vuole modificare il linguaggio della Carta. Alessandro Oppes il 17 gennaio 2020 su la Repubblica. Il governo di Pedro Sánchez vuole cambiare la Costituzione. Non per modificarne le basi o i principi fondamentali: l'idea è solo quella di aggiornarla dal punto di vista linguistico, rendendola "inclusiva", rispettosa dei principi di uguaglianza uomo-donna. Ma la Real Academia Española, il supremo "guardiano" dell'idioma di Cervantes, incaricata un anno e mezzo fa dalla vicepremier Carmen Calvo di preparare un rapporto dettagliato sulla questione, non è affatto della stessa opinione: non ritiene che esistano motivi linguistici per modificare la Carta fondamentale. Il documento è pronto, lunedì sarà presentato alla stampa dal direttore Santiago Muñoz Machado. Si conosce però già il senso del lavoro fatto da quattro accademici (o meglio, due accademiche e due accademici): il testo approvato nel 1978, in piena transizione democratica - quando la Spagna usciva dal quarantennio franchista, un'epoca fatta di repressione e impregnata di cultura machista - ha bisogno solo di "alcuni cambiamenti" ma non di "grandi modifiche". I saggi della Docta Casa, com'è anche conosciuta, ritengono che la Costituzione sia stata redatta in maniera corretta e che non abbia necessità di grandi interventi che la "femminilizzino". Questo significa che non dovrà essere messa per iscritto la distinzione tra ministro e ministra, tra deputato e deputata? La linea dell'accademia è quella già enunciata 8 anni fa nel dossier "Sessismo linguistico e visibilità della donna". Dove si dice che "rendere esplicita sistematicamente la relazione tra genere e sesso" non garantisce "la visibilità della donna". È la cosiddetta Doctrina Bosque (dal nome del cattedratico che è anche uno degli autori del rapporto approvato in questi giorni) basata sull'idea che "non ha senso promuovere politiche normative che separino il linguaggio ufficiale da quello reale". Alla tradizionale sensibilità socialista per la questione femminile, con la nascita del nuovo governo di coalizione progressista (che ha tre donne alla vicepresidenza) si è sommata la forte vocazione femminista di Unidas Podemos. E già la cerimonia del giuramento ha avuto il suo risvolto linguistico, con le ministre Irene Montero e Yolanda Díaz che - reinterpretando la formula di rito - hanno promesso di "mantenere il segreto sulle delibere del Consiglio delle ministre". Immediata, via Twitter, la reazione della Real Academia: "La formula non è grammaticalmente accettabile se nel governo ci sono anche maschi". E ce ne sono parecchi, ovviamente: oltre al presidente Sánchez, undici ministri (così come undici sono le ministre). La Rae, per una questione di "economia del linguaggio" (mai usare più parole di quelle che sono indispensabili) non è neppure favorevole alle formula che cita uomini e donne, perché uno sdoppiamento - ad esempio dire "Consiglio delle ministre e dei ministri" - è "artificioso e innecessario" dato che "il genere maschile designa gli individui di un gruppo senza distinzione di sessi". Gli studiosi cercano di mantenersi fedeli al loro ruolo di notai della lingua e temono di essere tirati dentro a una battaglia politica che non li riguarda. Ovviamente il governo conosce bene la grammatica, ma è anche attento alle rivendicazioni del movimento femminista, che pensa di trasferire nel testo costituzionale con un gesto altamente simbolico. Sempre nei limiti della decenza idiomatica. Anni fa la deputata socialista Carmen Romero sdoppiò il termine giovani in jóvenes y jóvenas, poi una ministra del governo Zapatero, Bibiana Aído, scisse i membri in uno stupefacente miembros y miembras. Ancor più spericolata la trovata linguistica di Irene Montero, oggi ministra dell'Uguaglianza. Che due anni fa, parlando di una donna portavoce, la definì portavoza.
Da ilmessaggero.it il 17 gennaio 2020. Arrivano direttamente dalla Russia le immagini della prima bambola transessuale al mondo. Sui social circolano le foto di una bambola con capelli lunghi, vestitino femminile e genitali maschili scattate nel negozio Planeta Igrushek (Pianeta dei Giocattoli) nella città di Novosibirsk, in Siberia. Gli scatti sono diventati immediatamente virali e hanno molto fatto discutere i russi, divisi fra chi apprezza il giocattolo e chi lo ritiene un'inutile provocazione. Non è la prima volta che si sente parlare di bambole transessuali - la Mattel ha addirittura annunciato di volerne produrre un modello nel settembre 2019 - ma il fatto che ne sia stata avvistata una in un negozio di giocattoli, per giunta in un paese conservatore come la Russia, ha scatenato il dibattito sui social.
Aiuto, il gender invade fumetti e cartoon: in arrivo superoi gay e trans firmati Marvel. Ezio Miles venerdì 10 gennaio 2020 su Il Secolo D'Italia. L’ultima frontiera del gender si chiama Marvel. Il colosso Usa di fumetti e cortoon ha deciso di invadare il mercato con supereroi gay e trans. L’indiscrezione di qalche mese fa è stata ora confermata a Io Donna Victoria Alonso, capo produzione dell’universo cinematografico della casa dei fumetti. La prima pellicola arcobaleno dovrebbe chimarsi The Eternals. Dovrebbe uscire nelle sale cinematografiche il prossimo 6 novembre 2020.
Prepariamoci al trionfo del politically correct più tossico. Non solo Lgbt, ma dn tutto e di più. “Vedrete dei volti nuovi, di diversa provenienza, età, etnia, Lgbt”, dicela Alonso. “È una priorità per noi essere autentici. Dare una maggiore rappresentazione a chi non è stato rappresentato nei film sul grande schermo”. La Alonso è parte in causa nel gender. Visto che è sposata con l’attrice Imelda Corcoran. Ideati da Jack Kirby apparsi per la prima volta nel luglio 1976, gli Eterni sono degli esseri sovrumani in continua lotta con le loro controparti malvagie, i Devianti. Nel fumetto originale, non c’è alcuna traccia di personaggi omosessuali o Lgbt, ma il pensiero unico che imperversa nelle produzioni hollywodiane, impone una “revisione” e l’introduzione di nuovi personaggi capaci di rappresentare le più disparate minoranze. Poveri noi. Povere soprattutto le nuovegenerazioni costrette a crescere con simili personaggi.
Flaminia Bussotti per “il Messaggero” il 14 gennaio 2020. Se c'è una cosa a Vienna, accanto ai Lipizzani e alla Sachertorte, che sta per tradizione è il Ballo dell'Opera: ogni anno si svolge di giovedì grasso a Carnevale, la stagione per eccellenza dei balli che nella vecchia capitale asburgica è celebrata con frenesia dionisiaca. Quest'anno però la tradizione fa un'eccezione, che probabilmente diventerà regola: per la prima volta nella quasi secolare storia del Ballo (il primo fu nel 1935) fra le decine di coppie di debuttanti sfilerà una coppia di donne, in omaggio non tanto al movimento Lgtb quanto semplicemente allo Zeitgeist, lo spirito del tempo. Due ragazze tedesche del Baden-Württemberg (Ovest), che dicono di non essere una coppia lesbica, Sophie Grau di 21 anni di Fellbach e Iris Klopfer di 22 di Ludwigsburg, si sono registrate in tempo per partecipare al Ballo del 20 febbraio prossimo e sono state ammesse: unica condizione, attenersi al dress code di tutte le altre coppie di debuttanti, 150 quest'anno, in lungo bianco per le ragazze e frac per i maschi, e padroneggiare il famoso Dreiviertel Walser, il valser a ritmo ternario con rotazione a sinistra, vera peculiarità del Ballo, che per essere dominato richiede ore di corsi e di allenamento. Sophie quindi indosserà il frac con le manchettes e Iris l'abito bianco lungo con la tiara in testa, una coroncina di strass incastonati nell'acconciatura. «Trovo assolutamente giusto accogliere la coppia di donne fra le coppie di debuttanti», ha detto la madrina del Ballo, Maria Grossbauer: «infatti rispettano il criterio principale, sanno ballare il valser», ha aggiunto tagliando corto alle montanti polemiche. Il Ballo dell'Opera è l'avvenimento mondano dell'anno a Vienna con circa 5.000 partecipanti e prezzi salatissimi (per un palco fino a 13.000 euro) che portano parecchi ricavi nelle casse del Teatro. Questo del 2020 è peraltro l'ultimo Ballo del sovrintendente della Staatsoper, Dominique Meyer, in veste di padrone di casa, prima del suo definitivo trasferimento alla Scala a Milano. Le due ragazze tedesche studentessa di Musica Sophie e di medicina Iris sono amanti del ballo e affermano di avere avuto l'idea di candidarsi per testare la parità dei diritti in una manifestazione così tradizionalista. Dicono anche di non essere una coppia lesbica ma piuttosto una coppia queer (strana, che in inglese sta per gay ndr) e di avere molti amici omosessuali nel loro giro. Iris poi ha ammesso di avere avuto una gran voglia di partecipare a un evento così mondano con abito lungo e lustrini. «Per me è facilissimo perché mi sento donna al 100%, ma con la nostra presenza volevo appoggiare Sophie a rompere i canoni sessuali», dice Iris. Da qui al 20 febbraio, le due ragazze, assieme a tutti gli altri debuttanti, prenderanno meticolose lezioni di ballo dagli insegnanti delle scuole più rinomate e passeranno di mano in mano di sarte, parrucchieri, truccatori. In ricordo della serata da favola, potranno portarsi a casa, Iris la coroncina e Sophie le manchettes del frac.
Marco Lanterna per “la Verità” il 13 gennaio 2020. Se ieri il mondo veniva salvato da Iron man, Capitan america o Spiderman, supereroi eterosessuali con tanto di fidanzata a casa, molto presto toccherà a dei supereroi Lgbt. Ne è convinta la Marvel comics la cui nuova parola d' ordine, nonché fonte d' ispirazione, è «inclusività». Proprio questo va ripetendo, in ogni intervista, il suo presidente Kevin Feige, ottenendo tra l' altro una formidabile copertura pubblicitaria. È bastato infatti lasciar trapelare che The Eternals - film in arrivo nel 2020 con Angelina Jolie - sarà il primo con un supereroe Marvel dichiaratamente gay per creare una curiosità e un' attesa spasmodiche, nemmeno fosse un capolavoro della settima arte. Appena qualche accenno al personaggio e alla trama - «la storia di un uomo sposato, con figli, che scopre però di essere anche altro» - ha prodotto un' infinità di congetture e condivisioni sul web. Perciò Feige in questi giorni ha ripetuto il giochetto, annunciando che dopo The Eternals il pantheon Marvel si arricchirà presto anche di un protagonista transgender. Con un tono d' orgoglio Feige ha definito «storico» l' evento, aggiungendo che «il film è in lavorazione proprio ora». Perciò tra i fan si è subito scatenato un tototransgender per capire in quale pellicola apparirà e con quali caratteristiche (sì perché i più saputi scommettono che la sessualità di questo nuovo supereroe Lgbt avrà degli effetti anche sui suoi poteri). Intanto, a mo' di antipasto, il prossimo Thor 4 con Chris Hemsworth nelle sale nel 2021, presenterà un personaggio collaterale orgogliosamente Lgbt, ovvero Valchiria, figura già vista nel terzo capitolo della saga del dio norreno, senza però che venisse esplicitato il suo orientamento sessuale. La Marvel ha in cantiere anche il seguito di Black Panther (il cui primo capitolo ha solleticato l' orgoglio di tutti gli afroamericani, fruttando un miliardo di dollari al botteghino) e Shang-Chi pellicola che nel 2021 presenterà al mondo il primo supereroe asiatico-americano (in attesa di vedere rappresentate sullo schermo tutte le minoranze etniche Usa, dai messicani agli italoamericani, ognuna con il suo paladino ad hoc). Insomma la Marvel ha abbracciato programmaticamente il politically correct, intuendone i benefici sia in termini d' immagine che soprattutto d' incassi. Che poi i supereroi siano anche delle proiezioni superegoiche utili ai più piccoli per definire la loro personalità in formazione (meccanismo identificativo che questi nuovi paladini crossgender rendono problematico, se non dannoso o impossibile) non sembra preoccupare più di tanto la mecca del cinema. Ne è prova che l' altro colossale competitor dei fumetti - cioè la Dc comics - non sta ferma a guardare, avendo parimenti intuito le possibilità di questo nuovo trend creativo. Dopo una Wonder Woman amazzone in forte odore di lesbismo, per la Dc si vocifera di una Batwoman ebrea e lesbica, nonché - udite udite - del primo Superman gay. Ebbene sì, il supereroe per eccellenza, forse stufo di far la corte a Lois Lane nelle vesti del goffo e occhialuto Clark Kent, farà infine outing, deponendo il suo mantello d' acciaio per il boa di struzzo. Pertanto i genitori che in futuro porteranno tranquilli i loro figli al cinema, convinti di farli assistere a un' epica e ancora bambinesca battaglia tra il bene e il male, sono avvisati: anche nei personaggi dei fumetti, un tempo manichei e verecondi, sta soffiando la tramontana dell' ibridazione, della contaminazione, del gender esibito con iattanza da gay pride, insomma il nuovo diktat Lgbt. Non stupisce quindi che qualche tempo fa, il sindaco di Rio de Janeiro, Marcelo Crivela, abbia ordinato il ritiro di un fumetto della Marvel dal titolo Avengers: the children' s crusade esposto nell' istituzionale cornice della Bienal internacional do livro per i suoi contenuti «non adatti ai minorenni» (nello specifico dei baci omoerotici tra minori). Benché il sindaco abbia dimostrato di avere operato in perfetta conformità della legge e in difesa della famiglia, è stato subito linciato via web come se avesse perpetrato chissà quale crimine. E meno male che il Superman Lgbt non era già in azione, sennò l' avrebbe incenerito coi suoi occhi laser.
Gianmaria Tammaro per lastampa.it il 13 gennaio 2020. Il giorno dopo i Golden Globes ci siamo svegliati in un’Italia diversa: un’Italia più illuminata e più divertita, un’Italia decisamente pronta ad accogliere la comicità – ma quella spinta, senza peli sulla lingua, profondamente e senza appello scorretta – nei propri televisori. Il merito è di Ricky Gervais, che per la quinta volta – «è l’ultima!», ha promesso – ha presentato i premi assegnati dalla stampa estera. Nel suo monologo d’apertura, sette minuti e mezzo diluiti con sorsate di birra, pause, “shush!” e “I don’t care” mezzi urlati e mezzi ragliati, ha toccato qualunque tema, in qualunque modo, parlando di attualità, del mondo dell’intrattenimento, delle grandi compagnie, dell’ipocrisia dello star system, della politica, di Cats. È stato dritto e affilato: i presenti in sala ridevano, e anziché godersela lui cambiava subito soggetto, sconvolgendoli, scuotendoli, scacciandoli. Ha criticato Apple guardando negli occhi Tim Cook. Ha parlato di pedofilia, di scandali, di gossip. E tutti, da questa parte del mondo, si sono messi a ridere: che bravo, che campione, ad avercene così. C’è chi ha fatto di meglio, e s’è appellato direttamente ad Amedeus, al prossimo Sanremo, chiedendo a gran voce un Ricky Gervais nostrano, pronto a demolire il nostro orticello, i nostri attori e i nostri intellettuali (non ce ne sono poi così tanti; e, ahinoi, fanno già abbastanza da soli, per demolirsi). E la cosa potrebbe avere anche un senso, se non vivessimo in questo paese, in quest’Italia: la stessa che alla battutina più sottile e cattiva storce il naso, quella che non accetta le canzoni di Luca e Paolo; quella che “sempre Berlusconi, sempre”; o anche “ce l’avete con Salvini, v’asfalteremo”. O “basta politica, basta”. L’Italia, con la comicità (di nuovo: quella spinta, senza peli sulla lingua, eccetera eccetera), ha sempre avuto un rapporto difficile. O è posata, e quindi è educata, ci dice le cose con gentilezza, imboccandocele, oppure niente. I nostri stand-up comedians sono relegati in siparietti piccoli, nei locali, negli speciali su Netflix. Quelli che ce l’hanno fatta ad arrivare in prima o in seconda serata sulla televisione pubblica sono finiti al centro di polemiche e di querelle; quelli che hanno condotto un programma, anche a tarda notte, e che hanno fatto quello che sanno fare, sono stati allontanati, nascosti, censurati (un esempio? Saverio Raimondo con il suo Dopofestival). E noi, ora, vogliamo Ricky Gervais. Vogliamo lo stesso che, su Twitter e nei suoi spettacoli, ripete: si può scherzare di qualunque cosa. Immaginiamocelo un comico che sale sul palco dell’Ariston, che ringrazia il pubblico, e che per fare una battuta parla di pedofilia, di scandali, di omicidi, di presunti suicidi, di politici corrotti e di stupratori. Immaginiamocelo, ecco, un comico così, uno à la Ricky Gervais. La televisione, la nostra televisione, divora i migliori e li digerisce diversi, impigriti, terrorizzati dalla polemica (un po’ come i nostri social, se vogliamo; ma nel caso della tv, ci sono immagini a corredo). Ci siamo convinti che la colpa sia sempre di quegli altri: dei produttori, degli autori, dei vertici Rai, dei politici, dei signori di Mediaset, di Cairo, della casalinga di Voghera che non capisce. È sempre colpa loro se un comico, un vero comico, non ce la fa ad arrivare in televisione, e non ce la fa a fare un monologo come quello di Ricky Gervais. E invece, sorpresa, la colpa è anche nostra, di tutto il pubblico (sappiamo benissimo che ci sono dei campioni del politicamente scorretto che sarebbero pronti ad immolarsi sull’altare della diversità: non parliamo a voi). È il pubblico che decreta il successo, o l’insuccesso, di un programma. Non è la bolla social che lo commenta. Sono i numeri, è l’auditel, è l’apprezzamento che si esprime in permanenza davanti al televisore, in quote pubblicitarie, in rilevanza. Ricky Gervais, in quest’Italia così aperta, così pronta, così divertita e desiderosa del nuovo, non durerebbe un secondo. Perché noi, di uno come Ricky Gervais, abbiamo paura. È incontrollabile, è ferocemente onesto, è uno che conosce il mestiere, e che a tutti quelli che non lo conoscono lo dice: fate schifo. Siamo sinceramente e convintamente pronti a questa comicità, vogliamo finalmente averla nelle nostre vite, nella nostra quotidianità, a Sanremo? Cominciamo a prenderci meno sul serio; cominciamo a non polemizzare per qualunque cosa, in qualunque momento. Uno come Ricky Gervais potrebbe arrivare da solo, quando meno ce l’aspettiamo.
Da trendit.it il 13 gennaio 2020. Iniziano ad arrivare i problemi per i concorrenti del Grande Fratello Vip, poiché nelle ultime ore alcuni di loro avrebbero utilizzato un linguaggio poco consono al reality, ed ora a finire sotto al mirino degli spettatori è Antonio Zequila. Solo ieri sera, Salvo Veneziano, pensando di fare dei complimenti alla sua coinquilina Elisa De Panicis, è stato sommerso dalle critiche dopo aver usato frasi molto forti nei confronti della ragazza. Frasi che secondo molti utenti del web, dovrebbero costargli la squalifica dal gioco. Ora invece, sempre sui social, si parla di una presunta bestemmia pronunciata da Antonio Zequila durante la notte. Grazie ad un video registrato da un utente, si può sentire infatti l’attore mentre esclama quella che sembra una vera e propria imprecazione. A rafforzare questo pensiero, si aggiunge il fatto che subito dopo Zequila, forse resosi conto dell’errore, esclama altre due imprecazioni più blande. Come tutti sanno, le bestemmie all’interno dei reality sono del tutto vietate e già in passato sono costate la squalifica a numerosi concorrenti, tra cui Gianluca Impastato e Marco Predolin. Alfonso Signorini, insieme agli autori del reality, tratterà l’argomento? E, nel caso in cui venisse accertata la bestemmia, deciderà di squalificare Antonio Zequila dal gioco?
Gf Vip, Alfonso Signorini condanna Salvo: "Hai detto cose orribili". Apertura di puntata del Grande Fratello Vip dedicata all'espulsione per sessimo di Salvo Veneziano; grande choc all'interno della casa e tentativo di giustificazione da parte degli altri tre Highlander. Francesca Galici e Serena Pizzi, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. L'espulsione di Salvo Veneziano è al centro dell'apertura della puntata del Gf Vip da parte di Alfonso Signorini. Il conduttore ha spiegato di voler utilizzare il fatto per lanciare un forte messaggio sociale, in un momento storico nel quale molte donne subiscono quello che Salvo Veneziano ha espresso in "maniera goliardica", dice lui per tentare di giustificarsi. Anche se qui da giustificare non c'è proprio nulla. C'è solo da chiedere scusa e stare zitti. E Alfonso Signorini lo dice chiaramente. Perché una donna è libera di andare in giro vestita come meglio crede e nessuno ha il diritto di dirle o, ancora peggio, di farle qualcosa. Nessuno. Così i tre Higlander rimasti nella casa del Grande Fratello sono stati condotti nella led, dove Signorini li ha accolti paventando anche per loro un provvedimento: "A volte le parole feriscono e feriscono di più le risate che voi avete fatto." Il conduttore, quindi, ripercorre ciò che è successo, condanna duramente ciò che Salvo ha detto ("Ha detto delle cose orribili, non si possono ripetere") e di come loro se la siano spassata mentre dalla bocca del pizzaiolo uscivano quelle bestialità ("Io avrei detto soltanto 'ma che cavolo stai dicendo'. Di certo non avrei riso"). I tre, infatti, ridevano mentre Salvo diceva "bisognerebbe spezzarle la colonna vertebrale". E dopo lo scontro con i tre, Signorini e la produzione hanno deciso di raccontare alla Casa gli eventi che hanno portato all'espulsione di Salvo Veneziano, senza mostrare loro le immagini (orribili) del privé ma solo i commenti provenienti dall'esterno, tutti concordi nel condannare quanto accaduto. Inevitabile lo choc dei vip e, soprattutto, di Elisa De Panicis. “Quella sera mi sentivo gli occhi addosso infatti sono andata a cambiarmi dopo e mi sono messa una tuta con le stesse scarpe”, ha confessato l'influencer. Signorini l'ha fermata immediatamente, sottolineando il fatto che l'abbigliamento di una donna non giustifica mai i commenti sessisti da parte di un uomo. Mai. A fare eco al conduttore è Barbara Alberti: “Invece di essere ammirati da una donna, quello che hanno fatto loro è un preludio allo stupro. Uno stupro verbale. Ragazza bella e libera. Stimo pagando molto cara la nostra emancipazione.” Anche altri vip intervengono e condannano senza indugi le parole di Salvo e le risate degli altri tre. Nella Casa cala il gelo. I vip, le donne, ma soprattutto Elisa sono senza parole. Qualcuno ha gli occhi gonfi di lacrime, qualcuno di rabbia. Ai ragazzi all'interno del Grande Fratello non è stato fatto sentire quanto detto da Salvo Veneziano, ma i concorrenti riescono ad immaginare qualche parola. Gli Highlander, invece, hanno potuto risentire tutto e a loro Alfonso Signorini ha chiesto un commento. Sergio Volpini ha cercato di giustificare quanto detto da Veneziano: “Non ho scuse. L'unica cosa che posso fare è che quello è un tormentone ironico che lui usa da anni e purtroppo la risata che ne è derivata è nevrotica, che nasconde una voglia di limitarlo.” Parole che non sono piaciute al conduttore, che ha interrotto Volpini, sottolineando che in certi momenti stare zitti sarebbe più conveniente. Patrick Pugliese e Pasquale Laricchia hanno riferito che in più occasioni Salvo si è espresso in quella maniera nei confronti delle donne e che hanno provato a fermarlo, a fargli capire che stava sbagliando. “Non posso frustarlo. Era un vulcano”, ha detto Pasquale Laricchia. Ma nessuno in studio condivide le loro parole. Sarebbe davvero forzato. Wanda Nara è sotto choc: "Perché nessuno ha avuto il coraggio di dire no? O cosa stai facendo Salvo? Sto aspettando una scusa, era l'unica che dovevano dire". Il pubblico applaude e lo scontro continua. E visto che il tema sta particolarmente a cuore a Signorini, il conduttore ha dato la possibilità a Salvo Veneziano di entrare nella Casa per scusarsi personalmente con i vip e, soprattutto, con Elisa De Panicis: “Pensavo di far ridere i miei compagni ma non c'era nulla da ridere. Voglio far capire che non intendevo offendere nessuno, sono qui per chiedere scusa a tutte le persone che ci guardano da casa, al genere femminile, perché io combatto la violenza in ogni forma. Volevo chiedere scusa alla ragazza perché ho fatto una battuta in più con gli altri ragazzi. Ho sbagliato, sono qui per chiedere scusa, ho creato problemi alla mia famiglia, ai miei figli e ne sono addolorato.” Elisa De Panicis si è detta dispiaciuta per quanto accaduto, ma ha ben poco da dire a Salvo. Ovviamente. Dopo l'incontro con Salvo, però, è la volta dell'ingresso degli Highlander nella Casa. Anche loro devono chiedere scusa. Vengono accolti dalla freddezza dei concorrenti. Licia Nunez e Adriana Volpe si sono immediatamente scagliate contro i tre inquilini delle passate edizioni, che hanno provato a giustificare il loro comportamento, dissociandosi da quello del loro ex compagno. I toni si alzano, le donne si sentono offese e non sono disposte a fargliela passare liscia. Per questo, Signorini ha proposto ai tre, e a Salvo Veneziano, di recarsi presso un centro antiviolenza per ascoltare le storie delle donne vittime degli uomini. Forse, in questo modo, possono rendersi conto dello scempio che hanno compiuto in diretta.
Grande Fratello Vip 2020 terza puntata, Signorini assolve Salvo pentito: «Pensavo di far ridere». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Arianna Ascione. La «brutta pagina di televisione», come l'ha definita Alfonso Signorini, andata in scena negli ultimi giorni non poteva non tenere banco per gran parte della terza puntata del Gf Vip: le frasi sessiste pronunciate da Salvo Veneziano nei confronti di Elisa De Panicis hanno ricevuto una condanna unanime da parte di tutti gli inquilini di Cinecittà come Barbara Alberti, che ha parlato di una specie di «stupro verbale» («i maschi sono ancora frustrati, una ragazza bella e libera come Elisa anziché suscitare ammirazione suscita la violenza»). «Pensavo di far ridere i miei compagni ma non c'era sicuramente niente da ridere — ha provato a giustificarsi l'ex pizzaiolo intervenuto in diretta — non intendevo offendere nessuno, chiedo scusa a tutti, al pubblico, al genere femminile, alla ragazza. Stavo scherzando, non mi sono reso conto che ero ripreso, ho sbagliato». Salvo ha ancora avuto modo di confrontarsi faccia a faccia con Elisa, che dopo aver visto le immagini incriminate era scoppiata a piangere.
"Mi ha nominato quella lesbica". Ora gli avvocati di Licia chiedono l'espulsione di Fernanda. In difesa di Licia Nunez dopo la frase omofoba pronunciata nei suoi confronti da Fernanda Lessa, intervengono gli avvocati dell'attrice che chiedono l'espulsione della brasiliana. Luana Rosato, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. Dopo la terza diretta del Gf Vip, gli utenti della rete avevano sollevato una polemica contro Fernanda Lessa, rea di aver chiamato Licia Nunez “la lesbica” durante una conversazione con Michele Cucuzza e, poi, con Andrea Montovoli. Il caso ha coinvolto non solo i telespettatori più attenti del Gf Vip, ma anche le persone vicine alla concorrente del programma presa di mira dalla brasiliana. La compagna di Licia Nunez, infatti, è intervenuta sui social ritenendo inaccettabile l’appellativo usato dalla Lessa per identificare la sua fidanzata e ha rincarato la dose contro Fernanda rifacendosi ai suoi trascorsi con l’alcool e la droga. “E se uno la chiamasse la sfasciano, la drogata, l’alcolizzata? – ha scritto su Twitter Barbara Eboli - .Che direbbe la signorina che quando parla ancora sbiascica. Pessima”. La polemica, però, non si è fermata qui e in difesa di Licia Nunez sono intervenuti anche i suoi avvocati con una nota indirizzata direttamente al Grande Fratello Vip in cui si chiede l’espulsione immediata di Fernanda Lessa dalla Casa. “Chiamare Licia Nunez ‘la lesbica’ è indice di omofobia. Fernanda Lessa merita l’espulsione, perché ha così discriminato una concorrente, solo perché l’aveva nominata – si legge nel comunicato stampa dei legali dell’attrice - .L’omofobia colpisce non solo gli omosessuali dichiarati, ma soprattutto quelli che vivono nel dolore e nella paura di raccontarsi, proprio per sfuggire al dileggio degli ignoranti omofobi. I responsabili del Gf devono intervenire immediatamente per non diventare complici. Aspettiamo con fiducia. Bmore Management Annamaria Bernardini de Pace & Nando Moscariello”. Il popolo della rete si è schierato dalla parte di Licia Nunez e, in coro, chiede che la Lessa venga immediatamente allontanata dalla Casa del Gf Vip. Dopo quanto accaduto con Salvo Veneziano, espulso per le frasi sessiste indirizzate a Elisa De Panicis, gli spettatori chiedono che anche alla Lessa venga riservato un trattamento simile. Cosa accadrà, però, lo sapremo – probabilmente – durante l’appuntamento di questa sera, 17 gennaio, con il reality show condotto da Alfonso Signorini, iniziato solo da una settimana e già travolto da numerose polemiche.
Da davidemaggio.it il 16 gennaio 2020. Annamaria Bernardini De Pace e Nando Moscariello, manager di Licia Nunez, dichiarano guerra a Fernanda Lessa, chiedendo al GF Vip che la concorrente venga espulsa. Nei giorni scorsi, infatti, l’inquilina brasiliana del reality di Canale 5 si è in più occasioni riferita alla Nunez etichettandola come “la lesbica”. Secondo Bernardini De Pace e Moscariello, la Lessa dovrebbe essere espulsa dal GF Vip poichè il suo atteggiamento sarebbe omofobo e verbalmente violento al pari di quello che ha portato all’espulsione di Salvo Veneziano. In un comunicato che si apprestano a rilasciare, i titolari della Bmore Management dichiarano quanto segue: Il concorrente Salvo Veneziano è stato espulso dal gfvip4 perché con la violenza delle parole ha aggredito una donna. E non è anche violenza delle parole, definire una donna , anziché col suo nome, col suo orientamento sessuale? Chiamare Licia Nunez “ la lesbica” è indice di omofobia. Fernanda Lessa merita l’espulsione, perché ha così discriminato una concorrente, solo perché l’aveva nominata. L’omofobia colpisce non solo gli omosessuali dichiarati, ma soprattutto quelli che vivono nel dolore e nella paura di raccontarsi, proprio per sfuggire al dileggio degli ignoranti omofobi. I responsabili del gf devono intervenire immediatamente per non diventare complici. Aspettiamo con fiducia. Bmore Management Annamaria Bernardini de Pace & Nando Moscariello.
Roberto Mallò per davidemaggio.it il 16 gennaio 2020. Al Grande Fratello Vip 2020 si è acceso lo scontro tra Antonella Elia e Fernanda Lessa. L’ex modella brasiliana non ha gradito la nomination, fatta ieri sera dalla coinquilina, motivo per cui ha confidato a Michele Cucuzza e, in seguito, ad Andrea Montovoli ciò che realmente pensa di lei. Tra i giudizi della Lessa si è inserita persino Licia Nunez, più volte etichettata dalla donna come “la lesbica“. Le prime avvisaglie dello scontro si sono avvertite quando Antonella, su domanda diretta di Alfonso Signorini, ha spiegato di aver scelto di nominare palesemente Fernanda perché, oltre a trovarla antipatica e con la voce irritante, riteneva che i suoi sbalzi d’umore continui la rendessero spesso “aggressiva“. Visibilmente spiazzata da una nomination che probabilmente non si aspettava, la Lessa ha scelto inizialmente di non rispondere alla provocazione della Elia, anche se poi ha espresso il suo punto di vista a puntata terminata. In un confronto con Cucuzza, Fernanda ha portato fuori il suo livore per Antonella: “Sono instabile perchè mi manca mio marito? Ma sì, mi mancano i miei cari… mica sono solo come lei”. Interrogata da Cucuzza (“Hai avuto una sola nomination o due? E le altre?“), la Lessa ha riversato la sua ira anche su Licia: “La lesbica“. Successivamente, la Lessa ha avuto occasione di parlare della questione anche con Andrea Montovoli ed ha ventilato l’ipotesi che Licia e Antonella si fossero accordate per nominarla: “Io non sono rimasta male di essere nominata, sono rimasta male di come l’ha fatto (…) Non mi è piaciuto perchè, secondo me, questa è una double face totale, da tenersi lontano. (…) Lei si è messa insieme a quella che aveva il frac, che non so come si chiama: Elisa? Come si chiama l’altra? Come si chiama? Che aveva il frac… Quella che è lesbica. Licia. Si è messa d’accordo”. L’attore si è così mostrato solidale con lei, invitandola ad essere se stessa ma a stare attenta alla Elia, ossia ad una persona che, avendo fatto tanti reality, sa sicuramente come giocare. (Qui il video). Intanto, la definizione della Lessa di Licia ha innescato la reazione di Barbara Eboli, compagna della Nunez: ““E se una la chiamasse la sfasciona, la drogata, l’alcolizzata?! Che direbbe la signorina?! Che quando parla ancora sbiascica. Pessima”. Il commento è stato però rimosso da Twitter dopo poche ore.
Caso bestemmia di Antonio Zequila, Gianluca Impastato contro il GF Vip. Veronica Caliandro il 15/01/2020 su Notizie.it. Squalificato nel 2017 dalla casa del Grande Fratello per una presunta bestemmia, Gianluca Impastato ha commentato il trattamento riservato a Zequila. Gianluca Impastato, ex concorrente del Grande Fratello Vip nel 2017, ha espresso, tramite social, il proprio disappunto in merito alla disparità di trattamento riservato a lui e all’attuale gieffino, Antonio Zequila. Il commento social di Gianluca Impastato. Nei scorsi giorni si era ipotizzata una possibile esclusione di Antonio Zequila per bestemmia. Eventualità esclusa dallo stesso Grande Fratello, che attraverso una nota ha annunciato: “Grande Fratello, dopo aver effettuato le dovute verifiche, comunica che Antonio Zequila non ha pronunciato alcuna bestemmia nel corso del programma”. Un post a cui ha voluto rispondere Gianluca Impastato, l’attore comico che nel 2017 è stato squalificato dalla casa del Grande Fratello per una presunta bestemmia. In particolare, tramite Twitter, l’ex gieffino ha replicato: “Invece le verifiche sulla mia chi le ha fatte, un audioleso?”. Una domanda ironica, mista a rancore, che il comico ha voluto fare al Grande Fratello, a dimostrazione di come ancora non abbia digerito la vicenda che lo ha visto coinvolto durante la sua permanenza nella casa più spiata d’Italia. Gianluca Impastato, d’altronde, ha sempre giurato di non aver pronunciato alcun tipo di bestemmia. In tal senso ha sempre sostenuto che la sua non si trattava di un’imprecazione, bensì di un momento conviviale nel corso del quale stava imitando l’amico e collega Diego Abatantuono. “Credo di essere stato vittima di un’ingiustizia, stavo solo imitando Diego Abatantuono”, ha infatti dichiarato in seguito l’attore a Verissimo. Per poi aggiungere: “Ho la coscienza a posto. Mi ha chiamato Diego dicendomi che si capiva che ero in buona fede e non si trattava di un’imprecazione”. In tanti sui social sembrano pensarla proprio come Impastato, lasciando molti commenti a suo favore. Allo stesso tempo, c’è anche chi suggerisce all’ex gieffino di voltare pagina e dimenticare quel brutto momento di televisione che lo ha visto coinvolto.
Da fanpage.it il 15 gennaio 2020. Interviene a Fanpage.it Cristina Plevani, vincitrice della prima edizione del Grande Fratello, che conosce molto bene il suo ex coinquilino Salvo Veneziano, espulso dal Grande Fratello Vip 2020 per le sue parole violente e sessiste contro Elisa De Panicis e Paola Di Benedetto. "Condanno la sua ignoranza perché non si rende conto di quello che dice. Mi aspettavo che facesse qualche gaffe all'interno della casa, ma non mi aspettavo quello che è successo. [...] Ma stiamo parlando di un uomo che si esprime in maniera superficiale e qualche stronzata gli è scappata" spiega Cristina Plevani e aggiunge “A me spiace perché Salvo non è violento, non è un orco, è un padre di famiglia, conosco la sua ingenuità stupida e ignorante. Dispiace non ci sia stata alcuna evoluzione”. "Oggi è tutto pesante, bisogna stare attenti a tutto. Lasciando stare il caso Salvo, oggi la battuta sessista o presunta tale, è politicamente scorretta a prescindere. Ma negli Anni 80 c'era una ironia anche se vogliamo più pesante e ironica, basti pensare anche ai B Movie con il corpo delle donne mostrato in un certo modo. L'unica differenza è che allora non esistevano i social con le polemiche che ne conseguono" conclude. Ma Cristina Plevani entrerebbe al Grande Fratello Vip? "Non so se il gioco valga la candela. - commenta - Un invito di questo genere non so se è minaccia o è un regalo oggi come oggi. Se mi si vuole bene o male. Io so di non essere trash, almeno lo spero (ride, ndr). Non credo di essere il personaggio giusto per loro".
Gf Vip, Elisa De Panicis rischia la squalifica: “Non mi scopa bene”. Alice il 15/01/2020 su Notizie.it. Elisa De Panicis potrebbe fare la stessa fine di Salvo Veneziano: l'influencer sarebbe a rischio squalifica per alcune frasi dette in diretta. Dopo l’eliminazione di Salvo Veneziano per le frasi shock pronunciate su di lei, Elisa De Panicis è finita nell’occhio del ciclone per motivi molto simili, ovvero delle frasi volgari dette in diretta TV.
Elisa De Panicis a rischio squalifica. Il popolo del web è insorto per alcune frasi pronunciate da Elisa De Panicis in diretta TV. La gieffina, mentre era impegnata a giocare con gli altri concorrenti, si è rivolta a Aristide Malnati dicendo: “Non mi scopa bene, se vuoi ti faccio un papiro per capire come si usa.” La frase ha generato un putiferio in rete, specie perché pronunciata in una fascia oraria non protetta. In tanti hanno accusato l’influencer di essere volgare e fuori luogo, e non è escluso che la produzione del programma prenda provvedimenti anche per lei, così come ha fatto per Salvo. L’highlander del primo Grande Fratello è stato squalificato con effetto immediato per alcune frasi sessiste da lui pronunciate contro la stessa Elisa e Paola Di Benedetto. A nulla è valso il messaggio in difesa scritto da sua moglie: il popolo del web e diversi personaggi pubblici hanno chiesto la squalifica immediata di Salvo dal programma. Veneziano si è scusato per aver ferito la sensibilità delle donne e ha specificato di non essere un violento, ma per saperne di più bisognerà attendere il suo intervento al Grande Fratello Vip. Intanto sono in molti a chiedersi se anche Elisa verrà eliminata dal programma per le sue frasi oscene pronunciate in diretta.
Gf Vip, Barbara Alberti e la lezione sul sesso sconvolge i concorrenti. Alice il 15/01/2020 su Notizie.it. Barbara Alberti con le sue risposte al vetriolo è diventata virale sui social: in tanti sperano che sia lei a vincere il Gf Vip. Barbara Alberti non è certo tipo da mandarle a dire, e infatti qualcosa non le va bene all’interno della Casa è la prima a dirlo. Le sue reazioni hanno però generato l’ilarità della rete, e i video delle sue risposte agli altri concorrenti sono presto diventate virali. Prima è stata la volta in cui gli altri concorrenti le hanno impedito di lavare i piatti, e per questo lei ha risposto loro che è stato come interrompere “una scopata”. Poi la Alberti è sbottata anche con Michele Cucuzza, il quale proponeva di fare un gioco insieme sulle “opinioni generali” legate alla Casa: “Opinionista significa cazzaro. Facciamo una lezione sul cazzo”, ha risposto la Alberti, generando un’altra ondata di risate e lasciando di stucco il conduttore. Finora sui social la scrittrice ha ricevuto enormi consensi, ma qualcuno si è indignato per la sua opinione eccessiva su Tolo Tolo, ultimo film di Checco Zalone (e già record di incassi): “Non fa ridere un coglionr, ha detto la giornalista a Rita Rusic, finendo con l’ottenere decine di repliche in rete a causa della sua critica spietata.
Grande Fratello Vip, Salvo e le frasi sessiste. Perché andrebbero cacciati in quattro. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Maria Volpe. Naturalmente il fatto che Salvo sia stato eliminato dal Grande Fratello Vip è un piccolo segno di decenza, ma in realtà cambia poco la vera realtà dei fatti, la deriva di certa televisione, l’ipocrisia delle battaglie per le donne che va a braccetto con il silenzio di fronte alle brutture verbali, alle violenze psicologiche in prima serata su una tv generalista cosiddetta familiare. Peraltro nel comunicato stampa giunto lunedì sera da Mediaset - che annunciava l’eliminazione di Salvo dal gioco - non una parola di scuse alla concorrente, e alle donne, non una presa di distanza reale da un linguaggio da macelleria. Sembrava un atto obbligato, considerate le reazione sul web, le pressioni, l’indignazione generale. Questi in sintesi i fatti. Salvo, che ha partecipato al primo Grande fratello del 2000, è (era) tra i concorrenti di questa edizione del Grande fratello vip partita mercoledì 8 gennaio su Canale5. Con lui altri tre “storici” del GF di cui si erano perse le tracce e di cui non si sentiva alcun bisogno. I quattro durante una serata in un’amabile chiacchierata goliardica maschile si sono lasciati andare ad apprezzamenti violenti e volgari nei confronti di un’altra concorrente della Casa, Elisa. Vedere il video della seratina è uno spettacolo raccapricciante: non solo per le parole, ma per la mimica, per quelle risate sguaiate, per quella evidente e ostentata mancanza di rispetto verso una donna, il suo corpo, la sua dignità. E infatti avrebbero dovuto essere eliminati tutti i “4 amici al bar”. I complici sono conniventi. Quello che rattrista è che la tv ormai ha preso questa deriva senza comprendere che i messaggi che passano in un programma pop contano più di mille convegni sul sessismo e femminismo. E ogni volta da anni, nei reality soprattutto, che hanno grande seguito, ci troviamo alle prese con frasi contro i gay, con offese contro le donne, con il machismo esibito in maniera violenta e volgare. Ci indigniamo di fronte ai continui femminicidi e siamo pronti a dire «È un problema culturale. Il Paese deve cambiare, non si può più sopportare che il maschio si senta predatore e possessore del corpo femminile». Scriviamo, andiamo in tv a dibattere sulla vergogna della cultura maschilista che continua a uccidere le donne. Quando però assistiamo in tv, in tutte le tv, a scene vergognose di questo tipo, non un personaggio famoso che alzi la voce, nessuna ribellione seria, nessun inserzionista che decida di togliere la pubblicità al programma. Solo qualche tweet di biasimo. Anche se purtroppo non manca neppure qualche tweet di sostegno «poverino scherzava, é una bravissima persona». Madri che difendono i figli maschi, mogli che difendono i mariti. Avanti così non andremo lontano. Almeno smettiamo di essere ipocriti.
GFVip, frasi shock di Salvo contro una concorrente: «Sei da maciullare». Pubblicato lunedì, 13 gennaio 2020 su Corriere.it da Maria Volpe. Frasi shock di Salvo (concorrente del primo GF) partecipante al Grande fratello vip partito mercoledì 8 e andato in onda anche venerdì 10. Premessa d’obbligo: quanto ancora dobbiamo sopportare in tv? Quante volte dobbiamo indignarci, biasimare, chiedere sospensioni considerato che poi nulla cambia? Questa volta stiamo parlando per l’appunto del Grande fratello Vip (e fin qui nessuna novità: quante volte il GF si è reso protagonista di brutture, frasi squallide nei confronti delle donne, volgarità gratuite? ) Quest’anno oltre ai vip ci sono i «4 storici» del GF: Salvo Veneziano, Patrick Ray Pugliese, Pasquale Laricchia, Sergio Volpini che dopo quell’esperienza sono pressochè spariti e non sentivamo nessun bisogno di rivederli. Ma tra un vip e l’altro i 4 vecchi amici - secondo la produzione - potevano evidentemente dare un p0’ di pepe in più (Fabio Testi, non un ragazzino qualunque, durante il corso del reality show, ha dichiarato che le nomination delle donne nascono dalla loro “paura di essere violentate», tanto per capire su quale terreno ci stiamo muovendo). Questa volta più che di pepe siamo di fronte a spazzatura. In una di quelle belle chiacchierate goliardiche tra amici maschi (ovviamente con telecamere accese con i partecipanti consapevoli che le parole sarebbero diventate pubbliche) abbiamo assistito a questo teatrino di Salvo che si riferiva a un’altra concorrente del Gf, Elisa De Panicis , ex corteggiatrice di «Uomini e Donne», che si sarebbe presentata sul red carpet del Gf Vip vestita in modo molto sexy. «Io, se fossi stato single, c’era quella piccolina lì, quella tutta trasparente (Elisa De Panicis, ndr), con ‘sto culettino...quella si merita due schiaffi che le devi spezzare la colonna vertebrale – ha detto il signor Veneziano agli altri coinquilini che, invece di prendere le distanze da quelle dichiarazioni, hanno condiviso le sue parole - .Da staccarle la testa e lasciarla con la pelle sul letto perché le ossa me le sono bevute!». Gli amici ridono di gusto. Salvo - in un lampo di lucidità o di furbizia - , si rivolge alle telecamere e sorridendo dice «Scusate». Ma poco dopo continua il suo pregevole monologo . «Lì è proprio da maciullarla! .Quello non era vestito, era pelle! Io sono stato attratto che le ho visto l’intestino crasso attraverso i fuseaux!». Il popolo della rete si è indignato davanti a tanta volgarità e ha chiesto a Mediaset e al conduttore Alfonso Signorini di prendere provvedimenti seri, tra cui la squalifica immediata di Veneziano dalla Casa di Canale 5. Al momento, però, nessuno della produzione si è espresso a riguardo. Vedremo se arriverà la punizione. Ma non ci illudiamo. Nulla cambierà. E continueremo ad assistere - come già facciamo da anni - a volgarità inaudite che incitano alla violenza contro le donne. Poi evitiamo , quando è troppo tardi, la retorica sui femminicidi. Non ripetiamoci che bisogna cambiare la cultura maschilista di questo Paese, se in televisione in prima serata sentiamo ancora frasi del genere.
Grande Fratello Vip 4: perché Salvo è stato squalificato. Scoppia il caso dopo alcune frasi sessiste pronunciate dal pizzaiolo nei confronti dell'influencer Elisa De Panicis. Il Grande Fratello Vip 4 già nel caos. Francesco Canino il 14 gennaio 2020 su Panorama. Salvo Veneziano è stato squalificato dal Grande Fratello Vip 4. Non è cominciato nemmeno da una settimana ma il reality condotto da Alfonso Signorini ha già perso per strada il suo primo concorrente: la cacciata, come si legge nella nota ufficiale diffusa da Mediaset, è un atto dovuto "a causa di alcune sue espressioni e affermazioni che hanno violato le regole e lo spirito stesso del programma". Ma cos'ha combinato il pizzaiolo siciliano, già protagonista del Gf 1? Sarà anche un "veterano" dei reality Salvo Veneziano, ma vent'anni dopo la sua partecipazione al primo Grande Fratello evidentemente sembra aver dimenticato che basta uno starnuto per provocare una polemica, figuriamoci commenti idioti come "quella si merita due schiaffi che le devi spezzare la colonna vertebrale proprio", rivolti all'influencer Elisa De Panicis, un'altra concorrente del #GfVip4. Ma nel 2020 ancora si possono pensare e dire certe idiozie? Davanti agli altri highlander del Gf, ovvero Sergio Volpini, Pasquale Laricchia e Patrick Ray Pugliese - meglio sorvolare sulla pochezza degli argomenti intorno ai quali hanno dibattuto nei primi sei giorni trascorsi nel tugurio - che ridevano divertiti, Veneziano ha proseguito il fine ragionamento sulla De Panicis: "Quella è da scannare, quella li è proprio da maciullarla, dai. Io gli ho visto le budella, le ho visto l’intestino crasso attraverso i fuseaux. Staccarle la testa e la lasci con la pelle sul letto. Solo la pelle, perché le ossa me le sono bevute". Parole diventate subito virali sui social e che lunedì 13 gennaio hanno provocato la giusta squalifica: "Essere un concorrente – gli è stato riferito leggendogli la motivazione del suo allontanamento - comporta delle responsabilità importanti, sia nei confronti del pubblico, sia nei confronti degli altri inquilini della Casa”.
Federica Panicucci contro Salvo Veneziano. Mentre sui social montava la polemica - come prevedibile - le parole di Veneziano hanno innescato anche il dibattito in tv. Tra le prime a scagliarsi contro il concorrente è stata Federica Panicucci, che non ha lesinato critiche nette (e giustissime), asfaltando Veneziano con un giudizio tranchant. "A me questo video sinceramente fa orrore. Trovo assolutamente terribile ciò che Salvo dice, gli altri che ridono. L’ho trovato disgustoso. Disgustoso!", ha spiegato in diretta a Mattino 5. “Ma la cosa che mi stupisce è che loro sanno perfettamente di essere ripresi, quindi cosa voleva fare? Il bullo, il simpatico, il ganassa, quello divertito e divertente? Gli è venuta proprio male, perché una cosa del genere è intollerabile, inqualificabile e aggiungerei anche imperdonabile", ha aggiunto la Panicucci. Ora non resta che aspettare la puntata di mercoledì 15 gennaio per vedere come Alfonso Signorini tratterà il "caso": la sua reazione potrebbe essere epica. Ne vedremo delle belle.
LA NAUSEA PER IL POLITICAMENTE CORRETTO. Il politically correct è una lente ideologica che altera la realtà per cui la natura, la famiglia e la civiltà occidentale sono sbagliate e quindi vanno distrutte. Fonte: La Verità, 28/02/2019 Marcello Veneziani. Ma quando finirà la dittatura del politicamente corretto? Passano gli anni, cambiano i governi, insorgono i popoli. Ma da Hollywood a Sanremo, dalla tv ai premi letterari, dai fatti di cronaca alla storia adattata al presente, la dominazione prosegue incurante della vita, della verità e della realtà. Il copione si ripete, all'infinito. Serpeggia da tempo la nausea verso quella cappa asfissiante, a volte la parodia prende il posto del canone. Lo deplorano in tanti, il politically correct, persino i suoi agenti, quelli che somministrano ogni giorno i suoi sacramenti; e questo è il segno che invecchia, scricchiola, si fossilizza. Ma alla fine, la dominazione resta e il vero mistero a questo punto è l'assenza di alternative: la rabbia c'è ma non ci sono mai opzioni diverse. Eppure basta cercarle. [...] Ma gli oscar vanno solo al nero, razzismo-nazismo-negritudine, più omosex e me-too. E ricadiamo nel politically correct. Ma cos'è poi il Politically correct, proviamo a darne una definizione e un contenuto preciso. Per cominciare, il politically correct è la pretesa di dire agli altri come devono essere, cosa devono dire, come devono comportarsi. Presuppone dunque un punto di superiorità di chi giudica.
UNA LENTE IDEOLOGICA. Il politically correct è poi una lente ideologica che altera la vista di uomini, idee e cose secondo un pregiudizio indiscusso e indiscutibile, assunto a priori come porta della verità, del bene e del progresso. Nasce dalla convinzione che tutto ciò che proviene dal passato sia falso e superato. La realtà, la natura, la famiglia, la storia, la civiltà come l'avete finora conosciute, vissute e denominate, sono sbagliate, vanno ridefinite e corrette. Così nasce il politically correct, questo busto ortopedico applicato alla mente e alla vita. Il politicamente corretto è il moralismo in assenza di morale, il razzismo etico in assenza di etica, il bigottismo clericale in assenza di religione. Il politically correct è il rococò della rivoluzione, come la posa residua del caffè. Non riuscendo a cambiare il mondo, si cambiano le parole. Il linguaggio politicamente corretto è lessico bollito e condito con la mostarda umanitaria. Inoltre è oicofobia, dice Roger Scruton, è rifiuto della casa, primato dell'estraneo e dello straniero sul nostrano e sul connazionale. E, infine, è riduzionismo: la varietà del mondo e dei suoi problemi è ridotta all'ossessione su due-tre temi. Dove nasce il politically correct? La prima risposta è in America, laboratorio globale del futuro e capitale mondiale dell'Impero dei segni. È famoso il saggio di Robert Hughes (un australiano, peraltro), La cultura del piagnisteo (Adelphi), sul bigottismo progressista. Prima di lui Tom Wolfe denunciò già nel 1970 l'artefice del politically correct, il radical chic. Un testo importante sul vizio progressista è "La chiusura della mente americana" di Allan Bloom. E potremmo citarne altri. Ma non si esaurisce negli States la matrice del politically correct. Qualcosa del genere ha serpeggiato nel nord Europa, nelle socialdemocrazie scandinave, elette per decenni a modello progressista di emancipazione. La Svezia è la sua vera patria, sostiene Jonathan Friedman in Politicamente corretto (ed.Meltemi). L'autore è stato toccato da vicino, perché sua moglie, ricercatrice, fu accusata di razzismo solo perché ha documentato, dati alla mano e analisi rigorose, che in Svezia è stato un fallimento il multiculturalismo e la politica di accoglienza dell'immigrazione.
DAL PERBENISMO AL PERBUONISMO. Ma il P.C. non nasce in un luogo bensì in un'epoca: nasce sulle ceneri del '68, diventa il catechismo adulto di quelli che da ragazzi furono iconoclasti. Dopo aver processato l'ipocrisia del linguaggio cristiano-borghese e autoritario-patriottardo, gli ex-sessantottini adottarono quel nuovo lessico ipocrita e quel galateo manierista. Dal perbenismo al perbuonismo. Il politically correct nasce quando finisce l'effetto del marxismo, tramonta l'idea di rivoluzione, si perdono i riferimenti mondiali del comunismo. Lo spirito liberal e radical rifluiscono nel codice progressista globale. Si passa dall'Intellettuale Collettivo al Demente Collettivo, il conformista dai riflessi condizionati; il comunista si fa luogocomunista, giudica per stereotipi prefabbricati, riscrive la storia, il pensiero e i sentimenti ad usum cretini. C'è una ricca letteratura che denuncia il politically correct: l'ultimo è Politicamente corretto di Eugenio Capozzi (ed. Marsilio), che lo ritiene l'erede di tutti i progressismi. Per passare la censura del politically correct è necessaria la presenza di almeno uno o più ingredienti d'obbligo di ogni narrazione, reportage o fiction: il nero, il migrante, il rom, l'omosessuale, la femminista, il disabile e l'ebreo. Sempre vittime o eroi, comunque personaggi positivi per definizione in ogni storia o trama. La ditta del politicamente corretto fabbrica pregiudizi seriali, in dosi liofilizzate; la loro applicazione esime dal ragionare, risparmia la fatica del giudizio critico. E infonde a chi lo usa una sensazione di benessere etico, una presunzione di superiorità sugli altri. Quando ci libereremo da questa cappa, da questa cupola ideologico-mafiosa? E qui il problema si sposta nell'altro campo: l'assenza di alternative, la mancata elaborazione di strategie, culture e linguaggi, il silenzio e la rassegnazione. Dopo il rigetto, urge il progetto.
Gf Vip 4, Fabio Testi a rischio squalifica? “Cacciato perché avevano paura di essere violentate”. Fabio Testi scatena la polemica su Twitter dopo una frase infelice pronunciata contro le concorrenti del Grande Fratello Vip 4 che hanno deciso di mandarlo via dalla Casa: rischierà la squalifica? Luana Rosato, Giovedì 09/01/2020, su Il Giornale. Il Grande Fratello Vip 4 è iniziato solo da qualche ora e uno dei concorrenti appena entrati nella Casa rischia la squalifica: si tratta di Fabio Testi, eliminato dai coinquilini ma ancora in gara, che si è lasciato scappare una frase davvero infelice contro le donne che lo hanno nominato. Per scelta della produzione, uno dei personaggi entrati a far parte di questa nuova edizione del reality show doveva essere già mandato via durante la prima puntata. “Un uomo dovrà uscire dalla casa stasera stessa – ha annunciato Alfonso Signorini - . A stabilirlo saranno soltanto le donne con le prime nomination di questa edizione del Grande Fratello Vip”. La maggior parte delle vip, quindi, hanno puntato il dito contro Fabio Testi, che si è visto costretto a lasciare la Casa ancor prima dell’inizio della sua avventura nel programma. All’insaputa di tutti, però, l’attore non è uscito dalla Porta Rossa, ma è approdato nel privée dove, ad attenderlo, c’erano gli ex concorrenti del Gf, coloro che sono stati soprannominati gli “highlander”: Pasquale Laricchia, Salvo Veneziano, Patrick Ray Pugliese e Sergio Volpini. Stupiti ed entusiasti per questo arrivo inaspettato, i quattro si sono chiesti come mai Testi fosse già stato eliminato dalla Casa e la spiegazione dell’attore ha lasciato molti telespettatori a bocca aperta. “Perché sei qua e non sei là?”, ha chiesto Volpini, al quale Testi non ha esitato a rispondere di essere stato “cacciato dalle donne”. “Mi hanno votato e mi hanno cacciato”, ha aggiunto ancora l’attore, mentre Alfonso Signorini faceva irruzione nel privée per annunciare al concorrente quale sarebbe stata la sua sorte nei giorni a seguire. “Fabio, questo è il privée! Lo so, siamo dei bastard...i, ma tu sarai il faro nella nebbia che illumina le esistenze dei nostri quattro supererori – ha esordito il conduttore -. Ragazzi, approfittatene perché avrete modo di convivere per non so quanto tempo e passare del tempo insieme ad una persona straordinaria!”. Ed è proprio in questo momento che Fabio Testi, forse preso dal clima goliardico venutosi immediatamente a creare in un ambiente di soli uomini, si è lasciato scappare una frase che ha indignato molti internauti. “Ma perché lo hanno mandato fuori? È questo che mi domando!”, ha continuato a dire Sergio Volpini, scatenando la reazione inattesa dell’attore. “Perché avevano paura di essere violentate”, ha scherzato Testi, ma la sua ironia non è stata gradita dal web. “Prima squalifica? Testi che spu..ana in 3 secondi tutte le lotte contro la violenza sulle donne”, hanno scritto su Twitter, “Che battuta triste fatta da un uomo triste ...”, ha aggiunto un altro, mentre c’è chi già ha invocato la sua espulsione. Al momento, però, il Grande Fratello Vip non si è espresso sull’accaduto che, probabilmente, verrà affrontato da Signorini nell’appuntamento in prima serata di domani, 10 gennaio.
Battute su neri e gay: così il film di Natale sbugiarda i buonisti. Francesco Maria Del Vigo, Venerdì 27/12/2019, su Il Giornale. «Negri», «finocchi» e tette alla vigilia di Natale. Non siamo impazziti. E per fortuna non c'è nulla di sconvolgente, anzi. Perché è finzione e come tale deve essere reale e realistica. Tra le poche certezze del Natale, oltre al panettone, i reportage dalle spiagge assolate di Mondello con tanto di audaci bagnanti dicembrini, le polemiche sui presepi nelle scuole e l'inesorabile ghigliottina della bilancia post abbuffate, ce n'è una a cui teniamo particolarmente. Usanza moderna, pure post moderna, catodica e volatile: Una poltrona per due. Italia Uno, da ventidue anni, ogni 24 dicembre, manda in onda la celebre commedia di John Landis del 1983 con Dan Aykroyd ed Eddie Murphy. E dal 1997 la pellicola continua a macinare share: quest'anno è stata battuta solo dalla diretta della messa di Papa Francesco. La storia è semplice e arcinota, ma, se in quattro lustri non avete avuto occasione di vederla, ve la riassumiamo: un broker e un mendicante finiscono al centro di una scommessa, organizzata da due ricconi di Wall Street, che prevede che le vite dei due s'invertano per studiarne il risultato. Alla fine le due inconsapevoli pedine scoprono il gioco e incastrano i due spietati burattinai. Una favola natalizia a lieto fine. Classicissima e pure un po' buonista: con i soliti capitalisti annoiati e cinici che giocano con i destini altrui. Eppure quest'anno, riguardandolo per l'ennesima volta, faceva un effetto diverso. Saranno le esasperazioni del politicamente corretto, le ossessioni boldriniane che ci sono piovute addosso da tutte le parti, le censure reali e virtuali che si sono abbattute sulle parole che definiscono e quindi, inevitabilmente dividono, ma Una poltrona per due rischia di essere il metro di quanto si sono ingigantite le nostre paranoie. Nella sola prima mezz'ora del film Eddie Murphy viene appellato tre volte come «negro» e altrettante volte altri personaggi vengono accusati di essere «finocchi» (e per sovrammercato ci sono pure delle scene di nudo). E sembra strano sentire queste parole uscire dalla tv. Ma si possono ancora dire?, ci si scopre a pensare. E poi viene un dubbio: prima o poi censureranno film come questo? Bruceranno le pellicole di Amici Miei e dei primi scorrettissimi cinepanettoni trasformandoli in «testi» carbonari da vedere di nascosto? Sono commedie, non diventino baluardo della libertà di espressione. Fateci un regalo tardivo di Natale: non seppellite una risata con le stupidaggini del politicamente corretto.
CRISTINA PALAZZO per repubblica.it il 27 dicembre 2019. Un quadro raffigurante Mussolini nella hall, un manganello e in passato anche pizze “Dux”: succede all'"Osteria degli Archibugi", albergo e ristorante a due passi dal forte di Exilles in Val di Susa. Le scelte “nostalgiche” della struttura sono state denunciate dagli utenti nelle ultime settimane sui social raccontando le abitudini dei ristoratori che già in passato erano finiti nel mirino per episodi simili. Questa mattina l’ultima denuncia è arrivata tramite un post Facebook di Daniele, un cliente che aveva trascorso le festività natalizie e che al momento del checkout ha notato il quadro. “Ho evitato di parlare con i ristoratori perché non volevo creare confusione, ero con la mia famiglia ed erano stati cortesi - spiega - ma è importante che si sappia”. Per questo ha pubblicato le foto del ritratto “di un dittatore sanguinario che ha portato un intero paese alla rovina, può sembrare un gesto sciocco, ma in fondo innocuo. È parte della nostra storia, si difende il gestore”, sottolinea su Facebook. E definisce il gesto “tanto stupido quanto grave, dalle conseguenze potenzialmente tragiche”. Per questo Daniele invita lo stesso gestore “per coerenza dovrebbe anche appendere le immagini del ritrovamento del cadavere di Matteotti o quelle relative al bombardamento di Milano”. L’osteria già in passato era finita al centro delle polemiche degli utenti. Proprio a novembre un utente scriveva su TripAdvisor che “ce ne siamo andati senza mangiare. Chiamare una pizza Dux è vergognoso. Questa nostalgia fa passare la fame”. «Non toglieremo il quadro come non abbiamo rimosso la pizza “Dux” dal menù. Perché non si tratta né di cattivo gusto e né di ostentare nulla, sono solo cenni storici. Nel nostro locale non si fa politica, si vendono piatti e si offre una stanza», spiegano i gestori dell'osteria. Assicurano anche che oltre al ritratto di Mussolini, che è sistemato in una saletta «abbiamo Napoleone, abbiamo immagini dei soldati delle Grandi Guerre e anche armi e fucili e se non avessimo rischiato denunce avremmo aggiunto anche Hitler, accanto a Stalin o Lenin. Una scelta dovuta alla nostra collocazione, all’ombra del forte militare e per questo ci sembrava giusto pensare a un arredamento di questo tipo. Non ci sono motivazioni politiche, sono personaggi che fanno parte della storia, per quanto bella o brutta possa essere». Prima dell’arredamento, però, era stato oggetto di critica il menù, con la pizza “Dux”: «È una di quelle che piace di più, ma abbiamo anche la pizza carabiniera, quella alpina o del forte. È una scelta di contestualizzare il locale. E procederemo a denunciare chi ci sta diffamando, non siamo fascisti. Anche le nostre famiglie hanno sofferto in prima persona per questi periodi storici».
A.Z. per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2019. Ormai i vegani vogliono cambiare non più solo le abitudini alimentari del mondo ma anche la storia dell' arte. È accaduto negli scorsi giorni alla Università di Cambridge, dove diversi ragazzi sono scesi in piazza, dichiarando lo sciopero della fame, finché un quadro raffigurante animali uccisi, una natura morta di età barocca, fosse rimasto esposto in un museo dell' istituto. Il dipinto al centro delle polemiche è un' opera a olio del pittore fiammingo Frans Snyders (1579- 1657) ed è esposto presso il Fitzwilliam Museum, legato all' ateneo britannico. Il quadro noto in Gran Bretagna come "The Fowl Market" fa parte della mostra "Feast & Fast: The Art of Food in Europe, 1500-1800", dedicata all' arte ritraente il cibo e l' alimentazione nel periodo compreso tra il 1500 e il 1800. Sulla tela è raffigurato un macellaio e diverse carcasse di volatili, selvaggina e caprioli: un quadro dunque che rispetta totalmente il tema della mostra. I responsabili del Fitzwilliam Museum inizialmente hanno provato a farlo notare a chi protestava, poi però hanno accettato di rimuovere l' opera d' arte citando «preoccupazioni contemporanee riguardanti il rapporto con il cibo». La raffigurazione della scena sembrerebbe essere troppo verosimile e sconvolgente per gli studenti di Cambridge, tra le università del Regno Unito a maggior tasso di allievi vegani o vegetariani. Sulla vicenda è intervenuta anche Peta, la più nota ong che difende i diritti degli animali, che ha affermato: «I giovani d' oggi stanno diventando vegani in gruppi, così Peta non è sorpresa che la Cambridge University, tra le "Top Vegan-Friendly Universities" del Regno Unito sia frequentata da studenti che hanno a cuore il benessere animale e non vogliono vedere carcasse sui loro piatti o le loro pareti». La preoccupazione non sarebbe stata condivisa dai visitatori della mostra con la stessa intensità dei ragazzi di Cambridge, spiegano dal Fitzwilliam Museum.
· La Doppia Morale.
Simona Pletto per “Libero quotidiano” il 15 febbraio 2020. Era brava, nessuna nota negativa in anni di servizio. Tranne quella scappatella con un collega carabiniere. Ma il Comando generale dell' Arma, nel maggio scorso, l' aveva congedata proprio per colpa di quella relazione "inappropriata" con il collega. Un "licenziamento" giudicato "sessista", che lei non aveva accettato rivolgendosi al Tar per un ricorso. E il Tribunale Amministrativo di Firenze alla fine, con una salomonica decisione, le ha dato ragione, ordinando il suo reintegro al posto di lavoro che le spettava. L' avvocato della donna aveva accusato l' avvocatura distrettuale in difesa dell' Arma, di un «vero e proprio giudizio morale dai toni sessisti non richiesto, e comunque espresso solo limitatamente alla ricorrente». La donna era finita nei guai per aver avuto appunto una relazione sentimentale con un commilitone «cagionando disagio al servizio istituzionale». Tali affermazioni «indimostrabili e offensive» secondo i giudici del Tar, sono state cancellate a norma di legge ma siccome le motivazioni di congedo della donna erano basate proprio su questa presunta relazione sentimentale, il ricorso è stato accolto e sono stati annullati tutti i provvedimenti impugnati. La donna potrà quindi rientrare a far parte dell' Arma dei carabinieri. Le valutazioni sui 4 anni di ferma volontaria, infatti, erano soddisfacenti e anche la commissione di valutazione e avanzamento regionale aveva dato il via libera alla permanenza nell' Arma dopo un' audizione del 5 aprile dello scorso anno. Nonostante questo il comando generale aveva disposto il congedo della donna il successivo 29 maggio. Ma le uniche motivazioni di tale provvedimento erano legate alla presunta relazione, giudicata come detto "inappropriata". Proprio a causa della storia sentimentale col collega, era stata spostata ad un' altra stazione dopo due giorni di consegna. Troppo poco per poter giustificare il congedo visto che le valutazioni erano invece positive, sempre secondo il Tar della Toscana. Nella sentenza, infatti, si legge chiaramente che: «Pur tralasciando come sia rimasta incontestata la circostanza relativa al fatto che solo ed esclusivamente la ricorrente sia risultata destinataria della sanzione disciplinare (e non quindi anche il commilitone), è dirimente constatare che l' erogazione di una consegna di due giorni deve ritenersi di per sè insufficiente a fondare un giudizio di non meritevolezza laddove quest' ultimo (come vedremo) non sia confermato e strettamente correlato ad un giudizio complessivo, riferito all' intero periodo di permanenza nell' Arma che, in quanto tale, insiste su un periodo di quattro anni. E, peraltro, evidente l' estrema esiguità della sanzione irrogata, che ha comportato esclusivamente una consegna per due giorni, circostanza quest' ultima che dimostra come la fattispecie fosse stata già ritenuta non particolarmente grave da parte dell' amministrazione». «Anche il trasferimento per incompatibilità» concludono i giudici del Tar, «deve ritenersi non dirimente, essendo stato disposto sempre in conseguenza di detta relazione sentimentale».
La carabiniera e la doppia morale sul tradimento. Pubblicato sabato, 15 febbraio 2020 su Corriere.it da Elvira Serra. Nel 2020 si può perdere il lavoro per «carenti qualità morali», vale a dire per una relazione extraconiugale con un uomo che, per lo stesso presunto «reato», non subisce alcun richiamo. È il senso che emerge dalla sentenza del Tar della Toscana che il 15 gennaio scorso ha accolto il ricorso di una carabiniera collocata in congedo dal comando generale dell’Arma dei Carabinieri il 27 maggio dello scorso anno. Paola, usiamo un nome di fantasia, è una trentunenne pugliese figlia di carabiniere che nel dicembre del 2014 firma per quattro anni di ferma volontaria. Il suo sogno, terminato il quadriennio, è di restare nell’Arma, come il suo papà. Viene assegnata a una caserma piccola in provincia di Lucca. Qui ha una relazione con un brigadiere sposato e con prole. Questo dovrebbe essere un fatto privato, e così sembra, ma quando lei trascorre delle notti fuori dalla caserma, presumibilmente con lui, viene sanzionata con due giorni di consegna. Questo dettaglio è importante, perché il 27 maggio del 2019 il comando generale dell’Arma dei carabinieri, Ufficio personale appuntati carabinieri, le notifica una bella letterina in cui la colloca in congedo «per non ammissione in servizio permanente con decorrenza 3 dicembre 2018. Il periodo trascorso in servizio oltre la scadenza della ferma volontaria è considerato come servizio prestato in ferma volontaria». Curiosamente, nelle motivazioni indicate dall’Arma, la nostra Paola avrebbe «carenze comportamentali e scarsa consapevolezza del proprio stato, scadente affidabilità sul piano attitudinale, rendimento in servizio progressivamente in flessione nel tempo e non soddisfacente nell’ultimo periodo, minor senso della disciplina militare, palesando pertanto il non possesso con costanza (...) del requisito della meritevolezza per carenti qualità morali, buona condotta, attitudini e rendimento prescritto dalla normativa di riferimento per poter continuare a permanere in servizio nell’arma dei carabinieri». Nel caso di specie, il giudizio sulle «qualità morali e la buona condotta» si riferisce alla sanzione disciplinare della consegna di due giorni che la carabiniera aveva subito per aver dormito fuori dalla caserma (cosa che facevano tutti, maschi e femmine, dopo aver avvisato il comandante), con una motivazione da medioevo: «Sebbene nubile e assegnataria di posto letto, pernottava regolarmente all’esterno della caserma e intratteneva contestualmente relazione sentimentale con altro militare dell’arma coniugato, cagionando disagio al servizio istituzionale, in violazione degli artt. 717-732 comma 1 e 5 e 744 comma 3 del Turom» (vale a dire sul «contegno militare»).Peccato che il brigadiere in questione non abbia subito alcuna sanzione disciplinareper aver intrattenuto una relazione extraconiugale, e dunque per essere stato manchevole di «contegno militare». L’avvocata Michela Scafetta, che difende Paola, ha quindi presentato ricorso al Tar di Firenze che con sentenza 108/2020 ha annullato il provvedimento di non ammissione al servizio permanente e condannato l’Arma a pagare le spese processuali di tremila euro. Scafetta ha appena chiesto l’esecuzione della sentenza e quindi il reintegro della sua assistita. Paola nel frattempo è rimasta in Toscana, dove per mantenersi fa dei lavoretti di vario tipo, come la cameriera. Il Tar, accogliendo il ricorso, ha evidenziato che non si può valutare negativamente tutto l’intero quadriennio per le sole due giornate di consegna, provvedimento per il quale mette in evidenza, piuttosto, l’evidente asimmetria di trattamento con il carabiniere. Ha scritto il Tar: «Pur tralasciando come sia rimasta incontestata la circostanza relativa al fatto che solo ed esclusivamente la ricorrente sia risultata destinataria della sanzione disciplinare (e non quindi il commilitone), è dirimente constatare che l’erogazione di una consegna per due giorni deve ritenersi di per sé insufficiente a fondare un giudizio di non meritevolezza». Anche perché la Commissione di Valutazione e di Avanzamento, in occasione dell’adunata del 5 aprile 2019, si era espressa all’unanimità e a favore della permanenza di Paola nei Carabinieri. L’Arma adesso ha sei mesi di tempo per impugnare la sentenza del Tar. «L’Arma ha dimostrato di non essere pronta a gestire la presenza delle donne all’interno dei carabinieri e di garantire l’uguaglianza tra uomini e donne», ha commentato la legale Scafetta. Soprattutto, pare poco allenata a evitare una doppia morale: un uomo sposato e con figli può intrattenere una relazione extraconiugale, una donna libera e senza figli no.
· La Censura.
Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere.
"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".
Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.
La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.
Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.
La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”
A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.
A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.
A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.
A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.
A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.
Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.
Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.
Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.
Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.
DAGONEWS il 16 novembre 2020. Il rettore dell’Università Statale, Elio Franzini, avrebbe istituito, come richiesto dagli studenti legato alla sigla di sinistra Unisì suoi elettori, una commissione per giudicare il professore Luigi Marco Bassani. Come ricorderete, Unisì, è l’associazione studentesca di “sinistra” della Statale (e indottrinati al politically-correct) che si è segnalata per la campagna in favore della distribuzione gratuita (o sottoprezzo, 20 centesimi) degli assorbenti igienici in università (intervenì Lia Quartapelle, compagna di Martelli, a loro sostegno). Il professor Bassani è, invece, il docente di Scienze politiche reo di aver condiviso (non scritto) sul suo profilo Facebook un post in inglese definito sessista contro Kamala Harris. Il post (tradotto) diceva. “Sarà d'ispirazione per le ragazze mostrare che se vai a letto con gli uomini giusti e ammanicati allora puoi anche fare da spalla a un uomo affetto da demenza. Praticamente è la storia di Cenerentola". Il riferimento, noto e pubblicato, è al potente ex fidanzato della Harris, Willie Brown, già sindaco di San Francisco e politico di lungo corso del partito democratico californiano. Lui aveva 60 anni, lei 29, e ha ammesso di averla aiutata nella carriera, nominandola in ruoli importanti e ben pagati pur rimanendo a lungo sposato con la moglie. Ebbene, stando ai primi rumors, la “commissione etica” (così si chiama, “etica”) sarebbe composta da sole donne o maggioranza di donne. Al docente incriminato potrà essere chiesto di “rettificare pubblicamente” la propria posizione, proprio come ai tempi dell’Inquisizione. Se non lo farà, scatterà la diffida o sospensione. Poi, poiché il professore Bassani porta pure gli occhiali, forse non gli resterà che la rieducazione nei campi per evitare i killing filds come ai “bei tempi” del pensiero unico dei khmer ruoge, i quali, ovviamente (loro e buona parte dei giovani occidentali), ritenevano di avere ragione.
DAGONEWS il 13 novembre 2020. Che bello, siamo tornati agli anni Settanta, quando gli studenti rivoluzionari (c’è sempre una “rivoluzione culturale” in atto tra gli studenti ed è sempre giusta, un dogma) dismettevano dalla cattedra i professori. I meno giovani si ricorderanno gli esiti del ’68, che aprirono la scuola al caos e all’ignoranza. Ma furono giorni indimenticabili quando docenti come Argan, che avevano difeso gli studenti attaccati dalla polizia a Valle Giulia, furono costretti a scendere dalla cattedra per far posto alle assemblee sui diritti umani, alla controcultura e quando Moravia e il padre di Veltroni furono impossibilitati a parlare su Valle Giulia perché non sufficientemente rivoluzionari. Ora, la vita, ci dà la possibilità di rivivere quei giorni: come sempre, la prima volta in tragedia, la seconda in farsa. I rappresentanti dell'associazione Unisì, che unisce gli studenti di “sinistra” dell’Università Statale (se non di sinistra come una volta almeno indottrinati al politically-correct) hanno chiesto al rettore Elio Franzini la rimozione del professore di Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche Luigi Marco Bassani. C’è venuto un tuffo al cuore pensando ai tempi andati! Unisì è un’associazione di studenti che si è segnalata per la campagna in favore della distribuzione gratuita (o sottoprezzo, 20 centesimi, mejo de Arcuri) degli assorbenti igienici in università (intervenì Lia Quartapelle, compagna di Martelli, a loro sostegno). Ora chiedono a un rettore eletto con i voti degli studenti e dei bidelli, e con un programma che prometteva il non trasferimento dell’università nell’ex sede Expo (vuoi mettere i bar di via Festa del Perdono?), rettore che non può certo essere accusato di sessismo visto il numero di candidate promosse nei concorsi universitari da lui presieduti, di “processare” un professore. Il professor Bassani è reo di aver condiviso (non scritto) sul suo profilo Facebook un post in inglese definito sessista contro Kamala Harris. Il post (tradotto) diceva. “Sarà d'ispirazione per le ragazze mostrare che se vai a letto con gli uomini giusti e ammanicati allora puoi anche fare da spalla a un uomo affetto da demenza. Praticamente è la storia di Cenerentola". Il riferimento ovviamente è al potente ex fidanzato della Harris, Willie Brown, già sindaco di San Francisco e politico di lungo corso del partito democratico californiano. Lui aveva 60 anni, lei 29, e ha ammesso di averla aiutata nella carriera, nominandola in ruoli importanti e ben pagati pur rimanendo a lungo sposato con la moglie . Ma non credo che questo importi alle nuove Guardie rosse. I processi si fanno senza prove in tempi rivoluzionari! Per gli studenti è un fatto gravissimo. E così, finalmente, cessano di fare post sugli assorbenti e ne scrivo uno intitolato "Fuori i sessisti dalla Statale": "È inaccettabile che un professore universitario, che dovrebbe occuparsi anche della crescita umana degli studenti e delle studentesse oltre che della bello, formazione culturale di questi ultimi, condivida post di questo genere". Ora il rettore deve punire Bassani che, al solito, è figlio di un barone ma ha un supercurriculum: Collegio Ghisleri, studi a Boston e Berkeley, dottorato al Sant’Anna di Pisa (come Enrico Letta), lavoro all’Ispi e studi su presidenti e vicepresidenti americani, argomento del quale è uno dei massimi specialisti: il suo studio più celebre è su John C.Calhoun, vicepresidente Usa. Ma, male per lui, è stato anche vicino alle posizioni di Oscar Giannino e persino Gianfranco Miglio! Il rettore deve eseguire ciò che gli chiedono i suoi elettori: colpirne uno per educarne cento su come esercitare la ex libertà di pensiero sui propri social. “È la Guardia Rossa / che marcia alla riscossa / e scuote dalla fossa / la schiava umanità”.
Così le tv censurano la diretta di Trump. Le principali tv americane, tranne Fox e Cnn, hanno interrotto la diretta con il presidente Trump che parlava di brogli e prometteva dura battaglia. Lo scontro negli Stati Uniti si fa sempre più duro. Orlando Sacchelli, venerdì 06/11/2020 su Il Giornale. Si inasprisce lo scontro tra il presidente Trump e i principali network televisivi americani. Durante un discorso dalla Casa Bianca (nella notte italiana) Trump è tornato a denunciare che vi sono stati brogli ed ha promesso battaglia: "Se si contano i voti legali, vinco facilmente. Se si contano i voti illegali, possono provare a rubarci l’elezione". In particolare Trump ha fatto riferimento ai risultati di alcuni stati chiave: Wisconsin, Michigan, Pennsylvania e Georgia. Discorso molto teso quello di Trump, trasmesso in diretta tv e sui social network. Per tutta risposta Abc, Cbs e Nbc hanno interrotto il collegamento. Episodio gravissimo perché in quel momento, comunque la si pensi, stava parlando il presidente degli Stati Uniti. Le altre tv come si sono comportate? Cnn e Fox News hanno trasmesso integralmente il discorso. Ma la Cnn lo ha bollato come "il più disonesto della sua presidenza", aggiungendo in sovraimpressione che "senza prove Trump sostiene di essere vittima di una frode". In questo caso, sia pure da posizioni molto critiche e, per certi versi agli antipodi, l'emittente tv si è limitata a commentare e criticare duramente ma non ha censurato le parole di Trump. Le altre tv, invece, hanno scelto il bavaglio. Shepard Smith (Nbc) l'ha annunciato così ai propri telespettatori: "Interrompiamo il discorso del presidente perché ciò che sta dicendo, in larga parte, è assolutamente falso. E non possiamo consentire che vada avanti". Su Msnbc Brian Williams ha spiegato: "Ci troviamo ancora una volta nell’insolita posizione di dover non solo interrompere il presidente degli Stati Uniti, ma anche di doverlo correggere. Non abbiamo nessuna evidenza di voti illegali - ha aggiunto - e non siamo a conoscenza di alcuna vittoria da parte di Trump". Alla fine del discorso di Trump la Cnn ha replicato in questo modo: "Che notte triste per gli Stati Uniti vedere il presidente accusare falsamente qualcuno di aver tentato di truccare le elezioni. E attaccare la democrazia ripetendo bugie su bugie su bugie. Tutto questo, francamente, è patetico". Si può criticare finché si vuole un discorso politico e lo si può persino "smascherare", facendo un accurato fact checking, ma interrompere la trasmissione ha qualcosa di sinistro che non va nella direzione della libertà. La battaglia ovviamente è in corso anche sui social network. Facebook ha oscurato il gruppo "Stop the deal" (Ferma il furto), che alcuni sostenitori di Trump stavano utilizzando per organizzare le proteste contro lo spoglio elettorale. Alcuni membri avevano invocato azioni violente, altri si erano limitati ad accusare i democratici di "rubare" le elezioni.
Antonio Monda per ''la Repubblica'' il 7 novembre 2020. «Quello a cui stiamo assistendo - spiega Gay Talese - è una straordinaria prova di democrazia, ma anche una tragedia». Lo scrittore è chiuso nel suo bunker, il piano interrato della sua townhouse a Park Avenue dove scrive ogni giorno fino alle sei del pomeriggio, senza televisione né telefono.
Perché parla di tragedia?
«Iniziamo dal dato positivo: è un grande momento di civiltà. L'elettorato ha risposto in massa come mai nella storia degli Stati Uniti e ha scelto liberamente e democraticamente. Mi viene in mente la battuta di Jfk: "Quanto c'è di brutto nel nostro Paese può essere sempre risolto da quanto c'è di bello". Ovviamente ora c'è da augurarsi che, una volta terminato il riconteggio dei voti, Trump accetti il verdetto.
La tragedia è innanzitutto la sua: non sembra in grado di capire questa semplice verità democratica, non è nel suo Dna. La conferenza stampa di giovedì è gravissima dal punto di vista eversivo, ma anche il segno tragico di un uomo che vive nelle sue illusioni e non accetta di essere arrivato al termine del viaggio. È poi una tragedia per i suoi elettori che continuano ad appoggiarlo attribuendogli poteri quasi messianici, specie dopo la guarigione dal Covid: quel mondo, in gran parte non istruito e pieno di rancore, non vuole dialogare con il nuovo presidente e purtroppo dubito che egli riuscirà ad entrare in sintonia con loro. Infine è una tragedia per i media».
Che cosa intende?
«Innanzitutto c'è l'ennesima riprova della loro minima influenza sul risultato: se dovessimo tener conto dell'appoggio della stampa, Biden avrebbe dovuto vincere a valanga. Secondo: per molte testate Trump ha rappresentato una manna. Solo al New York Times c'erano almeno sei giornalisti che si occupavano di lui: ora di che cosa scriveranno? Certo non del decoroso Sleepy Joe. Mi viene in mente la battuta di Nixon quando si ritirò dopo la sconfitta alle elezioni in California: "Non avrete più me da prendere a calci"».
Il suo sembra un atteggiamento molto benigno: Trump si è distinto per atteggiamenti indifendibili.
«Non lo difendo affatto, l'unico talento che gli attribuisco è un'impressionante energia e il saper interpretare un mondo abbandonato dal resto della politica. Dico però, che con l'eccezione di Fox News, non ricordo un atteggiamento così negativo nei confronti di qualcuno dai tempi di Eichmann. Trump ha rappresentato un'esasperazione volgare, violenta e degenerata della lotta al politicamente corretto che ha asfissiato questo Paese negli ultimi trent' anni: è riuscito a trasformare l'ignoranza in forza e a impadronirsi del partito spingendolo su posizioni estreme e svilendone le più interessanti istanze della destra. Un'ennesima tragedia di cui sono vittima i conservatori.
Trump rifiuta di ammettere la sconfitta. Circola ovunque il bel discorso che fece McCain quando venne eletto Obama.
«Quello è un mondo superato e da rifondare che non ha più neanche un leader: non dimentichi che il vecchio establishment di partito ha appoggiato Biden a cominciare da Bush, Powell e Romney».
Perché è scettico riguardo a Biden?
«Perché si ritroverà un Paese lacerato e impoverito. Dubito che riesca a fare molto anche per questione di età: in otto anni Obama non è riuscito neanche a chiudere Guantanamo».
INFORMAZIONE NEGLI USA. BIDEN, GIU’ LA MASCHERA. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 3 Novembre 2020.Il fondatore di uno dei più prestigiosi siti sul fronte della controinformazione negli Stati Uniti, Glenn Edward Greenwald, lascia la sua creatura, “Intercept”, in clamorosa rottura con la proprietà, reo di lesa maestà nei confronti di Joe Biden. Quando il potere fiuta il vento che tira e chi cerca ancora giustizia, verità e informazione viene fatto fuori. Segato come un ramo secco. Siamo alla democratica (sic) dittatura a stelle e strisce, come già si annuncia. Ma vediamo di cosa si tratta.
Intercept viene creato sei anni fa, nel 2014, dall’avvocato costituzionalista e blogger Glenn Greenwald, insieme a Laura Poitras e Jeremy Scahill. Si tratta della prima pubblicazione di “First Look Media”, la piattaforma di informazioni finanziata da Pierre Omidyar, il fondatore di “eBay”. Inizialmente la piattaforma si basa su una serie di contenuti che viaggiano su un binario doppio: inchieste di giornalisti e collaboratori, ed una serie di segnalazioni che arrivano in via del tutto anonima, con le fonti perfettamente tutelate nella loro privacy, come era successo per i Wikileaks di Julien Assange, ancora sotto processo a Londra e con il rischio di essere estradato e spedito nelle galere americane. Il propellente principale nella fase di start, comunque, viene assicurato dall’immenso archivio di Edward Snowden, che proprio in questi giorni ha chiesto la cittadinanza russa. Uno dei temi più trattati e analizzati riguarda la security negli States, i suoi meccanismi, i suoi sistemi. Un terreno bollente, un campo assolutamente minato. Al centro delle investigazioni di Intercept ci sono i Programmi di Sorveglianza di massa imposti dalla National Security Agency, con i suoi cento tentacoli. Ma il raggio d’azione presto si allarga ad un giornalismo di denuncia, capace di alzare il velo sulla malapolitica, la malagiustizia e la corruzione. Una spina nel fianco del potere e soprattutto di quel Deep State che condiziona e avvelena sempre più la scena politica statunitense. E’ schierato sul fronte dei diritti civili, Intercept, ma i suoi nemici sul campo si fanno sempre più agguerriti, cercando di delegittimarne il ruolo e la dirompente carica. La sua piattaforma open source, denominata SecureDrop, è stata sviluppata da Aaron Swartz e viene gestita da un’organizzazione non a scopo di lucro, “Freedom of the Press Foundation”. E sul ponte di comando, per sei anni, resta lui, l’avvocato costituzionalista Greenwald, il quale si è anche aggiudicato un premio Pulitzer. Fino ad oggi. Quando succede il ribaltone. Per aver “osato” scrivere qualcosa di politically non correct su quel Biden che si appresta a sbarcare alla Casa Bianca. Più che ogni altro dettaglio o commento, preferiamo offrirvi la lettura dell’ultimo articolo scritto per il suo Intercept. Il suo – per ora – addio. Ho creato l’Intercept nel 2013 perché mi rendevo conto che c’erano molte restrizioni imposte ai giornalisti e alle nostre possibilità di riportare liberamente al pubblico fatti che contrastavano la narrazione del governo o dei centri di potere. L’Intercept è stato fondato proprio per garantire a chi ci lavora la completa indipendenza giornalistica, senza la necessità, per i suoi giornalisti di dover fare favori a questo o quel politico per via della vicinanza politica tra un l’editore ed un partito. Per questo è così straordinario che la redazione di un giornale da me co-fondato, che è stato costruito sulla mia reputazione e credibilità e sui miei successi giornalistici, sia intervenuta, sei giorni prima di un’elezione, per non farmi pubblicare notizie ed analisi su fatti, oramai provati, che fanno sorgere legittimi dubbi sulla condotta politica del candidato che loro supportano veementemente ed entusiasticamente. L’Intercept è stato per qualche tempo una pubblicazione unica perché il nostro scetticismo (legittimo anzi obbligatorio) nei confronti degli apparati dello stato, le cui azioni abbiamo sempre sottoposto a verifica, ha attirato gli attacchi della CIA e dell’NSA. Hanno attaccato tutti noi ma soprattutto me, i miei report e le mie fonti, ma nel tempo abbiamo avuto ragione: sapevamo ed abbiamo dimostrato che hanno mentito in modo sfacciato ed indecente ai cittadini. E se c’è una cosa che mi fa rabbia è che il giornale che ho fondato (con altri due), l’unico articolo che ha pubblicato su tutti questi documenti emersi su Joe Biden, oltre al mio che criticava la censura di Facebook e Twitter, si è limitato a liquidare tutta questa storia come qualcosa a cui non prestare attenzione dato che si trattava di disinformazione di matrice russa, citando come fonte una lettera di John Brennan, James Clapper e altri feroci personaggi dell’NSA e della comunità dell’intelligence, il tutto nonostante la lettera stessa informasse che non avevano minimamente le prove di quanto asserivano. Ma nell’articolo il fatto che non ci fosse nessuna prova veniva escluso. Cioè quelli dell’Intercept hanno citato una lettera di membri dell’intelligence cercando di convincere i lettori che lo scoop del New York Post fosse disinformazione russa, nonostante le loro fonti ammettessero che di prove non c’era nemmeno l’ombra. Nel frattempo peraltro è diventato chiaro che le mail sono autentiche (insieme alle migliaia di foto intime) e che nessuno, nemmeno Joe Biden, si è sognato di dire che le mail scoperte nel computer del figlio fossero false. Ma questa è la vera storia degli ultimi quattro anni durante l’amministrazione Trump. Nella sinistra c’è sempre stato un sano scetticismo sulle attività della CIA e altre agenzie, c’era un attivismo pacifista ancora nell’epoca di Cheney e Bush. Ebbene tutto questo è scomparso. Ed è scomparso perché l’intelligence dal primo giorno della presidenza Trump, prima anche che ci fosse stata l’investitura ufficiale, si è impegnata a sabotare la nuova amministrazione. Così la CIA e gli operativi del deep state sono diventati gli eroi dei liberal di sinistra. E questi presunti liberal, che sostengono il PD, sono entrati in completa sintonia con i neo-con impiantati nel potere da Bush, la CIA, i giganti della Silicon Valley e Wall Street: questa è l’unione di potere che, con i media mainstream, sostiene a spada tratta il PD. E li considero pericolosi dato che sono autoritari e vivono grazie alla censura che riescono a imporre alla popolazione. In questi anni occupandoci dei report riguardanti il Russiagate ci siamo resi conto che gli strumenti che i servizi di intelligence dovrebbero usare solo all’estero venivano rivolti verso i cittadini USA. Lo stesso avviene con la CIA che addestra persone per utilizzarle per campagne di disinformazione, questo è il loro lavoro: mentono per vivere. Ma queste attività si devono rivolgere, per legge, verso altri paesi, non all’interno degli USA. Prendi qualsiasi canale televisivo o grande giornale e tutto ciò che vedrai sono ex membri della CIA, del DOJ (Departmente Of Justice), dell’FBI, dell’NSA che dicono agli americani a cosa devono credere. Hanno infiltrato i mezzi di comunicazione nazionali e lì svolgono la loro solita attività: fare propaganda e mentire agli americani, ma questa cosa finirà tremendamente male. Indipendentemente da quale sia la tua ideologia.
Lo scandalo dei media che oscurano Trump. Max Del Papa, 6 novembre 2020 su Nicolaporro.it. Non è un granché la democrazia tecnologica del ventunesimo secolo se con tutti i suoi strumenti sofisticati, perfetti serve a soffocare, a censurare e arriva perfino al presidente degli Stati Uniti, un tempo l’uomo più potente del mondo.
Censura social. Donald Trump esce nel suo stile, che è quello del bisonte in cristalleria, ma possono i principali network televisivi occultarlo, possono i social media chiuderlo perché a loro giudizio dice palle? Dirà palle, non porterà pezze d’appoggio ma è difficile contestare la farsa dei voti che in certi stati risultano più degli iscritti nelle liste elettorali, votanti morti, resuscitati, perfino vecchi di 200 anni. Questo va bene, questo non va sorvegliato dagli scrupolosi gendarmi dell’agenda globale? I quattro anni di bufale continue, di scandali russi, di mignotte svergognate, di inchieste boomerang, di accuse di ogni genere dagli stupri al cannibalismo, questo può passare in cavalleria? E passa, e nessuno invoca “le prove, le prove”, altrimenti non siete seri, non siete credibili e noi vi censuriamo. No, non un grande affare la democrazia virtuale se i critici di Biden vengono bloccati per giorni e settimane, se più accumulano follower e più, misteriosamente, il numero dei follower cala e intanto i tweet di Trump vengono strangolati. Questo pluralismo sorvegliato, limitato non si ferma all’elezione della più grande, e se vogliamo controversa, democrazia al mondo, si riverbera sulle dittature: Youtube si censura per non spiacere ai cinesi, Microsoft del filantropo Bill Gates, filantropo filocinese, si adegua, in Iran la rivoluzione verde è abortita a nascere perché i manifestanti, dandosi appuntamenti via Twitter, potevano essere intercettati per tempo dal regime che poi li stroncava. Ma nessuno ha protestato, il livello di tolleranza per la barbarie totalitaria è direttamente proporzionale all’inflessibilità contro Trump, il miliardario che si è permesso di diventare presidente e ha dimostrato che, piaccia o non piaccia, lo sapeva fare, risultati alla mano e meno brutalmente di quanto appariva, meglio dei politici di mestiere, di carriera.
Popstar anti Trump. Non si può dire che Greta è un manichino mosso dal globalismo, che i suoi endorsement a Biden sono patetici e odiosi, ma se la popstar cretina dice che in caso di vittoria di Trump è meglio fuggire in Australia, se l’intellettuale imbecille sostiene che gli elettori di Trump sono tutti assassini seriali, solo fremiti di piacere e condivisioni. Queste popstar alla Bruce Springsteen, detto il Boss, talmente Boss che sta sempre sul palco col candidato democratico di turno, a prescindere, e pontificano dall’infimo di un livello culturale e di competenza geopolitica da scuola elementare. O la Lady Gaga, una che solo a vederla ne cogli le devastazioni mentali. Ma è la democrazia, non è vero? Una strana democrazia che guarda al dito e mai alla luna, non si pone il problema di un cambio di rotta in America, non si preoccupa degli scenari garantiti da un Biden che è un prestanome a scadenza dei soliti clan, gli Obama anzitutto. Che succederà con un presidente debole, incapace di arginare la Cina, disponibile alle peggiori degenerazioni del politicamente corretto? Ma ci sarà, come sempre, modo di riscrivere il presente, di dirottare gli effetti. Gli idioti sono utili anche per questo. In Italia gli idioti sono parecchi e non si capisce bene la loro foia, non si arriva a comprendere se tanto zelo sia strategico o genetico, l’unica cosa chiara è che c’è una voglia provinciale a superare nel peggio gli altri paesi, una esaltazione nella merda che sconcerta, tutta una corsa a chi è più bugiardo, più violento, più scorretto, più ultrà nell’odio verso Trump e nella santificazione di un personaggio cadente e decadente, puro raccatto dem, come Biden. Ma già all’epoca di Obama si vedevano agghiaccianti assessori di paese col selfie mentre telefonavano sotto la foto di Barack, come un tempo con Stalin, il “piccolo padre” che portava prosperità e democrazia in Russia.
Fanatismo (anti)democratico. Per un Federico Rampini che si svincola dal fanatismo, che, con snobismo sublime, denuncia le escandescenze dei Black Lives Matter come speculari a quelle dei fondamentalisti della destra fuciliera, che sbugiarda i corifei e mette i puntini sulle i della sanità americana, ci sono dieci, cento, mille che rispondono a sorrisini di compatimento, che si gonfiano della loro faziosità e scorrettezza. Per chi lavorano questi? Per se stessi, per il Pd che potrà dire, nel solito modo grottesco, “con Biden abbiamo vinto noi”. Italia di merda, provincia franata dell’impero in decadenza. Sulla Rai 3 militante chiamano la Botteri, in fama di vittima per i capelli scompigliati, e quella arriva a dire “la Cina, i diritti umani, la democrazia, vabbè”. Vabbè? Poi passano l’analisi a Giobbe Covatta, uno che fa ridere solo quando spiega il suo lumpenambientalismo mattocchio. Dite che non è il caso di metterla giù dura, che in fondo si è sempre fatto così? Sì e no, ogni elezione è stata distorta da propagande, da colpi bassi, da manovre e compromessi irriferibili, la politica sangue e merda d’accordo, ma mai con questo livello di bassezza, di immoralità intellettuale, di censura dal sapore di fascismo, democratico ma fascismo. Le stesse dinamiche si riverberano su ogni issue, sul clima, sul Covid, sui migranti, su tutto. Non è vero quel che c’è ma quello che non c’è ma conviene ci sia. Ed è vero solo quel che si lascia dire. I social network hanno una loro politica garantista che nessuno capisce, cancellano contenuti ad esclusivo arbitrio, bloccano autori senza spiegazioni, Facebook può sospendere iscritti sulla semplice constatazione che “ti abbiamo già bloccato in passato”, quindi ti fermiamo ancora. Siamo al processo kafkiano, ma sempre ad una dimensione, ad un senso di marcia. In compenso, pagine pedofile o allegramente blasfeme restano dove sono, o, nel frasario da Silicon Valley, “rientrano nella nostra policy”. C’è chi sull’intolleranza travestita da solidarietà, sull’odio spacciato per amore si costruisce carriere, chi ci fa i soldi, chi si inventa un mestiere. C’è chi, come il sito di Enrico Mentana, può mettere serenamente che il Covid cresce nei soli stati a maggioranza di elettori trumpiani”, e sì che hanno fior di cacciatori di balle. Per molti ma non per tutti, come il famoso aperitivo. Ma compiacersi perché l’agenda globale è faziosa oltre l’ossessione è da stupidi, stappare perché Trump avrebbe perso anche per queste nefandezze che mortificano chiunque abbia il compito di riportare, di informare, è da allucinati. Se non altro perché dall’abisso è quasi impossibile risalire. Max Del Papa, 6 novembre 2020
Trento, l'impunità degli squadristi rossi. Un anno fa, alcuni facinorosi proibivano a Fausto Biloslavo di parlare in università. Nulla è cambiato. Fausto Biloslavo, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. Violenza, intolleranza, insulti, cagnara in nome della negazione della libertà di parola, ma un anno dopo l’ateneo di Trento non è stato in grado neppure di tirare le orecchie a un solo studente, che la prima volta ha impedito e la seconda reso paradossale, in un clima di prevaricazione inaccettabile, una mia conferenza sulla Libia alla facoltà di Sociologia. L’università dell’“impunità” ha spiegato che “per gli eventi che ci hanno coinvolto un anno fa, l'ateneo non ha avuto bisogno di prendere provvedimenti. Visionati i filmati e raccolte le testimonianze di Rettore, Direttore Generale e Prof. Sciortino, è risultato che gli atti deprecabili non erano stati commessi da nostri studenti, ma da personaggi in parte già conosciuti dalla polizia”. Peccato che non sia così, come ha confermato la corposa informativa della Digos inviata in procura, ma rimasta lettera morta. E gli stessi filmati in possesso del Giornale che pubblichiamo sul sito. Altri studenti, contrari al colpo di spugna, hanno facilmente riconosciuto diversi “colleghi” fra gli squadristi rossi che hanno reso paradossale la conferenza, dopo avermi impedito una prima volta di parlare, con un picchetto, qualche settimana prima. Il rettore, Paolo Collini, spiega che l’università aveva depositato una denuncia, ma la Digos non ha mai fornito l’elenco delle persone identificate. Alla fine deve ammettere “che non ci siamo prodigati quanto si poteva, non siamo stati abbastanza efficaci. Potrebbe essere stato giusto sospenderli, ma dopo pochi mesi siamo entrati nel lockdown e non li abbiamo individuati”. Il 30 ottobre del 2019 gli squadristi rossi hanno inscenato un caos allucinante e violento, dentro la facoltà di Sociologia, battendo sulle porte per ore e rompendone una. Non solo: i facinorosi hanno cercato di entrare per non farmi parlare con la sicurezza all’università che faceva barriera fisica e tirato un ombrello che ha sfiorato la testa del rettore. Tutto documentato da filmati, che pubblichiamo sul sito del Giornale e che la Digos ha in quantità industriale. Su circa 40 facinorosi giunti anche dai circoli anarchici e centri sociali esterni c’erano 10-15 studenti, alcuni fuori corso, compresi 4 o 5 di sociologia. Il Giornale ne ha facilmente individuato con nome e cognome di 8, compreso un membro del Collettivo Universitario Refresh, laureato a Trento, che ha spintonato il rettore. Lo scorso anno erano quasi tutti regolarmente iscritti e avevano pure postato le loro foto su Facebook, ma l’università dell’“impunità” non ha fatto nulla. La presenza di studenti mi era stata confermata dallo stesso Giuseppe Scortino, docente storico del dipartimento di sociologia, che ne aveva subito individuati alcuni. L’addetta stampa dell’università ha riconosciuto una studentessa particolarmente esagitata. Adesso Sciortino getta acqua sul fuoco confermando “che gli studenti, almeno quelli di sociologia, erano un'infima minoranza” e “che mi riferivo al gruppo fuori dal palazzo e nell’atrio (…), che fischiavano e facevano caciara verbalmente”. Nessuno “tra i violenti”, da punire con un minimo di provvedimento disciplinare, anche se i filmati dimostrano il contrario. Il rettore, oggi alla fine del suo mandato, dichiara al Giornale che “non mi sarebbe dispiaciuto sospenderli”, ma non è andata così. Una settimana dopo gli sconcertanti fatti si era riunito il Senato accademico condannando “le azioni aggressive e violente che si sono registrate, in molteplici forme, in occasione della conferenza” e invitando gli studenti “alla massima vigilanza contro qualunque prepotenza volta a negare la libertà di parola”. La beffa è che non sia stata spesa neppure una parola per invitare l’università a prendere provvedimenti contro gli studenti del manipolo di squadristi rossi, che volevano tapparmi la bocca garantendone, di fatto, l’impunità. Non tutti, però, erano d’accordo come aveva scritto un docente: “Mi sarei aspettato un capoverso sulle misure concrete che l’ateneo intende adottare per perseguire i responsabili delle violenze e dei danneggiamenti, e su quelle per evitarne il ripetersi. Altrimenti non ci si può, poi, lamentare delle "strumentalizzazioni". Negli stessi giorni il collettivo responsabile della violenta gazzarra e del picchetto che aveva impedito il primo appuntamento per la conferenza organizzata, tra l’altro, da un gruppo studentesco di centro sinistra, aveva nuovamente piazzato uno striscione all’entrata di Sociologia per annunciare un incontro non autorizzato nel dipartimento sul tema “fuori i fascisti dall’università”. Ovviamente dopo la “vittoria” che mi ha di fatto impedito di parlare serenamente della Libia. Nessuno ha mai chiesto di sbattere in galera gli studenti facinorosi, ma neanche di insabbiare l’informativa della Digos sugli squadristi rossi esterni, vecchie conoscenze dell’estremismo di sinistra trentino. Per gli universitari bastava anche solo una tirata d’orecchi con il provvedimento disciplinare più blando, ma che avrebbe evitato di macchiare un grande ateneo con il marchio dell’"impunità" per gli studenti violenti che negano la libertà di parola.
Vittorio Feltri e Nicola Porro nel mirino del leader islamico Piccardo: ecco perché dovrebbero tacere. Libero Quotidiano l'1 novembre 2020. Accade che il premier turco, Erdogan, tuoni contro la Francia. E accade che qualche terrorista sembri aver quasi tratto ispirazione da quanto detto da Erdogan: pochi giorni dopo, la strage in cattedrale a Nizza e gli attacchi in Francia. E così, in una normale dialettica democratica, c'è chi Erdogan lo attacca, lo critica, anche con toni aspri. E c'è chi eccepisce a queste critiche parlando di "propaganda anti turca" e compilando le liste di "colpevoli". Si tratta di Davide Piccardo, leader della comunità islamica milanese, il quale parla di "turcofobia della stampa italiana". E come detto, fa i nomi di quelli che 'non vanno bene', ossia Vittorio Feltri, Fiamma Nirenstein, Nicola Porro e Giulia Belardelli, definiti "gli alfieri della propaganda anti turca di matrice isalmofoba". Persone che insomma andrebbero fermate per contrastare "questo flusso incontrollato di antipatica disinformazione". Parole, inaccettabili, che trovano diritto di cittadinanza su La Luce, quotidiano online che organizza sit-in contro le offese a Maometto delle "massime istituzioni francesi", che è un po' la teoria di Erdogan. Nel dettaglio, Feltri viene attaccato per aver paragonato il premier turco a Osama Bin Laden, chiedendo che "venga imbrigliato affinché la smetta di ammazzare gente in Europa, specialmente in Francia negli ultimi giorni". Opinione forte, come sempre, quella del direttore. Opinione che spinge Piccardo a chiedere che Feltri venga messo a tacere. Idem la Nirenstein, secondo cui Erdogan "è il migliore punto di riferimento del mondo terrorismo", pur se "non possiamo accusarlo di terrorismo in modo diretto". Infine Porro, additato per aver ospitato sul suo sito personale l'opinione di Francesco Giubilei, il quale affermava: "Impossibile non pensare a un nesso tra l'attentato di Nizza e la copertina di Charlie Hebdo", quella che attaccava Erdogan e l'Islam. Troppo, per Piccardo. Secondo il leader islamico è giusto far tacere chi dice la sua.
Fatwa degli islamici d'Italia sui giornalisti "scomodi". Piccardo (Ucoii): "Propaganda anti turca". Fausto Biloslavo, Domenica 01/11/2020 su Il Giornale. Davanti a decapitazioni e sgozzamenti in Francia, Davide Piccardo, un mezzo faro dell'Islam milanese, pensa bene di esibirsi con un J'accuse contro «la turcofobia della stampa italiana». E addita una serie di giornalisti nella lista di proscrizione delle penne colpevoli di puntare il dito contro il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Per Piccardo, capo del Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Brianza, Fiamma Nirenstein del Giornale, Vittorio Feltri di Libero e Giulia Belardelli dell'Huffington Post sono gli alfieri «della propaganda anti turca () di matrice islamofoba» e andrebbero fermati contrastando «questo flusso incontrollato di antipatica disinformazione». L'altolà è pubblicato sul quotidiano in rete La luce, che organizza e pubblicizza sit-in contro le offese a Maometto delle «massime istituzioni francesi». Nel tritacarne islamicamente corretto di Piccardo, da sempre sensibile alla sirene di Erdogan e dei Fratelli musulmani, finisce anche il vicedirettore del Giornale, Nicola Porro, reo di avere ospitato sul suo sito l'opinione di Francesco Giubilei, inserito da Forbes fra i 100 giovani under 30 più influenti d'Italia. Piccardo censura, come priva di riscontri, questa dichiarazione: «Impossibile non pensare a un nesso tra l'attentato di e la copertina di Charlie Hebdo uscita ieri» (quella che offendeva pesantemente sia il presidente turco, sia la religione islamica). Le bordate peggiori sono per Feltri e Nirenstein, che non usano il fioretto con Erdogan, ma chiedere di fatto di farli tacere, di questi tempi, può sempre venire interpretato alla lettera da chi ammira le decapitazioni degli infedeli. Feltri ha osato paragonare Erdogan a Osama bin Laden chiedendo che «venga imbrigliato affinché la smetta di ammazzare gente in Europa, specialmente in Francia negli ultimi giorni». Un'opinione forte, senza prove da portare in tribunale, come sostiene Piccardo, ma si limita ad essere un commento, giusto o sbagliato, in un Paese dove vige la libertà di stampa e di espressione. Nirenstein è colpevole di avere scritto che Erdogan è «il migliore punto di riferimento del mondo terrorista», anche se «non possiamo accusarlo di terrorismo in modo diretto». Per Piccardo, che si era presentato alle Comunali di Milano con Sel, «le nuove leve della destra non hanno potuto che accodarsi in un'unanime è tutta colpa di Erdogan!». La passione filo turca lo porta a scagliarsi pure contro Giulia Belardelli per un'intervista al filosofo francese Pascal Bruckner, che non è tenero con Erdogan. Curioso che Piccardo non citi mai l'Huffington Post, che ha pubblicato l'intervista. Forse perché tiene un blog sulla stessa testata, che gli ha permesso di scrivere a favore del neo sultano fin dal 2013. Il titolo non lascia dubbi: «Chi vuole fermare la Turchia forte e islamica di Erdogan?».
Maria Giovanna Maglie contro Papa Francesco: "Tace su terrorismo islamico e Cina comunista". Libero Quotidiano il 31 ottobre 2020. Dopo Sergio Mattarella è la volta di Papa Francesco. Entrambi si sono guardati bene dall'affiancare l'Islam all'attentato a Nizza. Una circostanza che non è piaciuta a Maria Giovanna Maglie. "Dice Bergoglio che “il papa le critiche le ascolta dopodiché esercita il discernimento, capire cos'è a fin di bene e cosa no. Discernimento che è la linea guida del mio percorso, su tutto, su tutti" - tuona la giornalista su Twitter dove poco dopo si lascia andare a una critica non nuova -. Discernimento - chiede - è tacere sul terrorismo islamico e sulla Cina comunista?". Il Papa, dopo l'uccisione di tre cristiani all'interno della cattedrale di Notre-Dame, ha condannato la violenza con queste parole: "Sono vicino alla comunità cattolica di Nizza - si legge sul suo profilo Twitter -, in lutto per l’attacco che ha seminato morte in un luogo di preghiera e di consolazione. Prego per le vittime, per le loro famiglie e per l’amato popolo francese, perché possa reagire al male con il bene". Nessun riferimento al mondo islamico, dunque, un po' come è accaduto nel discorso del presidente della Repubblica. Anche lui protagonista di un'invettiva della Maglie che gli ha ricordato come la "qualsivoglia matrice" da lui citata non fosse altro che "terrorismo islamico". Dice @Pontifex che"il papa le critiche le ascolta dopodiché esercita il discernimento, capire cos'è a fin di bene e cosa no. Discernimento che è la linea guida del mio percorso, su tutto, su tutti". Discernimento è tacere su #terrorismoislamico e #Cinacomunista?
Luigi Di Maio, non disturbare Erdogan: la vergogna del grillino dopo la strage di Nizza. Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 31 ottobre 2020. Non c'è tempesta in grado di allentare il patto di ferro che lega l'Italia della maggioranza giallorossa alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Mentre l'Europa è in balìa delle sparate del presidente turco, con le relazioni tra Ankara e Parigi ai minimi termini, mentre anche Berlino definisce «inaccettabili» le sortite di Erdogan contro la Francia, l'Italia di Luigi Di Maio si affretta a dire che per il nostro Paese la strategia nei confronti della Turchia non cambia: «Cercheremo a oltranza il dialogo». Certo, il capo della Farnesina condanna le «provocazioni» turche - e ci mancherebbe - ma insomma, bisogna «abbassare la tensione». Come se ad alzarla non fosse stato il Sultano di Ankara. Le operazioni militari nel nord della Siria contro i curdi; l'intervento militare (ai danni degli interessi italiani) in Libia; la pressione su Cipro (con l'Eni di mezzo) e Grecia; la trasformazione della basilica di Santa Sofia a Istanbul in moschea; l'asse con gli azeri contro l'Armenia sul Nagorno Karabakh; le accuse, sempre più documentate, sull'uso spregiudicato delle milizie jihadiste (per il docente turco Cengiz Aktar, Scienze politiche all'Università di Atene, «tutti sanno che la Turchia è diventata un hub dell'internazionale dei terroristi. Ankara è l'hub dei movimenti islamici»). Tutto inutile: più Erdogan tira la corda con l'Occidente, più l'Italia di M5S e Pd strizza l'occhio alla Turchia. Sul piatto c'è ancora - incredibilmente - lo status della Turchia come nazione candidata (dal 2005) all'adesione all'Unione europea. Status che per Ankara significa incassare - ricorda Andrea Delmastro, capogruppo di Fratelli d'Italia in commissione Esteri alla Camera- un contributo di 9,1 miliardi. «Ma la Turchia né geopoliticamente, né culturalmente, né spiritualmente, né religiosamente, è Europa. Cos' altro deve succedere perché l'Italia chieda, immediatamente, la revoca della candidatura turca? Erdogan è il mandante di quanto sta accadendo in Europa. La Fratellanza musulmana risponde a lui». Eppure Di Maio, nel corso dell'incontro avvenuto ad Ankara lo scorso 10 giugno con l'omologo turco Mevlut Cavusoglu, ha promesso alla Turchia l'impegno italiano per una ripresa dei negoziati con Bruxelles, entrati in una fase di stallo. Nel corso della conferenza stampa congiunta, Cavusoglu lodò pubblicamente Di Maio e l'Italia, indicata come «il partner numero uno nel sostegno per l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea». «Ed era già successo tutto», ricorda Delmastro. Dove «tutto» sta a indicare la politica di espansione turca: «Di Maio fece passerella». Il capogruppo di Fratelli d'Italia in commissione Esteri è da tempo all'offensiva sul dossier turco. «Ho presentato interrogazioni e risoluzioni, alcune neanche calendarizzate». Ma nell'ottobre 2019 un voto c'è stato. E la mozione per chiedere al governo il blocco del processo per l'adesione di Ankara all'Unione europea è stata bocciata con i voti di Pd e M5S. Già, perché anche i dem, fedeli alla linea «la Turchia non è solo Erdogan», sono schierati per la linea morbida nei confronti del Sultano. Logico che ieri, di fronte a tanta grazia mentre le cancellerie europee si interrogano sulle mosse di Erdogan, l'ambasciatore turco a Roma, Murat Salim Esenli, abbia ringraziato l'Italia, «un partner equilibrato quando si tratta di questioni regionali». Oltre a Fratelli d'Italia, anche alla Lega non sfugge la doppiezza italiana. Ieri il gruppo del Carroccio all'Europarlamento, guidato da Susanna Ceccardi, ha presentato un'interrogazione scritta a Josep Borrell, l'Alto rappresentante Ue per la politica estera. Oggetto: «Le continue provocazioni della Turchia, gesti di sfida all'Unione europea». I deputati del Carroccio denunciano l'«attività di reclutamento e addestramento di miliziani jihadisti» da parte turca. Aliquote di cui poi Ankara si servirebbe come «sostegno delle proprie truppe regolari negli scenari di guerra» nei vari teatri regionali. Gli eurodeputati leghisti citano in particolare «ex miliziani di Isis, Al Nusra e Al Qaeda». Tutti entrati in orbita turca. «Le istituzioni europee non possono tacere davanti a questi atteggiamenti di sfida e di arroganza».
Ernesto Galli Della Loggia per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2020. Fino a pochi anni fa l'Italia e la sua stampa si mostravano sensibilissimi a ogni critica nei nostri confronti provenisse dall'estero. E spesso con i toni di una patetica permalosità salvo che oggetto delle critiche fossero il capo e il governo del partito avversario (ad esempio Berlusconi), nel qual caso la fonte della critica straniera diveniva ipso facto un indiscutibile oracolo di Delfi. Con tali precedenti sorprende l'eco limitatissima (non su questo giornale) che ha avuto la diagnosi spietata della situazione italiana che nel suo numero in edicola ha fatto l'Economist. Poco importa che si possa discutere sull'esattezza di certe classifiche, di questo o quel dato. Quel che conta è il giudizio complessivo. La nostra economia non cresce da decenni, le imprese straniere comprano a man bassa i nostri marchi e le nostre imprese, grazie a leggi e procedure sciagurate la burocrazia è in grado di paralizzare ogni cosa, e infine, priva di qualsiasi idea direttrice la classe dirigente spreca risorse e non è capace di porre rimedio a niente. Insomma, ci dice il settimanale inglese - che, non lo si dimentichi, ispira e al tempo stesso riflette l'opinione di chi nel mondo più conta - siamo un Paese in pieno declino. Nell'arena mondiale valiamo poco o nulla. In altri tempi si sarebbero levate voci di protesa; oggi no. Perché forse è ai nostri stessi occhi che ormai le cose stanno realmente così. Perché forse abbiamo noi stessi ormai introiettato come un fatto acquisito la decadenza del Paese ed è per questo che non facciamo una piega se qualcuno la nota e ne parla. Solo l'universo politico acquartierato nel centro di Roma tra auto blu in terza fila e portaborse, sembra non rendersi conto di nulla. Del resto se pure si accorgesse della reale situazione in cui versa l'Italia, che altro potrebbe fare se non misurare la propria incapacità di concepire un'idea, di mobilitare energie, di battersi per la salvezza?
Ruben Razzante: «Da Palamara agli sprechi, così il covid oscura notizie scomode». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 27 ottobre 2020. Virus e fake news: parla il consulente del sottosegretario all’editoria Andrea Martella. “L’affaire Palamara presenta ad oggi molti lati oscuri che nessuno ha voglia di tirare fuori”, afferma Ruben Razzante, docente di Diritto dell’informazione all’università Cattolica di Milano e consulente del sottosegretario all’Editoria Andrea Martella.
Professor Razzante, la gran parte dei grandi giornali è sembrata fredda sul processo disciplinare all’ex presidente Anm: come se lo spiega?
«La pandemia sta facendo passare tutto in secondo piano. Nell’affaire Palamara, poi, sono coinvolti molti giornalisti. C’è la volontà di non approfondire l’argomento perché potrebbe mettere in luce il cortocircuito ricorrente fra giustizia e informazione».
Lei è componente della task force anti fake news istituita dal governo per combattere la disinformazione sul covid. Come giudica, su questo tema, l’informazione veicolata dai media? Non le pare che si tenda ad amplificare a dismisura quanto sta accadendo?
«Io a tal proposito parlerei di “terrorismo mediatico”. Ci sono tante esagerazioni. Penso alla rappresentazione spesso fuorviante dei dati: ad esempio non viene quasi mai indicata la percentuale degli asintomatici nei positivi».
Perché secondo lei?
«Nella prima fase, a marzo intendo, i giornalisti hanno fatto un ottimo lavoro, dando una informazione corretta. Adesso, forse per incrementare le vendite, si punta molto sul sensazionalismo. Mi riferisco, ad esempio, allo spazio dato ai vip che si sono contagiati e che non hanno alcun sintomo».
Il covid, dunque, ha monopolizzato l’informazione?
«Grazie, diciamo così, al covid non si parla d’altro. Neppure di vicende molto gravi. Abbiamo già visto per il caso Palamara, ma c’è anche la questione dei soldi pubblici dati ad aziende decotte, come Alitalia, o della pletora di sussidi improduttivi o iniziative fallimentari come il reddito di cittadinanza. Come dimenticare il Piano Marshall da 400 miliardi di aiuti annunciato dall’esecutivo nei mesi scorsi e che nessuno ha visto?»
Cosa dovrebbe fare la stampa?
«Dare un’informazione che non esasperi la realtà. Bisogna fare un corretto bilanciamento. I frutti di questa comunicazione stanno spingendo la gente a fare grande uso di farmaci antidepressivi, nessuno esce più di casa, tutti hanno paura di prendere il virus. In altre parole si mina la stabilità sociale, aggravando i danni causati della pandemia. Stiamo mettendo a rischio la democrazia».
Un richiamo alla deontologia professionale?
«Soprattutto. Non si deve “rincorre il virus”. Bisogna uscire dal negativo. Ricordo l’ articolo 6 del Testo unico doveri del giornalista: nessun sensazionalismo, notizie verificate e basta correre dietro al virologo che la spara più grossa».
E all’estero?
«Negli altri Stati non c’è questa ossessione, nonostante i contagi siano molti di più che in Italia».
Una fake scelta a caso?
«Il caso della donna che si è contagiata usando il wc di un aereo. Una circostanza ancora tutta da verificare, ma presentata come assolutamente vera».
Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it il 26 ottobre 2020. Incontrare Carla Vistarini significa navigare a mare aperto e affrontare, senza filtri e maschera, cinquant’anni, se non di più, di canzone italiana, televisione, teatro, cinema e libri. In un sabato d’ottobre, caldo e soleggiato come solo nelle città levantine, Carla ci accoglie a casa sua, nel suo nido (così mi è parso), dalle parti di Prati. Ci “addivaniamo”, direbbe Roberto D’Agostino, in un grande salone. Le pareti, bianche come lo zucchero filato, sono stracolme di libri, di ogni genere ed epoca. Qua e là, cimeli, i Telegatti vinti, la statuetta del David di Donatello, e locandine di spettacoli teatrali. L’antidiva per antonomasia – mi piace definirla così – apre i cassetti dei ricordi, rispolvera aneddoti, scava nel suo passato, indugia a riflessioni che, probabilmente, non aveva mai maturato. Curiosa e avida di letture come pochi, Carla Vistarini ha speso la sua vita artistica e personale mettendo a disposizione degli altri le sue parole, la sua creatività, e, anche se non sembra, la sua sensibilità. Tutti, o quasi, si sono appoggiati al suo talento. Mina, Patti Pravo, Renato Zero, Ornella Vanoni, Mia Martini, Gigi Proietti, sono solo alcune delle stelle italiane rese celebri dalla sua poesia e semplicità. Come il sommo JJ Cale, Carla non hai mai voluto che i riflettori sulla sua vita fossero accesi. Anzi. Alle luci della ribalta, all’apparenza, ai colori ingannevoli e fatui dello star system, ha sempre preferito il silenzio, il riserbo, frutto anche, forse, di un’educazione rigida, severa. Alla mondanità, l’amicizia, l’amore, i viaggi.
Le è mai stata messa la museruola nella scrittura di un testo?
«Io non l’ho mai avuta. Al massimo mi hanno chiesto di dare un certo indirizzo artistico al programma, ma censura vera e propria, mai.
Da autrice a scrittrice, il passo è stato breve, anche se più recente. Di quale libro va più fiera?
«Il libro di cui vado più fiera è, in realtà, un romanzo, “Città Sporca”, che esiste solo in forma digitale, come ebook».
Perché, poi, solo in ebook?
«Perché mi sono scontrata col misterioso mondo dell’editoria, a quel tempo a me ignoto. Era il 2013 e avevo terminato di scrivere “Città sporca”. Che fare? Non volevo infastidire amici o colleghi per farmi presentare qualcuno dell’ambiente. Gli amici non si scocciano, semmai si aiutano. Così ho scritto agli editori – tutti, dal grande al piccolo – presentando loro le mie credenziali artistiche. Un curriculum di tutto rispetto: premi, successi, classifiche. Nulla, nessuno mi ha mai risposto. Idem per gli agenti letterari. Allora, in forma anonima, e con lo pseudonimo di Slowhand (omaggio a Eric Clapton), partecipai a un torneo letterario organizzato da GeMS, il secondo gruppo editoriale italiano. Dopo mesi di selezioni – eravamo partecipanti ma anche giudici – solo i primi dieci romanzi finalisti avevano diritto alla pubblicazione. E se al primo classificato era concesso l’onore della pubblicazione cartacea, con gli altri nove, invece, si procedeva alla pubblicazione di un ebook. E io ero fra i nove. Non può immaginare la gioia. Questa esperienza mi ha lasciato due insegnamenti: 1) che a nessuno interessa nulla di quello che sei, di quello che hai fatto nella carriera; 2) che c’è ancora spazio vitale per chi ha qualcosa di interessante da dire e raccontare. Bisogna mettersi in gioco ogni volta da capo. È stata un’esperienza dura, meritocratica, ma bellissima, che mi ha permesso poi di pubblicare altri libri».
Crede, anche lei, nel valore salvifico della scrittura?
«Credo più nel valore salvifico della musica. Ma anche la scrittura, negli anni, mi ha dato una grossa mano».
Quali sono, oltre ai suoi amatissimi gialli, gli scrittori che l’hanno segnata in modo particolare? I classici o, piuttosto, autori più contemporanei?
«Tutti. Ne cito solo alcuni, l’elenco sarebbe infinito. Alla rinfusa: Borges, Chandler, Sciascia, Orwell, D.H. Lawrence, e i classici, Pirandello, Goethe».
SUDISMI - L’operazione verità che nessuno vuole vedere: neanche i governatori del Sud che reggono il gioco di Bonaccini. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 20 ottobre 2020. SI SONO scatenati. Articoli, video su YouTube, interventi, comparsate in televisione per dimostrare che è tutto falso. Parlo del dibattito in corso sullo “scippo” che ogni anno si consuma nei confronti del Sud. Tutto falso! Gli asili nido? A Reggio Calabria non li vogliono. Le ferrovie? I meridionali preferiscono utilizzare i bus o andare a piedi. E poi il mantra che ormai è diventato virale: «La realtà è che hanno avuto un mare di soldi che giacciono, non spesi. E quando li utilizzano servono a foraggiare la criminalità organizzata. Se il Nord non avesse il peso morto del Sud volerebbe e sarebbe comparabile alla Baviera. La colpa è loro, perché se avessero una classe dirigente non sarebbero nelle condizioni in cui sono».
MILLE PERCHÉ. A parte la considerazione che se è vero che la mancanza di classe dirigente, quella che ha come obiettivo il bene comune, e anzi la presenza di una classe dominante estrattiva, che pensa ai propri clientes, è un problema fondamentale, è altrettanto vero che la soluzione non può essere quella di affermare che se ci fosse non ci sarebbe il problema, perché è come dire che se lo zoppo non fosse zoppo potrebbe vincere le Olimpiadi. Bisogna invece fornirgli delle protesi per farlo correre. Ma la domanda che ci si pone è perché il Nord ha paura dell’operazione verità e perché invece i governatori del Sud non ne fanno un cavallo di battaglia per chiedere, se non il risarcimento (cosa estremamente complicata e inattuabile, considerata la cifra che si aggira, a seconda di come si vogliono fare i calcoli, da 300 a 600 miliardi) una diversa aggiudicazione delle risorse, e invece continuano a tollerare che, grazie alla Conferenza delle Regioni, si continui con la spesa storica? Perché di fronte a un ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che afferma in maniera tranquilla che il ponte sullo stretto di Messina, quello che dovrebbe permettere all’alta velocità ferroviaria di arrivare fino in Sicilia e quindi collegare Suez e Hong Kong al nostro Paese, non si farà per i prossimi cinque anni, non ci sono reazioni serie? Perché si consente alla ministra Paola De Micheli di contrabbandare un’alta velocità/capacità farlocca, come se i meridionali avessero l’anello al naso e non capissero che quando si parla di alta velocità a 160 chilometri orari ci stanno prendendo in giro?
IL RISCHIO UE. Lo strano è che non si vedono nemmeno posizioni avvertite e progressiste nel Nord, che accettino quello che è evidente a chiunque guardi la realtà italiana senza pregiudizi. Come fa la Ue, che prima con Le Maitre, minaccia di togliere le risorse all’Italia se continua a spenderle in maniera sostitutiva delle risorse ordinarie e ora con il Recovery plan destina all’Italia una cifra maggiore, proprio perché le condizioni del Sud sono precarie. «Se non verrà mantenuto un adeguato livello d’investimenti pubblici nel Mezzogiorno, l’Italia rischia un taglio dei fondi strutturali». È l’allarme della Commissione Ue, che ha inviato una lettera al governo «indicando le cifre più che preoccupanti sugli investimenti al Sud, che sono in calo e non rispettano i livelli previsti per non violare la regola Ue dell’addizionalità».
IL TAVOLO DEL GIOCO. È per la paura di perdere finanziamenti, e quindi di dover rinunciare all’ennesima corsia su una qualche autostrada del Nord o di dover diminuire gli scuola bus per darne qualcuno anche a Canicattì? Possibile che tutta la classe colta, vera classe dirigente del Paese, si trinceri dietro l’arrampicata sugli specchi di Andrea Giovanardi, che arriva a sostenere che «livelli essenziali non vuol dire uniformi» e che quindi è corretto che in parti diverse del Paese i cittadini abbiano alcuni servizi di serie A e altri di serie B, nella scuola , nella sanità, nel traporto. Oppure che Giampaolo Galli e Giulio Gottardo, andati in avanscoperta, e poi il candido Carlo Cottarelli affermino che lo scippo c’è ma anzi no, e le pensioni non vanno calcolate e che le ferrovie se investono a Milano mica li possiamo obbligare a investire a Napoli e che poi vivere a Palermo costa meno che vivere a Brescia o a Bergamo. Come mai non si accetta, come fece persino Calderoli, che i livelli essenziali di prestazioni sono un must irrinunciabile per tutto il Paese? E Confindustria e i sindacati? Nessuno che si strappi le vesti e dica che le risorse del Next Generation Ue vanno investite prevalentemente al Sud perché è lì che servono. Altro che il 34 %, minimo sindacale. Perché questa difesa dell’indifendibile, perché continuare a dire come il lupo che l’acqua può anche sporcarla chi sta in basso al ruscello? E dall’altra parte, se una “Operazione verità” è stata fatta come mai gli Emiliano, presidente di una regione di 4 milioni di abitanti, i De Luca che ne ha 6 milioni e i Musumeci con 5 milioni, che da soli rappresentano un quarto del Paese, di fronte a un’ingiustizia così palese, invece di continuare a fare la corte a un Bonaccini che fa il gioco delle tre carte, nel quale alla fine vince sempre il banco, ciò il triangolo emiliano- veneto -lombardo, non fanno saltare il tavolo del gioco?
IL SILENZIO TOMBALE. Il Vangelo dice che se non parleranno le persone per gridare la verità, parleranno le pietre. Ma qui la sensazione è che non parli nessuno e che ciò che doveva essere dirompente rispetto al sistema, e cioè che anche un euro venisse sottratto al Sud per darlo al Nord, sia stato assimilato come un veleno inevitabile, che continua a distruggere un corpo malato. E che in realtà il Mezzogiorno non sia più capace neanche di indignarsi. E invece di sbandierare i dati dello scippo si continuino a chiedere piccole mancette e non pretendere quello che ci tocca e ci è dovuto come cittadini di questa Italia.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 19 ottobre 2020. Ci chiamiamo La Verità, ma oggi la verità non ve la possiamo far vedere. La verità è la testa insanguinata di Samuel Paty, professore di storia, geografia, educazione civica e morale nella scuola di Conflans-Sainte-Honorine, tranquilla cittadina a 25 chilometri da Parigi. In questo borgo dove la Senna e l' Oise confluiscono e i monaci per centinaia di anni custodirono le reliquie della santa normanna, un rifugiato ceceno venerdì ha sgozzato un insegnante del liceo, colpevole di aver mostrato a suoi studenti le vignette di Charlie Hebdo che raffigurano Maometto, e che già il 7 gennaio di cinque anni fa sono costate la vita a 12 persone tra giornalisti e impiegati del settimanale satirico francese. Paty voleva spiegare ai suoi studenti quanto sia importante la libertà di espressione e che cosa significhi la tolleranza nei confronti di idee diverse dalle nostre. Non sappiamo se sia riuscito a convincere i ragazzi dell' importanza di rispettare chi non la pensa come noi, rappresentando i valori delle democrazie occidentali, che della libertà di stampa e di pensiero hanno fatto un baluardo. Sappiamo però che per aver osato parlare dell' argomento, e aver avuto il coraggio di mostrare le vignette messe all' indice dai fondamentalisti islamici, Paty ha pagato con la vita. Un ragazzo di 18 anni, accolto in Francia con lo status di perseguitato, ha percorso più di 100 chilometri per arrivare a Conflans-Sainte-Honorine, che probabilmente fino a qualche giorno prima mai aveva sentito nominare. Così come non conosceva la città, il giovane ceceno non conosceva neppure il professore, al punto che prima di accanirsi su di lui ha dovuto chiedere informazioni per essere certo di non sbagliare. Probabilmente, qualcuno lo aveva incaricato di punire l' uomo che aveva osato far vedere una vignetta che irrideva Allah e l' assassino ha portato a termine senza esitazioni la sua missione, decapitando l' infedele. Dopo aver ucciso il professore colpevole di aver affrontato l' argomento della libertà di stampa, del diritto di satira e del principio di tolleranza, il killer ha postato sui social la fotografia della sua testa insanguinata gettata in mezzo alla strada. Probabilmente, per l' omicida e i suoi complici questo avrebbe dovuto rappresentare un monito per tutti gli infedeli. Ma appena i social media manager che vigilano sulla Rete si sono accorti dell' immagine truculenta hanno provveduto a rimuoverla, perché dell' assassinio del professor Paty, reo di voler discutere di integralismo e fanatismo religioso, non restasse traccia. Su Facebook, su Twitter e sulle altre piattaforme di condivisione di video e notizie può circolare ogni cosa, gli insulti, le minacce e anche le volgarità. Ma la fotografia di un uomo che ha pagato con la vita la voglia di discutere no, non può essere diffusa. Mostrare una fotografia per far comprendere fin dove possa arrivare l' odio religioso e fin dove possa spingersi l' integralismo non è possibile. La legge, quella italiana in particolare, punisce chiunque pubblichi immagini impressionanti o raccapriccianti. In Rete o sui giornali possono essere diffuse fotografie pornografiche o anche semplicemente scandalose, ma lo scatto che rappresenti la morte no. Per l' immagine di Aldo Moro ucciso dalle Br e rinchiuso nel bagagliaio di una Renault ci fu un processo. E io stesso fui giudicato dall' ordine dei giornalisti per aver pubblicato sul giornale che anni fa dirigevo l' immagine di un bambino mai nato, ossia il corpo di un «feto» di nove mesi (ma si può chiamare feto un neonato non ancora partorito?) che il padre aveva ucciso insieme alla madre che lo portava in grembo. La foto del bambino mai nato non mostrava una goccia di sangue, ma solo un corpo rivestito con la cuffietta e il pigiamino azzurri, con cui i nonni lo avevano rivestito dopo l' autopsia della mamma. Tuttavia, per i guardiani della deontologia professionale, quello scatto era in grado di sconvolgere l' opinione pubblica e per questo andava censurato. Anche la testa del professor Paty, martire della libertà di espressione, potrebbe scuotere la coscienza dell' opinione pubblica e probabilmente molto più del corpo di bambino mai nato. Per questo non la si può, ma forse sarebbe meglio dire che non si deve, vedere. La morte è sempre uno scandalo, ma se poi la morte arriva per mano dei seguaci di una religione è uno scandalo doppio. Sì, noi ci chiamiamo La Verità e la verità ve la vogliamo raccontare. Oggi siamo costretti a non farvela vedere, ma anche se censurata dai pixel la verità non possiamo tacerla.
Gengis Khan vietato: stop alla mostra. Pressioni cinesi per l'evento sull'imperatore mongolo. Ira dei curatori. Redazione, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. La censura del regime cinese arriva anche in Francia. E spinge - o costringe - gli organizzatori di una mostra, a Nantes, a posticiparla fino almeno al 2024. L'esibizione avrebbe dovuto essere dedicata a Gengis Khan, l'imperatore vissuto tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo che fondò l'Impero mongolo, e condusse le tribù che aveva unificato alla conquista della maggior parte dell'Asia centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio Oriente e di parte dell'Europa orientale, dando vita, anche se per breve tempo, al più vasto impero terrestre della storia umana. Ma - udite udite - la mostra incentrata su mongoli e Gengis Khan non doveva pronunciare le parole mongoli e Gengis Khan. Pechino voleva cambiarne anche il titolo. Da «Sole del cielo e delle steppe: Gengis Khan e la nascita dell'Impero mongolo» a «Cultura della steppa cinese del mondo». Così hanno chiesto le autorità cinesi, che avrebbero voluto mettere al bando anche il termine «impero» e per farlo avevano chiesto non solo di poter intervenire ma anche di decidere su brochure, legende e mappe. La ragione? L'ha spiegata, mettendola nero su bianco, l'Ufficio cinese del patrimonio culturale, che ha chiesto di apportare alcuni cambiamenti al progetto originale, «inclusi in particolare elementi di riscrittura parziale della cultura mongola a favore di una nuova narrativa nazionale». La storia rivisitata dal regime. Un regime che continua a mostrare la sua aperta ostinazione in patria, cioè in Cina, ai danni dei mongoli. Tanto che ad agosto una contestata riforma della scuola ha sostituito la lingua mongola con il mandarino nell'insegnamento in aula. Ma ecco il bello. Il Museo di storia Château des ducs de Bretagne, a Nantes, in Francia, dove la mostra avrebbe dovuto svolgersi, ha deciso di non piegarsi alla richiesta: «Abbiamo deciso di fermare la produzione nel nome dei valori umani, scientifici ed etici che difendiamo», ha spiegato il direttore, Bertrand Guillet. Che ha parlato chiaramente di «censura» e ha addirittura approfittato dell'occasione per sottolineare l'inasprimento delle posizioni del governo cinese contro la minoranza mongola». Stop, dunque all'evento, che era stato organizzato in collaborazione con il Museo della Mongolia interna di Hohhot, in Cina. La mostra avrebbe dovuto tenesi a gennaio ma è stata posticipata di almeno tre anni. L'obiettivo adesso è un altro. E sarà anche una corsa contro il tempo. I curatori dovranno cercare di sostituire le opere prese in prestito dai cinesi con manufatti provenienti da collezioni europee e americane. Si andrà avanti senza interferenze e condizionamenti da Pechino.
Vittorio Feltri lascia Twitter: "Bordello guidato da dementi, me ne vado". Libero Quotidiano il 19 ottobre 2020. Sbatte la porta, Vittorio Feltri. Addio a Twitter annunciato ovviamente su Twitter. La ragione? Il social oscurerebbe alcuni dei cinguettii del direttore: già, il politicamente scorretto è indigesto. Di potabile c'è soltanto il pensiero unico. E il congedo del direttore di Libero è furibondo: "I miei cinguettii non vengono più diffusi e nessuno mi spiega il perché, pertanto chiedo di togliermi da questo bordello guidato da dementi. Via, me ne vado", conclude Vittorio Feltri. Cala insomma il sipario.
Il caso internazionale. Twitter sospende (temporaneamente) il profilo dell’Ungheria del "falco" Orban. Redazione su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Twitter ha sospeso brevemente l’account del governo dell’Ungheria, nel giorno in cui la Commissione europea ha pubblicato la relazione sullo stato di diritto critica nei confronti di Budapest. “L’account ufficiale del governo ungherese @AboutHungary è stato sospeso da Twitter senza alcun avvertimento o spiegazione. Ciò è estremamente interessante alla luce del fatto che la Commissione europea pubblicherà oggi il suo primo rapporto sullo stato di diritto”, ha scritto dal proprio personale un portavoce del governo, Zoltan Kovacs. Il profilo @AboutHungary è poi stato ripristinato, come si legge sullo stesso account, “di nuovo senza spiegazione“. Mentre era sospeso, è apparso l’avviso: “Twitter sospende gli account che violano le sue regole”. Kovacs, noto per la difesa sui media internazionali delle politiche anti-migranti e della “democrazia illiberale” del premier Viktor Orban, ha commentato: “Sembra che il bel nuovo mondo sia infine arrivato, dove i giganti della tecnologia zittiscono chi ha opinioni diverse”. Sospeso con lo stesso avviso è stato anche un altro profilo Twitter, @RMXnews, legato a media sostenuti dal governo, poi anch’esso ripristinato.
LO SCONTRO SUI DIRITTI CON L’UE – Intanto, la Commissione europea ha diffuso il rapporto sullo stato di diritto, in cui ha dichiarato di affrontare “importanti sfide” in alcuni Paesi. Vi ha dipinto a tinte fosche la situazione dei sistemi giudiziari e del rispetto dei diritti in Ungheria (così come in Polonia). Varie leggi sponsorizzate dal governo di Budapest, secondo l’analisi, prendono di mira libertà dei media, diritti delle minoranze, sistema elettorale, libertà accademiche e religiose. Il rapporto critica anche la percepita “mancanza di azione determinata ad avviare indagini penali e perseguire i casi di corruzione che coinvolgono funzionari di alto livello o la loro immediata cerchia, quando emergono gravi accuse”. La Commissione discuterà il rapporto con l’Europarlamento e gli Stati membri. “E’ importante avere un quadro di questi temi e vedere come sono collegati. Non ultimo perché le carenze spesso si uniscono in un insieme insostenibile, anche se gli ingredienti singoli possono sembrare andar bene”, ha detto la commissaria europea per i Valori e la trasparenza, Vera Jourova. Orban giorni fa ne ha chiesto le dimissioni, dopo le sue dichiarazioni “dispregiative” e “insultanti” verso Budapest (Jourva ha definito quella ungherese una “democrazia malata”). L’Ungheria ha subito respinto la relazione sullo stato di diritto: “Non solo è fallace, ma assurda”, afferma una nota del governo, “concetto e metodologia non sono adeguati allo scopo, le fonti sono sbilanciate e il contenuto infondato”. Il rapporto è arrivato alla vigilia del Consiglio europeo e potrebbe avere ripercussioni, mentre gli ambasciatori all’Ue degli Stati membri (Coreper) hanno approvato a maggioranza qualificata la posizione del Consiglio di legare il bilancio europeo al rispetto dello Stato di diritto nei vari Paesi, sulla base di quanto concordato a luglio. Non solo l’Ungheria, ma anche Polonia e altri Paesi, si oppongono alla condizionalità.
Massimiliano Parente per mowmag.com l'1 ottobre 2020. Un tweet di Massimiliano Parente ha scatenato l'ondata di indignazione di Michela Murgia e di altri scrittori, oltre ai loro followers che hanno lanciato la campagna #boicottaunsessista. Lo scrittore risponde alle critiche: "Sarò sempre fuori dal branco". “Non è cancel culture ma...” is the new “non sono omofobo ma...”, “non sono razzista ma...”. L’Inquisizione al confronto era il Cabaret Voltaire. Insomma, su Facebook, Instagram e Twitter è in corso la campagna #boicottaunsessista, con centinaia di nazifemministe che scrivono al mio editore, La Nave di Teseo, chiedendo di prendere le distanze da me e non pubblicare più i miei libri. Tutte contro uno, esprimono solidarietà, ma per cosa? Vediamo. A lanciare la fatwa è stata il mullah Michela Murgia, quella Murgia secondo cui ogni figlio maschio è come se fosse figlio di un mafioso, quella Murgia che vuole cambiare la patria in matria, quella Murgia che non si può dire la Murgia, quella Murgia che di fronte a una mia critica alle book influencer sessiste che leggono solo libri di donne (si veda la signora Carolina Capria, profilo Instagram Lhascrittounafemmina, un nome un programma) mi dà dell’incel (pensavo fosse una marca di cellulari, poi ho scoperto che è un single a cui nessuna la dà). Il mullah Murgia ha lanciato un appello perché chiunque (amici, editori, conoscenti, chiunque, pure il mio barista penso) si dissociasse da me e adesso si chiede la mia testa editoriale (proposta partita da un autore da Strega, tale Jonathan Bazzi, o Fazzi, o Cazzi, non ricordo). Che carino, questo linciaggio di branco parte da chi fa lezioncine antifasciste, in genere in televisione e nei salotti culturali mainstream che contano, posti che io non frequento. Cosa ho scritto per suscitare il branco di scimmie impazzite sguinzagliato dalla signora? Questo terribile tweet incriminato: “Sostituire per legge la parola patriarcale cazzo con la parola murgia: mi hai rotto la murgia, fatti la murgia tua, che murgia vuoi, che murgia dici, non hai capito una murgia, mi stai sulla murgia, succhiami la murgia, testa di murgia”. Testa di murgia, niente al confronto di quello che può pensare un maschio nel sentirsi dire che è mafioso perché maschio, o misogino o incel, o vedersi insultare la figlia, come è capitato a me. Il branco contro uno, solidarietà alla Murgia, ma solidarietà per cosa? Sarebbe stato anni fa come esprimere solidarietà agli islamisti anziché a Salman Rushdie, lasciandolo solo contro loro. È la violenza di un vittimismo che raduna una folla contro un carnefice che non c’è. Tra l’altro, gente che non conosce niente, non ha letto niente, figuriamoci me, ha letto solo la Murgia e risponde ai suoi comandi come galline ammaestrate, gente che, insulti a parte, mi scrive: vuoi solo farti pubblicità! Certo, ho passato la vita a scrivere opere fondamentali e mi viene detto che voglio farmi pubblicità quando attacco autori con opere insignificanti che passano la vita a farsi pubblicità, ma fatemi il piacere. In ogni caso dove c’è un branco, io sarò sempre dall’altra parte, non ho mai avuto bisogno di squadristi, mi basto e avanzo, anche perché ho un’opera, capisco convenga a queste casalinghe frustrate dedite ai corsi di arte e letteratura boicottare un presunto misogino per non doversi confrontare con lo scrittore, si sono boicottate il cervello da sole alla nascita. Senza considerare che sono più femmina io della Murgia, di sicuro ho avuto più donne e anche più uomini di lei, l’identità sociale delle donne confligge con quella dell’identità di genere, voglio dire: io sto facendo womansplaining, bellezze. Comunque sia, care mie: boicottatemi stocazzo.
Brunella Bolloli per “Libero Quotidiano” l'1 ottobre 2020. In questa storia c'è un «addirittura» andato di traverso al Pd. L' ha pronunciato Francesco Giorgino, volto del Tg1 da tanti anni, conduttore dell' edizione delle 20, esperto di speciali post-elezioni, mezzobusto notissimo, guarda caso perfino capace di analisi politiche senza suggeritori occulti: sarà per questo che alla sinistra non piace. Abituata a decidere chi fa cosa alla Rai, la combriccola dei compagni si stupisce se un cronista è libero di parlare e di dire ciò che pensa. Ad Agorà, ieri, si discuteva della recente nomina di Giorgia Meloni a presidente del partito dei Conservatori europei, si discettava dei ruolo del centrodestra nell' Ue, dei rapporti tra Fratelli d' Italia e Lega. Giorgino, caporedattore politico del Tg1 per anni quindi conoscitore dell' argomento, era ospite della conduttrice Luisella Costamagna insieme a Maria Latella, al capogruppo dei senatori della Lega Massimiliano Romeo e al deputato del Pd Emanuele Fiano quando quest' ultimo, a freddo, lo ha attaccato: «Nonostante i peana difensivi di Giorgino a favore della Lega...». «No, scusi, Fiano non cominciamo, lei parli con Romeo e lasci stare i giornalisti», l' ha stoppato Giorgino. «Lei dovrebbe fare il giornalista obiettivo e non il difensore di un partito italiano. Facciamo un dibattito io e lei sulla Lega», ha insistito l' altro. «Io ho il diritto di dire quello che penso e non quello che vuole il Partito democratico. Lei è una persona poco corretta». E via così. Vani i tentativi della Costamagna di fermare la rissa consumata via Skype: Fiano è partito in quarta contro Giorgino il quale, sentendosi toccato nella sua professionalità, per giunta intimidito sul piano personale, ha risposto: «La politica lasci in pace il giornalismo». Subito dopo si è capito il perché di tanto livore da parte del deputato dem: «In una recente intervista a Matteo Salvini», ha spiegato, «Giorgino gli ha detto "Pensi che c' è perfino qualcuno che ha detto che lei avrebbe addirittura perso"». Il riferimento è alle Regionali del 20 e 21 settembre e allo speciale condotto dallo stesso Giorgino sulla rete ammiraglia della Rai per analizzare l' esito delle Amministrative. In sintesi, per Fiano è questa la prova della scarsa imparzialità del collega della Rai: quell'"addirittura" con cui avrebbe accarezzato il leader del Carroccio, steso per lui un tappeto rosso, asservito il suo ruolo di dipendente del servizio pubblico alla causa leghista. Forse avrebbe dovuto accoglierlo con un secco: «Ah Matté, hai perso la Toscana eh?, Quand' è che ti dimetti e ti levi di torno?», per la gioia di Fiano e di chi è sempre pronto a bacchettare i media se non sono schierati dalla loro parte. Tu chiamale, se vuoi, ipocrisie. E dire che Lele Fiano è uno dei più preparati del suo gruppo, ha una storia importante alle spalle, avrebbe perfino cose interessanti da raccontare. Eppure lo mandano in tv quando c' è bisogno dell' artiglieria pesante, quando si deve cannoneggiare l' avversario perché con lui lo scontro è assicurato, solo che stavolta ha sbagliato bersaglio. Lo dice perfino l' Usigrai, il sindacato (non certo di destra) che insieme al comitato di redazione del Tg1 difende il collega. «È un vizio diffuso e duro a morire: esponenti politici che danno pagelle ai giornalisti», si legge in una nota, «le critiche sono sempre legittime, ma trascinare nelle diatribe tra partiti un giornalista non è un metodo corretto». In campo anche Lettera22, associazione che riunisce centinaia di professionisti dell' informazione: «Attaccare un giornalista per un' analisi politica è un attacco a ogni singolo cittadino», dice un comunicato, «perché la libertà di parola, di stampa e di critica, sono elemento fondante di ogni Stato di Diritto, della Democrazia, e sono tutelate dalla nostra Carta e dalle nostre leggi. Intervengano Odg e Fnsi». Si uniscono i Giornalisti 2.0 - Gruppo Gino Falleri: «Il pluralismo dell' informazione del servizio pubblico non può essere minacciato da chi esige giornalisti portavoce di questa o quella forza di partito». Di «grave episodio ad Agorà» parla Igor De Biasio, consigliere Rai, «spero che Ad e Cda ne prendano atto». Dichiarazioni a sostegno di Giorgino sono arrivate da esponenti della Lega (Massimiliano Capitanio ha bacchettato «il bavaglio preventivo del Pd contro Francesco Giorgino reo di avere constatato la storica vittoria nelle Marche») di Fratelli d' Italia, dal senatore di Fi, Francesco Giro che chiama in causa la Commissione di Vigilanza Rai: «Batta un colpo». Dall' altra parte c' è Michele Anzaldi (Iv) onnipresente quando si tratta di fare le pulci al Tg1 («ormai fuori controllo») oltre a due parlamentari Pd incaricati di dare man forte a un indifendibile Fiano. Lo stesso Giorgino, interpellato da Libero, spiega di non avere mai avuto problemi con nessuno prima di ieri, di considerare la polemica chiusa, ma di esserci rimasto male perché il suo lavoro è stato messo in discussione mentre «io ritengo di essere sempre stato corretto e rispettoso del valore del pluralismo». Quel pluralismo e quella libertà di opinione sanciti dalla Costituzione, soprattutto all' articolo 21. Ogni tanto anche i politici farebbero bene a dare una ripassatina.
Porro, Sallusti, Veneziani: per la sinistra non devono parlare. Marco Baronti, 29 settembre 2020, su Nicolaporro.it. “Non tutta la cultura è cultura”. L’ha detto una consigliera comunale del Pd di Pistoia, Antonella Cotti, durante l’ultimo consiglio comunale. Cosa voleva dire? Molto semplice. Che c’è la cultura di sinistra, che è di origine controllata (da loro) e dunque è legittima. E poi c’è la cultura che non è di sinistra, che essendo incontrollata (da loro) non merita invece di essere riconosciuta.
Monopolio della cultura. A settembre, ho realizzato e condotto, insieme al collega Massimiliano Lenzi, un ciclo di incontri dal titolo “Italiani a Pistoia”. L’ha organizzato il Movimento Cristiano Lavoratori della città. Ogni venerdì sera, in piazza, abbiamo chiamato a parlare un personaggio del mondo del giornalismo e della cultura, tra questi Nicola Porro, Alessandro Sallusti, Mario Giordano, Marcello Veneziani e Paolo Crepet. L’evento ha avuto un buon riscontro di pubblico. Pistoia è una città che, storicamente, è stata governata dalla sinistra, come gran parte dei comuni toscani. Nel 2017, dopo oltre settant’anni di amministrazione rossa, è passata al centrodestra, con la vittoria di Alessandro Tomasi, attuale sindaco di Fratelli d’Italia. Al posto dei soliti volti dell’album di famiglia, per una volta, hanno parlato giornalisti liberali (Porro e Sallusti), un pensatore di destra (Veneziani), un giornalista fuori dal coro (Giordano) e uno psichiatra non bigotto (Crepet). La consigliera Cotti, però, sostiene che queste figure non c’entrano niente con la cultura. Secondo lei “non tutta la cultura è cultura perché la Cultura ha un significato profondo”. Per profondo, intende la cultura di sinistra? Questo non l’ha specificato: è possibile l’abbia sottinteso. Eppure, ci sono intere biblioteche di altre culture. Libri e libri che la consigliera Cotti o non conosce (glielo auguriamo) o, peggio, disconosce. Non solo, ha poi aggiunto che sarebbe stato opportuno non consentire sotto campagna elettorale lo svolgimento dell’evento: “Sicuramente le persone che sono venute – ha detto riferendosi agli ospiti – non sono l’esempio più calzante di una cultura giornalistica obiettiva e pacata, ma solo di parte”. Insomma, secondo lei, Porro, Sallusti, Veneziani, Giordano e Crepet, durante i periodi di campagna elettorale, non hanno licenza di parlare in una pubblica piazza o di presentare i libri che scrivono.
E pensare che la consigliera Cotti fa parte di un partito che si definisce democratico. Democratico sì, ma a patto che nessuno la pensi diversamente da lei. Marco Baronti, 29 settembre 2020
«Il “Festival Insieme” censura Mario Trudu, morto all’ergastolo ostativo». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 settembre 2020. La denuncia di Marcello Baraghini: «Sono stati proprio gli organizzatori a invitarmi a proporre un titolo da presentare nel programma ufficiale, ma poi improvvisamente hanno fatto un passo indietro con la scusa di non essere riusciti ad accogliere tutte le proposte arrivate». «Sono stati proprio gli organizzatori a invitarmi a proporre un titolo da presentare nel programma ufficiale, ma poi improvvisamente hanno fatto un passo indietro con la scusa di non essere riusciti ad accogliere tutte le proposte arrivate». Grida alla censura Marcello Baraghini, storico editore border line fondatore di Stampa Alternativa. È lui a guidare la protesta contro la decisione del festival romano della letteratura “Insieme” di escludere il libro di Mario Trudu “La mia Iliade. Un’odissea di quarant’anni a inseguire la vita” dal programma ufficiale delle presentazioni. “Insieme” è un grande festival del libro a ingresso gratuito per tutti che si terrà dall’uno al 4 ottobre, nato con l’obiettivo di restituire luoghi di incontro a tutti gli appassionati di libri e letteratura. «Come Strade Bianche di Stampa Alternativa – spiega l’editore Baraghini – saremo presenti con uno stand a questo evento, perché offre accesso gratuito ai lettori, a differenza degli storici saloni del libro». Denuncia sempre l’editore che sono stati, poi, proprio gli organizzatori a invitarlo a proporre un titolo da presentare nel programma ufficiale. «Eppure – denuncia hanno fatto un passo indietro, quando ho scelto questo potente e provocatorio testo di Mario Trudu, pastore sardo ed ergastolano ostativo, morto mesi fa per un male senza aver avuto la possibilità di farsi curare all’esterno del carcere, dopo 40 anni di detenzione estrema. Un libro che ha suscitato interesse in molti ambienti culturali». Un rifiuto, secondo l’editore di Stampa Alternativi, senza plausibili motivazioni, con la scusa di non essere riusciti ad accogliere tutte le proposte arrivate. «Per questo – sottolinea Baraghini-, parliamo di censura politica e culturale. Hanno accolto domande giunte l’ultimo giorno utile, e, sebbene la nostra richiesta di chiarimenti, ad oggi non è arrivata risposta dagli organizzatori». Quella di Mario Trudu che, poco prima di morire, consegna il manoscritto a Francesca de Carolis, giornalista che lo ha seguito per anni nei suoi pellegrinaggi nelle carceri, è una storia scomoda, che si intreccia con la denuncia di una carcerazione senza spiragli. «Oggi – conclude Baraghini – seppelliamo Trudu una seconda volta. L’appello ora va ai lettori che credono in una letteratura lontana dal perbenismo delle scuole di scrittura, dall’impersonale conformismo dello storytelling: veniteci a trovare per rafforzare il patto di complicità tra editore, autore e lettore, per riscrivere insieme le regole del mercato editoriale. Un dialogo che parte da una letteratura di sangue, che urla dal carcere, che resiste, pulsa e vive tra gli ultimi, i dimenticati, i reietti, i confinati, come Mario Trudu, per arrivare al futuro editoriale e culturale». Ricordiamo che l’ultimo libro di Trudu è purtroppo postumo. La sua è una tragica vicenda raccontata anche su queste pagine de Il Dubbio. Muore dopo quaranta anni di carcerazione senza l’alito di uno spiraglio, nell’ottobre dello scorso anno. L’ultimo respiro lo ha emesso nell’ospedale di Oristano, dove era stato ricoverato quando ormai era troppo tardi, nonostante le sollecitazioni, le richieste, le denunce perché, ammalato da tempo, ricevesse le cure necessarie, e in una struttura adeguata. I “no”, le “distrazioni”, le lentezze sono stati l’ultimo accanimento nei suoi confronti. Di Mario Trudu, l’editore Marcello Baraghini si era da subito innamorato, fin da quando, ormai quasi una decina d’anni fa, la giornalista Francesca de Carolis gli aveva portato i primi manoscritti. A proposito del suo ultimo libro, come ricorda De Carolis, Trudu conosceva a memoria il poema omerico, ne aveva registrata una versione anche in lingua sarda e, potenza liberatoria dell’immaginario, lo vediamo attraversare le mura delle sue prigioni e incontrare i protagonisti di quel mondo in cui «gli eroi erano eroi veri, non erano fatti di cartone come lo sono oggi», dove «il nemico lo dovevi affrontare mano a mano, dovevi lottare corpo a corpo, dovevi avere le palle, mentre oggi con una pistola ti può uccidere un qualsiasi vigliacco». Incontri che, come lui stesso scrive, «mi hanno accompagnato e reso meno insopportabili i decenni passati chiuso dentro queste mura». Un peccato questo passo indietro da parte del festival “Insieme”, perché un libro così andava presentato per far comprendere il suo valore letterario a un pubblico ignaro della violenza dell’ergastolo ostativo che può abbattersi verso quelle persone che nel frattempo sono cambiate, hanno fatto i conti con i propri sbagli e pronti per vivere nel mondo libero per contribuire addirittura a migliorarlo.
I renziani vogliono zittire il reporter che condanna assassino di don Roberto. Il giornalista Andrea Romoli sbotta: "L'omicida è un immigrato clandestino violento e mafioso". Ma Faraone (Italia Viva) perde le staffe: "Ora mi rivolgo alla Commissione di Vigilanza Rai". Luca Sablone, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. Guai se qualcuno si azzarda a esprimere la propria opinione e prova a raccontare con chiarezza l'orrenda vicenda che ha portato alla morte di don Roberto Malgesini. Ancora peggio se a farlo è un giornalista. Il "prete degli ultimi" è stato ucciso a coltellate nella mattina di martedì 15 settembre da un 30enne tunisino che, stando alla versione fornita da alcuni volontari, soffriva di "forti sbalzi d'umore". Alcune fonti della Questura hanno spiegato che sul ragazzo - con precedenti per furto e rapina e arrivato in Italia nel 1993 per sposarsi con un'italiana tre anni dopo - penderebbe un provvedimento di espulsione datato 8 aprile, poi sospeso a causa blocco dei voli per il Coronavirus. Dopo un servizio sul delitto di Como Andrea Romoli si è permesso di scrivere su Facebook un post mediante cui ha espresso il proprio pensiero in merito al caso: "L'omicida è un immigrato clandestino violento e mafioso. Gli immigrazionisti che sui media e la rete cercano, come al solito, di derubricare l'ennesimo atto di violenza da parte dei migranti come atto di follia devono farsene una ragione. Siamo in pericolo, tutti". Ma ecco che un fautore del politicamente corretto è subito intervenuto per provare a zittirlo: "È solo uno squilibrato. Che sia immigrato, clandestino, rosso o verde è un problema tuo e di chi la pensa come te".
La sinistra vuole il bavaglio? Il giornalista del Tg2 ha la colpa di non essersi piegato al dogma perbenista. E dopo un continuo botta e risposta ha perso la pazienza e si è lasciato andare a un durissimo sfogo: "Non è stato ucciso da uno squilibrato, ma da un cazzo di immigrato clandestino con decreto di espulsione non eseguito, che grazie agli immigrazionisti e ai buonisti vari era ancora in giro". Immediatamente si sono alzati i forconi e le grida: come si può tollerare che in Rai ci sia un giornalista che sostiene che gli immigrati violenti e irregolari debbano essere rimandati a casa loro? Effettivamente c'è chi ha colto immediatamente l'occasione per annunciare battaglia. Tra questi vi è Davide Faraone, che ha perso le staffe in seguito a un fatto che reputa molto grave: secondo Romoli, "uno di quelli che non incontri al bar, ma ogni sera alle 20 al Tg2, perché fa il giornalista e dovrebbe attenersi ai fatti", il killer di don Roberto Malgesini non è un folle. Una tesi dura da digerire, vero? Ecco perché il capogruppo di Italia Viva in Senato ha annunciato: "Non ho il minimo dubbio che su queste affermazioni gravi deciderà la Commissione di Vigilanza Rai a cui, nel momento esatto in cui clicco su questo post, mi rivolgerò".
Rai contro Andrea Romoli, giornalista del Tg2: "Clandestino violento" l'assassino di Don Roberto Malgesini, vogliono punirlo. Renato Farina su Libero Quotidiano il 18 settembre 2020. È necessario, in questa Italia folle, chiarire un concetto: non è che uccidere un santo rende santo l'assassino. Le due parti in tragedia non coincidono. Invece siamo arrivati a questo: parlar male del tunisino Ridha Mahmoudi, che ha piantato il coltello nella gola di don Roberto Malgesini, è considerato oggi dall'opinione pubblica della sinistra, che domina una Rai al servizio dei giallorossi, un reato imperdonabile, sicuramente più grave del martirizzare il prete che gli porgeva la mano per amore. Vietato esporre le circostanze fattuali, che di per sé hanno il torto di sembrare un'opinione, ma si limitano solo a raccontare la realtà. Trattasi di un immigrato, clandestino, pregiudicato per estorsione, allontanato dalla famiglia perché maltrattava la moglie. Folle? La nomea si è diffusa subito, per il comodo di una narrazione dove colpevole è chi non lo ha accolto e lo ha vessato. Per il gip che lo ha interrogato attentamente era però perfettamente in grado di intendere e di volere, al punto da avere premeditato lo sgozzamento. Il fatto che avesse immaginato un complotto ordito da prefetto, medico e prete per sbatterlo fuori dall'Italia, non è indice di incapacità di intendere e di volere. Abbiamo deputati e sottosegretari che giurano sull'esistenza delle sirene e sostengono la congiura delle scie chimiche. E ci governano. Ridha è pure così furbo che per sembrare matto ha prima confessato il delitto, poi ha negato di essere lui ad aver pugnalato il suo benefattore. Guai a dirlo. Bisogna avvolgere l'assassino in un'aura di inconsapevolezza, perché come è noto i clandestini sono buoni per definizione e se uccidono è perché sono stati innervositi dall'ingiustizia fino a perdere la trebisonda. Un giornalista del Tg2, Andrea Romoli, dopo aver confezionato un servizio che nessuno ha contestato sul delitto di Como, avendo esibito i fatti nella loro cruda sostanza e insieme mostrato l'inermità evangelica dell'agnello sgozzato, si è permesso da privato cittadino di esprimere la sua opinione e un giudizio politico. Ha scritto sui social, senza nascondersi dietro uno pseudonimo: «L'omicida è un immigrato clandestino violento e mafioso. Gli immigrazionisti che sui media e la rete cercano, come al solito, di derubricare l'ennesimo atto di violenza da parte dei migranti come atto di follia devono farsene una ragione. Siamo in pericolo, tutti». «solo uno squilibrato» Gli risponde subito un portavoce del pensiero correttissimo: «È solo uno squilibrato. Che sia immigrato, clandestino, rosso o verde è un problema tuo e di chi la pensa come te». Tradotto: sei un uomo bacato di dentro. La colpa? Nega il dogma per cui la malizia e l'odio consapevoli non possono albergare nelle anime dei clandestini. In quale archivio segreto, in che fascicolo della Procura si trova questa diagnosi psichiatrica? A parte il fatto che a noi pare francamente razzismo sostenere a priori che se uno è immigrato non può essere uno come tutti gli altri, cioè un uomo dotato di libero arbitrio, capace persino di uccidere, avendo il quoziente intellettuale a posto, ma deve essere paternalisticamente considerato un minus habens, un mentecatto, perché non è ragionevole uccidere chi ti fa il bene. In realtà è una storia vecchia come l'umanità: l'invidia fa odiare chi ti ama disinteressatamente. Figuriamoci. Stravince l'ignoranza assoluta dell'animo umano. Replica e controreplica. Finché Romoli con il più classico dei linguaggi da Facebook sbotta: «Non è stato ucciso da uno squilibrato, ma da un cazzo di immigrato clandestino con decreto di espulsione non eseguito, che grazie agli immigrazionisti e ai buonisti vari era ancora in giro». Ahia. Che bisogno c'è di un'altra prova? È «razzista» scandisce il sito Globalist, bene introdotto nell'ambiente Pd e ultrasinistra. Che ci fa in Rai uno che pensa addirittura che i clandestini dovrebbero essere rimandati a casa, magari prima che ammazzino? Noi saremmo umilmente dell'idea che, se proprio devono avere uno scompenso psichico, sarebbe auspicabile l'abbiano in patria, o no? Pare di no. Il coro peloso dei buoni insiste: mettere in dubbio la malattia mentale dell'aggressore è razzismo, non si fa. rivolta in commissione Dalla giungla dei social esce con lo scalpo di Romoli in mano uno degli esponenti della maggioranza rosso-gialla in Commissione parlamentare di vigilanza, il presidente dei senatori di Italia Viva, Davide Faraone, emette la sentenza. Sia licenziato dalla Rai. Perché? «Per questo signore qui, uno di quelli che non incontri al bar, ma ogni sera alle 20 al Tg2, perché fa il giornalista e dovrebbe attenersi ai fatti, per questo signore qui il killer di don Roberto Malgesini non è un folle». Si presenti subito ai magistrati, caro senatore. Estragga la perizia psichiatrica che sicuramente avrà trovato in qualche recesso di Twitter. L'accoltellatore è un folle, dica «lo giuro» in Tribunale. Le opinioni politiche del giornalista del Tg2 sono discutibili, ma certo. Dare ad esempio delle «merde» a «immigrati e fascisti», facendone un sol fascio, come gli scappa prima di cancellare il tutto, è un parere alquanto esagerato. Ma resta una intemerata privata. Non esiste nessuna opinione, ancorché detestabile, salvo l'istigazione alla violenza, che consenta sanzione disciplinare e tantomeno l'esilio dal contesto civile di chicchessia. Magari invece sarebbe richiesta una piccola rettifica a Faraone, vista la decisione del gip di Como di non considerare affatto folle il (presunto) assassino: chi ha nominato psichiatra forense Faraone? Sarà mica un criminologo? Niente da fare, il capo dei senatori renziani insiste: «Romoli è un cattivo esempio che non può stare nella principale industria culturale del Paese». Insomma: lo si cacci. I clandestini rivelatisi assassini, no. I decreti di espulsione si applicano per i giornalisti che denunciano l'illegalità immigrazionista, foriera di tragedie. E la Rai che farà? Seguirà il Faraone con tutti i suoi carri, cavalli e cavalieri. Le agenzie segnalano che «a viale Mazzini la Rai sta acquisendo la documentazione necessaria per avviare le valutazioni sotto il profilo disciplinare». Che tristezza. Che brutto Paese.
Vittorio Feltri contro Repubblica e Corriere: "Complici del governo, cosa non c'era in prima pagina". Libero Quotidiano il 14 agosto 2020. Vittorio Feltri azzera i giornali principali del Pase. La frecciatina arriva su Twitter, dove il direttore di Libero, senza fare nomi, scrive: "I cosiddetti grandi giornali non danno notizia in prima pagina che mezzo governo è indagato. La completezza dell’informazione è questa? Stampa complice dell’esecutivo". Il riferimento pare però essere chiaro. Nella giornata di oggi, 14 agosto, nè Il Corriere della Sera, né tantomeno Repubblica, lasciano spazio in prima alla notizia che Giuseppe Conte e i ministri sono stati raggiunti da un avviso di garanzia. Il motivo? L'emergenza coronavirus e la sua gestione. Il premier, dunque, assieme ad Alfonso Bonafede, Luciana Lamorgese. Roberto Speranza, Luigi Di Maio, Lorenzo Guerini e Roberto Gualtieri, è ora indagato. Una vera e propria batosta per l'esecutivo che, al di là del risultato finale, fa capire che la malagestione della pandemia ci sia stata ed eccome.
Luigi Mascheroni per ilgiornale.it il 5 agosto 2020. La politica ha sempre condizionato l'arte. Oggi decide se progettare o meno un museo sul fascismo, ieri decideva quali opere fossero utili o meno alla propaganda di regime (di tutti i regimi) e cosa esporre o vietare in un museo o in una galleria. Accadde ad esempio alla Galleria Borromini di Como, nell'aprile del 1944, in piena Repubblica di Salò, quando la Prefettura intimò al direttore di togliere dalle pareti alcuni dipinti di Giorgio de Chirico, fra cui gli enigmatici Manichini guerrieri del '26, e altri di Amedeo Modigliani e di Massimo Campigli. Alla domanda del gallerista su quale fosse il motivo, un funzionario risposte: «Hitler non vuole questa pittura». E, oggi, Dal caso Nolde al caso De Chirico. Hitler non voleva questa pittura è il titolo della mostra che a si aprirà l'8 agosto alla Galleria Farsettiarte di Cortina d'Ampezzo (fino al 30 agosto): curata dal critico d'arte Demetrio Paparoni, raccoglie proprio il De Chirico censurato nel '44 e altri capolavori - tutti provenienti da collezioni private, quindi pochissimo visti - di grandi artisti che i nostri alleati nazisti non gradivano o per motivi di razza (Modigliani era ebreo) o di «forma» (tutto ciò che non fosse realista era bandito).
Ed eccoli qui, i cancellati dal nazifascismo: Cagli, Cagnaccio di San Pietro, Campigli (presente in mostra con una meravigliosa Pittrice del '27), Casorati, De Chirico, De Pisis, Guttuso, Modigliani, Mafai, Marino Marini (con la scultura in terracotta del Giocoliere, 1939), Morandi, Fausto Pirandello (con le Bagnanti, 1943), Rosai, Emilio Vedova (con due pezzi: La musica del '42 e una Composizione del '48), il tedesco Emil Nolde e persino Mario Sironi...E sì. Anche Mario Sironi, fascista della prima ora, autore di vignette e illustrazioni per il Popolo d'Italia dal '21 al '40, e che pure Mussolini detestava come pittore, con quei «piedoni» e quelle «manone» «fuori dalla tradizione, fuori dall'arte italiana». Del resto, un altro epurato - qui in mostra con una Natura morta del 1930) - fu Emil Nolde, sostenitore del Partito nazionalsocialista fin dai primi anni Venti, di cui sposò le posizioni antisemite, ma troppo modernista, nel suo Espressionismo degenerato, per piacere al Führer. Come spiega bene Demetrio Paparoni nell'introduzione al catalogo (che riprende la veste grafica in uso nei primi anni Quaranta), la differenza nella gestione della politica culturale tra la Germania nazista e l'Italia fascista fu molto marcata. Per i nazisti (in questo molto simili ai sovietici) l'artista doveva produrre un'arte che educasse il popolo ai valori del Partito. Mentre per il fascismo - almeno fino a che la razza ebraica divenne una discriminante - l'unica preoccupazione era che l'artista, libero dal punto di vista del linguaggio formale, non proclamasse apertamente idee antifasciste. Casorati, per esempio, amico di Gobetti in gioventù e poi nel gruppo di Rivoluzione liberale, nel '23 fece tre notti in carcere: dopo evitò di manifestare pubblicamente il proprio antifascismo e continuò a dipingere ciò che voleva.
Luca Beatrice per "Il Giornale" il 5 agosto 2020. A partire dalle avanguardie storiche, ogni epoca della storia dell'arte ha sviluppato diverse teorie anche in contrasto tra loro. Quella di oggi pare incagliata nei bassifondi del «gendersim», lontano parente del fenomeno già contestato negli anni '90 dalle acute osservazioni di Robert Hughes. Mentre un secolo fa, movimenti, gruppi e singoli interpreti gareggiavano per rivoltare l'arte e la cultura come un calzino, gli anni Venti del Duemila recitano la litania delle pari opportunità interpretando il passato sotto la luce viziata del presente. Non c'è giorno in cui non si leggano notizie e dichiarazioni strampalate e senza pensiero: bisognerebbe pareggiare il conto tra presenze maschili e femminili nella collezioni della Galleria Nazionale di Roma e non piuttosto offrire alla riflessione del pubblico le opere migliori indipendentemente dal sesso dell'autore. La prossima antologica di Lee Krasner (1908-849 al Guggenheim Bilbao non è intesa come la legittima riscoperta di una pittrice dell'Espressionismo Astratto, ma un atto di risarcimento nei confronti della moglie di Jackson Pollock, la quale oltre a sposare un genio fu costretta a sopportare soprusi e violenze di uno psicopatico, nonché mettere da parte le proprie velleità artistiche, almeno fino al 1956, quando Pollock morì in un incidente d'auto. Il primo torto grave alle donne nell'arte lo reca proprio questo tipo di lettura. Si parla poco delle qualità dell'opera e sempre troppo del personaggio, del ruolo, del sacrificio sull'altare del maschilismo. In tanti, ma soprattutto tante, parlano molto e studiano poco: Lee Krasner fu senz' altro una valida pittrice, che guardò ai Surrealisti e a Picasso prima ancora che al terribile marito, ma il suo lavoro risulta se non derivativo, almeno di seconda fascia rispetto ai Pollock, Newman, Rothko e De Kooning. L'Espressionismo Astratto, seppur maschilista e fallocratico, non fu movimento avaro nei confronti delle donne: Helen Frankenthaler, Hedda Sterne, Grace Hartigan, Joan Mitchell insieme alla Krasner sono salite, meritatamente, nella considerazione del mercato e della critica. Nel 2015 Massimiliano Gioni curò al Palazzo Reale di Milano l'ambiziosa mostra La grande madre selezionando oltre 130 artiste donne nel '900, in particolare soffermandosi sulle prime avanguardie e sulla svolta dei tardi anni '60 legata al femminismo. È pressoché certo che nel 2020 la sua lettura verrebbe considerata illegittima perché opera di un maschio (ecco il delirio, le donne si occupino di donne, i neri di neri e avanti così), non il prezioso contributo a una nuova storiografia. Mettendo in risalto le personalità di tante artiste geniali, le futuriste Benedetta Cappa Marinetti e Regina, la dadaista Elsa von Freytag-Loringhoven, fino all'esplodere di performance e Body Art, Gioni ricostruì filologicamente uno scenario in gran parte da scoprire senza per questo attardarsi in proclami militanti o in questioni di equilibri numerici, che invece oggi sono al centro della questione. Rispetto ad altri linguaggi, in particolare la letteratura, le arti visive sono partite senz' altro in ritardo nella piena considerazione del femminile, che si compie dagli anni '90, ovvero da quando la società entra nella globalizzazione e da quando si comincia a guardare oltre l'Occidente. Ma se allora le donne chiedevano a gran voce più attenzione per il loro lavoro, ora è una questione che non si discosta dalle pari opportunità tipo consiglio comunale. Peccato che nell'arte e nella cultura non si dovrebbe ragionare così, che un'opera si riconosce se capace di rimandare concetti universali e non particolarismi legati a sesso e genere. Oggi i curatori di biennali e musei sono obbligati a distribuire le scelte per genere (uomini, donne, transgender, confuse identità con asterisco finale) senza dimenticare minoranze e razze non dominanti. Tutto bene, ma così si fa cronaca, non cultura e infatti l'arte intorno al 2020 risulta noiosa, contingente e difficilmente resisterà nel tempo. E pensando che la Galleria Nazionale di Roma presto presenterà una mostra vietata ai maschi, ghettizzando ulteriormente una creatività che si rafforza semmai dal confronto, l'impressione è che il fanatismo abbia preso il posto della militanza. La storia però ha tempi lunghi e giudizi articolati. Frida Khalo resterà per sempre un gran personaggio e un'artista piuttosto greve, nonostante le folle adoranti. Françoise Gilot nutriva l'ambizione di vivere di pittura ma sposò Picasso che sarà stato un gran bastardo con le donne però stiamo parlando del più grande pittore del '900 e nessuno poteva fargli ombra, tanto meno la compagna, 40 anni meno di lui, madre di Claude e Paloma, che dopo dieci anni ebbe il coraggio di lasciarlo e di scrivere un mémoire in cui a tratti lo ridicolizza. Ma non basta a cambiare le carte in tavola e non credo che se Gilot avesse avuto più tempo per dipingere, invece di assecondare le bizze di Picasso, ora noi leggeremo una versione diversa della storia dell'arte.
Andrea Cionci per “Libero Quotidiano” il 12 settembre 2020. "Ella sgonnella e scopre la caviglia con un fare promettente e lusinghier". Le parole della Bohème pucciniana ci tramandano il polso di ciò che costituiva uno scandalo sociale a metà '800. Già all' epoca, tuttavia, circolavano, più o meno furtivamente, fotografie pornografiche: morbidi nudi di donna, dalle forme canoviane e dalle pose modeste che oggi non ecciterebbero nemmeno un ergastolano. Facendo un confronto con la pornografia (legale) attuale, a portata di clic, si deve ammettere che se ne sono fatti di progressi. Oggi abbiamo materiale infinitamente più estremo e più accessibile, con decine di categorie per tutti i "gusti", con tutte le combinazioni possibili e immaginabili e le più fantasiose attrezzature. Qui non si ha a che fare con l' evoluzione della cultura, dato che la fisiologia dell' eccitazione sessuale non è molto diversa tra quella di un individuo di un secolo fa e un contemporaneo. Attraverso questo confronto storico, tutti possono verificare l'"assuefazione erotica", fenomeno distruttivo di massa del quale nessuna autorità sanitaria italiana si sta occupando pur trattandosi di salute pubblica, legalità, educazione. Non c' entra la morale o la religione. Di ricerche ce ne sono a bizzeffe: lo studio dello psicoterapeuta americano Peter Kleponis "Uscire dal tunnel" (D' Ettoris Editori) mostra che gli adolescenti tra i 12 e i 17 anni sono i maggiori fruitori di pornografia online che, tra l' altro, gioca un ruolo nel 56% dei divorzi. La maggior parte dei molestatori sessuali ha iniziato con la pornodipendenza che sta crescendo tra le femmine. Soprattutto, essa produce effetti sulla chimica del cervello, proprio come alcol, gioco, sigarette e droga, ma non è proibita, né tassata e nemmeno si consapevolizzano i fruitori con scritte del tipo "attenti, può creare dipendenza". In un Paese a crescita sottozero come il nostro, è interessante come, stando dalle ricerche, la pornografia online porti gli uomini a dare minor valore alla fedeltà sessuale e maggiore al sesso occasionale con conseguente decadimento della prospettiva matrimoniale-familiare. La distorta dimensione della sessualità crea danni all' interno della coppia, anzi produce cambiamenti nel cervello che lo rendono meno sensibile al piacere con una donna reale.È di questi giorni una ricerca dell' Associazione europea di urologia secondo cui più video porno si guardano, più si rischia di fare flop nella vita reale con problemi di erezione e calo del desiderio. Del resto, non ci vuole una laurea per intuire che se uno è abituato a visionare le prodezze di pornoattrici 25enni, magari avrà qualche difficoltà con la consorte attempatella, dopo 20 anni di matrimonio. E mentre questa realtà corruttiva avanza senza controllo nelle case di tutti e negli smartphone dei nostri ragazzi, i "vaghi dami in seta ed in merletti" del salottino radical scatenano mille "battaglie" sull' apprezzamento "sessista" di un allenatore, sulla barzelletta osé di Berlusconi, sull' asterisco alla fine delle parole, e su mille altre sciocchezze. Evidentemente sono così casti e puri da non aver mai cliccato su un sito porno, senza vedere la degradazione di quei corpi femminili. Se è vero che le "attrici" si prestano volontariamente, chissà se i nostri benpensanti si sono chiesti che idea della sessualità si possa produrre nella mente di un ragazzo. In Nuova Zelanda se ne sono accorti e il governo ha lanciato una campagna, "Keep it real", per proteggere i bambini da questi contenuti web. Per quanto i grandi network della pornografia si mantengano entro i limiti della legge, come si fa a prevedere dove porterà, nei loro utenti, il meccanismo comprovato dell' assuefazione? Quando le combinazioni legali sono esaurite? Quante sono statisticamente le persone le cui parafilie nascoste potrebbero essere slatentizzate da questa macrodiffusione di pornografia gratis e superaccessibile? Restiamo ai fatti: mentre case automobilistiche, di moda e festival cinematografici mostrano nelle loro réclame bambini seminudi in pose provocanti, il rapporto 2019 dell' associazione "Meter" denuncia il raddoppio in un anno del materiale pedopornografico segnalato (da 3 a 7 milioni di foto). L' aumento pauroso di questa parafilia (non è un "orientamento sessuale" come alcuni vogliono farci credere) è forse in parte collegata anche alla sparizione di minori, decuplicata in Italia negli ultimi 10 anni. Di metà luglio l' arresto di alcuni minorenni che trafficavano con video di neonati (!) torturati, stuprati e uccisi a pagamento sul deep web. Eppure, i media non approfondiscono le ragioni di questi inimmaginabili orrori e la politica se ne infischia. Forse è vero, allora, che il porno fa diventare ciechi.
Scoppia l'ira di Gasparri: "Al Tg1 nessun servizio sull'aggressione a Milano". Il Tg di Rai 1 non dà la notizia dell'aggressione in Duomo a Milano e scatena i dubbi di Gasparri: "Fatto grave". Chiesta l'interrogazione in Vigilanza. Francesca Galici, Giovedì 13/08/2020 su Il Giornale. Le cronache di ieri sono state inevitabilmente catalizzate da quanto è accaduto nel Duomo di Milano, dove un egiziano ha sequestrato una guardia giurata e sotto la minaccia di un coltello l'ha obbligato a inginocchiarsi. Un fatto gravissimo che evidenzia l'ennesima falla nel sistema di sicurezza del Paese, anche alla luce del video in cui si vedono gli agenti fronteggiare l'uomo per oltre 10 minuti con la paura che potesse far del male al ferito, senza poter intervenire perché non più dotati di teaser. In un tessuto informativo compatto, che ha seguito da vicino i fatti, stupisce l'assenza della notizia nel primo Tg della Rai.
Migrante semina il panico in Duomo: punta il coltello all'agente e lo fa inginocchiare. Tutte le testate online, ieri, se ne sono occupate. Hanno fornito i dettagli man mano che le forze dell'ordine facevano luce sulla vicenda, per dare maggiori informazioni possibili. Anche i telegiornali, con le prime edizioni disponibili dopo l'evento, hanno dato risalto alla notizia. Tutti tranne uno, ossia quelli di Rai1, che nell'edizione delle 20 ha bucato la notizia. A evidenziare questa anomalia è stato Maurizio Gasparri con una nota. "Nell'edizione delle 20 di mercoledì 12 agosto, il Tg1 non ha mandato in onda alcun servizio sulla drammatica aggressione avvenuta al Duomo di Milano. Mentre gli altri Tg del servizio pubblico hanno riportato la notizia dell'immigrato egiziano che ha minacciato e tenuto in ostaggio un agente, il telegiornale della rete 'ammiraglia' ha ignorato un fatto di cronaca gravissimo", scrive il coordinatore di Forza Italia. L'edizione del Tg1 della Rai delle 20 è per tradizione quella che nel nostro Paese raccoglie maggiori ascolti. Arriva a un bacino di pubblico molto ampio ed è considerato tra i più credibili del Paese, sicuramente quello più istituzionale nell'immaginario collettivo. Maurizio Gasparri prosegue nella sua nota: "Ho presentato un'interrogazione in commissione di Vigilanza per sapere quali siano le ragioni editoriali alla base di una scelta del genere e i criteri di selezione delle notizie da parte dell'attuale direzione del Tg1, visto che nella stessa edizione è stato dato ampio spazio ad altri servizi sia di cronaca che di colore". L'assenza di questa notizia stride con il dovere di informazione di un telegiornale, soprattutto se questo è il più visto del Paese e va in onda sulla Rai, la televisione pubblica. "Grave se si è trattato di un 'buco', gravissimo se invece è stata una scelta editoriale ben precisa della quale la direzione deve rispondere", si legge nella chiusura della nota di Maurizio Gasparri. finora, né il direttore del telegiornale Rai e nemmeno il direttore dai Rai1 hanno spiegato il motivo della mancata notizia.
Parroco prega contro la legge anti omotransfobia. Sindaca con i cittadini, intervengono i carabinieri. Le Iene News il 15 luglio 2020. È successo a Lizzano, in provincia di Taranto, dove i carabinieri stavano identificando i cittadini che con le bandiere arcobaleno protestavano contro l’iniziativa del parroco. La sindaca li riprende: “Siamo un paese democratico”. Non capita tutti i giorni di vedere un sindaco che riprende animatamente dei carabinieri. È quello che è successo a Lizzano (provincia di Taranto), dove la sindaca Antonietta D’Oria è intervenuta in piazza per rimbrottare i carabinieri che stavano identificando alcuni cittadini. Tutto inizia con la decisione del parroco, come si apprende dalla stessa pagina Facebook della sindaca, di organizzare “un incontro di preghiera contro le insidie che minacciano la famiglia, tra cui, prima fra tutte, cita la legge contro l'omotransfobia”. La notizia arriva alla scrittrice e attivista Francesca Cavallo, che racconta la vicenda sui social. “In risposta al post”, scrive Francesca Cavallo su Facebook, “alcuni ragazzi hanno deciso di radunarsi davanti alla Chiesa con alcune bandiere arcobaleno. Saremo stati una quindicina di persone. Il parroco ha chiamato i carabinieri che hanno iniziato a chiedere i documenti a tutti”. “Ho telefonato alla sindaca Antonietta D’Oria”, continua Francesca, “per informarla della situazione”. Così la sindaca, arrivata sul posto, risponde all’azione dei carabinieri con le parole che potete sentire nel video qui sopra. “Cosa significa che state prendendo i nomi?”, dice visibilmente arrabbiata. “Signor sindaco per pubblica sicurezza noi siamo tenuti a identificare le persone”, risponde un carabiniere. “Allora identificate prima quelli che stanno dentro!”, replica la sindaca. “Perché è una vergogna per Lizzano. Lizzano è un paese democratico!”. Insomma, la sindaca li ha strigliati ben bene, tra gli applausi delle persone che si trovavano in piazza. Dopo l’accaduto, sulla sua pagina Facebook la sindaca pubblica una foto della bandiera arcobaleno, in cui prende le distanze dall’iniziativa del parroco, aggiungendo che “non sta a noi dire quello per cui si deve o non si deve pregare, ma anche in una visione estremamente laica quale è quella che connota la attuale Amministrazione Comunale, la chiesa è madre e nessuna madre pregherebbe mai contro i propri figli”. E continua: “A nostro modestissimo parere e con la più grande umiltà, ci pare che altre siano le minacce che incombono sulla famiglia per le quali, sì, sarebbe necessario chiedere l'intervento della Divina Misericordia. Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine? Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo? Perché non pregare per le tante vittime innocenti di abusi? Ecco, senza voler fare polemica, ma con il cuore gonfio di tristezza, tanti altri sono i motivi per cui raccogliere una comunità in preghiera. Certo non contro chi non ha peccato alcuno se non quello di avere il coraggio di amare. E chi ama non commette mai peccato, perché l'amore, di qualunque colore sia, innalza sempre l'animo umano ed è una minaccia solo per chi questa cosa non la comprende”.
Omofobia, in chiesa fedeli pregano contro i ddl Zan: fuori esplode la protesta. In piazza a Lizzano i manifestanti contro la preghiera in chiesa. Le proteste dei carabinieri e l'intervento del primo cittadino. Il prete: "A nessuno può essere impedito di pregare". Emanuela Carucci, Mercoledì 15/07/2020 su Il Giornale. A Lizzano, un piccolo Comune in provincia di Taranto, il parroco della chiesa San Nicola, don Giuseppe Zito, ha organizzato un "rosario per la famiglia". L'iniziativa, come enuncia il manifesto che ha radunato diversi fedeli, è stato pensato per " difendere la famiglia dalle insidie che la minacciano tra cui il disegno di legge contro l'omotransfobia".
Lo scontro in piazza. La funzione religiosa è stata organizzata, appunto, contro il Ddl Zan-Scalfarotto, la legge per contrastare l'omofobia e la transfobia. In particolare sul foglio della preghiera era specificato che il rosario sarebbe servito per "implorare il fallimento del ddl". Affisse, poi, sul colonnato della chiesa frasi come "Dio ti insegna a odiare le lesbiche", "Dio ti insegna a non amare il diverso", "Dio ti insegna a discriminare", "Dio ti insegna a limitare le libertà", "Dio ti insegna a odiare i gay" e "Dio ti insegna a odiare i transgender". Su ogni foglio (stando alle parole del prete sono state messe dai manifestanti) una frase e al centro un grande punto interrogativo. In occasione del rito, nella piazza di Lizzano, era stata organizzata una manifestazione dei cittadini in difesa dei diritti degli omosessuali. Durante il flash mob è arrivata una pattuglia dei carabinieri per prendere i nominativi dei partecipanti. Il sindaco Antonietta D'Oria è, però, intervenuta in difesa dei manifestanti. Il primo cittadino ha ricordato l'articolo 21 della Costituzione in base al quale "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". In piazza era presente anche la scrittrice pugliese Francesca Cavallo che sui social ha scritto di essere "orgogliosa di Lizzano" e che questa è una "bella storia di cittadinanza attiva e di sana partecipazione democratica".
Le proteste politiche. Il Comune di Lizzano ha preso le distanze dall'iniziativa del parroco della chiesa di San Nicola. "Noi prendiamo, fermamente, le distanze", hanno scritto in un post pubblicato su Facebook. "Certo non sta a noi dire quello per cui si deve o non si deve pregare - si legge - ma anche in una visione estremamente laica quale è quella che connota la attuale amministrazione comunale, la chiesa è madre e nessuna madre pregherebbe mai contro i propri figli. Qualunque sia il loro, legittimo, orientamento sessuale." Per l'amministrazione comunale di Lizzano, sono altre le minacce "che incombono sulla famiglia e per le quali, sì, sarebbe necessario chiedere l'intervento della Divina Misericordia". "Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine? Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo? Perché non pregare per le tante vittime innocenti di abusi?", chiedono gli amministratori comunali. "Tanti altri sono i motivi per cui raccogliere una comunità in preghiera. Certo - conclude il post - non contro chi non ha peccato alcuno se non quello di avere il coraggio di amare. E chi ama non commette mai peccato, perché l'amore, di qualunque colore sia, innalza sempre l'animo umano ed è una minaccia solo per chi questa cosa non la comprende.". Il video ha fatto il giro del web ed è stato condiviso anche sulla pagina Facebook di Anna Rita Leonardi, dirigente provinciale di "Italia Viva" di Salerno. "Il sindaco è intervenuto per capire con quale criterio venissero identificate le persone in piazza. Non stavano dando fastidio a nessuno. Ha fatto bene il primo cittadino perché non c'era nessun motivo per cui quei cittadini non potessero partecipare ad un flash mob, era una manifestazione simile a quella della preghiera: dentro erano contro la legge e fuori a favore. Perché chiedere i documenti agli uni e non agli altri?" ha dichiarato a ilGiornale.it Anna Rita Leonardi.
Il parroco si difende. Il prete della parrocchia di San Nicola sul caso del "rosario" si è difeso. In una nota stampa don Giuseppe Costantino Zito ha, infatti, dichiarato di non aver fatto parte alla funzione liturgica in quanto impegnato "in un'istruttoria matrimoniale", ma ha solo concesso a un gruppo di fedeli, che ne avevano fatto richiesta, "l'aula liturgica della chiesa per un semplice momento di preghiera a favore della famiglia naturale", specificando che il rosario non era stato organizzato dalla parrocchia. In merito al Ddl Zan don Giuseppe Zito ha poi fatto riferimento a quanto già dichiarato dalla conferenza episcopale a giugno scorso e cioè che la chiesa guarda "con preoccupazione alle proposte di legge contro i reati di omotransfobia" in quanto "non si riscontrano lacune che giustifichino l'urgenza di nuove disposizioni. Anzi, un'eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide".
Ci mancava la sindaca contro la messa per la famiglia. Marco Gervasoni il 15 luglio 2020 su Nicolaporro.it. Immaginate se un sindaco, non gradendo la preghiera di un parroco, appoggiasse un gruppo di manifestanti intenti a interromperla e, una volta arrivati i carabinieri, li invitasse a schedare non i disturbatori ma i fedeli in chiesa a pregare. Cose da Urss e, oggi, da Corea del Nord e Cina (a Cuba e in Venezuela non si permetterebbero una cosa del genere, il che è tutto dire). E invece siamo nella cittadina di Lizzano in provincia di Taranto, in quella terra di Puglia tanto aspra quanto legata a una fede ricca di santi e martiri. Fede che evidentemente infastidisce i militanti Lgbt, venuti a contestare una preghiera del parroco, don Giuseppe Zito, reo di discutere niente meno che la legge Scalfarotto-Zan. La quale, tra l’altro, se fosse già approvata, porterebbe a sanzionare il povero Zito. Ma, cari Lgbt, la legge bavaglio ancora non è passata, e speriamo, visto anche il vostro codice di comportamento, non venga approvata mai. I fedeli avevano diritto di pregare e gli Lgbt di manifestare. La parte peggiore della pochade l’ha recitata infatti il sindaco, Antonietta D’Oria, guarda caso pediatra esperta di famiglie. La quale, non paga della piazzata, sulla sua pagina Facebook, dopo una citazione di rito di Alex Zanotelli, rimprovera il parroco di non pregare per “le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo” e per le “vittime innocenti di abusi”, con un riferimento a quelli compiuti da religiosi, ovviamente: il tutto accompagnato da un bel bandierone arcobaleno. La contesa parroco-sindaco comunista (cosi mi viene da classificare la D’Oria) era un classico di Guareschi. Ma attenzione, per quanto Peppone fosse uno stalinista, l’idea di obbligare don Camillo alla propaganda di partito in chiesa o di indicare al sacerdote su cosa pregare, non gli era venuta mai. Si, è vero, Peppone una volta organizza una gazzarra fuori dalla chiesa, come a Lizzano, ma ci rimedia una figura barbina e pure gli scappellotti della moglie. La sindaca di Lizzano però va ben oltre il suo antico erede staliniano: vorrebbe che in Chiesa si pregasse solo per le leggi governative, per San Giuseppi e Santa Luciana (Lamorgese). E se qualcuno andasse in chiesa a sentire i sermoni non graditi al podestà… ehm al sindaco, che sia schedato dai carabinieri! Potrebbe sembrare un caso da baraccone, prodotto dalla calura estiva. Ma in realtà dovrebbe mettere in guardia i credenti riguardo la cultura politica della sinistra, intrisa come sempre di fanatismo ideologico. Non a caso, qualche settimana fa, quando la Cei aveva criticato la legge Scalfarotto-Zan, un esponente del Pd milanese si era spinto a chiedere non si sa bene a chi di “prendere provvedimenti” contro i vescovi; che al 99% lodano i provvedimenti del governo di sinistra e tuonano contro i suoi avversari. L’unica volta che sgarrano, però, non viene loro perdonato. Anche perché dentro il Pd e la sinistra i gruppi di pressione e le organizzazioni Lgbt contano, eccome, e spingono, e fanno pendere minacce su capo dei dubbiosi (ricordiamo che uno dei partiti di cui è composto il Pd sarebbe la ex Dc). Non sei a favore della Zan-Scalfarotto? Sei sospetto di omofobia. Un sospetto che equivale alla condanna, e al rogo. Per cui, cari amici cattolici, magari non vi staranno simpatici Salvini o Meloni. Ma nessuno dei sovranisti pensa di schedarvi quando andate in chiesa né tanto meno di imporre al vostro parroco cosa pregare. Lo vedete un sindaco leghista organizzare una simile pagliacciata come a Lizzano, quando un sacerdote raccoglie le preghiere ai migranti? Non mi risulta sia mai accaduto ma nel caso lo facesse sarebbe da ricovero. Ricordate, fedeli, nell’urna Dio vi vede, Scalfarotto no.
A Lizzano prove tecniche di regime in vista del ddl Scalfarotto. La sindaca vuole mandare i Carabinieri a identificare persone che dicono il rosario. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 16 luglio 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. In gergo calcistico si dice: “sono saltate le marcature”, ma l’espressione ben si presta al caso di Lizzano (Taranto) dove, in un sol giorno, sono saltati i principi della legalità, della democrazia, del Cattolicesimo, del rapporto Stato-Chiesa e di quello Istituzioni-Forze dell’Ordine. Non male. L’ultimo numero di attrazione del “Circo Italia” è un sindaco che interviene per bloccare dei Carabinieri mentre proteggono della gente che prega dentro una chiesa e anzi, indirizza i militari a schedare i partecipanti al rosario. In sostanza: una esponente delle Istituzioni che oppone forme di resistenza a un pubblico ufficiale (art. 33 C.P.) contestando i motivi per cui dei privati cittadini all’interno di una chiesa si sono liberamente riuniti in preghiera. Cose così. La questione è nata perché, l’altro ieri, il parroco di Lizzano, don Giuseppe Zito, ha ospitato un rosario nella propria chiesa per pregare affinché non passi alla Camera il disegno di legge Zan-Scalfarotto-Boldrini contro l’omotransfobia, che prevede pene severissime per chiunque osi pronunciare opinioni contrarie alla propaganda omosessualista, o se addirittura esprima concetti eversivi tipo: “I bambini hanno bisogno di un papà e di una mamma”. Gli è che, da un paio di millenni, per il Cattolicesimo, il sesso gay è un grave peccato e per questo don Giuseppe ha accolto un gruppo di fedeli laici che volevano prender parte a una veglia di preghiera a favore della famiglia naturale. Per toglierci un dubbio siamo andati a verificare sul Catechismo e, ai seguenti articoli, abbiamo trovato:
2333 Spetta a ciascuno, uomo o donna, riconoscere ed accettare la propria identità sessuale.
2357 Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che « gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati ». Sono contrari alla legge naturale. Precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati.
Altro che “Chi sono io per giudicare” di bergogliana memoria; col ddl Scalfarotto, che consente ampie interpretazioni, si potrà andare in galera solo per aver citato pubblicamente questi articoli della dottrina cattolica. Lecito quindi che dei credenti abbiano deciso di riunirsi per pregare Maria affinché eviti l’amaro calice di questa legge considerata lesiva della loro libertà di culto. Non è un caso che, dello stesso avviso, siano anche alcuni musulmani, scesi in piazza con cattolici, atei e omosessuali “non allineati”. L’iniziativa del rosario era circolata sui social e così, fuori della chiesa, si è subito raccolta una folla di attivisti gay con striscioni e grida varie. Rischioso e non poco: come scriveva Avvenire nel 2014, prima del proprio, inspiegabile outing a favore del ddl Scalfarotto: “A Bologna come a Torino, ad Aosta e a Napoli – scriveva l’articolista di Avvenire - difendere pacificamente la famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e donna, e la stessa libertà di espressione, in Italia può costituire un rischio per la propria incolumità. Al punto da scatenare, contro i gruppi delle “Sentinelle in piedi” episodi di intolleranza e, in molti casi, di vera e propria aggressione fisica”. Quelli che hanno partecipato a questo tipo di iniziative riferiscono spesso di pomeriggi ad alto tasso adrenalinico: restare in piedi, in silenzio, tentando di leggere un libro mentre una folla inferocita, intorno, urla e insulta, non deve essere molto piacevole. Per questo, i Carabinieri di Lizzano sono intervenuti identificando i manifestanti fuori della chiesa: una misura cautelativa che non comporta, di per sé, alcuna sanzione. L’operazione è stata però interrotta dalla sindaca, Antonietta D’Oria, eletta con una lista civica, che si è schierata a difesa degli attivisti lgbt. Alzando la voce, ha cercato di convincere i Carabinieri a non identificare i manifestanti o, quantomeno, a cominciare dalle persone in chiesa. I militari hanno fatto rispettosamente notare alla D’Oria che la misura era nell’ottica di evitare disordini o risse e hanno proceduto secondo gli ordini ricevuti. Per la sindaca, pure garante della legalità e delle istituzioni, potrebbe forse configurarsi il reato di Resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 C.P.) dato che esso contempla anche atti volti semplicemente a ostacolare l’esplicazione di una funzione pubblica pur senza aggressioni fisiche. La sua carica pubblica, inoltre, dovrebbe costituire un'aggravante. “Per quanto ci riguarda – spiega il senatore Simone Pillon, capofila della resistenza al ddl Scalfarotto – ci basta che la sindaca, tentando persino di piegare l’attività delle FdO, abbia fornito un saggio di quello che sarebbe la nostra società se questo decreto liberticida dovesse passare: diverrà ordinario chiudere la bocca a chiunque non la pensi come le lobby lgbt. Peraltro, la sindaca dovrebbe capire che delle persone intente nel rosario, in chiesa, non stanno turbando l’ordine pubblico e che pregare affinché una legge non passi, non corrisponde ad essere “contro” le persone o “per l’odio””. Facile immaginare che i partecipanti all’iniziativa #restiamoliberi avranno un’ulteriore freccia al loro arco grazie al recente autgol del fronte lgbt. Per #restiamoliberi sono scese fino ad oggi in piazza oltre 10.000 persone in 83 città italiane, che arriveranno a 100 nell’arco di 10 giorni. La richiesta all’opposizione è di un “no” compatto al momento del voto "poiché questa è l’arma concreta che un politico ha in mano per difendere la libertà"; alla maggioranza chiedono di fermarsi, in nome della democrazia e della libertà di espressione. Al Presidente della Repubblica Mattarella chiedono che non permetta l’approvazione di una legge incostituzionale. Richieste con le quali si può essere più, o meno d’accordo, ma espresse in buon italiano e senza accenti violenti. Eppure, nessuno dei media ha dato spazio a queste mobilitazioni, tranne i quotidiani locali: il segnale è veramente inquietante. Inoltre, questo controllo, o auto-controllo dei media offre il fianco a tutti coloro che parlano di “prove tecniche di dittatura”. E la sindaca di Lizzano ci ha messo del suo.
Se il vescovo di Taranto si schiera contro chi prega per la famiglia. Dopo il sindaco di Lizzano, anche il monsignore di Taranto ha dato ragione ai manifestati contro la preghiera in favore delle famiglie tradizionali e contro il ddl Zan. Francesca Galici, Domenica 19/07/2020 su Il Giornale. La libertà di pensiero e di religione, oltre a essere garantita dall'articolo 21 della Costituzione italiana, è sancita anche dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Si direbbe in una botte di ferro, inviolabile e in alcun modo contestabile. Ma ciò che raccontano le attuali cronache dal nostro Paese sembrano dire il contrario. L'ultimo caso riguarda una movimentata manifestazione pro LGBT che si è tenuta al di fuori di una chiesa di Lizzano, in provincia di Taranto, dove un gruppo di fedeli si è riunito pin preghiera a favore della famiglia tradizionale e contro il ddl Zan. A meno che non sia vietato o sconveniente creare un gruppo di preghiera come quello che si è ritrovato all'interno della Chiesa di San Nicola di Lizzano, i fedeli sarebbero dovuti essere liberi di farlo. Non la pensano così tutti quelli che, venuti a conoscenza dell'iniziativa, si sono precipitati all'esterno dell'edificio religioso per protestare contro la libertà di pensiero e di religione. Un gruppetto di esponenti arcobaleno non hanno gradito la preghiera, il cui diritto non può essere limitato nel suo esercizio perché sovrasta qualunque legge. Gli esponenti protestano per i contenuti delle preghiere, non per l'atto, in sé ma il significato è lo stesso, perché interferire significa attentare alla Costituzione italiana. Si crea un po' di confusione e quindi le forze dell'ordine sono costrette a intervenire e, come da prassi, cercano di effettuare il riconoscimento dei presenti. Il caos al di fuori della Chiesa di San Nicola di Lizzano cresce e viene informato il sindaco, che si reca sul posto. Antonietta D'Oria si schiera dalla parte delle bandiere arcobaleno, perché quella "preghiera è una vergogna per un paese democratico come Lizzano". Il primo cittadino si appella alla democrazia, quindi, che non vale per l'espressione di un diritto sancito costituzionalmente. "Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine? Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo?", si chiede il sindaco in un post su Facebook, suggerendo quindi ai fedeli il contenuto delle loro preghiere. Nella nuova idea di democrazia, quindi, il diritto alla preghiera è difeso solo se orientato verso ciò che viene suggerito dall'istituzione. A dar man forte è arrivato anche l'arcivescovo di Taranto Filippo Santoro, che invece di difendere i suoi fedeli ha optato per il più conveniente politicamente corretto. "Un momento di preghiera, che per natura è, e dovrebbe essere, un momento aggregativo, che riunisce la Comunità Cristiana, è diventato purtroppo un motivo di divisione e di contrapposizione", ha dichiarato il religioso. Il suo discorso sembra suggerire di aderire alla corrente predominante nel nostro Paese in questo momento per evitare le "divisioni e contrapposizioni", calpestando il diritto al pensiero libero, in una sorta di appello al quieto vivere che, però, di democratico conserva ben poco.
Da ilsicilia.it il 23 luglio 2020. Finisce sui social l’omelia all’aperto di don Calogero D’Ugo, parroco di Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo, contro la legge sull’omofobia. Dal sagrato allestito davanti all’ingresso della chiesa, il sacerdote, come riporta l’edizione on line di Repubblica, ha lanciato un anatema contro il provvedimento. “In Senato c’è una legge bavaglio che vogliono approvare – ha detto il parroco nella sua omelia – E’ una legge che parla del reato di omofobia. Cioè che se tu esprimi un parere contrario ai gruppi omosessualisti puoi andare in galere. Se tu dici non sono d’accordo che due uomini adottano un bambino puoi essere denunciato e processato. Se a scuola a tuo figlio vengono a fare educazione gender, una madre che si ribella può andare sotto processo“. Il parroco ha poi proseguito la sua dura rampogna sostenendo che “adesso in Italia abbiamo le "categorie protette". Sui preti puoi dire tutto, Dio lo puoi bestemmiare, sui giornalisti puoi dire tutto, sui politici no, sugli omosessuali se parli vai in galera. Qua non si tratta di non rispettare le persone con queste tendenze figuratevi, qua si tratta di voler mettere il bavaglio alla libertà di pensiero e di opinione, da parte di quelli che si dicono liberali e democratici. ed è vergognoso se passa una legge di questo tipo“. Il sacerdote ha infine concluso la sua omelia affermando: “Se passa questa legge io con questa predica rischio la denuncia. Non ho problemi”.
"Zan-Scalfarotto", il don tuona: "Se parli di omosessuali vai in galera". Don Calogero D'Ugo, parroco siciliano, si scaglia contro la "Zan-Scalfarotto". Per il consacrato ormai in Italia esistono delle "categorie protette". Giuseppe Aloisi, Giovedì 23/07/2020 su Il Giornale. "Se tu esprimi un parere contrario ai gruppi omosessualisti puoi andare in galera. Se tu dici non sono d’accordo che due uomini adottano un bambino puoi essere denunciato e processato". A parlare è don Calogero D'Ugo, un parroco del palermitano, che ha deciso di contrastare in maniera pubblica, ossia mediante una vera e propria omelia, l'avanzata in commissione parlamentare della cosiddetta "Zan-Scalfarotto", la legge portata avanti dalla maggioranza giallorossa, che intende introdurre il reato di omofobia. Nel corso di queste settimane, la mobilitazione del mondo cattolico è stata incisiva. Dalla presa di posizione della Conferenza episcopale italiana alla campagna "restiamo liberi" dei movimenti pro life: la "base" è scesa nell'agone per manifestare ferma contrarietà. I vertici, questa volta, hanno assicurato il loro sostegno. Per quanto persista più di una lamentela su una mancata discesa in campo istituzionale della Chiesa cattolica. La maggioranza giallorossa, a parte qualche ragionamento su qualche possibile modifica, non sembra essere intenzionata a tornare indietro sul provvedimento. Don Calogero non è l'unico parroco ad aver esposto le sue preoccupazioni. Don Antonello Iapicca, per esempio, ha scritto su Facebook che: "Il Coronavirus ha solo evidenziato l'epidemia del peccato e della paura della morte che infetta il cuore di ogni uomo. Il virus prima o poi passerà, e sarà tutto come prima, solo qualche angoscia in più, alle quali corrisponderanno più alienazioni. Mentre con il Ddl Zan convertito in legge davvero nulla sarebbe più come prima. Più grave addirittura dell'aborto. E non solo perché si tratterebbe di una legge liberticida". Una legge "liberticida", insomma, che avrebbe persino effetti peggiori del "cigno nero". Il clero, in misura maggiore rispetto ad altre circostanze, sembra preoccupato per l'avvenire. E don Calogero non ne ha fatto mistero quando ha parlato di "legge bavaglio": "Se a scuola a tuo figlio vengono a fare educazione gender, una madre che si ribella può andare sotto processo", ha aggiunto il parroco siciliano. La parte più significativa del discorso è stata forse quella in cui il don ha parlato di "categorie protette": "Sui preti puoi dire tutto, Dio lo puoi bestemmiare, sui giornalisti puoi dire tutto, sui politici no, sugli omosessuali se parli vai in galera. Qua - ha aggiunto il parroco, come ripercorso su Dagospia - non si tratta di non rispettare le persone con queste tendenze figuratevi, qua si tratta di voler mettere il bavaglio alla libertà di pensiero e di opinione, da parte di quelli che si dicono liberali e democratici. ed è vergognoso se passa una legge di questo tipo". Si ventila l'ipotesi che anche i preti possano incorrere in sanzioni nel momento in cui decidessero di citare alcuni passaggi biblici. Anche gli insegnanti, però, potrebbero essere coinvolti: si pensi, a titolo esemplificativo, ad alcuni versi della Divina Commedia. I contrari segnalano pure come il governo, nonostante le urgenze economico-sociali, abbia deciso di concentrarsi sull'approvazione di questo provvedimento. Qualcosa di simile sta succedendo in Francia, dove i vescovi si stanno ribellando alla riforma bioetica di Emmanuel Macron. Un altro progetto che rischia di passare in un momento davvero particolare per l'Occidente.
I buonisti vogliono cancellare gli attentati islamici e jihadisti. La polizia inglese sta valutando di bandire l'utilizzo dei termini islamista e jihadista per descrivere le violenze perpetrate da terroristi che compiono le loro atrocità nel nome dell'islam. Davide Zamberlan, Martedì 21/07/2020 su Il Giornale. La polizia inglese sta valutando di bandire l'utilizzo dei termini islamista e jihadista per descrivere le violenze perpetrate da terroristi che compiono le loro atrocità nel nome dell'islam. A rivelarlo, in un articolo di ieri, è stato il Times che ha riferito di un incontro online presieduto da Neil Basu, responsabile nazionale della polizia antiterrorismo, cui hanno partecipato anche parenti delle vittime di attacchi terroristici, sopravvissuti, accademici. Un numeroso gruppo di lavoro riunitosi su istanza dell'Associazione Nazionale della Polizia Musulmana, che raccoglie circa 3000 poliziotti inglesi di fede islamica e il cui rappresentante Alexander Gent ha invitato ad abbandonare i due termini perché «non aiutano le relazioni comunitarie e la fiducia del pubblico». In alternativa si potrebbe usare la parola araba Irhabi, che è usata nel Medioriente per indicare il terrorista ed è scevra da ogni connotazione religiosa, o espressioni quali «terrorismo di matrice religiosa» o «aderenti all'ideologia di Bin Laden». Nell'incontro si è discusso anche di abbandonare locuzioni quali terrorismo di «estrema destra» e «relativo all'Irlanda del Nord», sempre nel tentativo di non discriminare intere comunità e favorire l'inclusione. L'esperto di terrorismo Liam Duffy scrive sullo Spectator di aver partecipato all'incontro dicendosi rammaricato che «l'uso del termine islamismo sia stato inquadrato nell'attuale dibattito sulla razza». Confondendo i piani e rendendo più difficile una discussione libera da quei pregiudizi e luoghi comuni che la polizia si propone di combattere. Il punto che la proposta di revisione linguistica sembra disconoscere è che sono proprio gli stessi terroristi a definirsi islamisti, cioè di puntare a uno stato islamico imperniato su un'ideologia politica e sociale di matrice islamica. Si può discutere se uno stato islamico possa essere compatibile con la democrazia e lo stato di diritto occidentale, si può dibattere se l'Isis e prima ancora Al-Qaeda perseguissero uno stato islamico perverso, basato su una lettura fallace dei precetti coranici, ma dal punto di vista dei terroristi quello che stavano cercando di ottenere, per cui combattevano e ammazzavano e si immolavano, era un legittimo stato islamico. «Siamo contenti quando discutete se chiamarci Daesh, Isil o Isis. Finché parlate di questo e non di teologia, politica o operazioni militari, sappiamo che non ci state prendendo sul serio». Le parole ricordate da Duffy sono quelle di un favoreggiatore dello Stato Islamico, raccolte dal giornalista Graeme Wood, nel libro The Way of the Strangers: Encounters with the Islamic State. Negare attraverso un atto autoregolamentativo come quello discusso (ma non ancora approvato) dalla polizia inglese l'esistenza della piaga terroristica di matrice islamista non significa risolvere il problema, anche a volersi proclamare convinti nominalisti. E c'è di più: secondo il centro studi Quilliam, citato dal Times, raccontare una verità parziale, edulcorata, rischia anche di sfilacciare il rapporto di fiducia tra polizia e cittadini.
Coronavirus, migranti contagiati in Calabria. Il Pd: "Niente bollettino, alimenta il razzismo". Libero Quotidiano il 16 luglio 2020. Al cittadino non far sapere quanti clandestini e aspiranti profughi ci portano il Covid 19. Lo scandalo denunciato dai deputati del Pd consiste nel fatto che «la Regione Calabria a guida Santelli decide di emanare un bollettino sull'andamento del Covid evidenziando il contagio dei migranti», mentre «la situazione imporrebbe alle istituzioni di non alimentare razzismo» e «le preoccupazioni delle persone non si usano politicamente!» Così il diritto di informare e di essere informati e perfino la salute pubblica passano in secondo piano rispetto all'esigenza di accogliere chiunque arrivi sulle coste italiane. A caro prezzo, fra l'altro, viste le imponenti misure di sicurezza e il dispiegamento di personale e di risorse necessario a far fronte ai continui sbarchi di persone malate. E con un alto costo anche per l'economia turistica della Calabria.
Facebook rimuove la pagina di Altaforte, casa editrice vicina a CasaPound. Lo scorso anno al Salone del Libro di Torino, il suo stand era stato al centro di una polemica che aveva portato alla sua esclusione. Adesso la decisione del social network: “Contenuti che incitano all’odio”. Lara Crinò l'11 luglio 2020 su la Repubblica. Nelle ultime ore Facebook ha prima nascosto, poi rimosso la pagina della casa editrice Altaforte, con la motivazione che i post pubblicati non rispettavano gli standard della community: “Contenuti che incitano all’odio”. “Anche se consentiamo alle persone di esprimersi liberamente su Facebook, adottiamo provvedimenti nel caso di segnalazioni di abuso verbale verso le persone” si leggeva nell’avviso comunicato agli amministratori. Una delle ultime pubblicazioni della sigla editoriale è il libro intervista a uno dei leader di CasaPound, Simone di Stefano, dal titolo Una Nazione. Simone Di Stefano accusa l’Unione Europea. Qualche ora fa è arrivata su Twitter la risposta di CasaPound, con il tweet: “Solidarietà ad Altaforte Edizioni, che ha anche recentemente pubblicato il libro di Simone Di Stefano, per la censura subita da Facebook” e il lancio dell’ hashtag #iosonoAltaforte. Nel maggio del 2019 Altaforte era stata protagonista delle cronache per la sua partecipazione al Salone di Torino: la più importante fiera libraria italiana aveva rescisso il contratto con la casa editrice, che inizialmente doveva avere uno stand all’interno di uno dei padiglioni, dopo la richiesta del Comune di Torino e della regione Piemonte in seguito alle polemiche per la sua partecipazione. Era stata una sopravvissuta alla Shoah, Halina Birenbaum, a sollevare la questione, dicendo che non avrebbe partecipato ai suoi incontri previsti con gli studenti delle scuole se fosse stato presente in fiera l’editore vicino ai movimenti neofascisti. L’editore di Altaforte, che in quel periodo aveva appena fatto uscire nel suo catalogo Io sono Matteo Salvini- intervista allo specchio aveva definito la decisione del Salone “un attacco a Salvini e a me". Parlava di censura allora, lo ripete oggi.
Silvio Berlusconi condannato ingiustamente? Per la Rai "è un caso marginale". Libero Quotidiano il 05 luglio 2020. Nulla più di un caso trascurabile. Ecco come qualcuno dalle parte di viale Mazzini sta trattando l'audio choc del giudice Amedeo Franco sulla sentenza del 2013 ai danni di Silvio Berlusconi per la vicenda dei diritti tv Mediset. Certo il nostro servizio pubblico ha sicuramente dato ampio spazio, e in diverse trasmissioni, allo scoop degli ultimi giorni che ha svelato il complotto delle toghe nei confronti del leader di Forza Italia, ma per il programma "Radio anch'io" di Rai Radio1 si tratta precisamente di «un aspetto molto trascurabile, tra decine di inchieste, condanne, prescrizioni». Questo è quello che emerge da un "carteggio" via whatsapp tra un ascoltatore e lettore di Libero e chi è addetto all'interno della Rai a rispondere ai messaggi social che si possono inviare direttamente alla trasmissione. «Aspetto gravissimo degno dei soviet con la complicità dall'alto. Altro che marginale. Berlusconi mai condannato e la prescrizione è orientata dalla magistratura per non essere sconfitta. Girerò la risposta a Porro, Feltri, Sallusti e Sansonetti» risponde per le rime il lettore già incattivito. Passa solo qualche minuto e secca arriva la replica di colui che parla per conto della Rai (noi non sappiamo esattamente chi risponde se si tratti dello stesso conduttore Giorgio Zanchini o qualche suo collaboratore, apprendiamo solo che costui ha un passato da avvocato): «Ma lei conosce le sentenze e le vicende giudiziarie o parla per sentito dire? Se la vada a leggere, Berlusconi è stato condannato con sentenza passata in giudicato e altre volte si è salvato per sopravvenuta prescrizione o per norme approvate da parlamenti a maggioranza di centrodestra. Sono fatti, non opinioni, si informi, io facevo l'avvocato. Non c'entra nulla la politica qui, sono fatti». Piccata e precisa ecco arrivare a distanza di qualche minuto l'ennesima replica dell'ascoltatore: «Conosco perfettamente tutto. Forse è lei che non conosce bene la storia del nostro Paese. Quali sentenze lo condannano, forse quelle guidate dall'alto? Sulla prescrizione le ho già risposto. Siccome voi non vincete mai con le elezioni cercate l'aiutino da parte di un sistema che ha tratteggiato ierri sera (lunedì 29 giugno, ndr) l'onorevole di Forza Italia da Porro (all'interno della trasmissione di Rete4 "Quarta Repubblica", ndr) e Sgarbi in Parlamento. Sbaglio o siamo una Repubblica parlamentare e le leggi le fa il Parlamento? O il Parlamento deve legiferare come volete voi?». Messaggi a parte ciò che stranisce di questo dialogo è sia avvenuto la mattina del 30 giugno, ossia il giorno dopo la trasmissione tv di Nicola Porro e che proprio quel giorno l'apertura del quotidiano Il Giornale era dedicata a questo fatto. Come mai non si è fatto il minimo accenno di tutta questa vicenda all'interno di "Radio anch' io"? Al di là di come la si pensi, era forse così poco rilevante da non inserirla affatto tra le notizie del giorno?
Da repubblica.it l'1 luglio 2020. La capacità degli algoritmi di vagliare grandi quantità di immagini aumenta ma continuano a compiere lo stesso errore non capendo il contesto. E così scambiano un disegno di una copertina di un disco per pornografia e una foto storiche per immagini di violenza. Stavolta però è toccato alle immagini del mausoleo di El Alamein che avrebbero violato gli standard di Facebook. In queste ore stanno arrivando decine di segnalazioni da parte di utenti del social network che si sono visti gli account bloccati per aver pubblicato la foto del cippo della battaglia, con su scritto “Mancò la fortuna, non il coraggio”. Tra questi lo scrittore giornalista Roberto Alfatti Appetiti, commissario di Fratelli d'Italia Avezzano. “Ho semplicemente postato la foto della targa di El Alamein in occasione dell'anniversario dello scoppio della prima battaglia (primo luglio 1942) - racconta Alfatti - e pochi minuti dopo mi è arrivata la notifica da parte di Facebook in cui mi è stata comunicata la sospensione dell'account per 24 ore. La motivazione: "Il tuo post viola i nostri standard della community in materia di persone e organizzazioni pericolose".
La campagna "Stop Hate For Profit". “Boicottaggio Facebook? E’ un tentativo di controllo attraverso il denaro”, parla l’esperta social Veronica Gentili. Roberta Caiano su Il Riformista il 2 Luglio 2020. “Il messaggio che le grandi aziende vogliono far arrivare con il boicottaggio è quello di controllare le decisioni attraverso il denaro. La posizione di Facebook è quella che propende per non accettare questo tipo di ricatti, però è ovvio che ha delle ripercussioni. Da un lato la stessa reputazione di Facebook può essere minata, dall’altro si attua un’esercitazione di controllo. Per quanto l’intento sia positivo, poichè il fine è quello di evitare che si dia spazio all’istigazione all’odio nelle piattaforme dove le grandi aziende fanno pubblicità, è comunque un tentativo di esercitare il controllo attraverso i soldi”. Veronica Gentili è una delle più famose imprenditrici digitali in Italia. Facebook ads expert e co-fondatrice della società di consulenza Glisco marketing, ha dato al Riformista la sua opinione sulla campagna di boicottaggio che sta coinvolgendo le più grandi aziende mondiali come Coca-cola, Unilever, Patagonia e Starbucks, per citarne solo alcune. Stop Hate For Profit ha infatti come fine quello di boicottare la piattaforma Facebook, accusata di fare troppo poco per limitare i post di incitamento all’odio pubblicati quotidianamente anche da utenti illustri come il presidente Usa Donald Trump. Il caso George Floyd è ormai dilagato in ogni parte del mondo ponendo l’accento sui continui messaggi e casi di discriminazione, odio e razzismo che, come la storia insegna, sembra non trovare una soluzione. Sono oltre 100 le aziende finora che hanno aderito alla campagna sperando di trovare una risoluzione a questo problema.
IL BOICOTTAGGIO – Questa campagna di boicottaggio in realtà ha permesso di far venire a galla problemi da sempre irrisolti, un po’ com’è sempre accaduto con altri tipi di iniziative volte a sollecitare i social affinché le pubblicità dei cosiddetti over the top non fosse affiancata da messaggi e contenuti ritenuti offensivi o discriminanti verso qualsiasi tipo di minoranza. Come ci spiega Veronica Gentili “ogni anno c’è un boicottaggio nei confronti di Facebook. Nel 2017 grossi brand hanno detto che non avrebbero fatto più pubblicità su Youtube e l’avrebbero bloccata perché alcune delle loro pubblicità erano state inserite accanto a contenuti razzisti e omofobici. Siamo nel 2020 e questa cosa sembra essere dimenticata, così come sembra che non ci sia stato un grosso impatto sulla piattaforma Youtube”. Secondo l’esperta le cose vanno quindi analizzate e ridimensionate. “E’ vero che Facebook ha perso in borsa 8 miliardi di dollari e il portfolio di Zuckerberg è stato rivisto (ha perso circa 7 miliardi del suo patrimonio personale), però va notato che si tratta di aziende molto grosse e nella revenue globale del social sono solo una parte del totale”. Ed è proprio su questo punto che si focalizza tutta l’attenzione mediatica che sta coinvolgendo questa campagna. Quanto ancora perderà Facebook con questo boicattaggio? Ci saranno delle conseguenze? “C’è da dire che come frontman di Facebook Zuckerberg si sta muovendo tantissimo per cercare di venire incontro agli inserzionisti. Io faccio sponsorizzazioni su facebook da oltre 10 anni e le misure si sono inasprite ancora di più. A volte in maniera anche eccessive, soprattutto per la pubblicità. Qualsiasi cosa possa disturbare la policy audience Facebook effettua il blocco, anche senza motivo”, ci spiega Veronica, “Facebook lo scorso anno ha fatturato circa 70 miliardi di dollari. La Cnn riporta che l’azienda che spende di più per le campagne pubblicitarie tra i 100 brand aderenti alla campagna, con una cifra intorno ai 4,2 miliardi di dollari, equivale a circa il 6 % della revenue della piattaforma. Per quanto si possano spendere cifre enormi, solo Starbucks ad esempio l’anno scorso ha speso 95 milioni di dollari, il core di facebook sono le piccole e medie imprese. Quindi il danno economico non è così grande. Sono solo 100 su 8 milioni di inserzionisti. Se si vanno ad analizzare le generalità delle aziende che hanno aderito sono imprese molto grandi che fanno un branding massiccio su facebook, ma chi ha davvero bisogno di Facebook sono le medie e piccole imprese, loro rappresentano la vera spina dorsale del social di Zuckerberg”. Infatti per una grande azienda Facebook è solo una delle voci che permette all’impresa di arrivare a chiunque, mentre per le piccole imprese è una quasi essenziale: “Per l’azienda più piccola sarebbe un grosso problema se dovessero aderire ad una campagna del genere. La maggior parte dei big che hanno aderito faranno uno stop valido solo per il mese di luglio. C’è anche una parte degli over the top che bloccherà le pubblicità fino alla fine dell’anno, ma è una piccola fetta che non va certo ad impattare in maniera decisiva sui 70 miliardi di revenue fatti lo scorso anno”. LA CAMPAGNA – Per quanto sia nata con tutte le buoni intenzioni ai fini di contrastare il fenomeno del razzismo e dell’odio, la campagna ‘Stop hate for profit’ sembra in realtà che nasconda altri interessi. “Per quanto Facebook dia particolare attenzione a questi problemi, il tema dell’hate speech è molto sentito anche su piattaforme come Twitch che stanno restringendo le proprie policy e i propri regolamenti. C’è da vedere effettivamente in quanti aderiranno all’iniziativa stop for hate profit e quanto impatto avrà anche perché effettivamente non credo che facebook vada a cambiare le proprie policy su un ricatto economico”. La stessa Gentili ci spiega che Mark Zuckerberg ha attivato negli anni una serie di iniziative atte a contrastare l’esclusività sociale: “Per quanto sia un colosso e dunque orientato al profitto, c’è sempre stata una grande attenzione da parte di Facebook all’inclusività sociale cominciando a restringere ancora di più la policy per le discriminazioni. Si stanno muovendo in maniera concreta, di certo il caso George Floyd non è passato in osservato neanche per un social come Facebook”. La stessa sensibilità è avvenuta anche nel caos dell’emergenza coronavirus, dove il social ha adottato tutta una serie di procedure e di blocchi per far fronte al marasma di informazioni e contenuti. “All’inizio hanno bloccato tutte le pubblicità delle mascherine in maniera preventiva. Per alcuni era diventato una fonte di revenue la vendita di questo prodotto, quindi era un problema. “In seguito ha allentato un po’ le maglie e ora si possono vendere o pubblicizzare mascherine”, ci spiega la Gentili. Questo ovviamente va a ripercuotersi in maniera decisiva e determinante soprattutto sulle piccole e medie aziende. “Io lavoro con brand importanti ed è chiaro che aziende strutturate hanno riferimenti interni, a differenza delle piccole imprese. Anche quando vengono bloccate sponsorizzazioni o una piccola azienda deve riuscire a risolvere dei problemi legati alle pubblicità sui social diventa difficile. Il sistema di custome care di Facebook non è il più responsivo che esista e quindi sì, quelle che pagano di più lo scotto di queste penalizzazioni che vanno a pesare sui contenuti sbagliati”.
LE CONSEGUENZE – A questo punto, una delle domande che ci si pone è se questo sistema di blocco o inasprimento delle policy che è avvenuto con il coronavirus possa bloccare le fake news o, ancor di più, controllare la libertà di espressione sul social. “Facebook sono anni che cerca di bloccare le fake news con una sempre più sofisticata intelligenza artificiale. La verità è che Facebook può controllare quello che vuole, ma la responsabilità deve partire da noi. E’ sempre il soggetto che è propagatore delle fake news, è sempre la persona quella che propaga l’odio. Facebook è il social network più diffuso al mondo quindi ha una responsabilità sociale di un certo peso e deve limitare certi tipi di notizie. Ma dall’altra parte bisogna agire secondo la responsabilità di ognuno di noi”, afferma Veronica. “C’è una linea molto sottile tra libero pensiero e incitamento all’odio, tra espressione della propria opinione e pensiero negativo nei confronti di una data minoranza. D’altra parte la precisione degli algoritmi può essere così infallibile che anche un minimo contenuto ritenuto offensivo o contro il regolamento di Facebook può essere bloccato, sebbene a volte non sia così. Un esempio emblematico che mi viene in mente riguarda la pubblicità di una bellissima opera d’arte che però fu bloccata per oscenità. Chiaramente c’è il rischio di censura in maniera totalmente sbagliata”. Dunque una delle conseguenze maggiori a cui può portare questa iniziativa è di inasprire ancora di più il controllo e il potere degli algoritmi di facebook, con l’effetto di reprimere la libertà di espressione. “L’idea è di aumentare il controllo sulle informazioni che circolano e sui post che vengono pubblicati espellendo dalla piattaforma chi attua un comportamento non considerato performante alla piattaforma”, ci spiega Veronica. “Quindi sì c’è indubbiamente un ipercontrollo che da un lato può essere visto come una cosa positiva perché ci aiuta a estromettere le pratiche negative, dall’altro aiuta a praticare un controllo. Ricordiamoci che questo controllo viene fatto tramite sistemi di intelligenza artificiale, quindi gli algoritmi avranno sempre più controllo su quello che vediamo e che facciamo, e in questo caso glielo stiamo chiedendo noi”. In questo caso a chiederlo sono le grandi aziende che su Facebook si muovono attraverso inserzioni e spazi pubblicitari con grandi quantità di denaro: “I social sono diventati il mezzo di controllo per eccellenza, lo insegna la politica. Il voto si muove sui social, non è un caso che ci sia attenzione ai meccanismi di voto e a quanto possano incidere effettivamente sulla propensione al voto delle persone. Dove c’è il controllo ci sono i soldi quindi è chiaro che le due cose si vanno a sommare e a creare un interesse fortissimo da parte di tutti i più grossi gruppi o da chiunque voglia fare soldi e controllare”. Sulla base di queste considerazioni, viene da chiedersi se e quanto questo boicottaggio servi effettivamente a contrastare il razzismo. Molte aziende stanno adottando una serie di politiche interne per cui molti prodotti o termini vengono completamente eliminati dalla loro vision d’impresa, come ad esempio la L’Oréal che ha abolito l’uso del termine “sbiancante” per rinnovare la propria immagine cancellando le passate accuse di aver concentrato il business dell’azienda e la pubblicità sui consumatori bianchi. Per Veronica “come la storia ci insegna, bisogna stare attenti all’estremizzazione di tutto. Perché inclusione non deve significare radicalizzazione. Siamo tutti d’accordo sull’inclusione, sul fatto che il razzismo è una cosa triste e soprattutto ignorante, perché secondo me denota ignoranza, qualcosa di differente da te in realtà ti può arricchire tantissimo. Ma deve essere fatta una grande attenzione alla strumentalizzazione. Qualsiasi parola, espressione o pubblicità che possa essere minimamente associata anche alla lontana ad una forma di esclusione diventa un modo per strumentalizzare e affibbiare l’etichetta di ‘razzista’ ad un’azienda. Io sono dell’idea che bisogna essere equilibrati anche nelle posizioni”. Il problema quindi ritorna sulla responsabilizzazione personale: “Il problema di oggi è che una persona estremista può influenzare migliaia di persone, cosa che prima era più difficile. C’è bisogno di tanto equilibrio e di evitare tutte queste estremizzazioni. Alla base deve esserci soprattutto un discorso di responsabilizzazione ed educazione a questi strumenti che possono far male o uccidere, come il fenomeno del revenge porn, e possono incidere sulla vita delle persone in bene e in male”.
Bibbiano e noi. Alessandro Bertirotti il 2 luglio 2020 su Il Giornale. È tutta questione di… responsabilità. La prima notizia dalla quale voglio partire è questa. Ma, la seconda, altrettanto interessante quanto la prima, e forse persino di più, è questa ulteriore.
Tutti noi sappiamo perfettamente (basta accendere la televisione, o collegarsi a Youtube), che la comunicazione oggi è particolarmente eterodiretta. Non potrebbe essere altrimenti, poiché ha oltrepassato la sua posizione di “Quarto Potere“ per diventare “Potere all’Ennesima Potenza”. Viviamo in una società che limita fortemente il valore empatico dei rapporti sociali “de visu”, e attribuisce a quelli virtuali una marcata e innegabile prevalenza. Esistono i deficienti (virtuali ed essenziali) che si chiamano influencer, come se i “normali e naturali virus” non bastassero e dovessimo inventarne anche alcuni umani. E, come specie, siamo davvero bravi a mistificare la Natura. Bene, proprio sulla base di queste considerazioni, non mi stupisco di leggere la prima e la seconda notizia, correlate fra loro all’interno di un atteggiamento di censura, che è fondamentale per il mantenimento della menzogna. Sì, oggi è vincolata al dominio, la necessità di far passare per verità ciò che è ancora in valutazione e verifica, e che potrebbe, pertanto, presentarsi tanto come menzogna quanto, appunto, come probabile verità. E tutto questo è funzionale alla perdita della cognizione del tempo. Uno degli esercizi più importante di qualsiasi forma di potere è quello di instillare nella popolazione, nel nostro caso potremmo definirla anche volgare (termine che utilizzo nella sua connotazione dispregiativa), l’idea che le cose debbano essere risolte nel minor tempo possibile. Avere una sana gestione del tempo, (quella cognizione che alcune persone definiscono “pazienza“), significa essere nelle condizioni di gestire i propri strumenti cognitivi, attraverso la riflessione pacata. E (la) qualsiasi riflessione pacata richiede tempo, a volte anche molto. Ecco perché è importante affermare, ad ogni occasione possibile e mediaticamente significativa, che esistono verità parziali, proprio perché legate a contingenze temporali, vendute invece, a livello comunicazionale, come verità assolute. Quindi, quando vi sono situazioni in cui è possibile provocare nei fruitori una riflessione non pacata e temporalmente ridotta su come procede la ricerca della verità, su qualsiasi argomento, si fa di tutto per censurare la comunicazione. In poche parole, si scotomizza. In realtà, la situazione di Bibbiano continua ad evolversi e vedremo se queste 24 persone saranno o meno giudicate colpevoli per le nefandezze di cui sono accusate. Certo, ora è meglio nascondere il tutto, specialmente quando si deve trovare la quadra per presentarsi alle prossime elezioni regionali insieme, e mi riferisco ai sinistrati zingarati ed ai cinque stalle. Sempre meglio, non c’è che dire.
Chiusa l’indagine su Bibbiano, chiesti 24 rinvii a giudizio. C’è anche il sindaco Andrea Carletti. Il corteo tenutosi a Bibbiano per protestare contro il presunto giro di affidi illeciti. La Stampa il 23 giugno 2020. Dopo mille polemiche politiche la cosiddetta vicenda di Bibbiano torna nell’alveo dell’inchiesta giudiziaria. La procura di Reggio Emilia ha chiesto il rinvio a giudizio per 24 persone nell’ambito dell’inchiesta Angeli e Demoni sugli affidi illeciti din Val D’Enza. La pubblica accusa ha citato 155 testimoni, 48 le parti offese tra cui l’Unione dei Comuni Val d’Enza, i Comuni di GAttatico e Montecchio, il ministero della Giustizia e la Regione Emilia Romagna. Tra gli imputati risultano Federica Anghinolfi, ex responsabile dei servizi sociali dell'Unione Val d'Enza, la psicoterapeuta Nadia Bolognini e il marito Claudio Foti della onlus Hansel & Gretel. Presente anche il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti. I reati contestati nell'indagine sono, a vario titolo, peculato d'uso, abuso d'ufficio, violenza o minaccia a pubblico ufficiale, falsa perizia anche attraverso l'altrui inganno, frode processuale, depistaggio, rivelazioni di segreto in procedimento penale, falso ideologico in atto pubblico, maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesioni dolose gravissime, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Agli atti, le false relazioni per ingannare i giudici e provocare l'allontanamento dei bambini dalle loro famiglie naturali, minori sottoposti a “lavaggi del cervello” e convinti di essere anche vittima di abusi sessuali. E anche una chat di gruppo in cui si dimostra che i regali e le lettere dei genitori naturali, consegnati al Servizio sociale della Val d'Enza, non sono mai stati fatti arrivare ai bambini in affido.
Parla di Bibbiano in Consiglio. E Youtube "censura" Fratelli d'Italia. Durante il consiglio provinciale di Novara l'intervento di De Grandis (FdI) su Bibbiano. Youtube chiude la diretta dopo una segnalazione. Scoppia la bagarre politica. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 01/07/2020 su Il Giornale. Si alza in piedi un consigliere provinciale, prende la parola per parlare di minori, nel suo discorso cita Bibbiano e poco dopo si interrompe la diretta Youtube dell’assemblea. Un problema tecnico? Mancanza di rete internet? Macché. Decisione della piattaforma di bloccare lo streaming per violazione della “policy della community” a seguito della segnalazione di un utente. Diretta sospesa, assemblea rinviata. E tanti saluti alla democrazia. È successo due giorni fa al consiglio provinciale di Novara. “La nostra dirigente che si occupa dello streaming- ha raccontato il segretario generale Giacomo Rossi alla Stampa - ha visto apparire sullo schermo un messaggio che dava conto di un reclamo. Subito dopo la diretta si è interrotta". Molti hanno pensato a un problema tecnico, ma non sembra essere così. In aula si stava discutendo una mozione contro la legge regionale "Allontanamento zero", norma che punta a ridurre l'allontanamento dei bambini dalle loro famiglie ad opera dei servizi sociali. Finché ha parlato la minoranza, nessun problema. Poi ha preso la parola Ivan De Grandis (Fdi) che tra le altre cose ha citato Bibbiano, caso ben noto alle cronache e - dice lui al Giornale.it - “assolutamente in linea con il tema in discussione”. A un certo punto però si è dovuto fermare, causa assenza dello streaming. Il problema, infatti, è che in tempo di Covid i consigli sono chiusi al pubblico e per garantire la pubblicità dei lavori (necessaria per legge) va garantita almeno la diretta video. Smanetta quà e là, alla fine i tecnici si sono dovuti arrendere: “Youtube ha interrotto poiché si parlava di minori”, ha comunicato il presidente Federico Binatti. E così è esplosa la polemica. “Oggi si è verificato un gravissimo atto di censura - attacca il senatore di Fratelli d’Italia, Gaetano Nastri - Siamo dinanzi a una situazione incredibile e assurda che lede la libertà di espressione ma soprattutto l’esercizio della democrazia stessa”. Dall’altro lato della barricata, il centrosinistra legge diversamente i fatti. Il gruppo di minoranza “La Provincia in Comune” accusa infatti il centrodestra di voler “trasformare un meccanismo tecnico e di protezione” in “un caso politico”. “Oggi – dicono - si grida alla censura e se ne vuole fare un caso nazionale, un’esagerazione che riteniamo abbia radici ben lontane dalla libertà di espressione". De Grandis, insomma, citando Bibbiano avrebbe voluto “eccedere gose per un bisogno spasmodico di visibilità”, scivolando su un tema “che youtube reputa ‘sensibile’”. Si può dunque parlare solo di ciò che piace al colosso dei video? "Il Pd non conosce vergogna - attacca Nastri - La verità è che il Pd è democratico soltanto quando gli conviene, non muovendo un dito contro quello che è un gravissimo atto illiberale, antidemocratico che viola i principi della nostra Costituzione”. La pensa così anche De Grandis, secondo cui il centrosinistra si dimostra “democratico a intermittenza”: “In pratica YouTube non vuole che si parli di Bibbiano e il Pd concorda, e viceversa”. Il bello, o il brutto, è che l’account è stato chiuso per 90 giorni. Il nuovo consiglio provinciale per concludere quello interrotto è stato convocato per venerdì, ma ancora non si sa se si potrà garantire la pubblicità dei lavori con la diretta tv. Forse sarà necessario aprire le porte al pubblico, nonostante il Covid. Intanto però è partito un ricorso contro Youtube. Gli uffici hanno scritto al colosso che i video di un Ente pubblico previsto dalla Costituzione "non possono, né potrebbero, diffondere contenuti in contrasto con le regole della vostra community o, in qualsivoglia modo, suscettibili di censure". Per questo "si ritiene che l’oscuramento del video sia frutto di una erronea interpretazione del suo contenuto e si invita a voler immediatamente ripristinare la piena operatività del canale, in quanto strumento di trasparenza a servizio di un ente pubblico". Perché gestire la democrazia online è difficile. Si rischia che per una banale segnalazione i colossi della Rete silenzino il sacrosanto diritto di critica di un esponente politico. Una libertà che andrebbe sempre difesa. Anche se parla di Bibbiano.
Il politicamente corretto si abbatte sui film e cartoon. È scattata l'ora della censura. Dopo la morte di George Floyd, i fedelissimi del politicamente corretto hanno deciso di "combattere" il razzismo a suon di censure. Ne hanno fatto le spese "Via col vento" e molti altri film. Marina Lanzone, Martedì 30/06/2020 su Il Giornale. È possibile cambiare il passato? La risposta è "no", almeno per il momento. La scienza, sebbene i suoi innumerevoli tentativi, non è riuscita nell’impresa e la famigerata macchina del tempo è ancora un oggetto fantascientifico da cercare tra le pagine di un libro o tra i fotogrammi di un film. Ma i fedelissimi del politicamente corretto hanno trovato una soluzione per sopperire a questa mancanza: "censurare", ignorando che il problema esista. Come se abbattersi sui prodotti culturali possa cancellare dalla storia. Questa "strategia" ha mietuto già le prime vittime. Il colossal cinematografico "Via col Vento", vincitore di 8 premi Oscar nel 1940, è stato cancellato dal catalogo della piattaforma streaming Hbo e poi reintrodotto pochi giorni fa: la pellicola è stata anticipata da un disclaimer e due video che ne spiegano il contesto storico. Se per "Via col Vento" c’è stato un parziale lieto fine, sono tanti i classici messi in discussione e cancellati dalle piattaforme streaming. Ma il "buonismo" non è un’invenzione odierna: dal secondo dopo guerra la censura è diventata uno strumento per "nascondere" i problemi, invece che analizzarli e affrontarli definitivamente.
I film del passato accusati di razzismo. In questo elenco non può certo mancare "Colazione da Tiffany". Il film del 1961 è da tempo accusato di essere "razzista" per il modo in cui rappresenta Yunioshi, il vicino della protagonista. La recitazione della star americana Mickey Rooney è stereotipata e il trucco con quei dentoni esagerato. Nel 1993 Bruce Lee nel film "The Dragon" lo cita come tipico esempio di "yellowface", caricatura nei confronti dei popoli orientali. Queste critiche ora si sono trasformate in qualcosa di più, visto che la rivista Variety l’ha inserito nella lista dei 10 film da vedere "preceduti da una spiegazione e forniti di un'avvertenza, riguardante razza, sessualità, disabilità e altro ancora". Ma non è il solo film a "rischio" censura. "Forrest Gump" fa parte della stessa lista per essere "ostile ai manifestanti, agli attivisti e alla controcultura". In più la rivista sottolinea come il protagonista prenda "il nome dal nonno Nathan Bedford Forrest, primo sostenitore del KKK". Se questa è la sorte del sei volte premio Oscar, ancora più crudele potrebbe essere il destino di "Nascita di una nazione", il controverso film di David Wark Griffith del 1915. La pellicola è ambientata durante la guerra di secessione americana e vede bianchi e neri contrapposti. La tesi storica sostenuta dal film sarebbe che il Klu Klux Klan avrebbe ristabilito l’ordine in un Paese sconvolto dalla guerra civile. Oggi, senza dubbio, "Nascita di una nazione" appare razzista, ma è anche considerato come il primo film d’autore per le tecniche con cui è stato girato e l’esemplare interpretazione degli attori e per questo ha un posto nei manuali di storia del cinema. Fin dai tempi della sua uscita nel 2004, "La Passione di Cristo" di Mel Gibson ha attirato numerose polemiche per il modo in cui sono rappresentati gli ebrei. Il regista è figlio di un noto negazionista dell’Olocausto e da sempre combatte con l’accusa di essere un antisemita fuori e dentro lo schermo. Anche Tim Burton e Quentin Tarantino condividono con il collega un destino simile, il primo per aver adoperato pochi attori afroamericani nei suoi film, il secondo per aver usato in modo incontrollato la parola "negro" nelle sue pellicole. Anche in questo caso le accuse sono state mosse fuori contesto, non considerando la trama e l’epoca in cui è stato ambientato ogni film.
I cartoni animati "razzisti". Neanche le favole Disney sono sfuggite ai giudizi dei censori del nuovo millennio. Prima hanno attaccato le principesse dei classisi Disney, donne bianche, fragili e il cui destino dipende dal principe azzurro, poi hanno scansionato i film alla ricerca di qualsiasi elemento, anche piccolo, che riconducesse al razzismo. Alla fine "dell’inchiesta" ne è derivata una lunga lista. Vi troviamo "Dumbo" recentemente bollato dalla piattaforma Disney Plus con l’etichetta "rappresentazioni culturali obsolete", a causa dei suoi corvi neri, parodia degli afroamericani, goffi e vestiti di stracci. Oppure "Lilli e Vagabondo" e "Gli Aristogatti" per i gatti siamesi e per la rappresentazione stereotipata di giapponesi e cinesi. Anche gli oranghi de "Il libro della giungla", i nativi americani di "Peter Pan" e le iene de "Il re leone" non hanno superato l’esame. Finora nessuno di questi film è stato censurato. Sono tutti visibili sulla piattaforma. Ben diverso, invece, il destino de "I racconti dello zio Tom" del 1946, attualmente introvabile negli Stati Uniti. Nemmeno "Fantasia", il primo film commerciale proiettato in stereofonia, frutto dell’incredibile creatività dei disegnatori Disney, è stato risparmiato: la scena ambientata sul Monte Olimpo, sotto le note della Pastorale di Beethoven, è stata ridisegnata. La sequenza che mostra un centauro di colore mentre pulisce gli zoccoli a un’altra creatura dalla pelle bianca è stata eliminata. Ma la Disney non è stata la sola ad aver "rivisto" i suoi classici per sfuggire alle polemiche. La Warner Bros. prima dei cartoni dei Looney Tunes ha inserito la dicitura: "I film animati che state per vedere sono prodotti del loro tempo. Possono rappresentare alcuni dei pregiudizi etnici e razziali che erano comuni nella società americana. Queste rappresentazioni erano sbagliate allora e sono sbagliate oggi". I creatori dei Simpson hanno messo in discussione il personaggio di Apu Nahasapeemapetilon, dopo che il documentario "The problem with Apu" del 2017 ha messo in luce una crudele ironia. Alla fine di una lunga diatriba, si è optato per cambiare il doppiatore, finora statunitense, levando all’immigrato indiano l’inflessione "fastidiosa". I censori sono stati così messi a tacere. Ma con che scopo? Questa strategia ha finora portato risultati? Nel 2020 i registi Ryan Murphy e Ian Brennan hanno creato la serie tv "Hollywood", visibile su Netflix, che racconta delle difficoltà degli afroamericani nell’essere accettati dalla società. È ambienta nel dopoguerra, eppure, alla luce dei recenti fatti di cronaca, appare così attuale. I registi hanno immaginato un finale positivo, in cui un film poteva "cambiare" il corso della storia. Ma il mondo in cui viviamo non è perfetto, né tanto meno perfettibile. La cultura ce lo ha più volte mostrato: il cinema, la letteratura e l’arte registrano i passi avanti, così come quelli indietro. Censurare "l’effetto" ha creato finora solo l’illusione di aver sradicato la causa, che al contrario ha piantato le sue radici sempre più profondamente. Il passato non si può cambiare, ma lo si può conoscere per costruire un futuro migliore.
La censura al contrario di un social coscienzioso. I casi attuali di Bolsonaro, della Lega e degli account pro Erdogan. Mario Mendillo il 22 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. La censura prende il nome dalla magistratura che nell’antica Roma si occupava di effettuare censimenti periodici sulla popolazione; il termine, dunque, nasce con un’accezione totalmente diversa da quella odierna e privo di connotazione negativa. Con il tempo, la censura è diventata una forma di controllo sociopolitico e morale operato dall’istituzione dominante in una determinata comunità sulle manifestazioni del pensiero e sull’accesso alle informazioni da parte dei membri della comunità stessa. Difatti, i magistrati censori dell’antica Roma – ben presto – iniziarono ad occuparsi, oltre che dei censimenti, della vigilanza sulla condotta etico-morale dei cittadini censiti. In altre parole, potremmo dire che, quando l’uomo ha smesso di occuparsi esclusivamente del procacciamento del cibo ed ha cominciato – nello sviluppare una propria dimensione privata “estranea” alla società – ad avvertire la necessità di esprimersi, di prendere posizione, di definire una propria coscienza sociale, l’Autorità – qualunque essa fosse – ha ritenuto indispensabile ricorrere al controllo e, se necessario, alla censura. A seconda dell’istituzione sociale predominante può aversi una censura di tipo religioso (contro l’eresia, ad esempio), di tipo politico (si pensi ai regimi totalitari e al loro uso della propaganda) o di tipo morale. Non è detto che queste tre tipologie di censura si escludano tra loro, anzi: molto spesso, quando l’Autorità statale agisce con il supporto dell’Autorità religiosa o di uno o più gruppi di pressione, le tre tipologie si sovrappongono, generando un sistema di censura totalizzante che colpisce – in maniera trasversale – tutto ciò che afferisce alla libera espressione del pensiero e, quindi, al dissenso. Nella storia si registrano numerosi esempi di censura, sia di un solo tipo, sia generalizzata (nella concezione anzidetta). Qualche esempio: nel 325 d.C. il Concilio Ecumenico di Nicea decise di reprimere il culto dell’arianesimo; nel 1852 il romanzo “La capanna dello zio Tom” di Stowe venne ritirato in USA da molti stati del Sud perché anti-schiavista; nel 1866 toccò al celebre quadro di Courbet “L’Origin du Monde”; all’inizio degli anni ‘30 in USA venne adottato l’”Hays Code”, codice di condotta per le produzioni cinematografiche; nel ‘37 il regime fascista in Italia istituì il Min.Cul.Pop., per controllare la propaganda e – similmente – la Germania nazista vietò libere manifestazioni artistiche quali la Scuola Bauhaus; per anni, in U.R.S.S., venne vietata la pubblicazione della “Fattoria degli Animali” di Orwell; nel ‘59 Papa Paolo IV elaborò un indice dei libri proibiti, dei quali era vietata la diffusione; “La Dolce Vita” di Fellini venne ritirata per alcuni mesi “per ragioni di ordine pubblico”; nel ‘62, durante la trasmissione Canzonissima, Franca Rame e Dario Fo vennero immediatamente allontanati non appena iniziarono a parlare di mafia e morti sul lavoro; censurata per anni su diverse emittenti radiofoniche anche la canzone “Dio è morto” di Guccini. Gli esempi si sprecherebbero, e ci vorrebbe un articolo a parte. Tuttavia, è già possibile osservare come – nei casi che precedono – sia stata l’Autorità a censurare l’arte o i media, con lo scopo di servirsene, di utilizzarli e governarli per rafforzare la propria influenza sul tessuto sociale, o per controllare (e reprimere) gli impulsi rivoluzionari o di rottura provenienti dalla base. Con gli anni e con il sempre più ampio riconoscimento della libertà di stampa, l’utilizzo dei mezzi di informazione da parte delle Autorità non è scomparso, ma cambiato. I leader di tutto il mondo, oggi, accrescono il proprio consenso grazie ai media, non censurandoli – sia ben chiaro – ma modellando le proprie strategie di marketing rispetto ai dati da questi provenienti, in primis dai social network. Di qui, tutte le questioni sollevate in merito alla protezione dei dati e al rapporto comunicazione-potere. Facciamo qualche altro esempio, più attuale: Twitter a marzo ha censurato alcuni tweet del Presidente del Brasile Bolsonaro che minimizzava il rischio Covid; poche settimane fa, sempre Twitter (si è parlato di Twitter diplomacy) ha sospeso circa 7000 account pro-Erdogan; dopo i fatti di Minneapolis, ha oscurato – come fatto già in passato – alcuni cinguettii di Trump, accusandolo di esaltazione della violenza. Stessa cosa ha fatto Snapchat; e anche Facebook, durante la memorabile e caldissima estate salviniana del 2019, aveva già provveduto a bloccare diversi post dell’account Lega-Salvini Premier per incitamento all’odio. Ebbene, dunque: i leader appena nominati, molto simili tra loro soprattutto in quanto a strategie del consenso, sono stati censurati proprio da quegli stessi social che ne avevano consentito la ascesa. È stato il mezzo di informazione stesso, quasi autocensurandosi, a non poter accettare la fiera di violenza verbale, montaggi artefatti, inesattezze statistiche e false notizie che generava un hype politico mai visto prima. Questo fa riflettere, fuori da ogni riflesso politico, sul punto cui si è giunti nella comunicazione e nella narrazione del potere. Non più, dunque, un potente leader che – assurgendo a depositario della verità – pilota l’informazione; bensì, al contrario, uno strumento di comunicazione che, dato (vivaddio!) un limite ai contenuti pubblicabili, ha oscurato gli eccessi del leader il quale, in totale spregio dei fondamentali diritti in tema di libera informazione, aveva costruito il suo consenso sulla distruzione del dissenso, il suo potere sulla menzogna e sull’insulto. Che si tratti o meno di una presa di coscienza, ciò che è (e dovrebbe) essere chiaro a tutti è che – quando un’autorità (la minuscola è voluta) arriva a spararle così grosse da essere bloccata dallo stesso strumento che le ha conferito spazio – allora, forse, i valori base di lealtà e competenza, che dovrebbero orientare chi dichiara di volersi occupare della cosa pubblica, stanno esalando l’ultimo – definitivo – respiro.
Carlo De Benedetti a Otto e mezzo: "La mia intervista censurata". Lo sconcerto di Gruber e Padellaro. Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. "Una censura senza precedenti". Lilli Gruber e Antonio Padellaro scandalizzati per quanto svelato in diretta a Otto e mezzo da Carlo De Benedetti. L'ex editore di Repubblica, prossimo al lancio della sua nuova sfida editoriale Domani, ha raccontato di essere stato "silenziato" dal direttore del Sole 24 Ore Fabio Tamburini. "Sono stato intervistato da un giornalista del Sole 24 Ore, entrambi eravamo soddisfatti. Dopo poco il giornalista mi ricontatta dicendo che il direttore era furioso". Motivo? Nella newsletter destinata ai lettori di Domani, il direttore scelto da De Benedetti, Stefano Feltri, era stato molto duro con il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Per chi non lo sapesse, Confindustria è l'editore del Sole. "Io non penso che sia Bonomi che si sia occupato di questo, perché se così fosse sarebbe veramente penoso - attacca De Benedetti - ma penso che ci sia un autocontrollo da parte dei direttori di alcuni giornali che censurano un'intervista per associazione di idee". Quell'intervista non è stata pubblicata. "Io ho mandato un messaggino al direttore, che è stato mio giornalista a Repubblica. dicendogli che non poteva fare una cosa del genere. Non ho ricevuto neanche risposta". "Una cosa molto grave", concordano Gruber e Padellaro.
Un filtro automatico per bloccare il porno su internet, la norma a firma Lega rischia di censurare il web. Redazione su Il Riformista il 19 Giugno 2020. Prima le battaglie contro l’aborto in Umbria, dove è commissario regionale della Lega, ora contro il porno. Il senatore della Lega Simone Pillon, noto per le sue posizioni ultracattoliche, mette nel mirino il mondo dell’hard con un emendamento inserito nel decreto legge Giustizia che prevede di bloccare in automatico il porno online, una sorta di parental control. Secondo il testo presentato da Pillon, il blocco dei contenuti pornografici potrà essere disattivato solo se il titolare del contratto telefonico lo comunica esplicitamente al proprio gestore. Dati i tempi stretti per convertire in legge il decreto, che ‘scade’ il prossimo 29 giugno, è probabile che la proposta otterrà il parere favorevole di entrambi i rami del Parlamento. Per ora il via libera è già arrivato dalla commissione trasporti e comunicazioni della Camera, perché i termini di legge per la conversione non ammettono proroghe. Sentita da Repubblica il segretario di commissione Enza Bruno Bossio (Pd) ha spiegato che “chiediamo al Governo di non rendere il testo immediatamente attuativo; non prima di un passaggio con gli operatori”. Una proposta rivendicata da Pillon, che spiega come la norma si applicherà su ogni tipo di dispositivo e filtrerà tutti “i contenuti violenti, pornografici o inadeguati per i minori”. Per il senatore leghista si tratta di “un piccolo regalo da parte della grande famiglia della Lega a tutte le mamme e a tutti i papà che vogliono proteggere i loro piccoli dai pericoli del web”. Entrando invece nel merito della norma, all’articolo 7 bis della sezione Sistemi di protezione dei minori dai rischi del cyberspazio si legge che “i contratti di fornitura nei servizi di comunicazione elettronica […] devono prevedere tra i servizi preattivati sistemi di parental control ovvero di filtro di contenuti inappropriati per i minori e di blocco a contenuti riservati ad un pubblico di età superiore agli anni diciotto. Questi servizi devono essere gratuiti e disattivabili solo su richiesta del consumatore, titolare del contratto”. La norma del senatore leghista ha trovato resistenze e pareri negativi. Problemi anche tecnici, perché non è chiaro come sarà possibile bloccare siti, immagini e pubblicità genericamente definiti come “inadeguati” per un pubblico sotto i 18 anni, col rischio concreto di limitare in realtà libertà d’espressione e accesso alle informazioni. Stefano Quintarelli, noto esperto di questioni legate alla rete, spiega infatti a Repubblica che “la norma è inapplicabile, chi stabilisce cosa sia un contenuto inappropriato? E come filtrare quelli criptati, tenendo conto che sul web ora tutto è cifrato? Inoltre credo sia incompatibile anche con normativa sulla neutralità della rete”.
Da liberoquotidiano.it il 21 giugno 2020. La proposta arriva dal senatore della Lega Simone Pillon. Un emendamento nel testo di conversione del decreto legge Giustizia che propone di bloccare in automatico i contenuti pornografici online. Una specie di parental control che si può disattivare solo se il titolare di un contratto telefonico lo chiede in modo esplicito, a dar conto della proposta è stata Repubblica. Il rischio, però, è che oltre alle luci rosse il filtro finisca per censurare anche altri contenuti online. Ma tant'è, a Valentina Nappi interessano i filmini hard. La reginetta del porno italiano, infatti, dopo aver letto la notizia la ha rilanciata sui social. Condendola con una sorta di "minaccia" alla Lega e Matteo Salvini: "State rischiando di farmi entrare in politica", commenta Valentina Nappi, rilanciando un articolo di Wired sulla vicenda.
Alessandro Longo per repubblica.it il 21 giugno 2020. Il porno su internet in Italia sarà bloccato in automatico, a tutela dei minori, e solo il consumatore titolare del contratto - maggiorenne - potrà disattivare questo filtro, con richiesta esplicita al proprio operatore telefonico. Sarà così se viene approvato l'attuale testo di conversione della legge sulla Giustizia (sulle intercettazioni), dove un emendamento della Lega è riuscito a inserire l'articolo 7 bis, Sistemi di protezione dei minori dai rischi del cyberspazio: "I contratti di fornitura nei servizi di comunicazione elettronica disciplinati dal codice di cui al decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 devono prevedere tra i servizi preattivati sistemi di parental control ovvero di filtro di contenuti inappropriati per i minori e di blocco a contenuti riservati ad un pubblico di età superiore agli anni diciotto"; "Questi servizi devono essere gratuiti e disattivabili solo su richiesta del consumatore, titolare del contratto". "Gli operatori di telefonia, di reti televisive e di comunicazioni elettroniche assicurano altresì adeguate forme di pubblicità di tali servizi in modo da assicurare che i consumatori possano compiere scelte informate". "In caso di violazione degli obblighi di cui ai commi precedenti l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ordina all'operatore la cessazione della condotta e la restituzione delle eventuali somme ingiustificatamente addebitate agli utenti, indicando in ogni caso un termine non inferiore a sessanta giorni entro cui adempiere". Al momento il testo è consegnato alla commissione competente alla Camera, prima del passaggio in Aula. E potrebbe non esserci tempo per una modifica alla Camera, perché va chiuso tutto entro il 29 giugno, quando scadono i termini di conversione della legge. Essendo un decreto del Governo, la sua decadenza potrebbe aprire a una crisi nella maggioranza. Per ora quindi l'articolo incasserà un parere formalmente favorevole da parte della Commissione permanente IX Trasporti alla Camera a quanto comunicato a Repubblica, nonostante lo scetticismo dei suoi componenti: "Ma chiediamo al Governo di non rendere il testo immediatamente attuativo; non prima di un passaggio con gli operatori", spiega Enza Bruno Bossio (PD), segretario di Commissione. "Una modifica del testo da parte nostra purtroppo non è fattibile perché non ci sono i tempi prima della scadenza dei termini", aggiunge. Sarà un filtro a tutto campo, come commenta il senatore della Lega, Simone Pillon: "E' stata accolta (una volta ogni tanto la maggioranza ci ascolta) la mia proposta, che rappresenta la cosa che mi sta più a cuore: l'introduzione dell'obbligo per i fornitori di telefonini, tablet, laptop, tv e altri device di preinstallare gratuitamente sugli apparati un filtro per bloccare contenuti violenti, pornografici o inadeguati per i minori". "Spero che in tal modo - aggiunge - saranno messi in sicurezza i tanti bambini che, come i miei, hanno ormai quotidiano accesso a Internet vista anche la necessità della didattica a distanza. Un piccolo regalo da parte della grande famiglia della Lega a tutte le mamme e a tutti i papà che vogliono proteggere i loro piccoli dai pericoli del web". "Vista così sembra solo una cosa buona, ma all'estero tentativi simili si sono scontrati con problemi insormontabili e il grosso rischio di favorire solo la censura di internet. È il motivo per cui una legge simile è stata bloccata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti ed è stata sospesa indefinitamente nel Regno Unito", spiega l'avvocato Fulvio Sarzana, specializzato in diritto di internet. La natura della rete è tale che non si possa bloccare in modo chirurgico un contenuto vietato ai minori, senza quasi inevitabilmente impedire l'accesso a contenuti leciti. "La Corte Suprema ha citato, nell'occasione, l'esempio del presidente americano Jimmy Carter, che nel 1976 ha affidato a Playboy la sua prima, storica, intervista. La Corte ha notato che con un filtro del genere i minori non avrebbero mai potuto leggerla". Con un grave danno alla libertà di espressione e di accesso alle informazioni, conferma Stefano Quintarelli, noto esperto di questioni legate alla rete (tra l'altro, è ora il solo membro italiano del gruppo degli esperti sull'intelligenza artificiale per la Commissione europea): "La norma è inapplicabile, chi stabilisce cosa sia un contenuto inappropriato? E come filtrare quelli criptati, tenendo conto che sul web ora tutto è cifrato? Inoltre credo sia incompatibile anche con normativa sulla neutralità della rete".
Facebook segnalerà i post dei politici quando violano le regole del socialnetwork. Il Corriere del Giorno il 27 Giugno 2020. Il cambio nelle policy di utilizzo della piattaforma è stato annunciato direttamente dal fondatore, Mark Zuckerberg, sulla sua pagina ufficiale. Facebook segnalerà i post dei politici che violano le regole del social network, adottando di fatto una strategia simile a quella di Twitter, che recentemente ha iniziato a etichettare i Tweet persino di Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti d’ America e di altri politici americani, oscurandoli parzialmente perché ritenuti contrari alle norme di utilizzo della piattaforma. Il cambio nelle policy di utilizzo di Facebook è stato annunciato direttamente dal fondatore, Mark Zuckerberg, sulla sua pagina ufficiale. Come ha precisato il Ceo della compagnia proprietaria del socialnetwork, i post dei politici non verranno rimossi da Facebook, ma saranno segnalati, perché comunque offrono contenuti considerati ”news-worthy“, ovvero importati per il pubblico dibattito e la stampa. “Presto inizieremo ad etichettare alcuni dei contenuti, che comunque lasceremo perché sono ritenuti importanti”, ha sottolineano il fondatore del gruppo Facebook nel post. “Permetteremo alle persone di condividere questi contenuti anche per prenderne le distanze, proprio come facciamo con altri contenuti problematici”, ma, “aggiungeremo un avviso per dire agli utenti che i contenuti che stanno condividendo possono violare le nostre politiche”, ha aggiunto. La mossa di Facebook non è casuale. Il social è stato criticato nelle ultime settimane per aver consentito la pubblicazione e la condivisione di informazioni di voto false o fuorvianti. Sono più di 100 le aziende che hanno minacciato di sospendere le inserzioni pubblicitarie dei loro prodotti come ha fatto Coca Cola dal social media, mosse dall’intento di contrastare la diffusione di contenuti razzisti, violenti o contenenti informazioni false sulle piattaforme online. Facebook, inoltre, inserirà sotto i post dei politici un link che rimanderà gli utenti al suo “voting information center” in cui saranno raccolti tutti i post, compresi quelli dei politici, che riguardano le elezioni, in modo gli utenti abbiamo un quadro completo delle informazioni condivise. “Questo non è un giudizio sulla correttezza dei messaggi stessi”, ha precisato Zuckerberg in una diretta sul suo profilo ufficiale, “ma un invito agli utenti a verificare i fatti”.
Il tribunale del web fa paura: censurano Trump (e tutti noi). Nel mirino di Facebook e Twitter non c'è solamente la libertà del presidente americano. Ma anche la nostra. Francesco Giubilei, Sabato 20/06/2020 su Il Giornale. Impedire la rielezione di Trump con qualsiasi mezzo. È il leitmotiv del mondo liberal e democratico americano che, pur non essendosi ancora ripreso dalla sconfitta di Hillary Clinton nel 2016, vuole evitare di compiere lo stesso errore di quattro anni fa sottovalutando il leader repubblicano alle elezioni presidenziali in autunno. Gli strumenti utilizzati contro Trump diventano ancora più pervasivi e senza esclusioni di colpi, al punto da ingaggiare nella lotta contro il presidente anche i social network, i cui creatori sono imbevuti dell’ideologia progressista e politicamente corretta che spopola dalle parti della Silicon Valley e di Palo Alto. Compreso che i “New York Media” non sono più sufficienti per contrastare Trump e i conservatori americani, negli ultimi mesi (guarda caso in concomitanza all’avvicinarsi della scadenza elettorale), Twitter e Facebook si sono resi protagonisti di alcuni episodi di censura nei confronti dei suoi post, l’ultimo pochi giorni fa da parte del social network di Zuckerberg che ha oscurato uno spot della campagna elettorale trumpiana accusandolo di “utilizzare simboli nazisti”. Il dibattito sul labile confine tra la libertà d’espressione e la necessità di contrastare fake news e notizie che incitano all’odio è quanto mai attuale ma è lecito domandarsi se un social network abbia il diritto di oscurare un messaggio del Presidente degli Stati Uniti. Così facendo, da un lato si contraddice la Costituzione americana che garantisce a tutti i cittadini libertà di parola e dall’altro si compie un gesto a tutti gli effetti politico intromettendosi nella campagna elettorale. La decisione di Facebook assume una particolare gravità poiché avviene qualche settimana dopo lo scontro tra Twitter e il Tycoon in cui Zuckerberg aveva preso le distanze dalla scelta di cancellare una serie di tweet trumpiani, sostenendo che i social non debbano essere “arbitro della verità”, parole che hanno provocato lo sciopero di più di 600 dipendenti e una rivolta interna all’azienda. Il punto è che la maggioranza della comunicazione di Trump si basa sui social network e sul dialogo diretto con i cittadini, mentre i mainstream media, ad eccezione di poche voci come Fox, sono schierati contro il Presidente che fa dello stile politicamente scorretto il suo forte. Nel momento in cui gli viene impedito di esprimersi liberamente filtrando i suoi contenuti, si compie un gesto politico che finisce per favorire i suoi avversari democratici. Nel momento in cui si interviene sulla libertà di espressione, si entra in un terreno labile e, come sta avvenendo in questi giorni di furia iconoclasta, si sa dove inizia l’attività censoria ma non dove finisce. Chi decide quali sono i contenuti leciti e quali no? In base a quali criteri? È giusto che un’azienda privata possa decidere arbitrariamente di censurare un rappresentante delle istituzioni eletto dal popolo? Il ragionamento vale per ogni cittadino, essendo la libertà di espressione un diritto che differenzia una democrazia da una dittatura. A meno che non si avvalli la visione di una società fondata sulla tecnocrazia in un cui alla sovranità popolare, ai diritti garantiti dalle costituzioni, alle leggi votate dai parlamenti e ad eventuali illeciti sanzionati dai tribunati, si sostituisca il dominio della tecnica, dei social network e degli algoritmi in grado di decidere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato dire. In tal senso tutto è lecito, oggi è Trump, domani potresti essere tu, poi chissà, il nuovo tribunale del web potrebbe decidere di dare spazio solo a opinioni conformi a una certa visione politica e del mondo. In parte sta già accadendo e, se si arriva a censurare il Presidente degli Stati Uniti, dovremmo preoccuparci.
(ANSA il 29 Maggio 2020) - Donald Trump ha firmato l'ordine esecutivo sui social media. Lo rende noto la Casa Bianca. Il presidente ha spiegato che con suo provvedimento i social media non avranno più immunità legale contro eventuali cause per i contenuti delle loro piattaforme. Donald Trump ha annunciato che la sua amministrazione perseguirà una legislazione ad hoc sui social, in aggiunta al suo ordine esecutivo. Il presidente ha detto di aspettarsi sfide legali al proprio provvedimento ma presume che il suo governo le affronterà bene. Donald Trump ha accusato Twitter di assumere "posizioni editoriali" e di fare "attivismo politico" quando interviene sui cinguettii degli utenti. Il presidente ha poi equiparato i social ad un monopolio.
Massimo Gaggi per “il Corriere della Sera” il 29 Maggio 2020. La decisione di Donald Trump di intervenire con un ordine esecutivo presidenziale nel delicatissimo campo dell' informazione diffusa dalle reti sociali è criticabile da almeno tre punti di vista. In primo luogo per le motivazioni: il presidente non nasconde di essersi mosso non per correggere gli squilibri che si sono creati man mano che i pionieri della Silicon Valley sono diventati giganti, ma per punire reti che teme possano danneggiarlo (o non supportarlo adeguatamente) nella corsa verso la rielezione. C' è poi il dato istituzionale: secondo molti giuristi tentare di alterare il quadro definito dalle leggi del Congresso con atti amministrativi è una forzatura. Infine, è tutta da verificare l' efficacia dello strumento messo in campo: non sarebbe la prima volta che Trump emette un ordine esecutivo che non porta a risultati concreti perché inapplicabile o perché viene subito contestato nei tribunali. Quella sulla regolamentazione delle piattaforme sociali si delinea come una battaglia senza eroi e, per adesso, con molti sconfitti: sconfitti i giganti della Silicon Valley che si sono sempre opposti a ogni forma di regolamentazione anche esercitando pressioni lobbistiche schiaccianti. Pretendevano di essere ambasciatori del bene assoluto e di non avere responsabilità davanti alla politica e alla società. Ma sconfitto è anche il Congresso che, quando il vento è cambiato e si sono create le condizioni per intervenire, non ha saputo andare oltre i processi mediatici e proposte di legge che sembravano più rappresaglie che progetti di riforma. C' è, infine, la sconfitta postuma di Obama che per otto anni ha visto crescere gli squilibri informativi e le diseguaglianze tecnologiche senza intervenire, salvo sentenziare, poco prima di lasciare la Casa Bianca, che quella delle diseguaglianze sarà la sfida decisiva del futuro. Trump, come al solito, si muove con prepotenza e con gli occhi fissi sulle urne del 3 novembre, ma va a toccare un problema reale: l' irresponsabilità dei grandi tycoon della Silicon Valley che pretendono di autoregolamentare la loro immensa influenza sulla formazione della pubblica opinione soprattutto in campo politico. Aziende spesso prive di cultura politica e istituzionale decise a massimizzare il profitto invadendo anche il campo dell' editoria, forti di un' assoluta impunità. Solo in tempi recenti questi gruppi si sono posti il problema di limitare la circolazione di post e video falsi o offensivi. Scoprendo la difficoltà di costruire un controllo dei contenuti capillare ed equilibrato. Ieri il New York Post ha mostrato che il capo del «controllo dei fatti» di Twitter, Yoel Roth, ha una storia di attivista politico di sinistra che ha espresso giudizi durissimi su Trump. Cosa che ha consentito al presidente di sostenere che «sono editori di parte, non entità neutrali: è come se una società telefonica censurasse le vostre chiamate». I leader di queste industrie, intanto, si sono divisi su cosa è giusto fare, come dimostra la contrapposizione di ieri tra il capo di Twitter, Jack Dorsey, e il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg: col primo che ha cercato di difendere la scelta di sottoporre a fact checking un tweet nel quale il presidente giudicava fraudolenti i voti inviati per posta (tesi falsa ma sostenibile, visti alcuni, limitati precedenti di uso improprio del voto a distanza) mentre un altro post nel quale Trump accusa un giornalista suo avversario di essere un assassino non è stato cancellato. Un modo di procedere approssimativo che ha dato a Trump la possibilità di accusare le piattaforme digitali di «censura selettiva» mentre Zuckerberg ha sentenziato che i social media non possono pretendere di essere gli arbitri della verità.
Il caso Floyd sfocia in rissa politica. “Non posso restare a guardare quello accade a una grande città americana, Minneapolis”, ha scritto il presidente Donald Trump su Twitter. “Un’assenza totale di leadership. O il debolissimo sindaco radicale Jabob Frey riporta la città sotto controllo, o invierò la Guardia nazionale e farò io il lavoro”. Nella seconda parte del suo messaggio, poi censurata da Twitter, il presidente scrive: “Questa teppaglia sta disonorando la memoria di George Floyd, e io non lascerò che accada. Ho appena parlato con il governatore Tim Walz (governatore del Minnesota, ndr) e gli ho detto che l’esercito è al suo fianco. Se ci saranno difficoltà assumeremo il controllo, ma quando il saccheggio inizia, le armi sparano”. Twitter ha moderato quest’ultimo tweet, lasciando tuttavia agli utenti la possibilità di visualizzarlo: “Questo Tweet ha violato le regole di Twitter sull’esaltazione della violenza. Tuttavia, abbiamo deciso di non oscurarlo poiché potrebbe essere di pubblico interesse”.
Joe Biden ha risposto accusando Trump di aver incitato alla violenza contro i cittadini statunitensi dopo aver minacciato di schierare i militari a Minneapolis per sedare le violenze. “Non citerò il tweet del presidente – ha scritto su Twitter -. Non gli darò risalto. Ma sta incitando alla violenza contro i cittadini americani in un momento di dolore per così tanti. Sono furioso, e dovreste esserlo anche voi”.
Twitter censura di nuovo Trump: “Media manipolati”. Notizie.it il 19/06/2020. Per Donald Trump i media sono manipolati e Twitter lo censura. Continua la querelle Twitter contro Donald Trump: il noto social network censura nuovamente il Presidente degli Stati Uniti. Si tratta del secondo episodio simile nello spazio di poche settimane. Questa volta, a far arrabbiare il social dei cinguettii, è un video postato da Donald Trump in cui si fa riferimento alla presunta manipolazione dei media. E così Twitter ha deciso di censurare nuovamente il Tycoon. “Manipulated media”, la scritta comparsa sotto un tweet in cui Donald Trump ha postato una versione ‘taroccata’ di un video molto popolare sui social, virale fin dal 2019. Il video in questione, rilanciato da Donald Trump, è quello di due bimbi, uno bianco e uno afroamericano, che corrono l’uno verso l’altro alla fine abbracciandosi. Nel video postato dal presidente statunitense si vede invece il bimbo bianco inseguire quello nero e sotto la scritta: “Bambino terrorizzato fugge da bambino razzista”. Un video inaccettabile per Twitter che ha deciso di censurare quanto postato da Trump. Lo scorso 5 giugno, quando Trump fu censurato per la prima volta da Twitter, il Tycoon commentò così: “Sui social media una manciata di realtà controllano una vasta porzione di tutte le comunicazioni pubbliche e private negli Stati Uniti. Hanno avuto il potere incontrollato di censurare, limitare, modificare, modellare, nascondere, alterare, praticamente qualsiasi forma di comunicazione tra cittadini privati”.
Dagonews il 15 giugno 2020. A Virgin Radio, nello spazio quotidiano che ha alle 8.15, Antonello Piroso ha preso posizione a proposito della querelle tra il nostro disgraziato sito e Rocco Casalino. Ecco cosa ha detto: Ricorderete la frase attribuita tra virgolette al presidente del Consiglio Giuseppe Conte: "C'è un pezzo di Stato che rema contro il governo e le riforme". Frase che poi alle due del pomeriggio, del giorno in cui è stata riportata dai giornali, è stata smentita dall'ufficio stampa di Palazzo Chigi, dal portavoce Rocco Casalino, anche se l'agenzia Ansa riferisce la rettifica genericamente a "fonti di Palazzo Chigi", che è una clausola di stile, ma se ti arriva una smentita di tale portata è evidente sia partita direttamente dal portavoce, sarebbe singolare il contrario. Siccome Dagospia, il sito di Roberto D'Agostino ha ironizzato, giustamente secondo me, sulla tempistica, sul fatto appunto che la smentita sia arrivata alle 2 del pomeriggio, dal momento che i giornali sono disponibili in formato digitale già alle 2 del mattino; quindi le 2 del mattino, le 5 del mattino, le 6, poi i giornali arrivano in edicola, la frase finisce nelle rassegne stampa, insomma: se la frase andava smentita, andava smentita subito, perchè aspettare il primo pomeriggio? Per vedere l'effetto che faceva? Rocco Casalino si arrabbia, e scrive un messaggio a Dagospia, che D'Agostino pubblica ritenendolo di sapore vagamente intimidatorio: "Per correttezza ti informo che sto raccogliendo tutto il materiale diffamatorio nei miei confronti pubblicato su varie testate giornalistiche. C'è un limite -dice Casalino- agli attacchi quotidiani basati solo su falsità e questo limite è stato ampiamente superato. Per questo intendo esercitare il mio diritto di tutelarmi nelle sedi opportune contro un accanimento mai visto prima". Cioè: vuol far partire delle querele. Cosa in sè assolutamente legittima, se uno ritiene che ricorrano gli estremi. Anche se in questo caso specifico non si vede dove sarebbe la diffamazione, ma magari boh, sbaglio io. E comunque il punto è un altro: perchè scriverlo? E perchè mandarlo come messaggio al titolare di un sito? Per metterlo in una condizione psicologica, diciamo così, di soggezione, "devi smetterla di infastidirmi, di rompermi le scatole"? Allora sì che sarebbe un pizzino intimidatorio. Tanto che Dagospia replica ironicamente: "Bene, se ci devi querelare, siamo già qui che tremiamo". Brutta cosa comunque se il portavoce del Presidente del Consiglio manda messaggini così. Tanto più che le querele non si annunciano: si presentano, perchè altrimenti potrebbe sembrare sì un "avvertimento". Aggiungo: Casalino, con tutto il bene che uno ti può volere, tu sei quello che a cavallo di Ferragosto del 2018, quando è crollato il ponte Morandi e sono morte 43 persone, i giornalisti ti cercavano, a un certo punto sei sbottato: "Datemi tregua, mi è saltato pure il Ferragosto". Certo, poi ti sei scusato per quello sfogo -per il ponte mi è saltato il ponte- ma ormai la frittata, nella sua gravità (perchè eri e sei il portavoce del presidente del consiglio), era fatta. Anche in quel caso, però, hai voluto accompagnare le scuse con generiche accuse "all'uso strumentale che alcuni giornali stanno facendo di questa tragedia". Se io fossi in te, prima di annunciare querele, farei una breve riflessione su me stesso. Così parlò il Cavaliere Nero.
Luciana Grosso per it.businessinsider.com l'8 maggio 2020. Un gruppo di dieci ONG di tutto il mondo ha lanciato un allarme sui siti porno più popolari, diffusi e famosi, nella quale si dice che “erotizzano la violenza, l’incesto e il razzismo sessuale” e che trasmettono contenuti legati a abusi e traffico di minori. Secondo l’appello “è impossibile giudicare o verificare il consenso in qualsiasi video, per non parlare dei video di webcam in diretta”. Accuse molto pesanti che il leader del settore, PonHub, ha respinto con forza dicendo che “la lettera [non] era solo erroneamente fattuale ma anche intenzionalmente fuorviante”. Nella loro lettere, in particolare, le ONG provano a colpire i siti porno lì dove fa più male, ossia nel portafoglio: hanno chiesto ai tre giganti del settore del credito Mastercard, Visa e American Express di sospendere i pagamenti ai loro portali.
Nasce la "Corte suprema" di Facebook. Indipendente, giudicherà le scelte del social network. Venti membri, ma diventeranno quaranta, e fra loro premi Nobel, Pulitzer e l’ex primo ministro danese Helle Thorning-Schmidt. Il Comitato di Controllo, l'Oversigt Board, sarà chiamato ad esprimersi sulla cancellazione di contenuti e profili, oltre ad intervenire su temi delicati come l’incitazione all’odio e il rispetto della privacy. Jaime D'Alessandro su La Repubblica il 6 maggio 2020. L’hanno ribattezzata la "Corte suprema dei contenuti". L’organo indipendente al quale gli oltre due miliardi di utenti di Facebook si potranno appellare contro le stesse decisioni del social network in tutte le sue varianti, compreso Instagram. Nasce il così il Comitato di Controllo, l'Oversigt Board, chiamato a giudicare la cancellazione di contenuti e di profili, oltre ad intervenire su temi delicati come l’incitazione all’odio, le molestie, il rispetto della privacy. Il Comitato è stato preceduto nei mesi scorsi dalla pubblicazione di una sorta di carta fondante dell'organismo, che ha natura internazionale. I venti membri, che a regime diventeranno quaranta, parlano oltre ventinove lingue e "rappresentano contesti e punti di vista professionali, culturali, politici e religiosi differenti", ha spiegato Nick Clegg, vicepresidente Facebook. Tra gli altri, c’è Tawakkol Karman, politica e attivista yemenita che nel 2011 ha ricevuto il Nobel per la pace. Alan Rusbridger, ex direttore del Guardian, Pulitzer per il reportage su Edwared Snowden. Michael McConnell, ex giudice federale degli Stati Uniti ora professore di diritto costituzionale a Stanford. "I casi che sceglieremo di trattare potrebbero essere controversi e le nostre decisioni non potranno accontentare tutti - spiega il Comitato - ci aspettiamo migliaia di segnalazioni, daremo priorità ai temi che potenzialmente possono influire sul maggior numero di utenti”. Fra i quattro co-presidenti dell’Oversigt Board, c’è invece Catalina Botero-Marino, avvocato colombiano che è stato relatore speciale per la libertà di espressione della Commissione interamericana per i diritti umani. Al suo fianco Jamal Greene, professore di legge alla of Law at Columbia Law School; Michael McConnell, studioso di diritto costituzionale di Stanford e Helle Thorning-Schmidt, ex primo ministro danese. Le decisioni della “Corte suprema” saranno “definitive e vincolanti sui contenuti specifici che possono essere consentiti o rimossi da Facebook e Instagram", hanno affermato i quattro co-presidenti in un editoriale sul New York Times, sottolineando a più riprese di essere "indipendenti". Un'indipendenza "garantita dalla nostra struttura. Le attività del board sono finanziate da un fondo di 130 milioni di dollari che non può essere revocato. E i suoi componenti - hanno concluso i quattro - non possono essere rimossi da Facebook”. Insomma, sembra proprio che il regno di Mark Zuckerberg stia cominciando a dotarsi di organi simili a quelli di uno stato sovrano. Aveva chiesto regole ai governi dopo i tanti scandali, si sta portando avanti facendo da solo.
Marco Consoli per “la Stampa” il 5 maggio 2020. Dietro le quinte di Facebook, Twitter e altri social media ci sono immagini e video di torture, sevizie agli animali, omicidi, stupri, scene di guerra che non raggiungono mai la superficie. È questo l' inferno descritto da Quello che i social non dicono - The Cleaners, documentario di Hans Block e Moritz Riesewieck in prima tv domani sera su Sky Arte e in streaming su Now Tv, che descrive il lavoro oscuro e pericoloso di chi pensa a ripulire da quelle atrocità lo spazio visibile a tutti. Queste persone, chiamate in gergo moderatori, sono un filtro tra ciò che la gente posta (o meglio vorrebbe postare) online e quello che raggiunge la massa di utenti: una buona parte di questi contenuti viene analizzato e filtrato dall' intelligenza artificiale, in grado di individuare ad esempio se abbiamo pubblicato un nudo che viola le regole di utilizzo, mentre alcune decisioni chiave più spinose spettano all' uomo. Un video in cui una persona è percossa è goliardia o bullismo? Una vignetta religiosa è oltraggiosa oppure no? «Ci siamo chiesti chi fossero queste persone, che tipo di background avessero e abbiamo cercato di esplorare il loro processo di decisione, per vedere come possano essere influenzati da fattori, culturali, religiosi, e così via», racconta Riesewieck. Partendo dalle ricerche di Sarah Roberts, professoressa della Ucla, i due registi hanno scoperto che ben oltre la facciata delle aziende, con piccoli uffici di moderatori in Germania, Francia, Polonia, dove i lavoratori sono tutelati, esiste un vasto mondo di outsourcing verso Paesi dove il costo del lavoro è bassissimo, come le Filippine, in cui per guardare tutto il giorno questi contenuti agghiaccianti si può guadagnare fino a 3 dollari l' ora. L' indagine procede poi su due crinali: da una parte viene affrontata la questione dello sfruttamento, che non è solo economico, ma anche emotivo. «Queste persone non solo firmano contratti di riservatezza e vivono come le spie, ma sono bombardate da migliaia di immagini e video orribili - spiega Riesewieck - e quasi sempre soffrono di sindrome da stress post-traumatico». Dall' altra parte il documentario si interroga su quali siano i contenuti che vengono censurati, con seri rischi per la libertà di espressione: «Molte volte la mannaia del moderatore viene usata senza la capacità di capire la cultura di altri Paesi», come quando ad esempio una statua greca viene considerata offensiva perché rappresenta un nudo femminile. «In altri casi i social agiscono di concerto con i governi autoritari, che li autorizzano ad agire nei propri confini nazionali, ma chiedono in cambio la cancellazione di critiche degli oppositori politici».
Vittorio Feltri, quelle corna in prima pagina che sconvolsero il Paese più delle Br. Libero Quotidiano il 27 Febbraio 2020. L'adulterio. È un tema ricorrente, ad andamento ciclico, inesauribile. Scalda gli animi, eccita la fantasia e mobilita i "tuttologi" di ogni Chiesa. D'altronde, chi non ha esperienza di corna passive o attive? Stavolta, a dare la stura alle opinioni sulla delicata materia è stato un film: Attrazione fatale, importato dagli Stati Uniti, che racconta una storia a tragico fine, in cui tra gioie e dolori, sospiri e passioni ci scappa il morto. Pare che gli americani si siano specchiati in questa vicenda che non ha nulla di inedito, e ne discutano forsennatamente. Non sorprende: il tradimento coniugale e manovre relative sono esercizi fra i più praticati nel Nuovo continente. Ma non si scherza neanche nel Vecchio. Dove la pellicola, appena arrivata, ha scatenato reazioni di segno diverso e nessuna tiepida. In Francia, L' express, tramite la penna del critico cinematografico, ha avvertito che l' opera è "un' idiozia con qualche lampo di imbecillità"; mentre per Le point si tratta di capolavoro. Riproponiamo un articolo di Vittorio Feltri pubblicato alla fine degli anni '80 in occasione dell' uscita del film «Attrazione fatale». Da allora non è cambiato nulla: le corna non passano mai di moda. E in Italia? Idem: applausi entusiastici o fischi sonori. Ma nei nostri intenti non c' è la stima estetica del romanzone di celluloide, bensì l' osservazione del problema che esso pone, anzi, ripropone. L' adulterio, da queste parti, che proporzioni ha assunto? Come viene vissuto dai protagonisti? E se tra moglie e marito si mette qualcosa di più del comune dito quali sono le complicazioni?
Nel 1979, la vigilia di Natale il Corriere della Sera pubblicò in prima pagina la lettera di una lettrice che si lagnava per due motivi: perché l' amante, sposato, avrebbe trascorso le imminenti festività con la legittima consorte, e perché i giornali dedicavano poco spazio alle frustrazioni della gente e moltissimo, troppo, alla politica. Era tempo in cui imperversava il terrorismo, e la stampa, in effetti, non aveva attenzioni che per questo, supponendo di soddisfare così le aspettative generali. Ma quel messaggio collocato a sorpresa nella vetrina del quotidiano rivelò clamorosamente che era sbagliato attribuire alle grandi questioni del Paese il primato nell' interesse del popolo. Che fu scosso dallo sfogo della donna più di quanto non lo fosse stato per le imprese dei brigatisti.
LA SVOLTA. Difatti, la redazione venne seppellita dalla corrispondenza: migliaia di missive provenienti da ogni regione, nelle quali si solidarizzava con l' infelice signora, le si consigliava di "lasciar perdere quel farabutto" oppure le si faceva notare che la giusta punizione per colei che stuzzichi un uomo ammogliato è, appunto, la solitudine. Infuriò il dibattito, cui seguì un' inchiesta sull' infedeltà con l' intervento delle firme più autorevoli di via Solferino. Ci fu una svolta nel costume giornalistico: perché da quel momento, pur non trascurando ammazzamenti e analoghe prodezze del partito armato, le cronache registrarono sistematicamente anche le faccende di cuore, ovvero del "privato". E venne alla luce un dettaglio importante su cui Leonardo Vergani pose l' accento: nonostante che l' adulterio non fosse reato da qualche lustro, gli adulteri continuavano a comportarsi come se lo fosse, evitando con cura di spezzare il legame ufficiale in favore di quello clandestino. Questo per molte ragioni. Ma principalmente perché il tradimento era considerato (e lo è ancora) un diversivo e non la fase iniziale di un rapporto destinato a divenire esclusivo. In altre parole, una fuga part-time dalla realtà familiare e non la premessa di un secondo (terzo o quarto) matrimonio. Oggi, con le dovute eccezioni, che però c' erano anche allora, la situazione è immutata. In nove anni, tutto si è evoluto tranne il settore corna dove le abitudini resistono. Non è una nostra intuizione spacciata per informazione, ma risulta dalle statistiche. In un saggio di Giovanni Caletti (Il comportamento sessuale degli italiani) si legge che nel 1976 il 25 per cento dei maschi e il 10 per cento delle femmine (totale 35 per cento) dichiaravano di non essere insensibili ai piaceri dell' avventura. L' indagine dello studioso era stata svolta su vasti campioni e in varie città, e aveva tenuto conto di molteplici elementi: l' età degli intervistati, la loro professione, l' anzianità matrimoniale. Ebbene, dalla elaborazione dei dati era emerso che tradivano i freschi come i maturi sposi, al Nord e al Sud, a ovest e a est, indifferentemente. Inoltre era stato accertato che non esisteva una causa prevalente dell' infedeltà alla quale di norma si arrivava per noia, ripicca, curiosità. La gamma delle giustificazioni fornite dai fedifraghi era parecchio assortita, ma bisogna pensare che la loro sincerità era dubbia, perché è noto che il ladro, sia pure d' amore, è anche bugiardo. Nel 1978, la Makno sostenne che in settanta coppie su cento c' era adulterio, provocato dall' uomo almeno nell' 80 per cento dei casi. Il che suonava male, perché in genere se il maschio fa una scappatella si presume che si rivolga a una femmina, quindi non ci dovrebbe essere mai disparità fra adulteri in pantaloni e in gonnella, a meno che lui sia quasi sempre sposato e lei quasi sempre nubile. Ma è improbabile. Ora, nel 1988, non disponiamo di statistiche aggiornate. Ma recenti sondaggi, per quanto nei limiti di servizi giornalistici, ribadiscono i numeri portati da Caletti nel 1976, non escludendo, nelle zone industriali del Settentrione, picchi più elevati. Comunque, volendo essere prudenti e prendendo per buona la percentuale del 35 per cento, non si può dire che l' infedeltà sia un ramo marginale. E poiché nell' ultimo decennio la quantità dei divorzi e delle separazioni non ha subìto sostanziali variazioni, significa che permane - inossidabile - l' usanza di ritenere l' amante una specie di seconda casa, da frequentarsi il più possibile e con comodo, ma di rincalzo alla prima. Perché? A parere dell' avvocato Cesare Rimini, principe degli specialisti e nel cui studio di Milano si sono celebrate migliaia di rotture, riconciliazioni e nuove unioni, chi pure sia stufo del legame giuridico è restìo a troncarlo, e preferisce avere il piede in due scarpe, perché conviene: una moglie e un' amica costano meno di due mogli. Pochi hanno i mezzi per fare e disfare famiglie. Un impiegato che abbia lo stipendio di un milione e mezzo al mese, di solito è sposato con un' impiegata che percepisce altrettanto. E con tre milioni si campa discretamente. Se invece se ne va con un' altra, deve detrarre gli alimenti per i figli e rimane in bolletta. Chi glielo fa fare? Meglio barcamenarsi tra il letto istituzionale e quello di fortuna che, oltretutto, qualora si usuri si può rimpiazzare. Poiché i poveri e i non abbienti, per essere gentili, sono milioni e i ricchi appena qualche migliaio, ecco spiegato come mai il panorama abbonda di persone che non rinunciano all' amante gratis né alla moglie, che è più oneroso scaricare che conservare. Errata poi la convinzione che la comparsa di un terzo soggetto sia alla base delle crisi della coppia. Semmai è il deterioramento dell' unione legale che accende nei coniugi il desiderio di evadere.
IL DON GIOVANNI. Il colpo di fulmine è una favola e folgora soltanto chi ha una voglia matta di ardere. Intendiamoci, non manca il tipo predisposto all' incenerimento. O quello, per esempio l' egocentrico, che ha bisogno di molte fidanzate quale sostitutivo di una platea plaudente da cui trarre la conferma che piace e, quindi, la sicurezza di valere. Ma i don Giovanni costituiscono una categoria che meriterebbe non un articolo, bensì una biblioteca: e davanti a loro ci arrendiamo per inadeguatezza. Essi sono prodigiosi: fingono di infiammarsi e provocano ustioni serie negli altri, senza nemmeno scottarsi. Sono collezionisti insaziabili. E non vanno confusi con coloro che cambiano donna ogni anno, ma le sono fedelissimi fino al termine del breve idillio, che coincide con l' inizio di un ulteriore innamoramento. Sia i primi, sia i secondi tuttavia formano una minoranza. L' adultero per eccellenza è un ottimista che invecchiando diventa pessimista; che si illude di aver trovato nell' amante l' ideale compagna con la quale dividere emozioni inalienabili; poi, nella consumazione dei giorni, l' uno simile agli altri, si accorge che anche lei è come la moglie e come tale va compatita, una persona che si è appannata nella routine, non dà più alcun brivido, spesso scoccia, è un fardello che si aggiunge a un altro fardello. Ma alla quale ormai egli vuol bene. E non si sente di dirle addio: per pigrizia, per evitare scenate, per non soffrire, perché è più facile amministrare un garbuglio piuttosto che affrontare un chiarimento, perché è meno faticoso sopportare che decidere. E l' adultero cammina ad occhi chiusi su un sentiero in salita e lastricato di bugie. Bugie tranquillizzanti alla moglie e consolatorie all' amante in un intreccio che lo chiude in un sacco soffocante dal quale è ogni giorno più arduo liberarsi. Finché scoppia il bubbone. Se scoppia. Nel qual caso che cosa succede? Lo vedremo nel prossimo articolo. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri: il suicidio in diretta tv e la censura della Rai, il parallelismo con il coronavirus. Libero Quotidiano l'1 Marzo 2020. Pubblichiamo un articolo del gennaio 1987 scritto da Vittorio Feltri. Racconta la polemica che scoppiò in quei giorni dopo che la Rai tagliò l'immagine finale, la più macabra, del suicidio di Budd Dwyer, ministro del Tesoro della Pennsylvania, accusato di estorsione e corruzione. Le tv americane fecero, invece, la scelta di trasmettere il filmato integralmente. Allora, esattamente come oggi per il caso del Coronavirus, l'informazione finì sotto accusa. La morte in diretta: gli americani l' hanno vista, gli italiani no. Meglio per loro o per noi? La discussione è aperta; e, probabilmente, non si chiuderà mai, perché l' argomento è di quelli che spaccano in due, inconciliabilmente, e non consente mediazioni. Ieri la Rai si è trovata per le mani la patata bollente e ha deciso per la censura. Le cose sono andate così. Alle 5.30 l'équipe di Uno Mattina (il nuovo programma televisivo che va in onda alle 7.30) arriva in redazione. Cinque persone in tutto, compresi il conduttore, Piero Badaloni, e il responsabile Nino Criscenti. Come al solito, si dividono i compiti: lettura delle agenzie, dei giornali, telefonate di ricognizione. Ed ecco la sorpresa: i quotidiani riportano - testo e foto - la notizia del suicidio davanti alle telecamere di Budd Dwyer, ministro del Tesoro della Pennsylvania, disperato perché accusato di aver approfittato della sua carica per intascare dei soldi. Non è un fatto irrilevante. Bisogna trattarlo. Già. Ma come? I giornalisti televisivi ricorrono a "Evelina", definizione gergale del circuito interno che offre le immagini internazionali diramate da Bruxelles, dove ha sede una specie di banca mondiale dei servizi tv.
PEZZO PERFETTO. Il materiale è abbondante e fresco di giornata e, come previsto, contiene le agghiaccianti sequenze degli ultimi istanti di vita di Dwyer. Il "pezzo" è tecnicamente perfetto: la faccia del ministro occupa il video per intero, ha un' espressione tirata, l' angoscia è quasi palpabile. L' uomo parla concitatamente, reclama compassione, la propria innocenza; poi apre una valigetta 24 ore, estrae una busta gialla da cui toglie una pistola, se la porta alla bocca e preme il grilletto. Resta un attimo impietrito, gli occhi sbarrati; intanto, dalla scatola cranica, traforata dal proiettile, schizza in aria il cervello. Una scena che spacca lo stomaco, alla quale milioni di statunitensi hanno assistito. Badaloni e Criscenti si guardano attoniti: che fare, la diamo o no? Non c' è parecchio tempo per disquisire, e non è l' ora adatta per consultare i direttori. Chiamano i tre colleghi della loro squadra. Ognuno dice il suo parere. Infine, il conduttore e il responsabile fissano di trasmettere il filmato, tagliandone l' epilogo più macabro. La scelta viene lodata dai vertici Rai che ribadiscono: non si dà in pasto al pubblico l' orribile spettacolo della morte. E sia il Tg 1, sia il Tg 2 delle tredici e dintorni, si adeguano. Da notare che la Tv, puntualmente, ha avvertito gli utenti dicendo pressappoco: il servizio sul suicidio ce l' abbiamo, ve lo risparmiamo per ragioni morali. «Alle 8 - racconta Badaloni - i nostri centralini sono impazziti, sommersi dalle telefonate. Un funzionario ne ha contate 340 in una sessantina di minuti e ha accertato che il 70 per cento della gente concordava con l' amputazione delle immagini cruente. Per rispetto sia degli spettatori che del ministro. In netta minoranza, dunque, coloro che avrebbero preferito che il suo gesto assumesse caratteri di esemplarità, a costo di turbare l' animo popolare».
LE OPINIONI. Come si sarebbero comportati altri giornalisti? Ne abbiamo sentiti quattro che hanno esperienza televisiva.
Indro Montanelli: «Hanno fatto bene quelli dell' ente statale, meglio evitare certi spettacoli che hanno il potere di stimolare lo spirito di imitazione. Sono sicuro che, nel caso le immagini fossero andate in onda, oggi due o tre italiani avrebbero cercato di spararsi in diretta. C' è chi si ammazza perché crede di avere l' Aids: e questo la dice lunga sugli effetti che producono la stampa e il teleschermo. Occorre attenzione: perché è difficile valutare che cosa può scattare nella mente degli uomini dinanzi alla rappresentazione di fatti straordinariamente sconvolgenti. E poi, parliamoci con franchezza, l' orrore non aggiunge nulla alla verità».
Giorgio Bocca: «Il documento era eccezionale: io l' avrei proposto integralmente, perché sono dell' opinione che la realtà, bella o brutta che sia, vada mostrata senza maschera. Indubbiamente, la Rai ha dei problemi: fa un giornalismo misto, è un servizio pubblico con implicazioni politiche. Ma non capisco una cosa: perché abbiano tagliato il nastro. Sarebbe stato più corretto non trasmetterlo affatto che censurarlo».
Arrigo Levi: «Per dare un giudizio dovrei dare un' occhiata alla pellicola. Comunque i particolari macabri non mi piacciono, specialmente se gratuiti; se cioè non concorrono in misura decisiva alla comprensione di un episodio tragico, è bene eliminarli».
Enzo Biagi: «Sono sempre più convinto che il pubblico è molto meglio di quelli che intendono informarlo. Non vedo perché oggi la storia di un uomo che si sente calunniato e arriva alla decisione di sopprimersi (con tutti gli insegnamenti che comporta per la nostra categoria) non debba essere data agli utenti così com' è. Mi impressiona sempre l' idea dei giornalisti che fanno i mediatori, e nella presunzione di essere quasi Dio, o suoi ministri appositamente delegati, stabiliscono cos' è giusto per gli altri». Chi ha ragione? Calma. La partita è solo all'inizio. Vittorio Feltri
Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 4 febbraio 2020. Ci risiamo. Tutte le lezioni sulla libertà di parola; tutte le prediche sulla necessità di ascoltare «l'altro», soprattutto se dice cose su cui non siamo d'accordo; tutte le raccomandazioni sui pericoli della censura e del pensiero unico, alla fine servono a nulla. È da due giorni che sui social si trascina l'ultimo esempio di controllo preventivo, neppure delle idee (che si possono o non si possono diffondere), ma degli argomenti che si possono o non si possono toccare. Il caso: sabato il Foglio ha pubblicato una paginata di Giulio Meotti su una nuova biografia del medico nazista Josef Mengele in uscita negli Usa dal titolo Unmasking the Angel of Death, firmata non da un neonazista negazionista, ma da David Maxwell, ex direttore del Museo del patrimonio ebraico di New York (e che diede la caccia al famigerato «Angelo della morte» di Auschwitz). Ora, la titolazione del pezzo - in effetti - è al limite: «Professor Mengele. Non solo un assassino: i grandi scienziati del tempo facevano a gara per lavorare al suo fianco», e riprende, a volte letteralmente, una recensione del libro uscita sul Wall Street Journal (fatto che semmai dovrebbe elevare il tutto al di sopra di ogni ambiguità). Ma l'articolo di Meotti rimane molto interessante, dando conto di una biografia che «rilegge» (si chiama revisionismo storiografico, basato su nuovi documenti o diverse interpretazioni delle informazioni esistenti) la figura di Mengele, la quale molto ha ancora da dirci sull'humus in cui fiorì il nazionalsocialismo. Eppure, tanto è bastato. Haters, politici e noti intellettuali hanno attaccato pesantemente l'articolo del Foglio (senza leggerlo nella maggioranza dei casi) accusando l'autore, la testata e il direttore Claudio Cerasa di voler riabilitare - niente meno! - il medico nazista (figuriamoci, il Foglio e Meotti sono la prima fila della battaglia contro l'antisemitismo...). Di fatto l'articolo (ripetiamo: titolato in maniera infelice) racconta che Mengele studiò con due Nobel e i più grandi genetisti del tempo, che non era «uno scienziato pazzo» spuntato dal nulla ma un medico, figlio della «migliore» accademia tedesca, il quale usò la scienza in modo criminale e aberrante. L'articolo non riabilita e non fa sconti al boia Mengele. Ma niente. Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma, twitta che «Il Foglio ha sbagliato. Mengele era un assassino e nient'altro. Scusarsi è la cosa migliore da fare». La sindaca Virginia Raggi grida: «Vergogna!», e taciamo degli altri... Si chiama #shitstorm. È intervenuto anche Giuliano Ferrara, a difesa del suo giornale («Meotti ha scritto che Mengele non era diabolico per suo conto ma la perfetta incarnazione di uno scientismo eugenetico che trovava nell'inferno di Auschwitz il laboratorio delle sue idee progressiste»), tagliando alla sua maniera la testa agli #idiots digitali: «Chi parla di riabilitazione è un cretino ignorante». Ma non basta. Il Foglio ormai è filo nazista, e Meotti peggio di Pansa... Niente da fare. Di certe cose, anche se male, non si può parlare.
Il professore Mengele e il miliardo di aborti: tra ridicole accuse di riabilitazione e le altre ossessioni. Iuri Maria Prado de Il Rifomista il 5 Febbraio 2020. Un articolo abbastanza innocuo a firma di Giulio Meotti, pubblicato da Il Foglio, ha mobilitato qualche imbecille ad attribuire al giornale fondato da Giuliano Ferrara l’intento di riverniciare di qualche rispettabilità l’immagine oscena del criminale nazista Josef Mengele. L’articolo recava un titolo (“Professor Mengele”) magari discutibile, e un sommario forse evitabile dove aggiungeva: “Non solo un assassino”. Ma per il resto spiegava semplicemente che Mengele era uno con qualche buon accreditamento presso la comunità scientifica del tempo, e che i suoi atroci esperimenti non erano le bizzarrie clandestine di un apprendista stregone ma il compimento finale di impostazioni eugenetico-razziste tutt’altro che rinnegate dall’accademia imperante. Si può essere d’accordo o no, ma anche solo ipotizzare che Meotti e Il Foglio abbiano in tal modo inteso inaugurare una specie di negazionismo riabilitante (Mengele era un mostro, ma celebriamone la scienza) è men che da disonesti: è da imbecilli, appunto. La questione si sarebbe potuta risolvere così se Giuliano Ferrara non l’avesse tuttavia impugnata per rilanciare: e cioè per scrivere che la scienza che assisteva Mengele e che lui rappresentava, esercitandola da par suo ad Auschwitz, era dopotutto la stessa che oggi, neutramente trasfigurata nel campo indiscutibile del relativismo morale, governa «un mondo con un miliardo di aborti, figli scelti à la carte e selezione della razza». E qui davvero non ci siamo più. Ma non, come potrebbe obiettare un imbecille d’altro tipo, perché è blasfemo paragonare l’alambicco nazista all’aggeggio democratico che pone fine a una gravidanza o inventa il pargolo per la coppietta progressista sterile. Il punto non è questo, ed è giusto (ma anche assai banale) osservare che una medesima guarnizione scientista si rivolge a giustificare applicazioni accettabili o no secondo il gusto dei tempi: e tutte ugualmente sostenute dalla scientificità della guarnizione. Il punto, secondo me. è dunque un altro. È che la risposta al cosiddetto indifferentismo morale davanti al miliardo di aborti precipita infine, e non può essere diversamente, nella pretesa di usare la violenza contro la violenza dell’aborto. Che poi quella violenza sia fatta di carcere per la criminale, di cosiddetta obiezione di coscienza, di espedienti per rendere più difficile e doloroso il compimento del peccato, e cioè per impedire a queste streghe di sgravarsi spensieratamente, con una caramellina che ammazza il bambino del padre, perché anche lui, anche il padre, ha i suoi santi diritti a cominciare dal diritto di vedere il frutto della sua inseminazione, ecco, in tutti i casi cambia poco: c’è sempre di mezzo questo dettaglio rappresentato dal corpo delle donne, e cioè non una cosa ma una realtà animata inevitabilmente esposta a qualsiasi iniziativa di interferenza con la decisione serena o sofferta, con il diritto riconosciuto o negato, con il desiderio spontaneo o indotto, di non portare a termine la gravidanza. Giuliano Ferrara non è uno dei tanti forsennati che in questa sua onorevole ossessione lo seguono: ma deve sapere, e non può permettersi di trascurare, che il suo apostolato contro la supposta società mortifera dell’aborto leggiadro (ma dov’è?) è condiviso da quelli che vogliono impedire il ferro dell’aborto usando il ferro contro quella che vuole abortire. E infine: che un medesimo mantello di scienza è adoperato per avvolgere e promuovere l’argomento raccapricciante secondo cui un seme che buca un ovulo è una persona. E che quell’argomento scientificamente ammantato finisce sui cartelli “pro vita” agitati sotto le finestre degli ospedali dove si realizza il disegno perverso delle donne: che il bel corteo, cristianamente, chiama assassine.
Dagospia il 6 febbraio 2020. Dalla pagina facebook di Sandra Amurri. Senza una sola parola di commento. Sanremo. Monologo sulla libertà d informazione. È facile, non costa nulla e fa fare bella figura, e, forse, ma non ne ho certezza, fa anche percepire un buon compenso, oltre che poter sfoggiare un lungo abito da sera, citare dati e colleghi ammazzati nel mondo per non aver abbassato la testa al potere di turno. Penso alla mia amica del cuore Maria Grazia Cutuli, ai colleghi vittime di censure ecc...difficile è difendere i loro diritti quando sono vivi, quando vengono silenziati, quando subiscono ingiustizie che ledono la loro dignità e vengono lasciati soli... invece di mostrare indifferenza, di voltarsi dall altra parte per non compromettere il proprio orticello per poi vederlo fiorire arrivando anche a utilizzare proprio quelle stesse querele temerarie. A proposito di Emma D’ Aquino e delle querele temerarie, posso raccontare un fatto : è la sola collega ( io non ho mai querelato colleghi neppure quando mi hanno diffamata) che mi ha querelata (richiesta di archiviazione, lei si è opposta, processo, difesa dall Avv Andrea Di Pietro , sono stata assolta perché il fatto non sussiste) per aver scritto un articolo in cui riportavo un fatto senza neppure nominarla, un fatto riscontrato, cassetta depositata Proc de L’ Aquila) dal geologo Giampaolo Giuliani indagato, poi prosciolto, per procurato allarme ( art FQ del 19/06/2019 che allego). Chissà, magari in nome della libertà d informazione, cioè del diritto dei cittadini di essere informati, invece di querelare me sarebbe stato più opportuno spiegare pubblicamente perché quella cassetta, quel servizio quell intervista a Giampaolo Giuliani non fu mandata in onda e, magari se davvero le era stato imposto di farlo denunciare la censura subita. Così, magari a Sanremo, ieri sera , avrebbe potuto rendere più vero e toccante il monologo raccontando la sua esperienza personale di resistenza in nome della libertà d informazione.
Gianluca Roselli per "il Fatto quotidiano” il 7 febbraio 2020. Sulle liti temerarie, ovvero le azioni civili con richiesta di risarcimento danni nei confronti dei giornalisti, tutto di nuovo si blocca. La legge, si sa, dà fastidio a molti, soprattutto alle forze politiche, visto che con le nuove norme si limiterebbe assai il potere intimidatorio nei confronti della stampa. L' ultimo stop ha visto l' ok di quasi tutte le forze politiche, ma specialmente di Italia Viva, che ha chiesto, insieme ad altri, di agganciare la legge sulle liti temerarie a quella sulla diffamazione, entrambe in discussione in Senato. La legge sulle cause civili, proposta dal pentastellato Primo Di Nicola, è formata da un solo articolo: chi procede in sede civile contro un giornalista, se perde la causa può essere condannato a un risarcimento a partire dal 25% (fino al 100%) della somma richiesta. L' obiettivo è disincentivare tutti coloro che procedono per motivi pretestuosi, magari per puntare ai soldi. Cosa che negli ultimi anni è diventata un' abitudine da parte di molti. Il ddl Di Nicola, già approvato in commissione Giustizia, era pronto per essere votato, tanto che era stato calendarizzato per l' Aula il 16 gennaio scorso. Poi, come per magia, la legge è sparita. Provocando anche un piccolo giallo. Perché una norma su cui ufficialmente c' è l' accordo di tutti, pronta per essere approvata, è stata rinviata? La decisione è stata presa durante una riunione di capigruppo e giustificata col fatto che sarebbe meglio far viaggiare il ddl Di Nicola insieme alla legge sulla diffamazione del forzista Giacomo Caliendo, in questi giorni nell' occhio del ciclone per la questione dei vitalizi degli ex parlamentari. Le due leggi, in realtà, secondo un patto iniziale tra Pd e Forza Italia, all' inizio viaggiavano già insieme, poi, dato che la norma sulla diffamazione ha incontrato diverse difficoltà mentre l' altra procedeva spedita, si è decisa la separazione. Ora però, secondo diverse fonti per le insistenze di Italia Viva, i due procedimenti sono stati rimessi nello stesso calderone. Se non si sblocca l' una, non va avanti nemmeno l' altra. Il problema è che, così facendo, si rallenta il percorso del ddl di Primo Di Nicola, che si dice "contrariato e preoccupato". Il problema è che la legge sulla diffamazione è ancora in alto mare per via delle molte criticità sottolineate di recente dai rappresentanti dei giornalisti e degli editori, per una volta insieme in una battaglia comune. Perché, se da una parte viene tolto il carcere per i giornalisti, dall' altra vengono inseriti tutta una serie di lacci e lacciuoli - non ultimo l' aumento delle sanzioni anche pecuniarie - che limitano parecchio il lavoro dei cronisti e di chi fa inchieste. "La Caliendo così com' è non va", hanno sottolineato insieme Fnsi e Fieg. E sul testo ci sarà parecchio da lavorare, tanto più che dovrà andare alla Camera. Per questo agganciare le cause civili alla diffamazione equivale a gettare la palla in tribuna e a rallentare parecchio una norma che potrebbe essere già approvata. "È chiaro che a molti la legge sulle liti temerarie non piace, ma essa non deve diventare una merce di scambio con la Caliendo: io ti concedo qualcosa qui, tu mi dai qualcos' altro là. Anche se la materia è la stessa, sono due leggi diverse che possono, e a questo punto devono, viaggiare separate. Altrimenti c' è la sensazione che si voglia rallentare tutto", afferma Raffaele Lorusso, segretario della Fnsi. Nel frattempo il ddl Di Nicola è sparito dal calendario del Senato. E per ora, tra il decreto sulle intercettazioni e lo scontro sulla prescrizione, non ricomparirà.
Ilaria Proietti per "il Fatto quotidiano” il 7 febbraio 2020. Tra il 2011 e il 2017 le querele contro i giornalisti sono più che raddoppiate arrivando a sfiorare quota 9500 casi all' anno e il più delle volte hanno finalità intimidatoria. Secondo la fotografia scattata da Ossigeno per l' informazione sulla base di dati Istat infatti il 70 per cento delle querele per diffamazione a mezzo stampa finiscono con l' archiviazione per irrilevanza penale, tenuità del fatto, fatto non previsto come reato, infondatezza, assenza di condizioni per procedere in giudizio. Negli ultimi sei anni censiti si nota insomma una tendenza alla querela facile cresciuta in maniera esponenziale, mentre finora sono andati tutti a vuoto i tentativi di approvare una legge che sanzioni le liti temerarie che in questo settore hanno l' effetto di mettere il bavaglio ai giornalisti. Nel 2017 i giudici per le indagini preliminari hanno valutato 9479 querele per diffamazione a mezzo stampa aggravata dall' attribuzione di fatto determinato, archiviandone il 67 per cento: nel 2011 erano state 4524 con la stessa percentuale di archiviazioni. La stessa tendenza si ravvisa nelle condanne definitive: dalle 182 del 2014 alle 435 del 2017. Come anche per le sentenze definitive al carcere: dalle 35 (sei donne) del 2014 alle 64 (26 donne) del 2017 (in tutti i casi, con pena sospesa). Situazione identica per le condanne alla pena della multa: dalle 136 (28 donne) del 2014 alle 336 (99 donne) del 2017. Sono numeri che descrivono una condizione di attacco alla professione, denuncia da tempo Ossigeno per l' informazione che sottolinea anche un altro dato che riguarda sempre le condizioni di chi opera in questo settore: un altissimo tasso di impunità in Italia per gli autori di intimidazioni, minacce e abusi contro i giornalisti e pari al 96,7% nel 2019. Già qualche tempo fa il dossier di Ossigeno "Taci o ti querelo" ha cercato di mappare il fenomeno nel suo complesso analizzandone anche la portata economica: secondo il ministero della Giustizia nel solo 2015 i giornalisti hanno subito 911 citazioni per risarcimento con richieste danni per 45,6 milioni di euro. Cosa che ha spinto l' Associazione ad attivare un servizio di assistenza legale gratuita per contrastare il rischio dell' autocensura da parte dei giornalisti sotto processo. Un servizio rivolto a freelance, che per definizione non hanno un editore pronto a proteggerli anche legalmente e i giornalisti "orfani" dell' editore, cioè che originariamente avevano un editore con il quale ripartire le responsabilità penali e civili, ma lo hanno perso, perché ha cessato l' attività, in genere a causa della grave crisi che l' editoria sta attraversando a ogni livello. "Chi agisce anche nel modo più temerario non rischia assolutamente nulla nel nostro sistema penale, a meno che non gli venga contestato il reato di calunnia" si legge nel bilancio dei primi 5 anni di attività dell' Ufficio di assistenza legale gratuita di Ossigeno. "Tale forma di impunità, sebbene non sia illegale, non risulta meno odiosa e vessatoria rispetto ad altre manifestazioni di ingerenza nel libero esercizio del diritto di cronaca e di critica. Può senz' altro essere definita una forma lecita di impunità".
Fiorenza Sarzanini per il Corriere della Sera il 26 gennaio 2020. Accade ormai per ogni elezione e anche questa volta la smania di apparire ha avuto il sopravvento. Alle 8.44 di ieri Matteo Salvini già impazzava su Twitter per ringraziare emiliani e romagnoli e da quel momento non ha mai smesso di «postare» foto, video, messaggi sui social. La «Bestia» del leader leghista è entrata in azione, incurante degli attacchi del centrosinistra e dei timidi tentativi di risposta con tweet di Piero Fassino e di qualche altro sostenitore di Stefano Bonaccini. Il leader leghista ha parlato di elezioni, ha attaccato il governo sui migranti, sulle carceri. E nel pomeriggio si è rivolto ai calabresi con un appello fin troppo esplicito a votare il centrodestra «perché da lunedì si cambia». Quanto basta per chiedersi: ma che senso ha continuare a conservare questa legge sul silenzio elettorale? Nell'era dei social, dei politici che trascorrono ore a dialogare con i cittadini attraverso i «profili», è forse arrivato il momento di compiere una scelta concreta ed efficace in modo che nessuno sia penalizzato. La legge attuale vieta di parlare in tv o alla radio e invece non fa cenno a tutti gli altri mezzi di comunicazione. E già in passato i «richiami» dell' Agcom si sono rivelati un deterrente inefficace per chi fa propaganda a ogni costo e fino all'ultimo minuto. Dunque basta mettersi d' accordo, prendere atto che le norme in vigore appartengono ormai a un' altra epoca e cambiarle. Sarebbe sufficiente aggiungere «tutti i mezzi di comunicazione, compresi i social», all' articolo 9 della legge 212 del 1956. E prevedere sanzioni economiche - destinando i soldi alle necessità dei cittadini - per chi non lo rispetta. Se invece si ritiene che il divieto sia ormai inutile e obsoleto si potrebbe eliminarlo e consentire di parlare fino all' apertura delle urne. L' importante è fissare una regola e rispettarla. Tutti, senza alcuna esclusione.
L'ipocrisia del silenzio nell'era social. Rompere il silenzio elettorale? Scelta giusta. Francesco Maria Del Vigo, Domenica 26/01/2020, su Il Giornale. Non se ne può più del silenzio elettorale. Sbraitano sguaiatamente per tre mesi di campagna elettorale e poi pensano che cambi qualcosa con 48 ore di bocche cucite. Ogni tornata elettorale - quindi ogni quattro o cinque mesi, visto che in Italia si vota in continuazione per poi avere governi eletti da nessuno - puntuale come una cartella di Equitalia arriva la polemica sul silenzio elettorale. «Salvini ha parlato, la sua Bestia non si ferma mai», hanno tuonato ieri gli esponenti del Pd contro il leader leghista. Che in effetti ha parlato, anzi, per la precisione, ha cinguettato le solite cose: grazie amici dell'Emilia Romagna e della Calabria, basta sbarchi, serve più sicurezza nelle città e poi ovviamente gli immancabili bacioni e abbraccioni per tutti. Stesso canovaccio anche sui suoi profili Facebook e Instagram. Il deputato di Italia Viva Michele Anzaldi salta sulla sedia col ditino alzato e rincara la dose: «Gravissima violazione del silenzio elettorale da parte di Salvini: in queste ore tweet e post a ripetizione di propaganda su voto Emilia Romagna e Calabria. Ex ministro dell'Interno che non rispetta leggi è doppiamente grave. Ennesimo tentativo di falsare competizione, dopo abusi Rai». Come se i cittadini fossero tutti imbecilli e un tweet che ripete per l'ennesima volta le stesse cose, potesse cambiare l'esito di una lunga e intensissima campagna elettorale. Ma le accuse rimbalzano da una parte all'altra e anche lo staff della Lega accusa i democratici di aver interrotto la pausa propagandistica. «Poiché Bonaccini del Pd, contravvenendo alle norme elettorali, non ha disattivato le inserzioni a pagamento alla mezzanotte di ieri, abbiamo deciso di procedere alla riattivazione delle nostre, in attesa di chiarimenti», ha fatto sapere il Carroccio con una nota ufficiale pubblicata su Facebook. Tiriamo alcune conclusioni 1) l'unico evidente risultato del silenzio elettorale è che ha scatenato un rumorosissismo casino tra i due schieramenti; 2) il silenzio elettorale nel 2020 non ha più alcuna utilità. Deve essere abolito. Poteva avere senso, forse, quando le campagne elettorali erano monopolizzate dalle tribune politiche in televisione e dalle interviste sui quotidiani. Ma nell'era della disintermediazione, di Facebook, di Instagram, di Trump che cinguetta 132 volte in un giorno, come possiamo pensare di tappare la bocca ai politici? Non importa chi abbia rotto per primo questo benedetto silenzio - se abbia iniziato la Lega e il Pd - chiunque sia stato ha fatto bene. Ormai basta un qualunque profilo sociale, e financo un citofono, per comunicare con il resto del mondo. Sarebbe il caso di rompere il muro dell'ipocrisia e silenziare il silenzio.
La sinistra censura i nostri caduti. Rifondazione contro la presentazione del libro della Giannini. IlGiornale, Sabato 25/01/2020. La sinistra censura anche i caduti dell'Afghanistan. Questa sera a Ghedi (Brescia) la nostra collaboratrice Chiara Giannini presenterà il suo libro «Come la sabbia di Herat» (Altaforte edizioni), con la prefazione del direttore Alessandro Sallusti, che parla appunto dei militari che hanno perso la vita in quella terra. La levata di scudi è arrivata da «Rifondazione comunista» e «Insieme a sinistra» che hanno scritto al sindaco Federico Casali dicendo che l'evento «sa di provocazione». In una lunga lettera hanno puntualizzato che «il 27 gennaio ricorre la giornata per commemorare le vittime dell'Olocausto. Siamo rammaricati - gli hanno precisato - che lei abbia presentato un libro edito da una casa editrice afferente a un mondo culturale come quello di Casapound. Un conto è il leader di un partito politico, un conto quando il signor Casali diventa il sindaco di Ghedi. Lei sotto la veste di primo cittadino deve garantire noi tutti». L'amministratore ha risposto senza mezzi termini: «Io non sono il censore di nessuno». Anche perché i proventi del libro serviranno per realizzare una targa in ricordo di chi ha perso la vita per la Patria. La contestazione ha fatto arrabbiare i genitori dei caduti. «Non voglio entrare nel merito della polemica - ha chiarito Anna Rita Lo Mastro, mamma del Caporal maggiore David Tobini morto in Afghanistan - , né fare inopportuni parallelismi. Al di là di ogni posizione, posso solo ribadire che sulle divise cadute non ci deve essere nessuna strumentalizzazione politica. Rispetto è l'unica cosa che chiedono i familiari dei caduti. Ho dato un figlio alla Patria, bene incommensurabile solo per chi ha provato, non certo per chi si permette tali polemiche». E prosegue: «Sono basita non solo per il non rispetto verso chi ha perso la vita, ma soprattutto per chi a loro è sopravvissuto e resta a guardare ed ad ascoltare queste vergognose strumentalizzazioni». Concetto ribadito anche da Rosa Papagna, mamma di un altro caduto, Francesco Saverio Positano: «Mio figlio, quando è partito per l'Afghanistan è andato per sconfiggere il terrorismo e a fare il suo dovere e oggi non c'è più. Il libro non ha colore politico. Ora apprendo che Rifondazione lo vuole censurare. A queste persone voglio solo dire vi dovete vergognare. La memoria e la vita non sono né di destra né di sinistra».
Gail Dines, Professoressa di Sociologia al Wheelock College, per “The Conversation”, tradotto e pubblicato da “Business Insider Italia” il 22 gennaio 2020. Oggi, gli adolescenti guardano molta più pornografia di quanto i loro genitori si rendano conto. E questa pornografia è molto più “hardcore” di quanto mamme e papà possano immaginare. Queste sono le conclusioni principali di “What Teenagers are Learning From Online Porn”, un articolo di Maggie Jones sul New York Times diventato in poco tempo uno dei più letti e condivisi negli ultimi tempi. Mentre la cosa potrebbe sorprendere molti genitori che magari immaginano il porno come un semplice nudo su un paginone centrale, non ha sorpreso ricercatori come me che sono immersi nel mondo del porno mainstream. Sappiamo quanto sia diventata violenta, degradante e misogina la pornografia, e conosciamo anche le implicazioni per la salute emotiva, fisica e mentale dei giovani. Nello sforzo di comprendere meglio il problema, l’attivista femminista Samantha Wechsler ed io abbiamo indagato sul problema parlando direttamente con i genitori. La domanda che ci veniva fatta più spesso era: “Cosa possiamo fare in proposito?”.
Il porno hardcore è ovunque. I sondaggi e la nostra esperienza diretta dimostrano che i genitori sono estremamente preoccupati per il facile accesso al porno tramite i vari dispositivi elettronici. La statistica dipinge un quadro a tinte fosche. Un recente studio britannico ha scoperto che il 65% dei ragazzi tra i 15 e i 16 anni fa un uso quotidiano della pornografia, con la grande maggioranza che diceva di aver iniziato ad usufruirne dai 14 anni. Dato allarmante, dato che le scoperte di un altro studio stabiliscono una correlazione tra esposizione prematura alla pornografia e desiderio espresso di esercitare potere sulle donne. Ma nonostante tutte queste preoccupazioni, i genitori non hanno assolutamente idea di come si presenti il porno, di quanto vi accedano i loro figli e del modo in cui influisce su di loro. L’articolo del Nyt citava un sondaggio del 2006 dal quale traspariva che molti genitori sono del tutto ignari delle esperienze dei propri figli con il porno. Jones definiva questa situazione “scarto d’ingenuità genitoriale”. Situazione che dà ragione ai nostri studi. Nelle presentazioni che facciamo nei licei, chiediamo ai genitori cosa viene loro in mente quando sentono la parola “porno”. Di solito descrivono una ragazza nuda con un sorriso malizioso, il genere di immagine che ricorda i paginoni centrali di Playboy. Rimangono scioccati quando vengono a sapere che le immagini dei siti porno attualmente più trafficati, come Pornhub, ritraggono atti quali donne con un pene eretto fino in gola (gagging) o molti uomini che penetrano ogni orifizio di una donna per poi eiacularle in faccia. Quando riferiamo queste cose ai genitori, il cambio di atmosfera nella stanza diventa palpabile. Spesso c’è un sussulto collettivo. Vale la pena ripetere che si tratta dei siti porno più visitati, quelli che ogni mese registrano più visitatori di Netflix, Amazon e Twitter messi assieme. Solo Pornhub è stato visitato 21,2 miliardi di volte nel 2015. Ana Bridges, una psicologa della University of Arkansas, ha scoperto insieme al suo team che l’88% delle scene dei 50 film porno più noleggiati contengono aggressioni fisiche contro le protagoniste femminili, mentre il 48% comprende abusi verbali.
Le ripercussioni sulla salute. Oltre 40 anni di ricerche da parte di varie discipline hanno dimostrato che la visione di pornografia, indipendentemente dall’età, è associato a effetti nocivi. E ci sono studi che dimostrano che più bassa è l’età di esposizione, maggiore è l’impatto in termini di definizione dei modelli, dei comportamenti e degli atteggiamenti. Uno studio del 2011 sugli universitari americani ha scoperto che l’83% riferiva di aver guardato pornografia maintream nei dodici mesi precedenti e che quelli che lo facevano avevano maggiori probabilità di affermare che avrebbero commesso uno stupro o un abuso sessuale (se fossero sicuri di non venire scoperti) rispetto agli uomini che dicevano di non aver visto porno. Un altro studio su adolescenti ha scoperto che un’esposizione prematura al porno era correlata al commettere molestie sessuali nei due anni successivi. Condotta sulla base 22 sondaggi, una delle analisi più citate concludeva che il consumo di pornografia è associato ad una maggiore probabilità di commettere atti di aggressione sessuale verbale o fisica. E uno studio su studentesse universitarie ha scoperto che le giovani donne i cui compagni facevano uso di pornografia provavano minore autostima, una qualità minore della relazione e minore soddisfazione sessuale.
Inizia tutto con i genitori. Temendo per il benessere dei propri figli, i genitori che hanno partecipato alle nostre presentazioni, a Los Angeles, Oslo o Varsavia, hanno avuto l’impulso di correre a casa per discutere con i propri figli. Ma in realtà non hanno la minima idea di cosa dire, come dirlo o come comportarsi con un ragazzo che preferirebbe trovarsi in qualsiasi altro posto al mondo piuttosto che essere seduto di fronte ai propri genitori a parlare di pornografia. Al tempo stesso, però, le ricerche sulla sanità pubblica dimostrano che i genitori sono la prima linea di prevenzione nell’affrontare i principali problemi sociali che colpiscono i figli.
Allora, cosa si può fare? La maggior parte degli attuali sforzi si concentra sugli adolescenti stessi e sulla loro educazione al sesso e ai pericoli del porno. Anche se è fondamentale avere dei programmi di qualità per gli adolescenti che sono già stati esposti, si tratta pur sempre di cercare di recuperare il danno piuttosto che prevenirlo. Per cui, un team di docenti universitari, esperti di sanità pubblica, educatori, pediatri e psicologi dell’età evolutiva – noi compresi – ha passato due anni mettendo insieme le ricerche allo scopo di creare un programma che aiuti i genitori a diventare quella vitale prima linea di difesa. Ecco perché è stata istituita Culture Reframed un’organizzazione no-profit inizialmente concentrata sui genitori di adolescenti orientata a una domanda fondamentale: Come prevenire l’esposizione dei ragazzi a immagini di abusi e degradazione sessuali nella fase di formazione dell’identità sessuale? Ne è scaturito un programma in 12 moduli che introduce in successione i genitori a cambiamenti nello sviluppo – emotivo, cognitivo e fisico – cui gli adolescenti vanno incontro e alla cultura ipersessualizzata che modella tali cambiamenti ed è lo sfondo delle vite degli adolescenti. Ad esempio i ragazzi imparano dai video musicali, dai videogame violenti, dai media mainstream e dal porno che gli “uomini veri” sono aggressivi e non hanno empatia, che il sesso corrisponde a conquista e che per evitare di subire il bullismo devono indossare la maschera della mascolinità. D’altro canto, le ragazze imparano che devono apparire “sexy” per essere viste ed essere passive come le principesse dei cartoni animati, arrivando a considerarsi degli oggetti fin dalla giovane età.
Navigare nel terreno minato del porno. Aiutare i genitori a cogliere il livello a cui le immagini ipersessualizzate modellano i propri figli li incoraggia a capire, piuttosto che a giudicare, perché loro figlia vuole assomigliare a una delle Kardashian o perché loro figlio, annebbiato dall’ipermascolinità, rischia di perdere le proprie capacità empatiche e relazionali. La cosa aiuta i genitori ad accostarsi ai figli con compassione piuttosto che con frustrazione e rabbia, rischiando di minare il rapporto genitore-figlio. È davvero complicato attraversare tutti i campi minati della tossicità della cultura pornografica attuale – dal sesso telefonico e la scarsa autostima alla pressione sociale. Ai genitori serve tutto l’aiuto possibile. Ma, in definitiva, il progetto Culture Reframed si occupa di molte altre cose oltre a fornire ai genitori una fiducia e della capacità ritrovate. Si occupa di riprendere il potere dall’industria del porno, che cerca di sequestrare la sessualità e l’umanità dei ragazzi in nome del profitto e ridarlo ai genitori.
Da ansa.it il 18 gennaio 2020. L'Ue starebbe considerando di mettere al bando il riconoscimento facciale nei luoghi pubblici per un massimo di 5 anni, finchè non si saranno trovate nuove regole per tenere sotto controllo rischi e privacy. Lo riportano i siti di Reuters e Politico.com. Il piano dell'Europa, in 18 pagine, arriva in un momento di forte dibattito specie negli Usa sull'uso dell'Intelligenza artificiale per scopi di sicurezza. Il piano, atteso per il prossimo mese, prevede che i paesi Ue anche speciali autorità che monitorino le regole. Nel documento, visionato da Reuters e Politico.com, la Commissione europea scrive che vanno introdotte nuove regole per sostenere quelle attuali che riguardano la privacy e la protezione dei dati personali: "Le regole future devono andare oltre quelle attuali e includere un bando limitato nel tempo per il riconoscimento facciale nei luoghi pubblici". Durante il bando, da tre a cinque anni, deve essere "identificata e sviluppata una solida metodologia per valutare gli impatti di questa tecnologia e le possibili misure di gestione dei rischi". Eccezioni al divieto potrebbero essere fatte per i progetti di sicurezza, per la ricerca e lo sviluppo, afferma il documento. Che suggerisce anche di imporre obblighi sia agli sviluppatori sia agli utenti sull'intelligenza artificiale, i paesi dell'Ue inoltre dovrebbero nominare autorità per monitorare le nuove norme.
Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 22 gennaio 2020. Facebook rispondeva di non ritenere di dover intervenire, e il Garante della Privacy rispondeva di non ritenere di poter intervenire: ma adesso il Tribunale civile di Milano accoglie il ricorso di due ragazze adottate, che lamentavano il destabilizzante «trattamento illecito dei loro dati personali» operato dal padre biologico sulla propria bacheca pubblica di Facebook, dove chiedeva agli utenti di aiutarlo a rintracciarle nelle loro nuove vite e famiglia adottiva. E in riforma del diniego del Garante della Privacy, per la prima volta il Tribunale ordina alla casa madre europea Facebook Ireland Ltd di rimuovere e bloccare tutti quei messaggi contenenti appunto i dati personali delle due figlie naturali, facilmente reperibili anche con il semplice utilizzo di qualunque motore di ricerca. Un giorno che, come tante minorenni, curiosava su Facebook cosa uscisse abbinato al proprio nome e alla data di nascita, la ragazza - tolta tanti anni fa al padre biologico per gravi problemi familiari e data in adozione a un' altra famiglia insieme alla sorella maggiore - viene reindirizzata sul profilo pubblico Facebook (quindi da chiunque consultabile) di un uomo che, definendosi come il loro padre biologico, va cercandole chiedendo aiuto agli internauti: «Mi rivolgo a voi utenti di Facebook... Mi chiamo... e vivo nel paese di... vicino a...Tanto tempo fa mi sono state adottate due figlie», e giù nomi e date e luoghi di nascita di entrambe: «Sono state adottate per diversi problemi familiari, ma ora mi mancano, vorrei che sapessero che hanno un padre e una madre diversi da quelli che hanno...Quindi se poteste condividere questo messaggio mi dareste una mano...». Le due sorelle, «già affette da specifiche fragilità», stando anche alle relazioni psicologiche accusano il colpo, e specie la minorenne appare «destabilizzata» e «confusa» e «disturbata». Non vuole assolutamente attivare la speciale procedura che consente a chi è stato adottato di chiedere ai giudici di sapere chi fossero i propri genitori biologici (procedura che al contrario non è possibile al genitore biologico): anzi «ha paura di andare a scuola per timore di essere intercettata lungo il tragitto dall' uomo», e pure i genitori adottivi temono lo sconvolgimento del proprio equilibrio dovuto alla ora facile identificabilità e raggiungibilità del nuovo nucleo familiare. Il primo passo legale è chiedere allora a Facebook la rimozione dei post con i dati personali delle ragazze divulgati dall' uomo senza il loro consenso, ma l' algoritmo del social network risponde asetticamente che «abbiamo esaminato il post che hai segnalato e non viola i nostri standard della community». Ovvio, non contiene parole di violenza o sesso o discriminazione razziale, eppure è paradossalmente più violento di esse per una ragazza che da un post su Facebook apprende in teoria chi sia suo padre biologico, non vuole rischiare di incontrarlo, ed è sconvolta dall' idea che nel proprio territorio e a scuola e tra gli amici possa essere disvelata una parte così sofferta e intima della propria esistenza. Il secondo passo legale è allora chiedere di intervenire all' Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, il cui collegio respinge però il ricorso con la motivazione che «la fattispecie descritta non appare riconducibile nell' ambito delle finalità della legge 71 del 29 maggio 2017» sul cyberbullismo, giacché i post del padre biologico non avrebbero (come invece pretende l' articolo 1 della legge) «lo scopo intenzionale e predominante di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo». La ragazzina, al pari dei genitori adottivi parimenti in ambasce, con gli avvocati Grazia Ofelia Cesaro e Annamaria Pedroni impugnano allora il diniego del Garante della Privacy davanti al Tribunale civile di Milano. E qui la giudice della I sezione Martina Flamini, all' esito di udienze nelle quali chiama in causa come terzi (rimasti però contumaci) sia Facebook Italia sia la casa madre europea che sta in Irlanda, emette una sentenza che «accerta che i messaggi sulla bacheca pubblica» del padre biologico «costituiscono trattamento illecito dei dati personali delle figlie naturali», idonei a identificarle; e, in riforma del provvedimento del Garante, «ordina a Facebook Ireland Ltd la rimozione e il blocco di tutti i messaggi». In attesa delle motivazioni tra 60 giorni, dal dispositivo si intuisce che anche il Tribunale abbia ritenuto inservibile l' apparato sanzionatorio della legge di due anni fa sul cyberbullismo a causa del tenore letterale del suo articolo 1 (quello che appunto seleziona le condotte punibili solo attraverso gli «occhiali» della loro finalità o meno di «voler isolare» le vittime minorenni), ma nel contempo abbia ravvisato quantomeno lo sfondamento della trincea minima del trattamento illecito dei dati personali della minorenne.
Il documento deve essere sottoposto ad un vaglio prima della decisione finale. Il commissario europeo per l'Antitrust Margareth Vestager dovrebbe presentare la proposta il prossimo mese. La sinistra e la sindrome della scissione. Karen Rubin, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale. Alessandro Sallusti l'ha definita la Repubblica dell'odio, l'omonimo giornale e l'area politica conforme. Quella che inveisce contro Salvini chiedendone la cancellazione, mascherata da innocua e pacifica sardina. Fin qui si configura una concorrenza sleale, timore o repulsione per l'avversario politico, ma quando le vittime degli strali sono Gianpaolo Pansa appena deceduto o Craxi, morto ormai vent'anni fa, ribadendo finanche il diritto alla sua umiliazione, al pubblico ludibrio, con il lancio delle monetine, si può ipotizzare che ci siano sentimenti che non ineriscono alla competizione politica e alla difesa degli ideali di cui i personaggi in questione si ritengono eroici paladini. La sinistra fa un uso massiccio di meccanismi di difesa. Sono operazioni mentali per proteggere se stessi dall'angoscia, quando i fatti dimostrano che l'integrità e la superiorità morale di cui ci si fregia non esiste e non gli è più riconosciuta. Se gli elettori non votano a sinistra sono populisti animati dal nemico o convinti da menzogne di destra e quindi come ironizzava Brecht, ma con convinzione, se il popolo non è d'accordo bisogna nominare un nuovo popolo. L'artista per conservare la sua autostima scarica sul prossimo la responsabilità del suo fallimento attribuendogli la sua incapacità. Quando di fronte alla corruzione che coinvolge suoi esponenti reagisce fingendo che non sia vera o ancora da accertare mentre ne accusa l'avversario usa il meccanismo della negazione. Di fronte ai gravi fatti di Bibbiano hanno usato la scissione: considerare se stessi e gli altri come completamente buoni o cattivi, senza la capacità di integrare aspetti positivi e negativi nel rispetto della verità. E allora hanno accusato la destra di strumentalizzare i bambini a scopi politici mentre il sistema corrotto e consolidato da anni da un potere da loro attribuito era da discolpare perché non poteva essere cattivo ma soltanto buono. Onnipotenza del pensiero per cui anche se non risolvono la vita ad un solo immigrato sono soltanto loro i difensori del più debole. Sono gli altri ad essere razzisti mentre alimentano un antisemitismo mascherato da antiosionismo. Un'ossessione per certi temi grazie ai quali esibire un moralismo pari alla loro malcelata aggressività. Più che cambiare nome avrebbero bisogno di una terapia psicoanalitica che gli aiuti a ritrovare se stessi e la loro identità al di là di idealizzazioni e manifestazioni di superiorità politica e culturale cui non credono più gli elettori ma in fondo neanche loro.
Da repubblica.it il 22 gennaio 2020. Per il governo americano era già diventato un "nemico pubblico", per aver raccolto le rivelazioni di Edward Snowden sulla sorveglianza di massa operata dall'agenzia federale National Security Agency sui cittadini di mezzo mondo. Ora Glenn Greenwald finisce nel mirino del Brasile, dove il giornalista investigativo americano vive da anni con il marito, e dove sta conducendo un'inchiesta esplosiva su magistrati e alti funzionari del governo di Jair Bolsonaro, potenzialmente devastante per la credibilità della lotta alla corruzione nel Paese. Al centro dell'inchiesta di Greenwald c'è l'attuale ministro della Giustizia, Sergio Moro, all'epoca magistrato capo nell'indagine sul più grande caso di corruzione del Brasile, il "Lava Jato" (autolavaggio) in cui venne coinvolto l'ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva e che poi ne portò all'incriminazione e all'arresto. La procura federale brasiliana, scrive il New York Times, ha messo sotto accusa Greenwald per associazione a delinquere, proprio nell'investigazione avviata dopo la pubblicazione sul suo sito The Intercept di una serie di scambi di messaggi tra Moro e il pool che conduceva l'inchiesta anticorruzione, e da cui emergeva la stretta connivenza tra il magistrato incaricato di garantire l'imparzialità dell'inchiesta e gli accusatori della procura. Negli scambi, hackerati dai telefoni privati di Moro e del procuratore Deltan Dallagnol, emergeva una cooperazione tra alte cariche dello Stato per arrivare alla condanna e alla carcerazione di Lula in modo da impedirgli di partecipare alle elezioni, poi vinte dal candidato di estrema destra Bolsonaro. Lo stesso che ora sta tentando di mettere a tacere i giornalisti che hanno rivelato lo scandalo. "Non ci faremo intimidire da questi tentativi tirannici di silenziare i giornalisti - ha detto Greenwald in una dichiarazione alla stampa - Il governo Bolsonaro e il movimento che lo sostiene hanno più volte dimostrato di non credere nelle basilari libertà di stampa, a partire dalle minacce del presidente contro la Folha (giornale di San Paolo, di cui Bolsonaro ha chiesto il pubblico boicottaggio, ndr), ai suoi attacchi ai giornalisti che hanno provocato violenze, fino alle minacce di Sergio Moro di considerarci 'alleati degli hacker' per aver rivelato la sua corruzione". Greenwald è accusato di associazione a delinquere con un gruppo di sei persone che sono state incriminate per aver hackerato i telefoni dei funzionari, oltre che di frode bancaria e riciclaggio. Greenwald sostiene che il contenuto dei messaggi era stato rivelato a The Intercept dopo l'estrazione degli stesi dai telefoni di Moro e Dallagnol, ma la procura federale dice di essere in possesso di audio in cui Greenwald parla con gli hacker mentre le loro operazioni erano ancora in corso. "Non ho fatto altro che il mio lavoro, eticamente e nei confini della legge". Non è ancora chiaro se il giornalista verrà o meno incriminato o cosa rischi penalmente. Ma sul suo caso si stanno già mobilitando molti giornalisti, associazioni per i diritti umani come Human Rights Watch e di difesa dei diritti civili, come la American Civil Liberties Union, che denunciano la pesante interferenza di Bolsonaro sulla libertà di stampa. E a scendere in campo per lui, tra i primi, è stato proprio Edward Snowden, l'ex contractor della Nsa che con le sue rivelazioni nel 2013 fece scoppiare lo scandalo della sorveglianza delle agenzie di sicurezza Usa su cittadini e governi di mezzo mondo. In un tweet, Snowden definisce quella di Bolsonaro una "cruda rappresaglia" e una minaccia al giornalismo investigativo in Brasile: "Questi attacchi sono incredibili, non sostanziati e indifendibili".
Stati Uniti, Chelsea Manning tenta il suicidio in carcere: "È stata trovata in tempo, le sue condizioni sono stabili". L'ex analista è in prigione da maggio 2019 per essersi rifiutata di testimoniare davanti al grand jury che indagava sul caso Wikileaks. Domani avrebbe dovuto presentarsi alla corte federale ad Alexandria, in Virginia, per rispondere dell'accusa di oltraggio alla giustizia. La Repubblica il 12 marzo 2020. Il team legale di Chelsea Manning ha dichiarato che l'ex analista dell'intelligence ieri ha tentato il suicidio ma è stata trasportata in un ospedale dove si sta riprendendo. Lo sceriffo di Alexandria, Dana Lawhorne, ha dichiarato: "C'è stato un incidente oggi alle 12,11 circa presso il centro di detenzione per adulti di Alexandria che ha coinvolto la detenuta Chelsea Manning. È stato gestito in modo appropriato dal nostro personale professionale e la sig.ra Manning è al sicuro". Manning è in prigione da maggio 2019 per essersi rifiutata di testimoniare davanti al grand jury che indagava sul caso Wikileaks. Domani avrebbe dovuto presentarsi alla corte federale ad Alexandria, in Virginia, per rispondere dell'accusa di oltraggio alla giustizia. Andy Stepanian, portavoce della squadra legale di Manning, ha dichiarato che Manning "rimane irremovibile" nel suo rifiuto di non comparire. "Nonostante le sanzioni che finora hanno incluso oltre un anno di carcere e quasi mezzo milione di dollari di multa - rimane incrollabile nel suo rifiuto di partecipare a un processo a porte chiuse che considera ad alto rischio di abuso", hanno dichiarato i suoi avvocati in una nota. "Manning ha precedentemente indicato che non tradirà i suoi principi, anche a rischio di subire gravi danni". Nella mozione presentata il mese scorso, gli avvocati di Manning hanno sostenuto che durante la sua incarcerazione Manning aveva dimostrato di non poter essere costretta a testimoniare davanti al gran jury. Nel 2010, Private Manning, l'ex soldato Manning, aveva fatto trapelare più di 700mila documenti riservati relativi alle guerre in Iraq e in Afghanistan, grazie a WikiLeaks, inclusi oltre 250mila documenti diplomatici che avevano imbarazzato gli Stati Uniti. L'ex analista dell'intelligence era stato condannato nel 2013 a 35 anni di carcere da una corte marziale, ma la sua condanna è stata commutata dal presidente Barack Obama. È stata rilasciata nel maggio 2017 dopo sette anni di prigione, durante i quali ha iniziato la sua transizione verso il sesso femminile. Chelsea Manning, nato con il nome di Bradley, è diventato anche un'icona delle persone transgender.
WikiLeaks, un giudice ha disposto il rilascio di Chelsea Manning. Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Chiara Severgnini. Un giudice federale ha ordinato la scarcerazione immediata di Chelsea Manning, che dovrà però pagare una multa di $256.000. La fonte di Wikileakes ed ex soldato dell’esercito Usa è in prigione dallo scorso maggio per oltraggio alla corte, perché si rifiuta di testimoniare nell’ambito dell’inchiesta sulla società di Julian Assange. L’ex analista militare ieri è stata ricoverata dopo aver tentato il suicidio, come hanno reso noto i suoi legali. «La sua azione mostra la forza delle sue convinzioni ma anche il male che continua a soffrire a causa del suo isolamento», hanno fatto sapere i suoi difensori in una nota. I legali di Manning avevano chiesto che la sanzione — 500 dollari per ogni giorni di oltraggio alla corte, poi diventati 1000 al giorno — venisse stralciata, ma il giudice non ha approvato questa richiesta. Quella dell’ex analista dell’intelligence militare Usa, poi talpa di WikiLeaks e attivista, è una vicenda che da sempre provoca sdegno in parte dell’opinione pubblica, oltre che l’ira delle associazioni per la difesa dei diritti civili, che parlano senza giri di parole di violazione dei diritti umani. Manning nel 2010 ha fatto avere a WikiLeaks più di 300 mila documenti riservati dell’esercito statunitense che rivelano gravi inadempienze delle autorità Usa nel perseguire abusi, torture e violenze perpetrate durante la guerra in Iraq. Arrestata pochi giorni dopo, è stata condannata dalla Corte Marziale a 35 anni di carcere. Subito dopo la sentenza, Manning ha annunciato di voler intraprendere il percorso di transizione di genere e ha chiesto di essere chiamata Chelsea, e non più Bradley. Nonostante questo, è stata rinchiusa in un penitenziario maschile e le è stato consentito di iniziare la cura ormonale solo nel 2015. In carcere, Manning ha tentato il suicidio più volte ed è stata sottoposta a forme di isolamento che l’Onu ha condannato. Nel 2017, Obama le ha concesso la grazia e Manning è uscita di prigione, salvo poi ritornarci nel 2019, prima per 62 giorni e poi ancora, da maggio fino alla scarcerazione odierna. Sempre per lo stesso motivo: il suo rifiuto a testimoniare contro Julian Assange. «Muoio di fame piuttosto che cambiare idea», aveva dichiarato la stessa Manning.
Monica Ricci Sargentini per il ''Corriere della Sera'' il 7 settembre 2020. Non vorrebbe parlare della sua storia d' amore con Julian Assange e dei due figli nati mentre lui era rifugiato nell' ambasciata ecuadoriana a Londra ma Stella Moris, avvocata 37enne di origine sudafricana con in tasca una cittadinanza svedese e una spagnola, è costretta a rompere il riserbo nella speranza che l' esistenza di questa famiglia sui generis possa evitare al compagno l' estradizione negli Stati Uniti. «Per lui sarebbe una sentenza di morte e per noi qualcosa di simile. I miei figli rimarrebbero senza padre e io perderei l'uomo che amo per sempre» dice in una lunga intervista di Kirsty Lang pubblicata ieri sul magazine del Sunday Times . Le udienze per l' estradizione riprenderanno oggi dopo la sospensione dovuta al coronavirus e andranno avanti per quattro settimane ma bisognerà aspettare più a lungo per avere la sentenza. Se sarà processato negli Stati Uniti il fondatore di Wikileaks rischia una condanna a 175 anni di carcere sulla base di 18 capi di imputazione dopo la pubblicazione sul suo sito, fra il 2010 e il 2011, di documenti riservati, ottenuti illegalmente, riguardanti le guerre in Iraq e in Afghanistan. Gabriel, 3 anni, è la copia di Julian. Biondo, occhi azzurri spalancati sul mondo, prende in mano il telefono per parlare con il padre che è rinchiuso dall' 11 aprile 2019 nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh nel sud-est di Londra. Si dicono poche parole, poi il bimbo corre via. L' altro figlio, Max, 19 mesi, ha potuto vedere il papà per la prima volta ad aprile 2019 in carcere dove, però, è vietato il contatto fisico: «Per lui è solo una voce senza corpo. È stato crudele non poterlo abbracciare». Julian e Stella si sono conosciuti nel 2011 quando lei è entrata a far parte della squadra legale che doveva difendere l' attivista da due accuse di stupro in Svezia. Quando si sono messi insieme, sei anni dopo, sapevano che la loro non sarebbe stata una relazione facile. Avere dei figli poi! «La nostra era una relazione stabile - spiega Moris al Times - e volevamo una famiglia. Abbiamo preso il controllo delle nostre vite perché su questo nessuno avrebbe potuto interferire». Certo la privacy all' interno dell' ambasciata era ridotta all' osso: telecamere ovunque tranne che nella stanza da letto. Ma alla fine, sostiene Stella, le avversità «ti permettono di conoscere il vero carattere di una persona» e lei descrive Assange come «un uomo rinascimentale del XXI secolo», un ritratto molto lontano dal narcisista, paranoico cui siamo abituati. I due avrebbero voluto sposarsi tempo fa. Lui glielo chiese durante un incontro nella realtà virtuale quando lei era incinta di Gabriel. Se ci riusciranno si vedrà.
Sabrina Provenzani per “il Fatto Quotidiano” il 14 gennaio 2020. Quando Julian Assange arriva alla Westminster Magistrates Court, con un furgone della polizia penitenziaria che lo ha prelevato dalla prigione di massima sicurezza di Belmarsh dove è richiuso da aprile, ad accoglierlo è una piccola folla di attivisti, che dalle prime ore di un mattino gelido manifestano per la sua liberazione. È lì per l' udienza preliminare sulla richiesta di estradizione che, se concessa, potrebbe costargli 175 anni di carcere negli Stati Uniti. Ha capelli e barba curati, occhiali leggeri, giacca scura: appare in condizioni molto migliori della volta precedente, a ottobre, quando il suo aspetto e le sue difficoltà a rispondere alle domande più semplici avevano confermato il deteriorarsi della sua salute già denunciato dai suoi legali. Parla solo per dare le proprie generalità e chiedere chiarimenti su un aspetto del procedimento. Che verte tutto, ed è clamoroso, su una possibile violazione del suo diritto alla difesa. Lo spiega uno dei suoi legali, Gareth Pierce: "Sono qui con i miei colleghi e abbiamo moltissimo materiale da discutere con il nostro cliente. Ma dall' ultima volta che abbiamo contattato la corte, c' è stata solo una visita in carcere. Abbiamo avuto solo due ore con Assange venerdì scorso". È una denuncia grave e non nuova: secondo i suoi legali, ad Assange non è nemmeno consentito avere accesso a documenti e incontrare i propri difensori per il tempo e nelle modalità necessarie per preparare la propria difesa da 18 capi di accusa, fra cui quella di aver cospirato con Chelsea Manning per aver accesso a materiale classificato in un computer del Pentagono: nello specifico, per hackerare una password che dava accesso a database militare e poi averne sottratto e pubblicato su Wikileaks migliaia di documenti. Una scelta che ha pagato duramente. Prima, 7 anni di asilo politico nell' ambasciata dell' Ecuador a Londra, dove le sue condizioni hanno cominciato a deteriorarsi. Poi l' arresto: di fronte alle telecamere viene portato via con la forza dalla polizia e rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, dove sconta una condanna a 50 settimane, quasi il massimo per il tipo di reato, per aver violato le condizioni della cauzione rifugiandosi in ambasciata nel 2012. In carcere, denunciano i suoi legali, è sottoposto a un regime durissimo, con solo 45 minuti d' aria. E appunto, accesso limitatissimo alle carte, tanto che a ottobre i difensori avevano chiesto un mese di tempo in più per prepararsi. Invano: il magistrato non aveva ceduto nemmeno di fronte alla rivelazione che Assange e i suoi visitatori, durante la sua permanenza in ambasciata, sarebbero stati regolarmente spiati e registrati dalla Global S.L. una società di sicurezza a libro paga dell' intelligence Usa. Non solo: l' udienza è stata perfino anticipata di un giorno e, alle rimostranze dei legali, ieri il giudice ha concesso solo un' ora in più di colloquio fra Assange e i suoi avvocati, da tenersi in tribunale. La prossima udienza si terrà a febbraio. Ma l' attenzione mediatica sul suo caso sembra scemare, con pochissimi giornali a seguire l' udienza. A sostenerlo, appelli di giornalisti e medici e di qualche dozzina di attivisti, come quelli che ieri, salutandolo, gli hanno gridato attraverso i vetri del blindato: "Fatti forza, noi siamo con te".
Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 20 febbraio 2020. Se confermata, la notizia sarebbe clamorosa. Nell' udienza del tribunale di Londra dove Julian Assange sta affrontando il processo di estradizione, i suoi avvocati hanno sostenuto ieri che nell' agosto del 2017 il presidente americano Donald Trump avrebbe fatto al fondatore di WikiLeaks una proposta indecente: «Qualora Julian avesse fornito pubblicamente prove del non coinvolgimento della Russia nella pubblicazione delle email segrete del partito democratico durante la campagna elettorale americana del 2016», poi vinta da The Donald, il presidente «avrebbe promesso di graziarlo», come riporta il quotidiano britannico Guardian. Secondo Assange, che ieri è comparso in video in tuta nera e maglione marrone durante la seduta dalla prigione londinese di Belmarsh dove è rinchiuso, a recapitagli l' offerta di Trump sarebbe stato Dana Rohrabacher. Settantadue anni, ex deputato americano, repubblicano e ammiratore sfegatato di Putin che negli anni Novanta sfidò a braccio di ferro ubriaco, Rohrabacher sarebbe andato a trovare il fondatore di WikiLeaks nell' ambasciata dell' Ecuador a Londra dove si era rinchiuso per sfuggire alla cattura e all' allora processo per presunte molestie sessuali in Svezia, poi archiviato. Secondo la versione dei legali di Assange, Rohrabacher avrebbe proposto quel patto dopo aver incontrato nell' aprile 2017 Trump, che sarebbe rimasto molto soddisfatto della performance del deputato in suo favore sul canale tv Fox News . Non solo: poco dopo dopo lo stesso Rohrabacher avrebbe poi incontrato l' allora capo dello staff di Trump, il generale Kelly, per parlargli di un patto con Assange, meeting confermato dalla Casa Bianca nel settembre 2017. Il patto sarebbe consistito nella grazia di Trump per Assange in cambio della consegna, da parte di quest' ultimo, «di un computer che evidenziasse il non coinvolgimento della Russia nell' hackeraggio di decine di migliaia di email del partito democratico», poi arrivate in qualche modo (non è ancora chiaro come) a WikiLeaks, che le pubblicò subito dopo lo scandalo di un audio sessista di Trump prima delle elezioni 2016. Lo scambio poi, confermato dallo stesso Rohrabacher in un' intervista al Wall Street Journal , non sarebbe andato a buon fine per motivi ancora poco chiari. La Casa Bianca smentisce totalmente questa ricostruzione. Ma il giudice del processo londinese ha ammesso questa evidenza nel procedimento che vede la richiesta di estradizione degli Usa per Assange accusato di cospirazione per ottenere e pubblicare informazioni classificate quando dieci anni fa Wiki-Leaks rivelò gli esplosivi cablogrammi sulla diplomazia americana e sulle guerre in Iraq e Afghanistan.
Julian Assange, al via processo su estradizione negli Usa per il fondatore di Wikileaks. Redazione de Il Riformista il 24 Febbraio 2020. Una folla di manifestanti che chiedono il rilascio di Julian Assange si è radunata fuori dalla Woolwich Crown Court di Londra, dove si è aperto il processo sulla sua estradizione negli Stati Uniti. Il giornalista australiano pubblicò, un decennio fa, materiale classificato su attività militari e diplomazia statunitense. Negli Usa, Assange rischia una condanna massima di 175 anni di carcere per accuse di spionaggio. Il 48enne australiano, che ha trascorso sette anni rinchiuso nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra prima di essere trasferito nel carcere di Belmarsh, ha parlato in aula confermando il proprio nome e la propria data di nascita. Ha salutato con un cenno i giornalisti, prima di prendere posto. La giudice Vanessa Baraitser inizierà con l’ascoltare le dichiarazioni dei legali degli Stati Uniti. Assange è stato incriminato negli Usa per 18 capi d’accusa, la procura afferma abbia cospirato con l’ex analista dell’ingelligence Chelsea Manning per violare i computer del Pentagono e pubblicare centinaia di migliaia di cabli segreti e file militari sulle guerre in Iraq e Afghanistan. Le autorità Usa affermano che le rivelazioni abbiano messo a rischio la vita dei cittadini statunitensi. Assange afferma di aver agito come giornalista secondo le protezioni del Primo emendamento, rivelando alla cittadinanza le irregolarità commesse dall’esercito di Washington. Tra i file diffusi da WikiLeaks, un video di un attacco da parte di un elicottero delle forze Usa a Baghdad nel 2007, in cui furono uccise 11 persone di cui due giornalisti di Reuters. Centrale nelle udienze anche lo spionaggio cui nell’ambasciata sono stati sottoposti gli incontri privati dell’australiano con i suoi legali, che secondo la difesa del fondatore di WikiLeaks dovrebbe portare la giustizia britannica a bocciare la richiesta di estradizione. Organizzazioni di giornalisti, gruppi per la difesa dei diritti civili e della democrazia, tra cui Amnesty International e Reporters Without Borders, chiedono il rilascio di Assange definendo le accuse contro di lui un rischioso precedente per la libertà di stampa. Sabato una manifestazione si è svolta in Parliament Square a Londra, tra gli altri alla presenza del padre di Assange, John Shipton, dell’economista ed ex ministro greco Yanis Varoufakis, della stilista britannica Vivianne Westwood, del cantante Roger Waters. Dopo una settimana di arringa d’apertura, il caso sull’estradizione dovrebbe protrarsi sino a maggio, quando le parti dovranno presentare le prove. La sentenza dei giudici è attesa mesi dopo ed è previsto che in ogni caso che la parte sconfitta ricorra in appello. Se i tribunali approveranno l’estradizione, il governo di Londra avrà l’ultima parola.
Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 25 febbraio 2020. La 78enne stilista "punk" Vivienne Westwood vaga avvolta in un cappuccio marrone, il rossetto indaco e una corona gialla con la scritta "Angel": «Perché io sono l' angelo della democrazia! Ma nessuno sa di democrazia più di Julian. Non è un crimine pubblicare i crimini di guerra americani. Il mondo è malvagio questa è la nostra ultima chance». A un certo punto, tra centinaia di attivisti da tutto il mondo (Australia, Francia, Germania), una manifestante fuori dal tribunale rovescia un secchio di vernice rossa. Che ravviva il grigiore della pioggia, dei palazzi tormentati di Woolwich, dei capelli e del vestito cinerei di Julian Assange. Il fondatore di WikiLeaks, incarcerato nella vicina prigione di Belmarsh, si presenta in aula qui, alla periferia est di Londra, con la barba rasata, gli occhiali da lettura sul capo, il maglioncino platino. Poi, poco prima di pranzo, silenzio, parla Assange, come raccontano i pochi testimoni nella piccola aula giudiziaria. In sottofondo, i cori dei tifosi fuori: "Julian libero, libero!". «Mi fanno molto piacere queste manifestazioni di affetto», sussurra Assange, provato, «ma non riesco a concentrarmi. Il rumore non aiuta». È l' inizio del processo decisivo per Julian Assange, che a 48 anni ancora non sa che cosa farà da grande. Di certo, gli Stati Uniti chiedono che venga estradato per fargliela pagare dopo la valanga di cablogrammi e memo segreti americani pubblicati sul sito di WikiLeaks nel 2010 dopo il loro furto e l' hackeraggio da parte dell' ex soldato statunitense Chelsea Manning, oggi donna e graziata da Obama. «Hanno messo in pericolo le vite di informatori anti-terroristi, dissidenti, giornalisti, di cui poi si sono perse le tracce », attacca l' avvocato degli statunitensi James Lewis nella prima udienza della richiesta di estradizione Usa, già timbrata da Downing Street ma ora al vaglio della giustizia britannica. «Il giornalismo non è una scusa per infrangere la legge». Invece è proprio il giornalismo in pericolo, secondo il papà di Assange e vip come l' ex Pink Floyd Roger Waters. «Se mio figlio Julian verrà estradato», sostiene ai giornalisti il 78enne australiano John Shipton, «sarà la fine della libertà di espressione. E della vostra professione». Oggi tocca al team degli avvocati di Assange, tra cui il celebre ex magistrato spagnolo Baltasar Garzón. Oltre a difendere Julian "per la libertà e l' informazione", ripeteranno l' accusa a Trump di aver offerto ad Assange la grazia nel 2017 in cambio di un annuncio pubblico sul non coinvolgimento della Russia nel controverso furto delle email del partito democratico Usa l' anno prima. Messaggi che poi arrivarono in qualche modo a WikiLeaks, che li pubblicò in piena campagna elettorale, facendo, volendo o meno, un favore a "The Donald" e attirando l' ombra del "Russiagate". È l' ennesimo capitolo della saga decennale di Julian Assange: le accuse di stupro - poi cadute - dalla Svezia, l' arresto a Londra, la fuga nell' ambasciata ecuadoriana che poi lo scarica, la ri-cattura dei britannici. Ed eccoci qui, nella triste Woolwich. Poco distante Kubrick vi girò "Arancia Meccanica", ora si deciderà il futuro del ribelle Julian Assange: criminale o martire della libertà?
Da lastampa.it il 13 aprile 2020. La compagna di Julian Assange, l'avvocato Stella Morris, teme che il fondatore di Wikileaks possa contrarre il coronavirus e ne ha chiesto il rilascio su cauzione. Morris, 37enne di origine sudafricana, ha inoltre rivelato di avere due figli, Max, un anno e Gabriel, 2 anni, nati quando Assange era rifugiato nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra. Lo riferisce il Daily Mail, che ha pubblicato le foto di Assange con i suoi figli e un'intervista a Morris, che rivela di essersi innamorata del fondatore di Wikileaks cinque anni fa e che la coppia ha intenzione di sposarsi. Moris ha spiegato che Assange è in precarie condizioni di salute da mesi e si teme che il coronavirus si stia diffondendo nella prigione di Belmarsh a Londra, dove il 48enne australiano è detenuto in attesa della decisione sulla estradizione negli Usa. La giustizia britannica alla fine di marzo ha rifiutato di rilasciare Assange sotto il controllo giudiziario, sostenendo che c'erano «serie ragioni per pensare» che potrebbe non presentarsi alle prossime udienze. La partner di Assange, «madre di due bambini piccoli, sollecita il governo del Regno Unito a liberare lui e altri prigionieri mentre il #coronavirus sta causando il caos nelle carceri», si legge in un tweet di Wikileaks.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” l'11 gennaio 2020. Devono aver pensato che si parlasse di calcio balilla, cioè fatto dai balilla, o scambiato il termine «calcio» con «fascio». Di certo i membri dell' Anpi sono finiti nel pallone e hanno ritenuto pericolosa la presentazione ieri sera a Bergamo del libro del giornalista sportivo Paolo Bargiggia, "I segreti del calciomercato", edito da Altaforte, alla presenza di un suo rappresentante, Lorenzo Cafarchio, intravvedendovi rischi di apologia di fascismo. Per organizzare l'iniziativa, la casa editrice, già finita nell' occhio del ciclone allo scorso Salone del Libro per la "colpa" di essere vicina a CasaPound, aveva sondato la disponibilità della Sala Galmozzi, di proprietà del Comune. Era bastata quell' intenzione di usufruire, peraltro a pagamento, di uno spazio pubblico (intestato a Ferruccio Galmozzi, vittima delle leggi razziali e membro del Cln) per scatenare l' ira dell' associazione locale partigiani, che si augurava che la richiesta fosse respinta perché «il fenomeno inquietante del neofascismo risorgente deve essere ostacolato con ogni mezzo lecito». Dopo quella levata di scudi, mentre Altaforte già sceglieva di organizzare la presentazione in un' altra sede privata, il Comune guidato dal dem Giorgio Gori rendeva noto che «nessuna sala è stata concessa per l' evento» e che in ogni caso, tra le regole per vedersi assegnato uno spazio comunale, c' è «la necessità di dichiararsi contrari e lontani dai principi del fascismo». Ci sarebbe da seppellire la vicenda con una pernacchia, visto l' ennesimo tentativo di censura preventiva attuata senza conoscere minimamente l' oggetto del libro (che parla di calcio, lo ricordiamo), ma solo per pregiudizio nei confronti della casa editrice, e al fine di alimentare la caccia a quel fantasma chiamato fascismo. Se non fosse che, a furia di minimizzare, si rischia di non considerare la minaccia che loro stessi, ossia certi membri dell' Anpi, rappresentano per la libertà. «Sono sconfortato e desolato», dice ai nostri taccuini Paolo Bargiggia. «È incredibile che un libro che parla della mia esperienza da cronista di calcio venga strumentalizzato a fini politici. Ed è incredibile che a vietarlo ci pensi un' associazione che non ha più senso di esistere dato che i veri partigiani sono morti, e che nondimeno esercita un' influenza enorme sulle scelte di politici e amministratori, cercando di mettere il bavaglio, di togliere gli spazi fisici e di proibire la cultura a essa sgradita». Bargiggia va giù duro nel definire i metodi dei compagni: «Sono i classici strumenti di una mafia o una camorra ideologica che usa l' ideologia come un manganello di oppressione per tappare la bocca, ridurre l' esercizio della democrazia e perseguire reati di opinione. Pratiche del genere sono degne di un regime, di un Paese totalitario, tipiche di chi dice di combattere il fascismo ma in realtà adotta logiche naziste. Con la sola differenza che i nazisti bruciavano i libri, l' Anpi proibisce di presentarli». È forte l' irritazione dell' autore anche nei confronti del sindaco di Bergamo: «Non pensavo che un uomo tutto ciuffo e cachemire, che si atteggia a imprenditore illuminato, potesse cedere a questa forma di oscurantismo». Bargiggia può però consolarsi con l' incredibile pubblicità che la sinistra ancora una volta ha fatto a un libro Altaforte. «Il testo di Chiara Giannini vietato al Salone del Libro è arrivato alla terza ristampa, io spero di arrivare almeno alla seconda». Come dire, il calciomercato e il libero mercato prevarranno infine sulle lobby ideologiche. Bargiggia batte Anpi 3 a 0.
Stefano Massini per “la Repubblica - Robinson” il 13 gennaio 2020. Se c' è qualcosa che mi ha sempre impressionato nel metodo di Freud, è il partire dal passato per ricostruire il senso del presente. Niente, di tutto ciò che nutre le nostre sofferenze e paure, prende forma senza una profonda radice in ciò che è stato, a testimonianza che la sbrigativa assolutizzazione del qui-ora è del tutto fuorviante. Il punto è che Freud insiste anche a sottolineare come due ingredienti essenziali condizionino il nostro essere attuale, e li indica nella rimozione e nel sesso. È sulla base di questa suggestione che penso da tempo di lanciarvi una provocazione: far accomodare il Belpaese sul lettino di Freud, tentando di analizzare come si è evoluto negli ultimi cinquant' anni il rapporto dell' Italia col sesso, alla ricerca di quei traumi e quelle rimozioni che hanno pregiudicato il sereno equilibrio psichico di un intero paese. Ma da dove iniziare? Senza dubbio dalla scelta ponderata di un Virgilio che ci faccia strada in una materia più che complessa ed esposta a mille rischi. Ed è così che sono approdato a Chiara Simonelli.
«Ha fatto caso a quanto si parla dei disturbi psicosomatici? Bene, mi dica quante volte ha sentito parlare del somatopsichico: quasi mai, immagino. Sta tutto qui: accettiamo l' idea che la mente condizioni il corpo, ma per nulla al mondo vorremmo il contrario».
Sono più o meno queste le parole con cui mi accoglie colei che, in termini scientifici, è forse la più titolata in Italia ad articolare un discorso sul sesso. Fu la prima a vedersi riconosciuto l' insegnamento universitario di Sessuologia Clinica, alla Sapienza di Roma. E da allora è stato un susseguirsi di pubblicazioni, docenze, ricerche e attività accademiche, per cui non so immaginare interlocutore migliore per questo azzardo. Che mi auguro costruttivo.
«Già il fatto di parlarne lo è. La posta in palio è altissima, mi creda. Pensi al femminicidio, o all' omofobia: sono queste le aberrazioni che ci impongono uno scavo critico nel passato. L'Italia ha senza dubbio un rapporto guasto con la sfera sessuale. Lei che lavora con le parole, avrà fatto caso al linguaggio, che è sempre specchio di chi parla».
E infatti, soffermiamoci sui post degli hater: l' offesa è infarcita di riferimenti sessuali espliciti solo se nel mirino c' è una donna. Mi viene in mente il famoso caso della bambola gonfiabile mostrata su un palco leghista contro l' ex presidente della Camera, Laura Boldrini, ma anche i recenti attacchi a bersagli femminili diversissimi come la scrittrice Michela Murgia o la cantante Emma Marrone: l' ostilità politica si traduce sempre in attacco sessuale. Con gli uomini è diverso. Ricerche specifiche ci dicono che gli strali contro avversari maschi si incentrano solitamente sul punto della dignità ("sei un venduto", "sei un verme", "sei un senza-palle").
«Certo, è così. Il linguaggio dell'insulto ci consegna questi due archetipi fortissimi: l' uomo è coglione, la donna è puttana. Già questo ci dice molto. Ma attenzione, c' è di più. Nelle risse fra uomini salta fuori spesso l' accusa di essere "frocio", che implica in realtà qualcosa di ancora più deformato: chi ne fa uso dichiara di essere ancora schiavo di uno schema vecchissimo, quello del cosiddetto maschio-alfa. In sintesi: chi concepisce la comunità come branco e il carisma come esclusiva prestanza genitale, non vede offesa peggiore del tradimento di un patto fra stalloni, per cui fra uomini, se ti accuso di essere gay, ti sto dicendo che hai rotto un sodalizio fra inseminatori seriali. Significa non avere altro orizzonte se non quello animale della perpetuazione del seme».
E dove andrebbe a cercare, nel passato del nostro paese, le origini di questa deformazione?
«Tutti i problemi hanno alle spalle un blocco linguistico. Una rimozione, appunto. Potremmo addebitarla alla Chiesa, ma non solo. Pensi a quello che subì Nilde Jotti nel partito di Togliatti. Il fatto è che anche il mondo intellettuale - per definizione laico - ha le sue colpe per aver lasciato il tema del sesso alla mercé dei media, come fosse roba infetta a cui non avvicinarsi. Perfino oggi, leggendo questo pezzo su Repubblica qualcuno sarà sfiorato dal pensiero "parlano di sesso per vendere copie, e lo scrittore Massini si è abbassato a questo". È la madre dei problemi: sottrarci a chiamare le cose con il loro nome. Le faccio un esempio. Nella storia italiana si ricordano soprattutto due iniziative parlamentari sull' introduzione dell' educazione sessuale nelle scuole. La prima risale al 1902, la seconda agli anni Ottanta. Tutte e due le volte ci si mosse sulla scia di un' emergenza sanitaria: nel 1902 c' era stata un' epidemia di sifilide, nel 1984 Robert Gallo isolò il virus dell' Hiv. Sto dicendo che le cosiddette "menti" si occupano del sesso solo se il corpo è malato, e lo fanno per salvare se stesse. Anzi, perfino nel massimo rischio non si accetta di parlare apertamente: il democristiano Donat-Cattin che era ministro della Sanità durante l' esplosione dell' Aids, rifiutò di far pronunciare la parola profilattico negli spot televisivi sulla prevenzione. Avrebbe salvato chissà quanta gente, ma non ci riuscì, non poté, non volle. Sembra un secolo fa, ma noi non siamo così lontani: nelle scuole l' argomento è ancora tabù».
Restiamo allora nelle aule di scuola. Era il 1892 quando Edmondo De Amicis pubblicò quattro racconti sul mondo della scuola. E fin qui niente di sorprendente, trattandosi pur sempre dell' autore di "Cuore". Il fatto è che in "Amore e ginnastica" o "La maestrina degli operai" compare il grande assente dal romanzo dei Franti e dei Garrone: il turbamento fisico, la smania dei corpi, il desiderio. De Amicis sembra concepirlo come una specie di pulsione atavica, bestiale, e quindi imbarazzante per la buona borghesia umbertina. C' è un ex-seminarista che per le scale di un condominio perde la testa per una maestra di ginnastica (arriva persino a spiarla, da un abbaino), e poi una giovane insegnante di scuole serali che freme per l' allievo "dallo sguardo assassino". Tutto però va nascosto.
«Potremmo dire che in quel nascondere sta la chiave di molte sofferenze. Vede, oggi si può avere la sensazione che il sesso - rispetto ad allora - sia molto più emancipato. Qualcuno dirà "se ne parla fin troppo". Certo, ma come se ne parla? Di Matteo Salvini ricordiamo il famoso selfie mentre era a letto con la sua ex-compagna, Elisa Isoardi, e prima di lui c' era stato il boom del bunga-bunga berlusconiano. Ebbene, mi creda, questo non è niente di nuovo rispetto a quando Benito Mussolini ostentava le sue amanti: è la conferma dell' equazione trita per cui potere=donne. Oggi è Arcore, ieri era il Vittoriale di D' Annunzio, dove il Vate giaceva dentro le bare con ragazze che si fingevano morte. Ripeto: se sei in alto, ci si aspetta che tu giochi col sesso. Quasi lo devi».
Ne aveva scritto genialmente Gadda in "Eros e Priapo". Arrivò a parlare di fallocrazia del fascismo, intesa come un bisogno spasmodico di concepire lo Stato come una distorsione della famiglia patriarcale in cui il leader è padre e padrone.
«E gli italiani ne sono abbagliati».
Non solo loro: Trump, durante la campagna elettorale, non solo non era danneggiato dalle varie accuse di stupro, ma se ne serviva come marchio di forza.
«Certo, ma qui da noi il tarlo è antico, le resistenze infinite. Noi mettevamo i mutandoni alla Cappella Sistina, esattamente negli anni in cui era papa un Medici che aveva avuto tre figli. Occorrerebbe un profondo vero sforzo educativo: non faremo mezzo passo avanti finché non si dirà a chiare lettere che è un' idiozia il meccanismo per cui il fascino maschile si nutre di prestigio e soldi, mentre quello femminile si regge su bellezza e giovinezza. Si deve a questo se gli stipendi delle donne sono più bassi. Tanto per dire che c' è una ricaduta sessuale anche sull' economia».
Ma sulla parità di genere avrà pur inciso in qualche modo la rivoluzione sessuale degli anni '60-'70. Oppure è stato un passaggio di facciata?
«Io ho iniziato a ricevere pazienti, come sessuologa, proprio in quel momento. Senz' altro si respirava un' atmosfera nuova, elettrizzante, fu una riappropriazione del sesso da parte delle donne, fino a quel momento vissute solo come madri. Ma le premesse furono più rosee dei fatti, e oggi ci troviamo con un libro scolastico dove c' è un esercizio con papà che lavora e mamma che stira. Il problema è che la politica può anche smuovere delle cose, ma è la mentalità a essere viziata. Nel '58 le sinistre e la Dc si misero insieme per votare la legge Merlin sulle case chiuse, ma ciò non tolse che la donna del dopoguerra continuasse a esser sdoppiata: o eri una da sposare o una da farci sesso. Dentro o fuori dal bordello, fa poca differenza».
Però negli anni '70 arriva anche in Italia la pillola.
«Peccato che anche in quel caso cercammo di imbavagliare la novità. Sa come andò? C' è stata una lunga fase in cui lo Stato non accettava una prescrizione medica che parlasse di anticoncezionale. I ginecologi italiani dovettero ingegnarsi a trovare una via di fuga, e la trovarono nell' acne: siccome il principio attivo della pillola combatteva anche quella, ti scrivevano sulla ricetta che era per uso dermatologico. Come vede, la nostra storia è disseminata di alibi, di coperture, di stratagemmi per non riconoscere al sesso la sua funzione sana e sostanziale. Mi spiace solo che si minimizzi il problema: le conseguenze sono gravissime anche sul piano della salute pubblica. Tanto per dirne una, migliaia di donne vanno da un ginecologo solo se hanno un' emorragia, o se restano incinte. Fa parte anche questo della grande rimozione».
Sbaglierò, ma ho la sensazione di qualcosa di contraddittorio. Lei mi parla della nostra storia come di un susseguirsi di censure più o meno traumatiche. Ma se ripercorriamo lo sviluppo della tv, del costume, della società italiana, è indubbio che il sesso, a lungo represso, a un certo punto sia uscito dalla sua zona d' ombra. Voglio dire: negli anni '80 il boom delle emittenti commerciali portò con sé un cambiamento drastico, basta pensare al "Drive-in" berlusconiano.
«Capisco cosa vuol dire. Ma io e lei stiamo riannodando le fila di un percorso complesso, non lineare. È davvero come la vita psichica di una persona: alterna fasi diverse. Adesso, per esempio, ha citato la tv, che senz' altro ha esercitato un ruolo invasivo e dirompente, come oggi il web. Non scordiamo però che erano gli stessi anni in cui si diffuse l' Aids, e questo creò un clima di terrore sul fronte del sesso. Di nuovo blocchi, di nuovo reticenze. Sono anzi convinta che in questo paese si dovrebbe finalmente pronunciare un grazie alla comunità omosessuale per il contributo fondamentale che diedero in quel momento di caos. Erano persone di livello culturale in genere alto, persone informate, responsabili: ci aiutarono a capire. Io allora collaboravo con Ferdinando Aiuti, scrivemmo insieme un libro, e ricordo nettamente lo smarrimento del mondo medico. Anche quegli anni di paura hanno lasciato un segno nel nostro rapporto col sesso».
E in questo susseguirsi di up e down, quale è stato per lei il momento in cui il barometro segnava sereno?
«Distinguerei: per le donne l' alba fu come ho detto il '68. Per gli uomini, viceversa, tutto cambiò nel 1998, con l' introduzione del Viagra. Sembrò che risolvesse d' un tratto tutti i problemi, e per la prima volta mi resi conto che fra i miei pazienti venivano molti uomini, pronti finalmente a raccontare, a raccontarsi. In realtà il sollievo nascondeva un' illusione, quella tipicamente maschile di vedere nel sesso solo un atto ginnico, possibilmente eroico. È un equivoco devastante».
Sono d' accordo: abbiamo scisso il sesso dal desiderio. Aggiungerei anzi che il secondo è il grande disperso degli ultimi anni: troppo impegnativo, troppo compromettente. «Soprattutto troppo complesso da gestire, e dunque fonte di ansia. Ci si concentra allora solo sul gesto sessuale inteso come incontro di corpi, senza dare il minimo peso al prima e al dopo. Cioè alla scelta del partner, o alla cura della coppia. Il desiderio, appunto. La ragione è semplice: non sappiamo più chi ci sta accanto, in un' era di grande individualismo. Una collega ha raccolto 137 motivi diversi per fare sesso: credo sia la prova chiarissima dello sbando in cui ci troviamo. Un labirinto, ecco. Un labirinto».
Dagospia il 9 gennaio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Ecco come lavorano i grandi giornali italiani: il 23 dicembre 2019 Repubblica ha dato alle stampe un articolo in cui un giornalista scriveva che il Ministero dell’Istruzione mi aveva chiesto di restituire 24mila euro per finte missioni. Da lì una massa di articoli scandalizzati, commenti indignati e addirittura richieste di una mia rimozione dalla mia attuale carica di dirigente. Scrivo a Repubblica chiedendo di pubblicare una mia rettifica in cui elenco tutte le falsità presenti nell’articolo, prima tra tutte che il ministero mi avrebbe chiesto la restituzione di quei soldi, circostanza mai avvenuta. Repubblica non risponde né pubblica nulla, violando quanto prescritto dalla legge sulla stampa, sino a quando ieri la richiesta di rettifica viene rimandata dal mio avvocato. Oggi 9 gennaio 2020, trovo finalmente la rettifica pubblicata, in caratteri minuscoli e a pagina 27 in fondo, mentre dell’articolo si era ampio dato spazio in prima e in ottava pagina, ma tagliata nelle sue parti più rilevanti, ove elencavo in modo specifico le falsità scritte nel giornale. Vi giro di seguito il testo della rettifica che inviai più di quindici giorni fa, nella speranza che possiate pubblicarla integralmente. Ai sensi dell’art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, La invito a pubblicare la seguente rettifica sul quotidiano “La Repubblica” e sul giornale telematico repubblica.it: «Intervengo in seguito all’articolo di Corrado Zunino «False missioni, Bussetti restituisca 24 mila euro», pubblicato su la Repubblica del 23 dicembre 2019 a pagina 8, con richiamo in prima pagina con il titolo «Bussetti restituisca al ministero i soldi spesi per 44 finte missioni», nonché nel sito online del medesimo giornale che contiene affermazioni false e offensive nei miei confronti. Tra le molte, è falso che il ministero abbia chiesto la restituzione di 24 mila euro, è falso che i rimborsi fossero «creste», «spostamenti personali, Bussetti deve restituire», è falso che la contabilità del Miur mi abbia scritto «Gentile ministro, quei biglietti non possono essere riconducibili a viaggi da voi qualificati come servizio», come da voi virgolettato. È anche falso che io debba restituire 3.500 euro ricevuti a titolo di diaria, sono false le «fughe dal consiglio dei ministri per un weekend con la compagna», è falso che i 44 viaggi «rimborsati come “impegni istituzionali” erano appuntamenti privati». La verità è che un dirigente dell’Ufficio VI del Miur si è limitato a inviarmi una normale richiesta di documentazione integrativa relativa a spostamenti già autorizzati e vidimati dagli organi deputati al controllo, che non hanno mai sollevato rilievi in merito. Il tutto proprio a seguito di un articolo apparso sul vostro giornale in data 27 ottobre 2019, nel quale si asseriva che erano «immotivati 80 viaggi di lavoro su 133», per il quale ho già dato mandato ai miei legali di agire giudizialmente, perché anch’esso falso e diffamatorio. La documentazione da me minuziosamente raccolta dimostra il carattere istituzionale delle missioni svolte e dunque la correttezza del mio comportamento. Al momento mi manca di verificare solo due o tre missioni sulle 133 effettuate, per le quali sto attendendo dallo stesso Miur la documentazione completa». La invito pertanto a pubblicare tale testo non oltre due giorni da oggi, in testa di pagina e collocato nelle stesse pagine 1 e 8 del quotidiano, come previsto dalla normativa italiana, comunicandoLe che in mancanza procederò senza indugio ad adire l’autorità giudiziaria, ai sensi del quinto comma dello stesso art. 8, l. stampa, affinché tale obbligo sia rispettato. Con riserva in ogni caso di agire in sede giudiziaria a tutela della mia reputazione. I miei migliori saluti, Marco Bussetti”. Sono ovviamente disponibile a chiarire quanto possa non essere chiaro.
Mattia Feltri per ''La Stampa'' il 10 gennaio 2020. Sul Giornale di mercoledì c' era un pezzo di Massimiliano Parente, scrittore notevole, giudicato sessista dal supremo tribunale di Twitter. Non è importante se lo fosse o no (non lo era), è importante il passaggio in cui Parente racconta di intrattenersi in accese sfide ai videogame con Gipi, fumettista di gran rango. Il suddetto supremo tribunale, con scrupoloso arbitrio attribuito Gipi alla sinistra più illuminata e Parente alla destra più becera, ha chiesto al primo di rinnegare l' abominevole amicizia, pena l' espulsione dal club della sinistra più illuminata (e già l' aggettivo s' indeboliva). Mentre gustavo le risposte di Gipi (e di Parente), che a differenza dei suoi giudici da diporto forse non è di sinistra, ma di sicuro è illuminato, e sa che l' amicizia è faccenda intima e insindacabile, sempre su Twitter ho saputo con dolore della morte di Nellina Laganà. Era una brava attrice, aveva lavorato con Tornatore e Lavia, e l' ho saputo perché qualche sito di destra titolava sulla sua morte e sul suo ultimo tweet, contro Matteo Salvini. Non era l' ultimo ma vabbè. Era una foto di Salvini fra forme di parmigiano e Nellina aveva scritto «il verme nel formaggio». Altri hanno ripreso il medesimo tweet per salutarla, ringraziandola di essere stata antisalviniana fino alla fine. E così con i vivi non ci sono riusciti, Gipi e Parente se la sono cavata sminchionando le raffiche etiche d' insulti, mentre con la morta sì, ce l' hanno fatta: Nellina se n' è andata con tutta la sua vita nel mondo e nell' arte giudicata su un tweet antisalviniano, a uso opposto e speculare di sacerdoti della purezza antropofaga e necrofila.
Massimiliano Parente per ''il Giornale'' il 10 gennaio 2020. Dunque, non sono più su Instagram, il mio account è stato chiuso. Ma facciamo un passo indietro, sentite questa. L' altro ieri è uscito un mio articolo satirico sul Giornale sulle book influencer di Instagram, prendendo spunto da Carolina Capria, una influencer che legge solo libri di donne, dandole della sessista, perché non c' è niente di più offensivo per una donna che pensare che i libri siano belli perché scritti da una donna per le donne. Concetto semplice. E poi divagando su altre book influencer, definendole delle vetriniste, perché a tutte quelle fotine di tavole apparecchiate e fiorellini che mettono insieme Fabio Volo e William Faulkner già Baudelaire avrebbe dato fuoco. Insomma, un attacco contro il gusto kitsch di queste tizie. Non l' avessi mai fatto, anzi siccome sono io meno male che l' ho fatto. Partono centinaia di insulti su Twitter, secondo cui sarei un vecchio maschilista impotente che non capisce le giovani generazioni. Una mi scrive «si vede che non trombi», molto femminista. Nel mio articolo en passant parlavo del mio amico Gipi, grande fumettista, per dire che con lui gioco a Call of Duty, ed è stato sommerso da richieste di dissociarsi da me, ha dovuto fare un post per dichiarare che è mio amico a prescindere da quello che scrivo, ripreso dal Corriere della Sera, dove apprendo di essere «uno scrittore di destra» (strano, al Giornale pensano io sia di sinistra, mi sopportano per questo). Finita qui? No. Anche al mio amico Nicola Lagioia, direttore del Salone del Libro di Torino, viene chiesto di dissociarsi dal mio articolo, e si dissocia dicendo che litighiamo da anni ma questo non significa non poter essere amici. Roberto Burioni, su Twitter, invece esprime apprezzamento, e viene bersagliato da femministe impazzite, e va da sé anche a lui chiedono di dissociarsi. Burioni non ha paura di nessuno e twitta: «Non mi piace la scrittrice Elena Ferrante. Ho riso di un articolo di Massimiliano Parente dove definiva i suoi libri ottimi per appoggiarci il caffè e mi hanno dato del maschilista. Se avessi scritto la stessa cosa di Camilleri (che egualmente non mi piace) sarei stato femminista?». Interviene poi Emilio Pappagallo, il direttore di Radio Rock, che sulla questione ieri mattina ci ha portato avanti due ore di trasmissione, non dissociandosi ma anzi rincarando la dose, e definendo queste signorine «un branco fascista che usa gli stessi mezzi del peggior machismo». Finita qui? No. Questa mattina mi sveglio e devo cancellare un centinaio di insulti dal mio account Instagram, bersagliato da commentatrici con nick evocativi tipo Clitoridea e accuse di sessismo soprattutto sotto una foto di mia figlia di 7 anni: «Poveretta», «che padre di merda ti troverai», «stai attenta chissà cosa può farti». Finita qui? No, nel pomeriggio Instagram cancella il mio account, per le migliaia di segnalazioni scatenate da queste invasate senza arte né parte. Che tra l' altro dicono a me, che scrivo romanzi da quasi 25 anni, ristampati e studiati nelle università, di documentarmi su chi sono loro, il mondo al contrario. E che rosico. Come no, rosico perché non sono un book influencer e non ricamo l' uncinetto davanti a un libro della Ferrante. Finita qui? Quasi. Interviene per ultimo, Piersandro Pallavicini, uno dei più lucidi ed eleganti scrittori italiani, con un lungo post che potete leggere sulla sua pagina Facebook, che finisce così: «La reazione più frequente è stato il vecchio, penoso, classico commento derisorio: Scrittore poco noto che cerca di farsi pubblicità. Ora magari mi confondo, e questo genere di commenti è arrivato non dai book influencer stessi ma dai loro sostenitori, e in questo caso come non detto. Se fossero arrivati proprio dai book influencer citati da Massimiliano, o da altri che svolgono la medesima attività, in una specie di forma di solidarietà, ecco che la mia paranoia diventerebbe paura di qualcosa di reale: ma che parli a fare di libri se non sai neanche chi è Massimiliano Parente?». Finita qui? Sì, e meno male non ho più voglia di fare sesso con nessuna per conto mio, altrimenti me l' avrebbero fatta passare loro. Sebbene, a parte il mio account Instagram, che chissenefrega, speriamo non riescano a far chiudere per sessismo anche Youporn, almeno quello.
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 5 gennaio 2020. Ormai i social dominano sul web e dobbiamo prenderne atto. La nuova comunicazione corre su internet con crescente forza. Ma ciò è noto e forse non valeva neppure la pena di rammentarlo. Piuttosto vorrei raccontare ai lettori un fatto curioso che mi ha visto protagonista. Alcuni giorni fa scrissi un tweet scherzoso. Il seguente: «Zingaretti dice che Salvini deve smettere con la grappa, e io consiglio invece al segretario Pd di sbronzarsi con la cicuta». Tale frase è stata non solo censurata, mi è valsa la sospensione temporanea dal social in questione. Motivo? Si tratterebbe di una minaccia o qualcosa del genere. Cosicché è stata cancellata. Circostanza di cui non me ne frega nulla. Però merita una chiosa. Salvini viene coperto di improperi cento volte al dì e nessuno protesta, io dico a Zingaretti, che dà dell' ubriacone al Matteo lombardo, di bere la cicuta (che non esiste più dai tempi di Socrate) e vengo silenziato. Segnalo per sovrammercato che la mia trascurabile persona è quotidianamente oggetto di contumelie, la più tenera delle quali è che devo morire perché sono ubriaco, nonostante ciò non è mai scattato un provvedimento finalizzato a moderare i termini. Come mai due pesi e due misure nel valutare l'offensività dei tweet? La spiegazione è semplice: se le parole indiavolate (si fa per dire) colpiscono uno come me che di sinistra non è, va tutto bene madama la marchesa, se viceversa accarezzano la gobba di un progressista protetto dal conformismo nazionale, allora sono vietate. Incredibile ma vero. Il nostro Paese non finisce mai di stupire.
Laura Naka Antonelli per finanzaonline.com il 5 gennaio 2020. Alcuni dipendenti di Amazon, appartenenti all’associazione Amazon Employees for Climate Justice, hanno reso noto che il colosso dell’e-commerce fondato da Jeff Bezos ha minacciato di licenziarli per le dichiarazioni ambientaliste rilasciate e, in particolare, per le critiche mosse contro le stesse politiche ambientaliste adottate dal gruppo. In una nota pubblicata su Twitter, l’associazione ha comunicato che diversi dipendenti di Amazon sono stati contattati dall’ufficio legale e delle risorse umane del gigante americano per presunta violazione delle regole sulle pratiche di comunicazione esterna della compagnia. Nella stessa nota, il gruppo ambientalista dei dipendenti di Amazon ha reso noto che Amazon ha cambiato la propria politica di comunicazione a settembre e che le regole attuali “richiedono che i dipendenti cerchino l’approvazione del gruppo prima di parlare di Amazon in qualsiasi discorso pubblico in cui si presentino come dipendenti”.
Clementino inneggia alla marijuana durante il concerto a Nocera Inferiore, fascicolo in Procura. Il sindaco Manlio Torquato: "Sospendiamo il cachet fino a quando non ci sarà chiarezza". Andrea Pellegrino il 02 gennaio 2020 su la Repubblica. Il concerto di Clementino a Nocera Inferiore finisce in Procura. Frasi inneggianti all’uso della marijuana sono finite al vaglio degli agenti del commissariato di polizia di Nocera Inferiore che hanno inoltrato l’informativa alla Procura della Repubblica, dopo aver visionato le immagini dell’intero concerto. Una piazza piena, con oltre 10mila persone, per il concerto del rapper di inizio d’anno, organizzato dal Comune di Nocera Inferiore mercoledì sera. Musica, rap ma anche parole ed una particolare benedizione ai fan all’inizio e alla fine del concerto: «Guagliù vi benedico in nome della canna», la frase pronunciata più volte durante l’esibizione sul palco di piazza Diaz accompagnata, poi, dal lancio di un kit, suo gadget, con filtri e cartine mostrando, poi, infine, un enorme spinello vuoto. Gesti, comportamenti e frasi che sono state estrapolate dalla registrazione video del concerto nocerino e sottoposte all’attenzione dell’autorità giudiziaria. L’ipotesi di reato è di istigazione all’uso di stupefacenti ma al momento non c’è nessun iscritto sul registro degli indagati. La piazza, la scorsa sera, era affollata anche da giovani e da minorenni. Un concerto, tra l’altro, organizzato dall’amministrazione comunale di Nocera Inferiore. Il sindaco Manlio Torquato ha annunciato che sospenderà il cachet previsto per il rapper fino alla verifica dei fatti. «La polizia – dice il primo cittadino di Nocera Inferiore - deve opportunamente svolgere ogni attività di verifica ma eviterei, almeno in questo momento, di confondere il successo del concerto, svoltosi senza problemi di ordine pubblico nonostante la massiccia affluenza, proprio grazie ai controlli e alla funzione di prevenzione e controllo da parte della polizia di Stato della polizia locale e della Protezione civile, con gli accertamenti della polizia sui filmati e per verificare doverosamente il reale svolgimento dei fatti».
"In nome della canna". E il rapper Clementino finisce indagato. Le forze dell’ordine hanno fatto sapere che si tratta di un’indagine per salvaguardare i numerosi minorenni presenti all’evento. Ignazio Riccio, Giovedì 02/01/2020, su Il Giornale. All’inizio e alla fine del suo concerto a Nocera Inferiore, nel Salernitano, il noto rapper campano Clementino, come fa solitamente, ha salutato i suoi fan con una frase che utilizza spesso. “Guagliù, vi benedico in nome della canna”. Lo slogan gridato dal palco, in occasione dei festeggiamenti del Capodanno nocerino, non è passato inosservato. Le immagini dello spettacolo sono al vaglio della polizia, che sta indagando sull’artista, il quale non ha mai nascosto le sue idee in merito alla liberalizzazione delle droghe leggere. Clementino ha inneggiato all’utilizzo della marijuana, mostrando ai suoi seguaci uno spinello, anche se ha dichiarato che dentro c’era tabacco e ha lanciato loro delle bustine con all’interno cartine e filtri. Le forze dell’ordine hanno fatto sapere che si tratta di un’indagine per salvaguardare i numerosi minorenni presenti al concerto e anche le istituzioni pubbliche che hanno organizzato l’evento. Clementino, il cui vero nome è Clemente Maccaro, è un rapper avellinese famoso su tutto il territorio nazionale. Dopo aver vinto varie competizioni di freestyle tra il 2004 e il 2006, firmò un contratto con l'etichetta discografica indipendente Lynx Records, pubblicando l'album di debutto “Napolimanicomio”, sempre nel 2006. Tre anni più tardi entrò nei Videomind, pubblicando nel 2011 “I.E.N.A.” e nel 2012 formò i Rapstar con Fabri Fibra, realizzando nel medesimo anno “Non è gratis”. Nel 2013 il rapper siglò un contratto con la major discografica Universal, pubblicando poco tempo dopo “Mea culpa”, che riscosse un discreto successo in madrepatria, arrivando in quarta posizione nella Classifica FIMI Album e venendo certificato disco d'oro. Cresciuto nell'entroterra napoletano tra Cimitile e Nola, Clementino all'età di 14 anni mosse i primi passi nell'hip hop proprio a Napoli dove entrò nella Trema Crew e successivamente nei TCK, gruppo partenopeo. Grazie a queste prime esperienze, Clementino ebbe modo di affinare le sue tecniche nel freestyle (la disciplina tipica della cultura hip hop che consiste nell'improvvisare in rima), divenendo così uno degli artisti più abili del panorama nazionale aggiudicandosi il primo posto al Tecniche Perfette 2004, al Da Bomb 2005, al Valvarap 2006 e al 2theBeat 2006, battendo in finale Ensi, allora campione in carica, che già nel 2005 sconfisse in finale lo stesso Clementino. Il 29 aprile 2006 uscì il suo primo album in studio, intitolato Napolimanicomio, cantato sia in italiano sia in napoletano, in collaborazione con artisti di fama quali OneMic, Kiave, Francesco Paura, Spregiudicati, oltre a vari importanti esponenti locali come Kapwan, Emcee O'Zi e Patto MC, ottenendo un discreto successo e aumentando la sua fama a livello nazionale.
Ecco gli impubblicabili da pubblicare nel 2020. Autori ignorati, libri scomparsi, censure ideologiche hanno sfigurato i cataloghi di troppi editori. Alessandro Gnocchi, Mercoledì 01/01/2020, su Il Giornale. Aldo Busi, dove sei? Ci manchi. Ad esempio, entrando in libreria, viene spesso da pensare a una tua massima: «È ben triste scrivere per vendere, sacrificare tutto il resto, e poi non vendere». E se questo descrive la maggior parte degli autori, cambiando una sola parola, la massima si può estendere all'intero mercato: «È ben triste pubblicare per vendere, sacrificare tutto il resto, e poi non vendere». Brutta cosa non vendere i libri e tenere in piedi l'industria culturale con gli stessi metodi della finanza più allegra. Già. A parole tutti principi del Rinascimento, mecenati delle belle arti, committenti illuminati. Denaro, però, neanche l'ombra. Finirà quando il rappresentante di un anello qualsiasi della catena alzerà la mano per dire: bene, ora fuori i soldi, quelli veri. Perché l'editoria è finita così? Facciamo qualche ipotesi. Per un atteggiamento cinico e paternalista che nasconde, neanche troppo, il disprezzo verso i lettori. Questo il ragionamento: il pubblico è stupido, facciamo libri sempre più stupidi nella speranza di intercettare chi normalmente non legge neppure sotto minaccia di tortura. Poi c'è l'idea che legga soltanto lo spettatore di Fabio Fazio. E giù tonnellate di libri politicamente corretti, uno identico all'altro. Leggono soprattutto le donne, giusto? E allora tutto deve essere «al femminile», qualunque cosa questa espressione significhi, ma senza dirlo, altrimenti è offensivo. Aggiungiamo una impreparazione talvolta sconcertante proprio ai piani alti delle case editrici. D'altronde se l'università sforna laureati mediocri, prima o poi i mediocri arrivano in cima per semplice mancanza di alternative. Prendiamo il caso della saggistica, spazzata via e sostituita da ridicoli libri di testimonianza. Roba che un tempo gli editori più ferrati avrebbero stracciato in faccia all'autore. Infine, la mazzata. Non avendo interlocutori autorevoli, il marketing spadroneggia e spesso ha l'ultima parola su quale libro sarà pubblicato. Ecco, mettete tutto questo assieme e avrete la risposta alla domanda: perché nessuno legge? La risposta è un'altra domanda: perché mai dovrebbe, vista la mediocrità dell'offerta? Un po' di dibattito non può fare male. Senza dibattito manca l'interesse. Si scivola nell'irrilevanza. Nel 2020, oltre al nuovo libro di Aldo Busi, se ne sta scrivendo uno, vorremmo leggere qualcosa di diverso, pescato dagli abissi dei dimenticati dalla editoria italiana.
Partiamo dai maledetti per motivi politici. Il francese Robert Brasillach fu fucilato per intelligenza col nemico in camicia bruna. Possiamo quindi ignorare il suo romanzo I sette colori, difficile da trovare? Manca all'appello anche la Histoire du cinéma scritta col proibitissimo Maurice Bardèche (il suo I servi della democrazia, edito da Longanesi, fu ritirato dal commercio e non riapparve mai più). Restiamo in questo campo «impresentabile». È inedito il collaborazionista Lucien Rebatet. Eppure, secondo il critico George Steiner, Les Deux étendards è uno dei grandi romanzi del Novecento. Ci sono poi inclassificabili come Roger Nimier, antagonista di Albert Camus, editor di Louis-Ferdinand Céline, sceneggiatore di Louis Malle in Ascensore per il patibolo. Si schiantò con la sua Aston Martin dopo avere accettato di scrivere un altro film per Malle, Fuoco fatuo. In Italia dobbiamo accontentarci dei pur belli Le spade (Meridiano Zero) e L'ussaro blu (Theoria). Fuori catalogo o del tutto inediti il romanzo satirico Perfide, 1950, il pamphlet reazionario Le Grand d'Espagne, il bellissimo saggio Amour et Néant. Nel 1987, la casa editrice Sugarco aveva in catalogo il capolavoro di Jean Raspail, I nomadi del mare, il racconto dell'incontro disastroso fra le tribù della Terra del Fuoco e gli occidentali colonialisti. Per capire lo sconquasso del multiculturalismo e della globalizzazione bastava questo libro, scritto da un autore che si pone dal punto di vista cristiano, senza cedere alla lacrima facile. Bellissimo, no? Non potete saperlo, è introvabile. Anche Raspail, autore del controverso Il Campo dei santi (Il cavallo alato), romanzo dove prevedeva l'immigrazione di massa, è uno sconosciuto o quasi in Italia. Ma da noi sono sconosciuti anche i conosciuti. Molti saggi del Fernando Pessoa «scandaloso», antidemocratico e cultore dell'esoterismo, sono inediti o introvabili. Ne scrive Ángel Crespo ne La vita plurale di Fernando Pessoa (Bietti). Ezra Pound dovette affidarsi a Scheiwiller per decenni, prima di essere accolto (solo come poeta) da Mondadori. Ma se pensate di aver letto tutto di Pound, vi sbagliate, purtroppo. Non ci sono le poesie di Lustra e Personae. Sarebbe bello leggere Selected Poems 1938-1958: Summer Knowledge di Delmore Schwartz. Poeta, narratore, alcolista, bipolare, oratore carismatico, protagonista di un capolavoro di Saul Bellow, Il dono di Humboldt, maestro di Lou Reed e ci fermiamo qui. Verrà a qualcuno la curiosità di leggerlo? Probabilmente sì. Ma se lo può scordare, nessuno vuole tradurlo, nonostante Neri Pozza ne abbia pubblicato i racconti. E Cormac McCarhty? Impossibile ci siano inediti in giro. Invece c'è: The Stonemason. Albert Camus, di cui si fa un gran parlare in questi giorni per l'anniversario della morte che cade il 4 gennaio 2020? Mancano interi carteggi. Discorso identico per T.S. Eliot e Samuel Beckett. E Nabokov? No, dài. Di Nabokov c'è tutto. Sbagliato, non c'è il teatro. Gli scritti polemici di Georges Bernanos sono ancora largamente incompleti. Nella narrativa qualcosa si muove in ordine (troppo) sparso. Alcuni capolavori hanno traduzioni oggi improponibili. E l'incompletissimo catalogo italiano di Henri de Montherlant? E gli ussari Michel Déon, Antoine Blondin, Jacques Laurent? E Jacques Rigaut? E capolavori riconosciuti come Aurelien di Louis Aragon? Con qualche fortunata eccezione (Déon nel catalogo delle Edizioni e/o) sono scomparsi o quasi dalle librerie italiane. Ma anche molti italiani sono scomparsi dalle librerie italiane. Stiamo parlando di giganti come Leo Longanesi, Giuseppe Prezzolini e Indro Montanelli. Di quest'ultimo provate a cercare i libri africani, come il racconto Ambesà o le memorie di Guerra e pace in Africa orientale, e buona fortuna. Questo listone è quasi completamente dedicato alla narrativa ed è del tutto personale: ogni lettore può estenderlo a piacimento. Gli autori citati sono solo esempi di ciò che è stato ignorato dagli editori o gettato nel dimenticatoio per mai più emergerne. Peccato, potevano creare un minimo di discussione.
Matteo Matzuzzi per “il Foglio” il 30 dicembre 2019. Tafazzi è vivo e lotta nella redazione sportiva di Mediaset, che adesso pare voglia complicare la vita a Tikitaka, programma calcistico tra i più seguiti della tv italiana, capace di parlare di calcio flirtando con il trash senza cadere nel becero. Un doppio autogol che visto da fuori appare incomprensibile, soprattutto nella migliore stagione del programma condotto da Pierluigi Pardo, per ascolti (9 per cento di media) e vivacità. Passi per il nuovo spostamento di canale, il terzo in quattro mesi, di nuovo da Canale 5 a Italia 1, e il ritorno al lunedì, un regalo di Natale perfetto alla ingessatissima "Domenica Sportiva". Quasi un dettaglio però di fronte alla misteriosa sparizione di Antonio Cassano. Nell' ultima puntata, quella della domenica prima di Natale, tra gli ospiti mancava infatti il talento irregolare di Bari Vecchia, sostituito da uno stiloso ma spento Marco Borriello. L'imbarazzo di Pardo, suo grande amico e sponsor da una vita, era evidente: è lui ad avere avuto l' intuizione di lanciare Cassano in tv al fianco di Bobo Vieri. Una coppia divertente, una delle poche novità della stagione sportiva in tv, a tratti strabordante ma quasi mai banale. Ma dov'è finito Cassano che di quella coppia è il leader, con Bobo sornione a fargli da spalla? Era semplicemente in vacanza in montagna, come dimostrano i video Instagram della moglie Carolina Marcialis in questi giorni? È stato messo in panchina per un turno o addirittura tagliato per sempre? Nessuna dichiarazione ufficiale da parte dell' azienda, mentre sui social in molti pensano a una epurazione, qualcuno immagina la solita cassanata. Una lite furiosa con Giorgia Venturini, aveva scritto "Chi" qualche giorno prima. Ipotesi che però dalle nostre verifiche dirette con ospiti e pubblico in studio non sarebbe mai avvenuta. Cassano è debordante, spesso scorretto, genuino fino a sembrare irritante e spesso deve essere bonariamente richiamato da Pardo in diretta. Niente di più. Anche nell' ultima sua puntata, quella di metà dicembre, ci sono stati solo sorrisi, battute, selfie e risate tra Cassano e gli altri ospiti, Venturini compresa. E allora? C'entra forse Wanda Nara che lascia Tikitaka per approdare al "Grande Fratello"? Potrebbe avere chiesto e ottenuto che il suo rivale (sul caso Icardi e non solo) sia anche lui messo momentaneamente in panchina, come suggerisce qualche pettegolo? Sospetto antipatico in effetti. Difficile pensare che Cassano sia stato epurato per una questione estetica, come sostiene qualcun altro (la postura sdraiata e le maglie francamente inguardabili di Cassano non possono essere un problema considerata la solida tradizione orgogliosamente trash di molti programmi Mediaset). Per quanto possa essere troppo esuberante, in una trasmissione che ha toni oggettivamente diversi da quelli con cui il Foglio Sportivo racconta il calcio, ma che ci diverte, ci permettiamo di dire che la rinuncia a Cassano sarebbe una follia. Lui in tv divide, esagera, cazzeggia proprio come faceva in campo. Ma appunto diverte e fa discutere. Quest' anno ha intervistato Capello, duettato con Marzullo, è stato celebrato da Totti, Mourinho e Sacchi e recentemente citato come vero amico anche da Checco Zalone. È nazionalpopolare il giusto, oltre a capirne molto di calcio. Nella puntata senza di lui l' ascolto di Tikitaka si è attestato al 7 per cento, risultato discreto ma oltre due punti in meno rispetto alla settimana precedente con lui in studio. È vero che lo share non può essere l' unico metro per giudicare la qualità di un programma, ma sulle tv generaliste è così che va. E Cassano, indubbiamente, fa share. Lo sanno bene a Sky (che ha già avuto Fantantonio ospite in studio recentemente) e in Rai. Entrambe pronte a trasmettere Euro 2020, potrebbero piazzare il colpo a effetto. Grazie ai Tafazzi di Cologno Monzese.
Se l'antirazzismo diventa un nuovo razzismo intellettuale. Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 01/01/2020, su Il Giornale. Razzista. Quante volte avete letto o sentito pronunciare questa parola nell'arco del 2019? Tante, troppe volte. Le agenzie di stampa hanno battuto il termine «razzismo» più di 2.500 volte, sette volte al giorno. Razzista è un termine inflazionato, liofilizzato, privato del suo significato. La sinistra lo ha usato come un randello per zittire tutto quello che sta alla sua destra, indiscriminatamente trasformando in una folle eterogenesi dei fini chi pronuncia quel termine in qualcosa di molto simile al suo significato. Mi spiego: il razzismo esiste e va combattuto, ma se tutti siamo razzisti - come buona parte dell'intellighenzia radical sostiene - nessuno è razzista. Se dire prima gli italiani, chiudere i porti, affermare che i flussi migratori vanno regolati, denunciare che nelle periferie delle nostre città esiste un problema di sicurezza legato spesso all'immigrazione, se scrivere in un articolo la nazionalità di chi commette un reato e usare la parola zingaro è razzista, beh allora abbiamo un problema. E non è il razzismo. Ma è tutto quello che di straforo stanno infilando dentro la categoria «razzismo» per tappare la bocca all'avversario, per chiudere un discorso che non hanno la forza di aprire e terminare un dibattito che non saprebbero come concludere. E il vero paradosso è proprio questo: il razzismo intellettuale degli antirazzisti contro i presunti razzisti. «Razzista» è la lettera scarlatta da appiccicare sulla fronte dell'avversario per delegittimarlo, per togliergli agibilità politica e lasciarlo fuori dalla zona a traffico limitato del pubblico dibattito. E a beneficiare di questo casino lessicale e ideologico sono proprio i veri (pochi) razzisti, che finiscono per mimetizzarsi nella massa informe del «razzista diffuso», il nemico pubblico inventato ad hoc per dare agio alla sinistra di lustrare, a favore di telecamera, il proprio buonismo affettato. L'Italia non è il Paese dell'onda nera - troppe volte annunciata e mai (fortunatamente) arrivata -, l'Italia è il Paese dell'accoglienza e del buonsenso. Buonsenso che ci auguriamo nel 2020 ci permetta di archiviare, almeno per un po', la falsa emergenza razzismo per occuparci di cose più serie.
Salone del Libro invita Altaforte, la casa editrice vicina a Casapound dopo la cacciata di un anno fa. Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandro Chetta. Si profila un nuovo caso Salone del libro-Altaforte: la kermesse torinese avrebbe invitato «ufficialmente» la casa editrice vicina a CasaPound a partecipare alla nuova edizione 2020. Il brand fondato da Francesco Polacchi era finito al centro delle polemiche durante la scorsa edizione della kermesse torinese con il libro di Chiara Giannini «Io sono Matteo Salvini». «Caro editore ti abbiamo riservato uno spazio speciale al salone internazionale SalTo Nuovi Editori - si legge nella mail ricevuta da Altaforte - Ogni editore per noi è importante con il suo lavoro arricchisce varietà titoli garantendo bibliodiversità, aiuta a preservare la pluralità e diffusione delle idee». A dare la notizia è il «Primato nazionale», la versione online della rivista cartacea edita dallo stesso editore di Altaforte: «Possibile che gli organizzatori del Salone del Libro di Torino siano stati folgorati sulla via del pluralismo e della libertà di espressione?», si chiede il sito d’informazione, spiegando che Altaforte «ha deciso di accettare l’invito e di confermare la partecipazione per il prossimo maggio, precisando però che l’azione legale per il danno subito l’anno scorso resta in piedi». Francesco Polacchi ribadisce inoltre: «Parteciperemo nonostante le polemiche politiche che quasi sicuramente si solleveranno. Riteniamo che avere uno spazio sia un nostro diritto. Ma ci tengo a precisare che la causa di risarcimento per il danno di immagine subito l’anno scorso andrà avanti».
Facebook rimuove la pagina di Altaforte, casa editrice vicina a CasaPound. Lo scorso anno al Salone del Libro di Torino, il suo stand era stato al centro di una polemica che aveva portato alla sua esclusione. Adesso la decisione del social network: “Contenuti che incitano all’odio”. Lara Crinò l'11 luglio 2020 su la Repubblica. Nelle ultime ore Facebook ha prima nascosto, poi rimosso la pagina della casa editrice Altaforte, con la motivazione che i post pubblicati non rispettavano gli standard della community: “Contenuti che incitano all’odio”. “Anche se consentiamo alle persone di esprimersi liberamente su Facebook, adottiamo provvedimenti nel caso di segnalazioni di abuso verbale verso le persone” si leggeva nell’avviso comunicato agli amministratori. Una delle ultime pubblicazioni della sigla editoriale è il libro intervista a uno dei leader di CasaPound, Simone di Stefano, dal titolo Una Nazione. Simone Di Stefano accusa l’Unione Europea. Qualche ora fa è arrivata su Twitter la risposta di CasaPound, con il tweet: “Solidarietà ad Altaforte Edizioni, che ha anche recentemente pubblicato il libro di Simone Di Stefano, per la censura subita da Facebook” e il lancio dell’ hashtag #iosonoAltaforte. Nel maggio del 2019 Altaforte era stata protagonista delle cronache per la sua partecipazione al Salone di Torino: la più importante fiera libraria italiana aveva rescisso il contratto con la casa editrice, che inizialmente doveva avere uno stand all’interno di uno dei padiglioni, dopo la richiesta del Comune di Torino e della regione Piemonte in seguito alle polemiche per la sua partecipazione. Era stata una sopravvissuta alla Shoah, Halina Birenbaum, a sollevare la questione, dicendo che non avrebbe partecipato ai suoi incontri previsti con gli studenti delle scuole se fosse stato presente in fiera l’editore vicino ai movimenti neofascisti. L’editore di Altaforte, che in quel periodo aveva appena fatto uscire nel suo catalogo Io sono Matteo Salvini- intervista allo specchio aveva definito la decisione del Salone “un attacco a Salvini e a me". Parlava di censura allora, lo ripete oggi.
La Germania mette fuorilegge movimento neonazista: «Contrario alla Costituzione». Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. La Germania ha dichiarato fuorilegge «Combat 18», formazione neonazista tra le più temute del paese e legata alla rete internazionale dell’ultradestra denominata «Blood & honour». L’annuncio è stato dato dal ministro dell’interno Martin Seehofer definendo il gruppo «contrario all’ordine costituzionale». Contemporaneamente sono scattate numerose perquisizioni in diversi lander tedeschi ai danni di sedi del movimento. A Combat 18 viene contestato il fatto di essere «pronta all’uso delle armi» e ispirata a all’antisemitismo e al nazismo. L’anno scorso la formazione era tornata nuovamente all’attenzione dei media per un suo presunto rapporto con Stephan Ernst, l’uomo accusato di aver ucciso l’esponente della Cdu, Walter Luebcke, sulla terrazza della casa di quest’ultimo. «Il divieto rappresenta un chiaro messaggio», ha dichiarato Seehofer. «L’estremismo di destra e l’antisemitismo non devono avere un posto nella nostra società». Il ministro dell’Interno ha aggiunto che Combat 18 «ha contribuito attraverso la produzione di musica dai contenuti di estrema destra di diffondere un’ideologia che disprezza i diritti umani». Proprio il caso Luebcke, così come l’assalto alla sinagoga di Halle dimostrano quale sia «il pericolo» rappresentato dall’estremismo di destra in Germania. «Combat 18» trae il suo nome dalle iniziali di Adolf Hitler, che sono per l’appunto la prima e l’ottava lettera dell’alfabeto; la sua attività è principalmente quella di organizzare raduni di gruppi rock ispirati all’ideologia dell’estrema destra. In seguito al provvedimento di Seehofer sarà vietato utilizzare il marchio «Combat 18 Deutschland» ma la semplice abbreviazione «C18». In Germania è già stato messo al bando il gruppo «Blood & Honour», espressione di movimenti neonazisti e razzisti nati in Gran bretagna; l’uso di quest’ultima sigla è già stato vietato anche in Spagna e in Russia. La Germania ha adottato leggi molto severe contro ogni forma di apologia del nazismo, punita con pene fino a 3 anni di carcere. E’ vietato anche il saluto nazista in pubblico. Un pacchetto di misure varate dal governo tedesco nell’ottobre scorso sulla scia dell’attacco alla sinagoga di Halle e dell’omicidio del politico Walter Luebcke, obbliga Facebook a segnalare alle autorità chi posta svastiche o contenuti assimilabili all’ideologia nazionalsocialista.
Usa: fecero saluto nazista, licenziate 30 guardie carcerarie. L'immagine fu pubblicata da media locali. Il pugno duro del governatore del West Virginia. La Repubblica il 31 dicembre 2019. Saranno licenziati una trentina di aspiranti guardie carcerarie del West Virginia, negli Stati Uniti, che durante il loro apprendistato hanno fatto il saluto nazista in una foto di gruppo. Lo ha annunciato il governatore Jim Justice in un comunicato in cui ha fatto sapere che seguirà tutte le raccomandazioni rivoltegli da un rapporto interno che aveva suggerito il licenziamento dei responsabili. "Questo tipo di comportamento non sarà tollerato da nessuna agenzia governativa finchè ricoprirò questo incarico", ha promesso il governatore. La foto scattata durante un corso di formazione era stata pubblicata dai media Usa a inizio dicembre. I secondini in uniforme vi fanno il saluto nazista sotto la scritta "Hail Byrd!", dal nome della loro istruttrice, Kassie Byrd. Proprio l'istruttrice aveva cercato di ridurre l'episodio a una goliardata osservando che il riferimento era al fatto che lei fosse "una dura come Hitler". Il rapporto inviato al governatore, però, censura pesantemente l'iniziativa dei secondini che definisce frutto di "ignoranza" e di "una deplorevole mancanza di giudizio".
Alberto Busacca per “Libero quotidiano” il 31 dicembre 2019. Ancora lui. Il fantasma del Duce riesce a rovinare alla sinistra pure il Capodanno. Sì, perché l' antifascismo non è andato in vacanza. E in questi giorni i nuovi partigiani sono alle prese con un altro scottante problema: i calendari del 2020. Succede che (come ogni anno, a dire la verità) nelle edicole e su internet è arrivato il "calendario storico 2020" di Benito Mussolini. In pratica, al posto della modella di turno, ogni mese si trova una foto del capo del fascismo (a cavallo, sul balcone, mentre passa in rassegna le truppe) accompagnata da una sua frase più o meno celebre (cose del tipo «fate che le glorie del passato siano superate dalle glorie dell' avvenire»). Il pubblico di affezionati non manca, solo che ai compagni la cosa sembra proprio non andare giù. La presenza del calendario in alcune edicole della provincia di Bologna, ad esempio, ha fatto scattare la sezione locale dell' Anpi. Che, come riportato dal sito bolognatoday, ha reagito con un duro comunicato di protesta: «Numerosi cittadini ci hanno segnalato subito il fatto, manifestando grande dispiacere nel vedere il volto di Mussolini messo in bella mostra. Si sono sentiti offesi da quell' immagine, apparentemente innocua ma carica di significati. L' esposizione di proclami o calendari inneggianti alla figura di Mussolini e al fascismo risulta in contrasto con i valori nazionali iscritti nella Costituzione». Quindi l'appello ai commercianti: «Pur sapendo che la diffusione di questi gadget non è espressamente vietata dalle attuali leggi, chiediamo a tutti gli esercenti del nostro territorio di rifiutarsi di venderli nei propri esercizi. Con la consapevolezza che la libertà e la democrazia sono conquiste importantissime ma fragili, che hanno bisogno di essere costantemente difese con l' impegno e la collaborazione attiva di tutti i cittadini». L'allarme, da Bologna, è poi arrivato pure nella Capitale. Lanciato, in questo caso, dal sito globalist: «Anche quest' anno l'edicola nel cuore di Roma Prati, tra Focus, Focus Junior, Le Scienze e riviste di viaggi espone calendari e monografie di Mussolini. Di certo l'apologia del fascismo in tutte le sue forme, secondo l' ordinamento giuridico italiano e la Costituzione, è un reato. Quindi cosa ci fanno quelle pubblicazioni in bella mostra?». In realtà, come spiegato dall'Anpi, i calendari di Mussolini non sono fuorilegge. Il problema, però, è un altro: davvero oggi qualcuno pensa di difendere la Costituzione (o addirittura la democrazia) andando a sbirciare se nelle edicole spunta un' immagine del Duce? Davvero le nostre istituzioni sono così fragili? No, per fortuna. Però la gara a chi è più antifascista sta portando a risultati paradossali. Ad Ascoli le sardine hanno protestato per un pupazzo di Babbo Natale con il braccio teso nel saluto romano. In Val di Susa è stata denunciata la presenza di un ritratto di Mussolini all' interno di un ristorante. Mentre a Bari l'associazione dei partigiani ha fatto un esposto al prefetto perché in una gioielleria della città è in vendita (a 45 euro) un ciondolo a forma di fascio littorio (e ci limitiamo soltanto agli ultimi giorni). Ma perché tanta agitazione? Se le minacce alla democrazia sono queste, a sinistra possono stare tranquilli e godersi il cenone di San Silvestro. Certo, magari evitando i ristoranti che espongono un ritratto del Duce...
Frase su Hitler, l’università di Siena licenzia il prof Castrucci (ma lui è già in pensione). L’Arno - Il Giornale il 24 gennaio 2020. Vicenda abbastanza surreale. Il professore che fece un post su Twitter parlando di Hitler e dell’Europa (con tanto di foto del capo del nazismo), scatenando una clamorosa polemica con tanto di denuncia da parte dell’ateneo di Siena, è stato licenziato. Ma da alcune settimane era in pensione, quindi il licenziamento non ha alcun effetto pratico. Si è concluso con il massimo della pena prevista il procedimento disciplinare avviato dall’Università di Siena nei confronti del professor Emanuele Castrucci, 67 anni, ordinario di filosofia del diritto, reo di aver pubblicato, su Twitter, alcuni commenti che rivalutavano Hitler e il regime nazista. Il cda dell’Ateneo ha riconosciuto “nel comportamento del professor Castrucci gli estremi integranti un illecito disciplinare passibile della sanzione della sospensione nella misura massima”, ovvero la sua destituzione dalla cattedra, che comporta la sospensione dall’insegnamento e da ogni attività didattica e la sospensione dallo stipendio. La condanna però non produrrà alcune effetto pratico, perché Castrucci nel frattempo è andato in pensione. Il cda dell’Università, presieduto dal rettore Francesco Frati, ha preso atto del parere espresso dal Collegio di disciplina dopo l’istruttoria del procedimento disciplinare e “ha ritenuto necessario concludere il procedimento e definire la sanzione benché il professor Castrucci abbia nel frattempo richiesto il pensionamento e non sia più quindi in servizio”. Il rettore Frati prima della seduta ha convocato una riunione congiunta del Senato Accademico e del Consiglio di Amministrazione per comunicare ai massimi organi dell’Ateneo l’esito del procedimento istruttorio del Collegio di Disciplina. In questa occasione, informa una nota, è stata “ribadita all’unanimità la vocazione anti-fascista e anti-nazista dell’Università di Siena, che si richiama da sempre ai principi costituzionali di contrasto a qualsiasi forma di discriminazione verso popoli ed etnie”.
La frase incriminata. Il post del professor Castrucci che aveva fatto scoppiare lo scandalo era questo: “Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo”. A chi lo aveva subito contestato, sui social, Castrucci aveva risposto in questo modo piccato: “I gentili contestatori del mio tweet non hanno compreso una cosa fondamentale: che Hitler, anche se non era certamente un santo, in quel momento difendeva l’intera civiltà europea”.
Da adnkronos.com il 2 gennaio 2020. "Non sono nazista e nemmeno filonazista.Il mio account è stato chiuso. Saluti a tutti". E' quanto si legge sul profilo Twitter di Emanuele Castrucci, 67 anni, professore di filosofia del diritto dell'Università di Siena, in pensione da ieri, che è stato autore di alcuni tweet inneggianti al dittatore nazista Adolf Hitler e per questo finito sotto inchiesta disciplinare da parte dell'Ateneo e indagato dalla Procura senese per il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, aggravata da negazionismo. Il Tribunale del Riesame, accogliendo il ricorso della Procura di Siena, guidata dal procuratore capo Salvatore Vitello, ha stabilito che il profilo Twitter di Castrucci va posto sotto sequestro. Il gip del Tribunale senese, Roberta Malavasi, aveva invece respinto la richiesta di sequestro sostenendo che in quei tweet non ci sarebbero gli estremi del reato di propaganda e istigazione all'odio razziale, ma solo una rilettura storica e apologetica della figura di Hitler. Sempre per decisione del Tribunale del Riesame, è stato disposto che l'inchiesta venga trasferita da Siena a La Spezia, dove è residente il professore Castrucci, nato a Monterosso al Mare il 3 giugno 1952. Il suo pensionamento, con decorrenza 1° gennaio 2020, ha bloccato la richiesta di destituzione del docente dalla cattedra accademica, come richiesto dal rettore Francesco Frati, con il suo conseguente licenziamento dall'Università, dove invece sarebbe potuto rimanere a insegnare fino al compimento dei 70 anni. Prima di chiudere il profilo Twitter, Castrucci ha pubblicato quattro tweet per spiegare la sua posizione: "Non sono nazista e nemmeno filonazista. Se mi sono occupato dell'argomento è perché, da filosofo della storia, riconosco che 75 anni fa si è verificato uno snodo definitivo riguardo all'interpretazione della storia mondiale e alla comprensione del destino di una civiltà". "Le mie idee non conformi al mainstream storiografico che la 'storia scritta dal vincitore' ci ha propinato sui fatti, avvenuti nell'ultimo secolo, ha fatto sì che io sia stato scelto come capro espiatorio in una vergognosa campagna denigratoria orchestrata dai mezzi di comunicazione", ha scritto ancora il filosofo. "I padroni del circolo mediatico, nel ribadire a ogni istante il loro servilismo senza critica, vedono in ogni tentativo di critica radicale dei criteri ultimi di legittimità dell'Occidente un pericolo mortale - ha aggiunto Castrucci - Per questo sono stato azzannato da una muta sbavante di cani". E infine: "Ma nessuno può seriamente pensare che la questione dell'interpretazione storiografica del destino di una civiltà possa essere risolto in sede giudiziaria, facendo leva su meccanismi emotivi infantili per orientare le masse, in base al riflesso pavloviano: nazismo? Orrore!". Il rettore dell'Ateneo senese, Francesco Frati, ha disposto con un decreto rettoriale, su richiesta dell'interessato, il collocamento in pensione di Castrucci a metà dicembre. La richiesta di pensionamento, accordata, è emersa durante la riunione della sezione riservata ai professori di I fascia del Collegio di Disciplina dell'Università di Siena, che si è insediata il 19 dicembre scorso proprio per esaminare "gli atti trasmessi dal rettore in relazione alla proposta di sanzione per il prof. Emanuele Castrucci". Il procedimento disciplinare sanzionatorio andrà comunque avanti. Il caso del professore filonazista è iniziato alla fine di novembre, con un tweet sotto la foto di Adolf Hitler e del suo cane, in cui il professor Emanuele Castrucci dava voce al Führer, facendogli dire: "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo" e definendolo "difensore della civiltà europea". Quel tweet su Hitler è stato il fattore scatenante della reazione dell'Università di Siena, con il rettore Francesco Frati che ha presentato un esposto in Procura, appellandosi alla legge Fiano che prevede il reato di negazionismo di genocidi e crimini di guerra, ed altri due esposti da parte della comunità ebraica di Firenze e Siena e della Regione Toscana. Da parte sua, Castrucci aveva replicato solo via mail ai giornalisti fin da subito, ribadendo la sua linea di "libertà di opinioni espresse fuori dall'attività didattica" e ripetendo di "non aver mai negato l'Olocausto, né esaltato il nazismo".
Di nuovo chiuso il profilo Twitter del prof Castrucci. Orlando Sacchelli su L’Arno-Il Giornale il 2 gennaio 2020. Ricordate il professor Emanuele Castrucci, balzato alle cronache per il tweet in cui parlava di Hitler? In pensione dal 1° gennaio 2020 il docente di filosofia del diritto dell’Università di Siena torna a far parlare di sé scrivendo su Twitter la seguente frase: “Non sono nazista e nemmeno filonazista. Il mio account è stato chiuso. Saluti a tutti”. Cosa è successo di nuovo e perché si torna a parlare di Castrucci? Il Tribunale del Riesame ha accolto il ricorso della Procura di Siena stabilendo che il profilo Twitter del prof va posto sotto sequestro. Il gip del Tribunale senese aveva respinto la richiesta di sequestro, sostenendo che in quei tweet non ci fossero gli estremi del reato di propaganda e istigazione all’odio razziale, ma solo una rilettura storica e apologetica della figura di Hitler. Il Riesame ha disposto anche che l’inchiesta venga trasferita da Siena a La Spezia, nella cui provincia Castrucci risiede. L’entrata in pensione di fatto ha bloccato la richiesta di destituzione del docente dall’Ateneo di Siena. Ma torniamo al Castrucci pensiero. Poco prima che gli venisse chiuso il profilo in quattro tweet ha provato a spiegare la propria posizione: “Non sono nazista e nemmeno filonazista. Se mi sono occupato dell’argomento è perché, da filosofo della storia, riconosco che 75 anni fa si è verificato uno snodo definitivo riguardo all’interpretazione della storia mondiale e alla comprensione del destino di una civiltà”. “Le mie idee non conformi al mainstream storiografico che la ‘storia scritta dal vincitore’ ci ha propinato sui fatti avvenuti nell’ultimo secolo ha fatto sì che io sia stato scelto come capro espiatorio in una vergognosa campagna denigratoria orchestrata dai mezzi di comunicazione”. “I padroni del circolo mediatico, nel ribadire ad ogni istante il loro servilismo senza critica, vedono in ogni tentativo di critica radicale dei criteri ultimi di legittimità dell’Occidente un pericolo mortale. Per questo sono stato azzannato da una muta sbavante di cani”. Il prof conclude così: “Ma nessuno può seriamente pensare che la questione dell’interpretazione storiografica del destino di una civiltà possa essere risolto in sede giudiziaria, facendo leva su meccanismi emotivi infantili per orientare le masse, in base al riflesso pavloviano: nazismo? orrore!”. Castrucci è bravo a giocare con le parole. Ma quella frase che ha scritto (con la foto di Hitler) continua a non piacerci. Ve la riproponiamo: Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo”.
"Il Duce? Operaista". Il poeta di sinistra censurato dai social. Luigi Mascheroni, Venerdì 27/12/2019, su Il Giornale. La poesia ha parlato tante volte di Potere e di politica. Ma ormai è sempre più difficile parlare in un certo modo di politica, anche per un poeta. Ecco un esempio sconfortante di come operino i filtri della censura e del «parlare» corretto, oggi. Il 14 dicembre il sito Affaritaliani.it ha pubblicato una lunga videointervista realizzata dal direttore della testata online, Angelo Perrino, allo scrittore Franco Loi, 90 anni fra pochi giorni, occhi appannati ma mente lucidissima: in un'ora di conversazione il poeta genovese - ma milanese dal 1937 - parla della sua vita, di letteratura, della sue città, della Mondadori (negli anni '60 Loi lavorò all'Ufficio stampa della casa editrice), addirittura delle poesie che gli mandò in lettura Giorgio Napolitano, e poi della sua religiosità e di politica: già comunista duro e puro, poi vicino alla sinistra operaista, dagli anni '70 ha abbandonato qualsiasi militanza, ma ha continuato a osservare la società italiana e il Potere, come faceva fin da ragazzino, sotto il fascismo (è nato nel 1930). E proprio al Ventennio nella videointervista Franco Loi dedica un giudizio scomodo e spiazzante per molti: a un certo punto sostiene che «Mussolini ha fatto più di tutti per la classe operaia, ha dato la mutua, la malattia e la pensione...». È la riflessione, tra il ricordo e il giudizio storico, di un poeta novantenne, contestualizzato nel tempo e pacato nei modi, eppure tanto è bastato. Complice il titolo dato da Affaritaliani.it all'intervista («Mussolini ha fatto più di tutti per gli operai»), il video, rilanciato sia sulla pagina Facebook del sito sia sul profilo personale del direttore, dieci giorni dopo, la vigilia di Natale, viene bloccato da Facebook: link rimosso e 24 ore di stop alla condivisione di altri contenuti. A questo punto l'autore dell'intervista ripropone il video con un titolo differente («Come gesto di disobbedienza civile», spiega) e in poche ore diventa il più visto del sito, rilanciato da altri social, come Twitter. Morale, anzi morali (sono almeno due). Primo: i lettori sono più intelligenti di un algoritmo. Secondo: se c'è un fascismo, in questa vicenda, è quello di Facebook (Franco Loi si è sempre definito un uomo di sinistra, un ex comunista che ha messo gli operai al centro della sua scrittura, e la frase è una sua opinione, senza alcuna apologia). Rimane, alla fine, una curiosità. Franco Loi, con Davide Rondoni, nel 2001 curò una celebre antologia della poesia italiana, fra il 1970 e il 2000, uscita da Garzanti. Titolo: Il pensiero dominante. In politica si dice pensiero unico.
Beatrice Manca per ilfattoquotidiano.it il 26 dicembre 2019. “Nella civiltà della libertà digitale è preoccupante che si basi la gerarchia delle notizie su un algoritmo e non sull’intelligenza delle persone. La censura da parte di una piattaforma non va mai bene: ci sono sistemi meno cretini di intervenire”. Angelo Maria Perrino, direttore di Affari Italiani, commenta così la censura di una videointervista al poeta Franco Loi intitolata “Mussolini ha fatto più di tutti per gli operai”. Dopo dieci giorni dalla pubblicazione, Facebook ha rimosso il contenuto e bloccato per 24 ore la possibilità di postare. “I gestori dell’informazione non possono sostituirsi al giudizio delle persone” spiega al fattoquotidiano.it .”Bisogna dare libero corso alle idee, riportare i fatti e lasciare che i lettori si facciano la propria idea. L’unico limite deve essere il codice penale. Altrimenti, come in questo caso, si producono gesti di censura orrendi: questi sì, fascisti“. Il 14 dicembre sul sito Affaritaliani.it è stata pubblicata una lunga intervista allo scrittore Franco Loi, 95 anni, ormai cieco: in un’ora di conversazione Loi intreccia aneddoti e ricordi personali, parla di politica, di letteratura e spiritualità. L’intervista viene pubblicata con il titolo ‘Mussolini ha fatto più di tutti per gli operai’, in riferimento a un brevissimo passaggio dell’intervista in cui Loi sostiene che Mussolini aveva fatto molto per gli operai in termini mutualistici, assistenziali e previdenziali. “Mussolini era un socialista, non dobbiamo dimenticarlo”, afferma il poeta alla fine dell’intervista. “Ma poi si è staccato dal partito per fondare i Fasci di Combattimento: il fascismo poi è stato quello che è stato, è stata una dittatura”. “La censura si basa solo sul titolo – spiega Perrino – perché nel video si parla di cultura, di Mondadori della Milano che fu, fino alle poesie di Napolitano e al rapporto con Bossi… una chicca sotto il profilo culturale. La parte su Mussolini è il ricordo personale, a distanza di mezzo secolo, di chi quel periodo l’ha veramente vissuto”. Il video viene rilanciato sia sulla pagina Facebook del sito, sia sul profilo personale del direttore. Dieci giorni dopo, alla vigilia di Natale, scatta la tagliola di Facebook: link rimosso e 24 ore di stop alla condivisione di altri contenuti. “Di recente hai pubblicato un contenuto che non rispetta le normative, pertanto ti è stata bloccata questa funzione” recita un avviso della piattaforma. “Ho accettato la sospensione – dice Perrino – ma ho riproposto il video con un titolo differente, come gesto di disobbedienza civile. Ora è diventato il video più visto del sito: le persone sono più intelligenti di un algoritmo”. Perrino ha definito la rimozione da parte della piattaforma “un gesto di violenza becera”, una cosa “folle”. Inoltre si dice “molto preoccupato” dai criteri del social: “Non mi risulta che siano stati gli utenti a segnalarlo, anche perché sotto, nei commenti, era nato un piccolo dibattito molto equilibrato, dai toni pacati. Mi spaventa la facilità e la superficialità con cui si può censurare un contenuto, solo perché c’è il nome di Mussolini: stando a queste regole dobbiamo privarci di un discussione sulla nostra storia”. Riguardo alle parole di Loi sul ventennio, Perrino commenta: “Anche se avesse detto un’ingenuità, non è sufficiente a tacciarlo di fascismo. Loi si è sempre definito un uomo di sinistra, un’ex comunista che ha messo gli operai al centro della sua produzione poetica. Quella era una sua opinione, non c’era alcuna apologia. Se c’è un fascismo, in questa vicenda, è quello di Facebook“. Non è la prima volta che la policy di Facebook fa discutere: l’ultimo caso controverso era stato il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, quando era stata chiusa la pagina ‘Abbatto i muri’, contro la violenza di genere, per un post sulla masturbazione e sulla sessualità femminile. Aveva inoltre cancellato immagini di ragazze in biancheria in quanto “contenuti pornografici” anche se in realtà erano state mandate dalle ragazze stesse come parte di una campagna per la "body liberation", la consapevolezza di sé. due mesi prima, a settembre, erano stati cancellati da Facebook e Instagram i profili ufficiali di CasaPound e Forza Nuova, insieme a quelli di numerosi responsabili nazionali. “Sono due casi completamente diversi – commenta Perrino – CasaPound è un parte politica con delle idee ben precise, noi facciamo informazione. Nessun gestore dei mezzi di informazione può sostituirsi al giudizio del pubblico: il nostro ruolo è dare conto dei fatti, dare libero corso alle idee nei limiti del codice penale e della privacy. Ci sono sistemi meno cretini per intervenire, non si può affidare l’informazione a un algoritmo“.
(ANSA il 13 dicembre 2019) "Abbiamo rispettato l'ordinanza del tribunale e ripristinato la Pagina e il Profilo in questione". Lo afferma un portavoce di Facebook in merito alla decisione del tribunale civile di Roma che ieri ha accolto il ricorso di Casapound e ha ordinato al social network la riattivazione immediata degli account del movimento chiusi lo scorso 9 settembre. "Stiamo esaminando la decisione e valutando le opzioni disponibili", dichiara il portavoce di Facebook. La pagina Facebook di Casapound è stata riattivata "qualche minuto prima della mezzanotte", si legge in un articolo sul sito del quotidiano sovranista "Il primato nazionale", postato sulla pagina social di Casapound che ora è tornata visibile. Ad essere riattivati sono stati anche - si legge - il profilo personale e la pagina pubblica dell'amministratore Davide Di Stefano.
FACEBOOK DOVRÀ RISARCIRE CASAPOUND. IL SOCIAL NETWORK PAGHERÀ 15MILA EURO. Francesco Specchia per “Libero Quotidiano” il 13 dicembre 2019. Non citeremo, banalmente, lo pseudo Voltaire, «non sono d' accordo con quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a farlo» (in realtà era una frase di Stephen G. Tallentyre, I disapprove of what you say). Ma il fatto che CasaPound - del cui pensiero non condividiamo onestamente quasi nulla - abbia battuto in tribunale Facebook che ne aveva oscurato il profilo pubblico; be', questa è senz'altro la vittoria di un grande principio liberale. Si chiama, banalmente, difesa della libertà d' espressione. Accade che lo scorso 9 novembre il social network di Mark Zuckerberg avesse bloccato il sito del movimento. Furono inoltre chiusi contestualmente i profili di persone vicine a Casapound, nonché diversi siti web collegati. Tra questi, quello del vicepresidente di CasaPound Italia, Simone Di Stefano - 140mila iscritti -; il quale aveva descritto l' atto come «un' azione fortemente antidemocratica». La giustificazione di Facebook era dettata da un giudizio, espresso via mail e come sempre insindacabile: «Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri su basi identitarie non possono trovare posto su Facebook e Instagram». Che è un principio alato, per carità. Ma il problema è che la chiusura non è avvenuta per alcun caso specifico, ma semplicemente perché quelli di CasaPound sono fascisti ché, tanto, prima o poi, un reato lo commettono sempre. Una sorta di pre-crimine, tanto per citare Philip K. Dick. Ma non funziona così, la censura generica della libertà di pensiero non è contemplata dalla legge italiana. Sicché il tribunale civile di Roma ha accolto il ricorso del movimento di ultradestra, condannando Facebook a riattivarne il profilo e garantire un indennizzo di 15mila euro per il procurato disagio. Nella sentenza, il giudice Stefania Garrisi ha motivato l' indennizzo economico evidenziando i problemi etici seguenti al blocco della pagina: «Il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso dal dibattito politico italiano, come testimonia il fatto che la quasi totalità degli esponenti politici italiani quotidianamente si trovi ad affidare alla propria pagina Facebook messaggi politici e diffusione di stralci del proprio lavoro quotidiano». E, ancora, il rapporto tra Facebook e Casa Pound «non è assimilabile al rapporto tra due soggetti privati qualsiasi in quanto una delle parti, appunto Facebook, ricopre una speciale posizione». E deve dunque rispettare i principi costituzionali. E la Costituzione tutela all' art. 49 uno dei di principi cardine essenziali dell' ordinamento: quello del pluralismo dei partiti politici. Cioè: Facebook non può fare come cavolo gli pare, deve rispettare i principi della nostra Costituzione, almeno finché non si dimostri che quelli stessi siano stati violati. Altro nostro totem costituzionale è quello dell' art. 21 laddove si stabilisce che il diritto di manifestare il pensiero in ogni forma è libero tranne nei casi di reati: ingiuria, vilipendio, calunnia, diffamazione, istigazione a delinquere e oltraggio al "buon costume". Ah, c'è anche l'apologia di fascismo, nel quale CasaPound tende a scivolare abbastanza facilmente. Ma qui ancora non l' ha fatto. La sentenza è, in effetti, storica. Perché stronca l'algoritmo di Facebook che inchioda i pensieri degli utenti attraverso il filtro feroce del politicamente corretto. So anch' io che l'antifascismo è un valore costituente, grazie. Ma non ci vogliono certo le multinazionali americane a ricordarmelo. Tra l'altro, il primo emendamento della Costituzione americana concede margini d' espressione molto più laschi rispetto alla nostra Carta; ai quali si richiamano, per certi versi, sia l' art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell' Ue che l' art. 48 della Dichiarazione Universale dei diritti dell' uomo. Ma il problema è che spesso i social travalicano le leggi, come lo fanno gli uomini. Fin quando avremo paura delle idee altrui - di qualunque colore siano - rimarremo col dubbio che i nostri anticorpi democratici non siano all' altezza.
Enzo Boldi per giornalettismo.com il 24 febbraio 2020. Qualche mese fa aveva fatto scalpore la decisione di Facebook di censurare e bannare i profili legati a Forza Nuova e ai suoi iscritti. Oggi il Tribunale di Roma, dopo aver ricevuto la querela e il ricorso da parte del movimento politico di estrema destra, ha dato ragione al social di Mark Zuckerberg legittimando quella scelta di dire basta a pagine social ricche di espressioni xenofobe e incitazione all’odio razziale. E ora dovrà anche pagare le spese processuali. Il provvedimento è arrivato nel corso della giornata di ieri (domenica 23 febbraio), ma è stato reso pubblico solamente oggi. Forza Nuova, con il suo ricorso, aveva denunciato un atto di censura rispetto all’articolo 21 della Costituzione. Secondo il movimento di estrema destra, infatti, la scelta di Facebook è stata una vera e propria privazione della libertà di espressione del pensiero. Ma il giudice del Tribunale di Roma – sezione per i diritti della persona e immigrazione – ha deciso di respingere il loro ricorso.
Giusto oscurare le pagine Facebook di Forza Nuova. Nel testo dell’ordinanza firmata dal Tribunale di Roma, sono stati riportate alcune decine di esempi di post condivisi sui social da Forza Nuova e dalla sua galassia (Lotta Studentesca e il Sindacato Nazionale Lavoratori Italiani): dall’esaltazione delle figura di Benito Mussolini, a post discriminatori sulla donna e a favore di una società patriarcale. Immancabili i post social contro i migranti e gli stranieri.
La sentenza del tribunale di Roma. Alla fine, dunque, Facebook ha legittimamente oscurato le pagine social legate e Forza Nuova e ad alcuni suoi esponenti. Ora il movimento di estrema destra dovrà anche pagare le spese legali dell’intero procedimento. La decisione del Tribunale di Roma serve a sottolineare come il terreno per alcune esaltazioni di non siano i social network.
Niccolò Di Francesco per tpi.it il 13 dicembre 2019. Un gruppo di estrema destra ha deciso di aprire un canale su Pornhub, noto sito pornografico, per aggirare la censura Facebook. La singolare scelta è stata fatta dal gruppo di estrema destra Brescia ai Bresciani. “Alle azioni censorie, non molto lontane dai meccanismi sociali romanzati in 1984 di Orwell, la nostra associazione risponde con una chiara provocazione – affermano gli esponenti del gruppo – ovvero aprendo un canale sul noto sito pornografico Pornhub”. Secondo il gruppo di estrema destra, infatti, quello del porno è “l’unico settore dove la censura politica non può arrivare”. “In piena conformità al regolamento del sito, veicoleremo il nostro messaggio politico, con filmati e fotografie, attraverso l’utilizzo di modelle italiane che ‘combatteranno’ con noi per la causa. Siamo i primi in Italia a farlo, ma siamo certi che molti ci seguiranno” concludono gli esponenti del gruppo. La decisione del gruppo di estrema destra arriva il giorno seguente la notizia della riattivazione della pagina Facebook di CasaPound, ordinata dai giudici del tribunale civile di Roma, che ha accolto il ricorso del gruppo contro la censura sul social ideato da Mark Zuckerberg.
Casapound, Facebook fa ricorso contro la riapertura della pagina: "Non vogliamo che utilizzino i nostri servizi". Il reclamo del social è contro l'ordinanza con cui il 12 dicembre il tribunale civile di Roma ha ordinato la riattivazione immediata della pagina dell'organizzazione di estrema destra. Che replica: Facebook non è la Costituzione, decide lo Stato. Rosita Rijtano il 27 dicembre 2019 su La Repubblica. Facebook contro CasaPound, atto terzo. Il colosso di Menlo Park annuncia battaglia legale contro l'ordinanza del tribunale civile di Roma che lo scorso 12 dicembre ha ordinato al social di riattivare gli account del movimento di estrema destra, oscurati dalla rete sociale nei mesi precedenti. Un braccio di ferro iniziato il 9 settembre del 2019, quando i profili ufficiali di CasaPound e Forza Nuova, nonché quelli di numerosi responsabili nazionali, locali e provinciali, compresi alcuni eletti in diverse città italiane, erano stati cancellati sia da Facebook sia da Instagram. La decisione aveva fatto scalpore e determinato la migrazione in massa delle organizzazioni di estrema destra su altre piattaforme come VKontakte, l'equivalente russo di Facebook. Un blackout durato fino al provvedimento del tribunale civile di Roma che agli inizi di dicembre ha accolto il ricorso presentato dall'organizzazione di estrema destra contro la decisione della rete sociale. La sentenza, firmata da Stefania Garrisi, ha ordinato al social di Mark Zuckerberg "l'immediata riattivazione della pagina dell'associazione di promozione sociale CasaPound", fissando la penale di 800 euro per ogni giorno di violazione dell'ordine impartito, successivo alla conoscenza legale dello stesso, e condannando Menlo Park al pagamento delle spese di giudizio: 15 mila euro. La sentenza era stata festeggiata da CasaPound come una vittoria, ma - come ha spiegato l'avvocato Bruno Saetta su Valigia Blu - si trattava di un provvedimento cautelare. Un'ordinanza che può essere ribaltata nel corso del giudizio e verso cui Facebook ha appena annunciato di aver fatto appello. "Non vogliamo che le persone o i gruppi che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono utilizzino i nostri servizi, non importa di chi si tratti. Per questo motivo abbiamo una policy sulle persone e sulle organizzazioni pericolose che vieta a coloro che sono impegnati in 'odio organizzato' di utilizzare i nostri servizi", ha detto un portavoce della compagnia. Menlo Park sintetizza i motivi che spingono il social a fare ricorso con una frase: "Ci sono prove concrete del fatto che questa organizzazione viola la nostra policy sulle organizzazioni pericolose", hanno spiegato dal colosso hi-tech. Tra i vari esempi riportati nella nota di Facebook, viene menzionata l'organizzazione di un evento per rendere omaggio a Mussolini, una figura di incitazione all'odio la cui presenza non è consentita sulla piattaforma. Ma anche la diffusione di messaggi contenenti simboli di odio che sono stati bannati dal social, eventi e definizioni contro i Rom, nonché immagini di sostenitori nell'atto di fare il saluto nazista. Inoltre, sarebbero stati presi in considerazione comportamenti che violano le policy del social contro l'odio organizzato, come la promozione o il compimento di atti di violenza contro le persone in base a caratteristiche come etnia o nazionalità. A questo proposito si parla di "una serie di segnali diversi", "non solo quelli su Facebook". Anche se, hanno sottolineato da Facebook, non si vuole entrare nello specifico perché "non vogliamo dare alla gente il modo di eludere il sistema". La replica di CasaPound non si è fatta attendere nella persona di Davide Di Stefano, uno dei leader cancellati dal social: "I reclami di Facebook sembrano scritti da un militante dei centri sociali - ha commentato Di Stefano - . Noi non facciamo 'odio organizzato' e non può essere Facebook a stabilire chi parla e chi no, è lo Stato a dire se siamo illegali". "Sedici anni e non sentirli. Alla faccia dei censori di ogni risma. Avanti CasaPound. Alla vittoria!", è invece il testo del messaggio che accompagna le foto postate da CasaPound sul social nelle scorse ore: immagini in cui si vedono dei militanti innalzare la scritta CasaPound sulla facciata del palazzo in via Napoleone III occupato 16 anni fa dal movimento di estrema destra che era stata rimossa questa estate dagli stessi attivisti, prima che lo facesse il Comune di Roma.
Facebook fa ricorso contro la riapertura delle pagine di CasaPound: «Hanno violato regole». Pubblicato venerdì, 27 dicembre 2019 da Corriere.it. Facebook ha presentato un reclamo contro l’ordinanza del Tribunale di Roma che il 12 dicembre scorso aveva ordinato al social di riattivare gli account di CasaPound. «Ci sono prove concrete che CasaPound sia stata impegnata in odio organizzato e che abbia ripetutamente violato le nostre regole. Per questo motivo abbiamo presentato reclamo», fa sapere un portavoce di Facebook. Il reclamo di Facebook è contro l’ordinanza del 12 dicembre con cui il tribunale civile di Roma ha ordinato al social la riattivazione immediata della pagina Facebook di CasaPound, oltre che del profilo personale e della pagina pubblica dell’amministratore Davide Di Stefano. Tali account erano stati disattivati da Facebook il 9 settembre. Il 13 dicembre il social aveva poi ottemperato all’ordine del Tribunale, riaprendo le pagine (che ad oggi risultano infatti accessibili). Quel giorno, un portavoce di Facebook aveva però detto al Corriere che il social stava «valutando le opzioni disponibili», anticipando la decisione odierna di presentare un reclamo. «Non vogliamo che le persone o i gruppi che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono utilizzino i nostri servizi, non importa di chi si tratti. Per questo motivo abbiamo una policy sulle persone e sulle organizzazioni pericolose che vieta a coloro che sono impegnati in “odio organizzato” di utilizzare i nostri servizi», dichiara oggi un portavoce di Facebook. «Partiti politici e candidati, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia».
CasaPound, Facebook non si arrende: reclamo contro l’ordinanza del Tribunale di Roma. Redazione venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Facebook ancora contro CasaPound. Il social di Zuckerberg non si arrende. E presenta un reclamo contro l’ordinanza del Tribunale di Roma. I giudici romani il 12 dicembre scorso avevano ordinato, infatti, «l’immediata riattivazione della pagina dell’Associazione di Promozione Sociale CasaPound». Nella sentenza a firma del giudice Stefania Garrisi si parlava di «accoglimento totale» del ricorso. Il Tribunale di Roma aveva inoltre fissato la penale di 800 euro per ogni giorno di violazione dell’ordine impartito, successivo alla conoscenza legale dello stesso. E aveva condannato Facebook alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate in 15mila euro. Ecco il passaggio della sentenza. «È infatti evidente il rilievo preminente assunto dal servizio di Facebook (o di altri social network ad esso collegati) con riferimento all’attuazione di principi cardine essenziali dell’ordinamento». Come quello «del pluralismo dei partiti politici (49 Cost.), al punto che il soggetto che non è presente su Facebook è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano». La disattivazione della pagina ufficiale di CasaPound era avvenuta il 9 settembre scorso. Ora arriva il reclamo di Facebook. «Non vogliamo che le persone o i gruppi che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono utilizzino i nostri servizi. Non importa di chi si tratti – commenta un portavoce di Facebook – Per questo motivo abbiamo una policy sulle persone e sulle organizzazioni pericolose che vieta a coloro che sono impegnati in “odio organizzato” di utilizzare i nostri servizi. Partiti politici e candidati, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole. Indipendentemente dalla loro ideologia». «Ci sono prove concrete – sottolinea il portavoce di Facebook – che CasaPound sia stata impegnata in odio organizzato. E che abbia ripetutamente violato le nostre regole. Per questo motivo abbiamo presentato reclamo contro l’ordinanza del Tribunale di Roma».
Il M5S vuole cancellare Sgarbi dalla tv, lui replica: “Svergognati”. Redazione venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. “Io non sono contro Gratteri, sono dalla parte dei Tortora. Sono dalla parte delle vittime e sono anche abbastanza disturbato dal fatto che gente come Cecchi Paone o come questo ‘Giarrizzo’ continuino a dire ‘chi invita in televisione’. Come dire che è giusto che io taccia soltanto perché non dico il pensiero unico che voi dite ogni giorno”. Così Vittorio Sgarbi in un video sul suo profilo Facebook stigmatizza le parole dell’eurodeputato M5S Dino Giarrusso che ha detto “perché continuare ad invitare Sgarbi in TV dopo quel che ha detto su Gratteri?“. Un messaggio che fa seguito a quello sul Natale “politicamente scorretto“.
Sgarbi contro Giarrusso: “Gratteri è infallibile?” “Cosa vuol dire ‘siamo dalla parte di Gratteri’? Che Gratteri è infallibile? – afferma Sgarbi in un video -. Che Gratteri è il bene contro il male? Cosa vuole dire questa teoria per cui chi critica Gratteri, chi osa parlare sta con la mafia? Non permetterti Giarrizzo, Giannullo e studia. Io non sto contro Gratteri, sto con Tortora, sto con le vittime. I blitz – sottolinea lo storico d’arte – sono come quelli che facevano i nazisti contro gli ebrei, questo sono. Catturare 300 persone dando per scontato che sono colpevoli, no. E questo non è quello che è accaduto soltanto adesso con una retata? Con un blitz che tu difendi, ignorante? Questa è una storia che c’è già stata e che va detta proprio nel nome di Tortora che tu hai dimenticato, svergognato”. “Allora – rimarca Sgarbi – visto che chi sta con Gratteri sta dalla parte giusta e gli altri stanno dalla parte della mafia. Leggiamo quello che è capitato non molto tempo fa ma quando Gratteri ha catturato con un blitz, come hanno fatto i nazisti con gli ebrei, 126 soggetti arrestati. La Corte d’Appello confermò le condanne solo per 8 imputati. 125 come poveri ebrei umiliati e chiamati mafiosi e soltanto 8 riconosciuti degni di quella azione. Allora non è che abbiamo dimenticato gli innocenti, gli indifesi in nome del blitz. Ma non basta perché io non contrappongo i supposti colpevoli né devo difenderli. Sono certo che tra i 350 del blitz usando tremila carabinieri più della metà saranno innocenti e difendo quei Tortora”.
· Ecco la Tv del nulla.
Se dici stupidaggini scatta l’applauso. Ecco la Tv del nulla. Walter Siti il 29 Gennaio 2020 su Il Riformista. In una puntata di Piazzapulita di qualche tempo fa è andato in onda un servizio sull’inquinamento a Taranto: un bambino che avrà avuto sì e no quattro anni, malato di leucemia, ha detto all’inviato «io ho il sangue birichino». Il dolore imprevisto che mi ha preso allo stomaco (la mia testa che già andava in casa di quel bambino, vedeva lo sforzo dei genitori per spiegargli il suo male e la sua fiducia mentre porgeva il braccio alla flebo) era dovuto alla completa assenza, in quella frase, di retorica. Ci pensiamo poco, di solito, a come la retorica funziona, eppure bisognerebbe rifletterci più spesso. La retorica ha una funzione positiva quando si tratta di convincere molte persone e non c’è tempo, o modo, di fare appello alla loro razionalità; l’apologo di Menenio Agrippa convinse i plebei a scendere dall’Aventino e ad accordarsi coi patrizi, ottenendo qualche legge in loro favore. Così, spesso, per la retorica sindacale. La retorica, si dice, non parla al cervello ma al cuore, o ancora più giù; la cosa di cui però non si tiene conto è che la cattiva retorica, quella ripetitiva e/o roboante, ottunde e inquina anche il cuore. Se invece del «sangue birichino» avessi ascoltato il politico di turno pronunciare frasi come «la vita di un solo bambino conta più di tutta l’Ilva messa insieme», o «chi salva un bambino salva tutto il mondo», al posto dell’imprevisto dolore avrei provato soltanto un po’ di noia. La cattiva retorica ci trasporta in un’area di sentimenti obbligati e collettivi, suscitando individualistici pensieri di rigetto. Se leggo che i due agenti morti in una sparatoria a Trieste nell’ottobre scorso (un dominicano con problemi mentali era riuscito a disarmarli mentre lo accompagnavano in bagno) sono «figli delle stelle», sento svanire la commozione vera che dovrei dirigere alle loro singole persone, alle loro famiglie, ed entro in una facile nebbiolina sentimentale e canzonettistica in cui la loro verità si perde. La retorica è utile quando innalza un eroe a mito nazionale o di classe, ma gli eroi che durano meno di una settimana sono fantasmi mediatici che servono solo a tacitare le coscienze (o, talvolta, a commuovere i giornalisti). La cattiva retorica attinge al serbatoio dei luoghi comuni, che per definizione sono gli argomenti più diffusi e richiedono minor sforzo intellettuale per essere digeriti; per di più, è quasi sempre una storia raccontata a metà. Se per ottenere un consenso elettorale grido che il Partito Democratico a Bibbiano «rubava i bambini», quella storia complicata non la racconto nemmeno per un decimo; ma intanto faccio cadere su quel partito un’ombra insidiosa che si ricollega allo stereotipo dei «rom che rubano i bambini», con tutte le ulteriori perfide armoniche che da questo accostamento possono diramarsi. L’inconscio sociale è pieno di trappole e di effetti-eco che talvolta possono essere controproducenti per chi li mette in moto. Nell’inconscio sociale stanno rintanati degli archetipi a cui la retorica può attingere, ma che si attivano anche se nessuno va a stuzzicarli. Greta Thunberg (che è già entrata nel diciottesimo anno di età) è però catalogata come “piccola santa” o “piccola strega” – senza che si discuta seriamente su quanto le sue conoscenze scientifiche, all’interno di una famiglia peculiare come la sua (profondamente attraversata da sociopatie di vario genere, imbevuta di rigorismo protestante), siano fondate, e quanta effettiva forza espansiva sui giovani possa avere la sua ribellione così radicalmente rivoluzionaria. La retorica è una scorciatoia, abbrevia la strada per arrivare al giudizio e illude che i rimedi siano a portata di mano. Per questo è così di casa oggi su Twitter e sui media di pronto intervento; congiunge in un’unica marmellata livelli logici differenti e clichés di diversa origine, andando incontro talvolta a cortocircuiti e buffi incidenti di percorso: vedi la frettolosa retromarcia di Salvini sulla Nutella dopo essersi accorto, col suo staff, che l’orgoglio patriottardo del “prima i prodotti italiani” era andato a impattare contro un mito più forte: di piacere morbido, lecito, indiscutibile e familiare. Semplificare i problemi complicati per raccontarli alle masse è lecito, ma le masse non meritano che dietro ogni semplificazione si nasconda un’idea già fritta e rifritta, o una banalità, o una poeticità melensa. «Tutta l’Africa in Italia non ci sta»; «in questo gommone (di migranti) sono contenute le speranze dell’Europa». Due frasi entrambe retoriche, una in un senso e una nell’altro, che trascurano le complessità di un’Africa colonizzata dai cinesi tanto quanto le caratteristiche personali degli ospiti di quel gommone; retorica di destra e di sinistra si rimpallano a specchio, e ormai comincia a diventare retorico anche il richiamo di chi pretende di abolire la retorica. La cattiva retorica non si potrà mai abolire, ma si potrebbe attenuare con l’istruzione (per esempio, con lezioni di retorica nelle scuole). Buonismo e cattivismo sono campi retorici complementari, in cui i partigiani dell’uno e dell’altro campo si accusano a vicenda di essere «quelli che davvero fanno la retorica peggiore». Si rischia lo stallo del pensiero, con conseguente voglia di qualcuno deciso che agisca. («Bisogna proibire la cannabis terapeutica», «Legalizziamo tutte le droghe» – «Intanto allora mettiamo in galera tutti gli spacciatori, senza troppe distinzioni, e buttiamo la chiave»). Ma le più scivolose sono le retoriche bipartisan. Lo «sviluppo sostenibile», la «fine della povertà e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo» (proprio adesso che la gente si sta abituando ad avere sempre più servi, come quelli che ti portano la pizza a domicilio), «l’astenersi da ogni azione di guerra». Proviamo a dire in pubblico alcune frasi-campione: «le donne sono sempre meglio dei maschi», «tra amore e violenza non c’è nessun rapporto», «il nostro è il più bel Paese del mondo» – se l’applauso arriva subito, in quelle affermazioni c’è qualcosa che non va.
· Gli Opinionisti.
“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”, specialmente se li sceglie sui social network con pochi click. Elvira Fratto su Il Quotidiano del Sud il 20 settembre 2020. Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che i social vogliono che sia bello. Vale anche per ciò che è intelligente, di moda, attraente. Ultimamente gli input che stimolano il gusto universale risuonano su un solo pentagramma: quello delle piattaforme social. In un momento storico come quello che stiamo vivendo, in cui la bellezza esteriore e il fisico perfetto sembrano rappresentare non solo l’unico esempio valido da seguire, ma anche la sola via per poter essere socialmente accettati, Gucci sceglie una modella dai tratti non canonici: alcuni tradurrebbero la definizione con “brutta”. Armine Harutyunyan, 23enne armena, si è ritrovata così al centro di un vero e proprio tornado di bodyshaming. Il mondo dei presunti intenditori di moda si è diviso alla svelta tra i detrattori della modella (“orribile”, “dopo tante splendide ragazze, è questo quello che ci propongono?”, “con questi standard chiunque potrebbe fare la modella”) e i suoi sostenitori (“è una bellezza non convenzionale, con tratti tipici del suo Paese d’origine”). Se volessimo essere pignoli e fingere di lavorare come talent scout per le case di moda, diremmo che, sì, Armine non ha i lineamenti di Claudia Schiffer né di Irina Shayk. Ma se invece provassimo a essere realisti e a guardare dall’esterno il mondo in cui siamo calati, capiremmo che non è la moda ad aver fatto le modelle, ma il contrario. Siamo stati abituati a canoni di bellezza da Monte Olimpo, angelici, inarrivabili e privi di ogni metro di paragone; ci hanno assuefatti a modelle che dovevano per forza essere fatte in un certo modo, con un certo colore di occhi e di capelli, il ventre piatto, quel chilometro di gamba irrinunciabile. Ma come sarebbe il mondo, oggi, se nessuno avesse mai posto limiti estetici a chi calca le passerelle? Probabilmente sarebbe un mondo in cui Armine non si sarebbe ritrovata sotto la pressa del bodyshaming perché la sua bellezza, così diversa da quella a cui la nostra cultura è abituata, sarebbe stata semplicemente una bellezza come tante. Non è Armine a essere brutta. È la plasticosa ed eterea dimensione costruita intorno al mondo delle modelle a renderla tale.
L’occhio critico degli specialisti della bellezza dell’ultim’ora non si è lasciato sfuggire neppure il red carpet di Giulia De Lellis all’ultimo Festival del Cinema di Venezia: l’influencer, infatti, aveva un’acne piuttosto vistosa su tutto il volto. Anche in questa occasione, appena poche ore dopo che il fuoco mediatico intorno ad Armine era stato domato, c’è stato chi ha sostenuto con forza la scelta della De Lellis di non camuffare le imperfezioni con il trucco, inneggiando alla libertà di essere se stessi senza l’impalcatura del make-up, e chi lo ha trovato fuori luogo per un evento a tutto tondo come il Festival del Cinema. Nel turbine confuso delle opinioni non richieste, entra a gamba tesa Angela Chianello, la signora “Non ce n’è Coviddi” che a inizio estate ha dato il via a quello che si è rivelato un vero e proprio tormentone, citato, imitato e perfino impresso su alcuni gadget, tra cui accendini e magliette. La signora, che ai microfoni di una tv locale negava per l’appunto l’esistenza del Covid-19 mentre trascorreva una giornata in spiaggia, ha aperto un profilo Instagram raccogliendo, in pochissime ore, circa 160mila seguaci. Si definisce “meteora” quel genere di fama effimera, di (relativamente) breve durata ma di impatto piuttosto significativo. È proprio il caso della signora Angela, che da mesi calca le scene dei salotti tv e del web col suo “Non ce n’è Coviddi”, diventato la parola d’ordine dell’estate 2020. Un ritornello che, come le martellanti canzoni latinoamericane che ogni anno si affacciano con la bella stagione, si impara anche se non si vuole. Ma basta davvero così poco per diventare popolari? Prima che internet desse un valore non consono a personaggi ed eventi del tutto effimeri, per acquisire la tanto agognata fama era necessario riuscire a fare breccia nella società, a dare qualcosa al pubblico. Uno spunto di riflessione, un input, un’esperienza di vita positiva. Essere d’esempio significava incidere nel buono delle persone, innestare nel pubblico una spinta a fare di meglio, incitare alla crescita individuale e collettiva. La signora Angela si ritrova, chissà come, nei panni degli eroi dei libri, dei film e della società civile che, con un tempo molto più dilatato di quello che l’ha vista protagonista, si sono guadagnati un riconoscimento che a lei sono bastati pochi click per ottenere. Se da un lato ci si ostina a dare pareri non richiesti, improvvisandosi di volta in volta epidemiologi, sismologi, scienziati ed esperti di moda, dall’altro si consente che persone che rappresentano un mero involucro e prive di qualunque contenuto salgano alla ribalta. “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”, scriveva Bertold Brecht. Una terra con valori saldi ed esempi forti, difficilmente finisce con l’aver bisogno di punti di riferimento. In momenti come questo, non possiamo fare a meno di compatire questa terra a cui servono.
Roberto D’Agostino per VanityFair.it il 20 settembre 2020. Lei sorride come uno squalo, lui ha il sorriso prestampato del tonno. In comune hanno lo sguardo da digestione lenta, quello tipico dei tossici in astinenza. Fanno una pena feroce. Negli occhi si legge tutto quello che non hanno letto. Ma c’è da capirli: sono divorati dalla sanguisuga della visibilità, arrapati dalla voglia di recuperare gli interminabili mesi della quarantena: un lockdown senza reality, senza feste, senza discoteche, senza foto e gossip sui rotocalchi. L’estate della pandemia ha cestinato pure la sagra del finocchietto selvatico e del carciofino sott’olio, e per l'Italia dei tizietti e caietti, famosi per essere famosi, personaggi che hanno la dimensione e la statura e il formato accordato dai programmi di Maria De Filippi e Barbara D’Urso, è stato durissimo sopravvivere. Come l’ergastolo. E allora scapicollarsi a Venezia è manna dal cielo, metadone salva-immagine, cuccagna del ‘’adesso ve la faccio vedere io!’’. E lo scutrettolare sul sacro tappeto rosso del Lido, con curve e ancheggiamenti scippati ai travestiti brasiliani, si trasforma nella fata morgana. E “sticazzi” se si tratta proprio dell’edizione più tragica e cellofanata della Mostra del Cinema, zeppa di film uno più cupo e angosciante dell’altro. Così la passerella, deserta di star e divi della celluloide, viene calpestata da “abusivi” vari e avariati. Inutile sottolineare che con la Settima Arte, anche nel minimo ruolo di venditori di popcorn e di sbigliettatrici all’ingresso in sala, non hanno nulla a che fare né la sorella di Belen avvinta come una cozza allo scoglio al figlio del ciclista Moser, né l’influencer Giulia De Lellis che sgallina le coscine di pollo, né la bambola di Cristiano Ronaldo, Georgina Rodriguez che si è presentata col cartellino del prezzo (dell’abito, of course), né tale Francesco Chiofalo, detto Lenticchio, come plenipotenziario di ‘’Temptation Island’’, né Antonella Fiordelisi (che si agita su TikTok), né l’ubiqua Nunzia De Girolamo, né Elodie con il rapper di servizio, né Marco Fantini e Beatrice Valli come testimonial di ‘’Uomini e donne’’, né tantomeno l’oscuro cantante Osvaldo Supino. La cronaca di “Libero” riporta dell'’’imperdibile presenza di Marco Fantini e Beatrice Valli, volti di ‘’Uomini e donne’’, e della di lei sorella, Ludovica, figlia della stessa scuola, e il contributo fondamentale di Natalia Paragoni, corteggiatrice nel medesimo programma, che arriva a Venezia come una diva sul motoscafo e finge di salutare i propri fan: peccato che sul Lido ad aspettarla non ci sia nessuno’’. Alla fine, essendo ormai anche il cinema appiattito e avvilito dal trash, i flash sono andati in tilt non per Favino ma quando due sventolone in minigonna a fil di gluteo, Mila Suarez (‘’Uomini e donne’’) ed Elisa De Panicis (‘’Grande Fratello’’), in barba al virus malefico, ansiose di rievocare l’impero dei sensi vietati, hanno incrociato le lingue in un lungo bacio, rimbalzato su tutti i giornali e social, che ha raccolto gli applausi dalla parte più attiva dei pantaloni. Per queste invasate, la libidine del successo, nella sua forza, è diventata il loro Fato Debole. Un destino cinico e baro che le costringe a sbattersi come un Moulinex per una ospitata televisiva, ad agitarsi come un Pastamatic per una cena con uso di "vippaio", più voluttuose di un rasoio Braun davanti al politico in auge, più centrifugate di una lavatrice dietro al funzionario televisivo. Con l'ombelico capottabile e l'espressione da "mortaccituanonmerompercazzo", i Morti di Fama non pensano ad altro, non hanno altri interessi e dedicano tutta la propria vita (fianchi, seno, pube) a quell'unico scopo. Spesso ragazzotte indecise a tutto, che fino a dieci anni fa avrebbero avuto una vera opportunità professionale nel mezzo-servizio a ore o commesse in merceria, che non vedono il ridicolo e la malinconia delle proprie azioni. Anzi. Sgambettano, si dimenano e parlano ad alta voce schizzando da un tavolo all'altro e dando del tu a persone che non hanno mai visto. Quando si presentano, sono come attraversate da un attacco di nevrastenia euforica. Tutto un crepitio di sorrisini e gridolini: figo, fotonico, ih!ih!ih!. Certo, non hanno tempo da perdere, altre cavallette incalzano più audaci. Magari più spigliate e spogliate. A vent'anni, la scadenza della vita è quella del latte fresco, quarantotto ore. Hanno capito che devono capitalizzare velocemente la bellezza, assalire e molestare "chi conta", usando il sesso come un grimaldello. "Ahò, datte da fa' e nun ce pensa'...". Mezzo secolo fa era un'altra storia: per una Loren o una Cardinale, per una Schiaffino o una Milo, il non plus ultra consisteva nell'agganciare come bamboline un po' audaci un Ponti o un Cristaldi, un Bini o un Morris-Ergas. Tutti produttori che hanno fatto il bello e il cattivo tempo nel cinema italiano. E dovevano, le stelline di ieri, nascondere accuratamente il loro lato di oscura avidità e intraprendenza per non spaventare gli uomini che, cattolicamente, ritenevano che solo le sciocchine potessero diventare mogli perfette. Oggi, la divetta-social sa come coniugare i vizi del passato con i vezzi del presente. E lo scemo-sessuale è diventato protagonista della società dell’apparenza. Un mondo che aspira a morire non più in odore di santità, ma di pubblicità. Ormai al di là del grottesco, direttamente in quella nicchia detta "Il ridicolo è il mio mestiere".
Giampiero Mughini per Dagospia il 19 settembre 2020. Caro Dago, confesso che leggo solo i titoli dei pezzi in cui voi di Dagospia riferite l’obbrobrio umano, linguistico e morale dei personaggi che danno lustro alle varie sceneggiate tipo “Grande fratello” et similia. Sono purtroppo spettacoli e personaggi graditi al grosso pubblico. Niente di male. C’è però un particolare del linguaggio comunemente usato a connotare tali figuri che io trovo ripugnante. Il fatto che vengano correntemente chiamati “opinionisti” o “opinioniste”. Per il semplice fatto che fanno rumore con la bocca, quei rumori passano come “opinioni”, come “punti di vista” dietro cui ci sarebbe un ragionamento. No, no, no. Rumori con la bocca, per lo più orridi. Ho letto che definivano “opinionista” una signora che ho avuto accanto spesso nei set televisivi. Arrivava in scena accompagnata da non ricordo più se una o due truccatrici, il suo cavallo di battaglia (in tema di opinioni) erano le scollature quanto di più vertiginoso, durante la chiacchiera televisiva passava il suo tempo a specchiarsi sul telefonino profondamente ammirata di se stessa. Non aveva un’opinione che fosse una neppure di sfuggita. Solo promuoveva incessantemente i suoi interessi. E a proposito della qualifica di opinionista così generosamente comminata da chi scrive di televisione, suggerisco quanto segue. Per entrare in uno studio televisivo Mediaset adesso ci viene chiesto un’autocertificazione dove attestiamo di avere appena fatto un test anti-Covid e che quel test ha dato un responso rassicurante. Suggerisco agli autori e ai registi di spettacoli televisivi di chiedere ai loro “vip” qual è l’ultimo libro che hanno letto e quando. Così, tanto per sapere in fatto di autorevolezza delle loro opinioni. Del resto lo sapete che oltre il 60 per cento degli italiani (la cosiddetta “gente” su cui vengono accumulate montagne di retorica) non prende in mano neppure un unico libro durante tutto l’anno. Beninteso niente di male. L’importante che anziché “opinionisti” d’ora in poi vengano chiamati “quelli dell’obbrobrio”. Tanto per essere esatti.
· Tv-Truffa: Nulla è come appare.
Chi vuol essere milionario, Enrico Remiggio ha vinto 1 milione? La strana scoperta sui social. Libero Quotidiano il 23 Gennaio 2020. Ed è subito febbre da Chi vuol essere milionario?, il programma condotto da Gerry Scotti su Canale 5, tornato in onda con la sua nuova edizione mercoledì 22 gennaio. Già, perché Enrico Remiggio, concorrente della fortunata trasmissione, è riuscito a rispondere a 14 domande su 15. Insomma, dopo dieci anni dall'ultima occasione in cui è accaduto, è arrivato all'ultima domanda: il verdetto, però, soltanto nella puntata di settimana prossima. Ovviamente, sui social gli utenti si sono scatenati alla ricerca di indizi. Si è scoperto così che Enrico, pescarese trapiantato a Hong Kong, fa il manager e - curiosità - nella vita quotidiana non porta gli occhiali. Di indizi sull'esito dell'ultima risposta, però, non ce ne sono. Nel caso in cui decidesse di non rispondere, si porterebbe a casa 300mila euro. Se al contrario sbagliasse la risposta, incasserebbe 70mila euro, cifra alla quale aveva fissato il traguardo. Nel corso della sua scalata al milione, Remiggio si è dimostrato ferratissimo su diverse materie: dalla tecnologia alla musica, dalla cultura generale alla storia. Unico dubbio, rispolto grazie allo Switch reintrodotto in questa edizione, su una domanda di storia dell'arte. Ma tant'è, ora non ci resta che attendere: Enrico Remiggio porterà a casa il milione di euro?
· Sulle spalle dei contribuenti.
DAGONOTA 21 dicembre 2020.- Nel 2019 Palomar, casa di produzione fondata da Carlo Degli Esposti, è stata venduta al gigante francese Mediawan, che ha come obiettivo quello di diventare ''il più grande produttore europeo''. La società è stata fondata dal miliardario Xavier Niel (Free-Iliad) e dal banchiere Matthieu Pigasse, direttore generale della banca d'affari Lazard con il pallino per l'editoria (è azionista di peso di Le Monde e del Nouvel Obs). Negli ultimi anni ha fatto acquisizioni a destra e a manca, tanto da triplicare il fatturato nell'arco di due anni. Nel giugno scorso, dunque nel pieno della pandemia, Mediawan non ha avuto problemi a trovare 100 milioni di euro per acquisire gli studi di produzione Lagardère. Ti credo: alle spalle, oltre a Niel e Pigasse, hanno tipini come il fondo americano KKR, Sycomore Asset Management e la Mutuelle d'Assurances du Corps de Santé Français, bestioni della finanza con fatturati e disponibilità miliardarie. Bene, tutto ciò considerato, la ormai francese Palomar (controllata al 72% da Mediawan) ha chiesto e ottenuto alla Unicredit tuttora guidata dal francese Jean-Pierre Mustier il finanziamento con la garanzia pubblica della SACE, ovvero un prestito ''coperto'', in caso di mancato rimborso, dai soldi dei contribuenti italiani. Grazie ai quali potrà pagare interessi più bassi di quelli di mercato. Certo, le produzioni di Palomar si trovano in Italia ed è qui che impiega lavoratori e maestranze. Però la domanda sorta dopo il prestito da 6,2 miliardi a FCA resta: se i profitti poi finiscono all'estero, è giusto che i soldi delle nostre tasse siano utilizzati per beneficiare aziende straniere con alle spalle gruppi miliardari che non avrebbero problemi a rifinanziare direttamente le loro controllate italiane?
Da adnkronos.com 21 dicembre 2020. UniCredit ha erogato un finanziamento da 16 milioni di euro a favore di Palomar, una delle società di produzioni televisive e cinematografiche leader in Italia che ha realizzato tra le altre “Montalbano”, la fiction italiana di maggior successo negli ultimi 10 anni. Il finanziamento è stato garantito digitalmente in poche ore da Sace nell'ambito del programma Garanzia Italia. Le risorse finanziarie rinvenienti dall’operazione di finanziamento, saranno utilizzate dalla società "per finanziare nuove importanti produzioni che saranno distribuite poi anche a livello internazionale e si aggiungono - sottolinea una nota- a un’altra recente operazione di 4 milioni di euro garantita dal Fondo Centrale di Garanzia e utilizzata per il sostegno al circolante dell’azienda". Palomar, fondata da Carlo Degli Esposti nel 1986, e che dal 2019 è entrata a far parte del Gruppo francese Mediawan, è una delle società di produzione televisive e cinematografiche di maggior esperienza in Italia, leader nel mercato della fiction per i maggiori network televisivi. Ad oggi la società ha realizzato e distribuito più di 100 produzioni tra le quali gran parte dei maggiori successi nella fiction televisiva italiana degli ultimi dieci anni nonché opere cinematografiche che si sono aggiudicate importati riconoscimenti. Oltre a “Montalbano” Palomar ha prodotto la serie tv “Il Nome della Rosa”, i film “La Paranza dei Bambini” che si è aggiudicato l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura alla Berlinale 2019 e “Volevo Nascondermi” che è valso l’Orso d’argento come migliore attore a Elio Germano alla Berlinale 2020, solo per citare alcuni titoli.
· Le Fake News.
IL POST DI FLAVIO BRIATORE. Dagospia 21 dicembre 2020. Flavio Briatore su Instagram: Il declino dell’Italia è ben riassunto, in queste ore, nella vicenda che mi è capitata giorni fa. Non perché io sia chissà chi ma perché quello che mi è toccato vivere la dice lunga sul pregiudizio in Italia. Un importante quotidiano, il Corriere della Sera, ha scritto alcuni giorni fa sul suo sito online: “La Rolls Royce di Briatore blocca il traffico in centro” a Milano. A nulla sono valse le mie smentite, la spiegazione che non era la mia, che io non guido da vent’anni e passa una automobile. Che non ero lì. Niente. La smentita non è stata pubblicata sino a quando, altri giornali ed altri siti, tra questo il Giornale ed Il Tempo, hanno ricostruito i fatti spiegando che l’auto non era la mia, ma di un tal Luigi Proietti. Adesso, visto che non hanno il coraggio di ammettere i loro errori madornali, a fronte di mie smentite comunicate tempestivamente, parlano di un sosia di Briatore. L’unico sosia che vedo in giro è quello dell’Italia: un paese che ha avuto in passato idee, artisti, imprenditori, talenti e che oggi si è rintanato nei propri pregiudizi, nelle sue pigrizie, nella propria ideologia a prescindere dai fatti. E la stampa ed i media, in questo, purtroppo fanno (spesso) parte del declino italiano. Eppure sarebbe bastato poco. Bastava scrivere subito: non era Briatore e non era la sua Rolls. Io lo avevo detto subito. Bastava credere a Flavio Briatore.
Da leggo.it 21 dicembre 2020. «Ma quale Flavio Briatore. Quello che ha bloccato Milano in Rolls Royce sono io!». A rivelarlo in esclusiva a leggo.it è Luigi Proietti, 61 anni, noto gallerista d'arte che lavora tra Milano, Roma e Cortina d'Ampezzo, il sosia perfetto del re del Billionaire. Stesso colore di capelli, uguale taglio, stesso stile negli occhiali, colorati e dalla montatura evidente. Perfino il look: t shirt tinta unita. Lineamenti e modo di vestire identici. Quasi impossibile distinguerli. «Mi scambiano ogni giorno con Flavio» racconta lui tra il divertito e il preoccupato per quello che è successo. Proietti ci ha pensato un giorno, e poi ha deciso di fare... "outing". Con Briatore il signor Luigi ha un'altra analogia non da poco: un'auto che non passa certo inosservata, Luigi Proietti guida una Rolls Royce nero opaca 6.700 di cilindrata, immatricolata nel 2010. Questa vettura qualche giorno fa ha bloccato il traffico nel centralissimo corso Magenta, cuore di Milano. La berlina di lusso inglese («Ma oggi vale la metà di una Mercedes» tiene a precisare lui) parcheggiata evidentemente non in modo corretto, bloccava il passaggio dei tram. Subito si è creato il caos: qualcuno ha immediatamente filmato il tutto e il video è diventato virale. Peccato che i “social-maniaci” abbiamo ripreso anche l'automobilista che di corsa è andato a spostare la Rolls Royce dopo pochi colpi di clacson. E quell'uomo fosse identico in tutto e per tutto al Flavio... nazionale. Risultato? La news diventa virale: Briatore (quello vero, secondo il mondo dei social) blocca il traffico di Milano. Non era esattamente così...Ed è proprio il sosia di Briatore, Luigi Proietti, a raccontare come sono andate le cose: «Dovevo svolgere una commissione urgente. Ho parcheggiato pensando di non creare disagio a nessuno. Figuriamoci. Tempo qualche minuto e ho capito che invece la vettura bloccava il tram. Non ci avevo pensato. Sono subito uscito dal negozio e l'ho spostata». Il danno però era fatto: «Qualcuno aveva già ripreso la scena e si era diffusa la notizia che fosse stato Briatore. Proprio Flavio mi ha contattato: mi scuso con lui. Ci ho parlato al telefono, è stato gentilissimo con me. Preciso che non ha alcuna responsabilità: chiedo scusa ai milanesi se per colpa mia ho fatto perdere 4 minuti a qualcuno che transitava in corso Magenta». Una lunga telefonata di scuse e alla fine Luigi Proietti («Con questo nome avevo pure il problema che quando prenotavo al ristorante mi chiedevano se fossi l'attore...») rivela: «Briatore non lo conoscevo di persona, ora siamo diventati quasi amici. Mi ha raccontato che sta aprendo un ristorante a Riad e mi ha invitato ad esporre alcune delle mio opere nel suo nuovo locale. Lo farò molto volentieri, spero di sdebitarmi in questo modo. E' stato subissato di insulti sui social, ma non ha alcuna colpa. Ho sbagliato io e mi scuso ancora con Flavio e i milanesi». Proietti garantisce: «La prossima volta ci penserò bene prima di lasciare l'auto in divieto...». «Ci sono notizie di un episodio a Milano ieri, avrei bloccato il traffico con una Rolls Royce in via Carducci alle 5 del pomeriggio, con la folla inferocita che mi urlava contro: una bufala completa», dice il manager dal suo profilo Instagram. «È una bufala, io ero a Monaco e non vado a Milano da almeno 20 giorni. Una bufala enorme, non controllano, non chiedono. E poi non vado in giro in Rolls Royce ma in Range Rover”.... vabbeh...».
Raffaella Menichini per repubblica.it il 19 dicembre 2020. Il New York Times ha ritrattato il pluripremiato reportage in podcast "Caliphate" sui terroristi dell'Isis, dopo aver riconosciuto una serie di falle clamorose nelle procedure di raccolta e verifica delle sue fonti. Il cuore della famosa serie, firmata dalla reporter esperta di terrorismo Rukmini Callimachi, era infatti la testimonianza di un presunto militante Isis canadese-pachistano che si è rivelato un impostore, a seguito di un'inchiesta del governo canadese. Dopo mesi di inchieste interne affidate a una squadra di giornalisti investigativi della testata, la direzione del New York Times è arrivata alla scelta clamorosa non solo di ritrattare il reportage, ma di restituire il prestigioso premio Peabody che Callimachi e il suo team avevano vinto per quello che al suo lancio, nella primavera del 2018, era stato pubblicizzato come un prodotto di altissima qualità, al punto che arrivò anche nella selezione finale dei Pulitzer. Per due anni Caliphate è stato il fiore all'occhiello del New York Times, non solo per il contenuto giornalistico - le rivelazioni sulla fino ad allora poco conosciuta vita interna dell'organizzazione terroristica islamica - ma anche e soprattutto per l'innovativo formato che lo rendeva un vero punto di svolta nel già brillante posizionamento della testata americana come faro dell'innovazione giornalistica mondiale: un podcast in 10 puntate, con testimonianze audio accompagnate a una gran mole di materiale documentale che Callimachi aveva raccolto di persona nei palazzi abbandonati dai terroristi dopo la presa di Mosul in Iraq. Il direttore del New York Times, Dean Baquet, ha spiegato ieri in una puntata "aggiuntiva" del podcast Caliphate che il reportage non "rispetta gli standard" di qualità del New York Times e che - nonostante il falso militante Isis Shehroze Chaudhry si sia rivelato un "truffatore provetto" e non abbia tratto in inganno solo il Nyt ma anche le autorità canadesi e altri media - la responsabilità del grave errore ricade sull'intera direzione della testata per non aver seguito fino in fondo le procedure di verifica multipla che tutte le storie del Nyt richiedono. In realtà il podcast non è stato materialmente cancellato dal sito del Nyt: ogni puntata reca adesso un'avvertenza audio di quel che è successo, poi c'è l'appendice dell'intervista di Baquet a Michael Barbaro (che con il suo "The Daily" è considerato il precursore mondiale del podcast giornalistico) e un paio di articoli esplicativi dell'indagine interna. Baquet sostiene che questo equivale ad aver "ritrattato il cuore di Caliphate", ma resta il fatto che chi volesse ascoltarlo lo può ancora fare, e ora si può presumere che se non altro per curiosità molti altri ascoltatori si aggiungeranno alle decine di migliaia che hanno cliccato e si sono abbonati al Nyt proprio per "Caliphate". Altri dubbi riguardano la sorte dei responsabili del pasticcio Caliphate. La giornalista Callimachi rimane al Nyt ma è stata allontanata dalla copertura del terrorismo che era la sua specialità e che l'aveva resa famosa (e in realtà da mesi non firma un articolo sul giornale). In un tweet ieri, la stessa Callimachi ha ammesso le proprie responsabilità, pur dicendosi ancora "orgogliosa" del grande lavoro che comunque tutto "Caliphate" ha richiesto: oltre alla testimonianza di Chaudhry erano stati intervistati altri militanti Isis che però non avevano dato i dettagli raccapriccianti forniti dal finto terrorista, e una giovane irachena yazida appena liberata da un campo di prigionia. "Come giornalisti, chiediamo trasparenza alle nostre fonti e dobbiamo essere noi i primi a garantirla - ha detto Callimachi - Ho scoperto che il soggetto del nostro podcast stava mentendo su alcuni punti chiave e l'ho riportato. Ma non ho colto altre bugie che ci stava dicendo, e avrei dovuto. Ho aggiunto delle avvertenze per spiegare cosa sapevamo e cosa no. Non è bastato".
Pasquale Chessa per “il Messaggero” il 5 ottobre 2020. «I generali non sanno che le battaglie le vincono gli storici»: c' è una verità nascosta nel bel motto di spirito inventato da Leo Longanesi per denunciare con sarcasmo satirico il deficit scientifico della storia e gli inganni della memoria. Cattiva memoria si intitola il nuovo libro di Marcello Flores, che ha trovato tutto il coraggio intellettuale necessario a uno storico per constatare quanto sia «difficile fare i conti con la storia». Lamenta Flores che la «memoria collettiva», per quanto espressione compiuta dell' identità di una nazione, di un partito oppure di un ideologia o di una comunità, ha reso vano il compito della storia dei fatti. Succede ancora nelle polemiche di oggi sulla persistenza politica del pericolo fascista, nelle accese diatribe ideologiche sulla comparazione fra comunismo e nazismo, e persino sul negazionismo che scambia la Shoah per un abbaglio. Ricacciata indietro dall' Illuminismo, passati più di due secoli, oggi la memoria lavora di nuovo contro la storia. La memoria non sopporta l' oblio: si può reinventare, aggiustare, come fece Benjamin Wilkomirski, che nel 1995 raccontò in un libro di successo la sua infanzia ad Auschwitz con efficace verosimiglianza e gran dovizia di dettagli. Tutto inventato ricalcando la vulgata consolidata dalla «memoria collettiva». Ci vollero due anni per scoprire che non si chiamava Wilkomirski e soprattutto che non era nemmeno ebreo. Non ci sono però solo le colpe della memoria però, perché anche la storia si è lasciata manipolare e falsificare nel corso dei secoli. Addentrandosi Nel labirinto del passato, come annuncia il titolo, lo storico medievista Tommaso di Carpegna Falconieri, racconta come i falsi storici siano stati veri e propri agenti della storia, al pari dei documenti autentici, modificando per sempre il corso dei tempi. Per dire: Alberto da Giussano e Guglielmo Tell non sono mai esistiti, ma sebbene si tratti di «personaggi di carta e inchiostro» hanno fatto nascere la Lega in Italia e la Confederazione Elvetica in Svizzera. Falsa era la Donazione di Costantino, il documento su cui si è fondato il potere terreno dei papi, con cui il primo imperatore cristiano regalava al pontefice Silvestro I non solo il Laterano, ma anche Roma e l' Italia, anzi tutto l' Occidente prima di ritirarsi in Oriente. Cinicamente falsissimi sono i «Protocolli dei Savi di Sion» fondamento teorico dell' antisemitismo nazista. Che sia stato inventato di sanapianta il famigerato Carteggio Churchill-Mussolini è verità fattuale conclamata. Come i Diari di Hitler maldestramente riscritti da un mercante di memorabilia del Terzo Reich pubblicati, appena qualche anno fa, dal settimanale tedesco Stern. Le cose si complicano quando Carpegna si addentra nella riscrittura della storia da parte degli stessi storici, sia per ragioni ideologiche o politiche o persino per vanità intellettuale come capitò a Erasmo da Rotterdam, che scrisse di suo pugno un trattato antico per dimostrare che la teologia della Chiesa delle origini concordava con il suo pensiero. «Chi controlla il presente controlla il passato», ha scritto George Orwell per stigmatizzare il potere totalitario di aggiustare la storia. Carpegna con uno stile disincantato, ricco di racconti e di suggestioni narrative, al contrario della seriosità saggistica di Flores, ci ammonisce che la scientificità della storia non può esistere in astratto. In concreto conta che le dimostrazioni della storia siano verificabili e ripetibili come un esperimento galileiano.
Roma Caput Gossip. Le vite di Cesare e Marco Antonio mostrano come la politica fosse fondata su... fake news. Matteo Sacchi, Giovedì 17/09/2020 su Il Giornale. «Quello è indegno di governare, va in giro con quella poco di buono, a metà tra l'attrice e la prostituta... Si comporta come un satrapo». «Sarà buono il tuo di candidato, con quelle cene che costano milioni, e quella cricca di perversi che si porta dietro...E con che risultato? Vuol dare la cittadinanza a tutti, bella roba!». Litigio al barsport della politica negli anni 20 del XXI secolo? No, piuttosto litigio da taverna dalle parti della Suburra, popoloso quartiere di Roma, negli anni 30 del secolo I avanti Cristo. Sono usciti due volumi che raccontano la convulsa fine della Repubblica Romana che, prima di trasformarsi in un impero multietnico, nei suoi spasmi finali oscillò tra il lusso e i bagni di sangue, tra il chiacchiericcio politico e l'assassinio altrettanto politico. A leggerli, a tratti, sembra che quel mondo così lontano sia incredibilmente vicino. Prendiamo il saggio biografico di Luca Fezzi, Cesare. La giovinezza del grande condottiero (Mondadori, pagg. 215, euro 20). Il prestante e ambizioso Cesare ha tutte le carte in regola per ambire a cariche politiche e sacerdotali (a differenza di oggi non nettamente separate nell'antica Roma). Carte buone dicevamo ma la mano è sbagliata, la sua famiglia è, almeno in parte, legata alla fazione di Mario, uscita molto male dal primo abbozzo di guerra civile. Il ragazzo però si muove bene, sfugge alle proscrizioni (in soldoni far giustiziare con succulenta taglia i leader della fazione avversa), dimostra di avere talento nei processi sia come difensore che accusatore (strano, anche allora usare politicamente le sentenze era la prassi) e quando mette piede in Oriente, poco più che ventenne, tra l'80 e il 79 a.C., inizia a dimostrare il suo talento militare e diplomatico. Anche con questo innato funambolismo non evita, però, gli schizzi di fango che sono l'arma base utilizzata nell'Urbe. La sua trattativa con Nicomede IV re di Bitinia fu troppo riuscita. Venne accusato di essersi carnalmente prostituito al re, notoriamente avido di giovanotti prestanti. Cesare l'accusa non se la levò di dosso mai più. Quando in un processo a Roma ne difese la figlia, Nisa, iniziò ad elencare i benefici che quel re aveva elargito ai romani. Cicerone lo stoppò con un colpo bassissimo: «Passiamoci sopra per carità, perché nessuno ignora cosa hai avuto... e cosa gli hai dato!». Ma era solo l'inizio, Cesare riuscì a portare avanti la sua carriera, ma ad ogni angolo era nascosto lo sgambetto politico. Come nel cosiddetto scandalo della Bona Dea (4 dicembre del 61 a.C.). Mentre Cesare era Pontefice massimo e Pretore (la seconda carica dopo quella di Console), il futuro Questore Publio Claudio Pulcro detto Clodio si introdusse in casa sua vestito da flautista, approfittando dei festeggiamenti della dea della fertilità durante i quali nessun maschio poteva restare a casa. Pare avesse un ben orchestrato combino con Pompea, la seconda moglie di Cesare. Qualcosa andò storto e venne scoperto dalla madre di Cesare, Aurelia, che vigilava occhiuta. Ne uscì uno scandalo di prima grandezza. Cesare ripudiò la moglie ma si guardò bene dal testimoniare contro Clodio che era uno degli eroi della fazione popolare, la sua. Anche perché con l'interruzione di un rituale religioso a Roma si rischiava grosso. Il processo finì in nulla a colpi di corruzione (12 milioni di sesterzi). Ma a Clodio servì a poco. Nel 52 a.C. fu ucciso in un violento scontro con il suo rivale politico Milone, si dice proprio vicino ad un tempio della Bona dea. Cesare invece si limitò a portarsi dietro un'altra fitta dose di maldicenze, che durarono sino alle idi di Marzo del '44. Nessuno, nemmeno Cesare, era in grado di conciliare gli affari degli ottimati, le richieste frumentarie (l'allora reddito di cittadinanza), la tassazione sempre in salita per le guerre e le richieste dei reduci (appezzamenti di terreno da usare come pensione). Se ne rese ben conto la generazione seguente. Quanto il veleno del gossip sapientemente utilizzato - anche da Cicerone e chi si fingeva super partes - e della calunnia politica facilmente si trasformasse in violenza emerge bene dal saggio di Giovannella Cresci Marrone edito da Salerno nella prestigiosa collana diretta da Andrea Giardina: Marco Antonio (pagg. 300, euro 22; in libreria dal 24 settembre). Nell'approfondire la vita e la politica del triumviro, sconfitto ad Azio, diventa preponderante il tema delle fake news. Non siamo nemmeno più in grado di ricostruire esattamente quale fosse il vero programma politico di Antonio (83-30 a.C.), tanto la propaganda di Ottaviano Augusto ha inquinato le fonti. La descrizione dell'ex Console, che con Cleopatra cercò di spostare gli equilibri di potere nel Mediterraneo, rimasta agli atti della vulgata è nota. Iracondo, bevitore, coraggioso ma incosciente, irretito dalla prima sottana che passa a partire dalla mima Licoride (che lui portava a spasso per l'Italia in un carro con aggiogati dei leoni), per poi proseguire con la moglie Fulvia (per altro abilissima tessitrice di trame politiche) e infine da Cleopatra. In realtà, spiega la professoressa Cresci Marrone, Antonio portava avanti una politica molto articolata. Le sue grandi feste alcoliche erano messe in scena in cui impersonava Dioniso, avevano la funzione di veicolare un preciso messaggio politico. Sulle orme del dio, Antonio voleva farsi latore di un nuovo ordine, più libero dal mos maiorum e meno romanocentrico. Distruggendo il sistema politico della Roma repubblicana? Non è detto. Di certo non ponendosi in una posizione subordinata a Cleopatra. Ottaviano però fu più furbo. Si vendette come il nuovo Apollo, un dio più ordinato. Colpì il suo avversario con volantini diffusi tra i suoi soldati, aizzandoli sugli stipendi. Arrivò a promuovere l'iconografia di Antonio in forma di Ercole debosciato che si faceva «strappare la clava» da Onfale-Cleopatra... Altro che politica del gossip degli anni Duemila. Così, prima ancora che la battaglia navale di Azio, Ottaviano vinse la guerra di parole e di immagini. Convinse i romani che con lui avrebbe regnato l'ordine e il frumento sarebbe stato garantito, così come i diritti politici dei cittadini. Le prime due affermazioni erano in buona parte vere (soprattutto per chi lo sostenne), sulla terza si potrebbe discutere. Antonio avrebbe fatto meglio? Non lo sapremo mai, la Storia la scrive chi usa meglio il gossip.
La fake news del Pd primo partito italiano. La Lega resta in pole, i dem sono indietro di 4 punti. Renato Mannheimer, Giovedì, 24/09/2020 su Il Giornale. Chi ha vinto le elezioni regionali di domenica e lunedì? Ad una prima lettura dei dati sembrano avere perso in molti. Considerando solo le sei regioni in cui si è votato (e escludendo quindi la Valle d'Aosta) il Pd appare come la forza politica che ha raccolto il maggior numero di voti: 1.774.412 contro i 1.240.768 ottenuti dalla Lega, seconda in questa graduatoria. Seguono FdI e poi il M5S che è crollato a 660.837 voti. Tranne che il partito della Meloni tutti però hanno ottenuto meno voti che alle politiche del 2018 e alle Europee dell'anno scorso. La circostanza si spiega considerando la presenza delle «liste per il Presidente», formazioni costituite ad hoc per queste consultazioni, basate sull'appeal personale dei singoli candidati e che complessivamente hanno totalizzato 1.198.917 voti. Anche aggiungendo questi consensi a quelli ottenuti dai partiti di riferimento dei candidati alla guida delle Regioni, la graduatoria dei partiti sostanzialmente non cambia, con il Pd che ottiene complessivamente il 30.5% e la Lega che segue 23.3%. Ciò ha portato qualche esponente politico ad affermare che «Il Pd è il primo partito», o che «FdI ha ormai superato il M5s», proiettando così i dati a livello nazionale. Si tratta di un operazione per molti versi azzardata. Le regioni in cui si è votato sono infatti lungi dal rappresentare un campione degli elettori italiani. Inoltre, queste elezioni, dato il loro carattere per molti versi locale, hanno visto un gran numero di elettori praticare scelte diverse (talvolta opposte) che in passato, specie per ciò che riguarda le «liste dei presidenti». Secondo i flussi elaborati da Swg, il 25% dei voti ottenuti dalla lista De Luca in Campania provengono dal centrodestra, cosi come, di converso (sempre secondo la stessa fonte) «buona parte dei voti raccolti da Toti in Liguria proviene fuori dal centrodestra» (e dall'astensione). Si ripeterebbe, in occasione di consultazioni nazionali, questa grande mobilità rispetto al passato? Per certi versi, come ad esempio il drenaggio di voti per il M5s, da tempo segnalato dai sondaggi, probabilmente sì, ma per altri forse no, specie nel momento in cui si è trattato di scelte legate specificatamente alla figura (e all'appeal) dei candidati alla presidenza delle diverse regioni. Resta il fatto che, sino ad oggi, le rilevazioni condotte su campioni nazionali non confermano la graduatoria di partiti emersa dal voto regionale. Secondo Demopolis (il cui presidente Vento è stato interpellato da Repubblica) il distacco tra Pd e Lega è notevolmente diminuito (da 15 punti a 4) da agosto ad oggi, ma rimane tuttora a favore di quest'ultima. E anche i dati di Eumetra confermano questo scenario. Ancora, Alessandra Ghisleri, su La Stampa, sottolinea la «contraddizione» tra le rilevazioni a livello nazionale che pongono tuttora il M5s come terzo partito e la graduatoria parziale emersa dalle elezioni di domenica. Le elezioni regionali hanno quindi dato dei segnali importanti sulle tendenze dell'elettorato. Ma occorre grande cautela nell'assumerle come un trend nazionale consolidato.
Antonello Piroso per “la Verità” il 24 settembre 2020. «Cambia spacciatore!», urla nella cornetta il signore svegliato alle 3 del mattino da un impareggiabile Carlo Verdone, convinto di parlare con la segreteria telefonica della sua ex, nel film Manuale d' amore. Non sarò così maleducato da rivolgere sarcasticamente lo stesso invito a qualche commentatore, ma davanti a certe interpretazioni del dopo voto la tentazione è forte. Apertura del Fatto Quotidiano di ieri, mercoledì: «L' alleanza M5s-Pd l' hanno fatta gli elettori. Un grillino su due ha votato Eugenio Giani, il 20% ha scelto Michele Emiliano» (quindi in Puglia la proporzione, rispetto alla Toscana, peggiora: uno su cinque, ma transeat). Riferimenti all' unica Regione, la Liguria, dove c' era un candidato davvero espressione concordata della joint venture governativa: Ferruccio Sansa, ex firma dello stesso giornale, che ha rimediato quasi 20 punti di distacco (38,9% contro 56,1%) dal riconfermato Giovanni Toti? Zero. Vabbè, si dirà: quel foglio è ormai l' avvocato difensore dell'«avvocato del popolo». Giuseppi Conte, l' house organ della maggioranza giallorossa. Ma il mood della stampa mainstream è questo. Si è passati dal catastrofismo, «i barbari sono alle porte!», condito dalla chiamata alle urne in nome della vigilanza democratica e antifascista, «lo tsunami nero ci sta per travolgere», al «viviamo nel migliore dei mondi possibili». Con l' esaltazione della leadership di Nicola Zingaretti. Dipinto come il Cesare del Veni, vidi, vici che ha scansato le Idi di marzo (per ora...). Repubblica di martedì: a tutta pagina «Regioni, il Pd ferma Matteo Salvini». Lettura «lisergica»: si temeva il 4 a 2, si è pareggiato 3 a 3, quindi grazie allo scampato pericolo... si è vinto. Però. È vero, ci sono stati la perdita delle Marche, il plebiscito per il leghista Luca Zaia, le vittorie in Puglia e in Campania di candidati, Michele Emiliano e Vincenzo De Luca, non amatissimi nel Pd e nel centrosinistra (come nelle pagine interne ricorda Stefano Folli). Ma vai con la grancassa: il Pd, ripete il segretario, è «primo partito del Paese» (al solito, si mescolano a fini propagandistici le mele con le pere: se gli aventi diritto al voto erano 46 milioni per il referendum, avallare il proclama di essere la forza numero uno in Italia basandosi sul 3 a 3 alle regionali, dove i chiamati alle urne erano 18 milioni, appare quantomeno azzardato). Lo stesso direttore Maurizio Molinari, che si occupa dell'«indebolimento» e della «doccia fredda» del fronte populista-sovranista, ammette che è un po' «presto» per concludere che questa tendenza valga a livello nazionale, «visto che si è votato in 7 regioni su 20», ecco appunto. E che dire del referendum? Qui soccorre un disgiunto Michele Serra: «Ho votato No sperando che vincesse il Sì». E perché mai una tale schizofrenia? «Per non dovermi sentire partecipe dell' uso antigovernativo dell' eventuale vittoria del No». Però. Per il Corriere della Sera il segretario del Pd riemerge dalle doppie urne «con le stimmate del quasi vincente», notare il «quasi», come il «sopravvissuto solitario delle regionali». Invece «il bilancio delle opposizioni è agrodolce, se non amaro: "perdono" vincendo». Ma allora a rigor di logica vale pure il contrario: i partiti di governo «vincono» perdendo, o no? La Stampa incensa quella di Zingaretti come «la rivincita dell' uomo tranquillo» (per Marcello Sorgi è addirittura «resuscitato» come Lazzaro). Registra l' euforia onanistica di Luigi Di Maio: «Il referendum successo mio e del M5s». Fotografa un Renzi che «tira il fiato» (stante l' apnea numerica, che comunque non gli impedisce di esagerare con la consueta sicumera: «Si è vinto così anche grazie a noi»). Morale: il centrosinistra va incontro alle magnifiche sorti e progressive, mentre il centrodestra è alla canna del gas. Salvini è «costretto a leccarsi le ferite», quella della Meloni è una «vittoria a metà», Forza Italia ha un «risveglio shock». Per fortuna, a bilanciare un' analisi tagliata con l' accetta, ecco ieri l' editoriale assai equilibrato di Giovanni Orsina, con questo incipit: «La notizia della morte politica della destra sovranista è grossolanamente esagerata». Tant' è, gli ha fatto eco sul Fatto quell' anarchico «cane sciolto» di Massimo Fini, che «l' unica formazione ad aver guadagnato consensi davvero è quella di Giorgia Meloni» (anche se, aggiunge poi Fini, il partito più forte - paradossalmente: non votato - è quello degli astenuti). Tutto chiaro? Non dalle parti di Repubblica, evidentemente, che ieri titolava: «Il crollo dei populisti: in un anno svaniti 3,2 milioni di voti». Urca: il centrodestra è con un piede nella fossa. Sentenza cui si arriva con una serie di accostamenti psichedelici: oggi il Pd è al 18,7% e la Lega al 13,1%. Nel Paese? No: nelle sei regioni andate al voto. Ah. E quindi? Be', «nei sondaggi a livello nazionale dell' agosto 2019 la Lega era davanti al Pd di 15 punti». Et voilà la manipolazione. Si shakerano intenzioni di voto e voti effettivi, periodi di riferimento e tipo di consultazione, e il cocktail pro Zingaretti e anti Salvini è servito, cromaticamente: dal verde mojito al rosso Bloody Mary. Anche se poi, a denti stretti e senza enfasi, si è costretti a riconoscere che nei sondaggi la Lega oggi è ancora davanti al Pd: 25 contro 21. Ma il tempo è a favore di Zingaretti («sono i trend a parlare», mica il mago Otelma): i dati «potrebbero preludere a una rimonta dei dem anche sul piano nazionale», «alle prossime politiche è plausibile che il Pd superi il partito di Salvini». Insomma, un'apoteosi. Presunta. Peccato che due pagine prima Repubblica dia la parola al ragionevole Ilvo Diamanti, che vede una «presidenzializzazione diffusa del Paese», con «un' Italia dei governatori» che contano più dei loro stessi partiti. Con l' avvertenza della sondaggista Alessandra Ghisleri sul Messaggero: «È molto complicato assumere il risultato delle regionali come una vittoria politica di un partito o anche come sconfitta di un altro, perché è molto legato alle dinamiche dei territori». Amen.
Navalny e la Lega: le false verità del politicamente corretto. Riccardo Ruggeri, 19 settembre 2020, Zafferano.news, su Nicolaporro.it. Da tempo assisto a comportamenti imbarazzanti da parte di colleghi scrittori, intellettuali, giornalisti (ora pure cantanti e influencer), sul tema oggi di moda: il politically correct delle élite euro-americane che domina i media. Un tempo si facevano brillanti inchieste giornalistiche che i lettori seguivano come fossero telenovelas, entusiasmandosi ogni settimana ai nuovi colpi di scena. Purtroppo quelle brillanti ricostruzioni, in gran parte erano fake news o fake truth. Infatti quando dovevano essere provate in giudizio spesso si squagliavano. Il momento più ignobile del degrado della nostra professione fu l’inchiesta Espresso-Cederna-Partito Radicale con l’assassinio radical chic dell’incolpevole Presidente Leone, l’unico perbene. A quel tempo la tecnologia era assente, c’era il segreto bancario, il porto della magistratura produceva solo nebbie, i trucchi e i complotti socio-politici erano la norma. Intendiamoci, come oggi, per i potenti valeva tutto. Nel frattempo, per motivi diversi, grazie alla tecnologia, sono nati nuovi protocolli, come Facta, Ocse, Wada. Prima di parlare o scrivere di fatti che stanno in quella baraggia giornalistica che confina con la politica, l’economia, il codice penale, il gossip, almeno noi che scriviamo sui giornali dovremmo studiarli. Due casi. 1. Quello del dissidente russo Alexei Navalny. Costui si sente male poco dopo il decollo, l’aereo viene dirottato in una città della regione siberiana, i medici iniziano a curarlo, i media, specie tedeschi, si scatenano (faccio notare ai colleghi che è razzismo in purezza il termine, grondante disprezzo, scrivere “medici siberiani”). Angela Merkel si eccita trovando conveniente per i suoi disegni politici cavalcare questa vicenda, pretende di farselo portare a Berlino. Lo ottiene (sic!). In politica, specie quella estera, dove moralità-immoralità-pil si fanno gomitolo, vale tutto. In funzione della tua potenza tutto diventa legittimo. Sottovoce penso che non sia un buon motivo per il nostro coinvolgimento. Noi di professione dobbiamo ricercare e scrivere di verità certificate. Persino i ciclisti e gli atleti in genere si possono dichiarare dopati solo dopo che il Wapa ha esaminato le seconde provette e fatto il dibattito pubblico. Così fu inchiodata la Russia dello sport. Figuriamoci un politico di professione. Noi non abbiamo interessi economici in gioco tipo il gasdotto Strean 2. Semmai ci ricordiamo di due criminali della ThyssenKrupp condannati in via definitiva per l’omicidio di sette operai torinesi (bruciati vivi) fuggiti in Germania. Qua applicando loro osceni giochini giuridici, niente giustizia per le famiglie dei sette, a Berlino non trovammo nessun giudice. Conclusione: lor signori, solo perché tedeschi, non sconteranno mai la pena. 2. Quello dei commercialisti milanesi sospettati essere “spalloni tecnologici” della Lega. Se lo hanno fatto sono spacciati, loro e la Lega. Per capirlo basta studiarsi il combinato disposto del Facta americano e del Crs dell’Ocse. La Procura milanese ha iniziato l’indagine tecnologica attraverso rogatorie internazionali, per i colpevoli (se lo sono) zero possibilità di cavarsela. Tutti i trasferimenti di denaro, se ci sono stati, verranno seguiti passo a passo, possono spostarsi da un conto a un altro, ma nulla sfuggirà. Le modalità del tracciamento bancario ormai sono impeccabili e non possono neppure essere manipolate a favore o contro. Come giornalisti attendiamo e poi scriveremo. Ricordiamoci del caso Russia-Eni-Lega, vagonate di chiacchiere, poi, quando il processo di tracciamento terminò, un silenzio imbarazzante e imbarazzato avvolse i salotti e i talk show radical chic. Il modello del Ceo capitalism sarà pure osceno (e lo è) ma sul tracciamento delle transazioni bancarie i protocolli sono impeccabili. Infatti, il “nero”, moneta sia della malavita organizzata, sia dei privati di alto lignaggio (consumatori di droghe e sesso estremo da pagarsi appunto in nero) sia quello “istituzionale” degli “elemosinieri di Stato”, segue altri percorsi, non certo quello bancario, ormai trasparente. Stessa cosa per la opacissima moneta elettronica: al tempo del Ceo capitalism ove l’opacità è un valore, avrà un luminoso futuro. E noi zafferaniani? Con il nostro rigore d’antan, attendiamo le prove prima di scrivere. Intanto ricostruiamo il contesto. Il nostro destino professionale però è segnato: siamo fuori dal coro. Riccardo Ruggeri, 19 settembre 2020 Zafferano.news.
Navalny, Iran e altro: quando la narrazione è distruzione. Piccole Note de Il Giorbale il 15 settembre 2020. La farsa dell’avvelenamento di Navalny rischia di avere conseguenze enormi in Occidente. Ad accusare Putin è soprattutto la Germania, dove l’oppositore dello zar russo è ricoverato. Tutto grida che Putin non c’entra nulla nella vicenda, a iniziare dal Novichok, che solo uno stupido utilizzerebbe per tale crimine, peraltro tanto letale da rendere impossibile la sopravvivenza del malcapitato (per fortuna salvo). Ma ne abbiamo scritto in altra nota e non interessa tornarci.
Il caso del laboratorio tedesco. Peraltro in queste ore sta avendo sviluppi un caso che apparentemente nulla c’entra, ma anche sì. Nel 2012 un controllo antidoping sull’atleta italiano Alex Schwazer, già campione olimpico della 50 Km, risulta positivo. Uscito dal tunnel, Schwazer cambia tutto e diventa alfiere dell’antidoping, ma nel 2016, alla vigilia dei Giochi di Rio de Janeiro, risulta ancora positivo. L’atleta contesta l’analisi, porta prove a discarico, ma non c’è nulla da fare. I controlli effettuati in un laboratorio tedesco lo inchiodano. È squalificato. Ma nei lunghi anni, nuovi elementi: tra questi le e-mail di alcuni dirigenti dell’anti-doping che parlano esplicitamente di manipolazione e la nuova analisi da parte dei Ris di Parma, che concludono che il Dna delle urine contenute nella provetta incriminata non è umano. Nonostante tutto, sarà difficile acclarare la manipolazione: troppi coinvolti, ma vedremo. Istruttivo, però, di come possono funzionare certi meccanismi se ci sono interessi in gioco. E nel caso Navalny di interessi ce ne sono tanti: stanno montando le pressioni sulla Merkel perché abbandoni il Nord Stream 2 che, portando gas russo direttamente alla Germania e realizzando così un asse, non solo energetico, Belino-Mosca, potrebbe cambiare il mondo. Per dar forza alle accuse, il laboratorio tedesco ha chiamato in causa laboratori francesi e svedesi, che hanno corroborato. Conferma “indipendente”, caso chiuso. Quella di non rilasciare alcun documento per dar prova delle accuse, ma di chiudere la vicenda con conferme “indipendenti”, è una tecnica usuale. Ne abbiamo scritto altrove, riferendo di un articolo di The Intercept sull’applicazione di tale tecnica alla narrazione mediatica.
Le mine giocattolo russe made in Usa. Va così da tempo, basti pensare alle mine giocattolo usate dall’Urss durante il loro intervento in Afghanistan, nel quale si trovarono a fronteggiare i mujaheddin (leggi al Qaeda) sponsorizzati dagli Stati Uniti. Tali mine dovevano uccidere i bambini afghani, narrativa che ebbe vasta eco in Occidente. La storia è ripercorsa da Milt Bearden, alto dirigente Cia che allora gestiva il secondo sostegno dell’Agenzia ai mujaheddin, in un articolo per il National Interest. Secondo Bearden la favola delle mine anti-bambino nacque da sé, in zona di guerra, e fu subito ripresa dal mondo, con varianti funamboliche. “È stata un’operazione segreta meravigliosa – scrive Bearden – […] Il mondo intero si stava scagliando contro l’Impero del Male per i suoi brutali e sfrenati attacchi ai bambini afgani. Ha destabilizzato i sovietici in Afghanistan e nel mondo”. “Ma era falso”. Bearden racconta che spiegò al suo superiore che si trattava di usuali mine anti-uomo, peraltro un’imitazione di quelle usate dagli americani in Vietnam (riscontro che avrebbe potuto fare anche qualche giornalista dell’epoca… tant’é). “Se c’è una morale alla storia delle bombe giocattolo – scrive Bearden -, è questa: tutti coloro che negli anni ’80 credevano che i sovietici usassero bombe giocattolo in Afghanistan probabilmente lo credono ancora oggi”. Considerazione che vale per le operazioni più recenti, dal caso Litvinenko a tanto altro. La narrazione consolidata, a meno di un allentamento della stretta o di una perdita di interesse di certi ambiti, resta verità irrevocabile. Tale dinamica, usata all’epoca anche dai sovietici, ora è più sfacciata, nulla importando della plausibilità di certe narrazioni. E si dipana in un mondo squilibrato, nel senso tecnico del termine, cioè che manca di un equilibrio geopolitico stabile, prima assicurato dai due grandi poli, e nel senso patologico, dato che a ciò si associa un impazzimento di certi centri di potere. Così è tutto più pericoloso.
Dies Iran. Lo dimostra il nuovo caso iraniano: uno scoop di Politico basato su fonti anonime afferma che Teheran vorrebbe vendicare l’assassinio di Soleimani uccidendo l’ambasciatore Usa in Sud Africa. Fola smentita da Teheran, che peraltro ha sempre detto che la vendetta starebbe tutta nel far ritirare gli Usa dal Medio oriente, ma l’amministrazione Usa ha minacciato sfracelli. La fola arriva mentre gli Stati Uniti stanno esercitando un forcing feroce per impedire che l’Onu revochi l’embargo sull’acquisto delle armi imposto all’Iran, che scadrà a ottobre. E non sembra affatto scollegata da tale campagna, che vede gli Usa in netta difficoltà a convincere i recalcitranti membri del Consiglio di Sicurezza a seguirla. Pur di impedire tale sviluppo, si è creato un casus belli al quale la politica deve adeguarsi, per non perdere consensi, come nel caso di Trump, o per assecondare l’operazione, come per il Segretario di Stato Pompeo, ferocemente anti-iraniano. Nessuna verifica previa o successiva. I fatti non contano, basta uno scoop. E la guerra, e che guerra, bussa alle porte. Follia dilagante.
La verità, sempre ignorata da complottisti e sbufalatori di professione. Da Il blog di Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 13 giugno 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, ha svolto reportage dall'Afghanistan e dal Libano. Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
Ormai il “complottismo” è diventato una categoria difensiva talmente potente che ci si potrebbero contestare le multe: “L’agente Rossi verificava che il veicolo targato XYZ passava col semaforo rosso…”. Presto basterà scrivere “Complotto!” sul ricorso per ottenere l’annullamento della contravvenzione. Infatti, con la stessa biliosa ossessione con cui i veri “complottisti in servizio permanente effettivo” individuano ovunque un oscuro disegno preorganizzato, (sia esso celato nell’informazione, nella tecnologia, o nella scienza), con altrettanta, greve ottusità i cosiddetti debunker, o "sbufalatori", rifiutano a priori qualsiasi idea nuova che esca per un attimo dal pensierone unico-orwelliano politicamente corretto. Tra chi deve per forza attaccare il sistema e chi deve a tutti i costi difenderlo, nessuno sembra curarsi realmente della Verità. Forse perché appurarla, metterla davvero a fuoco richiede una certa applicazione mentale. Questo è faticoso e quindi la soluzione più comoda, di solito, da entrambe le parti, è delegittimare l’avversario personalmente, tirando in ballo vecchie questioni, SENZA ENTRARE NEL MERITO. Probabilmente anche l’umanista Lorenzo Valla, quando nel 1440 scoprì che la Donazione di Costantino era un falso, si sarebbe sentito affibbiare l’epiteto di “complottista”. Del resto l’affare era grosso: l’imperatore romano, con quell’atto, giustificava il potere temporale della Chiesa. Peccato che la forma latina fosse troppo “moderna” per appartenere realmente al IV secolo. Un secolo e mezzo più tardi, nel 1605, sarebbe stata bollata come complottista anche la lettera che avvertiva il re Giacomo I, sovrano protestante di Inghilterra, della assurda Congiura delle Polveri, con cui un gruppo di cospiratori, tra cui vari gesuiti, voleva addirittura far saltare in aria l’intero parlamento inglese per ripristinare una monarchia cattolica. Era tutto vero: furono trovati 36 barili di polvere nera, pronti per l’attentato. Per non parlare delle tante operazioni “False flag” acclarate dalla stessa storia ufficiale: l’incendio del Reichstag del 1933, o l’auto-bombardamento sovietico del villaggio russo di Mainila nel 1939, che permise all’Urss di attaccare la confinante Finlandia, tanto per citarne un paio. E vogliamo parlare dell’assassinio di personaggi come Kennedy, Malcom X e Martin Luther King? Per quanto riguarda la storia nazionale, potremmo ricordare i casi Moro, Sindona, Calvi, la faccenda di Ustica etc. Tutti episodi nei quali le versioni ufficiali non si sono sempre rivelate, diciamo, “del tutto precise”. Scopriamo così una grande novità: l’uomo non è buono. L’essere umano può mentire e organizzarsi per scopi reconditi, o per celare fatti illeciti. Le istituzioni sono formate da uomini e può capitare, qualche volta, che dei gruppi di persone, con interessi comuni, si infiltrino nelle stesse e antepongano il loro bene a quello collettivo. I complotti, le congiure, le cospirazioni si sono, pure, realmente verificati nella storia e ci saranno ancora, perché fanno parte della natura umana. Questo non significa, ovviamente, che tutto ciò che è ufficiale e istituzionale sia automaticamente “marcio” o mosso da élite amanti di cappucci, grembiuli o tatuaggi nascosti, come piacerebbe ad alcuni sempre in caccia di forti emozioni. Una cosa è certa, però: uno sguardo critico non fa mai male. Se una voce si leva contro, invece di zittirla e censurarla, la si ascolti, a condizione che possa portare degli elementi probanti o degli indizi ragionevolmente validi. Così come fecero, 20 anni fa, la Nasa e il governo Usa con i complottisti dell’allunaggio: nessuna censura, nessuna legge antinegazionista e il soufflé si sgonfiò da solo. Oggi rimane un piacevole argomento di conversazione tra pochi appassionati. Se è la Verità quella che davvero interessa, un contestatore dotato di nuovi argomenti non potrà che fornire un’utile cartina al tornasole. Anche perché poi ci sono la statistica e il calcolo delle probabilità, con cui si devono fare i conti: ad esempio, è curioso che ogni nuovo rimedio curativo, facile, economico, privo di controindicazioni e possibilità di lucro, venga immancabilmente obliterato da taluni organi di informazione come “bufala”. Poi la gente comincia a pensar male e a farsi venire strane idee sui vaccini e le case farmaceutiche. Dopotutto, nella storia della medicina, ci sono pur state decine di scoperte a buon mercato che hanno salvato la vita di tantissime di persone: pensiamo a tutti i marinai del mondo salvati dallo scorbuto semplicemente imbarcando sulle navi dei limoni, integratori di vitamina C. O alle donne salvate a milioni dalla febbre puerperale perché il medico polacco Semmelweiss aveva intuito che, tra il fare l’autopsia a un cadavere e una visita ginecologica, forse, era meglio lavarsi le mani. (Morì in manicomio per la guerra che gli fecero). Insomma, ogni tanto succede che le buone medicine non debbano per forza coinvolgere carrozzoni farmaceutici e flussi torrenziali di danaro. Almeno UNA VOLTA SU CENTO capita. Ma ci vuole il giusto mix fra scetticismo e apertura mentale. E’ tutto lì: in un certo senso bisognerebbe dire grazie perfino ai sostenitori della terra piatta: con la loro folle idea, per un centesimo di secondo ci hanno fatto mettere in discussione la più granitica delle nostre certezze, ovvero che il mondo sia tondo. Una bella ginnastica mentale. (Chi scrive non è d’accordo con i terrapiattisti, sia detto a scanso di equivoci). Giusto ieri, abbiamo citato una tesi esplosiva sulla rinuncia al papato di Benedetto XVI: l’atto, infarcito di errori grammaticali, sarebbe stato scritto in modo da attirare l’attenzione sulla sua invalidità canonica e annullare, così, l’usurpazione da parte del clero massonico. I fatti strani e inspiegabili evidenziati dal frate Alexis Bugnolo ci sono e meritano valide risposte alternative alla sua ricostruzione. (Arriveranno o, come per i Dubia espressi dai quattro cardinali, si farà finta di niente?). Anche perché la questione della rinuncia “sgrammaticata” fa tornare alla memoria un brutto episodio di cronaca del 2004, quando i coniugi Thomas e Jackie Hawks, furono costretti dai sequestratori/killer a firmare l'atto di vendita della loro imbarcazione dalla quale furono poi gettati in mare al largo delle coste Californiane, legati a un’ancora. La signora, prima di morire, firmò il proprio cognome "Hawk", senza la "s" finale, per allertare gli investigatori. Probabilmente anche quei detective che si insospettirono per l’anomalia avrebbero potuto essere denominati complottisti o dietrologi. Quindi, in tempi di censure e leggi liberticide (anche sulla parola e sul pensiero) vale la pena di lanciare un appello: ognuno dica la sua e porti degli elementi validi a supporto. Viceversa, senza fatti, indizi seri, deduzioni che filano logicamente (perché, ebbene sì, esiste anche il metodo logico induttivo per comprendere le cose, che si tratti di scoprire nuovi pianeti, o di mandare in galera delinquenti) i complottisti fantasiosi si metteranno automaticamente e serenamente fuori gioco, senza che qualcuno li debba punire conferendo loro, peraltro, l’aura dei martiri. Ma se, niente niente, qualcuno di loro avesse ragione … Meglio per tutti, no? Quindi, piano con quel “gomblotto!” che fa così tanto ridere quelli che fino all’altro ieri erano i fieri alfieri del Dubbio, i nipotini di Voltaire e Cartesio, tutti puntati “contro il sistema” e che oggi invece, si sono inspiegabilmente trasformati nei picchiatori del Verbo istituzionale, nei bodyguard del mainstream, negli adoratori della Vulgata tradizionale. State tranquilli, rilassatevi: se la versione ufficiale è vera, se gli autori del presunto complotto non hanno nulla da nascondere, basterà che rispondano placidamente punto per punto NEL MERITO e fugare, così, ogni perplessità.
Alessandro Sansoni (Ordine dei Giornalisti): «Così i media condizionano l’opinione pubblica». Federico Cenci il 18 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Esiste il coronavirus. E poi esiste la narrazione sul coronavirus. Mai come durante questa emergenza sanitaria l’informazione ha dimostrato di detenere ancora le redini del quarto potere. Del ruolo svolto dai media il Quotidiano del Sud ne ha parlato con l’esperto di comunicazione Alessandro Sansoni. Napoletano, componente dell’esecutivo dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, è direttore di Culturaidentità.
Che ruolo sta svolgendo l’informazione?
«Decisivo. Ha dimostrato di avere ancora una grande capacità d’influenza. Mi riferisco soprattutto alla tv: per molto tempo si è detto che, con l’avvento dei social network, il tubo catodico avesse perso autorità. L’emergenza coronavirus ha dimostrato il contrario: toccando i tasti giusti dei temi che interessano le persone, come quello della salute, la tv riesce a esercitare condizionamento».
E in che modo sta condizionando le persone?
«La diffusa accettazione del lockdown da parte degli italiani è il risultato di quest’opera di persuasione. Va sottolineata a tal proposito l’assenza di capacità critica da parte dei media italiani, che soprattutto nella fase iniziale hanno avuto un eccesso di zelo nei confronti delle misure adottate dal governo. In altri Paesi europei, al contrario, si è registrato un dibattito sull’opportunità di fare una serrata draconiana per contenere i contagi».
Come spieghi questa accondiscendenza dei media al lockdown?
«Con la mentalità italiana che reputa la salute un valore prioritario rispetto ad altri diritti importanti come quello allo studio, al lavoro, agli spostamenti. E così si è assecondata la strada apparsa più efficace per contenere i contagi, anche a costo di sacrificare altri diritti costituzionali».
Come ne esce il Sud Italia dalla narrazione sul coronavirus?
«Sarebbe stato opportuno, da parte dei media, alimentare un dibattito sulla necessità di diversificare le misure restrittive a seconda delle Regioni italiane. Il lockdown così duro ha forse un senso al Nord, ma è spropositato al Sud. Ora il paradosso è che qui al Meridione, per il nostro tipo di economia, molto legata al turismo e al terziario, avremo una recessione maggiore rispetto a quella del Nord, pur non avendo subito un’aggressione della malattia altrettanto intensa. In questo caso l’assenza di dibattito avrà effetti concreti: la gente del Sud non morirà tanto di coronavirus, quanto di fame».
A proposito della durezza del lockdown italiano, certe restrizioni hanno riguardato anche la libertà d’informazione?
«Un mese fa il governo ha istituito una task force di esperti con il compito di vigilare sulla diffusione di fake news relative al virus. Ammesso e non concesso che servisse un simile provvedimento, è singolare che l’osservatorio sia stato costituito dal governo, senza alcuna attenzione verso la necessità di preservare garanzie di pluralismo. Per evitare l’impressione che si fosse di fronte a un “ministero della verità” di orwelliana memoria, sarebbe stato meglio incardinarlo all’interno del Parlamento, e coinvolgere gli enti che già oggi hanno il ruolo di vigilanza rispetto alla corretta deontologia giornalistica, mi riferisco all’AgCom e all’Ordine dei giornalisti».
Quale riflessione suggerisce agli operatori dell’informazione questa emergenza?
«Che bisogna recuperare un po’ di autodeterminazione, senza appiattirsi su tesi consolidate. Il ruolo della stampa libera è smontare le fake news, anche quelle del governo. Perché ricordo che il maggiore spacciatore di fake news è sempre il potere».
DAGONEWS il 23 gennaio 2020. Il Principe del Galles ha snobbato il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence? Dal video che sta facendo il giro del mondo si vede Carlo che saluta i leader mondiali durante l’evento organizzato a Gerusalemme per ricordare il 75° anniversario della liberazione di Auschwitz. Il duca passa davanti a Pence, lo guarda, il vicepresidente allunga la mano, ma Carlo non se ne accorge e corre a salutare calorosamente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Le immagini hanno acceso gli animi e sui social si sono scatenati i commenti su Carlo che “snobba” Pence. Ma in realtà non è andata così. A smentire le voci è arrivato subito un commento di Buckingham Palace che ha negato i fatti, aggiungendo che il principe e Pence avevano avuto una "lunga conversazione" prima dell'inizio della cerimonia. Circostanza confermata anche da una foto prontamente pubblicata da Katie Waldman, portavoce di Pence.
Dagospia il 30 gennaio 2020. Questa sera, a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35), Tapiro d’oro a Gianni Riotta perché, nonostante in passato sia stato pizzicato più di una volta da Striscia per aver trasmesso durante la sua direzione del TG1 notizie rivelatesi false, è stato nominato direttore del laboratorio anti fake news della Luiss. Forse che aver scelto Riotta non sia una sorta di cura omeopatica (veleno cura veleno) pensata per vaccinare gli studenti dell’università romana dal vizio delle notizie taroccate?
La trappola delle verità assolute. Michele Marsonet, Ordinario di filosofia della scienza all’Università di Genova, su Il Dubbio il 29 gennaio 2020. Quando oggi si parla di fake news, si dimentica spesso di sottolineare che soltanto in un contesto caratterizzato dalla libertà di opinione può svilupparsi la battaglia a favore della verità. Con questo articolo il professor Marsonet comincia la sua collaborazione con Il Dubbio. Battere le fake news ricercando la verità assoluta? Un errore. Molti sono convinti che libertà e verità siano intimamente connesse e che non si possa essere liberi senza il possesso della verità. Non è così. Si può essere liberi solo costruendo un concetto limitato e parziale di verità. La verità assoluta per battere le fake news è a sua volta una pericolosa fake news. Oggi si afferma spesso che l’inscindibilità di osservazione e teoria conduce alla relativizzazione di ogni discorso intorno al mondo circostante, e ciò significa che non è lecito affermare che il mondo rappresenta il criterio ultimo per distinguere il vero dal falso. In altre parole, risulta impossibile – pena la caduta nel ragionamento circolare – separare il mondo dalle teorie da noi costruite e utilizzate per parlarne; per far questo avremmo bisogno di un punto di vista superiore e neutrale, vale a dire di quella che Hilary Putnam definisce “visione dell’occhio di Dio”. Il risultato, in ultima istanza, è che ogni discorso sul mondo è relativo alle teorie di cui attualmente disponiamo. La principale caratteristica degli esseri umani, che è poi quella che li distingue da tutti gli altri prodotti dell’evoluzione naturale, è la loro capacità di idealizzare e di vedere le cose non solo come sono attualmente, ma anche come potrebbero o dovrebbero essere. Questo spiega perché, ad esempio, la nostra evoluzione non è soltanto naturale e biologica, ma pure culturale e normativa. Ciò di cui disponiamo, in ogni particolare epoca storica, è un genere limitato di conoscenza, dove l’aggettivo “limitato” si riferisce a tutte le condizioni particolari storiche, culturali, sociali, politiche, tecnologiche, etc. – che sono in grado di determinare gli obiettivi della nostra ricerca. Non esiste quindi la conoscenza “definitiva”. Quest’ultimo tipo di conoscenza, d’altro canto, è connessa alla nozione idealizzata di scienza “perfetta”. Il problema è che tanto l’ideale della scienza perfetta quanto quello della verità definitiva sono necessari al perseguimento pratico dell’impresa scientifica. Possiamo – e dobbiamo – comprendere il divario esistente tra “reale” e “ideale”. Ma nello stesso tempo, utilizzando la succitata capacità di idealizzazione e costruendo “mondi possibili”, riusciamo in qualche modo a colmare tale divario proiettandoci nelle circostanze ideali che renderebbero realizzabile una tale operazione. Ed è pure opportuno rammentare che non vi sarebbe alcuna scienza senza la nostra abilità di idealizzare e di prevedere circostanze e stati di cose possibili. Ne risulta pertanto che è errato accusare il coerentismo per il fatto che non fornisce alcuna definizione di verità. In realtà, una simile definizione non rientra nei suoi obiettivi, né potrebbe fornirla senza contraddirsi. Risulta allora difficile capire cos’altro potrebbe essere la verità se non coerenza ideale, dal momento che il fatto che una proposizione sia vera equivale al suo essere coerente rispetto a un insieme ideale di dati. Anche in questo caso è la presenza dell’idealizzazione a impedirci di ottenere – mediante la coerenza – la verità assoluta. Nella pratica il divario tra verità “presunta” e “accertata” continua infatti a manifestarsi, e soltanto delle circostanze ideali ( ovviamente non conseguibili praticamente) potrebbero colmarlo. E, anche nella ricerca scientifica, la separazione fra reale e ideale limita il nostro orizzonte cognitivo. E’ molto importante sottolineare che questa linea di ragionamento può essere applicata fruttuosamente nel campo dell’analisi politica e sociale. Lo capì molto bene Isaiah Berlin, che al tormentato rapporto tra verità e libertà ha dedicato alcune delle sue pagine più belle. Dalle precedenti considerazioni discende infatti una conseguenza che può risultare, in apparenza, paradossale. Quando oggi si parla di fake news, si dimentica spesso di sottolineare che soltanto in un contesto caratterizzato dalla libertà di opinione può svilupparsi la battaglia a favore della verità. Se le autorità governative decidono in anticipo cosa è vero e cosa è falso, come accade per esempio in un regime monopartitico come quello cinese o anche in un sistema apparentemente democratico come Singapore, è inevitabile che il problema delle fake news neppure si ponga, poiché il confine tra verità e falsità è già stato stabilito in anticipo da chi detiene il potere. Ne consegue che, rifacendoci alla storia del pensiero occidentale, non è detto che Platone avesse completamente ragione e i Sofisti del tutto torto. Se si ha in mente una concezione rigida della verità al fine di garantire la completa correttezza dell’informazione, si corre il rischio di perseguitare tutti coloro che non concordano con la concezione anzidetta. Se, invece, ammettiamo che la verità abbia a che fare anche con la persuasione, e che a volte il suo uso strumentale possa giovare alla convivenza civile, allora si lascia il giusto spazio alla differenza d’opinione consentendo a più soggetti di partecipare al dibattito adottando punti di vista diversi. Molti sono convinti che libertà e verità siano intimamente connesse, e che non si possa essere liberi senza il possesso della verità. Tuttavia non è così. Come dimostra l’esempio dei grandi sistemi totalitari e delle concezioni religiose monolitiche, che non attribuiscono alcun ruolo al dissenso, chi è convinto di possedere la “Verità” ( con la V maiuscola), è per forza di cose portato a colpire – anche nel senso fisico del termine – tutti coloro che non concordano con i suoi schemi mentali e concettuali. Questo significa che si può essere liberi soltanto costruendo un concetto limitato e parziale di verità, riconoscendo al contempo che chi è in disaccordo non dev’essere ipso facto condannato e bandito. Ogni pretesa di verità assoluta lede la libertà mia e quella altrui, mettendo così in pericolo il bene più prezioso che gli esseri umani possiedono.
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 30 gennaio 2020. #machedavero? C'è un hashtag delizioso su Twitter che suggerisce ai lettor impotenti e ai telespettatori rassegnati (che però in edicola non ci vanno più e il telecomando lo usano) di dare un premio a chi le spara più grosse sul dopo elezioni in Emilia Romagna e in Calabria. Ehi, una si prova a dire, in picciola compagnia, 8 regioni su 9, ehi, le elezioni europee, ehi, anche in Emilia 32% laddove c'era il 19, e nonostante l'olezzo di sardine, il pugno di ferro del sistema, la chiamata alle armi dei dipendenti pubblici, la consegna dei 5 Stelle… La spallata non c'è stata, il sistema Stalingrado resiste ma mostra segni di cedimento. Macchè, è stata Caporetto e adesso il sopravvissuto del Papeete ha i giorni contati. E, dimenticavo, il governo è fortissimo, soprattutto ora che quelli che hanno più voti in Parlamento non hanno più voti nel Paese. Logico, no? Soprattutto parlarne come se non si trattasse di democrazia ma di scelta del tè delle 5. Ecco allora che nascono hashtag di autodifesa, per riderci sopra almeno un po'. Quello che piace a me si chiama #machedaveroawards, laddove davvero, mi perdonino a nord e a sud della capitale, si scrive rigorosamente con una sola v, e che sta a significare nell'ironico intercalare romanesco piu' o meno: "ma con che faccia di culo sostenete certe cose"?
In ordine sparso le cose sono che: la campagna forsennata di Matteo Salvini in Emilia Romagna lo ha indebolito, mentre il resto del centrodestra ha vinto in Calabria, che ce l'hanno tutti con lui fuori e dentro il suo partito, che la famosa citofonata ha avuto l'effetto di far vincere in quel quartiere disastrato il PD, oltre che di farci precipitare nel giustizialismo da stato di diritto quale eravamo, e che la stessa cosa è successa a Bibbiano, ripulsa e voto a Bonaccini. Ha ragione Vittorio Feltri, era la terza guerra mondiale e non ce ne eravamo accorti!
Cominciamo con Repubblica che agli awards ci tiene: "Da ieri Matteo Salvini è un uomo sempre più solo al comando. Berlusconi e Meloni stringono un patto segreto per impedirgli di sbarcare nelle due regioni del Sud che andranno al voto in primavera: Campania e Puglia. Ma il leader della destra italiana è stato messo all'angolo in queste ore anche nel suo partito". Ecco fatto ,quindi Silvio Berlusconi, con Forza Italia al 2,7 in Emilia e sondaggi nazionali non sopra il 5/7 per cento, sarebbe pronto a fare a meno dei voti della Lega, che anche in Emilia, dove ha perso, sta al 32%. Quanto a Giorgia Meloni, tra l'8 e il 10 con lusinghiero risultato nelle due regioni in cui si è votato domenica scorsa, non solo stringe patti segreti e non vuole che Matteo Salvini sbarchi al sud, ma pensa anche di poter essere il futuro premier.
Quando lo ha detto? A Fuori dal Coro di Mario Giordano: "Una cosa che mi fa tremare i polsi - confessa a Rete4 - ma penso ci siano le condizioni per una donna, sono pronta a misurarmi ». Salvini è avvertito". Ma in tutte le altre interviste, e anche su la7 all'Aria che Tira di Myrta Merlino, non ha forse sostenuto la stessa Giorgia Meloni che il premier lo fa il leader del partito della coalizione di centro-destra con il più alto numero di voti, ovvero ad oggi e anche in un probabile futuro Matteo Salvini? Vabbè, Maglie, sei faziosa! Eppure sempre la Meloni ospite a Dimartedì, ha seccamente risposto a Marco Damilano, direttore dell'Espresso, che la provoca dubitando della compattezza del centrodestra: "Mi perdoni ma venire a dire che noi non siamo una coalizione quando abbiamo al governo della nazione gente che il giorno prima di andare al governo insieme, per mettersi seduti su una poltrona, si stava dicendo 'brutto ladro, pedofilo, infame e mafioso' mi pare un po' eccessivo. Condividiamo le grandi questioni fondamentali". Come non detto, nel racconto dei giornaloni del dopo elezioni le trame si infittiscono, si devono infittire, nel centrodestra. Cito sempre Repubblica, è impagabile. " Per non correre rischi, la leader di Fdi ha già garantito al Cavaliere che sosterrà Caldoro in Campania (contro De Luca), incassando dall' ex premier forzista identico sostegno per Fitto in Puglia (contro Emiliano). Se la Lega non ci starà potrà correre da sola e accontentarsi del Veneto con Zaia e della Toscana, per la quale lievitano le quotazioni del sindaco leghista di Grosseto, Antonfrancesco Vivarelli Colonna". Eh sì, perché se in Emilia è stata imposta la Borgonzoni, ora le imposizioni sono finite. Insomma, adesso i candidati li propongono altri. Chi erano poi o chi sarebbero stati i candidati forti e proponibili da Forza Italia e da Fratelli d'Italia nella campagna di Emilia Romagna (in Calabria il candidato era di Forza Italia), quali alternative si sono sviluppate nella Stalingrado d'Italia, e quali personaggi forti e importanti abbiamo visto in giro per la campagna elettorale?
Niente da fare, Berlusconi e Meloni sono pronti a correre da soli e a misurarsi da soli contro il centro-sinistra, secondo l'esimio giornalista di Repubblica, e La Lega può anche correre da sola, e muoia Sansone con tutti i filistei. Suicidio credibile per voi? Certamente i nomi di Fitto e di Caldoro circolano da tempo, e nel vertice dei tre leader del centrodestra si chiarira' se sono i nomi migliori, i più forti, i più nuovi, quelli in grado di battere magari dei candidati governatori in cui, com'e' ormai evidente, Beppe Grillo rottama quel che resta del defunto 5stelle tutto dentro al PD, e peggio per il PD se nella proposta politica e nella ideologia torna indietro di 30 anni, praticamente una gioiosa macchina da guerra. Imperterriti, ci spiegano la fotocopia di quello che scrissero in agosto che Salvini e' finito, isolato anche nel suo partito, e qui viene fuori l'immancabile avversario preferito dai giornali problemi Giancarlo Giorgetti.
Retroscena di Carmelo Lopapa, estratti. "L'ex sottosegretario senza peli sulla lingua ha contestato all' amico di aver «sbagliato » la campagna elettorale (…) Sotto accusa, neanche a dirlo, la sortita improvvisata del citofono al Pilastro di Bologna, oltre ai toni esasperati (…) Salvini avrebbe fatto mea culpa. (…) Ha ammesso cioè che il partito ha un problema nella raccolta di consenso nelle città, mentre ha la meglio spesso nelle campagne e nelle periferie: ma non basta. E (…) può rivelarsi un grosso problema soprattutto in vista del voto a Milano e Roma del prossimo anno. Perché se la Lega si schiantasse di nuovo anche in «casa», nella sfida difficilissima contro l' uscente Giuseppe Sala, ne uscirebbe azzoppato il partito e pure il suo leader. Che ha detto Giorgetti in realtà? Che "Matteo Salvini è stato eroico". Intervista alla Stampa: "Ci è mancato il voto delle città. La destra raccoglie molto più nelle campagne che nei centri urbani. Da quando l'attrazione di Silvio Berlusconi sui ceti borghesi è venuta a mancare, non siamo riusciti a colmare il vuoto. Servirà uno sforzo di visione per parlare con più efficacia a quegli elettori". Le città in questione sono Bologna o Modena o Reggio Emilia, nelle quali la Lega praticamente non esisteva e, visto che il dono dell'ubiquità Salvini non lo ha ancora e visto che le campagne le ha conquistate insieme ad alcune delle città, è evidente che casomai Il problema riguarda altri, si capisce che Giorgetti si riferisce proprio alla caduta di Forza Italia, ma potrebbe anche riferirsi a una classe dirigente della Lega che va allargata e arricchita, è arrivato il momento. Ciò non toglie che per Giorgetti la Lega va applaudita per essere scesa "nella fossa dei leoni a lottare a mani nude contro i poteri economici, mediatici, perfino ecclesiastici". "I veri sconfitti vanno cercati altrove". Per maggiori informazioni, citofonare il Movimento 5 Stelle. O quello che ne rimane .
Quello che ne rimane ha sense of humor e , hanno ragione su Twitter, il premio #machedavero lo vincono loro. Scrive infatti testualmente il MoVimento 5 stelle Europa a firma di Ignazio Corrao che "Adesso i leghisti stanno cercando di minimizzare ma la loro è una sconfitta totale, hanno rotto i maroni per mesi dicendo che vincevano e si doveva andare a votare, ma con odio e fake news non si vincono le elezioni". Non sapevo che Bruxelles fosse isolata dal resto d'Europa e che le notizie arrivassero col Corriere a cavallo quindi un po' in ritardo rispetto alla realtà. Ehi, Corrao, 32 contro 4,7. Primo premio #machedavero aggiudicato.
Però sul podio c'è posto. Per il Corriere della Sera, che titola enfaticamente: La Lega perde nella città al centro dell'inchiesta "Salvini perde a Bibbiano. Era uno dei risultati più attesi di queste elezioni regionali. La Lega ne aveva fatto — da mesi — una bandiera contro il centrosinistra (qui tutti i dati). Alla fine, il Partito democratico ha ottenuto il 40,7%, mentre la Lega si è fermata al 29,46. È questo l'esito del voto di domenica 26 gennaio a Bibbiano, il comune in provincia di Reggio Emilia al centro dell'inchiesta «Angeli e demoni» sui cosiddetti «bambini rubati» più volte citata durante i comizi della campagna elettorale". Per carità, che la Lega non abbia vinto e' indubitabile, un po' come il fatto che a Bettola, paese di Bersani, il 70% dei voti va a Borgonzoni, ma il PD ha vinto col 40,7e aveva il 52,7, e la Lega è passata dal 15,25 al 29,5. Ricordarlo, per curiosità di cronista e per mestiere?
Al terzo posto, con dispiacere, il Sole24ore ,che si diffonde giuridicamente ed eticamente contro la scelta di Facebook di censurare il video della famosa citofonata al Pilastro. Cito: "In sintesi, quel video – che forse per questo ha fatto tanto scalpore – sembra rappresentare la quintessenza della ideologia politica di Salvini e del metodo che utilizza per dominare la scena pubblica. Per questa ragione, forse, proprio tali immagini potranno essere usate dagli storici come paradigma dell’involuzione dell’agire politico dei nostri giorni". Come no, non la fine della prescrizione che ci fa tutti colpevoli a vita, non intercettazioni distribuite ai giornalisti e da questi pubblicate senza la minima remora con nomi e cognomi, non dichiarazioni come quella del ministro Bonafede secondo il quale Innocenti in carcere non ce ne sono, non articolesse che invece sostengono che è bene che ci siano innocenti in carcere, con relativi insulti a Gaia Tortora, nel silenzio di governo e giornali. No, il paradigma dell'involuzione e Matteo Salvini, e l'indignazione delle tricoteuses si fa d'improvviso ipergarantista, ma solo per lui. #Machedavero?
Dagospia il 29 gennaio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, non ho apprezzato il calcio dell’asino assestato da chi ha scritto la titolazione contro di me e il Popolo della Famiglia. Se il tema è la visibilità, ne avevo molta di più quando frequentavo altri lidi politici che mi hanno portato fino al Parlamento. Quando non mi sono ricandidato alla Camera per il Pd e ho lasciato il partito, per dedicarmi ad alcuni temi etici per me fondamentali ho subito una damnatio, ma non me ne lamento, era messa nel conto. Era nel conto anche il fastidio di chi come te ritiene folle (o magari falso o “paraculo”) chi si intestardisce a dire no a matrimonio gay, eutanasia, aborto, droga e pornografia. Navigo controvento, lo so. Lo sfottò lo accetto, per carità (mi chiedo perché solo contro di noi, ero alleato con Toti e a lui niente, 7 liste su 17 hanno preso quanto noi e per loro niente, prende gli stessi nostri voti la lista di Rizzo, il comunista con vitalizio che sostiene il sistema nordcoreano, per lui niente frizzi o lazzi). Una sola cosa è inaccettabile: falsificare i dati, pubblicando i 2 voti di un comune facendo intendere che ci abbiano votato in 2 in Emilia Romagna, quando alle regionali comunque ci hanno votati in migliaia: 6.341 (non 4mila, dillo anche a Damilano e Diego Bianchi) hanno votato Popolo della Famiglia. Sono pochi? E chi lo nega, ma sono migliaia di persone, centinaia di migliaia hanno scelto il PdF alle politiche del 2018 (219.641 voti), loro pensano che non siamo pazzi. Titolare che facciamo tutto questo per “la visibilità” è un insulto alla tua stessa intelligenza, a noi la visibilità è del tutto tolta. Quindi non fare titoli con dati falsi, non indicare motivazioni false per ciò che facciamo. Al limite siamo dei fessi, che si giocano la faccia e se la fanno sputare da Dagospia e da Propaganda Live, da Libero e da L’Espresso, per testimoniare quel che nessuno vuole più testimoniare nel territorio della politica. Traendone solo danno e nessun vantaggio, ma era nel conto e qui non ci si lamenta. Si continua. Anzi, so che sei residente nel collegio Roma Centro: alle suppletive della Camera, il 1 marzo regalati un voto non conformista, vota Popolo della Famiglia. Con amicizia Mario Adinolfi.
La lotta ai deepfake non è finita: video bufala in vendita a soli 30 dollari. Le Iene il 13 gennaio 2020. Su internet spopolano forum con oltre 100mila utenti dove è possibile acquistare un deepfake a soli 30 dollari. Nel servizio di Matteo Viviani vi abbiamo parlato di questi video bufala con dentro persone “contraffatte” e cose mai dette. Qualsiasi video bufala disponibile a soli 30 dollari: è possibile e tutto si fa online, attraverso i forum che al momento superano i 100mila iscritti. Fare un deepfake è facile e rapido, e l’acquirente potrebbe averlo anche entro fine giornata. Mentre Facebook lotta per cancellare i deepfake comparsi sui social, la situazione diventa purtroppo ancora più allarmante. La tecnologia è sempre più accessibile e un video può essere creato con dentro qualsiasi persona e qualsiasi azione, tutto attraverso l’intelligenza artificiale. La preoccupazione più grande è che una volta imparato l’algoritmo di creazione di una certa faccia, i “creatori” potrebbero abbassare il prezzo per il prossimo ordine, poiché allenati a lavorare con lo stesso viso. Così sarà incoraggiato l’aumento degli ordini. Con Matteo Viviani vi abbiamo parlato del lavoro che sta dietro i deepfake e vi abbiamo mostrato quanto possano essere pericolosi. Ci aveva parlato anche dei deepfake porno: “Si rischia che con una manciata di foto si possano fare dei filmati hard”. Stando ad alcune ricerche, il numero dei video bufala a settembre era di 14.678 con 134milioni di visualizzazioni. Per questo fine, in alcuni forum ci sono caricate migliaia di foto di particolari del volto di politici e persone famose tra cui attrici. Visto quanto è rapida e pericolosa la diffusione di questa nuova “tendenza”, speriamo che a punire i video bufala saranno non solo i leader dei social, ma anche qualcuno che possa fermare il mestiere di questi creatori dei deepfake. La lotta contro questi video, dunque, è ben lontana dall’essere vinta.
Guerra ai deepfake, Facebook eliminerà i video bufala (anche quelli porno). Le Iene il 12 gennaio 2020. Mark Zuckerberg dichiara guerra ai deepfake: i video in cui le persone dicono e fanno cose mai dette o fatte nella realtà verranno cancellati da Facebook. Questi contenuti sono realizzati con l’intelligenza artificiale e comportano rischi enormi per le vittime, come ci ha spiegato Matteo Viviani nei suoi servizi. Facebook dichiara guerra a deepfake e deep porn. Il social network di Menlo Park ha annunciato che eliminerà quegli odiosi video in cui i soggetti dicono e fanno cose che nella realtà non hanno mai né detto né fatto. Negli ultimi mesi questi filmati, che sono falsi ma sembrano veri, hanno conquistato milioni di click anche sui social network. Dopo la presa di posizione di Twitter che ha dichiarato guerra ai deepfake (clicca qui per l’articolo), anche Mark Zuckerberg ha adesso preso la stessa decisione. Pochi mesi fa ha lanciato la campagna "Deepfake Detection Challenge", che punta a sviluppare strumenti in grado di identificare i video bufala. Da Facebook verranno dunque eliminati i contenuti "manipolati allo scopo di ingannare”, dunque soprattutto i deepfake creati con l'intelligenza artificiale. La tecnica di realizzazione di questi video permette di sovrapporre due volti (o altre parti del corpo) in un video, creando così uno scambio di identità e consentendo di far dire a una persona frasi che non ha mai pronunciato, oppure mostrare azioni che non ha mai compiuto. I video sono dunque falsi, ma sembrano verissimi. In un post firmato dalla vicepresidente del Global Policy Management, Monika Bickert, Facebook fa sapere che rimuoverà i contenuti modificati "in modi che non risultano evidenti a una persona comune, e che probabilmente indurrebbero a pensare che un soggetto del video abbia detto parole che in realtà non ha pronunciato". Per capire se un contenuto è manipolato, la compagnia si avvarrà dei suoi 50 partner mondiali per il fact checking in 40 lingue. Sono esonerati i video sottoposti a post produzione per miglioramenti grafici e quelli realizzati per satira e parodie. Con Matteo Viviani vi abbiamo parlato dell’intelligenza artificiale dietro ai deepfake, come potete vedere nel video qui sopra. Facebook ha dichiarato guerra anche ai deepnude, in cui vengono letteralmente incollati i volti di persone famose e che rappresentano oltre il 95% dell’intero insieme di video manipolati. Sempre Matteo Viviani ci ha mostrato in un secondo servizio (clicca qui per vederlo) le tecniche di deeporn e soprattutto i rischi che comportano. Per farlo ha messo alla prova Fedez e il nostro Nicolò De Devitiis mostrando loro dei falsissimi deepnude delle rispettive compagne: Chiara Ferragni e Veronica Ruggeri. Così recuperiamo delle loro foto in costume e facciamo partire il programma che ci permette anche di indicare le dimensioni delle parti intime come la grandezza del seno, dell’areola, del capezzolo. E dopo neanche 30 secondi il programma sforna le foto fake. Noi abbiamo scherzato, ma la questione è molto seria. “Quello che ne consegue è chi ti dà della puttana e via dicendo”, dice Fedez. Proprio come è successo a Fabiana, una ragazza di 24 anni che si è ritrovata sul web ben 36 foto di lei completamente nuda. Lei fa la modella curvy e l’influencer. Un giorno ritrova le sue foto in un forum frequentato da milioni di utenti. “C’erano persone che chiedevano su commissione di spogliare foto di ragazze e in alcuni casi di bambine”, racconta Fabiana. “Non è solo una questione di social, avevo un’ansia perenne”. Speriamo che la decisione di Facebook aiuti a proteggere le vittime di queste terribili aggressioni alla vita delle persone.
Edoardo Montolli per frontedelblog.it il 18 gennaio 2020. Cosa succederebbe se domani Olindo e Rosa si lasciassero? Se venisse meno quel legame che li ha tenuti uniti e vivi pur con il marchio di mostri cucito addosso? Avrebbero ancora la forza di combattere e di protestare la propria innocenza come fanno ormai da dodici anni, sperando un giorno di ritrovarsi fuori? Forse no. Se sei innocente, sopravvivi ad un diluvio del genere solo se sai che qualcuno ancora ti aspetta. Altrimenti diventa perfino inutile combattere. La premessa è da tenere bene in conto, perché mai come oggi il caso della strage di Erba presenta aspetti inquietanti: ci sono intercettazioni misteriosamente scomparse nonostante le quali viene rifiutato l’accesso ai server originali alla difesa; ci sono reperti apparsi all’improvviso dopo anni, mai analizzati ma bruciati illecitamente poche ore prima che la Cassazione ne decidesse il destino; ci sono plichi contenenti reperti (un telefonino) ritrovati, ma aperti non si sa da chi né quando perché privi del relativo verbale. C’è ancora che la società che ha consegnato i dvd delle intercettazioni alla difesa risulta composta per il 40% da una società anonima svizzera, di cui in sostanza si ignorano buona parte dei proprietari. C’è, pure, il padre, marito e genero di tre delle vittime, Azouz Marozuk, che chiede lui di farsi processare pur di sostenere che i coniugi siano innocenti. Ci sono infine le sentenze della Suprema Corte che indicano alla Corte d’Assise di Como di tenere un’udienza per stabilire cosa fare con i reperti rimasti e per l’accesso ai server: udienza fissata per il 3 febbraio. La difesa ha chiesto un’udienza pubblica, forte di una decisione inequivocabile della Corte Costituzionale. Ma a Como hanno deciso che sarà in Camera di Consiglio. Materiale su cui scrivere ce n’è, insomma, davvero parecchio. Senonché, a dicembre, muore a Corsico un detenuto ergastolano in semilibertà, Marco Alberti, investito sulle strisce. Nessuno ne sa nulla per una ventina di giorni. Poi, ecco il boato della settimana scorsa: diventa virale la notizia che Alberti era l’amante di Rosa, la quale avrebbe nientemeno che mollato Olindo per amore suo. Sui giornali, dove si stracciano le vesti per le ridicole battaglie contro le fake news, la notizia viene subito presa per buona, dimostrando ancora una volta quanto sia pericolosa e grottesca la loro presa di posizione: Alberti, in questa fake news certificata dalla stampa nazionale, diventa addirittura il “nuovo compagno” per cui Rosa aveva perso la testa. Solo che si tratta di una balla. Un’invenzione bell’e buona. Mero veleno. Lo conferma la stessa Rosa a Oggi: «È una stupidata. Io vorrei sapere chi mette in giro queste bugie che servono solo a far male alle persone». Già, perché non c’è mai stato alcun amante. Rosa e Olindo non si sono mai lasciati. E peraltro la bufala non è nemmeno nuova: l’avevano già servita la scorsa primavera. Ma al contrario: all’epoca fu scritto infatti che era Alberti, e non Rosa, ad aver perso la testa per la vicina di Erba, tanto da rifiutare la semilibertà per quella ragione. A smentirla fu prima il carcere, poi il diretto interessato, che peraltro, una compagna l’aveva. Il giorno prima che un quotidiano comasco la diffondesse, però, Rosa aveva rilasciato un’intervista fiume a Le Iene, in cui raccontava con violentissime accuse presunti retroscena delle sue confessioni. Scrissero sul sito gli autori della trasmissione: «Noi ci permettiamo di osservare la strana coincidenza temporale di questa notizia, arrivata proprio il giorno dopo la nostra lunga intervista a Rosa Bazzi». Infatti si parlò poco o nulla delle rivelazioni della donna e molto della notizia inventata, quella dell’amante. La stessa, cavalcata oggi, al contrario. Perché tanto Alberti è morto e non può smentire più. E Rosa nessuno si prende la briga di sentirla, perché c’è fake news e fake news. Quelle sulla coppia vanno sempre bene, ne hanno prodotte a quintali. Olindo per sua fortuna è abituato ai veleni. Sopporta da dodici anni il carcere e il marchio da mostro che dice di non essere. Un altro, al posto suo, di fronte ad una notizia del genere, una notizia letteralmente inventata, avrebbe agito d’istinto e si sarebbe ammazzato. Niente più battaglie per gridare la propria innocenza. Niente più ricorsi. Niente di niente. Il sipario sulla strage di Erba sarebbe calato per sempre.
Mentana e il refuso nel titolo su Salvini: “Doveroso chiedere scusa”. Jacopo Bongini il 19/01/2020 su Notizie.it. “La Lega voterà per l’arresto di Salvini”. Nella giornata del 19 gennaio non sono stati in molti ad accorgersi di questo particolare refuso all’interno dei titoli del Tg La7 condotto da Enrico Mentana, che però poche ore dopo ha comunque voluto personalmente scusarsi sia con i suoi telespettatori che con il l’ex ministro dell’Interno. L’anonimo titolista del telegiornale della settima rete è infatti incappato in un banale lapsus scrivendo “arresto” al posto di “processo” nei confronti del leader leghista, che proprio lunedì saprà se la Giunta per le Immunità del Senato approverà l’autorizzazione a procedere verso di lui in merito al caso della nave Gregoretti. In un post pubblicato su Instagram nella serata di domenica 19, il direttore del Tg La7 riconosce l’errore nel titolo porgendo le proprie scuse: “A quanto pare non se ne è accorto nessuno, ma non per questo posso far finta di niente, ed è giusto che sia io per primo a denunciare la cosa. Nell’edizione delle 13.30 di oggi il giornale che dirigo ha fatto questo titolo sballato. Più che un errore un orrore, e in questi giorni poi”. Mentana poi sottolinea come un errore di questo tipo sia comunque estremamente grave, soprattutto in questi giorni in cui si rincorrono le notizie sull’eventuale processo a Salvini e dove una parola fuori posto può alterare sensibilmente la percezione dell’opinione pubblica sul tema: “Lo so, potrei scherzare sul fatto che l’errore giudiziario di un giornalista a differenza di quelli dei magistrati è indolore, ma la verità è che infortuni simili fanno arrabbiare anche i santi, e io santo non sono. È doveroso chiedere qui scusa a tutti, e innanzitutto a Matteo Salvini. PS Ai familiari dell’autore del titolo: non ha sofferto“. Tra le risposte al post di Enrico Mentana è giunta anche quella di Matteo Salvini, che ha commentato direttamente sotto l’immagine replicando ironicamente: “Tocco ferro e sorrido, ne ho viste di peggio”. Soltanto poche ore prima pertanto, lo stesso Salvini aveva invocato il processo nei suoi confronti per il caso Gregoretti, invitando i senatori della Lega a votare sì all’autorizzazione a procedere.
Il fantasma di Craxi agita il Pd. Gori: «Lui meglio di Berlinguer». Il partito: «Così ci facciamo male». Valerio Falerni sabato 18 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Tutto avrebbe potuto immaginare Bettino Craxi tranne di trovarsi un giorno immischiato nella contesa su chi, tra lui ed Enrico Berlinguer, due meritasse di essere ricordato come il vero ispiratore del Pd, il partito erede del Pci. Chi non sembra avere dubbi in proposito è Giorgio Gori, sindaco di Bergamo e da sempre promessa dell’anima riformista del partito di Zingaretti. È lui a dire a Repubblica di trovare più farina del sacco del leader socialista che di quello comunista nel discorso di Veltroni al congresso fondativo del Pd. Un’opinione come un’altra, verrebbe da dire. Se non fosse che il “fattore C” dalle parti del Pd è materia ancora incandescente. Trattarla senza le dovute cautele può essere nocivo. E Gori non ha fatto eccezione.
Il sindaco di Bergamo riabilita Craxi. Poi si rimangia tutto. E così, convinto di aver fatto in fondo solo il suo dovere di riformista recandosi ad Hammamet «per non regalare Craxi alla destra», si è ritrovato il giorno dopo nella lista dei blasfemi. E poiché non è proprio quella che si definisce una “pellaccia”, appena ha sentito montare la tempesta intorno a lui («così ci facciamo male», è l’avvertimento del senatore Mirabelli) ha innestato la retromarcia. «Mi sveglio e trovo su Repubblica un’intervista che non ho dato, costruita sulle chiacchiere fatte in piedi durante una cerimonia. Giudizi forzati, espressioni che non sono mie. Perché?». Già, perché? Forse – azzardiamo noi – perché alla faccia dell’aggettivo e della sua pretesa di partito plurale, l’unica matrioska riconosciuta come originaria dal Pd è quella del Pci.
Il Pd non sarà mai un partito riformista. Del resto, Repubblica, mai tenera con Craxi, non avrebbe avuto alcun interesse ad inventarsi parole mai pronunciate. E che parole. A passarle in rassegna viene da pensare ad un Gori deciso a tutto pur di piantare una bandiera riformista in un partito perennemente ostaggio del cattocomunismo. Eccole: «Il Pd nasce con il discorso di Veltroni al Lingotto. E chi c’era in quel discorso se non Craxi, le sue idee?». E ancora: «Berlinguer era l’uomo dell’austerity, il segretario che per superare la crisi proponeva di ridurre i consumi. La ricetta peggiore». Scontata la conclusione: «Nel discorso fondativo del Pd c’era Craxi e non Berlinguer, questa è la verità. Ed è stupefacente che non lo si voglia riconoscere. E che oggi nessuno senta il bisogno di farsi sentire. Figuriamoci farsi vedere. Per questo ho avvertito il bisogno di esserci io, come dirigente del Pd». Giusto. Peccato solo che, ad Hammamet, alla luce della smentita pare che Gori ci fosse andato a sua insaputa.
Repubblica, altro disastro. Giorgio Gori: "Mai rilasciata quella intervista. Perché?" Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 19 Gennaio 2020. Che periodaccio per Repubblica. Quando le cose girano male, rischi di intervistare qualcuno a sua insaputa, di fare titoloni violenti a tua insaputa, di dare lezioni di teologia spicciola credendoti il Papa e di sparare cifre a casaccio. Ma non è mica per malafede. È che se metti insieme ideologia, snobismo intellettuale, caccia alla notizia a tutti i costi e il motto «prima le opinioni poi i numeri», finisci per partorire qualche mostriciattolo.
L' ultimo era visibile ieri sul quotidiano fondato da Scalfari: si trattava di un' intervista a Giorgio Gori, sindaco di Bergamo e unico esponente di nota del Pd a prendere parte ad Hammamet alle commemorazioni per l' anniversario della morte di Craxi. Il pezzo offriva spunti interessanti, dall' invito alla sinistra a riappropriarsi del leader socialista perché «io non regalo Craxi alla destra» all' attacco al Pd che «aveva l' occasione di sanare una ferita, recuperare un pezzo di storia comune. C' era solo un piccolo difetto nell' intervista: a detta di Gori, non era mai stata rilasciata. Ieri il sindaco di Bergamo scriveva infatti su Twitter: «Mi sveglio e trovo su Repubblica un' intervista che non ho dato, costruita sulle chiacchiere fatte in piedi durante una cerimonia. Giudizi forzati, espressioni che non sono mie. Perché?».
Già, perché? Forse per la stessa ragione per cui è possibile aprire il giornale con un titolo feroce, «Cancellare Salvini», senza dover rendere conto del metodo usato. Anzi, provando il giorno dopo a giustificarlo con una mega-arrampicata di specchi, ossia sostenendo che il senso era «cancelliamo i decreti Salvini». Verissimo, ma nessuno è così scemo da pensare che quel titolo fosse stato scritto così solo per brevità e che dietro non ci fosse l' auspicio di Repubblica di cancellare la persona di Salvini dalla scena politica, e forse non solo. A proposito di cancellazione, prima della pubblicazione il giornale avrebbe fatto bene a rimuovere quell' altro titolo per cui «Liliana Segre riceve 200 messaggi online di insulti al giorno». Fortunatamente gli insulti ricevuti dalla senatrice sono molti meno, tanto che lei stessa ha ammesso che quel numero è «scaturito da un' inesattezza giornalistica». Rientra invece in una categoria a sé, che non è lo scivolone, la mancata consultazione delle fonti o degli intervistati ma il dadaismo, la chiacchierata tra i due Papi, uno religioso e l' altro laico, ossia tra Bergoglio e Scalfari pubblicata tre giorni fa su Repubblica. Con il primo che usava l' altro come ufficio stampa, ma a tratti sembrava intervistarlo, rovesciando i ruoli. E con il secondo che rivelava al lettore verità sconcertanti tipo «c' è un Dio unico, questo è il parere di Sua Santità», «ci sono nel mondo altre religioni monoteiste e ce ne sono di politeiste» e non virgolettava l' unica notizia dell' intervista, ossia il fatto che, a detta di Francesco, il caso con Ratzinger fosse chiuso. Per cui non capivi se quella frase l' avesse detta il Papa, l' avesse interpretata Scalfari o nessuna delle due. Più probabilmente però l' interlocutore non era Bergoglio, ma Giorgio Gori, a insaputa di Gori e dello stesso Scalfari. Gianluca Veneziani
Arrivare primi e dire pure la verità: la mission impossible nel fake giornalismo. Diletta Capissi l'11 gennaio 2020 su Il Dubbio. «Sugli scoop non transigo» suona forte e imperioso il richiamo di Ben Hones, direttore di quotidiano, ad un suo redattore mentre sta lavorando sulla presunta notizia di un sequestro di quattro giornalisti, da parte di uno sconosciuto. E’ un ingresso a gamba tesa nel mondo del giornalismo di oggi quello che apre lo spettacolo “Wet Floor” di Fabio Pisano, con la regia di Lello Serao, interpretato da Antimo Casertano e Fabio Cocifoglia, in scena al Piccolo Bellini di Napoli, fino al 12 gennaio. La drammaturgia contemporanea di Pisano, autore già di diversi testi apprezzati – e che ha ricevuto nel 2019 il premio Histrio nella sezione degli autori under 35 – coglie appieno nella sua scrittura narrativa sempre i temi dell’attualità, esplorando con arguzia fulminante la società con le sue diverse contraddizioni. La rappresentazione è coprodotta dalla Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini e Teatri Associati di Napoli. “Wet Floor” è uno spettacolo che prende spunto dalla riflessione dell’attore Denzel Washington sul ruolo del giornalismo di oggi, dove la cosa che conta di più è arrivare primi. La verità è spesso in superficie, sembra contare poco. Implacabili i dialoghi tra i due protagonisti Antimo Casertano, nei panni di Ruth Crisus e Fabio Cocifoglia in quelli di Ben Hones che avviano uno scontro dialettico “su che cosa determina l’interesse della notizia rispetto alle altre” e alle tante informazioni che ci bombardano quotidianamente facendoci perdere il controllo tra ciò che è verità e autenticità della notizia: il mondo delle fake- news che ormai ci attornia e ci confonde appunto le domande sono: chi detiene il grande potere della notizia, conta più ciò che dici o la bacheca sulla quale lo dici? Insomma lo scontro verbale tra i due personaggi è serrato, si svolge nell’ufficio di una redazione giornalistica, dove un uomo, Ruth è intento a pulire i pavimenti, e, Ben, giornalista, è intento a scrivere. Inizia così una conversazione tra i due. Ben sta lavorando alla notizia di un presunto sequestro di quattro giornalisti, da parte di uno sconosciuto. Ha urgenza di uscire. Ma il pavimento è bagnato e Ruth non tollera che il giornalista passi prima che si sia asciugato. Ma è solo un pretesto per sequestrarlo. L’accurata regia di Serao conduce per gradi nella pericolosità della situazione valorizzata dalla bella scenografia di Luigi Ferrigno che allestisce un ufficio essenziale ma trasparente sospeso in aria, ( al 18 piano di un grattacielo) dove le intenzioni pericolose dell’uomo sono pienamente visibili insieme allo scorrere sullo screen delle notizie che rimbalzano sempre uguali. «Oggi se non leggi i giornali sei disinformato – scrive Fabio Pisano – se invece li leggi sei informato male. Una delle conseguenze della troppa informazione è il bisogno di arrivare primi, non importa più dire la verità. Invece la responsabilità di un giornalista è dire la verità. Non solo arrivare per primi, ma dire la verità». Le problematiche dell’informazione ci sono tutte: chi condiziona la notizia, perché diventa virale sul web, sono i like a condizionarla o gli algoritmi che definiscono le tendenze? E perché Ruth sequestra Ben? Il bandolo della matassa sta nella frase di Ruth a Ben: «Voi giornalisti non fate il vostro lavoro con dignità, e non pagate mai». Ben passa a rispondere colpo su colpo alle obiezioni di Ruth: “Io ho il dovere di informarti ma la verità non basta”. E poi gli chiede: «Chi è veramente interessato alla verità? Qui non si indigna più nessuno». Al che con un rovesciamento di prospettiva, Ruth si appella in diretta agli utenti del web, visto che tutto è ripreso in live, per esercitare il diritto alla democrazia partecipata. Si può mettere ai voti la ricerca della verità? In realtà si creano mostri. Il rancore di Ruth verso il giornalista risale al racconto di una rapina in una banca, scritto da Ben, in cui insinuava il dubbio di un presunto coinvolgimento di Ruth, allora guardia giurata della medesima. Presunto coinvolgimento che ha distrutto la sua vita professionale. Tutto ruota attorno alla notizia, con il fare incalzante della trama e dei protagonisti Fabio Cocifoglia e Antimo Casertano che hanno tenuto alta entrambi la sfida sulle parole e sulla bella e convincente interpretazione dei rispettivi ruoli, mai abdicando all’altro ma forse convincendo lo spettatore che la riflessione sul ruolo dell’informazione oggi è complessa e non va sottovalutata. E colpo di scena anche il sequestro dei quattro giornalisti si rivela una fake news. Insomma uno spettacolo di grande attualità.
Francia, polemiche per un manuale di storia che coinvolge la Cia negli attacchi dell'11 settembre. La casa editrice del testo, sull’onda delle polemiche, ha alla fine presentato le sue scuse per i riferimenti alla Cia contenuti nel manuale. Gerry Freda, Mercoledì 22/01/2020 su Il Giornale. In Francia fioccano le polemiche a causa del contenuto di un manuale di storia, che fa riferimento a un presunto coinvolgimento della Cia nella pianificazione degli attacchi dell’11 settembre. Il testo incriminato, fa sapere la Bbc, è rivolto principalmente agli studenti universitari iscritti alle facoltà di Scienze Politiche, nonché ai giovani che intendono prepararsi all’ammissione negli istituti educativi transalpini d’élite. Il titolo del volume è Storia del Ventesimo secolo in brevi schede didattiche, a cura di Jean-Pierre Rocher, docente di Storia e Geografia laureato a Sciences Po. Nonostante, sottolinea l’emittente, il manuale sia in libreria dallo scorso novembre, soltanto nelle ultime settimane è avvenuta la scoperta del suo contenuto complottista, ossia dopo che la figlia di un insegnante di liceo ne ha acquistato una copia. Dopo avere individuato il passaggio attinente al ruolo dell’intelligence Usa nella messa a punto degli attentati del 2001, il genitore della studentessa ha denunciato tale affermazione presente nell’opera di Rocher segnalandola su un gruppo Facebook creato da suoi colleghi professori. La pubblicazione sul social network di quella controversa affermazione dell’autore ha di conseguenza provocato, riferisce l’organo di informazione londinese, una discussione “esplosiva”. I commenti critici postati sul web a carico del curatore di Storia del Ventesimo secolo in brevi schede didattiche hanno finora rimarcato il fatto, precisa la Bbc, che il saggio storico risulta infarcito di infondate suggestioni complottiste che ci si aspetterebbe di sentire sulla bocca dei ragazzi, non su un manuale didattico. Nel dettaglio, la pagina del testo oggetto di polemiche è la numero 204, in cui viene descritta la genesi di al-Qaeda e gli attacchi jihadisti lanciati diciannove anni fa contro le Torri gemelle e il Pentagono. In una riga della medesima pagina si notano quindi le seguenti parole: “Quell’avvenimento globale – possiamo escludere senza alcun dubbio che sia stato orchestrato dalla Cia per imporre l’influenza americana in Medio Oriente? – colpì i simboli della potenza degli Stati Uniti sul loro stesso territorio nazionale”. L’editore Ellipses, a cui si deve la pubblicazione del manuale, ha alla fine reagito alle polemiche scusandosi pubblicamente per le affermazioni sull’11 settembre. Tramite il proprio sito web, la casa editrice ha appunto diffuso il seguente comunicato, citato dall’organo di informazione d’Oltremanica: “Quella frase che si ricollega a inconsistenti teorie del complotto non sarebbe dovuta mai apparire nel testo e non riflette assolutamente la nostra linea editoriale, né le convinzioni dei responsabili di Ellipses, né quelle dell’autore”. La stessa casa editrice, riporta il network, ha poi assicurato che Rocher starebbe apportando correzioni, eliminando ogni riferimento alla Cia, alle copie del manuale che devono essere ancora spedite alle librerie del Paese. Ellipses ha alla fine puntualizzato, ai cronisti dell’emittente britannica: “Le opinioni individuali degli autori devono essere esposte liberamente nei nostri testi, ma in nessun caso si può presentare una tesi inaccurata o infondata come una verità oggettiva”.
Il finto attacco chimico di Douma e il Terrore che abita Idlib. Piccole Note su Il Giornale il 23 gennaio 2020. L’attacco chimico delle forze di Damasco Douma non c’è mai stato. A rivelarlo è stato Ian Henderson, che eseguì l’ispezione per conto dell’Opcw (l’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) nel sito interessato all’attacco. Di tale denuncia abbiamo accennato in altra nota, ma stavolta è giunta all’Onu sotto forma di video, ché ad Henderson è stato negato di poter testimoniare di persona. Nel video, Henderson dettaglia come gli esperti che controllarono il sito stilarono un rapporto che contraddiceva l’accusa di un attacco chimico portato dall’esercito di Damasco, subito denunciato da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna in base a presunti rapporti di intelligence. Un’accusa che portò tali Paesi, e altri, a bombardare la Siria (con attacco limitato ché i russi avevano minacciato ritorsioni nel caso di un’azione più decisa). Azione lanciata peraltro prima ancora che l’Opcw inviasse a Douma i suoi ispettori.
Douma: menzogna svelata. Quando, infine, gli ispettori si recarono a Douma, spiega Henderson, scoprirono appunto che non c’era stato alcun attacco chimico. Henderson, in particolare, scoprì che i due vettori trovati sul luogo e che avrebbero comprovato il bombardamento chimico, non erano affatto piovuti dal cielo, ma erano stati posizionati “a mano”. La messinscena di Douma ha trovato smentite su smentite ed evidenzia come si “fabbricano” le guerre. Accadde per le armi di distruzione di massa di Saddam, ma occorre rammentare che la falsità della narrativa su tali armi fu ammessa, e resa pubblica dai media, anni dopo che la guerra si era ormai consumata. Nel caso siriano la guerra è ancora aperta e per l’Occidente ammettere una simile mostruosità non è ancora ammissibile. Per questo ad Henderson è stato permesso di parlare all’Onu, e per questo quasi nessun giornale d’Occidente ha riferito il suo intervento. Chi l’ha fatto, nulla importando di quanto ha detto, con prove e testimonianze dirette, ha semplicemente ripetuto l’usuale mantra, che i russi, i quali hanno invitato il testimone e, in sua assenza, hanno accolto il video, stanno facendo disinformazione. Così la precisa denuncia di Henderson che il rapporto finale dell’Opcw non era basato su quanto riferito dagli ispettori, ma era stato stilato da altri che non avevano neanche visto il sito, non è stata neanche presa in considerazione.
Le menzogne su Idlib. E la menzogna sulla guerra siriana continua a imperversare. Come accade per quanto si sta consumando a Idlib, l’enclave controllata da miliziani jihadisti che russi e siriani vorrebbero liberare. Ma ogni volta che iniziano un’operazione bellica vengono bloccati dai moniti della Comunità internazionale sui danni umanitari che essa comporta. Peraltro, nel riferire tali allarmi, i media si guardano bene dal riferire la vera natura dei jihadisti incistati a Idlib, definiti semplicemente “ribelli” se non “ribelli moderati”. Ciò, nonostante sia noto che in Siria non ci sono mai stati ribelli moderati e che di moderato a Idlib non c’è nulla. L’area è controllata da al Qaeda, come sanno tutti, e all’interno sguazza l’Isis. A denunciarlo non è solo il governo di Damasco, ma un’autorità mediorientale che gode del massimo rispetto in Occidente, il re di Giordania Abdullah, che il 13 gennaio scorso sul media saudita al Arabya metteva in guardia sul trasferimento di 2.000 combattenti dell’Isis da Idlib alla Libia… Peraltro non è certo a caso che Abu Bakr al-Baghdadi, lo strano leader dell’Isis, sia stato ucciso nel cosiddetto “governatorato di Idlib”…
Il Terrore che piove da Idlib. Non si registra però solo una distorsione comunicativa funzionale a una narrativa (volta a mettere in cattiva luce Damasco e a impedirgli di riprendere il controllo di Idlib), ma anche la sistematica omissione degli orrori perpetrati dai tali “ribelli moderati”. Per stare solo agli ultimi giorni, riportiamo una nota dell’Agenzia siriana Sana del 20 gennaio, relativa all’ennesimo attacco missilistico contro Aleppo, situata a pochi chilometri dal governatorato suddetto: “Negli ultimi giorni, 11 civili sono stati martirizzati, oltre 24 sono stati feriti e sono stati causati danni materiali alle case e alle proprietà delle persone a causa di attacchi terroristici effettuati con missili diretti contro quartieri sicuri della città di Aleppo”. Orrori umanitari taciuti dai media, in ottemperanza alla narrativa del caso. Di oggi poi la notizia di un attacco dei “ribelli moderati” di Idlib contro i militari di Damasco (ragazzi di leva, oltre che veterani), che ha causato 40 morti e 80 feriti. A darne notizia è l’Agenzia stampa iraniana Tansim, in genere portata a riferire i successi militari di Damasco. Come se Frascati fosse occupata dall’Isis e da lì piovessero missili su Roma. L’Italia avrebbe il dovere di difendere i suoi cittadini, ma ne sarebbe impedita dalla Comunità internazionale preoccupata dai rischi connaturati a un’azione militare. Certo, Damasco potrebbe evitare l’attacco. Basterebbe che chi arma l’Isis e al Qaeda a Idlib, e lo finanzia – i governatorati costano -, cessasse di sostenerli. Non accade, perché Idlib, con la sua portata destabilizzante deve restare conficcata nel cuore della Siria. Torna utile a quanti hanno alimentato questa guerra e la narrativa connessa. In fondo non l’hanno vinta, ma in tal modo, anche l’odiato Assad resta con una vittoria a metà e con un Paese segnato dall’instabilità.
“A Douma ci fu un false flag”: la mail che imbarazza l’Opac. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 28 dicembre 2019. La storia sugli attacchi chimici in Siria potrebbe essere riscritta. L’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw o Opac) rimosse alcuni documenti che provavano una probabile operazione di false flag a Douma, il 7 aprile del 2018. I media internazionali, senza neanche attendere l’esito dell’indagine scientifica dell’organismo tecnico internazionale che vigila sul rispetto della Convenzione sulle armi chimiche, diedero immediatamente la colpa al governo siriano di Bashar al-Assad: esattamente a una settimana dopo, il presidente americano Donald Trump ordinò, assieme a Francia e Gran Bretagna, una serie di bombardamenti in Siria. Ora però, una nuova mail pubblicata da Wikileaks dimostra che l’Opac rimosse un documento che sarebbe potuto diventare essenziale per comprendere la verità su ciò che accadde quel giorno, in Siria. Come riporta il sito della fondazione dell’ex senatore americano Ron Paul, in un’e-mail interna pubblicata da WikiLeaks venerdì, si legge come un alto funzionario dell’Opac abbia ordinato a un ispettore dell’organizzazione di rimuovere un documento “e ogni sua traccia” dall’archivio del registro dei documenti dell’organizzazione. Il documento in questione è una valutazione tecnica scritta dall’ispettore Ian Henderson dopo una missione conoscitiva a Douma, teatro del presunto attacco chimico.
La mail che sbugiarda la narrazione ufficiale. L’ispettore dell’Opac osserva che le prove raccolte a Douma contraddicono la narrazione ufficiale e apre all’ipotesi che gli islamisti ribelli – che avevano il controllo di Douma in quel periodo – abbiano condotto un’operazione di false flag – , sotto falsa bandiera, ovvero una messa in scena – per incolpare Damasco e indurre le nazioni occidentali ad attaccare Bashar al-Assad. La e-mail è stata scritta da Sebastien Braha, capo di gabinetto dell’Opac. La sua autenticità non è ancora stata confermata, ma l’organizzazione non ha mai affermato che nessuno dei documenti trapelati in precedenza non fosse reale. Il rapporto finale dell’Opac faceva intendere che il governo siriano fosse l’autore del presunto attacco chimico, ma negli ultimi mesi è emersa una quantità di documenti trapelati e testimonianze di whisteblower che invece danno supporre una possibile operazione di false flag da parte dei ribelli siriani. Ipotesi che molti analisti, in realtà, avevano preso in seria considerazione.
I whisteblower dell’Opac. Lo scorso novembre, una mail interna all’Opac, ottenuta da WikiLeaks e condivisa anche da Repubblica, lasciava affiorare le perplessità di un ispettore dell’Organizzazione che nel 2018 partecipò all’indagine su Douma. A scrivere la mail il whistleblower che si rivolge al diplomatico inglese Robert Fairweather, capo di gabinetto dell’allora direttore generale dell’Opac, il diplomatico turco Ahmet Uzumcu. “Gentile Rob, si legge, “come membro del team della missione di Fact-finding che ha condotto l’inchiesta sul presunto attacco a Douma, il 7 aprile, desidero esprimere la mia più grave preoccupazione per la versione redatta del rapporto della missione di Fact-finding”. E aggiunge: “Dopo aver letto questo rapporto modificato, che tra l’altro nessun altro membro del team inviato a Douma ha avuto l’opportunità di fare, io sono rimasto colpito da quanto rappresenta i fatti in modo errato”. A maggio, Ian Henderson, un altro analista dell’Opac che ha esaminato il lavoro del team, ha contestato le conclusioni sull’angolazione con cui un missile aveva colpito l’edificio. Aveva sollevato l’ipotesi il missile fosse stato collocato all’ultimo piano dell’edificio dove erano state trovate decine di morti. Un’operazione sotto falsa bandiera, dunque, per scaricare la colpa su Assad. Ora, però, la verità sta emergendo.
La narrazione di Trump sull’economia Usa "mai così forte" è falsa. Chi lo dice? La Fed (e non solo). Mauro Bottarelli su it.businessinsider.com il 23 gennaio 2020. “L’America vince di nuovo, la nostra economia non è mai stata così forte”. Così parlò Donald Trump al World Economic Forum di Davos, prima di rivendicare l’accordo commerciale con la Cina come un successo senza precedenti e di avvertire l’Europa sulla possibilità di imposizione di dazi nei confronti del suo comparto automobilistico, in caso proseguisse con il progetto di web-tax. Sul finire, poi, la solita stoccata alla Fed: “Ha alzato i tassi troppo presto e non li ha abbassati abbastanza in fretta e a sufficienza. Se non fosse per la Federal Reserve, il nostro PIl sarebbe al 4% e il Dow Jones sarebbe 10.000 punti più in alto”. Insomma, il solito Donald Trump. Cui sarebbe facile far notare come l’icona dell’economia più performante di sempre da lui dipinta poco si concilii con una Banca centrale che, al netto delle sue rimostranze, da metà settembre 2019 sta iniettando fra i 50 e gli 80 miliardi di liquidità al giorno, cui da metà ottobre si sono uniti gli acquisti mensili di T-bills in seno al Qe. Ma, paradossalmente, per smentire nella maniera più clamorosa il Presidente, la Fed non ha avuto bisogno di far ricorso ad argomenti polemici. Le è bastato pubblicare l’aggiornamento relativo ai mesi di novembre e dicembre del National Activity Index, il tracciatore dell’attività economica stilato dalla filiale di Chicago che viene tradotto come il proxy più credibile dello stato di salute del Paese. E il risultato è stato di quelli senza appello, visto che l’indice è crollato in un mese da +0,41 a -0,35 contro le attese di un +0,13. Fra il penultimo e l’ultimo mese dello scorso anno, solo 27 indicatori hanno registrato un miglioramento contro i 56 in calo e i 2 rimasti invariati. E se giova ricordare come una lettura al di sotto dello 0 indichi un andamento di crescita sotto trend per l’economia nazionale, questo grafico aggrava anche la situazione, visto che nella proiezione a 3 mesi il miglioramento appare solo marginale, arrivando a -0,23. Insomma, anche la fine del conflitto commerciale con la Cina non sembra smuovere molto le acque. In compenso, come mostra plasticamente la figura, lo Standard&Poor’s 500 sembra farsi beffe dell’economia reale, macinando guadagni a prescindere. Anzi, forse proprio a suo discapito. Ma non basta, perché come mostra questo altro grafico, a stretto giro di posta è stata pubblicata anche la lettura di un altro indicatore macro di grande importanza, il Leading Economic Indicators Index del Conference Board relativo al mese di dicembre. Non solo il calo mensile è stato peggiore delle attese (-0,3%) ma l’ultima rilevazione dell’anno certifica come nel secondo semestre del 2019, cinque letture su sei siano state negative. Inoltre, come mostra appunto il grafico, su base annua il risultato è stato il peggiore dal novembre 2009. Non esattamente un periodo ricordato come particolarmente florido per l’economia Usa. Insomma, a chi credere? Un’indicazione arriva da questo altro grafico contenuto nell’Annual Global CeO Survey di PriceWaterhouseCoopers, in base al quale il 53% dei 1.581 amministratori delegati interpellati in 83 Paesi ritiene che nell’anno appena cominciato il trend dell’economia patirà un ulteriore rallentamento contro solo il 27% di ottimisti: nella serie storica recente, l’attuale numero di rispondenti che avanza previsioni negative è il più alto dal 2009. Non esattamente un buon presagio. Come d’altronde pare confermare anche un altro proxy della crescita globale, ovvero il Baltic Dry Index, indice che traccia il costo di noleggio per grandi navi da trasporto di materie prime secche, quindi escluso il petrolio e il gas naturale liquefatto. Il grafico parla da solo, in due modi.
Primo, confermando che a quota 791 la prospettiva generale è quella di mari placidi e ben poco solcati da vascelli commerciali carichi di merci. Insomma, la grande fabbrica chiamata mondo resta in modalità di cassa integrazione.
Secondo e più importante, smentendo gli avvistamenti di green shots della ripresa che qualche analista aveva annunciato lo scorso autunno, di fatto allontanando la prospettiva di una recessione globale. Il balzo verso l’alto dell’indice, infatti, non rappresentava un cambio di rotta, la proverbiale luce in fondo al tunnel, bensì solo l’anticipazione dei temuti aumenti tariffari inizialmente previsti per lo scorso 15 dicembre e poi sospesi in ossequio al raggiungimento della Phase one dell’accordo fra Cina e Usa. Insomma, si caricava il possibile prima che aumentassero i dazi: un po’ come chi compra un costume da bagno a dicembre, sfruttando il prezzo stracciato da bassa stagione. Terminato il cosiddetto front-running, la realtà di una stagnazione globale è tornata a imporsi. Come confermato dal drastico taglio delle stime per il 2020 e 2021 da parte dell’Fmi, il quale non a caso parla di un regime di slowbalization per il mondo. E se a rendere euforico Donald Trump pare essere il continuo rally di Wall Street, tradotto in maniera alquanto semplicistica e fuorviante in un automatico contagio di benessere verso l’economia reale, tre dati paiono chiudere la partita a vantaggio dei pessimisti, quantomeno in punta di precedenti. Primo, come mostra questo grafico contenuto nell’ultimo report di Société Générale, persino il mercato azionario – in alcuni suoi meandri, più nascosti all’occhio profano – rimanda segnali recessivi. E’ il caso dell’indicatore Merton distance-to-default, il quale prende in esame i titoli non finanziari dello Standard&Poor’s 500 e ne analizza i fondamentali, in primis i profitti, le revenues, la capacità di copertura del debito, l’Ebitda e il ricorso a mutipli di utile per azione. Bene, in base a questa metrica, già oggi la metà del mercato opera su numeri che sono compatibili con quelli di una fase di recessione conclamata, di fatto aprendo la strada a soltanto due epiloghi: o un calo netto delle valutazioni o un aumento altrettanto drastico della volatilità, esattamente come avvenuto nel quarto trimestre del 2018. Secondo, sempre a Davos, Donald Trump ha dichiarato anche altro, rispetto alla sola elegia della superiorità economica Usa: un taglio delle tasse per la classe media da annunciare entro i prossimi 90 giorni. Tipica mossa pre-elettorale ma, stante il livello di deficit statunitense e il precedente della riforma fiscale del 2018, un qualcosa che poco si concilia con l’economia migliore in assoluto dagli anni Cinquanta in poi, la quale anzi potrebbe garantire margine per un rientro dagli eccessi passati. Ma, come mostra questo grafico, un qualcosa di assolutamente necessario, stante l’iperbolico trend che l’indebitamento strutturale dei cittadini americani ha assunto a partire dalla crisi finanziaria del 2008, proprio relativamente alle voci di maggior diffusione e incidenza della spesa di sussistenza: tasse universitarie, conti della carta di credito e rateizzazione grazie credito al consumo per l’acquisto di automobili. Al netto della familiarità con cui almeno dagli anni Ottanta gli statunitensi utilizzano questa metodologia di pagamento dilazionato, chiave di volta di uno stile di vita e di risparmio sistemicamente paycheck-by-paycheck, un qualcosa che cozza però con l’iconografia di una società del benessere diffuso che starebbe vivendo la sua seconda Età dell’oro economica.
Terzo e ancora più sintomatico di una situazione da last hurrah – o da 2007 in versione 2.0 -, la presidente del Consumer Financial Protection Bureau (Cfpb), Kathleen Kraninger, ha sentito il bisogno di prendere carta e penna e scrivere al Congresso, affinché i suoi membri si facessero promotori dell‘abolizione del cosiddetto requisito DTI (Debt-to-income) come criterio qualificante per la sottoscrizione di un mutuo immobiliare, sia per prestiti prime che non-prime. Insomma, addio alla ratio del 43% per la concessione di mutui e ritorno in grande stile delle accensioni allegre per tutti, a prescindere dalla situazione creditizia. I cosiddetti clienti Ninja (No income, no job, no asset) tornano al centro della scena, su espressa richiesta sia delle associazioni di tutela dei consumatori che, ovviamente, di banche e finanziarie. Il tutto con l’appoggio diretto e la funzione di ambasciatore ricoperta nientemeno che dalla stessa authority governativa creata a seguito della crisi del 2008 e finalizzata alla rimozione delle cause del disastro subprime. Forse perché l’economia reale e la dinamica salariale dell’America va troppo bene, si è pensato che fosse giunta l’ora di ripetere l’esperimento che 12 anni fa ha portato il mondo sull’orlo del precipizio?
Trump e Obama: politiche estere a confronto. Andrea Muratore su Inside Over il 12 gennaio 2020. Quando nel 2016 fu eletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump basava buona parte della sua agenda di politica internazionale in relazione all’operato del predecessore Barack Obama, principalmente per propugnarne un ribaltamento completo: sul tema dei grandi accordi di libero scambio, dell’approccio degli Usa a storici rivali come l’Iran e Cuba e a alleati come Israele e Arabia Sauditi e in materia di relazioni con l’Europa Trump si presentava come l’anti-Obama per eccellenza. Media e commentatori hanno a lungo abusato dell’espressione “isolazionismo” per definire l’America First trumpiano, ma l’espressione è fuorviante. L’amministrazione Trump ereditava le conseguenze di un ventennio in cui, complici gli errori in politica estera e la crisi finanziaria, l’influenza Usa sugli affari globali aveva conosciuto un, seppur relativo, declino senza che venissero inficiati i principali determinanti della potenza a stelle e strisce. Dall’egemonia militare alla capacità di determinare il mantenimento dello status quo della globalizzazione, passando per una sostanziale e maggiore stabilità sistemica rispetto ai rivali principali (Cina e Russia) gli Usa usciti dalle amministrazioni Bush e Obama tutto erano fuorchè l’ombra di loro stessi. Trump ha desiderato ottenere dallo status “imperiale” di Washington dividendi che fossero anche economici e non solo politici, sostenendo che la globalizzazione di matrice statunitense e neoliberista avesse contribuito a privare i cittadini americani di quote di benessere non indifferenti, ma non ha certamente, né aveva intenzione di farlo, rottamato l’apparato globale a stelle e strisce. Il risultato è stata una politica estera diversificata a seconda dei teatri di operazione, in cui il confronto con l’amministrazione Obama non è stato a tinte nette, ma variabile nel corso degli anni e dei contesti. Vi sono scenari in cui Trump ha effettivamente operato un rollback in direzione di un maggiore interventismo (Iran e Cuba principalmente), altri in cui si è inserito nelle rotte tracciate dal predecessore esercitando maggiore pressione strategica (Venezuela, Cina, rapporti economici con la Germania) e uno, quello delle relazioni con la Corea del Nord, in cui ha intensificato il dialogo in maniera sorprendente.
Iran e Cuba: Trump rovescia Obama. Gli accordi sul nucleare del 2015 siglati dai Paesi membri del Consiglio di Sicurezza Onu, dalla Repubblica iraniana e dalla Germania hanno rappresentato uno dei maggiori risultati diplomatici dell’amministrazione Obama. Intenta a cercare le modalità più consone e meno disonorevoli per districarsi dall’ircocervo mediorientale e a cristallizzare la situazione. Il tutto con grande scorno degli storici alleati degli Usa nella regione, Israele e Arabia Saudita, a cui la nuova amministrazione repubblicana si è profondamente riavvicinata. Obama si era trovato in una sorta di limbo: non era riuscito né a uscire con entrambi i piedi dal Medio Oriente né a costituire il famoso “pivot asiatico” di contenimento della Cina. Trump ha rilanciato il contenimento statunitense della Repubblica Islamica e fondato proprio sul rapporto tra Tel Aviv e Riad, intente in un silenzioso riavvicinamento mediato anche dall’insolita convergenza d’intenti tra sionisti, Islam wahabita e evangelici radicali, l’agenda mediorientale. L’Iran è stato colpito duramente e nuovamente etichettato come rivale esistenziale, in un climax di tensioni che nel caso Soleimani ha avuto il suo momento apicale. Il riavvicinamento di Obama è stato completamente azzerato, analogamente a quanto fatto da Trump nel contesto dei rapporti con Cuba. Il calcolo politico interno è in entrambi i casi fondamentale: Trump ha pescato enormemente dal bacino elettorale degli evangelici più radicali, fortemente sionisti e occidentalisti, e ha conquistato Stati chiave come la Florida ottenendo i voti della diaspora anticomunista cubana. Sotterrando il riavvicinamento tra Washington e L’Avana mediato dalla triangolazione tra Obama, Raul Castro e Papa Francesco, l’amministrazione Trump ha ripreso l’embargo contro Cuba e riattivato la legge Helms-Burton che consente alle aziende Usa espropriate dalla Rivoluzione castrista di fare causa. La norma mette a rischio gli interessi delle imprese europee e canadesi che usano i beni nazionalizzati decenni fa e mira a portare, gradualmente, la repubblica cubana al collasso economico.
Gli scenari di maggiore continuità. In America Latina Cuba ha rappresentato un caso a parte. In generale, Trump ha proseguito con il sostanziale distacco dimostrato da Obama per il continente sudamericano, focalizzandosi con intensità su un novero ristretto di Paesi. Oltre al Brasile in cui si è manifestata nuova sintonia dopo l’ascesa di Jair Bolsonaro, a occupare l’agenda di Trump è stato soprattutto il Venezuela di Nicolas Maduro. Oggetto di una pressione politica ed economica che indurisce le precedenti manovre di Obama senza però stravolgerle. Anche nei confronti dei rivali chiave degli Stati Uniti, Russia e Cina, si può dire che sia stato fatto molto rumore per nulla. La grand strategy di convergenza russo-cinese (attorno a cui gravitano Paesi chiave come Iran e Turchia), iniziata nel 2014, è proseguita con baldanza anche nel triennio trumpiano: semmai, nell’interesse dei decisori strategici americani è ora la Cina ad occupare il primo posto come minaccia alla sicurezza nazionale. Ma in questo campo stiamo parlando di direttrici di lungo corso che i singoli Presidenti difficilmente possono scalfire: Trump ha potuto approfondire il pivot asiatico e rafforzare la strategia anticinese proprio perchè dal Congresso al Dipartimento di Stato ha trovato comunanza d’intenti nell’ostilità contro Pechino. Dovendo parimenti assecondarne le pulsioni nel caso del rapporto con Vladimir Putin. Potrà sembrare invece più sorprendente ai più, ma è suffragata dai fatti, la continuità nell’approccio tra le amministrazioni al contenimento economico della Germania: Berlino, vista da Washington come unica potenza europea capace in prospettiva di unire gigantismo economico e proiezione politica, è stata puntualmente nel centro del mirino di Obama, mentre Trump ha solo reso palese ciò che il predecessore compiva a fari spenti. Obama fu investito dallo scandalo di spionaggio della Nsa, rivelante le spericolate manovre nei confronti della Germania, rafforzò il contenimento antirusso nel tentativo di frenare la saldatura geoeconomica tra Mosca e Berlino e con la copertura politica al Dieselgate avviò le manovre americane di attacco al deficit commerciale con la Germania. Trump ha fatto il resto con la guerra commerciale e le recenti sanzioni al North Stream.
Il rebus coreano. Lo scenario meno decifrabile è sicuramente quello della Corea del Nord. Osso durissimo per gli apparati americani, unica media potenza rivale di Washington dotata del decisivo deterrente atomico. Nei cui confronti Trump ha alternato momenti di aspra rivalità a fasi di negoziazione culminati negli storici incontri bilaterali con Kim Jong-un. Trump si è più volte presentato al mondo come l’araldo della pace e il primo sponsor del dialogo col Pyongyang, mentre Kim ha alternato fasi di apertura al processo di denuclearizzazione e momenti di irrigidimento, puntando però a accusare l’entourage di Trump piuttosto che il Presidente stesso. La realtà dei fatti è che la Corea rimane un ginepraio. Lo era per Obama e lo è per Trump. Attorno al trentottesimo parallelo si accumulano focolai di tensione e di complessità geopolitica tali da rendere difficili ogni manovra operativa. La Corea del Nord, a cavallo tra la Cina e il quadrante pacifico vegliato dagli Usa, vive di rendita di posizione. E probabilmente continuerà a fare così anche dopo la fine del mandato di Trump. La conclusione che si può trarre dal confronto tra le politiche estere di due Presidenti agli antipodi come Obama e Trump è di duplice natura. Entrambi hanno dimostrato tanto la capacità della Casa Bianca di agire su diversi scenari in maniera incisiva secondo le proprie preferenze politiche quanto la sua dipendenza dal “capitale fisso” costituito dalla somma di interessi e proiezioni degli apparati e dal vissuto storico della superpotenza Usa. Sul lungo periodo, né l’uno né l’altro hanno ottenuto l’obiettivo di svincolarsi dal teatro mediorientale ma sono stati accomunati dalla comune consapevolezza del Pacifico come teatro del futuro. Al contempo, Obama e Trump si sono distinti per la prassi e le modalità di azione, fondamentali nel campo della politica internazionale. Gradualiste, in certi casi al limite del timido, quelle di Obama, fondato sul leading from behind. Decisioniste quelle di Trump, il cui “America First” si è sostanziato nella scelta dell’amministrazione di operare brusche virate tra fasi di maggiore durezza verso i rivali del Paese e periodi più dialoganti in cui, gettando sulla bilancia il peso della sua potenza, Washington mirava a passare all’incasso. Nel complesso, non c’è stata traccia di una vera “dottrina” né nell’era Obama né tantomeno in quella Trump. L’approccio geopolitico dell’America è frutto della somma delle decisioni dei teatri operativi e delle spinte contrapposte nel potere di Washington. Scottati dall’ubriacatura interventista dell’era Bush, Obama e Trump hanno portato avanti una strategia funzionale, nelle intenzioni, a preservare il ruolo di leadership americana in una fase di transizione dall’unipolarismo al multipolarismo che entrambi hanno avuto intenzione di rendere il più lunga possibile. Consci del fatto che i determinanti militari, economici, politici e demografici della leadership globale saranno ancora a lungo terreno di competenza maggioritaria degli States.
Impeachment Trump, consegnati al senato gli articoli di accusa. Martedì il processo. Polemiche sulle "penne-souvenir" della firma regalate dalla speaker della Camera Pelosi ai "manager" che sosterranno l'accusa. La Repubblica il 16 gennaio 2020. I manager dell'impeachment nominati dalla Camera hanno attraversato ieri sera Capitol Hill per consegnare al Senato gli articoli di impeachment, che tuttavia non sono stati accolti formalmente dall'altro ramo del parlamento. Mitch McConnell, leader della maggioranza repubblicana al Senato, ha infatti programmato l'inizio dell'iter per oggi alle 12.00, invitando i 'manager' a tornare per quell'ora. Due ore dopo arriverà per il giuramento il capo della corte suprema John Roberts, che presiederà il dibattimento. Seguirà il giuramento dei senatori come 'giurati' del processo, che comincerà martedì. La Speaker della Camera, Nancy Pelosi, che ha firmato gli articoli per l'impeachment durante la cerimonia dei due articoli, ovvero abuso di ufficio e ostruzione del Congresso, ha detto: "E' triste e tragico che le azioni del presidente... ci abbiamo portato a questo punto. Oggi si fa la storia". Ma intanto è scoppiata una polemica sul gran numero di penne che erano sul tavolo della speaker della Camera al momento della firma. "Le penne souvenir di Nancy Pelosi servite su vassoi d'argento per firmare gli articoli di impeachment fasulli... lei era così austera che le dava via alla gente come un trofeo", ha tuonato la portavoce del presidente Donald Trump, Stephanie Grisham via Twitter. Dopo la firma, la Speaker ha distribuito le penne ai 7 manager, ovvero i deputati democratici che rappresenteranno l'accusa durante il processo in Senato.
Claudio Salvalaggio per l'ANSA il 16 gennaio 2020. Si complica la posizione di Donald Trump nel processo di impeachment che, dopo la lettura dei capi di imputazione e il rituale giuramento dei senatori, entrerà nel vivo martedì prossimo proprio mentre il presidente sarà sul palcoscenico mondiale del forum economico di Davos. L'ultima tegola è un rapporto del Government Accountability Office, un organismo parlamentare indipendente di controllo del governo, che accusa la Casa Bianca di aver violato la legge bloccando gli aiuti militari a Kiev decisi dal Congresso. Una leva, secondo le accuse dell'impeachment, per sollecitare l'apertura di un'inchiesta su Hunter Biden e sul padre Joe, l'ex vicepresidente ora principale rivale di Trump nella corsa alla Casa Bianca. "La fedele esecuzione della legge non consente al presidente di sostituire le priorità del Congresso con le sue priorità politiche", si legge nel rapporto. Ad aggravare la vicenda le rivelazioni legate a Lev Parnas, che nei mesi scorsi aveva deciso di collaborare con le autorità dopo il suo arresto per finanziamento illegale di un comitato elettorale pro Trump. L'imprenditore ha accusato pubblicamente per la prima volta su vari media che il tycoon "sapeva esattamente cosa stava succedendo" a proposito delle pressioni esercitate su Kiev dal suo avvocato personale Rudolph Giuliani. Legale con cui lui stesso collaborò, restando ad esempio in contatto con l'allora procuratore generale ucraino Yuri Lutsenko, che aveva promesso informazioni sui Biden e premeva per far cacciare l'ambasciatrice americana a Kiev Marie Yovanovitch, ostile alle manovre di Giuliani. Quindi, secondo Parnas, Trump "mente" quando dichiara di non saperne nulla. "Agivo per conto di Giuliani e del presidente", ha assicurato, dicendosi pronto a testimoniare al Congresso. Le sue rivelazioni arrivano dopo che i democratici alla Camera hanno diffuso altro materiale imbarazzante consegnato dallo stesso Parnas, che dimostra quanto fosse esteso lo sforzo suo e di altri nel far pressione su Kiev e quanto fosse ampiamente noto tra gli alleati di Trump, come confermano le sue e-mail al candidato repubblicano al Congresso Tom Hicks, donatore e amico di famiglia del presidente, e a Joseph Ahearn, fundraiser pro tycoon. Ci sono anche alcuni sms scambiati con Hicks (visitato oggi dall'Fbi) indicanti che quest'ultimo era in contatto con persone che stavano tenendo sotto controllo la Yovanovitch, poi cacciata da Trump. I messaggi hanno indotto Kiev ad aprire un'inchiesta per accertare se ci sono state violazioni delle leggi ucraine e internazionali", ha spiegato il ministero dell'Interno. Kiev ha inoltre chiesto l'aiuto dell'Fbi per indagare sull'hackeraggio della società energetica Burisma, per la quale lavorava Hunter Biden. Hackeraggio attribuito allo spionaggio militare russo (Gru), lo stesso accusato di aver aiutato Trump rubando e diffondendo le e-mail del partito democratico per danneggiare la sua rivale Hillary Clinton. Tutti sviluppi che "accrescono la necessità di nuovi documenti e nuovi testimoni", ha denunciato la speaker della Camera Nancy Pelosi, dopo essere finita nelle polemiche per aver firmato gli articoli d'impeachment con numerose penne di lusso regalate come 'souvenir' ai manager del procedimento. Oggi intanto il Senato ha dato formalmente il via al processo, il terzo nella storia Usa, con la lettura formale degli articoli e il giuramento dei cento senatori davanti al capo della Corte suprema John Roberts, che presiederà il dibattimento. "Renderò giustizia imparziale in base alla costituzione e alle leggi, che Dio mi aiuti", hanno dichiarato tutti. Anche quelli come il leader repubblicano Mitch McConnell che avevano promesso di non essere giudici imparziali.
(ANSA il 16 gennaio 2020) - Dopo lo "storico accordo commerciale di ieri con la Cina e il nuovo Nafta approvato oggi, i democratici ora leggono i loro vergognosi articoli di impeachment, che loro hanno fabbricato ad arte per impedire a Donald Trump di continuare i suoi successi in nome dell'America. Lui lavora, loro piagnucolano": lo ha twittato la portavoce della Casa Bianca, Stephanie Grisham, mentre nell'aula in Senato iniziava formalmente il processo di impeachment contro il presidente.
Impeachment, Bolton in un libro: "Trump vincolò aiuti a Kiev ad aperture inchieste sui Biden". Lo rivela il New York Times. I democratici: "L'ex consigliere per la sicurezza nazionale testimoni al processo". La Repubblica il 27 gennaio 2020. Il presidente Donald Trump disse al suo ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton che avrebbe tenuto bloccati i 391 milioni di dollari di aiuti militari Usa all'Ucraina finchè Kiev non avesse acconsentito a collaborare ad inchieste sui democratici e in particolare sullo sfidante Joe Biden in corsa per la Casa Bianca. L'esplosiva rivelazione, che corroborerebbe le accuse su cui si fonda l'impeachment di Trump, è contenuta nella bozza di un libro firmato da Bolton, secondo quanto scrive il New York Times. Una copia della bozza sarebbe attualmente in fase di revisione alla Casa Bianca che potrebbe anche decidere di censurare il libro o arrivare a vietarne la pubblicazione. L'accusa di Bolton sarebbe distinta da quella dei democratici secondo i quali Trump avrebbe fatto pressioni su Kiev perchè annunciasse pubblicamente l'apertura di un'inchiesta su Biden e sul figlio Hunter che è stato membro del board della società ucraina del gas Burisma mentre il genitore era il numero due di Barack Obama alla Casa Bianca. Dopo la rivelazione i democratici in Congresso chiedono che l'ex consigliere per la Sicurezza nazionale testimoni nel processo per l'impeachment del presidente. L'accusa, guidata da Adam Schiff, ha definito la rivelazione "esplosiva" e ha chiesto di convocare Bolton. Serve il voto di almeno 4 senatori repubblicani.
Impeachment, Casa Bianca diffida Bolton: "Non pubblichi il libro". In una lettera inviata al legale dell'ex consigliere per la Sicurezza Nazionale le motivazioni: il libro contiene "una significativa quantità di informazioni classificate come top secret". La Repubblica il 29 gennaio 2020. La Casa Bianca ha inviato un'ingiunzione formale a John Bolton per impedire all'ex consigliere per la Sicurezza Nazionale di pubblicare il suo libro di memorie The Room Where It Happened: A White House Memoir. Lo fa sapere la Cnn. Nel libro Bolton conferma che il Donald Trump subordinò gli aiuti militari a Kiev all'apertura di un'inchiesta contro i Biden, minando la linea di difesa nel processo di impeachment. Nella lettera che la Casa Bianca ha inviato all'avvocato di Bolton si legge che il libro contiene "una significativa quantità di informazioni classificate" come "top secret" e che quindi "non può essere pubblicato o in altro modo diffuso senza la rimozione di queste informazioni riservate". Non sono dello stesso parere Bolton e il suo legale che nei giorni scorsi hanno affermato di non ritenere che il volume contenga informazioni segrete. Nonostante questo, hanno deciso per precauzione di inviarlo al Consiglio di Sicurezza della Casa Bianca per una revisione prima della pubblicazione prevista per il 17 marzo. Alcune rivelazioni del manoscritto in cui l'ex consigliere per la sicurezza nazionale conferma che il presidente congelò gli aiuti militari a Kiev, vicenda ora al centro del processo di impeachment, ha provocato la reazione del presidente Usa che, su Twitter ha scritto: "Perché John Bolton non si è lamentato di questa 'assurdità' molto tempo fa, quando fu licenziato molto pubblicamente? Non che sia importante, ma non ha detto nulla!". E non si è fatto attendere neanche il duro commento di Rudy Giuliani, l'avvocato personale di Trump che ha guidato gli sforzi per far indagare a Kiev i Biden: per lui Bolton è un 'backstabber', uno che pugnala alle spalle. "Non mi ha mai detto 'Ho un problema con quello che stai facendo in Ucraina'. Neanche una volta, non mi ha mai fatto un cenno, mai mandato un messaggio. Pensavo fosse un amico personale. E quindi questa è l'unica conclusione cui io posso arrivare, ed è dura e mi sento molto male per questo: è uno che pugnala alle spalle", ha detto in una intervista alla Cbs, di cui i media Usa hanno diffuso una anticipazione.
Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 28 Gennaio 2020. La «variante di Bolton» potrebbe dare una scossa al processo contro Donald Trump che è ripreso ieri al Senato. Nel suo libro di memorie ( The Room where it happened: a White House Memoir ), in uscita il 17 marzo prossimo, l' ex consigliere per la sicurezza nazionale conferma l' accusa principale alla base dell' impeachment. Il New York Times ha pubblicato domenica sera il contenuto dell' estratto che riguarda il caso Ucraina. Bolton racconta che nell' agosto del 2019 ne parlò con Trump. Il presidente gli disse che avrebbe bloccato gli aiuti militari per 391 milioni di dollari già promessi a Kiev, fino a quando il neoleader ucraino, Volodymyr Zelensky non avesse riaperto un' indagine per corruzione a carico del figlio di Joe Biden, uno dei più quotati pretendenti democratici alla Casa Bianca. La versione di Bolton chiama in causa anche il ruolo del segretario di Stato Mike Pompeo, che si sarebbe prima lamentato per l' anomalo attivismo di Rudy Giuliani, ma poi avrebbe di fatto avallato le manovre messe in campo dall' ex sindaco di New York per rimuovere l' ex ambasciatrice americana Maria Yovanovitch. È una traccia che era già emersa nel corso delle audizioni di diversi testimoni davanti alla Commissione Intelligence della Camera. In particolare la consigliera Fiona Hill aveva rivelato come Bolton, all' epoca suo diretto superiore, le avesse ordinato di andare subito a consultare l' ufficio legale perché non voleva avere nulla a che fare con l' operazione «Ucraina-Biden»: «un traffico di droga». L' articolo del New York Times ha riacceso le speranze dei democratici, ormai rassegnati a subire l' agenda del numero uno dei senatori repubblicani, Mitch McConnell. Niente testimoni, niente documenti, chiusura del processo, con l' assoluzione di Trump, al più tardi lunedì 3 febbraio. Adesso, però, le cose potrebbero cambiare, stando a quello che ha dichiarato il senatore Mitt Romney, finora l' unico conservatore disponibile a convocare Bolton: «Ho l' impressione che non sarò più solo». Trump aveva cercato di bloccare lo slittamento con un tweet domenica a mezzanotte: «Non ho mai detto a John Bolton che gli aiuti all' Ucraina fossero collegati alle indagini sui democratici, compresi i Biden. E infatti Bolton non se n' è mai lamentato nel momento del suo licenziamento (10 settembre 2019 ndr )...Vuole solo vendere un libro...». Lo stesso McConnell avrebbe chiesto chiarimenti ai consiglieri dello Studio Ovale. Il leader dei repubblicani si trova nella scomoda posizione di non scostarsi dalla linea difensiva fissata dai legali della Casa Bianca e nello stesso tempo tenere d' occhio il pallottoliere. Bastano quattro conservatori per ribaltare gli equilibri e aprire la strada a nuove audizioni. L' attenzione è puntata su cinque senatori repubblicani, più o meno moderati: Susan Collins, del Maine; Martha McSally, Arizona; Cory Gardner, Colorado; Joni Ernst, Iowa e Thom Tillis, North Carolina. Ma persino il senatore Lindsay Graham, compagno di golf del presidente, non esclude nulla: «Voglio vedere il manoscritto di Bolton e poi prenderò una decisione». Nel frattempo la procedura in Senato va avanti. Nel pomeriggio ha preso la parola Kenneth Starr, l' ex super procuratore che condusse l' impeachment di Bill Clinton e ora fa parte del dream team ingaggiato da Trump. Starr ha sviluppato una lunga analisi storico-giuridica per dimostrare che in questo caso non ci sono le basi costituzionali per mettere sotto accusa il presidente. Una tesi sostenuta anche dall' altro big della squadra, Alan Dershowitz, un tempo l' avvocato di O.J. Simpson.
L'impeachement e le penne di Nancy Pelosi. Piccole Note su Il Giornale il 17 gennaio 2020. Le penne di Nancy Pelosi sono entrate nella storia. Il presidente della Camera degli Stati Uniti ha trasmesso gli atti dell’impeachement al Senato dopo lungo tergiversare. Un temporeggiare che aveva dato adito all’ipotesi che i democratici volessero prendere tempo in modo da non permettere lo svolgimento del procedimento nell’altro ramo del Congresso, a maggioranza repubblicana, per evitare l’assoluzione di Trump prima delle elezioni presidenziali del 2020.
Le penne-proiettile della Pelosi. Gli atti sono stati finalmente trasmessi, ma con una cerimonia che ha dato adito a polemiche. La Pelosi le ha voluto dare una veste ufficiale, che la stessa cronista della Cnn ha definito “insolita” e “stridente“, dato che si tratta di un procedimento ancora da definire, come hanno sottolineato i repubblicani (Washington Post). Suggestioni e polemiche anche dai fan di Trump, i quali hanno affermato che le penne distribuite dalla Pelosi a fine cerimonia ai presenti (esponenti del suo partito) avrebbero un sembiante sinistro, sarebbero cioè a forma di proiettile. Una suggestione che non avremmo riferito (tante ne scorrono sul web) se non fosse per la perplessità che si è dipinta sui volti di alcuni dei beneficiari di tali penne, osservate e rigirate tra le dita con evidente imbarazzo. Una “pacchianata” infelice, certo, ma non aiuta a stemperare il clima infuocato dello scontro politico che consuma il cuore dell’impero (peraltro, non scrivevano… presagio?).
L’impeachement, arma di pressione su Trump. Ora il Senato ha in mano il procedimento. E la prima cosa da definire è se verranno ammessi nuovi testimoni, come chiedono i democratici, o se esso si baserà solo su quanto emerso nell’inchiesta condotta dagli stessi democratici alla Camera, come chiede Trump, che ritiene talmente inconsistenti le prove contro di lui da poter ottenere una veloce assoluzione (grazie alla maggioranza repubblicana). Lo scontro non è solo sull’assoluzione o meno del presidente, che per ora è data per certa. Ma i democratici, e i neocon che stanno alimentando il procedimento, vogliono allungare i tempi con nuove testimonianze. Più a lungo durerà l’impeachement, più i neocon avranno armi di pressione su Trump. Non è particolare da poco, basti pensare all’assassinio Soleimani, al quale il presidente sembra abbia dovuto accondiscendere su pressione di tale ambito (Piccolenote) poco prima del passaggio delle consegne dell’impeachement. Un cedimento, quello sul generale iraniano, che avrà conseguenze notevoli (e non solo per la complicazione estrema innestata nel rebus iraniano, che pure Trump vorrebbe a suo modo risolvere evitando la guerra agognata dai neocon, vedi The Atlantic).
Nuovi elementi. Sarà difficile per la squadra legale di Trump arginare la richiesta di nuove testimonianze, anche perché si susseguono nuovi elementi. Lev Parnas, legale associato all’avvocato di Trump Rudy Giuliani e con questi implicato in un procedimento giudiziario, ha affermato che il presidente era a conoscenza dell’inchiesta di Giuliani in Ucraina sul figlio del candidato democratico Joe Biden, vicenda sulla quale ruota l’impeachement. È arrivata poi la relazione di una Commissione del Congresso sul freno imposto da Trump agli aiuti militari diretti all’Ucraina, che secondo i suoi accusatori sarebbe stato motivato dalla necessità di far pressioni su Kiev per spingerli a indagare sul rampollo di Biden. Un’azione illegale, ha decretato la Commissione. Intanto torna prepotente la possibilità di una deposizione al Senato dell’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton, il neocon che per primo chiese a Trump la testa di Soleimani (Nbc). Finora respinta, l’idea di una sua deposizione è tornata, come dimostra l’articolo del Washington Post dal titolo: “Trump non può impedire a John Bolton di testimoniare”. La sua testimonianza è attesa dall’accusa e temuta dalla difesa, dato che Bolton vuole e può affondare il presidente. Acque agitate per Trump. che, in difficoltà, ha aperto un canale di comunicazione con i suoi nemici, concedendo loro parte di quanto chiedono, come sembra dimostrare l’omicidio Soleimani. La disposizione di Trump è evidenziata anche dall’inserimento nel suo team legale del noto avvocato Alan Dershowitz, vicino alla famiglia Clinton e già entusiasta sostenitore della candidatura di Joe Biiden contro Trump (Washington Examiner). Già lo aveva scelto per difendersi alla Camera, in seconda battuta, quando le cose buttavano male. Ha di nuovo bisogno dei suoi servigi… Da vedere dove lo porteranno tali concessioni, che peraltro potrebbero portargli sfortuna alle presidenziali del 2020.
Usa, il processo a Trump: la battaglia dei testimoni. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington. Il leader repubblicano Mitch McConnell fa argine alle richieste dei democratici di sentire John Bolton. E Donald spariglia le carte. Nell’aula del Senato il processo a Donald Trump è cominciato con due sedute interminabili, tra martedì 21 gennaio e ieri. Ma i democratici tentano di fare breccia nella barriera finora compatta dei repubblicani. Il leader dei conservatori, Mitch McConnell, sta gestendo i passaggi procedurali con l’obiettivo dichiarato di liquidare al più presto l’impeachment, se possibile entro il 4 febbraio, quando il presidente si presenterà al Congresso per il discorso sullo «Stato dell’Unione». L’altro giorno McConnellaveva messo a punto una mozione che assegnava 24 ore, suddivise in soli due giorni, all’accusa e alla difesa. Una mossa studiata per rendere indigeribile, inguardabile la diretta tv. Poi i moderati del suo stesso partito, come Susan Collins e Mitt Romney, hanno costretto McConnell ad aggiungere un altro giorno. I progressisti hanno interpretato lo slittamento di McConnell come il segnale che forse si può ottenere di più. Ieri il dibattimento è cominciato con l’arringa del democratico Adam Schiff, il presidente della Commissione Intelligence della Camera. Uno dei sette «manager» designati dalla Speaker Nancy Pelosi per sostenere le ragioni dell’impeachment al Senato. Schiff si è prodotto in una lunga analisi multimediale, facendo proiettare i momenti più significativi delle audizioni tenute nei mesi scorsi nella House of Representatives. È partito dai Padri Fondatori, dalle preoccupazioni di Alexander Hamilton sui poteri del presidente che non possono diventare quelli di un tiranno. Poi ha spiegato i due articoli dell’impeachment. Primo: «Abuso di potere», perché Trump «ha usato le sue prerogative presidenziali in vista di un vantaggio personale», bloccando aiuti militari da 400 milioni di dollari per convincere il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a riaprire un’inchiesta giudiziaria a carico del figlio di Joe Biden. Secondo: «Ostruzione del Congresso». Sostiene Schiff: «Quando il presidente è stato scoperto, ha ostacolato le indagini parlamentari». Nelle pause della plenaria, guidata dal presidente della Corte Suprema John Roberts, i senatori cercano sollievo dopo ore passate sugli scranni, in piena solitudine, senza telefonini, iPad o computer. Senza neanche il conforto di un caffè. Solo acqua e latte. Senza poter intervenire, e men che meno, interrompere chi sta parlando. I disturbatori «finiscono in prigione», avverte all’inizio il «Sergeant at Arms» Micheal Stenger. Le interruzioni servono ancheper sondare gli avversari. Qualche democratico, per esempio, propone uno scambio di prigionieri: i repubblicani consentano a John Bolton di venire a testimoniare. E i democratici faranno lo stesso con Hunter Biden, il figlio dell’ex vicepresidente. McConnell vigila e finora è riuscito a respingere qualsiasi tentativo di convocare l’ex consigliere per la Sicurezza Bolton o altre figure chiave. La situazione resta fluida, perché il grande accusato, Donald Trump, è naturalmente imprevedibile. Nella conferenza stampa a Davos, ha detto che gli piacerebbe partecipare al processo. «Mi siederei in prima fila per squadrare le facce di questi personaggi corrotti, come l’abominevole Adam Schiff». Le parole di Trump, in realtà, hanno allarmato soprattutto il suo collegio difensivo, cui si sono aggiunti negli ultimi giorni i due big del diritto Kenneth Starr e Alan Dershowitz. Il presidente a un certo puntose n’è uscito così: «Stiamo molto bene. Ma onestamente noi abbiamo tutto il materiale. Loro (i democratici,ndr) non ce l’hanno». Un modo di ammettere che il governo sta trattenendo carte che potrebbero risultare fondamentali. E ancora: «Mi piacerebbe vedere testimoniare Bolton, Mulvaney (il capo dello staff, ndr) o anche Pompeo. Ma non si può fare per ragioni di sicurezza». Il Segretario di Stato Mike Pompeo, ha fatto subito sapere di essere pronto, «se convocato legalmente». Tocca a McConnell, dunque, tenere in piedi la diga.
Trump si difende con 2 pesi massimi. Il legale di OJ e l’accusatore di Clinton. Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington. Alan Dershowitz e Kenneth Starr alle prese con i capi d’accusa d’impeachm. Evidentemente non bastano i tweet o le sparate nei comizi contro «la bufala dell’impeachment» e «i nullafacenti democratici». Donald Trump rinforza gli argini assumendo come difensori due celebrità del diritto americano come Kenneth Starr e Alan Dershowitz. Una strana coppia, due personalità molto diverse che andranno a integrare il team legale coordinato da Pat Cipollone, l’avvocato della Casa Bianca. C’è molta attesa soprattutto per le prime mosse di Starr, 73 anni, il Super procuratore che condusse una serie di indagini su Bill Clinton. Prima gli investimenti immobiliari nella società Whitewater; poi il caso della stagista Monica Lewinsky. Il rapporto Starr, pubblicato l’11 settembre del 1998, concluse che l’allora presidente democratico aveva mentito sulla sua relazione sessuale con Lewinsky. La Camera dei Rappresentanti aprì la procedura di impeachment, ma Clinton si salvò in Senato. Ventidue anni dopo Starr torna a Capitol Hill, ma questa volta dall’altra parte del fronte. Si dovrà misurare con i due articoli di impeachment approvati dai deputati democratici. Primo: Trump ha abusato dei suoi poteri costituzionali, facendo pressione sul leader ucraino Volodymyr Zelensky affinché riaprisse un’indagine per corruzione sul figlio di Joe Biden. Secondo: il presidente ha ostacolato le indagini del Congresso. Starr è nato in Texas, figlio di un pastore protestante, che per vivere faceva il barbiere; si è laureato in Legge alla Duke University in North Carolina. Da giovane votava per i democratici e manifestava contro la guerra in Vietnam. Fu nominato giudice per la prima volta da Ronald Reagan nel 1983; nel frattempo era già diventato un convinto repubblicano. Scalò il sistema giudiziario fino a diventare Solicitor General, l’equivalente del nostro Avvocato di Stato, dal 1989 al 1993. Ma divenne una celebrità nazionale e mondiale, quando incrociò i Clinton. Qualche tempo fa, il 19 settembre 2018, Starr era a Washington per presentare il suo libro, «Contempt: a Memoir of the Clinton investigation». Eravamo nel pieno dell’inchiesta sul Russiagate, l’ipotesi di collusione tra Trump e il Cremlino. In quell’occasione Starr rilasciò un’intervista al «Corriere della Sera», dicendo tra l’altro: «Non penso che il presidente sia impegnato nell’ostruzione della giustizia. Io ho suggerito che avrebbe fatto meglio a non attaccare gli investigatori. Ma Trump non mi ha ascoltato». Ora il suo problema iniziale sarà proprio farsi «ascoltare» dal suo nuovo principale. Poi dovrà concordare la divisione del lavoro con l’altro big ingaggiato dalla Casa Bianca. Dershowitz ha 81 anni. È nato a Brooklyn, da una coppia di ebrei ortodossi nel quartiere di Williamsburg. Studioso furibondo: giusto il tempo di togliersi i pantaloni corti e salì in cattedra alla Harward Law School. Aveva 28 anni ed era il più giovane professore di uno dei più prestigiosi atenei del Paese. Ma divenne un personaggio popolare, quando cominciò ad assistere le «celebrities» finite nei guai, come O.J. Simpson incriminato per l’omicidio della ex moglie e di un amico. Dershowitz faceva parte di quello che fu definito «il dream team» nel drammone televisivo-giudiziario che terminò nel 1995 con l’assoluzione dell’ex giocatore di football, poi condannato in sede civile due anni dopo. Nel 2008 difese il miliardario Jeffrey Epstein, nel suo primo processo per abusi sessuali su minorenni. Si disse che anche Dershowitz avesse preso parte alle sedute di «massaggi» organizzate da Epstein per i suoi amici, compreso il principe Andrea d’Inghilterra. Ma nessuno presentò una prova e i sospetti evaporarono. Nel 2018 ha fatto discutere la sua scelta di dare una mano a Benjamin Brafman, il difensore di Harvey Weinstein, il produttore di Hollywood alla sbarra per il suo passato di violentatore e molestatore. Ed ora eccolo qua, al fianco di Trump, il presidente che non ha votato e che ha criticato almeno fino al 2018, quando ha pubblicato un libro titolato: «The case against impeaching Trump». Ora il presidente lo metterà alla prova.
Impeachment, il confronto tra accusa e difesa su Trump. Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina, da Washington. Il processo al presidente degli Stati Uniti entrerà nel vivo martedì 21 gennaio. I due capi di imputazione: dall’abuso dei poteri presidenziali all’ostacolo agli accertamenti del Congresso. Accusa e difesa si posizionano in vista del processo a Donald Trump che entrerà nel vivo martedì 21 gennaio, nel Senato di Washington. Nella serata di ieri, 18 gennaio, i sette deputati democratici, i «manager» incaricati di rappresentare le ragioni dell’impeachment, hanno depositato un documento di 46 pagine in cui spiegano i due capi di imputazione. Primo: Trump ha abusato dei suoi poteri presidenziali per convincere il leader ucraino Volodymyr Zelensky ad aprire un’inchiesta per corruzione a carico del figlio di Joe Biden, cioè uno dei potenziali rivali nelle elezioni del prossimo 3 novembre. Il presidente avrebbe bloccato gli aiuti militari per 400 milioni di dollari per fare leva su Zelensky. Secondo: Trump ha ostacolato gli accertamenti del Congresso. «La sua condotta rappresenta il peggior incubo immaginato dai nostri Padri fondatori», si legge nel testo messo a punto dai democratici. Sempre ieri è arrivata la risposta del collegio difensivo. Sei pagine durissime firmate da Pat Cipollone, l’avvocato della Casa Bianca e da Jan Sekulow, il legale personale di «The Donald». Il testo è di totale chiusura a un confronto sul merito: «L’impeachment è uno sfacciato e illegale tentativo di ribaltare il risultato legittimo delle elezioni del 2016 e di compromettere le possibilità di rielezione del presidente nel 2020». Inoltre, «il presidente nega categoricamente di aver commesso alcun reato». Secondo Cipollone e Sekulow, Trump non ha fatto pressioni indebite su Zelensky e non ha sabotato gli accertamenti condotti dalle commissioni parlamentari. Il collegio difensivo non nega che gli aiuti furono momentaneamente congelati, ma sostiene che Trump era impegnato a «estirpare la corruzione dall’Ucraina». Questo, dunque, sarà il punto di partenza del dibattimento. Forse già martedì 21 gennaio il numero uno dei repubblicani al Senato, il repubblicano Mitch McConnell metterà ai voti una mozione molto importante sulle regole. I democratici chiedono che vengano ascoltati altri testimoni, in particolare l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, all’epoca decisamente critico sull’operazione Ucraina-Biden. Mconnell, però, è contrario. In questo caso si deciderà a maggioranza e quindi l’esito del voto è incerto. I democratici hanno 47 seggi, i repubblicani 53. Basata lo slittamento di 4 parlamentari della maggioranza per ribaltare gli equilibri. Pochi dubbi, invece, sul verdetto finale. Per condannare e rimuovere Trump dallo Studio Ovale serve il quorum dei due terzi, cioè 67 sì. Il presidente, comunque, ha rinforzato gli argini assumendo come difensori due celebrità del diritto americano come Kenneth Starr, il super procuratore dell’impeachment contro Bill Clinton e Alan Dershowitz, l’avvocato delle celebrità finite nei guai, da O.J Simpson a Harvey Weinstein.
"Mi state prendendo in giro? Che razza di giornata!", ha commentato seccata Monica Lewinsky su Twitter appena diffusasi la notizia di Starr e Ray nella squadra dei difensori di Trump.
Paolo Mastrolilli per ''la Stampa'' il 18 gennaio 2020. Il processo per l' impeachment di Trump diventa una cosa seria. Si capisce dal fatto che il presidente ha aggiunto alla sua squadra di avvocati gli ex procuratori dell' incriminazione contro Bill Clinton, Kenneth Starr e Robert Ray, il professore di Harvard Alan Dershowitz, l' ex ministro della Giustizia della Florida Pam Biondi e Jane Rasin. Fuori invece è rimasto Giuliani, troppo esposto. È la dimostrazione che da una parte prende molto serio l' impeachment, approvato dalla Camera e finito ora al Senato per il giudizio, e dall' altra punta a una piena assoluzione. Il collegio difensivo era formato inizialmente dal consigliere legale Pat Cipollone, e dall' avvocato personale Jay Sekulow, che aveva già guidato la strategia per contrastare il Russiagate. Ora però Trump ha aggiunto tre stelle del diritto, che avranno compiti specifici diversi per intervenire durante il procedimento. Starr e Ray useranno l' esperienza maturata durante il processo contro Clinton, per smontare le accuse contro il presidente di abuso d' ufficio e ostruzione del Congresso, realative alla richiesta fatta al collega ucraino Zelensky affinché aprisse un' inchiesta sulle attività del figlio di Joe Biden, Hunter, per la compagnia energetica Burisma. Invece Dershowitz, già membro del «dream team» di avvocati che avevano ottenuto l'assoluzione dell' ex campione di football O.J. Simpson dall' accusa di aver ucciso la moglie, metterà in dubbio la costituzionalità dell' intero procedimento. Dershowitz ha pubblicato un libro intitolato «The case against impeaching Trump», in cui sostiene che il presidente non dovrebbe essere condannato perché i due capi d' accusa non hanno una vera base nella legge fondamentale del Paese. La sua credibilità però è stata scossa dalla difesa del miliardario pedofilo Epstein, e dall'accusa di aver ricevuto favori sessuali dalle ragazze abusate, che però l' avvocato ha sempre smentito. Trump all' inizio aveva detto di favorire un vero processo, con la convocazione dei testimoni. Poi però ha cambiato idea, appoggiando invece l' ipotesi di votare subito per archiviare il caso senza un vero giudizio. Il leader repubblicano al Senato McConnell ha cercato di seguire questa strada, ma si è reso conto di non avere i 51 voti necessari per impedire il dibattimento, nonostante il Gop abbia una maggioranza di 53 senatori contro i 47 democratici. Ora la disputa si concentra sull' ipotesi di convocare nuovi testimoni, come l' ex consigliere per la sicurezza nazionale Bolton o il socio di Giuliani Lev Parnas. Proprio giovedì Parnas ha detto a diversi media americani che Trump sapeva tutto delle pressioni su Zelensky, l' intero vertice dell' amministrazione era complice, le forniture militari erano state bloccate per forzare Kiev ad investigare i Biden, e l' ambasciatrice Usa in Ucraina Yovanovitch era spiata dagli stessi alleati del presidente perché considerata ostile. Ieri il segretario di Stato Pompeo ha annunciato che aprirà un' inchiesta su questa accusa. McConnell è contrario a convocare i nuovi testimoni e presentare nuove prove, ma anche questa è una decisione procedurale che può essere presa a maggioranza semplice. Se quattro senatori repubblicani si uniranno ai democratici, le regole del processo cambieranno. Questa sarebbe una minaccia per Trump, che aiuta a capire la decisione di rafforzare il «dream team» legale.
Paolo Mastrolilli per ''la Stampa'' il 18 gennaio 2020. «Se il presidente fosse condannato per questi due capi d'accusa, gli Stati Uniti diventerebbero una repubblica parlamentare. Questo non è quanto volevano i padri fondatori, e provocherebbe un grave danno di lungo termine per tutti i futuri capi della Casa Bianca». Appena le agenzie battono la notizia che il professore emerito di Harvard Alan Dershowitz si è unito al collegio difensivo di Trump, per il processo di impeachment davanti al Senato, provo a chiamarlo. Sul cellulare del celebre avvocato, già membro del «dream team» che aveva ottenuto l' assoluzione di O.J. Simpson, scatta subito la segreteria. Lascio un messaggio, e 43 minuti dopo è lui a richiamare.
Perché ha accettato l' incarico?
«La spiegazione è su Twitter. Presenterò i miei argomenti durante il processo al Senato, sulle ragioni costituzionali contro l' impeachment e la rimozione. Non sono partitico, mi ero opposto all' incriminazione di Clinton, e ho votato per Hillary. Quando però si tratta della Costituzione, i temi in gioco vanno al cuore della sua sopravvivenza. Parteciperò per difendere l' integrità della Costituzione e prevenire un pericoloso precedente».
Perché la condanna di Trump violerebbe la legge fondamentale?
«I due capi d' accusa non sono previsti. La Costituzione consente l' impeachment solo per tradimento, corruzione, o altri gravi crimini e reati minori».
Il primo articolo accusa il presidente di abuso di potere, perché ha usato il proprio ufficio allo scopo di costringere il collega ucraino Zelensky ad aprire un' inchiesta sul figlio del suo rivale politico Joe Biden. Non è un reato?
«È un concetto troppo vago, e non è previsto dalla Costituzione. Tutti i presidenti usano il loro potere per favorire le proprie prospettive politiche. Quanto all' abuso di potere, Lincoln aveva sospeso l' habeas corpus, Roosevelt aveva internato migliaia di giapponesi americani, Kennedy aveva autorizzato le intercettazioni del telefono di Martin Luther King. Anche Obama e Bush figlio sono stati accusati di abuso di potere. Se i padri fondatori avessero voluto l' impeachment per questo comportamento, lo avrebbero messo nella Costituzione. Se non è previsto, non è neppure necessario discutere i fatti».
Il secondo articolo accusa Trump di aver ostruito il Congresso, mentre investigava sul caso Ucraina.
«Anche questo non è un reato previsto dai padri fondatori. La Casa Bianca ha sostenuto che prima di autorizzare i membri dell' amministrazione a collaborare con l' inchiesta, serviva un ordine dell' autorità giudiziaria. Questo argomento è ancora in discussione nei tribunali, che hanno convenuto sul fatto che sia ammissibile analizzarlo. Diverso sarebbe stato se i democratici avessero accusato Trump di corruzione, ma non l' hanno fatto perché probabilmente non ritenevano di avere le prove».
I democratici vorrebbe ascoltare nuovi testimoni.
«Se le accuse avanzate non sono previste dalla Costituzione, non sarebbe neanche necessario discutere i fatti. Bisognerebbe archiviare il processo».
Perché lei sostiene che la condanna del presidente provocherebbe un danno di lungo termine alla sua carica?
«Gli articoli di impeachment non contengono reati, ma divergenze politiche, e quindi il procedimento in corso non è di natura giuridica. Se il Trump fosse rimosso, ciò dipenderebbe dal fatto che il partito a lui contrario ha più voti in Congresso, e questo è esattamente lo scenario che i padri fondatori aborrivano. In sostanza gli Usa diventerebbero una repubblica parlamentare, dove il capo dell' esecutivo può perdere il potere per un voto di sfiducia da parte del Congresso. Ma questo non è il sistema previsto dalla nostra Costituzione. Perciò la condanna la violerebbe, producendo un pericoloso precedente per tutti i futuri presidenti».
Usa, impeachment a Trump. L'accusa: "E' un dittatore, va rimosso". Consegnato alla Camera l'audio rubato in cui il presidente chiederebbe la rimozione dell'ex ambasciatrice Usa in Ucraina. la Repubblica il 25 gennaio 2020. "Un dittatore": così Jerry Naddler, uno dei rappresentanti dell'accusa contro Donald Trump nel processo per impeachment, ha definito il presidente americano, chiedendone la rimozione. "E' il primo e solo presidente che ritiene di non dover dare conto a nessuno, nemmeno alla giustizia, e che ignora la Costituzione", ha detto Naddler: "Se non viene rimosso dal suo incarico il Congresso avrà perso ogni potere e non potrà più chiedere conto a nessuno delle sue responsabilità". "Date all'America un processo equo". Cosi il deputato democratico Adam Schiff, che guida i manager dell'accusa al processo d'impeachment contro Donald Trump, ha chiuso, dopo tre giorni, la presentazione delle dichiarazioni iniziali. La parola passa ora alla difesa che inizierà domani con tre ore di arringa per poi continuare lunedì. Intanto, l'audio rubato in cui Donald Trump si sentirebbe chiedere la rimozione dell'ex ambasciatrice Usa in Ucraina Marie Yovanovitch, è stato consegnato alla commissione intelligence della Camera per essere esaminato. A consegnarlo sono stati i legali di Lev Parnas, l'ex socio di Rudolph Giuliani che sarebbe l'autore della registrazione effettuata ne corso di una cena privata nell'aprile del 2018. L'audio potrebbe rafforzare la richiesta dei democratici di ammettere nuove prove e testimonianze al processo per l'impeachment in corso al Senato. "E' una caccia alle streghe. Vogliono solo vincere le prossime elezioni": così Donald Trump in una intervista a Fox News commenta le accuse nei suoi confronti illustrate per tre giorni in Senato nel corso del processo per impeachment. "Quello che dovranno fare in aula i miei difensori è solo essere onesti e dire la verità", ha aggiunto: "Non si può essere messi sotto accusa senza aver commesso alcun crimine o reato".
(ANSA il 20 gennaio 2020) - Il New York Times sceglie il suo candidato democratico. Dopo aver condotto interviste con tutti gli aspiranti alla Casa Bianca, il board editoriale del quotidiano decide di appoggiare per la nomination democratica due donne, Elizabeth Warren e Amy Klobuchar. "Sono le migliori scelte per i democratici" afferma il quotidiano. Warren "parla in modo elegante di come il sistema economico è corrotto", è impegnata a "riformare profondamente il governo e l'economia" e i suoi piani "dimostrano un approccio serio", spiega il board editoriale del New Yokr Times illustrando la sua scelta. "La strada di Warren alla nomination è difficile" ma "ci sono molti progressisti affamati di cambiamento" che però non vogliono una persona divisiva come Bernie Sanders. Critiche sono dirette anche all'ex vicepresidente Joe Biden: "é il momento per lui di passare il testimone a una nuova generazione di leader politici". Il board del New York Times esprime apprezzamento per Pete Buttigieg, che può avere davanti un brillante futuro politico, e per Andrew Yang, che si augura scenda in politica a New York. Dure le parole invece per Michael Bloomberg, la cui "campagna elettorale mostra quanto il sistema americano non funzioni". "La buona notizia è - mette in evidenza il board editoriale del New York Times - che è emersa Amy Klobuchar" che con la sua lunga esperienza in Senato e le sue credenziali bipartisan potrebbe unire le due anime del partito democratico e forse anche il paese. Amy Klobuchar, la candidata democratica alla Casa Bianca, si dice onorata dell'endorsement del New York Times, che l'ha scelta insieme a Elizabeth Warren. "Un onore" twitta Klobuchar con allegato il cinguettio del quotidiano con l'annuncio della sua scelta.
Giuseppe Sarcina per il ''Corriere della Sera'' il 21 gennaio 2020. Finora Amy Klobuchar era rimasta ai margini della corsa per la nomination. La senatrice del Minnesota, 59 anni, ha avuto anche qualche buon momento negli ultimi dibattiti televisivi, ma nessuno avrebbe davvero puntato su di lei. Lo fa adesso il New York Times, il giornale più importante del Paese, dichiarando di voler appoggiare Klobuchar insieme con la senatrice radical Elizabeth Warren, 70 anni. Si legge nell’editoriale pubblicato nell’edizione online domenica sera 19 gennaio: «La visione di Klobuchar va oltre il gradualismo. Considerata la polarizzazione a Washington e altrove, le migliori possibilità di mettere in pratica numerose politiche progressiste vanno assegnate a un’amministrazione Klobuchar». È una posizione inattesa, che sta facendo discutere. Se non altro perché l’elettorato democratico appare molto distante dall’analisi del New York Times. La media dei sondaggi nazionali, pubblicata dal sito «RealClearPolitics», attribuisce ad «Amy» solo il 3%, staccatissima da Joe Biden (28,1%), Bernie Sanders (20,4%), Elizabeth Warren (14,8%) e comunque alle spalle di Pete Buttigieg (7,2%), Michael Bloomberg (7%), Andrew Yang (3,8%). Certo, queste percentuali potrebbero cambiare drasticamente. Dipende da come vanno i primi appuntamenti delle primarie: i «caucus» in Iowa, il 3 febbraio e poi nel New Hampshire, in Nevada e in South Carolina. Tuttavia, anche in questa prospettiva si è parlato molto delle possibilità di Sanders, di Warren, di Buttigieg. Praticamente mai di Klobuchar che è un po’ più in alto nelle rilevazioni in Iowa (intorno all’8%) e in New Hampshire, ma sempre lontano dal gruppo di testa. La scommessa Klobuchar può riuscire solo se si verificheranno alcune condizioni politiche. In primo luogo il collasso della candidatura Biden. L’ex vicepresidente è in testa, ma non suscita entusiasmo. Sull’altro versante, si dovrebbe consumare il suicidio elettorale della sinistra, sfibrata dallo scontro Warren-Sanders. Klobuchar ci sta lavorando, presentandosi come una figura competente, pragmatica e cercando di far valere la sua esperienza di senatrice soprattutto nei confronti di un altro rivale insidioso, Buttigieg, il 38enne sindaco di South Bend. Nel frattempo è riuscita almeno a far cambiare idea al New York Times, che nel febbraio scorso raccontò una storiella datata 2008 e potenzialmente devastante. Una volta la neosenatrice usò il pettine per mangiare l’insalata in aereo e poi ordinò a un collaboratore, che non era riuscito a procurare posate di plastica, di lavarlo.
Paolo Mastrolilli per ''la Stampa'' il 21 gennaio 2020. «La condotta del presidente Trump è il peggior incubo dei padri fondatori». Perché abusando del proprio potere, per costringere il collega ucraino Zelensky ad aprire un' inchiesta sul suo avversario politico Joe Biden, ha messo a rischio la sicurezza nazionale, e poi ostruendo l' indagine del Congresso ha creato «un serio pericolo per i nostri checks and balances costituzionali». È l' argomento usato dai procuratori della Camera, per chiedere al Senato di approvare l' impeachment. I legali del capo della Casa Bianca però hanno risposto che si tratta di un tentativo «sfacciato e illegale di rovesciare il risultato delle elezioni del 2016, e interferire con quelle del 2020». I due capi d' accusa infatti «sono costituzionalmente non validi», in quanto «non affermano alcun crimine o violazione della legge». La sfida processuale è cominciata sabato sera, con la memoria di 111 pagine presentata dai sette parlamentari democratici guidati da Adam Schiff, che la Speaker Nancy Pelosi ha incaricato per gestire l' accusa. Poco dopo i legali del presidente, cioè il consigliere della Casa Bianca Pat Cipollone e l' avvocato Jay Sekulov, hanno risposto con un documento di sei pagine. Il dibattito comincerà domani mattina, proprio mentre Trump sarà a Davos per vantare i suoi successi economici, mentre le arringhe delle parti sono previste a partire da mercoledì. I due articoli di impeachment accusano il presidente di abuso di potere e ostruzione del Congresso, e il testo dell' accusa sostiene che la prova è la telefonata del 25 luglio 2019 con Zelensky. Il capo della Casa Bianca infatti gli aveva chiesto di «farci un favore», ossia aprire un' inchiesta sulla compagnia energetica Burisma per cui lavorava Hunter Biden, allo scopo di trovare informazioni capaci di deragliare la campagna presidenziale del padre Joe. Nello stesso tempo l' amministrazione aveva congelato gli aiuti militari a Kiev, come forma di ricatto, e giovedì scorso il Government Accountability Office ha affermato che era un reato. Gli avvocati di Trump non hanno contestato i fatti, ma hanno affermato che non giustificano l' impeachment, perché non provano crimini. La telefonata con Zelensky aveva lo scopo di spingere il leader ucraino a combattere la corruzione nel suo Paese, e gli atti del presidente rientravano nelle sue prerogative di stabilire la politica estera degli Usa. Gli aiuti poi erano stati consegnati e quindi non c' è stato do ut des. Quanto all' ostruzione del Congresso, secondo i legali, Trump ha solo esercitato il diritto di proteggere la riservatezza delle conversazioni con i suoi collaboratori, e se volevano i democratici, potevano contestarlo in tribunale: «Esercitare una prerogativa costituzionale non può costituire una causa per l' impeachment». Quanto alla presa di posizione del Gao, che rimprovera all' amministrazione di aver violato la legge bloccando gli aiuti, durante una conference call con i giornalisti il team degli avvocati ha detto che non va presa in considerazione perché non era nei due atti d' accusa. Ora la sfida si sposta sui nuovi testimoni richiesti dai democratici, come l' ex consigliere per la sicurezza nazionale Bolton e il socio di Giuliani Parnas, che ha accusato Trump di aver orchestrato il do ut des. I suoi avvocati non li vogliono, ma se quattro senatori repubblicani voteranno in favore, saranno convocati. In aula ora non ci sono i 67 voti necessari alla condanna, ma nuove prove potrebbe cambiare il processo.
DAGONEWS il 21 gennaio 2020. Siete sicuri di aver chiaro come funziona l’impeachment? Negli Stati Uniti non solo si differenzia dal procedimento di messa in stato di accusa del nostro Presidente della Repubblica, ma è diverso anche da un normale processo. Se la Costituzione conferisce al Senato "il solo potere di provare le accuse di impeachment, tace sui meccanismi del processo. In pratica, il procedimento del Senato è notevolmente diverso da un processo giudiziario sotto ogni aspetto, dall’ammissibilità delle prove alla pena, fino alla possibilità di appello. Ecco le cinque grandi differenze da capire tra un procedimento di impeachment e un processo.
I senatori sono sia giuria che giudice. In un processo giudiziario, la giuria svolge un ruolo ampiamente passivo per gran parte del processo. I membri della giuria in genere trascorrono gran parte del loro tempo ad ascoltare prove, prima che venga loro chiesto di emettere un verdetto. Un giudice, invece, modella attivamente il processo interpretando e applicando le regole e seguendo le procedure governative. I giudici si pronunciano su questioni come l'ammissibilità delle prove e altre questioni legali che possono definire i contorni del processo in modo fondamentale. Ancora più importante, in un processo la giuria e il giudice sono due entità separate. Durante un procedimento di impeachment al Senato, queste due funzioni si fondono in un unico corpo costituito dai 100 senatori che fungono sia da giuria che da giudice. La Costituzione invita il presidente della Corte Suprema a presiedere il processo di impeachment al Senato. Ma secondo le attuali regole del Senato sono gli stessi legislatori ad avere la massima autorità su tutti gli aspetti critici del procedimento. «I senatori hanno il potere di decidere come si svolge il processo - ha detto Ian Ostrander, professore di scienze politiche alla Michigan State University - Non sono giurati passivi».
Non esiste uno standard probatorio. Lo standard probatorio fa riferimento alla quantità di prova necessaria a convincere il giudice. In un caso civile, vige il principio della preponderanza dell'evidenza, il che significa una probabilità superiore al 50 per cento che l'affermazione è vera. Nei processi penali si parla di “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ma nelle prove di impeachment al Senato non esiste tale onere o norma. «Non esiste uno standard probatorio stabilito o uniforme - ha affermato Michael Gerhardt, professore di diritto dell'Università della Carolina del Nord - Al Senato, ogni senatore decide autonomamente quale standard si applica».
Non c’è un regolamento delle prove. I processi giudiziari seguono un regolamento delle prove, in particolare quando sono coinvolte giurie. Le norme applicabili variano da tribunale a tribunale, con alcuni di essi che utilizzano l'intero Regolamento federale delle prove, che copre dalla pertinenza agli standard per determinare l'ammissibilità del parere degli esperti, alle eccezioni. «In qualsiasi tribunale ci sono alcune regole - ha detto Frank Bowman, professore di diritto dell'Università del Missouri - Non è quello che si ha nell'impeachment. Non c’è un regolamento delle prove». Una distinzione importante è che un processo di impeachment è più un esercizio politico che legale. Quindi, a differenza di un processo penale, non è necessario che un presidente sia accusato di un crimine reale. Ciò significa che i senatori, che accusano Trump per abuso di potere e ostruzione al Congresso, hanno una possibilità di valutazione più ampia e meno strutturata degli illeciti rispetto a quella di una giuria. Ciò si sta già manifestando in una lotta tra democratici e repubblicani sull'opportunità di ammettere i testimoni e su quando prendere tali decisioni. «Ogni senatore può decidere da solo quali sono i fatti e la legge» ha detto Bowman.
La pena è politica. Quando gli imputati perdono la causa vanno incontro alla perdita della libertà o della proprietà e in alcuni Stati anche alla pena di morte. Nei processi civili la pena di solito è pecuniaria. In un processo per impeachment, invece, la pena è di natura politica. Trump dovrebbe essere assolto dal Senato controllato dai repubblicani, dove per la condanna sono richiesti i due terzi. Ma nell'improbabile caso in cui venga condannato, la pena per Trump sarebbe la rimozione dall'incarico, con implicazioni politiche di vasta portata.
Contro la sentenza non si può ricorrere in appello. Nei procedimenti giudiziari è comune che la parte soccombente faccia appello alla decisione fino all’ultimo grado di giudizio. Ma la Costituzione conferisce al Senato l’esclusiva autorità in un processo di impeachment, quindi non esiste un organo superiore per un appello. «Ciò significa che se ci sono irregolarità procedurali o si ritiene che un senatore violi il proprio giuramento, non vi è alcun ricorso da poter fare» ha affermato Robert Tsai, esperto costituzionalista e professore di diritto. Secondo Tsai, l'unica possibilità contro un senatore che ha violato il giuramento di imparzialità sarebbe quella di cercare di farlo espellere. Altri studiosi di impeachment affermano che ci sono alcune circostanze limitate in cui un tribunale può intervenire. La Costituzione richiede che i senatori, prima del procedimento, prestino un giuramento con cui si impegnano a "rendere giustizia imparziale". «Se un senatore non presta giuramento o fa un falso giuramento, dovrebbe soggetto a un riesame» ha detto James Robenalt, avvocato di Thompson Hine ed esperto di Watergate.
Trump e l’audio rubato, la sfuriata di Pompeo, arriva Cipollone: le ultime sull’impeachment. Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Michele Farina. Esce «il tribuno» Schiff, entra «mastro» Cipollone. Al Senato americano la saga dell’impeachment continua svogliatamente anche il sabato in diretta tv. Dopo i primi tre giorni dedicati alla presentazione dell’«accusa», guidata dal presidente della Commissione Intelligence della Camera dei Deputati Adam Schiff, oggi comincia il turno della «difesa». Si attende una breve apparizione di Pat Cipollone, il legale della Casa Bianca, in attesa che (la settimana prossima) arringhino gli avvocati big pro-Trump: Alan Dershowitz e Kenneth Starr (il grande accusatore di Bill Clinton ai tempi del Sexgate). Più che ai sonnacchiosi 100 senatori (da tempo decisi a schierarsi in base agli ordini di scuderia, con i Repubblicani - che sono in maggioranza - tutti compatti per l’assoluzione di Donald Trump), il duello tra accusa e difesa si rivolge soprattutto al pubblico (degli elettori) a casa (11 milioni di americani hanno seguito i lavori del primo giorno). Nell’ora del prime time Schiff ha letteralmente «implorato» i senatori a condannare Trump per il cosiddetto Ucraina-gate. Alla fine di un appassionato discorso di 67 minuti, il deputato democratico della California a capo dei sette «impeachment manager» della Camera ha parlato del rischio di infliggere «una ferita infinita a questo Paese» per generazioni a venire. L’accusa si focalizza soprattutto sul tentativo di Trump di «ostruzione della giustizia». Un presidente può dire che in base all’articolo 2 della Costituzione «può fare quello che vuole» infischiandosene del Parlamento? Se permettiamo questo, fa capire Schiff, è minacciato il fondamento stesso di una democrazia basata sulla divisione (e il rispetto) dei poteri. Uno dei sette «manager» dell’accusa, il deputato democratico Jerrold Nadler eletto a New York, ha detto chiaramente che Trump si è comportato da dittatore «abusando del suo potere e ostruendo le indagini del Congresso». «Per lui conta solo il suo volere. E’ un dittatore. Questo non deve continuare». La differenza di strategia si vede a occhio nudo ai tavoli del Senato. Pile di faldoni e documenti su quelli riservati all’accusa, poche cartelle e una documentazione «snella» ai banchi della difesa. Stringi stringi, la linea Trump si basa fondamentalmente su quello che il Segretario di Stato Mike Pompeo ha ribadito in una filippica privata rivolta a una giornalista troppo ardita della radio pubblica Npr: «Non ha capito che agli americani non gliene frega un ca... dell’Ucraina?». Il caso in poche parole: il presidente l’anno scorso ha bloccato aiuti militari a Kiev, già decisi dal Congresso, proponendo di fatto un «quid pro quo». Se l’Ucraina gli avesse fatto «il favore» di indagare sugli affari del figlio di Joe Biden, suo rivale politico in vista delle presidenziali, Trump avrebbe sbloccato quei 391 milioni di dollari di aiuti. Mary Louise Kelly, colonna storica e autorevole di Npr, ha raccontato il dietro le quinte di un’intervista registrata ieri mattina. In nove minuti di incontro al Pentagono, Kelly ha chiesto cnto a Pompeo anche dell’ambasciatrice Usa in Ucraina Marie Yovanovitch, rimossa bruscamente dall’incarico nel 2019. «Ho sempre difeso pubblicamente tutti i membri della mia squadra», ha risposto Pompeo, che da «ministro degli Esteri» è responsabile della diplomazia Usa. «Può dirmi quando ha difeso in pubblico l’ambasciatrice Yovanovitch?», ha insistito la giornalista. Pompeo ha chiuso il discorso ribadendo genericamente quanto detto in precedenza. Poi, alla fine dell’incontro, quando Kelly stava per andarsene, l’ha fatta chiamare nel suo soggiorno privato. E le ha fatto una sfuriata «durata praticamente quanto la precedente intervista», ha raccontato la reporter. Pompeo ha usato parole volgari, facendo volare i «fuck» nella stanza: «Agli americani non importa un ca.. dell’Ucraina». Il Segretario di Stato ha sfidato Kelly: «Lei non sa neanche dov’è l’Ucraina. Saprebbe indicarla su una mappa?». «Sì», è stata la risposta. Pompeo allora si è fatto portare una cartina muta con tutti i Paesi del mondo, e Kelly gli ha correttamente indicato l’Ucraina. Chi l’ha detto che gli americani non sono interessati all’Ucraina? Il presidente stesso, per esempio, l’anno scorso era parecchio interessato. Ieri è stato consegnato alla Camera dei Deputati un audio in cui si sente la voce di The Donald che parla durante un incontro off the records. «Liberatevi dell’inviata in Ucraina. Fatelo!» dice Trump. L’audio, che si riferisce proprio all’ambasciatrice Yovanovitch, proviene da un ex collaboratore di Rudolph Giuliani, l’avvocato personale di Trump che si è mosso in Ucraina come una sorta di super-ambasciatore ombra. Certo tutto è cambiato, ora. Minimizzare è la parola d’ordine. E contrattacco: i democratici hanno scatenato una caccia alle streghe per eliminare il presidente eletto dagli americani. Sarà la linea di Pasquale Cipollone, 54 anni, dieci figli, fervente cattolico, consigliere legale della Casa Bianca. Famiglia di immigrati italiani, papà operaio e mamma casalinga, Cipollone è cresciuto nel Bronx. Classi e quartieri diversi, ma stessa città: un newyorkese come Donald Trump. Da «top lawyer» della Casa Bianca, dicono che sia meno «resistente» dei suoi predecessori ai voleri del capo. Qualche dubbio?
Impeachment, la difesa di Trump: “Volete strappare i voti degli elettori”. Il capo della squadra del presidente Usa, Pat Cipollone, prende la parola davanti al Senato. Nel “dream team” dei legali, l’accusatore di Clinton, Ken Starr e il legale di O.J., Alan Dershowitz. Tra pochi giorni le primarie. Federico Rampini il 26 gennaio 2020 su La Repubblica. «Volete cancellare la volontà del popolo espressa nell’ultima elezione. Volete strappargli le schede elettorali». È questo l’argomento principale con cui ieri la difesa di Donald Trump ha esordito nel procedimento di impeachment. Al Senato la maggioranza repubblicana non ha bisogno di essere convinta, dovrebbe votare compatta per l’assoluzione del presidente già incriminato alla Camera (da una maggioranza di colore opposto). Perciò quel che accade sulla collina del Campidoglio a Washington, e viene trasmesso in diretta su tutti i canali tv e siti dei giornali, è rivolto verso un’altra audience: l’opinione pubblica. Il capo della squadra legale che difende Trump, Pat Cipollone, ha battuto più volte sullo stesso tasto: i democratici cercano di prendersi una rivincita giudiziaria dopo aver perso alle urne nel 2016, e quando mancano nove mesi alle prossime presidenziali. «Vogliono perpetrare — ha detto l’avvocato del presidente — la più massiccia interferenza elettorale della storia americana e non possiamo accettare che accada». Il messaggio alla base repubblicana e a tutti coloro che votarono Trump poco più di tre anni fa è: la sinistra vuole sospendere la democrazia, non si fida di voi, vuole che a decidere sul futuro della presidenza sia un gruppo ristretto di parlamentari, non il popolo americano. Trump deve essere convinto che questi messaggi siano efficaci, infatti dalla Casa Bianca usa Twitter per fare pubblicità alle sedute del Senato. Nel merito delle accuse, la controffensiva repubblicana si basa sugli argomenti preparati da avvocati-celebrity: Ken Starr che fu l’accusatore di Bill Clinton nell’impeachment del 1998; Alan Dershowitz che difese il campione O.J.Simpson accusato di uxoricidio, e più di recente il finanziere Jeffrey Epstein accusato di molestie sessuali su minorenni. Nella prima metà del procedimento, in cui la Camera ha agito nella funzione della pubblica accusa o della procura, l’istruttoria su Trump si è conclusa con due incriminazioni. I reati da impeachment che gli sono contestati sono l’abuso di potere per avere fatto pressione sull’Ucraina (minacciando di non versarle aiuti militari) affinché indagasse sulle attività locali del figlio di Joe Biden, avversario politico; e l’ostruzione del Congresso per avere impedito diverse testimonianze e avere resistito ad alcune ingiunzioni di pubblicare documenti di Stato. Per i democratici, che hanno trasmesso i due capi d’imputazione e le relative istruttorie al Senato, questi sono reati per i quali la Costituzione prevede che un presidente sia destituito dal suo incarico (nel qual caso gli subentra il vicepresidente). Occorre una maggioranza qualificata dei due terzi al Senato, perché scatti la condanna. La difesa repubblicana contesta che il presidente abbia commesso alcun reato. La pressione sull’Ucraina, sostengono i legali del presidente, fu motivata dalla preoccupazione sulla corruzione dilagante in quel Paese; l’aiuto militare di 400 milioni alla fine fu versato. In quanto all’ostruzione del Congresso, le parti si scontrano sui confini del potere esecutivo e sulla natura esatta delle prerogative presidenziali. Il capo della Corte suprema, il giudice John Roberts, presiede i lavori del Senato durante l’impeachment. È anche lui repubblicano, come la maggioranza dei senatori e dei giudici costituzionali. Il team della difesa avrà ancora due o tre giorni a disposizione. Si prevede che li userà anche per tirare in ballo la famiglia Biden: gli affari del figlio Hunter in una società energetica di Kiev, condotti mentre il padre Joe era vicepresidente di Barack Obama e seguiva alcuni dossier di politica estera tra cui l’Ucraina. Ma le questioni di merito rischiano di passare in secondo piano agli occhi dell’opinione pubblica. La maggioranza degli americani ha già deciso in cuor suo da tempo. Per molti democratici Trump è un presidente illegittimo e l’impeachment forse andava avviato ancora prima, quando ci fu il Rapporto Mueller sull’ingerenza di Vladimir Putin nella campagna del 2016 contro Hillary Clinton. Per i repubblicani la sinistra è a caccia di pretesti per far fuori con mezzi giudiziari un presidente regolarmente eletto, e in procinto di sottoporsi ad un nuovo verdetto degli elettori il 3 novembre. Mancano pochi giorni alla primaria dell’Iowa, che il 3 febbraio apre la stagione delle consultazioni con la base democratica. Il procedimento dell’impeachment fu voluto dall’ala sinistra del partito, inizialmente osteggiato dalla presidente della Camera Nancy Pelosi che rappresenta il centro moderato. Il verdetto delle primarie finirà anche per funzionare come una resa dei conti fra le due anime del partito, che all’ultima fase dell’impeachment sono arrivate unite solo in apparenza.
Impeachment, senatore chiave è contrario ai testimoni. Trump forse oggi assolto. Il repubblicano Alexander Lamar ha sciolto la riserva. Naufraga così la mozione dei democratici di dare la parola all'ex consigliere della Sicurezza, John Bolton, che in un libro racconta comeTrump gli confidò di aver vincolato gli aiuti all'Ucraina in cambio di indagini su Joe Biden, figlio di un suo possibile rivale alle presidenziali di quest'anno. La Repubblica il 31 gennaio 2020. La procedura di impeachment per Donald Trump si avvia a rapida conclusione, forse oggi stesso. Il senatore Lamar Alexander, incerto se votare la mozione con cui si chiedono nuove testimonianze, ha sciolto la riserva e affermato che si esprimerà in modo negativo. Affinché la mozione passasse, erano necessari almeno quattro voti dei repubblicani e Lamar Alexander era uno dei pochissimi disponibili a votare a favore. Altri due senatori repubblicani, Susan Collins e Mitt Romney avevano affermato di voler votare a favore della mozione mentre Lisa Murkowski annuncerà oggi la propria decisione. L'obiettivo dei Democratici era dare la parola a John Bolton, l'ex consigliere della sicurezza nazionale, soprattutto in vista di un suo libro in cui l'ex consigliere della sicurezza nazionale afferma che Trump gli confidò di aver vincolato gli aiuti all'Ucraina in cambio del rilancio delle indagini giudiziarie su Hunter e Joe Biden. La scelta di Lamar Alexander spingerà probabilmente il capo della maggioranza repubblicana al Senato a chiedere un voto rapido, già oggi, sull'impeachment, che per andare avanti ha bisogno di due terzi della maggioranza dell'aula, ovvero 67 senatori; i repubblicani al Senato sono in tutto 53 e 47 i Democratici. "E' inopportuno che il presidente chieda a un leader straniero di indagare un proprio oppositore politico e far dipendere gli aiuti degli Stati Uniti da questo", ha affermato Alexander, che però non fa discendere da questa argomentazione ciò che i Democratici desiderano: "La Costituzione non dà al Senato il potere di rimuovere un presidente dall'incarico semplicemente per azioni inopportune". Servirebbe, insomma, ben altro, come spiega sul Wall Street Journal un editoriale odierno: "Ciò che potrebbe dire Bolton - si legge - non cambierebbe l'esito del procedimento. Ciò che lui scrive nel libro, la cui bozza è stata anticipata dal New York Times, non implica che il presidente abbia commesso reati da impeachment. Bolton ci dice di un comportamento che potrebbe essere giudicato molto criticabile, messo in atto da Trump, ma su ciò saranno gli elettori a doversi esprimere il prossimo novembre", quando si terranno le elezioni presidenziali. Nel libro, dal titolo "The Room Where It Happened: A White House Memoir", Bolton sostiene che Trump gli disse, nell'agosto scorso, di voler legare il blocco dei fondi destinati all'Ucraina per la sicurezza all'avvio di un'indagine della procura speciale di Kiev nei confronti di Hillary Clinton e Joe Biden. Il segretario di Stato, Mike Pompeo, e il ministro alla Difesa, Mark Esper, avrebbero tentato inutilmente di convincere Trump a sbloccare gli aiuti. Il presidente ha sempre sostenuto di non aver mai proposto uno "scambio di favori".
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 31 gennaio 2020. Game over, già fatto, già finito l'impeachment storico di Donald Trump Ma come, non avevate letto che sarebbe stato un processo storico? Non eravate stati informati che rischiava grosso? Non doveva il partito repubblicano spaccarsi e un gruppo schierarsi contro il presidente tiranno? Non erano guai seri quelli che la testimonianza di John Bolton, suo ex consigliere per la Sicurezza Nazionale, gli avrebbe riservato? Scherzetto, un altro dei tanti di giornaloni e TV, italiani ma non solo, dal 2016 in avanti. I repubblicani al Senato sono 53, i democratici 47, per procedere servivano quattro defezioni tra i repubblicani. E' bastato che uno dei senatori considerati possibili traditori,Lamar Alexander, R-Tenn., Repubblicano del Tennessee, annunciasse ieri sera che non avrebbe votato a favore della presentazione di altre testimonianze in quella che ha definito una messa in stato d'accusa di Trump "shallow, hurried and wholly partisan", superficiale, frettolosa e partigiana. A questo punto si vota questa sera stessa per chiudere il processo senza celebrarlo perché non ci sono gli argomenti, e varrà la pena di ricordare, prima che si abbattano su di voi le prefiche della Giustizia tradita, che i processi di impeachment si istruiscono al Congresso, cioè alla Camera bassa, dove basta la maggioranza assoluta, si celebrano con tanto di giudice anziano della Corte Suprema degli Stati Uniti a presiederlo, al Senato, sempre che ci siano gli estremi per celebrare un processo, che alla fine di un eventuale processo, l'impeachment è effettivo se lo votano due terzi dei senatori. È che l'impeachment, lungi dall' essere lo strumento di propaganda che a volte i partiti sognano di far diventare, è uno strumento forte del sistema che però protegge i poteri del presidente, e che può scattare la condanna davvero in casi estremi, infatti non ha funzionato mai Non Con Andrew Johnson, non con Bill Clinton, e nemmeno con Richard Nixon, che si dimise prima, non ebbe coraggio, schiacciato da una campagna stampa del Washington Post, a cui si erano accodati tutti gli altri giornali democratici, che lo aveva trasformato in un mostro. Non è il caso di Donald Trump, che si sta occupando di Medioriente, niente meno che intenzionato a una Camp David molto più seria, col peso di 50 miliardi di dollari da destinare ai palestinesi semmai decidessero di non essere più carne da cannone dell'estremismo di Hamas e compagni del Medio Oriente. Al Senato le cose sono andate così. E' arrivata una richiesta di processo votata dalla Camera, dove i democratici hanno la maggioranza, alla quale chiaramente mancavano una serie di elementi, carente nel metodo e nel merito. Vogliamo chiamarla un tentativo disperato del Partito Democratico in crisi di candidati e di argomenti per le prossime elezioni presidenziali e parlamentari di novembre? Ci vogliamo ricordare che da quando è stato eletto, anzi ancora da prima, il presidente Trump è accompagnato da costanti tentativi di destabilizzazione, da perenni inchieste con le quali si tenta di farlo fuori e che, come il costosissimo Russia gate, sono finiti nel nulla? L'obiettivo dei Democratici era quello di un altro tradimento o defezione, ovvero dare la parola a John Bolton, l'ex consigliere della Sicurezza Nazionale, che sarebbe andato in Senato anzitutto a farsi una bella pubblicità a un suo libro di uscita imminente in cui l'ex consigliere afferma che Trump gli confidò di aver vincolato gli aiuti all'Ucraina alla ripresa delle indagini giudiziarie su Hunter e Joe Biden, quest'ultimo ex vicepresidente di Barack Obama è candidato alle primarie democratiche, l'altro il figlio spregiudicato in affari La scelta di Lamar Alexander porta inevitabilmente il capo della maggioranza repubblicana al Senato a chiedere un voto rapido, già oggi, sull'impeachment. Alexander nelle sue motivazioni è stato chiarissimo "E' un comportamento inopportuno se il presidente chiede a un leader straniero di indagare un proprio oppositore politico e far dipendere gli aiuti degli Stati Uniti da questo,ma la Costituzione non da' al Senato il potere di rimuovere un presidente dall'incarico semplicemente per azioni inopportune". Che, aggiungo io, non sono state provate dalla frettolosa istruzione di pratica dei democratici. Non da una telefonata tra Trump è il presidente ucraino, resa nota dalla Casa Bianca, non dalle dichiarazioni dello stesso presidente ucraino. quanto all'eventuale tremendo pericolo rappresentato dalla testimonianza di Bolton, della quale avete letto ipotesi tremende nelle ultime ore, lo spiega bene il Wall Street Journal : "Ciò che potrebbe dire Bolton non cambierebbe l'esito del procedimento. Ciò che lui scrive nel libro, la cui bozza è stata anticipata dal New York Times, non implica che il presidente abbia commesso reati da impeachment. Bolton ci dice di un comportamento che potrebbe essere giudicato molto criticabile, messo in atto da Trump, ma su ciò saranno gli elettori a doversi esprimere il prossimo novembre". Nel libro, dal titolo "The Room Where It Happened: A White House Memoir", Bolton sostiene che Trump gli disse, nell'agosto scorso, di voler condizionale il blocco dei fondi destinati all'Ucraina per la sicurezza all'avvio di un'indagine della procura nei confronti di Hillary Clinton e Joe Biden. Ma c'è molta da obiettare sulla credibilità del vecchio uomo politico che un tempo fu potente e autorevole e che ora sembra essersi ridotto male ed essere mosso solo da risentimento e vendetta. Prima del libro, infatti, dell'agosto scorso, durante una intervista a Radio Free Europe/Radio Liberty, Bolton non aveva fatto alcun cenno a nessuno scambio illecito di favori voluto dal presidente, ed anzi aveva sostenuto fortemente, come i repubblicani fanno oggi, che l'unico vero scopo dell'Amministrazione era quello di combattere la corruzione in Ucraina..Sveva definito le telefonate fra Trump è il presidente zielinski cordiali e prive di qualunque equivoco. Povero Bolton, fa la stessa fine di Mitt Romney, il candidato repubblicano trombato nel 2012,che è diventato arcinemico di Trump e che aveva già annunciato al Senato di essere pronto a votare per le ulteriori testimonianze volute dai democratici; e' la fine che si fa a coltivare i rancori. Che poi a far diventare il proprio eroe un repubblicano duro e puro come Bolton solo perché ti fa comodo, i democratici hanno rischiato parecchie figuracce in questi giorni. La Fox ha trasmesso clips nelle quali il senatore Democratico Adam Schiff , ora a capo del gruppo dell'accusa, definisce Bolton uno che manca di qualunque credibilità, incline a teorie di cospirazione.è lo stesso che l'altro giorno ha sostenuto la necessità assoluta di far testimoniare Bolton perché personaggio importante èeaffidabile. Gli esempi di contraddizioni abbondano. Per citarne uno, quando Bolton era stato nominato consigliere per la sicurezza nazionale Schiff la pensava in modo diverso "This is someone who's likely to exaggerate the dangerous impulses of the president toward belligerence, his proclivity to act without thinking, and his love of conspiracy theories,". L'uomo esaspera gli impulsi pericolosi del presidente verso la belligeranza la sua tendenza ad agire senza pensare e il suo amore per le teorie di cospirazione'. Niente rispetto a una famosa dichiarazione del senatore allora Barack Obama del 2005, che definì John Bolton "merce avariata". Amen.
Trump e l’impeachment: il no a nuovi testimoni al Senato chiude il sipario. Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina. L’ultima a sciogliere la riserva è la senatrice dell’Alaska, Lisa Murkowski: annuncia che è contraria alla convocazione di altri testimoni, in particolare dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. A Washington sono circa le 13 del 31 gennaio 2020: di fatto il processo a Donald Trump finisce qui. I prossimi passaggi, a questo punto, sono scontati. Nella notte italiana, il leader dei repubblicani Mitch McConnell presenterà la mozione per terminare il dibattimento senza ascoltare le rivelazioni di Bolton sulle manovre di Trump in Ucraina. Stando ai calcoli la risoluzione dovrebbe ottenere la maggioranza di 51 voti. Ininfluente la scelta dei parlamentari Mitt Romney e Susan Collins che si sono schierati con i democratici. Poi si passerà al verdetto finale. Trump può essere condannato e rimosso dallo Studio Ovale solo con il «sì» di 67 senatori. Una soglia che non verrà raggiunta; su questo non ci sono mai stati dubbi. Il presidente, dunque, verrà assolto dai due capi di imputazione. Il primo è «abuso di potere» per aver congelato aiuti militari da 391 milioni di dollari già stanziati dal Congresso, nel tentativo di convincere il leader ucraino Volodymyr Zelensky a riaprire un’indagine per corruzione a carico del figlio di Joe Biden. Cade anche la seconda accusa, «ostruzione del Congresso», con riferimento alle manovre messe in atto dalla Casa Bianca per ostacolare la fase istruttoria condotta dalla Camera controllata dai democratici. Al momento non è chiaro quando si chiuderà formalmente il dibattimento. Forse serviranno ancora due o tre giorni della prossima settimana per consentire alle parti di presentare le conclusioni. Ma è solo una questione di calendario. Il Paese si prepara a voltare pagina. Il presidente esce indebolito da questo lungo assedio trasmesso per giorni e giorni in diretta televisiva? Secondo i sondaggi il 49,4% degli americani ha appoggiato l’impeachment, mentre il 46,5% era contrario. In diversi «swing states», i territori in bilico tra democratici e repubblicani, questi equilibri si ribaltano. Difficile prevedere se ci saranno contraccolpi sul voto per le presidenziali il 3 novembre. È certo, invece, che il processo diventerà un precedente giuridico e politico, soprattutto per il concetto più controverso e del tutto inedito, teorizzato dall’avvocato Alan Dershowitz, il protagonista nel team della difesa. Alla domanda chiave: è giusto che il presidente usi i suoi poteri per cercare di ottenere un vantaggio personale? L’ex legale di O.J.Simpson ha risposto: «Sì è giusto, il presidente può usare i suoi poteri se pensa che la sua rielezione sia un vantaggio per la nazione». È la convinzione numero uno alla Casa Bianca e anche del partito repubblicano che ha dimostrato, ancora una volta, di non poter fare a meno di Trump.
Impeachment, Trump assolto dall’accusa di abuso di potere. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 da Corriere.it. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è stato assolto nel processo per impeachment che lo vedeva accusato di abuso di potere per il cosiddetto Kievgate. Seguirà una seconda votazione sul secondo articolo di impeachment, quello che riguarda l’ostruzione al Congresso. L’assoluzione è stata votata con 52 voti a favore e 48 contrari.
Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 6 febbraio 2020. Come avvocato di Trump, Alan Dershowitz ha sostenuto che l' impeachment di un presidente possa aver luogo solo per crimini previsti dal codice penale (l' abuso di potere e l' ostruzione del Congresso non lo sono). Diversi storici e studiosi dicono che l' assoluzione di Trump su queste basi renderà più difficile in futuro chiamare in causa un presidente per la sua condotta e sarà più facile per l' esecutivo evitare la sorveglianza del Congresso. «Non credo - replica Dershowitz -. Penso invece che, se Trump fosse stato condannato con un voto politico basato su criteri non costituzionali, questo avrebbe abbassato la soglia per l' impeachment e stabilito un terribile precedente. Potrebbe essere usato contro ogni presidente che si ritrovi il Congresso controllato dal partito d' opposizione. Avrebbe normalizzato l' impeachment e trasformato gli Stati Uniti in una democrazia parlamentare di stile europeo, dove un presidente può essere rimosso con un semplice voto di sfiducia. Io voglio preservare la Costituzione piuttosto che un particolare presidente». Altri esperti ritengono che il riferimento ad «alti crimini e misfatti» nella Costituzione si applichi a un ambito più esteso di comportamenti dannosi per la società.
«Non penso che fosse questo l' intento. Abbiamo sottoposto a impeachment solo tre presidenti, quattro se contiamo Nixon; in 40 sono stati accusati di abuso di potere - Washington, Adams, Jefferson, Lincoln, Roosevelt- ma nessuno di loro è stato messo in stato d' accusa. Si vuole cambiare il significato originario dell' impeachment per renderlo più facile per ragioni politiche».
Lei è stato criticato per questa frase: «Se un presidente fa qualcosa che ritiene possa aiutarlo ad essere rieletto, nel pubblico interesse, questo non può essere il tipo di "do ut des" che conduce all' impeachment». L' hanno accusata di dire che può fare qualunque cosa. Lei ha replicato che la frase è stata tolta dal contesto, e che se commette un crimine, un presidente può essere messo sotto impeachment.
«Esatto».
Ma se non è un crimine, qualunque cosa faccia, non può essere messo sotto impeachment?
«Sì, il mio criterio è che se non si tratta di un comportamento criminale simile ad alto tradimento e corruzione, non può esserci impeachment».
Così non si dà all' esecutivo potere quasi illimitato?
«Il presidente non può fare tutto ciò che vuole. Il Congresso può fermarlo in vari modi, con mozioni di condanna, rifiutando di autorizzare finanziamenti... ma può metterlo sotto impeachment solo con quei criteri. Se non siete d' accordo, litigate con Madison (uno dei Costituenti ndr ), non con me».
Lo studioso Jonathan Turley, chiamato a testimoniare dai repubblicani, ha obiettato che «ogni volta che un presidente chiede informazioni contro un rivale, solleva gravi preoccupazioni sull' abuso del suo ruolo».
«Si sbaglia, ogni presidente cerca informazioni negative sui rivali, con fonti nazionali e estere. Ogni premier e politico mondiale lo fa. Si può giudicare sbagliata la condotta di Trump, come lo sono molte sue politiche - sull' immigrazione, l' ambiente, la sanità, le armi, l' aborto, i transgender - ma non sono passibili di condanna attraverso l' impeachment».
Trump dice che l' articolo II della Costituzione, che conferisce al presidente il potere esecutivo, gli dà «il diritto di fare tutto quello che voglio».
«Non è così. L' articolo II limita i poteri del presidente. Ma anche il potere di impeachment non consente al Congresso di fare qualunque cosa. La deputata Maxine Waters ha detto: "Possiamo mettere in stato d' accusa chi vogliamo per i motivi che vogliamo". In tal caso il Congresso sarebbe al di sopra della legge. Sono due visioni estreme, l' equilibrio è la Costituzione».
Il ministro della Giustizia William Barr ritiene che ci siano pochi limiti ai poteri del presidente, un po' come Dick Cheney ai tempi di Bush. Barr crede che l' autorità della Casa Bianca sia stata «progressivamente corrosa» dopo le dimissioni di Nixon, ma che l' intento dei rivoluzionari americani che fondarono gli Stati Uniti fosse di ridimensionare «l' esagerato potere legislativo», non l' esecutivo. «In realtà volevano ridimensionare entrambi. Quella di Barr e di Cheney è una visione che disapprovo completamente, per questo ho votato contro i loro presidenti. Ma una cosa sono i poteri del presidente, un' altra l' impeachment che è un rimedio straordinario, per casi estremi. È stato usato correttamente solo una volta: contro Nixon, ma non contro Andrew Johnson, Bill Clinton o Trump».
(ANSA il 6 febbraio 2020) "Trump 4EVA", forever, per sempre. E' il primo tweet postato dal presidente americano dopo la completa assoluzione da tutte le accuse di impeachment da parte del Senato. In realtà il tycoon rispolvera un vecchio video già postato lo scorso giugno che mostra una copertina di Time in cui compaiono alcuni cartelli con le scritte "Trump 2020, Trump 2024, Trump 2028", e così via fino a "Trump 90000", e infine "Trump EVA".
Ugo Caltagirone per l'ANSA il 6 febbraio 2020. Assoluzione piena e caso impeachment chiuso per Donald Trump. Il Senato ha respinto sia l'accusa di abuso di potere sia quella di ostruzione al Congresso, decidendo dopo una battaglia durata mesi, che non ci sono le condizioni perche' il presidente degli Stati Uniti venga rimosso dal suo incarico. Una grande vittoria per il tycoon, che deve essere grato alla maggioranza dei senatori repubblicani che non lo ha abbandonato. Il muro ha retto, anche se con una defezione eccellente: quella dell'ex candidato alla Casa Bianca Mitt Romney, che rompendo con la linea del proprio partito ha votato a favore della condanna di Trump per l'accusa di abuso di potere. Trump può dunque tirare davvero un sospiro di sollievo e lanciarsi nella campagna elettorale senza più distrazioni e con una sensazione: quella di essere uscito dalla vicenda dell'impeachment più forte di prima e di poter puntare alla rielezione, il prossimo 3 novembre, con più fiducia. Non è un caso se la tensione in casa democratica è alle stelle, e il pasticcio del voto in Iowa non ha fatto altro che accentuarla. Il partito sembra sull'orlo di una crisi di nervi, ed è apparso chiarissimo in occasione del discorso sullo stato dell'Unione tenuto da Trump davanti al Congresso. Il gesto della speaker della Camera Nancy Pelosi, terza carica dello Stato, è stato clamoroso e senza precedenti: mentre il presidente terminava di parlare all'aula lei, alle sue spalle, con un ghigno ha stracciato la copia del discorso. Mai vista una cosa del genere, concordano tutti i commentatori, conservatori e progressisti. Che i rapporti tra i due leader politici fossero tesi e gelidi da mesi, da quando Pelosi ha dato il via libera alla procedura di impeachment, è noto. Ma nessuno immaginava si sarebbe arrivati a tanto. E se Casa Bianca e repubblicani gridano alla vergogna, anche molti democratici sono rimasti spiazzati da una mossa così plateale. Del resto Pelosi, 79 anni, di origini italiane, è una veterana della politica americana. E' una delle figure più rispettate che nel ruolo di speaker, ricoperto per la seconda volta in carriera, si è sempre distinta per correttezza, attenzione e rigore nel rispettare e far rispettare ai deputati forma e regole. Anteponendo il senso della misura e del decoro proprio ai modi spesso poco ortodossi e politicamente scorretti del tycoon. Difficile dunque pensare che il gesto eclatante di prendere quei fogli e strapparli a metà davanti alle telecamere di mezzo mondo sia stata una mossa premeditata. Probabile un gesto di stizza: forse Pelosi non ha gradito il fatto che Trump, entrando in aula, si sia rifiutato di darle la mano, nonostante il braccio teso che la speaker ha dovuto ritirare non senza qualche imbarazzo. La prima piccola vendetta pochi secondi dopo, quando ha introdotto il presidente senza ricorrere alla più rispettosa formula tradizionale con la quale avrebbe dovuto dire "è per me un onore e un privilegio...". Poi durante il discorso, trasformato da Trump in una sorta di comizio per la sua rielezione, da parte della Pelosi è stato un continuo di espressioni di derisione, di risatine sarcastiche, di occhiatine rivolte verso deputati e senatori democratici, immortalate delle telecamere prima del clamoroso colpo di scena. "Pelosi non ha stracciato il discorso sullo stato dell'Unione, ha stracciato la costituzione", ha commentato il vicepresidente americano Mike Pence, che in qualità di presidente del Senato era come sempre al fianco della speaker. Quest'ultima però non è sembrata turbata più di tanto dalla polemica: "Trump ha fatto a pezzi la verità, io ho fatto a pezzi il suo discorso che è un manifesto di bugie. Del resto - ha aggiunto - era la cosa più cortese da fare considerando quali potevano essere le alternative...".
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 6 febbraio 2020. Nancy Pelosi, presidente democratica del Congresso, la Camera bassa, può strappare fogli a favore di telecamera quanto vuole, e un suo effetto mediatico lo ottiene, assieme alla consacrazione che è una maleducata che non rispetta le regole formali degli Stati Uniti d'America, cosa che agli americani non piace in grande maggioranza. Purtroppo per lei vale di più la coincidenza col fallimento del suo disperato progetto di impeachment a dominare l'anno elettorale; e nella rappresentazione di ieri sera vale di più ogni volta che è stata costretta ad alzarsi perché quel furbone di Donald Trump e dei suoi collaboratori ha inventato una serie di colpi di teatro davanti ai quali era impossibile per un rappresentante politico non alzarsi e non applaudire. Al veterano di guerra e pilota leggendario che ha compiuto 100 anni e ha ricevuto sul campo, lì al Congresso, la nomina a brigadiere generale; ai genitori della volontaria uccisa dall'Isis in Siria; alla vedova e al figlio di un militare americano ucciso dal generale iraniano Qassem Soleimani, che ha pagato perché "I terroristi non sfuggiranno alla giustizia americana"; alla signora con bambini invitata perché il marito combatte in Afghanistan, alla quale viene portato come omaggio a sorpresa il marito in licenza premio dopo 7 mesi, con la sua bella divisa le sue medaglie e la mano sul cuore; e perfino al vecchio ostico odiato dai democratici, il grande giornalista Rush Lmbaugh, decorato in diretta da Melania Trump con la Medaglia della Lbertà, e lui, che sapeva degli onorificenza, ma non si aspettava di riceverla così e subito, piange per una grande emozione, ai democratici tocca applaudire perché poche ore prima Limbaugh ha annunciato di avere un cancro ai polmoni in stadio avanzato. Figuratevi se non è toccato a tutti alzarsi e applaudire fragorosamente l'arrivo a sorpresa del leader dell'opposizione in Venezuela Juan Guaidò, definito da Trump il presidente legittimo di quella nazione. E' che pochi sanno usare la scena e la TV come il 45esimo presidente degli Stati Uniti, cara Nancy. Per il resto il discorso si può tranquillamente definire un elenco della serva, un elenco di straordinari risultati in economia ma anche nei rapporti internazionali, sicurezza, controllo delle frontiere, e lotta al terrorismo, accordi commerciali, sfruttamento delle risorse, e così via con i successi. Solo che se il discorso sullo stato dell'Unione deve parlare dello stato dell'Unione, l'elenco snocciolato per quasi un'ora da Donald Trump dimostra che quello stato, beati loro, è florido e prospero, che ii "fascista", razzista, Il folle, il parrucchino, l'imbroglione, e aggiungete voi gli epiteti riservati a un presidente democraticamente eletto da mezzo mondo, ha praticamente eliminato la disoccupazione, che ne hanno usufruito latini e neri, che insieme alle tasche è ridondante la fiducia nel futuro. Leggete dunque con attenzione le cronache del 4 e 5 febbraio, quando Donald Trump pronunciò il suo terzo discorso sullo stato dell'Unione, che e' anche il discorso ufficiale di lancio della sua rielezione a novembre di quest'anno. Dico leggete con attenzione perché a novembre, a meno che non lo sparino, sarà rieletto presidente per altri 4 anni, che lo giudichiate un disastro mondiale o, come me, una specie di miracolo. Chissà com'è che per i giornaloni e le TV, un Paese e un Parlamento sono spaccati a metà solo quando non governano da sinistra. Certo che in un anno elettorale e in regime bipartitico il discorso sullo stato dell'Unione del presidente degli Stati Uniti avviene in un clima di polarizzazione e di spaccatura a metà, ci mancherebbe. Soprattutto se, come è successo ieri sera, questa notte per noi, il discorso sullo stato dell'Unione di Donald Trump avviene nello stesso giorno in cui nelle primarie in Iowa i democratici si sono praticamente sparati sui piedi tra reciproche accuse di imbrogli, voto elettronico non funzionante, risultati che vedono in testa il quasi sconosciuto Buttigieg, e solo al quarto posto l'ex vice presidente di Barack Obama, Joe Biden. Soprattutto se oggi, mercoledì 5 febbraio, il Senato sta per mettere fine alla pantomima del tentativo di impeachment per il cosiddetto Ucraina gate, tentativo, badate bene, non assoluzione del presidente come amano dire da noi in TV, perché il processo non è mai cominciato, visto che il Senato non lo celebrerà anche perché lo stesso Congresso che invece a maggioranza semplice lo aveva il richiesto, ora pretendeva di ascoltare altri testimoni tra i quali un rabbioso ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Bolton, in campagna di promozione del suo libro. Bullshit, buffonate. Tanto buffonate che Donald Trump si è morso la lingua e ha scelto di non nominare mai la storia dell'impeachment, come se nulla fosse mai accaduto. Ha fatto invece un discorso di grande orgoglio americano ritrovato, ha argomentato su tutte le promesse mantenute, ha chiesto con orgoglio la rielezione. Dicevamo che al termine del discorso, 90 minuti, è arrivato un po' tardivo il gesto eclatante e senza precedenti della Speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, che strappa una copia dell'intervento del tycoon. Durante il discorso, la Pelosi è stata inquadrata più volte, mentre scuoteva la testa e sembrava deridere le parole del numero uno della Casa Bianca. "E' la cosa più cortese che potessi fare considerando le alternative", ha spiegato poi la speaker della Camera, indicando di aver cercato "almeno una pagina di verità, ma senza trovarla". Ha anche pubblicato la foto del primo sgarbo, con Trump che le nega la mano. Ma la serie delle scortesie l'ha cominciata lei, Lo speaker della Camera ha il compito di presentare il presidente con la formula di rito: è mio grande onore e privilegio …., che lei ha disinvoltamente omesso limitandosi ad annunciare il presidente degli Stati Uniti. Invece del tradizionale "“Members of Congress, I have the high privilege and distinct honor of presenting to you the President of the United States.” ha detto solo: "Members of Congress, the President of the United States". Il quale ha ricambiato porgendole una copia del discorso senza stringerle la mano, e avanti così, visto che i rapporti sono pessimi anzi inesistenti. Ho letto su un giornale italiano che ora non ricordo che abbiamo visto "la fotografia di un Congresso spaccato, infiammato dal presidente che ha trasformato il discorso sullo Stato dell'Unione in un comizio, galvanizzando i repubblicani e facendo infuriare ancora di più i democratici". Ma si può? I Congressi sono sempre spaccati perché i numeri di differenza sono raramente ampi, e perché spesso gli equilibri del Congresso e quelli del Senato non corrispondono, gli americani si divertono a sparigliare. Il discorso dell'Unione è un comizio perché il presidente ogni anno presenta quelli che a lui appaiono i risultati dell'amministrazione agli americani, e tra gli scopi c'è anche quello soprattutto in un anno elettorale di galvanizzare i propri rappresentanti che devono in parte a essere rieletti in parte aiutare a fare eleggere gli altri. Con le presidenziali si rinnova infatti tutto il Congresso e un terzo del Senato. Allora di che stiamo parlando?
Nel comizio il presidente ha detto che il tasso di disoccupazione è il più basso da 50 anni. E' vero.
Che sono stati fatti finalmente nuovi accordi commerciali più è qui con Messico e Canada e avviati con la Cina E' vero.
Che le tasse sono al minimo storico, la burocrazia è stata falcidiata. È vero.
Così come è vero che il progetto per l'impeachment sul cosiddetto Ucraina gate è miseramente fallito, al pari di quello sul Russia gate, finito nel nulla dopo due anni di procuratore speciale a indagare, e relative spese milionarie.
Così, avendo letto per mesi che il 2020 sarebbe stato l'annus horribilis di Donald Trump, potete stupirvi se aveva quella faccia di gattone soddisfatto?
Trump assolto e Sanders un po' meno «fregato». Piccole Note il 6 febbraio 2020 su Il Giornale. Il Senato assolve Trump, come da destino manifesto. Il presidente incassa una vittoria ancora più decisiva di quella del Russiagate, dato che lo proietta alle presidenziali di novembre sotto una luce nuova. Dopo lo scacco subito col Russiagate, quando lo si voleva impicciare in una frode elettorale in danno degli americani alle presidenziali del 2016 (consumata in combutta con Putin), i suoi antagonisti avevano sperato di poterlo abbattere con uno scandalo con focus in Ucraina (che con la Russia confina, a dimostrazione di una scarsa fantasia geografica). Stavolta avevano scelto uno strumento più hard: non un’inchiesta giudiziaria, ma un procedimento di impeachement.
L’assoluzione. E gli è andata male. Non tanto perché l’accusa era astrusa e strumentale – come spiegato in altra nota -, dato che la realtà non conta nulla in certe lotte politiche, quanto perché hanno fatto male i conti. Speravano, infatti, che la pressione mediatica potesse spaventare e piegare il partito repubblicano ai propri desiderata. Non è andata così. Nonostante la pressione si sia sentita, eccome, grazie al fuoco di fila dei principali media, il partito è rimasto con Trump. E ieri, ha ribaltato l’esito del voto alla Camera, dove un procedimento del tutto di parte aveva condannato il presidente. Tanto di parte che i democratici si sono presto accorti che gli elementi in base ai quali avevano sanzionato il presidente non erano sufficienti neanche a instillare il germe del dubbio nei senatori repubblicani, che invece di fronte ad accuse incontrovertibili avrebbero potuto vacillare. Da qui la pressione per inserire nuovi testimoni e nuovi documenti, che al procedimento della Camera erano stati ritenuti inutili se non dannosi, dato che avrebbero solo dilazionato i tempi di una condanna già scritta ab initio. Pressione ossessiva quanto vana, dato che i quattro senatori repubblicani sui quali contavano per far entrare nuovi elementi al Senato (richiesta sulla quale occorreva trovare una maggioranza in aula), hanno deluso le loro aspettative. Così Trump ha vinto, anzi stravinto, dato che anche l’altro obiettivo sul quale contavano i suoi antagonisti, cioè quello di metterlo in cattiva luce di fronte all’elettorato americano per mandarlo alle elezioni con il marchio d’infamia, non è stato raggiunto: i sondaggi arridono a Trump più di prima.
L’errore dei nemici di Trump. Tanti gli errori commessi dai suoi antagonisti, ma uno su tutti: l’aver condotto contro Trump non una battaglia politica, ma una lotta esistenziale. Non si trattava di dimostrare errori, veri o asseriti, del presidente, quanto di eliminare dalla stanza dei bottoni l’usurpatore, la cui colpa imperdonabile è quella di aver vinto contro di loro e di avere idee, giuste o sbagliate che siano, proprie e non loro. Ciò non ha fatto altro che rafforzare negli elettori di Trump l’idea che loro scelta del 2016 fosse quella giusta, dato che lo hanno votato proprio perché anti-establishement. Ed è stata proprio la compattezza dell’elettorato repubblicano a far sì che i senatori del partito restassero fedeli al presidente, consapevoli che un voto contrario sarebbe stato percepito come un tradimento non solo di Trump, ma anche delle speranze dei suoi elettori. Così sbagliano tanti analisti a circoscrivere la scelta dei repubblicani a un atto di fedeltà al loro presidente. In realtà è stato anzitutto un atto di rispetto verso i propri elettori, che altrimenti non li avrebbero rieletti. Così il voto di assoluzione è stata una scelta di politici per la politica. In un’epoca in cui le élite non elette che governano il pianeta, grazie ai loro media e ai loro centri di propaganda più occulti, hanno fatto trionfare l’idea che la politica sia la sentina del mondo (loro che nelle sentine sguazzano molto più dei politici), si può annoverare quanto accaduto ieri come un’altra vittoria della politica sull’establishement, così come accadde nel 2016. Esplicativo in tal senso l’editoriale del Washington Post (il giornale di Jeff Bezos, patron di Amazon considerato l’uomo il più ricco del mondo), media conservatore che aveva esplicitamente sostenuto l’impeachement. Nel dar conto dell’assoluzione di Trump chiede che il Congresso si pronunci per “censurare” comunque il presidente… non si arrendono mai.
Sanders in rimonta, ma…Sempre a proposito del senso di tali élite per la democrazia, di cui si ergono a paladine, va registrato quanto si sta consumando in Iowa nell’estenuante conteggio dei voti per le primarie dei democratici. Dopo che i primi conteggi avevano dato in sorprendente vantaggio il pupillo delle élite, Pete Buttigieg, sul vecchio Bernie Sanders, candidato anti-establishement, alcuni media hanno dato conto dei legami tra la Shadow Inc., l’azienda di servizi digitali che ha gestito il voto, e Hillary Clinton (Piccolenote). Il rischio scandalo forse ha sortito effetto, forse no. Fatto sta che il prosieguo dello spoglio (ancora in corso) vede Sanders avvicinarsi a Buttegieg: da quasi due punti percentuali è arrivato a meno 0.1%. Una rimonta in vista? Sanders ha un precedente infausto in Iowa. Anche nelle primarie del 2016 il voto in tale Stato fu controverso, tanto che Bernie se ne lamentò. La Clinton vinse di un soffio, assicurandosi anche i sei caucus in cui era finita in parità col rivale grazie al lancio finale della monetina (funziona così), che per “sei volte sei” le aveva dato la vittoria. Magia dell’Iowa (Piccolenote).
Usa, la vendetta di Trump, silurati Vindman e Sondland: testimoniarono sull'impeachment. Il primo era alla Casa bianca nel consiglio nazionale per la sicurezza. Il secondo era ambasciatore Usa presso la Ue. La Repubblica il 7 febbraio 2020. Alexander Vindman e Gordon Sondland, due dei testimoni chiave alla Camera nel procedimento di impeachment, sono stati rimossi dal loro incarico, il primo alla Casa Bianca, dove sedeva nel consiglio nazionale per la sicurezza. Il secondo come ambasciatore Usa presso la Ue. Cacciato anche il fratello gemello di Vindman, Yevgeny, consulente legale alla Casa Bianca. "Gli è stato chiesto di lasciare per aver detto la verità", ha detto il legale di Vindman. Le voci su un siluramento di Vindman da parte del presidente Donald Trump erano nell'aria da tempo.
Licenziato anche ambasciatore Sondland. Donald Trump ha silurato anche l'ambasciatore Usa presso la Ue Gordon Sondland, poche ore dopo la cacciata di Alex Vindman. Sondland, come Vindman, è stato uno dei testimoni chiave nell'inchiesta della Camera che ha portato all'impeachment del presidente. Ad annunciare il benservito lui stesso. "Sono stato informato oggi del fatto che il presidente intende richiamarmi con effetto immediato come ambasciatore degli Stati Uniti presso l'Unione europea", ha dichiarato Sondland in una nota. Sia Sondland e sia Vindman avevano sfidato l'ordine di Trump a non testimoniare alla Camera nell'ambito dell'inchiesta sull'impeachment.
Trump richiama ambasciatore Sondland, testimone nell’impeachment. Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 da Corriere.it. Donald Trump ha silurato l’ambasciatore Usa presso la Ue Gordon Sondland, poche ore dopo la cacciata di Alex Vindman dal consiglio per la sicurezza nazionale e del fratello Yevgeny Vindman consulente legale alla Casa Bianca. Sondland, come Vindman, è stato uno dei testimoni chiave nell’inchiesta della Camera che ha portato all’impeachment del presidente. Ad annunciare il benservito lui stesso: «Sono stato avvisato che il presidente intende richiamarmi immediatamente» ha dichiarato Sondland.
Trump silura i due funzionari testimoni nell’impeachment. Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 da Corriere.it. Avevano testimoniato contro di lui durante l’inchiesta d’impeachment alla Camera: forte della piena assoluzione dalle accuse, il presidente Donald Trump li ha licenziati in tronco. Nel giro di poche ore, l’inquilino della Casa Bianca ha messo alla porta il tenente colonnello Alexander Vindman, advisor per l’Ucraina del consiglio per la sicurezza nazionale e l’ambasciatore Usa presso l’Ue, Gordon Sondland. Silurato anche il fratello gemello di Vindman, Yevgeny, legale del consiglio di sicurezza. Un «massacro del venerdì sera», come è stato immediatamente definito, per le analogie con il repulisti di Richard Nixon che il 20 ottobre del 1973, nel pieno dello scandalo del Watergate, ordinò al ministro di Giustizia Elliot Richardson e al vice William Ruckelshaus di licenziare il superprocuratore Archibald Cox. Si rifiutarono e furono costretti a dimettersi. Vindman, veterano di guerra decorato, è stato scortato ieri all’uscita della Casa Bianca, insieme al fratello gemello. È stato cacciato «per aver detto la verità», ha attaccato il suo avvocato David Pressman, addebitando il licenziamento ad una vendetta di Trump per la sua testimonianza. Sondland, magnate dell’industria alberghiera, è stato un grande finanziatore di Trump prima di venire nominato ambasciatore a Bruxelles. In una nota, ha dichiarato di essere stato richiamato «con effetto immediato»: ha ringraziato il presidente per «l’opportunità di servire» e il segretario di Stato Mike Pompeo «per il costante sostegno». Durante la sua testimonianza alla Camera, Vindman aveva parlato di pressioni «improprie» da parte di Trump sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky durante la telefonata dello scorso 25 luglio al centro dell’impeachment. Il tycoon chiese l’apertura di un’inchiesta per danneggiare lo sfidante per la Casa Bianca Joe Biden. Sondland, parlando in audizione, aveva precisato di aver eseguito gli ordini del presidente quando ha esortato funzionari di Kiev ad annunciare inchieste volte ad influenzare le elezioni del 2020. Diversi esponenti dell’amministrazione che hanno testimoniato nell’ambito dell’inchiesta d’impeachment hanno lasciato l’incarico, da Fiona Hill, responsabile delle politiche europee in seno al consiglio di sicurezza a Kurt Volker, lo speciale inviato in Ucraina che si è dimesso pochi giorni prima della sua audizione. Durante l’ottavo dibattito tra i candidati democratici nel New Hampshire, l’ex vice presidente Joe Biden ha chiesto ed ottenuto una standing ovation per Vindman. Il tycoon, durante un evento nella Carolina del Nord ha preso in giro i democratici per il disastro ai caucus dell’Iowa e ha promesso che continuerà a fare comizi anche dopo aver vinto le presidenziali del 2020.
Da repubblica.it l'8 febbraio 2020. Alexander Vindman e Gordon Sondland, due dei testimoni chiave alla Camera nel procedimento di impeachment, sono stati rimossi dal loro incarico, il primo alla Casa Bianca, dove sedeva nel consiglio nazionale per la sicurezza. Il secondo come ambasciatore Usa presso la Ue. Cacciato anche il fratello gemello di Vindman, Yevgeny, consulente legale alla Casa Bianca. "Gli è stato chiesto di lasciare per aver detto la verità", ha detto il legale di Vindman. Le voci su un siluramento di Vindman da parte del presidente Donald Trump erano nell'aria da tempo. Donald Trump ha silurato anche l'ambasciatore Usa presso la Ue Gordon Sondland, poche ore dopo la cacciata di Alex Vindman. Sondland, come Vindman, è stato uno dei testimoni chiave nell'inchiesta della Camera che ha portato all'impeachment del presidente. Ad annunciare il benservito lui stesso. "Sono stato informato oggi del fatto che il presidente intende richiamarmi con effetto immediato come ambasciatore degli Stati Uniti presso l'Unione europea", ha dichiarato Sondland in una nota. Sia Sondland e sia Vindman avevano sfidato l'ordine di Trump a non testimoniare alla Camera nell'ambito dell'inchiesta sull'impeachment.
Indipendente, riservata (e non sottomessa): chi è Melania Trump. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Luca Mastrantonio. Melania Trump è un enigma. Per molti resta un’ex modella che posava nuda sulle pellicce e che è diventata moglie trofeo di un imprenditore arrivista, un’arrampicatrice arrivata fino alla Casa Bianca. Ad altri appare come il volto umano dell’era Trump, o la maschera migliore. Spesso nei sondaggi è lei la personalità più popolare del clan presidenziale, davanti a The Donald e Ivanka, ai fratelli Donald jr ed Eric e Jared Kushner, il genero-consigliere. Ma chi è Melania Knauss, 49 anni, nata in Slovenia, moglie di Donald Trump dal 22 gennaio 2005? A far luce sul mistero c’è Kate Bennett, reporter della Cnn, la più informata e acuta interprete di Melania, cui ha dedicato un libro che uscirà in Italia il 14 gennaio, con il titolo Melania Trump, la biografia (Piemme). Giuseppe Sarcina l’ha intervistata per 7 in edicola domani con il Corriere. Sostiene Kate: «Ci sono solo due persone in tutti gli Stati Uniti che possono dire apertamente a Donald Trump che sta sbagliando, senza correre il rischio di essere cacciati o ridicolizzati su Twitter e queste sono Melania e Ivanka». All’inizio la figlia, 38 anni, dominava la scena e dava l’impressione di averla messa ai margini. Ma col tempo il rapporto si è riequilibrato. Dice Bennett: «Ivanka è ambiziosa e attentissima alla promozione e alla proiezione della sua immagine, del suo marchio sul lungo periodo. Melania è riservata e vive giorno per giorno. Però piano piano ha preso possesso del territorio che spetta alla First Lady. Può contare su uno staff ridotto, non è circondata da consiglieri. Ha fatto da sola. Ha studiato. Ha dimostrato di avere autonomia. Ha dimostrato di essere free, una donna libera». Kate Bennett ha studiato a lungo il loro rapporto: «Melania è cresciuta nella povertà assoluta della Slovenia comunista. Della sua infanzia conserva alcuni valori, come l’attaccamento alla famiglia, oltre alla fede cattolica. Nello stesso tempo, però, è attratta dal materialismo, dal lusso. Tra lei e Trump c’è una vera connessione...». Un rapporto resistente, nonostante distanze consolidate. Vivono in stanze separate, per una decisione presa tempo fa, ricorda Bennett. «Lui ama twittare la mattina, dorme poco; lei è una donna nei suoi tardi quaranta e può permettersi di avere un suo spazio. Il resto è leggenda: Melania non ha le valigie pronte nell’armadio e non vive in un’altra casa. È vero, invece, che suo figlio Barron viene prima di tutto. Ogni volta che ci mettiamo in viaggio con lei, sappiamo che dobbiamo prepararci a un tour de force. Vuole sempre tornare a casa in serata, per stare con lui».
Melania Trump, la biografia, è il titolo del libro edito in Italia da Piemme (in libreria dal 14 gennaio). L’autrice è Kate Bennett, giornalista inviata della Cnn alla Casa Bianca, l’unica autorizzata a occuparsi di Melania e della famiglia Trump.
Melania Trump: i segreti di una donna non sottomessa. Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina. Melania Trump ritratta da Douglas Friedman: da nubile Melania Knauss, 49 anni, è nata a Sevnica, in Slovenia. È moglie di Donald Trump dal 22 gennaio 2005. Ed è la personalità più popolare del clan presidenziale. Il 21 giugno del 2018 a McAllen, cittadina al confine tra Texas e Messico, pioveva a dirotto. In quei giorni Donald Trump aveva adottato forse il provvedimento più osceno del suo mandato: separare i bambini dai genitori migranti e rinchiuderli nelle gabbie dei centri di detenzione. La grande maggioranza degli americani era sotto shock. Ma nel governo di Washington nessuno fiatava. Non il vicepresidente, il pio Mike Pence; non il generalone a quattro stelle John Kelly, capo dello staff. Non un ministro o un parlamentare repubblicano. Tutti squagliati. Verso le 7 di quel mattino, noi giornalisti veniamo a sapere che dalla capitale è in arrivo l’Air Force One. L’aereo della flotta presidenziale atterra alle 10.50, mentre McAllen è ormai allagata. A bordo c’è Melania Trump. Ma chi? L’ex modella che posava nuda sulle pellicce, la moglie-trofeo, l’arrampicatrice-opportunista? Sì, anzi no: la donna che vediamo scendere dalla scaletta è la First Lady degli Stati Uniti, l’unica figura dell’amministrazione capace di uscire allo scoperto nel momento più drammatico, con il Paese sommerso dallo sdegno internazionale: «Sono venuta per ascoltare e per capire come posso aiutarvi; voglio essere certa che questi bambini siano riuniti con la loro famiglia il più velocemente possibile», dice agli sbigottiti funzionari dell’Ursula Border Patrol Processing Center, la struttura che sorveglia il flusso dei clandestini. Melania si presenta in pantaloni e camicia bianca con quattro tasche, sneakers dello stesso colore e una giacca verde sportiva, con una scritta sulla schiena: «I don’t care and you?», «A me non importa e a te?» E sarà quella domanda sibillina l’unica cosa che rimarrà del viaggio. Nessuno fece caso, per esempio, alla calligrafia squillante e adolescenziale del «Welcome! First Lady» su un disegno della bandiera americana che abbiamo notato nella guardiola della «Upbring New Hope Children’s shelter». Melania ci passò un’ora e un quarto, facendo il giro delle classi, parlando con alcuni dei 55 ragazzini e ragazzine tra i 12 e 17 anni che avevano attraversato la frontiera da soli. Anche in quell’occasione, come sempre, al suo seguito c’era Kate Bennett, reporter della Cnn, di gran lunga la più informata e acuta interprete del «Mistero Melania». Bennett ha appena pubblicato Free, Melania che uscirà in Italia il 14 gennaio prossimo, con il titolo Melania Trump, la biografia, (Piemme Edizioni, con una prefazione di Marianna Aprile). Secondo l’ultimo sondaggio di YouGov (marzo 2019), Melania Knauss, 49 anni, nata a Sevnica, in Slovenia, moglie di Donald Trump dal 22 gennaio 2005, è la personalità più popolare del clan presidenziale. Il suo tasso di approvazione è al 51%; quello di The Donald e di Ivanka al 47%. I fratelli Donald jr ed Eric sono sotto il 36%; Jared Kushner, il genero-consigliere, ultimo con il 27%. Incontriamo Kate a Washington, poco prima di Natale. E per cominciare ascoltiamo la sua spiegazione, sorprendente, sul caso della famosa giacca: «Melania aveva veramente fatto pressione sul marito perché ritirasse il decreto sulla separazione delle famiglie. E decise di partire per McAllen senza consultare nessuno e, soprattutto, senza chiedere il permesso di Trump. “Io ci vado”, disse e si imbarcò sull’aereo. Il giorno prima Ivanka aveva fatto circolare la voce che era stata lei a convincere il padre a fare un passo indietro (il 20 giugno 2018 ndr). Melania la prese malissimo. Fece notare alla West Wing ( l’ala della Casa Bianca dove lavora il presidente ndr) che Ivanka stava esagerando. E quella mattina si presentò con la casacca di Zara, prezzo 39 dollari. Ora: che io sappia non aveva mai comprato un capo così a buon mercato; inoltre non aveva mai indossato Zara, una marca, invece, molto usata da Ivanka. Melania non fa nulla per caso: ci ho pensato a lungo e credo che quel “I don’t care and you?” fosse un messaggio rivolto alla pupilla del presidente». La dinamica Melania-Ivanka è, tuttora, potenzialmente esplosiva. Un dettaglio insignificante? Mica tanto, sostiene Kate: «Ci sono solo due persone in tutti gli Stati Uniti che possono dire apertamente a Donald Trump che sta sbagliando, senza correre il rischio di essere cacciati o ridicolizzati su Twitter e queste sono Melania e Ivanka». All’inizio la figlia, 38 anni, sembrava dominare la scena e molti si immaginavano che avesse confinato la matrigna in qualche scantinato della Casa Bianca. Ma con il tempo il rapporto di forza si è riequilibrato. Dice Bennett: «Ivanka è incredibilmente ambiziosa e attentissima alla promozione e alla proiezione della sua immagine, del suo marchio sul lungo periodo. Melania è riservata e vive giorno per giorno. Però piano piano ha preso possesso del territorio che spetta alla First Lady. Teniamo presente che può contare su uno staff ridotto, che non è circondata da esperti e consiglieri. Ha fatto da sola. Ha studiato. Ha dimostrato di avere autonomia. Ha dimostrato di essere “Free”, una donna libera». E qui entriamo nella zona più oscura del «Mistero Melania»: la sua relazione con l’ex tycoon newyorkese. Lo ha conosciuto nel 1996, al Kit Kat, un club di Manhattan, grazie a un comune conoscente, l’italiano Paolo Zampolli. Lo ha sposato il 22 gennaio 2005, a Mar-a-Lago, nel «matrimonio del secolo» come titolarono diversi tabloid e rotocalchi. Lei aveva 34 anni, lui 58. Oggi uno li guarda insieme e si chiede: ma perché se lo è preso? Nell’aprile del 2004 Melania si presentò per la prima volta in The Apprentice, lo show che diede popolarità a The Donald. Alcuni concorrenti le chiesero se non si considerasse «fortunata» per essere la fidanzata del costruttore. Il sottotitolo della domanda era chiaro: «Ce l’hai fatta a incastrare il riccastro eh?» L’ex modella rispose: «Ma perché, lui non è stato fortunato?» La biografia firmata da Kate Bennet (edizioni Piemme) Kate Bennett ha osservato a lungo il loro rapporto: «Melania è cresciuta nella povertà assoluta della Slovenia comunista. Della sua infanzia conserva alcuni valori, come l’attaccamento alla famiglia, oltre alla fede cattolica. Nello stesso tempo, però, è attratta dal materialismo, dal lusso. Come a molte altre donne piacciono le belle case, i diamanti, eccetera. Detto tutto ciò tra lei e Trump c’è una vera connessione. Lo so che molta gente non prende neanche in considerazione questa ipotesi. Però è così. Magari non sarà una connessione nel senso tradizionale. I matrimoni sono spesso strani e complicati... Oggi vivono in stanze separate, ma per una decisione presa tempo fa. Sappiamo che lui ama twittare la mattina, che dorme poco; lei è una donna nei suoi tardi quaranta e può permettersi di avere un suo spazio. Però sono comunque vicini, anche se magari non è una vicinanza fisica. La mattina leggono i giornali nella stessa stanza. Anzi Melania legge molto più del presidente. Legge tutto. Trump la chiama più volte al giorno, chiede costantemente il suo consiglio. Il resto è leggenda: Melania non ha le valigie pronte nell’armadio e non vive in un’altra casa a Potomac, nel Maryland con i genitori. È vero, invece, che suo figlio Barron viene prima di tutto. Ogni volta che ci mettiamo in viaggio con lei, sappiamo che dobbiamo prepararci a un tour de force. Vuole sempre tornare a casa in serata, per stare con lui». Eppure negli ultimi tre anni ci sono state molte volte in cui la rottura sembrava inevitabile. Pochi giorni prima delle elezioni del novembre 2016, viene pubblicata una registrazione che risale al 2005. L’allora costruttore venuto dal Queens si vanta di «essere un vip» e quindi «di poter prendere anche le sconosciute per la f..». Sbucano decine di donne che lo accusano di abusi sessuali. Il 12 gennaio del 2018 il Wall Street Journal pubblica le rivelazioni di “Stormy Daniels”. L’attrice porno sostiene di aver avuto un rapporto sessuale con “The Donald” nel luglio del 2005. A quell’epoca Melania era incinta di Barron. La sera del 30 gennaio 2018, noi corrispondenti ci stringiamo nelle tribunette dell’House of Representative per l’evento istituzionale più atteso dell’anno: il Discorso sullo Stato dell’Unione. È il primo appuntamento per Trump. Ma quella sera, sembra incredibile, il massimo dell’attenzione non si concentra sul presidente. I telefonini brillano in continuazione con i flash delle agenzie: Melania non è salita sulla Bestia, il gigantesco Suv blindato del leader americano; sta arrivando da sola a Capitol Hill. Quando finalmente compare nel palco riservato ai familiari del presidente, l’Aula l’accoglie con un lungo applauso, (quasi) bipartisan. La First Lady, in uno splendente completo bianco, sorride più volte. Saluta. Ringrazia. Non farà altro nelle settimane successive. Neanche quando verranno fuori i particolari pecorecci della relazione tra il marito e la playmate Karen McDougal, sempre nel 2005, sempre nei mesi della sua gravidanza. Le conclusioni di Kate Bennett: «In quel momento mostrò tutta la sua autonomia: le bastò rifiutare la mano al consorte sulla scaletta dell’Air Force One. Melania è sempre stata consapevole di non aver sposato un uomo quadrato, totalmente affidabile. Ma certamente non l’è mai venuto in mente di chiudersi in una stanzetta a disperarsi né, tanto meno, di correre in tv per giustificare, coprire il marito, come fece, tra le altre, Hillary Clinton con Bill».
“Hunter Biden accusato di frode e riciclaggio di denaro”. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 3 gennaio 2019. Un Natale burrascoso per la famiglia Biden. Hunter Biden, figlio dell’ex vicepresidente degli Stati Uniti e candidato alla Casa Bianca Joe Biden, sarebbe “oggetto di più di un’indagine penale che contempla frode, riciclaggio di denaro e contraffazione” secondo alcuni documenti giudiziari depositati presso un tribunale federale dell’Arkansas e diffusi dal New York Post. A novembre, un test del Dna aveva “stabilito con certezza scientifica” che Hunter Biden è il padre di un bambino di una donna dell’Arkansas: in precedenza, aveva negato di aver avuto un figlio dalla donna, ma lo scorso ottobre aveva accettato di sottoporsi al test del Dna. L’istanza al tribunale per far riconoscere che Hunter è il padre biologico di suo figlio, nato nell’agosto 2018, è stata presentata dalla 28enne Lunden Roberts. Gli avvocati della donna chiedono che il bimbo abbia diritto alle misure di sicurezza riservate alla famiglia dei candidati presidenziali. Secondo la società di investigatori privati D&A Investigations, con sede in Florida, che lavora per Lunder Roberts, Hunter Biden sarebbe al centro di un’ampia indagine penale con l’accusa di frode e riciclaggio di denaro. Una delle presunte inchieste si riferisce al controverso ruolo di Hunter Biden presso la Burisma Holdings, la compagnia energetica ucraina di cui era entrato a far parte con un maxi-compenso mentre suo padre, Joe, era vicepresidente degli Stati Uniti. Secondo gli investigatori privati, Biden e un gruppo di soci in affari avevano “istituito conti bancari e finanziari per la Burisma Holdings Limited” nell’ambito di “uno schema di riciclaggio di denaro”. La notizia è stata confermata anche da Fox News. Il team legale di Biden ha negato le affermazioni della società privata accusandola di voler solamente “attirare l’attenzione dei media”.
Hunter Biden sempre più nei guai. Secondo quanto riferito da Fox News, la società investigativa privata, assunta da Lunder Roberts, avrebbe ottenuto documenti che confermerebbero coinvolgimento del figlio dell’ex vicepresidente in “un massiccio sistema di riciclaggio di denaro”. Un’accusa pesante, ma per comprendere il ruolo di Joe Biden e del figlio Hunter occorre fare un passo indietro. Come ricorda il giornalista investigativo Max Blumenthal su Grayzone, l’allora vicepresidente di Obama fece la sua prima visita a Kiev nell’aprile 2014, proprio quando il governo post-Maidan stava lanciando la sua operazione militare contro i separatisti russi nel Donbass. Rivolgendosi al parlamento di Kiev, Biden dichiarò che “la corruzione non potrà più avere spazio nella nuova Ucraina”, sottolineando che gli Stati Uniti “sono la forza trainante dietro il Fmi” e stavano lavorando per assicurare a Kiev “un pacchetto multimiliardario per aiutare” il governo. Nello stesso periodo, Hunter Biden venne nominato nel consiglio di amministrazione di Burisma. La cacciata del presidente Viktor Yanukovych (febbraio 2014) pose il fondatore e presidente di Burisma, l’oligarca Mykola Zlochevsky, in una posizione delicata. Quest’ultimo era stato ministro dell’ambiente di Yanukovych, e il cambio di regime lo mise in difficoltà. Anche perché stava affrontando dei seri problemi legali: un’inchiesta sulla corruzione nel regno Unito aveva portato al congelamento di parte del suo patrimonio, pari a 23 milioni di dollari. L’oligarca aveva a necessità di farsi dei nuovi amici: si trattava di Hunter Biden, figlio del vicepresidente degli Stati Uniti, e dell’Atlantic Council. Il figlio di Joe Biden aveva già ottenuto un incarico presso il National Democratic Institute (Ned), un’organizzazione di “promozione della democrazia” finanziata dagli Stati Uniti che ha contribuito a rovesciare il governo filo-russo di Yanukovich insieme all’Open Society del finanziere George Soros. Hunter venne così arruolato in una posizione di grande prestigio in Burisma, a 50 mila dollari al mese, nonostante la sua totale mancanza di esperienza nel settore energetico e negli affari ucraini. Hunter Biden lo ripagò contattando un importante studio legale di Washington, Dc, Boies, Schiller e Flexner, dove aveva lavorato come consulente. Nel gennaio successivo, i beni dell’oligarca vennero scongelati nel Regno Unito. Nella primavera del 2014, l’Associated Press e persino il New York Times, sollevarono perplessità sul ruolo di Hunter Biden nella compagnia ucraina, nonostante Joe Biden assicurasse di non saperne nulla.
Così Joe Biden rischia di essere travolto dall’Ucrainagate. Nelle scorse settimane, Lindsey Graham, il senatore capo del Comitato giudiziario del Senato, ha avviato un’inchiesta che si concentra sui colloqui telefonici che Joe Biden ebbe con l’ex presidente ucraino Petro Poroshenko riguardo al licenziamento del principale procuratore del Paese, nonché sulle comunicazioni che facevano riferimento all’indagine di Kiev su Burisma, la compagnia ucraina di gas naturale che assunse Hunter Biden, figlio del candidato alle primarie del partito democratico, a 50mila dollari al mese. Graham intende fare chiarezza sulle controverse attività dell’ex vicepresidente Joe Biden e del figlio Hunter in Ucraina. Lindsey Graham vuole esaminare il ruolo a dir poco controverso di Hunter Biden, figlio dell’ex vicepresidente e candidato alle primarie, con la società ucraina Burisma Holdings.
L’indagine di Durham può inguaiare Obama. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 2 gennaio 2020. La contro-inchiesta sulle origini del Russiagate condotta dal Procuratore John Durham potrebbe ora inguaiare seriamente l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Se, come verrà eventualmente appurato, c’è stata un’operazione di controspionaggio ai danni della Campagna di Donald Trump da parte delle agenzie governative, è difficile pensare Obama ne fosse totalmente all’oscuro. Come spiega il giornalista investigativo americano Eric Zuesse in un’inchiesta pubblicata su Strategic Culture Foundation, l’ex presidente degli Stati Uniti potrebbe finire in grossi guai giudiziari perché il più grande crimine che un presidente americano possa commettere è quello di agire contro la democrazia americana, la Costituzione, lavorando con poteri stranieri per prenderne il controllo oppure agendo all’interno per sabotare la democrazia stessa e le sue regole. “L’indagine sul Russiagate, che in precedenza si concentrava sull’attuale presidente degli Stati Uniti ha invertito la sua direzione e ora prende di mira il predecessore di Trump. Sebbene non possa più essere rimosso dall’incarico, deve rispondere alle leggi penali, come qualsiasi altro americano”.
Obama ha giocato sporco contro Trump? Come ricorda Zuesse, un’ordinanza del 17 dicembre della Corte Fisa (Foreign Intelligence Surveillance Act) ha severamente condannato la condotta dell’Fbi sotto Obama, per aver ottenuto, il 19 ottobre 2016 (prima delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti), da quella Corte, con false pretese, un’autorizzazione federale per a iniziare le indagini sulla campagna presidenziale di Donald Trump, accusato di essere colluso con il governo russo. Centrale, secondo Zuesse, è comprendere il ruolo controverso del professor Stefan Halper. Nel frattempo, secondo quanto riportato da The Intercept, il procuratore John Durham prosegue le sue indagini e ha interrogato l’ex direttore della Nsa Michael Rogers. Rogers ha incontrato Durham, in diverse occasioni, secondo due persone che hanno familiarità con la vicenda. Sebbene la sostanza di tali incontri non sia chiara, Rogers ha collaborato volontariamente, hanno affermato diverse persone a conoscenza della questione. Si tratta del primo ex direttore dell’intelligence interrogato da Durham nell’ambito della controinchiesta sul Russiagate che potrebbe inguaiare Barack Obama e la sua amministrazione. “È stato molto collaborativo”, ha detto un ex funzionario dell’intelligence che è a conoscenza degli incontri di Rogers con il Dipartimento di Giustizia.
“L’ex presidente chiese all’Italia di indagare su Trump”. Come riportato lo scorso 13 dicembre da InsideOver, l’Italia rimane al centro della vicenda sul Russiagate. L’accusa che arriva dal mondo repubblicano è potente: l’allora presidente Barack Obama avrebbe chiesto nel 2016 ai governi stranieri di indagare e spiare Donald Trump e la sua Campagna. Lo ha ribadito alla Commissione giustizia della Camera il deputato texano John Ratcliffe. “L’amministrazione Obama – ha sottolineato – chiese alla Gran Bretagna, all’Italia e all’Australia e ad altri Paesi di aiutarlo nelle sue indagini su una persona che era un oppositore politico del partito opposto (Donald Trump, ndr)”. Ratcliffe ha poi difeso il presidente Usa dall’inchiesta d’impeachment: “Siamo nel comitato giudiziario, giusto? Comprendiamo la Costituzione, capiamo che il presidente è il dirigente unitario, è il ramo esecutivo, e tutto il potere del ramo esecutivo deriva dal presidente. E il presidente può e dovrebbe chiedere assistenza ai governi stranieri nelle indagini penali in corso”.
Quando Obama incontrò l’uomo che ha assaltato l’ambasciata Usa. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 3 gennaio 2020. Uno degli uomini identificati dal segretario di Stato Mike Pompeo come leader della protesta contro l’ambasciata americana a Baghdad fu accolto alla Casa Bianca nel 2011 dal presidente Barack Obama. Hadi al-Amiri, fotografato questa settimana fuori dall’ambasciata americana durante l’assalto all’ambasciata in Iraq, fu uno dei membri di una delegazione irachena che si era unita all’ex primo ministro Nouri al Maliki durante un incontro con l’amministrazione Obama presso lo Studio Ovale, secondo quanto riportato dal Daily Mail e da alcuni media americani. Capo di una fazione sciita filo-iraniana di spicco, Amiri, già ministro dei trasporti dal 2010 al 2014, esercita un grande potere all’interno delle Forze di mobilitazione Popolare (Pmf) ed è stato uno degli organizzatori dell’assalto all’ambasciata americana per protestare contro i raid lanciati domenica contro diverse strutture della milizia filoiraniana Kataib Hezbollah al confine tra Iraq e Siria. “L’attacco oggi è stato orchestrato da terroristi, Abu Mahdi al-Muhandis e Qais Khazali, e favorito dai delegati iraniani Hadi al-Amiri e Falih al-Fayyad. Sono stati immortalati fuori dalla nostra ambasciata” ha scritto su Twitter il Segretario di Stato Mike Pompeo nei giorni scorsi.
Chi è Hadi al-Amiri. Hadi al-Amiri, capo della Fatah Alliance, il secondo più grande partito politico in Iraq e leader della forza paramilitare Organizzazione Badr, è uno degli uomini più potenti dell’Iraq. Costituito nel 1983 con il nome di “Brigate Badr”, il gruppo originariamente era l’ala militare del Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciri), un partito politico sciita iracheno che mirava a portare la rivoluzione islamica dell’Iran in Iraq. Durante la guerra Iran-Iraq del 1980-1988, le Brigate Badr hanno combattuto a fianco dell’esercito iraniano della Guardia rivoluzionaria contro l’esercito iracheno. Nel 2003, le Brigate Badr sono tornate in Iraq per approfittare del vuoto politico lasciato dopo la caduta del regime di Saddam Hussein: Hadi al-Amiri, diventato nel frattempo leader della forza paramilitare, venne accusato dal Dipartimento di Stato americano di uccidere “i suoi avversari con un trapano elettrico”. Tuttavia, negli ultimi anni, l’organizzazione di al-Amiri è stata protagonista della lotta contro lo Stato islamico in Iraq e oggi è la milizia più potente all’interno delle Forze di mobilitazione popolari (Pmf), un’alleanza di gruppi di milizie prevalentemente sciite che combatte spesso a fianco dell’esercito iracheno.
L’incontro con Obama. Con l’assalto all’ambasciata americana in Iraq, divampa la polemica contro l’allora presidente Barack Obama che ospitò Al-Amiri alla Casa Bianca nel 2011. Nel 2011, Ros-Lehtinen, repubblicana della Florida, dichiarò al Washington Times che “era estremamente inquietante che la Casa Bianca avrebbe ritenuto opportuno accogliere al-Amiri in una discussione sul futuro dell’Iraq”. Semmai, disse, “dovrebbe essere soggetto a interrogatori da parte dell’Fbi e di altre agenzie di contrasto e antiterrorismo statunitensi” osservò. “Le vittime delle torri Khobar e le famiglie delle migliaia di truppe statunitensi che hanno pagato l’ultimo sacrificio in Iraq non meritano questo”. Hadi al-Amiri, infatti, fu sospettato di aver collaborato all’attentato dinamitardo alle Torri Khobar del 1996 in Arabia Saudita che uccise 19 membri del personale dell’aeronautica militare americana.
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 20 dicembre 2019. L'impeachment è mio e lo gestisco io. Se vi state chiedendo come sia possibile che negli Stati Uniti la battaglia politica si sia così tanto incancrenita e svilita e su una telefonata abbiano tentato di costruire la cacciata di un presidente, pensate prima a casa nostra, all'Italia nella quale Giggino Di Maio e Giuseppi provano a far fuori il temuto Salvini fingendo che abbia trattenuto la nave Gregoretti senza informarli e magari mangiandosi i documenti che provano il contrario. Non si accorgono che così gli portano solo altri voti, che la gente guarda e si incazza? Dovrebbero, invece....Se capisci l'abisso di Roma, ti è più facile comprendere quello, certamente più grandioso, di Washington. La verità? Si sono disperatamente impeachati, anzi si stanno sparando sui piedi, i democratici in guerra contro Trump a tutti i costi, quelli che, ormai è chiaro a qualunque osservatore imparziale – che evidentemente non alberga nei giornaloni e nelle TV italiane, con le dovute rarissime eccezioni – annaspando in mancanza di altri argomenti, non avendo dal 2016 accettato il responso degli elettori, sapendo che si avviano a perdere anche a novembre del 2020, stanno cercando disperatamente di trovare altre vie per far fuori l'odiato Donald. Fino al grottesco, fino a immaginare di bloccare alla Camera l'impeachment deciso sfidando la Costituzione, non mandarlo al Senato, magari tenerselo in un cassetto come arma elettorale, sperando di avere alla fine del 2020, nel Senato nuovo la maggioranza, e tirarlo fuori allora. Si può fare? No, certo che no, glielo stanno strillando tutti i costituzionalisti americani e segnatamente anche il professore di Harvard che pure gli aveva fatto da stampella per costruire il caso alla Camera, e che ora è costretto per salvarsi la faccia a dire che l'impeachment non è un voto, è un processo. Per capirci, si tengono il voto ottenuto per l'impeachment grazie alla maggioranza assoluta del Congresso, e non vogliono trasmettere i documenti al Senato dove si dovrebbe celebrare il dovuto processo, non solo perché sanno che perderebbero e che defezioni tra i repubblicani che godono di 53 senatori contro 47 non ce ne sarebbero, (anzi ieri hanno perso un deputato che si è iscritto al partito repubblicano dopo aver fiutato l'aria del New Jersey, il suo collegio), ma anche perché li dovrebbero testimoniare sotto giuramento e dunque rivelarsi le gole profonde che finora hanno sostenuto le presunte accuse. Certamente il caso divide l'America alla vigilia di Natale, e almeno in questo i nostrani giornaloni e TV dicono una cosa quasi simile al vero, ma anche qui occhio a non confondere lo scontro a Washington e nel Deep state, la crisi epocale del Partito Democratico con una crisi del Paese. L'America sta benone, in grande salute economica, in pace relativa, autosufficiente energeticamente, più protetta commercialmente di quanto non fosse mai stata, con i confini più sicuri, strade e ponti in ricostruzione, e Donald Trump, che aveva inaugurato un difficile 2019 con i democratici di nuovo in maggioranza al Congresso dopo le elezioni di metà mandato, e l'inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate ancora in piedi, se ne va a Mar-a-Lago in breve vacanza continuando tranquillamente a gridare alla caccia alle streghe, una nuova puntata, ma con i dossier delicati chiusi senza risultati a suo danno, festeggiando lo sconcerto nazionale per la procedura folle del impeachment, e con le casse del comitato Nazionale repubblicano piene di soldi, 60 milioni di dollari e siamo solo all'inizio della campagna, tutti frutto di piccoli contributori. Chi è veramente sull'orlo di una crisi di nervi è la speaker Nancy Pelosi e i suoi presidenti di commissione alla Camera, tutti in procinto di essere sbugiardati. Peggio di così! Le cose sono andate in questo modo. Il capo della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell, si è presentato incredulo in aula giovedì sera molto tardi per dichiarare l'impasse fra i due rami sulla trasmissione degli articoli di impeachment contro il presidente Trump in vista di un processo secondo quel che detta il mandato costituzionale. Sull'argomento interviene subito Noah Feldman, professore alla Harvard Law School che aveva testimoniato per i Democratici e a favore dell' impeachment durante l'inchiesta all'inizio del mese, e che stamattina ha ulteriormente precisato in un editoriale per Bloomberg che o quel materiale viene immediatamente trasmesso al Senato o non ha alcun valore. La Costituzione domanda che dopo il pronunciamento di impeachment da parte di una maggioranza della Camera, due terzi di voti siano necessari dal Senato per rimuovere il presidente dal suo ufficio. Feldman avvisa amici e nemici che impeachment "means the House sending its approved articles of impeachment to the Senate, with House managers standing up in the Senate and saying the president is impeached", Significa che la Camera manda gli articoli approvati al Senato, i manager incaricati si alzano in piedi e dicono che il presidente è impeached. Perciò, conclude, se questa comunicazione non avviene al più presto, il processo non può cominciare e non c'è quindi alcun impeachment, il presidente potrà rivendicare legittimamente di non essere stato messo sotto accusa. grottesco? Certamente. Come mai? Intanto va ricordato che oltre al mandato costituzionale, c'è una procedura di impeachment che 100 senatori votarono unanimemente all'epoca del processo a Clinton che finì poi nel nulla. Charles Schumer, rappresentante Democratico, lascia intendere che non c'è fretta, e che si potrebbe ripresentare il tutto al prossimo Senato, anche se in questo caso i manager andrebbero rinominati. Certo che non vogliono portare gli articoli al Senato, twitta uno sprezzante è incazzatissimo Trump, perché non vogliono far testimoniare sotto giuramento un politico corrotto come Adam Shifty Schiff, e nemmeno vogliono far testimoniare il primo Whistleblower, il secondo Whistleblower, l'informatore, la famiglia Biden. Conclude McConnell: staremo a vedere se democratici della Camera riescono a trovare il coraggio di portare le loro accuse a un processo regolare.
E a sera ancora @realDonaldTrump conclude comprensibilmente: "So after the Democrats gave me no Due Process in the House, no lawyers, no witnesses, no nothing, they now want to tell the Senate how to run their trial," he tweeted late Thursday. "Actually, they have zero proof of anything, they will never even show up. They want out. I want an immediate trial!"
E così dopo che Democratici non mi hanno consentito di avere un regolare processo alla Camera, niente avvocati, niente testimoni, niente di niente, ora vogliono anche dire al Senato come deve fare il processo. La verità è non hanno neanche una prova, non hanno niente da mostrare. E io invece lo voglio un processo immediato. Così, in attesa di decisioni, l'aria che tira è che i democratici, idee poche disperate e confuse, ma anche rispetto zero per la democrazia che invece agli americani sta sul serio a cuore, il primo martedì di novembre del 2020 perderanno anche la appena riconquistata Camera oltre che il Senato e la presidenza. Se il vecchio Trumpone questo complotto lo avesse ordito apposta, non gli sarebbe andata meglio.
Mauro Indelicato e Roberto Vivaldelli per “il Giornale” il 20 dicembre 2019. Ormai chi lavora all' interno del tribunale di Agrigento è abituato a essere costantemente sotto i riflettori. Da questo edificio, situato alla periferia della città siciliana, sono passati i casi più spinosi riguardanti ong e immigrazione. Negli ultimi mesi, sono transitati da qui Luca Casarini e Carola Rackete. Nessuno, però, si immaginava di dover avere a che fare con un nome coinvolto in una spy story internazionale. Nei giorni scorsi, infatti, la procura di Agrigento ha avviato un' indagine su Joseph Mifsud, il professore maltese al centro dell' inchiesta sul Russiagate. Nell' aprile del 2016, infatti, Mifsud avrebbe rivelato a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Donald Trump, di avere mail russe compromettenti su Hillary Clinton. Da qui è nata l' inchiesta dell' Fbi sulle presunte ingerenze di Mosca nelle elezioni Usa. Ma chi era Mifsud? E cosa faceva? Fino al 2013, il professore maltese è stato presidente del polo universitario di Agrigento. Nella sua gestione, però, qualcosa è andato storto: buchi di bilancio e spese pazze hanno rischiato di far morire l' ente. Per questo motivo la procura di Agrigento ha avviato un' inchiesta contro di lui. Ma di Mifsud non c' è alcuna traccia dal 31 ottobre 2017 e adesso, come evidenziato su InsideOver, nei corridoi del tribunale agrigentino serpeggia un tragico sospetto: Mifsud potrebbe essere morto. Un' ipotesi che fonti della procura ritengono vera «all' 80%»: «Le probabilità che sia morto confermano dal tribunale sono molto alte». C' è naturalmente da augurarsi che l' enigmatico professore al centro di questa rocambolesca e incredibile spy story sia ancora vivo e magari stia leggendo questo articolo, chissà in quale parte del mondo, lontano dai riflettori di una vicenda evidentemente più grande di lui. Ma i punti interrogativi sul destino del professore sono molteplici, a cominciare da quel misterioso file audio - inviato l' 11 novembre scorso alle redazioni dell' Adnkronos e del Corriere della Sera da un uomo che sostiene di essere proprio Mifsud - e che InsideOver ha fatto analizzare da un esperto in discipline forensi tra i più qualificati in Italia. «Sono convinto che il file audio sia un falso e che la persona che parla non sia il professor Joseph Mifsud», ci conferma il perito, che ha messo a confronto il file audio inviato all' Adnkronos e al Corriere della Sera con due video presenti su YouTube che immortalano il docente scomparso in due conferenze pubbliche. Secondo l' esperto, l' audio «è stato registrato con un microfono attaccato al colletto della camicia, in un ambiente molto ampio, collegato direttamente al computer» e si sentirebbe «la voce di una donna, verso la fine, esclamare un numero, forse 22». Inoltre, la persona che sostiene di essere il professore al centro del Russiagate «non ha la stessa cadenza del vero Joseph Mifsud». Il mistero s' infittisce: innanzitutto, se il docente fosse ancora vivo, perché non ha inviato un video in maniera tale da fugare ogni dubbio? Altro punto interrogativo: se il file audio sopra menzionato è davvero farlocco, chi lo ha fabbricato e perché? Quesiti che meriterebbero una risposta.
Dagospia il 20 dicembre 2019. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. Quanto dura questo governo? “E' come le cose che sono attaccate con lo sputo, come si dice a Napoli. La realtà è questa, è inutile sognare che sia una cosa diversa. Ma non è detto che non duri: le cose che crediamo più fragili spesso diventano le più solide”. Lo dice a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Vincenzo Scotti, presidente della Link Campus University e più volte ministro.
Lei era favorevole alla nascita del governo giallorosso?
“Ero favorevole un anno e mezzo fa, subito dopo le elezioni“.
Si dice che ci siate lei e Cirino Pomicino dietro a questo governo...
”Ma figuriamoci, assolutamente no”.
Cosa ha portato il M5S a perdere così tanto consenso?
“Sono in una crisi che si può recuperare ma devono ritrovare credibilità”.
Lei li ha mai votati?
“No, non li ho votati”.
E chi ha votato alle ultime politiche?
“Il Partito Democratico”.
E alle europee?
“Alle europee c'era una scelta europea forte...e io ho scelto quella”.
Oggi chi rappresenta il potere nel nostro Paese?
“Chi è al potere di solito è chi sta dietro le quinte. Oggi in Italia ci sono solo persone che hanno frammenti di potere, e lo si vede dal fatto che non si decide: chi ha il potere, decide”.
Dagospia il 20 dicembre 2019. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. “Mifsud? Doveva insegnare nella mia Università, poi ha fatto dei seminari, l'ho conosciuto. Era una persona normale ma parlava troppo. Chi insegna parla con incisività, mentre lui parlava davvero troppo”. Lo dice a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Vincenzo Scotti, presidente della Link Campus University e più volte ministro. Secondo lei Mifusd è una spia? “Quando l'ho conosciuto lui era un professore che insegnava nelle grandi università inglesi”. E' vero che si accompagnava sempre a belle donne? “Io non le ho viste”. E' stato detto che la sua università gli pagava anche un appartamento. “Per le poche giornate che veniva in un mese, poi quando è scoppiata la storia sui giornali non ci è andato più”. Ora pare sia sparito nel nulla...”Se si vuol trovare, si trova”, ha concluso Scotti a Rai Radio1.
Fabrizio Dragosei per il “Corriere della Sera” il 20 dicembre 2019. Il presidente non l' ha detto in maniera esplicita, ma il senso delle sue parole è stato chiaro: se l' Unione Sovietica si è dissolta nel 1991 la colpa è di Lenin e di come questi costruì il nuovo Stato. E oggi sarebbe un errore tenere in piedi un Paese attorno a una ideologia, come avvenne allora. «L' unica ideologia possibile in una moderna società democratica è il patriottismo. Patriottismo nel senso migliore e più ampio del termine. Depoliticizzato ma inteso a consolidare le fondamenta dello Stato». Per questo Vladimir Putin invita a guardare avanti, a rilanciare i rapporti con tutti i partner mondiali, da quelli occidentali alla Cina («senza arrivare a una vera e propria alleanza militare»). E il capo del Cremlino fa capire che nel 2024 lui non rimarrà al potere ricorrendo a un cambio di casacca come nel 2008, quando passò al posto di primo ministro per poi tornare alla presidenza. Casomai, varerà una modifica costituzionale che darà più poteri al capo del governo, posto al quale potrebbe puntare. Ma tutto questo, eventualmente, accadrà dopo un ampio dibattito. Un Vladimir Vladimirovich in grande forma ha tenuto la consueta conferenza stampa di fine anno. Ha chiarito di non stimare il fondatore dell' Urss, visto che costruì una struttura confederale basata sulle etnie esistenti in Russia e sul ruolo del partito bolscevico (poi comunista). E quando i vari popoli hanno imboccato strade diverse dopo la crisi degli anni Ottanta, lo Stato si è frantumato. A chi propone di rifondare la Russia ripartendo da zero, Putin dice che la nazione è già passata per un tentativo del genere nel 1917. «Ed è finita con le esecuzioni di massa» del periodo staliniano. Un periodo che il presidente non ricorda con nostalgia, anche se continua a rimpiangere il fatto che l' Urss si sia dissolta. E alla domanda se non sia il caso di «purgare» gli organi di sicurezza a causa dei molti episodi di corruzione e di repressione dei dissidenti, risponde che ci vogliono riforme e controllo pubblico. Ma quella parola, «purghe» ( chistki in russo), è meglio non usarla: «Un tempo che non vogliamo rivivere». Orgoglioso del ritrovato ruolo internazionale della Russia, Putin si è espresso favorevolmente su un accordo di pace fra le due fazioni libiche e per un' intesa sul conflitto ucraino. In quanto all' America, la sua posizione è in linea con quella dell' amico Trump. I democratici che hanno perso le elezioni «hanno cercato di raggiungere il loro scopo con altri mezzi, accusando il presidente di collusione».
Giuseppe D’Amato per il Messaggero il 20 dicembre 2019. Attentato alla Lubjanka al cuore dei Servizi segreti russi, l'Fsb, erede del famigerato Kgb di sovietica memoria. Alle 18,10 ora locale, le 16,10 in Italia, uno sconosciuto ha assaltato l'ufficio dove generalmente viene ricevuta la popolazione in pieno centro a Mosca, a poche centinaia di metri dalle strade eleganti dello shopping e dalle piazze in cui si tengono numerosi spettacoli natalizi per intrattenere la folla in giro per le compere di Fine d'anno. Le ricostruzioni o versioni - anche da parte di enti ufficiali - sono contrastanti, mentre le notizie appaiono frammentarie persino a parecchie ore dall'accaduto. Di certo c'è che cinque persone sono state ricoverate in ospedale, stando al ministero della Sanità federale. In un primo momento era circolata voce che tre ufficiali dei Servizi segreti federali fossero stati uccisi. Tale notizia è stata, però, smentita dall'Fsb. Secondo alcune fonti l'ucciso è un vigile urbano, mentre secondo altre è un agente dei Servizi, particolare confermato anche da una struttura dell'Fsb. L'assalitore, è stato comunicato, è stato «neutralizzato». Cosa significhi non è chiaro. Ucciso? Immobilizzato? Non si sa. Sconosciuti sono anche il movente di quanto avvenuto e l'identità della persona neutralizzata. Comunque chi ha aperto il fuoco l'ha fatto utilizzando un'arma automatica, probabilmente un fucile mitragliatore Kalashnikov, secondo l'autorevole testata Rbk. Le unità di sicurezza, che di solito presidiano in forze il centro della capitale federale, hanno immediatamente isolato l'area e posto in salvo quanti si trovavano in strada negli edifici circostanti nel momento in cui era in atto l'operazione. Voci non verificabili affermano che, in realtà, chi ha attaccato non era solo: due persone sarebbero state subito uccise, mentre il terzo sarebbe riuscito a barricarsi in un palazzo vicino. Questa ultima versione è stata in un secondo momento ritrattata dall'agenzia Moskva nel mezzo di una incredibile confusione mediatica o, chissà, voluta disinformazione in cui sono da sempre maestri i Servizi segreti russi. Alcuni video postati sui social mostrano il crepitio della sparatoria e persone armate correre per strada. Cinque ambulanze sono subito arrivate alla Lubjanka. Un testimone oculare ha raccontato di aver «visto un vigile urbano correre giù per la strada, nascondendosi dietro alle macchine». Secondo il quotidiano Mk l'assalitore ha (o gli assalitori hanno) sparato su una ambulanza, notizia che, se risultasse vera, fa pensare a una scena da Far West in pieno centro proprio nel giorno della grande Conferenza annuale del presidente Vladimir Putin, che, stando ad alcune notizie, si trovava non lontano dal luogo dell'attentato, poiché era andato a fare gli auguri agli uomini dell'Fsb in occasione della festa professionale dei Servizi segreti russi di domani. «Non dobbiamo ha commentato il capo del Cremlino ridurre l'intensità del nostro lavoro, in particolare quello contro il terrorismo. Il terrorismo è un nemico insidioso e pericoloso. Va combattuto in modo sistematico e decisivo». L'ultima versione è che un terrorista si sia messo a sparare dalla strada su alcune finestre del palazzo per il ricevimento del pubblico presso l'Fsb. La capitale non ha, comunque, perso la sua consueta calma, le feste e lo shopping sono continuati, l'opera Ivan Godunov al teatro Bolshoj, distante circa 400 metri dal luogo dell'attentato, è andata regolarmente in scena. In passato, negli anni Sessanta, qualcuno tentò di far saltare in aria con una bomba rudimentale la statua di Feliks Dzerzhinskij, fondatore della Ceka la polizia segreta sovietica -, fallendo miseramente. Negli anni di piombo post-Urss si registrò, invece, un attentato dei radicali islamici nella stazione della metropolitana sottostante la Lubjanka. Poco dopo qualcuno mise in atto un'azione contro lo stesso ufficio dell'Fsb con una dinamica simile a quella di ieri.
Giuseppe D’Amato per il Messaggero il 20 dicembre 2019. Il 19 dicembre doveva essere la grande giornata di Vladimir Putin. Da mesi l'Amministrazione presidenziale lavorava alla tradizionale Conferenza stampa di fine d'anno con tanto di relativo show mass mediatico incluso e con l'intera Russia incollata agli schermi televisivi, alla radio o ad Internet. Ed, invece, questo misterioso attentato alla Lubjanka - uno dei centri nevralgici del potere federale - ha veramente rovinato la festa. Nessuno avrebbe mai potuto immaginarsi una cosa del genere, anche perché gli anni di piombo e dei kamikaze in giro per la capitale sono ormai lontanissimi e non sfiorano nemmeno più la mente della gente. Vladimir Putin ha tanti nemici in Patria ed in giro per il mondo. I più noti sono i radicali islamici, cacciati dal Caucaso dopo una sanguinosissima guerra ed inseguiti anche in Siria ed in Libia. I wahhabiti sono stati cancellati con le armi in mano, ma Mosca ha ugualmente aperto un canale di dialogo con la Casa regnante saudita, assai vicina a quella setta religiosa. Tanti sono i caucasici, definiti semplici boeviki separatisti, che hanno lottato in passato contro il Cremlino e mal sopportano oggi il pugno di ferro di Ramzan Kadyrov, luogotenente di Putin in Cecenia, accusato a più riprese di violazioni dei diritti umani da varie organizzazioni internazionali. La guerra in Ucraina ha provocato poi una frattura tra le file degli ultranazionalisti russi a cui non piacciono certe posizioni, definite deboli, da parte del Cremlino. Qualche testa calda potrebbe non aver capito la ragione delle recenti aperture nei confronti del neopresidente ucraino Zelenskij e l'incontro a Parigi di una decina di giorni fa. E pensare che alle 12 in punto Vladimir Putin si era presentato davanti a 1895 giornalisti accreditati. Una settantina erano state le risposte date in una maratona durata 4 ore e 19 minuti. Il piglio? Quello di sempre. Sulla crisi ucraina Putin aveva ribadito che Mosca appoggia in pieno gli accordi di pace di Minsk 2015. Essi non vanno cambiati, altrimenti si sancisce la fine del processo di pace. «Servono colloqui diretti», aveva osservato il presidente, tra Kiev e le due repubbliche popolari filo-russe. Il Cremlino, era stato ribadito, non ha propri uomini o mezzi in Ucraina orientale. Per quanto riguarda la spinosissima questione del gas, nelle parole di Putin Mosca e Kiev sembravano su posizioni distanti. Il 31 dicembre scade il contratto per il transito del gas russo sul territorio ucraino verso l'Europa. Si rischia una guerra del gas come nel 2006 e nel 2009 con il blocco delle forniture all'Unione europea. Insomma un bel mal di pancia per Capodanno! «Con la Cina non abbiamo un'alleanza militare aveva rimarcato Putin - e non abbiamo nemmeno intenzione di crearla. Pechino ha la capacità di costruire un suo Scudo difensivo anti-missilistico, ma con il nostro aiuto impiegherà meno tempo». Con gli Stati Uniti, invece, - fino alle presidenziali del novembre 2020 - non si possono fare programmi. Sulla Libia Mosca è in contatto con entrambi i contendenti: serve trovare una soluzione politica e finire lo scontro militare. La salma di Vladimir Lenin «rimarrà» nel mausoleo sulla piazza Rossa: «Meglio pensare al futuro», aveva aggiunto il presidente. Sulle problematiche costituzionali - forse in futuro - vi sarà una modifica per i due mandati presidenziali «consecutivi». Cosa significa ciò in tanti se lo erano domandati. Putin aveva lasciato la sala e la Russia con questo dubbio: cosa succederà dopo il 2024? Alla fine del suo quarto mandato Putin lascerà il Cremlino? I vari politologi non facevano a tempo a formulare le più diverse ipotesi che gli spari alla Lubjanka facevano passare tutto in secondo piano.
(LaPresse/AFP il 20 dicembre 2019) - I media russi hanno identificato in un 39enne di una città vicino Mosca l'uomo che ieri ha aperto il fuoco vicino al quartier generale vicino a un ufficio dei servizi di sicurezza Fsb, uccidendo un agente e ferendo cinque persone. Sebbene non vi sia stata alcuna conferma ufficiale dell'identità dell'autore della sparatoria dalle forze di sicurezza, i media russi hanno riferito che l'uomo era una ex guardia di sicurezza che viveva nella città di Podolsk, circa 40 chilometri (25 miglia) a sud di Mosca. Numerosi canali del servizio di messaggistica di Telegram hanno pubblicato una foto del killer da morto, un uomo barbuto con gli occhiali con la faccia insanguinata. Il tabloid Komsomolskaya Pravda e il canale televisivo Ren hanno riferito, citando un inquirente, che il presunto aggressore avesse un arsenale di sette pistole che possedeva legalmente
Rosalba Castelletti per “la Repubblica” il 20 dicembre 2019. In piazza Lubjanka dove oggi scintillano le luminarie natalizie, fino al 1991 si ergeva la bronzea statua di Felix Dzerzhinskij. Fu lui a fondare il 20 dicembre di 102 anni fa la "Commissione straordinaria di tutte le Russie per combattere la controrivoluzione e il sabotaggio", sigla VChK, soprannominata "Cheka", l' antenata dei famigerati servizi segreti Kgb, gli odierni Fsb nel mirino della sparatoria di ieri a Mosca. Che l' attentato sia avvenuto alla vigilia dell' anniversario non è una coincidenza, concordano osservatori e analisti. «È una firma terroristica», ha detto a Komsomolskaja Pravda il colonnello Aleksej Filatov, veterano del Gruppo Alfa, unità delle forze speciali. Quando fondò la Cheka, il caparbio rivoluzionario polacco Dzerzhinskij, o "Felix di Ferro", sostenne che l' agente segreto sovietico ideale dovesse avere «mani pulite, testa fredda e cuore caldo». La missione era combattere i nemici del popolo, reali o immaginati. E per ospitarli nacque il Gulag, il vasto impero sovietico dei campi di lavoro. La Cheka ha cambiato più volte sigla: da Gpu a Nkvd fino a Kgb, il nome che avrebbe mantenuto finché non crollò a pezzi insieme all' Urss nel 1991 e che l' avrebbe resa famigerata durante i decenni della "guerra fredda". Ma nonostante l' alfabeto di acronimi ha sempre mantenuto il suo ruolo di "spada e scudo" della Rivoluzione. E i temuti agenti dei servizi segreti russi hanno continuato sino ai giorni nostri a ricevere lo stipendio il 20 del mese, a celebrare ogni 20 dicembre il loro anniversario e a chiamarsi "chekisti". Lo stesso presidente russo Vladimir Putin rivendica con orgoglio l' appellativo dopo aver servito nel Kgb per 16 anni fino a diventarne colonnello e poi direttore dell' odierno Fsb. Sotto di lui, la polizia segreta, oggi chiamata Servizio di sicurezza federale o Fsb, è tornata a essere guardiano dello Stato e venerata élite come ai tempi di Felix. Ieri proprio mentre l' ignoto assalitore si muoveva armato di kalashnikov attorno alla Lubjanka, quartier generale dell' ex Kgb, poco dopo aver tenuto l' annuale conferenza stampa per 4 ore e 18 minuti, Putin lodava le forze di sicurezza per aver «impedito 33 attacchi terroristici» nel 2019 aprendo al Cremlino un concerto dedicato al loro "compleanno". Ieri tra l' altro era la Giornata dei servizi di controspionaggio militare, i Vkr, impegnati anche contro i jihadisti in Siria e i guerriglieri nel Caucaso. Un' altra coincidenza non casuale, stando a qualche commentatore televisivo. Seppure fosse chiaro che la missione sarebbe stata suicida e seppure il bilancio non sia stato infine così pesante (un morto e cinque feriti), colpire l' Fsb a cavallo delle due date è stato comunque un «successo dal grande valore simbolico », ha riconosciuto persino il giornalista filogovernativo Andrej Medvedev. C' è chi sui social non ha mancato di ironizzare sulle parole del presidente notando che i servizi segreti non siano riusciti a sventare proprio l' attacco terroristico mirato contro di loro. Ma nella Russia guidata da un ex agente del Kgb, dell' attacco i tg serali hanno parlato solo in coda.
La Russia alle prese con l’emergente minaccia anarchica. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 20 dicembre 2019. Il 2019 è stato un anno intensissimo per i servizi segreti russi, che hanno fronteggiato con successo il riaffacciarsi dell’insurgenza islamista nel paese, trainata dal risveglio dei nazionalismi religiosi nel Caucaso settentrionale e dal radicamento dello Stato Islamico, arrestando quasi 900 persone e smantellando 78 cellule terroristiche. L’anno si sta conclude, tuttavia, all’insegna del sangue, per via dell’attentato del 19 dicembre compiuto da un lupo solitario, forse convertitosi all’islam radicale, contro la sede del Fsb a Mosca. Ma non sono soltanto il secessionismo caucasico e il terrorismo islamista a destare preoccupazioni al Cremlino, perché nei tempi recenti ha assunto crescente pericolosità anche l’anarco-insurrezionalismo, che si sta facendo strada soprattutto fra i giovani russi.
La situazione. Kerch, mattina del 18 ottobre 2018. Uno studente 18enne entra, come ogni giorno, a scuola, ma armato di un fucile e alcune bombe artigianali. Il suo obiettivo è realizzare una versione russa della strage della Columbine High School, uno dei massacri scolastici più gravi della storia recente statunitense, e ci riesce: 20 morti e 70 feriti. Si suiciderà prima dell’arrivo delle autorità, compiendo il più sanguinoso assalto ad un istituto scolastico dopo la strage di Beslan del 2004. Arcangelo, mattina del 31 dello stesso mese. Uno studente 17enne entra nell’ufficio locale del Fsb armato di un ordigno improvvisato, costruito in casa, che fa’ detonare. Nell’esplosione che segue muore l’attentatore e restano feriti tre ufficiali. Il giovane, di etnia russa e regolarmente iscritto ad un istituto tecnico, si era auto-radicalizzato sul web, dove trascorreva la maggior parte del sul tempo navigando su siti, blog e comunità virtuali dedicate a simpatizzanti anarchici e comunisti. I due attentatori avevano numerosi tratti in comune: russi etnici, giovani, studenti, emarginati dai coetanei, hanno agito da soli e si erano autoradicalizzati in rete dopo periodi passati in comunità virtuali veicolanti messaggi di ribellione sociale, anarchismo, comunismo, antiputinismo, e in cui si fa’ apologia dello stragismo giovanile e a-ideologico tipico degli Stati Uniti. Gli attacchi, avvenuti a pochi giorni di distanza l’un dall’altro, hanno contribuito a portare a livello nazionale la questione della radicalizzazione crescente fra i giovani russi delle periferie; una radicalizzazione che è al tempo stesso politica e apolitica. Politica perché avviene chiaramente a seguito dell’approdo su determinati spazi della rete, visibili o nascosti, apolitica perché l’anarchia viene utilizzata da persone con problemi di socializzazione come una scusante per giustificare mattanze e dare sfogo a istinti distruttivi.
La risposta di Mosca. Il governo è ricorso a controlli più stringenti sui contenuti pubblicati in rete, facilitando la chiusura dei siti web e l’identificazione dei proprietari e degli utenti, ma in assenza di contromisure che agiscano sul piano sociale si sta assistendo anche all’aumento di coloro denunciati per incitamento allo stragismo e pubblicazione di contenuti estremisti e violenti che inneggiano e celebrano massacri scolastici sventolando la presunta bandiera della ribellione contro una società ingiusta. Fra il 2017 ed il 2018 è quintuplicato il numero di gruppi e blog chiusi per tali ragioni. L’Autodifesa del Popolo, un’organizzazione mescolante anarchia, antiputinismo e antifascismo, ha catturato l’attenzione degli investigatori perché i due attentatori avrebbero passato del tempo considerevole a leggere i contenuti da essa pubblicati in rete. L’organizzazione è cresciuta significativamente dal punto di vista numerico negli ultimi anni, aumentando anche la propria esposizione nelle proteste antigovernative che periodicamente attraversano la Russia. A marzo dell’anno alcuni membri dell’organizzazione sono stati arrestati con l’accusa di essere dietro un attacco contro una sede di Russia Unita. Un’altra organizzazione nata recentemente e anch’essa travolta dalla macchina investigativa è “La rete”, fondata nel 2017 da alcuni giovani antifascisti sanpietroburghesi e rapidamente finita al centro di un’inchiesta del Fsb perché i membri si esercitavano in azioni di disturbo e guerra urbana, sognando di rovesciare il governo per mezzo del terrorismo.
· L’Albo della Gloria.
"No cittadinanza a Segre, non ha meriti particolari": scoppia bufera in Sicilia. "La senatrice Liliana Segre non ha meriti particolari verso la comunità", sarebbe la decisione motivata dalla maggioranza. Interviene il sindaco. Roberto Chifari, Venerdì 10/01/2020su Il Giornale. Il consiglio comunale di Geraci Siculo, un piccolo borgo delle Madonie in provincia di Palermo, ha respinto a maggioranza la proposta di conferire la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. La proposta, che mirava a dare riconoscimento all'impegno della senatrice a vita contro il razzismo e l'antisemitismo, era stata presentata dal gruppo di opposizione "UniAmo Geraci". La maggioranza l'ha bocciata con varie motivazioni tra cui il fatto che Liliana Segre non avrebbe alcun merito particolare nei confronti della comunità siciliana. Il comune ha pertanto, deciso di respingere la proposta di cittadinanza dopo una riunione fiume al Comune durata quasi due ore per un solo punto all'ordine del giorno. Secondo l'amministrazione comunale un nuovo riconoscimento alla senatrice avrebbe potuto assumere un carattere discriminatorio nei confronti di tutti gli altri deportati nei lager nazisti. Il capogruppo della minoranza, Gaetano Scancarello, ha giudicato risibili le ragioni del rifiuto con il quale sarebbe stata scritta "una brutta pagina della storia politica recente di Geraci Siculo". La mozione si poneva in continuità con il percorso già intrapreso nella comunità geracese su tali argomenti, con le iniziative in ricordo delle vittime dei totalitarismi, spiegano dal gruppo consiliare UniAmo Geraci, e conteneva anche altre iniziative contro il razzismo e la xenofobia, che erano state già esaminate e approvate all'unanimità dal Consiglio nell'ultima seduta dello scorso 23 dicembre. L'ultimo punto della mozione respinta impegnava l'amministrazione comunale a "disporre gli atti necessari alla concessione della cittadinanza onoraria alla senatrice a vita Liliana Segre, per l'opera di testimonianza e mantenimento della memoria della Shoah, di cui fu vittima, e per l'impegno a tutela dei diritti umani e contro ogni forma di razzismo, xenofobia, intolleranza, discriminazione, violenza e odio". Secondo la ricostruzione dell’opposizione, per "quanto emerso dalle dichiarazioni dei vari esponenti della maggioranza e dell’amministrazione, il valore e l’autorevolezza della signora Segre sarebbero già stati riconosciuti con la sua nomina a Senatrice a vita, ritenendosi, pertanto, immeritevole e fuori luogo il riconoscimento alla stessa anche della cittadinanza onoraria di Geraci Siculo, comunità rispetto alla quale la signora Segre non avrebbe ad oggi acquisito alcun merito particolare". Infine il gruppo in un lungo post su Facebook lascia alla alla cittadinanza e all’opinione pubblica le valutazioni del caso. "Per parte nostra riteniamo, senza mezzi termini, che si sia scritta una delle più brutte pagine della storia politica recente del nostro Comune". L'opposizione va giù duro e spiega come siano state "incomprensibili e imbarazzanti le contraddizioni in cui sono caduti il presidente del Consiglio, Giuseppe Puleo, e il capogruppo di maggioranza, Gaetano Scialabba che, nonostante siano stati uniti nella bocciatura della mozione portata all’ordine del giorno, sono stati artefici di interpretazioni diverse e a tratti assurde di un loro documento, depositato agli atti del Consiglio, che pretenderebbe di spiegare le motivazioni del voto contrario". Pronta la replica del sindaco di Geraci Siculo Luigi Iuppa che ha invitato la senatrice Liliana Segre "a venire a Geraci per dare una sua testimonianza diretta. A tal proposito si propone di invitarla in occasione del primo anniversario della posa della pietra di inciampo per il nostro concittadino Liborio Baldanza che verrà celebrato ad aprile". Il primo cittadino madonita e il gruppo di maggioranza hanno deciso di spiegare in una lunga nota il loro no frutto di una scelta ponderata. "Continuiamo ad essere convinti - spiegano il sindaco e gli altri dieci componenti del Gruppo Consiliare “Geraci Bene Comune” - che la concessione di una cittadinanza onoraria non sia un gesto simbolico, che la vicinanza della comunità di Geraci alla Senatrice Segre per gli attacchi personali ricevuti negli ultimi mesi vada dimostrata con altre azioni, che la vita, l’esempio e la testimonianza della Senatrice devono tramutarsi in azioni e progetti a favore delle giovani generazioni in modo da determinare un cambiamento nei comportamenti e il rispetto dei valori della libertà, della democrazia, dell’accettazione del diverso e dello straniero, del dialogo. Solo in questo modo, i sacrifici di tanti cittadini europei, pagati anche con la vita, soprattutto durante i regimi totalitari imperanti in Europa nel secolo scorso, possono fungere da ispirazione per le giovani generazioni, per la creazione di società aperte e tolleranti, e di comunità che accolgono le minoranze. Riteniamo e ci auspichiamo che la presenza della Senatrice Segre a Geraci, la sua testimonianza diretta e la sua personale condivisione con le giovani generazioni del nostro paese e del comprensorio madonita possa realizzare ed instaurare quel legame con la comunità e con il territorio necessario affinché la cittadinanza onoraria non sia soltanto un gesto simbolico".
Liliana Segre, da Fico e Casellati sì alla candidatura al Nobel per la pace. Il mondo politico favorevole alla proposta lanciata dal sindaco di Pesaro, il dem Matteo Ricci. Zingaretti: “E' una idea bellissima". D'accordo anche il sindaco di Milano. Elena Dusi il 13 dicembre 2019 su La Repubblica. C'è un'idea su cui i politici italiani sono d'accordo. È quella di candidare Liliana Segre al premio Nobel per la Pace. "La accolgo con convinzione e apprezzamento" dice subito la presidentessa del Senato Elisabetta Casellati. Gli fa eco dall'altro ramo del Parlamento Roberto Fico, presidente della Camera: "Lei rappresenta una figura di riferimento per tutta l'Italia e tutto il Parlamento". Ieri il sindaco Pd di Pesaro ha formalizzato la sua proposta. Matteo Ricci, in diretta su Twitter e Facebook, ha firmato la lettera diretta ai presidenti di Camera e Senato e ai capigruppo di tutti i partiti. Chiede che sostengano la candidatura della senatrice a vita Liliana Segre e inviino la richiesta al Comitato del Nobel, che ha sede a Oslo. L'idea è stata lanciata dal sindaco di Pesaro in un'intervista apparsa ieri su Repubblica. Ricci, 45 anni, è anche vicepresidente dell'Anci, l'Associazione nazionale comuni italiani. Con il primo cittadino di Milano Beppe Sala ha ideato la manifestazione di solidarietà a Liliana Segre "L'odio non ha futuro", che martedì ha raccolto 600 sindaci e migliaia di cittadini a Milano attorno alla senatrice a vita 89enne che, dopo essere scampata ad Auschwitz, ancora oggi riceve minacce antisemite e per questo è stata messa sotto scorta. "Parliamo di una donna che porta avanti i valori più sani per una società: il dialogo e il confronto contro ogni forma d'odio" prosegue Fico. Per il segretario del Pd Nicola Zingaretti la proposta di Matteo Ricci è "bellissima" e rappresenta "la risposta più forte a una stagione in cui c'è chi prova a riaprire la porta a odio e intolleranza". La pensa come lui il compagno di partito Dario Franceschini, ministro dei Beni Culturali: "Difficile immaginare chi lo meriti di più". Il Nobel per la Pace viene assegnato a ottobre. Quest'anno è andato ad Abiy Ahmed, premier dell'Etiopia. Liliana Segre lo merita, secondo il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli (5 Stelle), perché "il suo messaggio è antitetico a qualsiasi forma di intolleranza. La sua storia e i valori che incarna sono un esempio a livello mondiale". E si allunga la lista dei Comuni che vogliono concedere a Liliana Segre la cittadinanza onoraria, dopo che il sindaco leghista di Biella, a fine novembre, la negò (salvo poi scusarsi). Città e paesi che hanno riconosciuto la senatrice come propria cittadina sono un migliaio. Ieri si sono aggiunti Modena, Livorno, Prato, Vinci. Il sindaco di Milano Beppe Sala conferma che "l'idea è strepitosa". Anche se "dobbiamo capire se ci sono le condizioni. Sarebbe sbagliato esporre la senatrice a una corsa in cui non ha possibilità". Al Nobel 2020 manca ancora tanto tempo. Nell'attesa Liliana Segre continuerà a giocare il suo ruolo: "Quello di una donna straordinaria - dice Casellati - che rappresenta coloro che, nella parte più buia della nostra storia, si è sacrificato per fare dell'Italia una nazione libera e democratica". "La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile".
· Le redazioni partigiane.
Marco Zonetti per vigilanzatv.it 21 dicembre 2020. Andrea Scanzi (Fatto Quotidiano) ospite di Massimo Gramellini. Marco Travaglio (Direttore del Fatto Quotidiano) ospite di Fabio Fazio. Scanzi, Travaglio ma anche Peter Gomez e Antonio Padellaro (anch'essi del Fatto Quotidiano), tutti vicini al M5s e ospiti fissi nei programmi di La7. Pochi sanno che esiste un filo rosso a legare tutti questi elementi che si chiama Beppe Caschetto. Caschetto è il titolare della ITC 2000, agenzia di management per lo spettacolo che rappresenta anche molti giornalisti e conduttori televisivi di La7. Lilli Gruber, Giovanni Floris, Luca Telese (anch'egli vicino al M5s), Corrado Formigli sono di Caschetto. Nonché Fabio Fazio, Lucia Annunziata e Massimo Gramellini, in forza a Rai3, rete in quota M5s. Il Fatto Quotidiano ha una branca che si chiama Loft e che produce programmi televisivi fra cui "Accordi e Disaccordi" di Andrea Scanzi; "Belve" della fidanzata di Enrico Mentana (direttore informazione di La7), Francesca Fagnani; "La confessione" di Peter Gomez e così via. Programmi che poi Loft del Fatto Quotidiano rivende al canale Nove, del quale Beppe Caschetto è una sorta di ombra grigia. Ovviamente nulla di illecito, di irregolare, di illegale. Semplicemente, quelli che sembrano mondi paralleli che non si toccano mai, sono invece assolutamente compenetrati tramite la figura del potentissimo agente televisivo Beppe Caschetto. A "Quelli che il calcio", Caschetto rappresenta almeno otto membri del cast fisso. A "Che tempo che fa" ne rappresenta almeno cinque (Fazio, Littizzetto, il duo Ale & Franz, Enrico Brignano, Roberto Saviano) senza contare i vari ospiti di turno della stessa scuderia, come per esempio Sabrina Ferilli o Andrea Delogu (che ora è onnipresente in Rai e conduce un programma con Stefano Massini, ospite fisso di Piazza Pulita condotto dal caschettiano Formigli). Nulla di illegale, ribadisco. Ma è utile avere bene in mente questi passaggi per osservare con occhio critico e consapevole talune trasmissioni di approfondimento politico su taluni canali televisivi, per capire come mai sempre i soliti volti che propinano i soliti argomenti nei soliti salotti.
L'intellettuale torinese del Settecento. Chi è Giuseppe Baretti, il padre del giornalismo culturale militante in Italia. Filippo La Porta su Il Riformista il 17 Dicembre 2020. Sapete chi è il padre del giornalismo culturale e della critica letteraria militante in Italia? L’intellettuale settecentesco Giuseppe Baretti, torinese, cosmopolita, spirito libero dotato di verve polemica e vigore dello stile, con il senso dell’ironia e del paradosso (a lui, alla sua onestà e indipendenza di giudizio intitolò una rivista Piero Gobetti!). Per le sue peregrinazioni e i suoi viaggi in mezza Europa in cerca di fortuna, appartiene di diritto alla famiglia degli intellettuali avventurieri, del tipo di Lorenzo Da Ponte (a Londra, oltre a dirigere un teatro italiano e a scrivere dizionari e saggi, venne anche coinvolto in una rissa di strada, dove per difendersi uccise uno col coltello). Di tutto questo si è parlato nel “Seminario su Lingua e stile in Giuseppe Baretti”, organizzato dal Comitato Nazionale per le celebrazioni dei trecento anni dalla nascita di Giuseppe Baretti”, presieduto da Daniela Marcheschi. Baretti, di famiglia borghese, dopo incerti tentativi in architettura e giurisprudenza, comincia a scribacchiare (mediocri) poesie comico-burlesche e a trent’anni si stabilisce a Londra, dove conosce il meglio della intellettualità, da Fielding al dottor Samuel Johnson. Torna in Italia dopo dieci anni e fonda a Venezia la rivista quindicinale “La frusta letteraria”, su modello di quelle inglesi poi chiusa con atto censorio (rivista simile fu il “Caffé”, milanese, ma più illuminista, meno rissosa e personalizzata). Con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, fingendosi un ex soldato con una gamba di legno che legge (e frusta) tutte le novità letterarie, la rivista se la scrive interamente da solo (come nel ‘900 Kraus con “Die Fackel”): recensioni, articoli, invettive, polemiche, dialoghetti (con un interlocutore immaginario, il curato don Petronio), risposte a false lettere. Un fuoco di artificio di invenzioni e provocazioni. Baretti fa incontrare la critica letteraria con la satira culturale e il saggio alla Montaigne: suo bersaglio è l’accademismo, i cruscanti, il formalismo e la frivolezza dell’Arcadia, in nome di una letteratura «combattiva e concreta», e di «cose naturali, cose belle, cose grandi» dette «con semplicità, con forza, con entusiasmo». Possiamo disapprovare i suoi giudizi – stronca Boccaccio e Goldoni ed esalta Benvenuto Cellini («uomo ignorantissimo») e Metastasio – , a volte può apparirci troppo lunatico o spavaldo, ma Baretti non delude mai perché comunque senti sempre la relazione tra questi giudizi e il suo carattere (idiosincratico). Alla fine si impone lui stesso come straordinario personaggio letterario (un po’ come succede con le recensioni di Pasolini). Le “verità” di Baretti possono essere respinte ma sono verità vissute: ti costringe a confrontarti con la sua esperienza, e dunque a mettere in gioco la tua. Con la “Frusta” inventa anche un pubblico, e lo fa attraverso una lingua colta e non erudita, vivace e comunicativa, duttile e moderna, impastata di parole ricercate, gerghi popolari, latinismi, prestiti da lingue straniere (ne conosceva quattro o cinque). O meglio: prova a snidare quel pubblico da una società come quella italiana del ‘700, afflitta dai suoi endemici problemi di ritardo e ancora distante dalla modernità, lo aiuta a formarsi. In quel periodo, con la fioritura di giornali e riviste, nasce in Occidente l’opinione pubblica: per la prima volta il letterato deve rendere conto a un pubblico (non è più l’accademico o il cortigiano), e ciò lo responsabilizza: ha l’obbligo di essere “interessante”, non può più contare su una rendita di posizione. Da allora il giornalismo culturale deve saper affrontare questa affascinante sfida: comunicare tendenzialmente con tutti attraverso una lingua “spettacolare” ma non degradata. Quello di Baretti è un ruolo di mediazione, contro i troppi cattivi mediatori. La critica diventa genere letterario a sé stante, e il critico, proprio come il romanziere, deve possedere – oltre a buone letture e gusto personale – intelligenza scenica, inventività narrativa, immaginazione sociologica, abilità ritrattistica, intuito psicologico, visione “politica” in senso lato (cognizione delle forze in campo), sensibilità per la lingua. Suo obiettivo è smascherare la «brutta impostura», attaccare «rabbiosamente» i libri del suo tempo: «commedie impure, tragedie balorde, critiche puerili, romanzi bislacchi, dissertazioni frivole…». Chi sono i suoi eredi nell’Italia contemporanea? Mi limito a un solo esempio: l’esperimento della rivista “Diario” (1985-1993), fondata da Alfonso Berardinelli e Piergiorgio Bellocchio e da loro interamente scritta. Memorabile, e di involontaria ispirazione barettiana, la stroncatura che scrisse Bellocchio – con una satira finissima e costruita magistralmente – del Nome della rosa di Eco («Un’eco è un’eco è un’eco è un’eco…»), presentato da un cameriere a un cliente come insipida Zuppa Medievale, che contiene tutte le zuppe: «è l’Aleph delle zuppe». Non sappiamo se saremo in grado, come Aristarco Scannabue, di intercettare il «flagello di cattivi libri» che oggi si stampano, e di scriverne schiettamente, «senza raggiri di frasi». Certo l’ostinato, intrattabile Aristarco Scannabue, poteva farlo perché si era un po’ ritirato dalla vita mondana, dai riti sociali e dai luoghi del potere. Questo il gesto decisivo. Ritirarsi, separarsi, e in mancanza di interlocutori inventarseli. Solo in questa vocazione misantropica il critico intellettuale e il giornalista culturale possono fondersi con l’intellettuale eretico, e denunciare l’impostura.
Flores d'Arcais rassicura: "Non moriremo". Elkann chiude Micromega, la "nuova Repubblica" scarica la storica rivista della sinistra. Carmine Di Niro su Il Riformista il 14 Dicembre 2020. Bastano tre righe per cancellare la storia di una rivista che, a sinistra, è stata sin dalla sua nascita nel lontano 1986 un punto di riferimento. Il gruppo Gedi, passato nel novembre del 2019 dalla famiglia De Benedetti agli Agnelli-Elkann, ha messo fine all’esperienza di Micromega, il bimestrale “per una sinistra illuminista” che soprattutto negli anni più forti dell’antiberlusconismo, dai girotondi al "popolo viola", era diventato un riferimento con i suoi interventi sulla politica. Il passaggio da De Benedetti a John Elkann si vede anche in questo, nella lettera di tre righe firmata da Corrado Corradi, direttore generale della divisione stampa nazionale di Gedi, inviata al direttore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais. “Gentili Signori, vi informiamo che dalla data del 1º gennaio 2021, Gedi Gruppo Editoriale S.p.A. cesserà la pubblicazione del periodico MicroMega. Cordiali saluti”, è il messaggio che pone fine ad un’epoca. Ma lo stesso Flores d’Arcais, che in 34 anni di direzione ha ospitato articoli di firme storiche come Stefano Rodotà, Dario Fo, Franca Rame, Antonio Tabucchi e tanti altri, in sole 24 ore ha risposto alla chiusura non mollando la presa, anzi. Micromega non morirà e il suo direttore ha annunciato sul sito web che “MicroMega continuerà a vivere, e che con i redattori e i collaboratori stiamo già studiando le modalità per non interrompere la continuità della testata, anche se il numero in uscita il prossimo giovedì 17 dicembre, un almanacco di filosofia dedicato alla biopolitica, sarà l’ultimo edito da Gedi”. La chiusura, o meglio l’uscita, di Micromega dall’universo Gedi segna ancora una volta il distacco ormai evidente della vecchia Repubblica da quella nuova a firma Molinari-Elkann. Un mutamento che ha provocato malessere e rabbia, si guardi alle uscite dal gruppo di firme storiche o importanti come Gad Lerner, Bernardo Valli, Alessandro Gilioli, Enrico Deaglio, Pino Corrias e Luca Bottura. Ma il segno del cambiamento arriva anche dai nuovi “Valori e missione editoriale di Gedi”, come il direttore Maurizio Molinari ha chiamato la lettera di cinque pagine destinata a tutti i giornalisti del gruppo Gedi. Per Molinari infatti chi lavora nel gruppo Gedi “deve avere equilibrio nel riportare le notizie, distanza critica rispetto ai fatti, evitare ogni forma di militanza”. Nulla a che vedere con il pensiero del fondatore di Repubblica, quell’Eugenio Scalfari che sulla professione del giornalista diceva che “il modo migliore per realizzare l’oggettività della professione è mostrare apertamente il proprio punto di vista. Se sono una voce della sinistra italiana, lo dico prima”.
Dagospia l'11 dicembre 2020. Il documento sulla missione del gruppo GEDI inviato a tutti i giornalisti del gruppo. La nostra identità è nella responsabilità verso i lettori, negli obblighi di correttezza e trasparenza verso la nostra comunità intellettuale, nel nostro diritto di informare come nel diritto dei lettori di essere informati. La nostra buona fede è nel cercare la verità senza compromessi. La nostra umiltà è nel riconoscere gli errori e la nostra disponibilità è a correggerli. Il nostro dovere è di garantire il pluralismo delle idee e delle opinioni nel solco della nostra identità, che è quella di un gruppo editoriale che si fonda sui valori dell’Europa e dell’Occidente, della democrazia liberale e della laicità dello Stato. Ci lavora nel Gruppo Gedi deve avere equilibrio nel riportare le notizie, distanza critica rispetto ai fatti, linguaggio comprensibile ed inclusivo, capacità di sorprendersi, curiosità per l’innovazione. Deve credere nello studio, conoscere il proprio pubblico di riferimento, evitare ogni forma di militanza, essere aperto alla comunicazione su ogni piattaforma, rispettare i lettori e valorizzarne il feedback.
Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 17 settembre 2020. Non c'è dubbio che le cure linguistiche prestate al paziente «Boss in incognito» hanno avuto successo: il racconto scorre più fluido e la presenza «in loco» di Max Giusti contribuisce non poco a dare vivacità agli episodi (Rai2, martedì, ore 21.20). Com' è noto «Boss in incognito» ha tutta l'apparenza di una sorpresa: le telecamere arrivano in un'azienda con un pretesto. Si sta girando un documentario per la Rai per aiutare a ricollocare alcune persone che hanno perso il lavoro a causa del Covid, sottoponendole a un training di una settimana. Protagonista della seconda puntata è stato Carlo De Riso, amministratore di Costieragrumi, azienda leader nella produzione di limoni Costa D'Amalfi Igp. Ha sposato Anna, di famiglia nobile, nonostante le ostilità della famiglia della signora (si sono ricreduti solo quando Carlo, il re del limoncello, ha messo su l'impresa). Lo hanno rasato a zero, gli hanno messo una barba e lo hanno spedito a fare l'operario fra i suoi operai (nonostante il trucco e parrucco, un operaio lo ha riconosciuto). Il finale è sempre il solito: l'imprenditore si mostra comprensivo, illuminato e pieno di umanità e di assegni premio. Gli operai, al netto di qualche piccolo sbaglio, sono tutti dei gran lavoratori e spesso hanno alle spalle storie commoventi. Mai trovato uno a rubare o a fare il lazzarone! Ora, senza fare i moralisti e gridare allo scandalo, è chiaro che il programma dovrebbe chiamarsi «Pubblicità in incognito». Siamo di fronte a uno spottone di due ore che farebbe comodo a tutte le aziende: in termini tecnici si chiama «branded content». Nessun problema se questo programma (che, ripeto, non è niente male) andasse in onda su una tv commerciale, ma qui siamo su una rete del cosiddetto servizio pubblico e, quanto meno, lo spettatore dovrebbe essere avvertito all'inizio che ci troviamo di fronte a una raffinata forma di pubblicità.
Studio Aperto, Andrea Giambruno (compagno di Giorgia Meloni) nuovo conduttore. Marco Leardi martedì 15 settembre 2020 su Davidemaggio.it. Fratelli d’Italia…1. Novità alla conduzione di Studio Aperto: ieri alla guida del notiziario diretto da Andrea Pucci, nell’edizione delle 18.30, ha debuttato Andrea Giambruno, da anni compagno dell’onorevole Giorgia Meloni. Il 39enne giornalista milanese non è un nuovo arrivato a Mediaset, dove lavora in pianta stabile ormai da anni. Recentemente era in forze a Tgcom24. Nella sua carriera, dopo una laurea in filosofia, Giambruno è stato autore per Mtv, poi a Mediaset ha lavorato a programmi quali Kalispera di Alfonso Signorini, Mattino Cinque, Quinta Colonna e Stasera Italia. Proprio dietro le quinte di un programma Mediaset conobbe casualmente l’attuale compagna e leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, dalla quale ha avuto una figlia – Ginevra – nata nel 2016. Più recentemente il giornalista conduceva le edizioni serali e notturne di Tgcom24, il canale all news diretto da Paolo Liguori. Ora il passaggio a Studio Aperto e, ieri (14 settembre) il debutto nell’edizione principale del medesimo notiziario. Per il tg di Italia1 è stata una piccola rivoluzione, visto che le presenze femminili alla guida del telegiornale erano diventate ormai prevalenti (per non dire esclusive) da tempo. Andrea Giambruno ha fatto il suo esordio dietro la scrivania del Tg di Italia 1 il 14 settembre, nell’edizione pomeridiana delle 18,30. Reduce da un percorso come autore di programmi Mediaset e la conduzione delle edizione serali e notturne a TgCom24, Giambruno ha una relazione con l’onorevole di Fratelli d’Italia dal 2015. L’anno dopo è nata la figlia, Ginevra.
Andrea Parrella su tv.fanpage.it martedì 15 settembre 2020. C'è un nuovo volto a Studio Aperto, quello di Andrea Giambruno, il giornalista che ha condotto per la prima volta il telegiornale di Italia 1 delle 18,30 il 14 settembre. Una novità importante, quella della conduzione al maschile di Studio Aperto, visto che il Tg ha scelto di optare prevalentemente per volti femminili alla conduzione negli ultimi anni. Il giornalista, che ha fatto il suo esordio dietro la scrivania della testata diretta da Andrea Pucci, oltre ad essere autore di diversi programmi di Mediaset negli ultimi anni, tra cui i principali talk show politici, è compagno dell'onorevole Giorgia Meloni. Il giornalista 39enne, laureato in filosofia, lavora per la televisione da diversi anni, ma fino ad ora era stato sempre dietro le quinte, lavorando prima come autore per Mtv, per poi passare a Mediaset negli anni successivi, dove ha lavorato ancora alla parte autorale per programmi come Kalispera, programma di qualche anno fa condotto da Alfonso Signorini, per poi passare in rassegna i programmi del daytime, del preserale e della prima serata, da Mattino Cinque a Quinta Colonnta, fino a Stasera Italia. Recentemente aveva lavorato per la redazione di Tgcom24, la testa diretta da Paolo Liguori dove conduceva le edizioni serali e notturne, poco prima del passaggio a Studio Aperto. L'incontro con Giorgia Meloni ha a che fare con la televisione, visto che proprio dietro le quinte di un programma i due si conobbero circa cinque anni fa. Il 30 gennaio del 2016, a circa un anno dall'inizio della loro storia, l'attuale leader di Fratelli d'Italia partecipava al Family Day, dichiarandosi contro il ddl Cirinnà e i diritti delle coppie omosessuali. In quella stessa occasione Giorgia Meloni annunciò di essere incinta del suo compagno. La figlia, Ginevra, è nata nel 2006.
Andrea Giambruno, il compagno di Giorgia Meloni debutta alla conduzione di Studio Aperto: promosso. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 settembre 2020. L'apertura sul generale Haftar, il volto oscuro della Libia che intima di restituirci i pescatori sequestrati in mare solo in cambio dei suoi scafisti spacciati per calciatori della Nazionale. E poi Putin che riempie di soldi il dittatore bielorusso. E l'imprescindibile avvicendamento nel partito democratico giapponese. Deve avere una passione per gli Esteri, Andrea Giambruno. Eppure, in piedi american style, con la sua bella giacca blue lucido su cravatta bordeaux Giambruno è il nuovo anchorman di Studio Aperto, dove si produce in una conduzione misurata del tg. In altri casi, sarebbe una non-notizia. Se Giambruno, classe '81, milanese, giornalista di lunga gitatta e provata gavetta, non fosse il compagno di Giorgia Meloni nonché il padre della di lei figlioletta Ginevra. I giornali di gossip si sono nutriti spesso di Giambruno, delle sua discreta presenza, del suo essere quasi ghost writer della vita della prima papabile candidata premier d'Italia («Lo diventerà. L'Italia ha più bisogno d'ordine interno che esterno attualmente, anche se lei nel centrodestra è quella che ha le migliori relazioni internazionali», dice lui di lei). Eppure, dopo variegate esperienze tra Mattino 5, la Quinta Colonna di Del Debbio, Matrix e le lettura notturna delle notizie al TgCom, che Giambruno approdi per meriti esclusivamente giornalistici ad uno dei tiggì più storici del Biscione; be', può essere degno di nota. Giambruno a Italia uno rientra nell'operazione di maquillage e contenuti che Andrea Pucci direttore delle testate Mediaset sta testando per i vari tipi di pubblico. Per esempio, in controtendenza, su Rete4 sono entrati in conduzione ben quattro rinomati professionisti contemporaneamente (tra cui Stefano Messina. Giuseppe Brindisi e Luca Rigoni); e quest' innesto dà una forte connotazione maschile ad una rete ad alta concentrazione di pubblico femminile. Provare Giambruno come nuovo volto è un'operazione che ha varie letture. La prima è, come, si diceva, quelle di un certo eclettismo professionale. Il collega Giambruno è passato indenne dalle forche caudine sia del giornalismo tradizionale che dell'autorato popolare nella sana tradizione dell'infotainment Mediaset di "tutti i colori della cronaca" (roba inaugurata, decenni orsono, da Giorgio Medail e consolidata dal Verissimo di Carlo Rossella): quindi è in grado di approcciare le notizie con tecnica modulare. La seconda è che Giambruno, volutamente mai sotto i riflettori ma per nulla intimorito dalla presenza della compagna («Nella coppia l'uomo sono il, non faccio il mammo. non so neppure fare da mangiare») possiede doti di spin doctoring - forse anche inconsapevoli- ; dato che, da quando sta con lui, la Meloni è cresciuta anche nell'immagine e nell'impatto mediatico, oltre che incredibilmente nei consensi. In più, con quella sua presenza da "uomo del popolo che ce l'ha fatta" (ha fatto il liceo, è laureato in filosofia) Giambruno diventa finanche un'astuta risorsa che Mediaset, in una fase di cambiamento e progressivo ricambio generazionale, può capitalizzare. Nel bene o nel male, da tener d'occhio..
Matteo Salvini, dopo In Onda un maxi-sfregio a Luca Telese e David Parenzo: "I giornalisti più faziosamente sinistri d'Italia". Libero Quotidiano il 25 agosto 2020. Dopo la diretta con In Onda, Matteo Salvini si sfoga. Con ironia il leader della Lega commenta così l'ospitata su La7: "Per non arrabbiarsi con due dei giornalisti più simpaticamente e faziosamente sinistri d’Italia (Telese e Parenzo stasera su LA7, non so se avete seguito...) occorre la pazienza del pescatore". Non solo, per rincarare la dose l'ex ministro al suo cinguettio ha voluto rincarare la dose con tanto di foto che lo ritrae al mare intento a pescare. "Mi ha dato del troglodita da voi". A In Onda la Azzolina scalda gli animi, quella parolina di Telese che scatena Salvini. Non è una novità che, durante le puntate con personaggi contrari alla linea tenuta da Luca Telese e David Parenzo, i due mettano i bastoni tra le ruote. Tra gli ultimi ospiti che hanno subito tale trattamento anche Annalisa Chirico, interrotta in continuazione solo perché la pensa diversamente.
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'11 luglio 2020. Lo sfogo di Sinisa Mihajlovic dopo Bologna-Sassuolo 1-2 di mercoledì è stato molto pesante. Di mezzo c' era la rabbia per la sconfitta ma, soprattutto, quella non ancora sbollita per il modo in cui, secondo il tecnico rossoblù, Sky Sport ha trattato la vittoria 2-1 del Bologna a San Siro con l' Inter domenica scorsa: «È stata una vergogna, sembrava Inter channel», ha tuonato Sinisa. Proviamo a ragionare, lasciando da parte polemiche, irrisioni e apprezzamenti personali. La verità è che i canali sportivi, soprattutto quelli a pagamento, danno solo spazio alle grandi. Lo abbiamo scritto anni fa cercando di analizzare le coperture dei ritiri estivi. Juve, Napoli, Roma, Lazio, Milan, Inter hanno il cronista al seguito, una sorta di attrazione locale come il famoso cartello «Benvenuti a Twin Peaks». Se accendo il televisore per avere informazioni del Toro, sento solo nominare Trigoria, Cantinassa, Milanello, Appiano Gentile, Castel Volturno, Formello e riconosco i volti Sky «dedicati» a quelle squadre: sempre i soliti, soldatini fedeli. Non sento quasi mai Torino, stadio Filadelfia. Per noi che tifiamo squadre non di alta classifica è una continua sofferenza, come se non esistessimo, come se fossimo considerati semplici sparring partner. In realtà non è solo la classifica a determinare l' attenzione e gli spazi. Per una pay-tv vale molto di più il cosiddetto bacino d' utenza, essendo facile calcolare il numero di abbonati che seguono le singole squadre. E sappiamo bene quanto ormai il calcio sia figlio della tv. È un criterio poco «sportivo», che rischia di innescare un pericolo circolo vizioso, ma business is business. Una volta si diceva che gli arbitri soffrissero di un male endemico, la «sudditanza» nei confronti delle grandi squadre (di una, in particolare); adesso dello stesso male soffrono i canali sportivi? Che ne pensa Marco Bucciantini, che non è certo figlio del bacino d' utenza?
La missione del Manifesto: difendere il governo Conte sempre e comunque. Frank Cimini su Il Riformista il 17 Luglio 2020. «L’accordo raggiunto, con un iter complesso ma abbastanza delineato, smentisce quanti, da subito dopo la strage fino a ieri, hanno sostenuto che nulla poteva essere fatto contro le stratosferiche, miliardarie penali che lo Stato sarebbe stato costretto a pagare ai miracolati concessionari. Con qualche ragione, i 5Stelle rivendicano il ruolo di protagonisti della battaglia, ma l’esito della vicenda può attribuirselo anche il partito di Zingaretti». Questo scrive la direttrice del Manifesto Norma Rangeri e si tratta del secondo editoriale in due giorni a strenua difesa del governo in carica. Sono parole che fanno pendant con il famoso appello degli intellettuali secondo i quali l’attuale esecutivo non avrebbe alternativa e bisogna tenerselo stretto. Insomma abbiamo una sorta di “governo dei soviet” mentre “Giuseppi” sarebbe il Lenin del terzo millennio. I migranti continuano a morire in mare senza che qualcuno li soccorra in modo decente. Il ministro dell’Interno preannuncia che in autunno la crisi economica causata dal Covid provocherà tumulti di piazza e che il governo è pronto ad affrontare il tutto come un problema di ordine pubblico. Del resto le procure in conferenza stampa si vantano già adesso di procedere ad arresti per associazione sovversiva “nell’ambito di una strategia di tipo preventivo” anche se poi almeno a Bologna hanno dovuto fare i conti con un Riesame pronto a ricordare che la Cassazione per quel reato aveva fissato paletti ben precisi che nessuna emergenza può consentire di ignorare. Ma di questo sul manifesto non si trova una riga. Invece si scrive tutti i giorni che “se no arriva Salvini”. Il lavoro di Salvini lo sta facendo egregiamente (si fa per dire) il governo attuale. Al punto che gli interventi dell’ex ministro leghista che sollecita la chiusura dì qualsiasi comitato antagonista ormai sfioriscono al confronto. Del ministro della Giustizia che con gli ispettori tenta di reprimere i giudici che scarcerano qualche mafioso per ragioni di Covid non si parla. Le cariche di polizia e carabinieri contro i lavoratori del logistico in sciopero per i licenziamenti sono confinate in poche righe. Il manifesto garantista è da tempo un lontano ricordo. Del resto aveva anche celebrato come “eroe” il procuratore Borrelli. Adesso fa a gara con il Manette Daily a chi supporta meglio l’esecutivo. Ma almeno il giornale di Travaglio ha beneficiato di un prestito bancario garantito dallo Stato. Il manifesto invece lo fa perché ha deciso che questa è la sua missione… Aridatece Rossana Rossanda!
Augusto Minzolini contro Travaglio: "Dopo aver incassato i 2 milioni, ha trasformato Il Fatto nella Gazzetta Ufficiale di Conte". Libero Quotidiano il 24 luglio 2020. Chi segue Augusto Minzolini sa bene quanto non stimi, eufemismo, Marco Travaglio. E questo sentimento emerge in modo prepotente in un retroscena firmato da Minzo sul Giornale, in cui si parla di Giuseppe Conte, in piena "sindrome da potere", in cui insomma si parla di come si sia galvanizzato (o montato la testa?) dopo l'accordo a Bruxelles sul Recovery Fund. Ecco, secondo Minzolini c'è solo una persona che esulta in modo ancor più scomposto: il direttore del Fatto Quotidiano, appunto. "Ma chi ha davvero perso la testa, e magari pure la faccia, è il consigliere del principe, Marco Travaglio - scrive -: grato per i due milioni di euro ricevuti dal suo giornale come contributo alle imprese, ha trasformato il Fatto nella Gazzetta ufficiale di Palazzo Chigi", picchia durissimo Minzolini. E ancora, sempre su Travaglio: "Al personaggio, si sa, piace primeggiare: per cui da recordman mondiale di querele per diffamazione, si è trasformato in pochi mesi nel primo adulatore del premier senza pudore, al cui cospetto Ugo Intini, nel dirigere all'epoca l'Avanti!, appare oggi come un anarchico nel Psi di Bettino Craxi, mentre il compianto Sandro Fontana, per quello che scriveva da direttore del Popolo democristiano, come un feroce oppositore di Arnaldo Forlani. Insomma, i sintomi della malattia ci sono tutti", conclude un Augusto Minzolini particolarmente ficcante.
"Ti piace il governo eh?". Lite Travaglio-Severgnini. Scontro aperto davanti alle telecamere tra Beppe Severgnini e Marco Travaglio. Cosa è successo davanti alle videocamere. Franco Grilli, Lunedì 15/10/2018 su Il Giornale. Scontro aperto davanti alle telecamere tra Beppe Severgnini e Marco Travaglio. Il direttore del Fatto quotidiano a Otto e Mezzo critica le mosse del Fondo Monetario Internazionale che ha criticato il Def presentato dal governo: "Fmi e Bankitalia "non possono permettersi di dire ai governi quali leggi devono fare, quali devono mantenere, quali non possono cambiare e quali possono cambiare". "Io capisco che a Severgnini non importi niente se alla maggioranza degli elettori italiani garba che vengano riformati il Jobs Act e la legge Fornero e che venga fatto il reddito di cittadinanza, ma purtroppo, fino a quando nella Costituzione ci sarà scritto che la sovranità appartiene al popolo, la sovranità apparterrà al popolo e non a Bankitalia o al Fondo Monetario o a Severgnini o a Travaglio". A questo punto arriva la durissima replica di Severgnini: "È troppo facile per i governi dire: 'Chi vi ha eletto?' - sostiene, facendo riferimento alle parole del vicepremier Di Maio - Questa è la ricetta del peronismo, è un vecchio trucco che funziona". A questo punto arriva subito l'affondo sempre da parte di Severgnini: "Marco e io ci conosciamo da tanti anni e questa sua versione filogovernativa mi mancava, devo ammetterlo, devo dire che mi colpisce". Travaglio a questo punto sbotta: "Io non sono affatto filogovernativo. Smettila di fare la caricatura e rispondi alle cose che ho detto. Io ho detto che questo governo si muove come l'armata Brancaleone. Se questo secondo te è filogovernativismo accomodati. Io potrei citare tutte le cose che hai scritto sui precedenti governi, quelli che hanno ingigantito il nostro debito e che tu descrivevi come i salvatori della patria". Poi, grazie anche all'intervento della Gruber è tornano il sereno in studio.
TRAVAGLIO PADANO. Dagospia il 18 giugno 2020. Da ilazzaro.altervista.org/ - articolo del 6 aprile 2013. Googolando tre le pagine della rete, ho scoperto, oggi, qualcosa che mi ha stupito ma fino ad un certo punto. Ovvero un passato da giornalista della Padania per il vice direttore del Fatto Quotidiano: Marco Travaglio. La notizia fu rivelata, un paio di anni fa, dal quotidiano il Giornale che cosi racconta il passato "verde di Travaglio: Correva l'anno 1997 e Marco Travaglio scriveva sulla Padania. Lui, quello che ora sulla Lega e dintorni di riti padani spara bordate dalla prima pagina del Fatto quotidiano, all'epoca troneggiava sulla prima pagina dell'organo di partito leghi.. Dal primo numero. Pardon. Dal numero zero.
Lo avevano chiamato II Nord, lo distribuirono il 15 settembre 1996 sul Po, edizione speciale per un'occasione storia: la nascita della Padania. Un progetto affidato a Daniele Vimercati, grande giornalista che tra i primi comprese la portata del fenomeno Lega «Daniele studiò quel progetto per un quotidiano d'area - racconta Gianluca Marchi, primo direttore della Padania Raccolse finanziamenti da 4 imprenditori, con mezzo miliardo l'uno, ma servivano più soldi. Il Nord non si fece più, nacque il giornale di partito, che Daniele rifiutò perché non voleva incarichi di partito». (Il Giornale).
Ed ancora: Marco Travaglio può dire senz'altro: io c'ero. Per la precisione alle pagine 4 e 5 Chissà se ha giurato, lui pure. A giudicare dall'entusiasmo di quella doppia pagina, forse sì. Titolone della parte superiore: «L'Umberto è un mitomane», con dentro tutte le dichiarazioni dei detrattori della neonata patria padana. Nella parte sotto, l'altra metà del titolo: «Ma una volta era un mito», con carrellata di tutti coloro che, negli anni precedenti, avevano lodato il Senatùr. Uno spaccato divertente, rivisto col senno di poi. Giorgio Bocca per esempio diceva: «Odiare la Lega è da cretini, la fobia per la Lega è cretina», e poi ribadiva: «La Lega non ha creato il cambiamento, la Lega è il cambiamento». Massimo D'Alema, ormai si sa: «Dobbiamo allearci con Bossi nel nome di Prodi, la Lega è una nostra costola». Prodi concordava: «Possiamo fare un accordo forte e trasparente». Opti in ordine sparso: Santoro che dice a Demattè che «senza Lega lei non sarebbe qui e nemmeno noi», Franco Zeffirelli per il quale «i leghisti sono le sole persone pulite che esistono oggi», Gianni Agnelli secondo cui «chi ha votato Lega è persona ragionevole e attenta al nuovo». (Il Giornale)
Poi il ricordo della partecipazione al quotidiano: Dopo quel tributo sul numero zero, l'attuale vicedirettore del Fatto aveva preso a collaborare con il neonato quotidiano La Padania. Il primo numero è datato 8 gennaio 1997. «Era uno dei nostri collaboratori, gratis, col nome di Calandrino» ricorda Marchi. Travaglio compare già il 12-13 gennaio, edizione unica per la domenica e il lunedì, e va avanti per almeno un paio di mesi, con un articolo ogni due-tre giorni. Non una firma qualsiasi lo sua. «Calandrino» si era meritato una rubrica, anzi due: «il punto» e «il personaggio». Scriveva in modo meno sferzante di oggi e ancora non si dilettava a storpiare nomi e inventare soprannomi approfittando dei difetti fisici delle persone. Ma il giustizialismo era già nelle sue corde, se il primo articolo lo ha dedicato a «L'idea di Flick: salvare i ricchi dal rischio cella». L'antiberlusconismo era già una fissa, «Lo statista di Milanello» lo demoliva il 18 gennaio. E la dissacrazione era già il suo sport preferito da Francesco Storace definito «simpatico refuso di An noto per l'eloquio forbito e il ragionamento sottile» a Ripa di Meana, «uomo per tutte le poltrone» che «privo di cadreghino addirittura da un mese, ha trovato pace: è il nuovo segretario di Italia nostra». Fino a Buttiglione e Casini «piccioncini della Sacra Famiglia Unita», l'uno «di qua con la colf Formigoni», l'altro «di là con la portinaia Mastella». E poi i ritratti, da Franco Carrara «il nuovo che è avanzato» a donna Letizia (Moratti) «detta Lottizia dopo memorabili imprese Rai». (Il Giornale)
La libertà di stampa. Dal governo 2,5 milioni a Travaglio, dopo l’Eni il Fatto diventa sempre più giornale di regime. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Giugno 2020. Il Fatto Quotidiano ha ricevuto un finanziamento di due milioni e mezzo garantito al 90 per cento dallo Stato. Cioè garantito dal governo Conte. Lo ha ottenuto utilizzando uno degli ultimi decreti del governo, quelli che hanno come scopo il salvataggio delle nostre imprese colpite dal virus e dal lockdown. In realtà i giornali sono tra i meno colpiti dal lockdown, ma Il Fatto, probabilmente potendo contare su una certa simpatia a Palazzo Chigi, è riuscito a intrufolarsi e a mettere in tasca i soldi. Spesso ci era capitato di leggere che Il Fatto è contrario agli aiuti pubblici all’editoria. Noi no. Noi siamo favorevoli agli aiuti pubblici. Però non li riceviamo. Il Fatto è contrario e li riceve. Succede…La notizia del colpaccio del giornale di Travaglio (che segue la conquista della Presidenza dell’Eni da parte di una delle amministratrici del giornale) l’ha data Nicola Porro nel suo blog. In toni abbastanza divertiti, Porro ha fatto notare che Il Fatto esce da un’annata nera, sul piano economico, avendo chiuso il 2019 con un passivo di un milione e mezzo, e fa parte di un settore dell’imprenditoria non molto florido in questa fase, e che dunque, in condizioni politicamente neutre, sarebbe molto molto difficile per chiunque ottenere un prestito per di più di questa notevole entità. E allora? Beh, magari se sei un giornale normale il prestito non te lo do, se invece sei il giornale della magistratura e per di più, ora, il giornale di Palazzo Chigi, perché non farti un favore? È il nuovo corso, ragazzi: Eni, Unicredit e vedrete che presto verrà anche qualche altra cosa. Curioso che, in questo clima, Il Fatto si sia scagliato contro la Fiat che aveva anche lei chiesto di potere usufruire del decreto. “Figli e figliastri…”. Noi comunque facciamo a Travaglio e ai suoi ragazzi i nostri auguri sinceri. Non siamo affatto invidiosi. Poi, sai, se non c’è rilevanza penale…
Testo di Cinzia Monteverdi, Presidente e ad SEIF, per il Fatto Quotidiano il 15 giugno 2020. Il Fatto Quotidiano non ha mai ricevuto, né sta ricevendo, né riceverà un euro di finanziamento pubblico. Siamo costretti, a seguito di "notizie" uscite su siti come Dagospia, quotidiani come il Giornale, Libero, il Riformista e programmi tv come In Mezz' ora di Lucia Annunziata, a spiegare un finanziamento richiesto nei giorni scorsi all' istituto di credito Unicredit da parte di SEIF (Società Editoriale Il Fatto). Non abbiamo motivo, neppure in questo momento, di accedere ad alcun finanziamento pubblico né tantomeno a prestiti garantiti dallo Stato come quelli previsti dalle misure eccezionali varate dopo la pandemia per i soggetti colpiti. Per quanto queste ultime siano sacrosante per aiutare tante aziende in difficoltà, SEIF non le ha richieste. Ci siamo limitati a chiedere un finanziamento a Unicredit per investimenti in immobilizzazioni, perché riteniamo che la crisi economica che attraversa il Paese potrebbe colpire diverse categorie con cui operiamo, a prescindere dai nostri buoni risultati: distributori, edicolanti, investitori pubblicitari e concessionarie potrebbero avere bisogno di tempo per liquidarci il dovuto. Pertanto mettiamo in conto per i prossimi mesi un oggettivo rischio finanziario (di liquidità) che potremmo essere costretti a coprire. Abbiamo anche ritenuto inopportuno un accesso a capitali sul mercato tramite Borsa, attualmente non conveniente. Stiamo crescendo, in controtendenza rispetto al periodo storico, e stiamo pensando al futuro, come promesso. Il nostro piano di investimenti non si fermerà. Il finanziamento rientra nella legge 662 del 1996. È un normalissimo finanziamento bancario che, come da prassi in caso di destinazione a investimenti, è garantito dal Medio Credito Centrale. Dunque è falso che abbiamo chiesto un finanziamento pubblico, che prendiamo soldi dallo Stato, che riceviamo favori dall' attuale governo: semplicemente perché non è vero. Chi continuasse in questa mistificazione senza rettificare le diffamazioni diffuse per infangare il Fatto, ci costringerebbe ad adire le vie legali e ne risponderebbe in Tribunale.
DAGO-RISPOSTA: Gentilissima Monteverdi, questo disgraziato sito è stato colto in fallo dal comunicato che la Sua Eccellentissima azienda ha diffuso la settimana scorsa, in cui si parlava di un finanziamento garantito da Cdp. Poiché Cdp controlla Sace, deputata a garantire i finanziamenti alle imprese in difficoltà durante la pandemia, siamo giunti alla conclusione che si trattasse di uno di questi finanziamenti. In seguito è stato emesso un secondo comunicato, in cui si parlava del Medio Credito Centrale, lo stesso ente da lei menzionato in questa nota, che a quanto ci risulta è controllato al 100% da Invitalia, che a sua volta ha un socio unico che si chiama Ministero del Tesoro. Dunque siamo felici di prendere atto che la SEIF chiede un finanziamento garantito da un ente controllato e finanziato dallo Stato, solo non sulla base dell'ultimo decreto bensì di una legge del 1996. Ora cambia tutto.
Renato Farina per Libero Quotidiano il 15 giugno 2020. Marco Travaglio è uno di noi. È entrato quatto quatto nel club dei beneficati dello Stato come un furbo gattone, fischiettando per non farsi riconoscere. Il suo Fatto quotidiano ha chiesto e ottenuto l' aiuto di Stato, per di più insaccocciato infilandosi nel novero dei bisognosi strozzati dal Covid-19. La società di cui è azionista, la Seif, quotata in borsa, e il cui vero patrimonio è Travaglio stesso, vero capitale umano (e anche un po' disumano) del Fatto, di cui è direttore d' orchestra, primo violino e primissimo trombone, ha approfittato del decreto, ha chiesto e ottenuto un prestito da due milioni e mezzo di euro da Unicredit con garanzia dello Stato al 90 per cento. Cioè, se dovesse andare a gambe all' aria la ditta, nessuno andrebbe a pignorare la sua macchina per scrivere e il suo computer, e neppure gli attrezzi a lui carissimi per il karaoke, ma ce li metteremmo tutti noi contribuenti. Così va il mondo. Dopo essere diventato editore, medio imprenditore italiano, come direbbero i suoi amici e aficionados del Movimento 5 Stelle, Marcolino è diventato un "prenditore". Dicevano che era un mostro, insensibile ai morsi della fame e della sete (di denaro). Alla fine si è abbeverato. Nessuno scandalo. Ma una lezione che possiamo riassumere con un antico slogan pubblicitario: cala Trinchetto, abbassa le alucce Travaglio che ti si spiumano. Marco e i suoi sodali hanno sempre vantato una sorta di immacolata concezione editoriale della loro creatura. Hanno preteso il brevetto della purezza del loro prodotto, avrebbero usato inchiostro candido come la neve se appena appena si fosse potuto leggere, i loro articoli li hanno stampati sulle guance dei lettori come fossero baci di Biancaneve. Nessun inquinamento dovuto a pubblico aiuto, trattato come un furto al popolo a scopo di prostituzione giornalistica. Ah Il Fatto, così diverso, così unico: vergine di quei costumi denunciati come corrotti e ricattatori per cui i quotidiani chiedono e ottengono "provvidenze".
LA PAROLA. "Provvidenze". Questa parola a noi è sempre piaciuta, per la sua intensità etica manzoniana. Cosa c' è di più provvidenziale della libera stampa per impedire la cristallizzazione della democrazia in dittatura del pensiero unico? Ci sono beni strategici persino più dell' acciaio. Guai se si lascia che l'unico criterio sia la brutalità del mercato. Potrebbero permettersi di aver voce solo gli imperi finanziari che se ne fregano delle perdite, perché i quotidiani per loro sono armi di guerra, e danno frutti lontano dalle edicole. In tutta Europa tutti gli Stati, in forme varie, e comunque sempre mettendo mano al borsellino, trovano la maniera di impedire che il campo del giornalismo veda l' egemonia di poche piante carnivore nutrite per servire interessi di élite. Cercano di concimare anche le piantine, in nome di un indispensabile pluralismo. Non ho scritto "libertà" che è un concetto esagerato per descrivere il panorama dei nostri sforzi di penna e di parola. Ma siamo lì.
RIPENSAMENTO. Negli anni scorsi, questo tipo di intervento era stato bollato come diabolico da Beppe Grillo. Al suo seguito Vito Crimi, sottosegretario all'editoria per conto dei grillini fino all' anno scorso, arrivò a un millimetro dal cancellare questa voce dal bilancio dello Stato. Ora stiamo assistendo a un ripensamento, grazie al sottosegretario Andrea Martella. E Travaglio? Non si è espresso a parole ma con gli atti, che valgono più di cento dichiarazioni. Addio al respingimento di ogni aiuto, posto come valore fondativo del Fatto, di cui il primo e ottimo direttore Antonio Padellaro rivendicò il successo, passando il cappello di ammiraglio, con queste parole: «Stiamo a galla senza aiuti pubblici». Marco si è fatto prestare il salvagente dallo Stato. Non lo accusiamo di incoerenza, la vita è complicata, e la morale specie dei moralisti è di circostanza, si adatta. Primum vivere, deinde philosophari. Così Travaglio, dopo aver riempito ieri di fieno la cascina, siamo certi che oggi filosofeggerà che l' aiuto alla sua società è tutta un' altra storia, versando acido muriatico su tutti gli altri meno che su un angolo della propria coscienza. Ma sì, ti perdoniamo. Benvenuto nel club. Come matricola che ha sempre respinto l' ipotesi di allungare la zampetta sull' erario, meriteresti un gavettone; ti starebbe bene un assaggio di nonnismo che è la cerimonia di iniziazione dei pivelli. Ma ci basta la constatazione nuda e cruda di questo tuo infilare pudicamente la mano nelle tasche di Pantalone. Come si chiamava quel personaggio che tu citi sempre del film "I soliti ignoti"? Ah sì: Capannelle. Viva le provvidenze e la libertà.
“Il Fatto Quotidiano non riceve contributi pubblici”… ma poi ottiene un prestito garantito di 2milioni e mezzo. Il Corriere del Giorno il 13 Giugno 2020. Provate ad essere un imprenditore con un bilancio in perdita per 1,492 milioni (questo il risultato del bilancio 2019 della società Editoriale il Fatto ) e con i vostri ricavi caratteristici derivanti dalle vendite crollati nello stesso anno di un milione e mezzo di euro, in un settore non proprio florido come quello dell’editoria, e sopratutto immaginatevi essendo in analoghe condizioni del Fatto di recarvi dal direttore dalla vostra banca e di chiedere un prestito di 2,5 milioni garantito: che risposta potreste ricevere? ROMA – Il quotidiano diretto da Marco Travaglio ha ottenuto ieri un finanziamento erogato da Unicredit, dell’importo di 2 milioni e mezzo di euro con garanzia pubblica quasi totale (al 90%) . Sarà il Fondo di Garanzia a concederla grazie agli ultimi decreti del premier Conte il governo dovrà rifinanziare, secondo notizie di queste ultime ore, aumentando il deficit per poter fare operazioni, appunto come quelle appena deliberate , , . Nel comunicato, che prima incredibilmente prevedeva l’intervento di Cassa Depositi e Prestiti si precisa: “Il contratto di finanziamento prevede il rimborso in n. 60 mesi, inclusivo di un preammortamento di 12 mesi, ad un tasso variabile in linea con gli standard di mercato. Il finanziamento è assistito dalla garanzia concessa dal Fondo Centrale di Garanzia pari al 90% dell’importo”. Quel famoso slogan su cui Travaglio & compagnucci vari hanno marciato per anni, “non riceviamo aiuti pubblici”, adesso non potrà più comparire sulla testata del Fatto Quotidiano, perchè altrimenti sarebbe pubblicità ingannevole, a dire poco….. Cosa è la garanzia dello Stato, per la società editrice de Il Fatto Quotidiano , se non un “chip” messo dal Governo con i soldi dei contribuenti per rendere più garantito un prestito bancario altrimenti inesigibile? Sarebbe molto interessante conoscere il tasso di interesse, applicato da Unicredit che il comunicato indica allineato a quelli di mercato, giusto per poter fare un raffronto con quanto avviene per l’universo mondo delle imprese. Legittimo porsi una domanda molto semplice. Provate ad essere un imprenditore con un bilancio in perdita per 1,492 milioni (questo il risultato del bilancio 2019 della società Editoriale il Fatto ) e con i vostri ricavi caratteristici derivanti dalle vendite crollati nello stesso anno di un milione e mezzo di euro, in un settore non proprio florido come quello dell’editoria, e sopratutto immaginatevi essendo in analoghe condizioni del Fatto di recarvi dal direttore dalla vostra banca e di chiedere un prestito di 2,5 milioni garantito: che risposta potreste ricevere? Ma se vi illudete che il Fatto Quotidiano sia un giornale realmente indipendente infine immaginate di essere voi per una volta al posto di Marco Travaglio e dover commentare il fatto che il giornale oggi più “vicino” al Governo Conte (M5S-Pd -LeU) , ottiene un bel prestito, nonostante i conti societari in profondo rosso, e per di più garantito dal Governo stesso attraverso la longa manu dal Ministero dello Sviluppo economico, retto dal ministro “grillino” Stefano Patuanelli. Cioè da un esponente di quel Movimento 5 Stelle che da sempre vuole togliere i contributi di Legge sull’ Editoria !
Camilla Conti per ''la Verità'' il 12 giugno 2020. Due milioni e mezzo per sostenere il progetto di sviluppo industriale della società. È il prestito che il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio riceverà da Unicredit con la garanzia di Cassa depositi e prestiti. Anzi no, dal fondo centrale di Garanzia. Perché nel primo comunicato diffuso nel pomeriggio di ieri dalla Seif, Società editoriale Il Fatto, si legge che «il finanziamento è assistito dalla garanzia di Cdp pari al 90% dell' importo». Salvo poi rettificare meno di mezz' ora dopo con un' altra nota (dai contenuti identici relativamente agli altri punti) che «il finanziamento è assistito dalla garanzia concessa dal Fondo Centrale di Garanzia pari al 90% dell' importo». Semplice errore o lapsus freudiano, considerando le affinità del direttore del quotidiano con gli alleati grillini del governo Conte? Al netto dell' ironia, va ricordato che Seif è quotata sia in Piazza Affari, sull' Aim, sia sull' Euronext di Parigi. Di certo, la società ha sottoscritto un contratto di finanziamento che prevede il rimborso in sessanta mesi con un preammortamento di dodici mesi a un tasso variabile in linea con gli standard di mercato. In entrambi i due comunicai, quello iniziale e quello rettificato, il direttore finanziario Luigi Calicchia sottolinea che «l' operazione con Unicredit va considerata come un finanziamento bridge necessario a supportare il programma di investimenti in corso, tra l' altro già previsto nel piano industriale aziendale. Visti i trend positivi registrati nel 2020 in termini di volumi e ricavi, imputabili anche agli investimenti effettuati negli ultimi diciotto mesi, si ritiene importante proseguire nell' implementazione del piano di sviluppo dotando la società di adeguate risorse finanziarie». All'assemblea di fine aprile nel libro soci di Seif comparivano l' ex direttore del Fatto, Antonio Padellaro, e la presidente e ad Cinzia Monteverdi con una quota del 16,26% ciascuno, la srl marchigiana Edima srl e la società editrice Chiarelettere con l' 11,34% ciascuno e l' immobiliarista Francesco Aliberti con il 7,35 per cento. Sul fronte dei conti, il gruppo editoriale ha chiuso il bilancio 2019 con un rosso di circa 1,5 milioni (rispetto all' utile di 35.407 euro del 2018) e 540.435 euro di disponibilità liquide. I ricavi sono stati stabili a 31,9 milioni (- 0,17% rispetto al 2018) ma l' Ebitda è sceso del 62% a 1,2 milioni. «Nel 2019 la società ha proseguito il processo di trasformazione digitale già intrapreso, che è alla base del piano industriale triennale, investendo in questa strategia più del doppio dei capitali raccolti in Ipo», si legge nei documenti agli atti. Nel panorama editoriale non è solo il Fatto ad aver chiesto un paracadute pubblico. Come ha scritto La Verità lo scorso 21 maggio, anche Il Sole 24 Ore bussa alla porta delle big del credito per avere un prestito garantito dallo Stato. Aggiungendosi, così, alla già lunga lista di società pronte ad approfittare dei finanziamenti bancari assistiti dal paracadute pubblico previsto dal decreto Liquidità. Il gruppo 24 Ore ha inviato la richiesta per l' ottenimento da un pool di banche di un finanziamento a medio - lungo termine, assistito da garanzia e ha anche chiesto la proroga della linea di cartolarizzazione dei crediti commerciali oltre la scadenza attualmente prevista al 31 dicembre 2020. Basterà? Nel resoconto viene sottolineato che i risultati di queste azioni, pur essendo state avviate a partire dal mese di marzo, si vedranno «a partire dal secondo trimestre che, tuttavia, si prevede rifletterà gli effetti negativi legati al Covid-19 con maggiore intensità».
DAGONEWS il 17 giugno 2020. Dopo la nota dell'ad e presidente della Società Editoriale Fatto Quotidiano, Cinzia Monteverdi, che smentiva di aver ricevuto un prestito garantito dallo stato per poi confermare di aver ricevuto un prestito garantito dallo Stato, solo che da un ente diverso, oggi tocca all'editoriale di Travaglio: "...Un prestito puramente precauzionale per investimenti in immobilizzazioni, cui speriamo di non dover mai attingere, visto che le nostre vendite sono in aumento. Un prestito che la legge 662 del ’96 (24 anni fa, 13 anni prima che nascessimo) ha stabilito fosse garantito dal Medio Credito Centrale, se destinato a investimenti. Intanto, sul web, altri noti peracottari come Nicola Porro, Littorio Feltri, Giuseppe Sottile e la fidanzata di un nostro ex passato a De Benedetti, nonché Lucia Annunziata su Rai3, il Giornale e il solito Dagospia, ripetevano la fake news confondendo una legge del ’96 col recente dl Liquidità e un normale finanziamento bancario (ricevuto in 24 anni da chissà quante centinaia di migliaia di aziende) con un aiuto di Stato, anzi del governo Conte: chi sproloquiando contro le nostre campagne su Radio Radicale (che non chiede prestiti alle banche: vive di soldi pubblici), chi azzardando paragoni con Fca (che, diversamente da noi, ha sede all’estero ma prende prestiti garantiti dallo Stato italiano, essa sì per il decreto Conte, dopo aver poppato fiumi di miliardi dalla pubblica mammella). Così la panzana ha fatto il giro delle fogne del web e l’unico quotidiano che non ha mai preso un euro dallo Stato è diventato un giornale finanziato dallo Stato. Anzi da Conte. Con questi signori ci vedremo in tribunale. Ma è stupefacente come neppure le precisazioni della nostra Ad Cinzia Monteverdi abbiano sortito rettifiche. Buon segno, comunque: i nostri record di crescita devono avere provocato coliche renali a parecchia gente...”
DAGO-RISPOSTA - Visto che Travaglio ci cita, non possiamo che fare Tarzan. Sia il direttore che la sua amministratrice Cinzia Monteverdi cercano di convincere i lettori che il fondo da loro utilizzato per garantire il prestito da 2,5 milioni ricevuto dal ''Fatto Quotidiano'' nulla ha a che vedere con le misure emergenziali anti-pandemia varate dal governo Conte, considerato molto vicino a Travaglio, essendo basato su una legge (la 662 del 1996) di 24 anni fa. Ecco, questo è un falso, ma così falso che siamo sinceramente stupiti di leggerlo. Il finanziamento che hanno ricevuto, e soprattutto le condizioni a cui è stato erogato, sono legati proprio alle misure varate da Conte e i suoi ministri. Il Dl Cura Italia infatti prende questa famigerata legge del 1996 e la rivolta come un pedalino, ordinando al Mediocredito Centrale (che è al 100% statale) di garantire i fidi bancari a condizioni molto, molto agevolate. Senza andare a spulciarsi tutto il decretone, che trovate qui e che parla delle modifiche alla legge del 1996 agli articoli 49 e 49-bis, potete leggere la più chiara circolare del Mediocredito Centrale (l'ente che ha garantito il prestito ricevuto dal ''Fatto'', controllato interamente da Invitalia, che a sua volta è al 100% del Ministero del Tesoro) e che rivoluziona il sistema disciplinato dalla legge del 1996. La circolare spiega che la garanzia è concessa a titolo gratuito, aumenta la soglia massima da 2,5 milioni di euro – la somma chiesta dal ''Fatto'' – a 5 milioni e snellisce le procedure altrimenti onerose e farraginose del già esistente fondo per le piccole e medie imprese. È chiaro che il prestito non è lo stesso di quello FCA, e noi non l'abbiamo mai scritto. È stata proprio la società editoriale del ''Fatto'' a sbagliare il suo comunicato, parlando della Cdp come ente garante del finanziamento, prima di correggersi ed emettere un secondo comunicato. Nel caso dei 6,3 miliardi garantiti a FCA Italy, la base legislativa è il Decreto liquidità, l'ente garante è la SACE (controllata da Cdp) ed è riservato a grandi aziende. Ma la ratio è identica: finanziamenti agevolati e garantiti dallo Stato per fronteggiare l'emergenza Covid, resi possibili dal governo Conte e a condizioni e per somme che prima non esistevano. Grazie a questo intervento pubblico, le banche (come Unicredit che ha dato i soldi al ''Fatto'') possono chiedere tassi molto più bassi di quelli del mercato, perché sanno che se le aziende vanno a gambe all'aria, ci penserà lo stato italiano, e dunque i contribuenti, a rimborsarle. Aggiungiamo noi, nel caso del ''Fatto Quotidiano'', con una procedura che investe anche il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero del Tesoro, che devono dare l'ok ai fidi. La norma originaria garantiva fino all 80% garantiti dallo Stato, mentre la nuova, quella di cui ha usufruito la società editrice, derivante dal ''Cura Italia'', prevede il 90% garantito dallo Stato e un iter procedurale semplificato. Dunque l'intervento del governo c'è, e con un certo grado di discrezionalità, esattamente come per molte altre imprese. Ma non ci venissero a raccontare che il finanziamento annunciato maldestramente la settimana scorsa non ha niente a che vedere con l'attuale governo o con le misure per contrastare la crisi economica scatenata dalla pandemia.
Lettera al “Fatto quotidiano” il 19 giugno 2020. Continuo a leggere - specie su Dagospia - ancora ricostruzioni sul finanziamento che Il Fatto ha ottenuto da Unicredit e sulle relative garanzie, con allusioni a fondi pubblici e ruoli del governo Conte. Potete dirmi come stanno davvero le cose? Grazie. Antonio Paris
Risposta di Cinzia Monteverdi, presidente e amministratore delegato di Seif. Con molto rammarico ci tocca ancora una volta rispondere al sito Dagospia & C. È ormai chiaro che l'intento di infangare il Fatto Quotidiano e Marco Travaglio prescinde dalla realtà delle azioni della Società Editoriale Il Fatto. Da giorni continuiamo a leggere che il Fatto ha chiesto e ottenuto un finanziamento pubblico. Notizia che abbiamo già smentito. Adesso ci tocca leggere che siamo dei bugiardi perché il finanziamento bancario ha garanzia statale. Il finanziamento richiesto e ottenuto da SEIF è stato erogato da Unicredit. La garanzia sottostante è del Mediocredito Centrale come tutti i finanziamenti della legge del 1996, che nella sostanza non è stata modificata. E non abbiamo richiesto alcun finanziamento diretto allo Stato, tantomeno per danni o impatti causati dal Covid; e, siccome non abbiamo alcuna intenzione di fallire, il Mediocredito Centrale non verserà nulla né tantomeno i cittadini. Se però si vuole continuare a sostenere, non avendo altro di interessante da pubblicare, che abbiamo chiesto soldi allo Stato, non ci rimane che ripetere: ci vediamo in tribunale.
DAGO-RISPOSTA - Nella trepida attesa che Dagospia venga convocato in tribunale, approfittatene per chiedere un appuntamento presso un buon psichiatra. Nonostante i tentativi da parte della manager e del direttore del ''Fatto'' di confondere le acque, noi abbiamo scritto sin dal primo giorno solo i dati, piuttosto semplici: hanno chiesto un prestito a una banca privata (Unicredit), garantito però da un fondo pubblico gestito da un ente (il Mediocredito Centrale) al 100% del Ministero del Tesoro (attraverso Invitalia). La signora Monteverdi scrive che la legge del 1996 ''nella sostanza non è stata modificata'', ma per sua fortuna non è così, visto che senza la crisi da coronavirus e i decreti varati dal governo Conte le condizioni per accedere a quel fondo sarebbero state ben diverse. Monteverdi e i soci hanno portato in borsa la SEIF (Società editoriale il Fatto) l'anno scorso raccogliendo circa 3 milioni di euro. Il titolo in questo anno ha perso tra il 25 e il 30%. Il gruppo sempre l'anno scorso, senza coronavirus, ha registrato una perdita da 1,5 milioni di euro. Se vogliamo raccontarci che, in condizioni normali, una società editoriale coi conti in rosso si presenta in banca e ottiene un finanziamento da 2,5 milioni di euro, per noi possiamo anche raccontarcela. Se sono contenti loro, lo siamo tutti. A proposito di ''ci vediamo in tribunale'': leggiamo su Twitter che Fulvio Abbate, già firma del ''Fatto Quotidiano'', è stato querelato dal suo ex giornale per un tweet del novembre scorso in cui raccontava di liti interne alla redazione. Ma ''Il Fatto'' non era il giornale che faceva le battaglie contro le querele facili, contro la tagliola giudiziaria dei potenti che potevano permettersi di zittire i deboli giornalisti? L'avvocato che segue il ''Fatto'', Caterina Malavenda, con cadenza praticamente mensile veniva intervistata sul malcostume di denunciare qualunque voce scomoda. E ora si mettono ad attaccare un ex collaboratore perché in una manciata di caratteri ha osato citare dissidi interni e crisi di vendite in edicola (fatti poi comprovati dall'uscita rumorosa del vicedirettore Stefano Feltri, ieri maltrattato dal direttore Travaglio insieme alla fidanzata, dai risultati certificati da Ads nel 2019, e dai sopracitati bilanci). Ma che sta succedendo da quelle parti?
Maxi-finanziamento al Fatto Quotidiano, tre domande a Marco Travaglio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Giugno 2020. Marco Travaglio ieri ha iniziato il suo editoriale sul Fatto Quotidiano con una autocritica giusta ma feroce. Ha scritto: «Fermo restando che certe cartacce buone per avvolgere il pesce, comunemente definite “quotidiani”, sono un po’ meno attendibili di “Tiramolla…». Apprezzo il coraggio dell’autodenuncia, anche se giudico i toni che usa, come al solito, eccessivamente crudi e (auto)aggressivi. Il problema che pone, tuttavia è sacrosanto. Basta dare un’occhiata, seppur di sfuggita, alle campagne condotte dal Fatto contro Berlusconi, o Renzi, o il Pd (campagna improvvisamente sospesa nello scorso agosto), o Salvini, o le Ong, o i migranti che prendono i taxi del mare, o le regioni del Nord. Dopo questo attacco bruciante del suo articolo, però, Travaglio cambia improvvisamente argomento e presenta una complicata autodifesa sulla vicenda del prestito chiesto e ottenuto dal suo giornale con la garanzia di Stato. E protesta in particolare per come la notizia è stata riportata dal nostro giornale. Che lui definisce, polemicamente, il giornale dell’imputato Romeo e dell’impunito Sansonetti. È vero che Romeo è imputato (anche se è uno dei pochissimi editori di giornale del tutto incensurato) come del resto sono imputato anche io e lo è anche Travaglio. E non posso neanche lamentarmi per il fatto che lui, quando parla del Riformista, gli storpia il nome (lo chiama “il Riformatorio”) e cita sempre l’editore. Anche io del resto spesso cito l’editore di Travaglio (Davigo e il partito dei Pm) anche se non storpio mai il nome del Fatto (ma questo solo perché ho avuto dei genitori che tenevano moltissimo alla buona educazione). Veniamo al dunque. Travaglio è indignato perché – dice – il prestito di due milioni e mezzo (capperi!!) ottenuto da Unicredit, non è un aiuto di Stato. È solo un semplicissimo prestito che viene concesso per investimenti, sulla base di una legge del 1996, e che è garantito non dal governo ma da Medio Credito Centrale. Ok. Ma voi avete idea di cosa sia Medio Credito Centrale? Ve lo dico: una società con un unico azionista: Invitalia. E voi avete idea di cosa sia Invitalia? Vi dico anche questo: una società alle immediate dipendenze del ministero dell’Economia. Il ministero dell’Economia – questo sicuramente lo sapete – è una articolazione del governo. Troppo complicato? Voi dite che è una specie di quelle cose delle scatole cinesi? Non so, a me sembra però tutto piuttosto semplice: il prestito è un aiuto all’azienda che edita il Fatto, l’aiuto viene dallo Stato, il prestito è un aiuto di Stato. Sulla base di una legge del 1996? No, sulla base di una legge del 1996 modificata (a favore di chi prende il prestito) nel 2020 nell’ambito delle misure contro il Covid. Quindi sulla base di norme emanate dal governo Conte. Il Fatto è amico del governo Conte? Sì. Punto. Se il Fatto – che ha un bilancio 2019, credo, in rosso di circa un milione e mezzo e possibilità assai scarse di migliorare questo bilancio nel 2020 e nel 2021 – si fosse presentato a Unicredit e avesse chiesto un prestito di due milioni e mezzo, l’impiegato si sarebbe messo a ridere. Giusto? Invece non ha riso perché c’era la garanzia del ministero dell’Economia. Giusto? Allora, chiedo a Marco: in tutta questa faccenda c’entra o no lo Stato? E il Governo, inteso in quanto ministero, c’entra? E questi due milioni e mezzo sono stati o no un aiuto, quindi un aiuto di Stato? Dopodiché niente di male, figuriamoci. Lo abbiamo scritto sin dal primo momento: nessuna violazione della legge, solo, magari, un po’ di violazione dei sacri principi sempre dichiarati e gridati da Travaglio: mai aiuti di Stato. Mercato, mercato, mercato. I casi sono due. O quei principi sono stati abbandonati, oppure – è sempre possibile – l’aiuto è avvenuto a insaputa del direttore. Un po’ come successe a Scajola con quella vecchia storia della casa al Colosseo. Un po’ come recentemente è successo persino a Davigo, quando a tradimento gli hanno presentato alla Camera un emendamento alla legge Covid per rinviare la sua pensione. Sono cose che succedono, e io non ho mai avuto difficoltà a credere alla buonafede. E poi io sono sempre stato favorevole agli aiuti di Stato all’informazione. È lui che fino a qualche giorno fa era contrario. Lo prego solo di non dire più: l’unico giornale che non gode di aiuti pubblici. Non è vero. È vero, invece, che l’unico giornale che non ha preso neanche il becco di un quattrino dallo Stato è il Riformista. Sì, sì: il Riformista di Romeo. Poi ci sono ancora tre domande, che visto che mi capita l’occasione, proverei ad avanzare.
Prima. Ma se il prestito, sulla base della legge – così ho capito – è per investimenti, e se invece Travaglio annuncia che servirà solo a coprire i ritardi nei versamenti degli edicolanti, che investimento è? Tutto in regola?
Seconda. Ma i soldi racimolati con la quotazione in borsa del Fatto, che pare non fossero pochi, che fine hanno fatto? Non bastavano a coprire i ritardi degli edicolanti?
Terza. Ho visto che nella furia polemica Travaglio cita con rabbia i nomi di molti maschi, compreso il mio. E però, per prendersela con una donna, la chiama “la fidanzata” di Stefano Feltri. (Per la verità lui scrive “la fidanzata di uno che stava al Fatto e ora se ne è andato da De Benedetti”: tutti sanno che è Feltri).
Marco, ascoltami: so che sei stato un buon allievo di Montanelli, e conosco la storia dell’acquisto da parte di Montanelli di una schiava africana bambina, sono anche contro l’imbrattamento delle statue e penso che Montanelli sia stato contemporaneamente un razzista, un maschilista feroce – feroce – e forse il più grande giornalista italiano del ‘900. Però ora il tempo è passato. Il ‘900 non c’è più. Anche le persone più rozze sanno che le donne sono uguali ai maschi. Ti stupisci? Ti giuro, Marco: è così. Le donne, anche nel senso comune, sono persone come le altre, con la loro identità, i loro diritti, la loro dignità: hanno conquistato persino il privilegio di essere chiamate per nome e cognome. Dai, che ti costa? Selvaggia Lucarelli, Silvia Truzzi, Virginia della Sala: proprio come Marco Lillo e Barbacetto…
Aldo Grasso per corriere.it il 27 maggio 2020. Ogni tanto mi capita di seguire le intemerate di Nicola Porro, giusto per soppesare un’eventuale giordanizzazione. In Zuppa di Porro (sul suo sito) urla, si abbandona a una collera furiosa, rovente, devastatrice, proprio come il sodale Mario Giordano. Ne è passato di tempo, da quando Carlo Freccero lo accusava di non essere tracotante e determinato, di non avere fame di successo, di fare le vacanze a Saint Tropez, come se la Costa Azzurra lo deprivasse di una pulsione animalesca indispensabile per condurre un talk pop. Tornato a dirigere Quarta repubblica, dopo aver sconfitto il Coronavirus, Porro ha ripreso il suo aplomb moderato, quanto meno nei modi (Rete 4, lunedì). Ha intervistato Giorgia Meloni e, da signore, si è guardato bene dal contraddirla, così come più tardi ha tollerato che Alessandro Sallusti desse della cretina a Claudia Fusani. Il comportamento onorevole di Porro, unito a quella forza ed efficacia di parola che gli sono così peculiari, avrebbe convinto qualsiasi persona ragionevole a moderare i toni; ma per sfortuna, in quel preciso momento, la mente di Porro era tutt’altro che disposta a frenare il suo direttore. Così si è passato a parlare d’altro: la criminalizzazione della movida, gli ausiliari del Covid (una trovata degna di un Toninelli), il caso Palamara e, in particolare, la tensione tra il leader della Lega Matteo Salvini e la magistratura, dopo le ultime intercettazioni emerse dall’inchiesta di Perugia. Ovviamente, fra gli ospiti in studio, c’era Mario Giordano e un osservatore occasionale avrebbe subito colto a quale vertice di soddisfazione e di comprensione reciproca i due — Nicola e Mario — fossero pervenuti. Forse Porro è davvero quella «mirabile difformità» che è il «liberale per Salvini» che contempla la pretesa di dirsi liberali e il contestuale sostegno al salvinismo inteso come approccio di governo. O forse no, gli piace solo fare di tutto una zuppa.
Cinque storici giornali (e riviste) di sinistra italiani di Ermanno Ferretti su cinquecosebelle.it. Per un giovane non è sempre facile avvicinarsi alla stampa italiana, soprattutto in questi tempi di crisi. Tutti dicono che il futuro è nel web, nel digitale, anche perché le vendite dei giornali cartacei continuano a scendere. Però a sua volta il web sembra non essere in grado di offrire un sistema economico sostenibile. Insomma, c’è di che preoccuparsi. Oltretutto, in questi tempi di partiti sempre più liquidi, anche l’identità dei giornali tende a sciogliersi. Quali sono i quotidiani, ad esempio, di sinistra e quali quelli di destra? In certi casi la linea editoriale è fin troppo chiara, in altri tende a confondersi. Visto che il quesito ci pare continui ad interessare più di qualcuno, cerchiamo di rispondere noi. Ci occupiamo oggi dei giornali – intendendo quotidiani e riviste, e quelli che hanno anni di storia alle spalle – di sinistra, mentre a quelli di destra abbiamo dedicato un altro articolo.
1. l’Unità. Il più vecchio quotidiano di sinistra ancora in edicola è l’Unità. Il giornale fu fondato nel 1924 da Antonio Gramsci e fino al 1991 fu l’organo ufficiale del Partito Comunista Italiano. Anche se ha avuto un’influenza notevole nella storia della sinistra italiana, ha affrontato negli ultimi anni vari problemi. Tutto questo ha portato alla cessione nel 1997 della maggioranza delle quote da parte del partito erede del PCI. Oggi la testata è pubblicata da Nuova Iniziativa Editoriale. Direttore attuale è Erasmo D’Angelis, già attivista di Legambiente e consigliere regionale in Toscana per il PD. Il quotidiano nacque per iniziativa del fondatore dell’allora PCd’I con l’intento di contrastare il governo fascista allora al potere. La tiratura iniziale era piuttosto modesta. Il primo picco di vendite si fece comunque registrare già pochi mesi dopo il lancio, in seguito all’omicidio Matteotti. Purtroppo da lì in poi cominciarono i guai. Il giornale finì spesso sequestrato dalla prefettura, e dal 1926 ne fu proibita la pubblicazione.
Dalla clandestinità al dopoguerra. Uscito per anni in clandestinità, sarebbe stato rilanciato nel dopoguerra. Artefici del successo furono direttori come Alfredo Reichlin, Mario Alicata e Maurizio Ferrara, padre di Giuliano. Il quotidiano divenne anche il punto d’incontro di tutti gli intellettuali di sinistra. Vi scrivevano Ludovico Geymonat, Ada Gobetti, Cesare Pavese, Italo Calvino, Elio Vittorini, Pier Paolo Pasolini. Vennero create pure le Feste dell’Unità, che hanno avuto per anni un grande successo e segnato il paese per decenni. Negli anni ’80 una cospicua flessione nelle vendite portò a una serie di innovazioni. Prima vennero creati degli allegati satirici – Tango e Cuore – che ebbero grande successo anche se crearono malumori all’interno del partito. Poi, con la direzione di Walter Veltroni, l’Unità divenne il secondo quotidiano italiano ad allegare dei film alla propria edizione cartacea. Oggi la tiratura è di circa 60mila copie, anche se quelle vendute sono circa 20mila.
2. il manifesto. Negli anni ’60 uno dei più importanti redattori de l’Unità era Luigi Pintor, ex partigiano e fratello di Giaime Pintor. Assieme a lui, nella direzione del PCI, si trovavano altri giornalisti che avevano le sue stesse idee come Rossana Rossanda, giovani come Lucio Magri e figure storiche del partito come Aldo Natoli. Il gruppo chiedeva una politica diversa e più “di sinistra” al partito, il distacco dall’URSS e una maggiore democrazia interna. Quando, nel 1968, i carri armati sovietici entrarono in Cecoslovacchia per sedare la Primavera di Praga, quest’ala entrò in polemica coi dirigenti. Venne fondata una rivista, chiamata Il Manifesto (ma scritto con le minuscole), che divenne presto quotidiano. Questa pubblicazione alimentò la tensione tra la dirigenza e i “contestatari”, che alla fine vennero espulsi dal PCI.
Le crisi recenti. Edito da una cooperativa editoriale in cui tutti i dipendenti sono anche soci (e quindi hanno il medesimo stipendio), il manifesto ha attraversato periodi di difficoltà economica negli ultimi anni. Il punto più critico è stata la liquidazione coatta nel 2012. Grazie a numerose sottoscrizioni, comunque, il quotidiano è riuscito a tornare in edicola. Direttori attuali sono Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco, mentre la diffusione è attorno alle 11mila copie.
3. La Repubblica. Il quotidiano di sinistra – o, meglio, di centrosinistra – a maggior diffusione è però senza dubbio La Repubblica, che anzi da molti anni rivaleggia col Corriere della Sera per il primo posto assoluto nel settore della carta stampata. Fondato nel 1976 da Eugenio Scalfari, il quotidiano romano fu lanciato con l’ottica di diventare un “secondo giornale”, di commento. Per questo le firme dei primi anni erano tra le più prestigiose del giornalismo dell’epoca. Tra questi, Giorgio Bocca, Mario Pirani, Miriam Mafai, Natalia Aspesi, Giampaolo Pansa, Gianni Brera. Sul versante delle vignette invece spopolavano Giorgio Forattini e più tardi Pericoli e Pirella. Già sul finire degli anni ’70 le copie vendute crebbero. Il quotidiano riusciva a rubare lettori all’Unità, ormai distante dal pubblico giovanile, e a Paese Sera, principali avversari. Inoltre la linea contraria a Craxi e alcuni inserti satirici spinsero le vendite ad insidiare quelle del Corriere della Sera.
Il quotidiano più popolare della sinistra italiana. Nel 1996 Scalfari lasciò la direzione ad Ezio Mauro, che portò il giornale anche online, dove divenne il più cliccato d’Italia. Tra le firme storiche, si annoverano ancora oggi Michele Serra, Massimo Giannini, Vittorio Zucconi, Adriano Sofri, Ilvo Diamanti, Gianni Mura, Corrado Augias, Federico Rampini e Roberto Saviano. Nel frattempo, negli anni ’80 Repubblica era stata al centro della cosiddetta “guerra di Segrate” che aveva visto contrapporsi Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi. Oggetto del contendere erano la Mondadori e il Gruppo Editoriale l’Espresso. Una guerra conclusa con lo scorporo dei periodici e quotidiani “di sinistra”, finiti in mano a De Benedetti, dal settore libri, appannaggio invece di Berlusconi. Ma una guerra che ha lasciato lunghi strascichi giudiziari (e politici) a causa della corruzione di Berlusconi accertata dai giudici.
4. l’Espresso. Chiudiamo il capitolo dei quotidiani e passiamo a quello dei periodici. Nonostante ne siano scomparsi parecchi (Liberazione e Il Riformista, ad esempio), esistono infatti altri giornali di sinistra che escono ogni giorno, ma hanno carattere locale oppure sono giovani e di più difficile collocazione, come Il Fatto Quotidiano. Andiamo invece sul sicuro con le riviste e in particolare con l’Espresso. Questa rivista è stata anzi la base di partenza di Repubblica e ancora oggi è uno dei settimanali più letti d’Italia (la diffusione è di circa 200mila copie). Fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti, fu finanziato in partenza da Adriano Olivetti e da Carlo Caracciolo, suo giovane socio, a cui presto Olivetti cedette anche le proprie quote. Orientato già a sinistra fin dalle sue prime uscite, condusse alcune inchieste che divennero celebri e segnarono l’Italia del tempo. Nei primi numeri svelò il fenomeno della speculazione edilizia e della corruzione romana. Nei primi anni ’60 ospitò la testimonianza di Solženicyn sui crimini di Stalin. Nel 1967 denunciò il Piano Solo, il programmato colpo di stato del generale De Lorenzo. Nel 1975 replicò col golpe Borghese. Altre indagini arrivarono negli anni successivi, ma anche qualche cantonata, come l’inchiesta contro il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, poi rivelatasi infondata.
Settimanale di denuncia e di grandi firme. Nel frattempo alla direzione erano saliti Eugenio Scalfari, già tra i fondatori, Livio Zanetti, Claudio Rinaldi, Daniela Hamaui. Dall’ottobre 2014 è invece in carica Luigi Vicinanza, già giornalista di Repubblica e di alcuni giornali locali del gruppo. Ma la forza de l’Espresso sono sempre state le firme, spesso titolari anche di rubriche fisse. Tra le tante, vale la pena di segnalare quelle di Giorgio Bocca, Enzo Biagi, Giampaolo Pansa, Edmondo Berselli, Umberto Eco, Stefano Bartezzaghi, Alessandro Gilioli, Marco Damilano (ora vicedirettore), Luigi Zingales e Roberto Saviano.
5. Internazionale. Concludiamo con una rivista che in realtà non è paragonabile a quelle che abbiamo presentato finora. Internazionale, fondata a Roma nel 1993 da Giovanni De Mauro – figlio del linguista (ed ex Ministro dell’Istruzione) Tullio –, è infatti un settimanale che ha un taglio indipendente. L’idea è quella di rimanere lontani dalle esigenze di partito e dalle ragioni contingenti della politica. Nonostante questo, però, è indubbio che l’impostazione così aperta alle altre realtà mondiali e i collaboratori che ospita facciano sì che sia letta soprattutto da elettori di sinistra, dei quali rappresenta una sorta di coscienza critica. La rivista infatti raggruppa una selezione di articoli presi dalla stampa estera, trattando problemi di interesse globale. Inoltre, non mancano le firme importanti e le rubriche di approfondimento. Tra i collaboratori più famosi figurano Noam Chomsky, Nick Hornby, Yoani Sánchez, Tito Boeri, Goffredo Fofi, Luca Sofri e Domenico Starnone. La tiratura viene per lo più distribuita tramite abbonamento (anche digitale), per una diffusione attorno alle 100mila copie settimanali; inoltre dal 2014 viene venduta anche a Londra, dove, com’è noto, la comunità italiana è numerosa.
7 storici giornali di destra italiani di Ermanno Ferretti su cinquecosebelle.it. Qualche tempo fa abbiamo presentato una veloce panoramica sui giornali di sinistra, che fossero quotidiani o periodici, editi in Italia. Oggi completiamo come promesso l’opera dedicando spazio a quelli di destra. Come vedrete, la situazione è molto diversa da quella che abbiamo fotografato a sinistra. Mentre là sopravvivevano vecchi giornali di partito e un solo grosso quotidiano – La Repubblica – catalizzava l’attenzione, qui la situazione è più equilibrata. Non è un caso che non siamo dovuti ricorrere, in questa lista, ad alcun settimanale: i quotidiani di destra sono infatti molti, anche se nessuno vende tantissimo. E allora, presentiamoli uno ad uno, vedendone la storia, le zone geografiche di riferimento e le linee editoriali. Un’unica nota, prima di cominciare: come noterete, mancano testate storiche come Il Secolo d’Italia e La Padania. Entrambe hanno attraversato una forte crisi negli ultimi anni, anche a causa del momentaneo crollo (politico o economico) dei partiti a cui facevano riferimento. Del primo esiste ancora una versione online, ma non cartacea. Il secondo ha invece chiuso i battenti.
1. Il Giornale. Esistono, in Italia, vari tipi di quotidiani di destra, così come esistono varie destre. C’è una destra più tradizionale, legata alla media o alta borghesia, che ha opinioni politiche conservatrici. Poi c’è una destra più “fluida”, che non si identifica con una sola classe sociale, che ama i toni forti. C’è, ancora, una destra geograficamente localizzata, che varia i propri ideali e obiettivi quasi di regione in regione. Il Giornale è nato come un quotidiano per il primo tipo di destra, ma poi è diventato un giornale del secondo tipo. Il motivo del cambiamento: l’evoluzione politica di Silvio Berlusconi, che ne è da sempre il punto di riferimento. Fondato nel 1974 da un Indro Montanelli in fuga dal Corriere della Sera, il Giornale si collocò fin da subito nell’area della destra liberale, contrapponendosi al compromesso storico tra DC e PCI. Al suo interno scrivevano alcune delle più prestigiose firme del periodo. Solo per citare i più noti, bisogna ricordare Enzo Bettiza, Cesare Zappulli, Mario Cervi, Nicola Abbagnano, Mario Luzi, Mario Praz, Renzo De Felice, Nicola Matteucci e, poco dopo, Gianni Brera.
L’entrata in scena di Silvio Berlusconi. All’inizio la proprietà era degli stessi redattori, ma alcuni debiti permisero a imprenditori esterni di entrare nella società. Così gradualmente Silvio Berlusconi diventò il proprietario nel corso degli anni ’80, anche se nel 1990, in virtù della legge Mammì, dovette cedere la maggioranza al fratello Paolo. La rottura tra l’editore e Montanelli si consumò tra il 1993 e il 1994, quando Berlusconi scese in campo, buttandosi in politica. Nuovo direttore divenne Vittorio Feltri, con Maurizio Belpietro come vice. Da allora si sono alternati alla direzione gli stessi Belpietro e Feltri, Mario Giordano e l’attuale direttore Alessandro Sallusti. Sallusti è stato in realtà direttore più volte, in quanto ha dovuto ad un certo punto cedere la poltrona a causa di una condanna per diffamazione. La linea editoriale, comunque, è rimasta invariata negli ultimi vent’anni: appoggio senza condizioni a Berlusconi e ai suoi alleati, toni a volte forti fin dai titoli, una linea meno “intellettuale” di quella degli esordi e più vicina agli umori dell’elettorato. La tiratura è attualmente sopra alle 100mila copie, mentre la diffusione si attesta attorno alle 50mila. Il calo di vendite degli ultimi anni – comune a vari quotidiani, non solo di centro-destra – ha costretto a pesanti ridimensionamenti nell’organico e alla chiusura della redazione romana, con proteste e scioperi anche dei giornalisti.
2. Libero. A fare coppia con Il Giornale, soprattutto negli ultimi anni, si è posto Libero, quotidiano che si può considerare quasi la controparte più aggressiva di quello della famiglia Berlusconi. Basta guardare i direttori che si sono alternati alla sua guida, infatti, per rendersi conto della continuità. Fondato nel 2000 da Vittorio Feltri poco dopo la sua uscita da Il Giornale, ha avuto sulla poltrona più importante anche Alessandro Sallusti e Maurizio Belpietro. Oggi Feltri funge da direttore editoriale, mentre il direttore responsabile è Pietro Senaldi. Proprietario della testata è il costruttore Antonio Angelucci, ma sia Belpietro che Feltri possiedono quote di minoranza. L’area di riferimento è sempre quella del centro-destra prima berlusconiano e oggi leghista, anche se fin dalle sue prime uscite il quotidiano ha cercato titoli eclatanti e di mettere in campo una maggior attenzione all’economia. Lo stile spregiudicato, così, ha portato negli anni a qualche scoop ma anche ad alcune “cantonate” molto criticate dalla concorrenza. Negli ultimi anni, anzi, Libero ha fatto discutere soprattutto per alcune sue prime pagine molto provocatorie e per alcuni articoli di fondo (perlopiù di Vittorio Feltri) decisamente senza peli sulla lingua.
Lo spazio dedicato all’economia nel gemello “cattivo” de Il Giornale. Per quanto riguarda l’economia, le pagine sono state per lungo tempo guidate da Oscar Giannino, sulla base di un’impostazione prettamente liberale. Tutto questo – e anche lo spostamento a sinistra del Corriere della Sera – hanno portato per un certo periodo Libero a un incremento notevole delle vendite. Tra il 2006 e il 2007, negli anni del secondo governo Prodi, la testata toccò le 125mila copie di diffusione, che però adesso si sono ridotte a poco più di 25mila. La tiratura, invece, si aggira attorno alle 75mila copie. A penalizzare la testata, di recente, è stata soprattutto la concorrenza de La Verità dell’ex Belpietro, di cui parliamo più avanti.
3. QN – Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno. Come dicevamo in apertura, esistono vari tipi di destra. Quella incarnata dai giornali del Quotidiano Nazionale è quella più tradizionalista, radicata nella provincia del centro-nord. Dietro alla sigla QN, infatti, esiste un gruppo editoriale che controlla tre storici quotidiani come Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno. Le tre testate già da vent’anni, infatti, escono con le stesse notizie e gli stessi articoli, preparati da un’unica redazione. Diversi sono però gli inserti locali, tanto è vero che ogni provincia ha il suo fascicolo di approfondimento preparato in loco. Il Resto del Carlino è a tutt’oggi il più diffuso dei tre quotidiani del gruppo, forte di una tiratura che sfiora le 150mila copie. Fondato a Bologna nel 1885, deve il suo nome al fatto che in origine costava 2 centesimi, cioè il resto che si otteneva quando si andava a comprare un sigaro da 8 centesimi con una moneta da 10 (popolarmente chiamata “carlino”). Legato storicamente agli agrari dell’Emilia e agli industriali dello zucchero, il quotidiano ha avuto come direttori anche giornalisti di fama come Mario Missiroli, Nello Quilici (padre di Folco), Giuseppe Longo, Giovanni Spadolini ed Enzo Biagi.
La Nazione, di destra ma con una attenzione alle edizioni locali. La Nazione fu fondato invece addirittura nel 1859, in pieno clima risorgimentale. La sua tiratura, particolarmente forte in Toscana ed Umbria, è attualmente vicina alle 120mila copie, anche se la diffusione (cioè il venduto) si attesta sulle 90mila. Anch’esso legato da sempre a posizioni moderate, ha avuto tra gli altri come direttori Enrico Mattei (solo omonimo del fondatore dell’ENI), Arrigo Petacco e, più di recente, Mauro Tedeschini.
La storia de Il Giorno, da sinistra a destra. Il Giorno, infine, è nato nel 1956 a Milano, provocando un vero terremoto nell’editoria italiana. L’obiettivo del fondatore, Cino Del Duca, era di rubare lettori al Corriere della Sera con un giornale più giovane, dall’impianto anglosassone. Così la cultura veniva spostata alla fine del quotidiano, dove trovavano spazio gli spettacoli, l’economia, ma anche giochi e fumetti, allora mai visti sulla carta stampata italiana. Politicamente il quotidiano, che era finanziato dall’ENI di Mattei, si collocava nel centro-sinistra. Questo ruolo di primo piano fu perso negli anni ’70, per la scelta di spoliticizzare il giornale e la concorrenza di Repubblica, ma il vero colpo di grazia alle vendite fu la scelta, nei primi anni ’90, di non dare grande risalto a Tangentopoli. La cessione al gruppo Monrif nel 1997 ha comportato il passaggio ad un’area di centro-destra.
4. Il Tempo. Spostiamoci a Roma, per la prima volta in questa nostra lista, per parlare de Il Tempo, storico quotidiano della capitale. Fondato nel maggio 1944 da Renato Angiolillo, il giornale cominciò la sua vita col botto. Tutta la concorrenza, romana e non solo, era infatti collusa col regime fascista, e quando Roma fu liberata lui trasse tutti i vantaggi dal lanciare una testata nuova, senza macchie nel suo passato. Così fin da subito Il Tempo si propose come quotidiano di rottura, aperto inizialmente alle istanze partigiane e pieno di scoop sul passato regime (pubblicò, tra le altre cose, anche i diari di Galeazzo Ciano in esclusiva). Con la fine del conflitto, però, e il ritorno graduale delle altre testate, Angiolillo cambiò la linea del giornale, avvicinandolo ai desideri dei moderati. Questa scelta consentì a Il Tempo di rimanere il più venduto nella capitale.
Dai fasti di Angiolillo alla crisi attuale. Le vendite si mantennero molto alte fino alla morte di Angiolillo, nel ’73. Tra le firme di quegli anni figuravano grandi giornalisti e intellettuali come Vittorio Zincone, Igor Man, Alberto Giovannini, Nantas Salvalaggio, Curzio Malaparte, Alberto Moravia, Mario Praz, Giuseppe Prezzolini, Gian Luigi Rondi e Gioacchino Volpe. Il punto forte erano però le rubriche fisse, che divennero d’esempio per molti altri quotidiani. Nel post-Angiolillo Il Tempo fu guidato per 15 anni da Gianni Letta, futuro collaboratore di Silvio Berlusconi, ma dopo il suo addio le vendite precipitarono. La proprietà passò anche alla Poligrafici di QN, per poi finire a Franco Caltagirone prima e a Domenico Bonifaci poi. Oggi è di proprietà della famiglia Angelucci. La tiratura però è notevolmente calata e si attesta sulle 25mila copie, 15mila delle quali vanno vendute. Attuale direttore, infine, è il torinese Franco Bechis, che aveva già diretto il quotidiano tra il 2002 e il 2006. Dopo quell’esperienza, si era spostato prima a Libero e poi a Il Corriere dell’Umbria, prima di ritornare sulla poltrona di Piazza Colonna.
5. Il Foglio. Passiamo ora ad un quotidiano atipico, molto diverso da quelli che abbiamo visto finora: Il Foglio. Fondato nel 1996 da Giuliano Ferrara, questo giornale esce infatti in un unico foglio in formato lenzuolo, con all’interno un inserto di approfondimento. Più che un quotidiano di informazione, è infatti un quotidiano d’opinione: il suo scopo non è dare le notizie, ma commentarle. Nato a Milano ma poi gradualmente spostatosi a Roma, ha assunto fin da subito una posizione molto vicina al centrodestra, di cui tra l’altro Ferrara era esponente autorevole. Questo non ha impedito, però, al giornale di ritagliarsi una certa autonomia di pensiero, né di ospitare firme “di sinistra” o di altre aree politiche. Per quanto riguarda la proprietà, dopo un periodo iniziale è emersa come azionista di maggioranza Veronica Lario, ex moglie di Silvio Berlusconi. Dal 2011 però il suo pacchetto è stato acquistato da Paolo Berlusconi, che però poi ha ceduto le sue quote. Oggi la proprietà è in mano all’imprenditore romano Valter Mainetti. Nel gennaio del 2015, infine, Ferrara ha ceduto la direzione a Claudio Cerasa, già da vari anni redattore capo del quotidiano. Cerasa si è posto in continuità con Ferrara, ma assumendo posizioni ancora più autonome. Ad esempio, si è schierato duramente contro Matteo Salvini e la sua recente alleanza con il Movimento 5 Stelle.
Altri 2 giornali di destra italiani, oltre ai 5 già segnalati. L’area di centro-destra, almeno a livello editoriale, come abbiamo visto è molto variegata. E si è fatta ancora più complicata negli ultimi anni, proprio perché anche a livello politico la destra ha mutato più volte pelle. Da quando Berlusconi ha cominciato a perdere consensi, infatti, si sono affacciati all’orizzonte nuovi leader e nuovi stili. Sicuramente oggi la destra italiana si identifica quasi completamente con Matteo Salvini, il segretario della Lega. Un politico che ha impostato uno stile nuovo, che si richiama in parte a quello dei suoi predecessori ma che introduce anche elementi inediti. Questo ha portato, ad esempio, alla nascita anche di nuovi quotidiani e al rinnovamento dei vecchi. Scopriamone altri.
La Verità. La Verità non è proprio un giornale storico, perché è il più giovane della nostra lista, essendo stato fondato appena nel 2016. Ma è un giornale che, nonostante la tiratura limitata, è riuscito a farsi notare e ad assumere posizioni molto nette, tanto da rubare spazio ai vecchi colossi. Non a caso, il fondatore e direttore è un giornalista di cui abbiamo già ampiamente parlato, che ha vissuto a fasi alterne in quasi tutte le redazioni dell’area di centro-destra. Si tratta di Maurizio Belpietro, già direttore de Il Tempo, Il Giornale, Libero e Panorama. Proprio la fuoriuscita da Libero per via di divergenze con l’editore l’ha portato a fondare questo nuovo quotidiano, che si è subito posto sulla falsariga di quelli già citati, con un tono però se vogliamo anche più aggressivo. Inoltre, mentre Libero e soprattutto Il Giornale mantengono un atteggiamento guardingo nei confronti dell’attuale alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle, La Verità fin da subito ha appoggiato le scelte di Matteo Salvini, diventando il quotidiano maggiormente schierato a favore della Lega.
Il Sole 24 Ore. Concludiamo con Il Sole 24 Ore, che non è un quotidiano di destra nel senso classico, in primo luogo perché si occupa di politica solo di rimando. Il suo principale interesse è infatti l’economia, visto anche che il giornale milanese è di proprietà di Confindustria. Il quotidiano come lo conosciamo oggi ha esordito nel 1965, quando il miracolo economico italiano era ormai consolidato. In realtà, però, nacque dalla fusione di due testate già esistenti: da una parte Il Sole, fondato addirittura nel 1865, e dall’altra 24 Ore, nato nel 1946.
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 29 aprile 2020. Dal 25 Aprile, festa della Liberazione, il centrodestra (notoriamente privo di mezzi di comunicazione) ha un nuovo quotidiano: la Repubblica, agnellizzata da Maurizio Molinari. Chi pensava che il neodirettore avrebbe atteso un po' prima di imprimere la svolta al giornale fondato da Scalfari, per tranquillizzare giornalisti e lettori in subbuglio dopo il brutale licenziamento di Verdelli, sbagliava. La sterzata è arrivata ieri: una fake news in copertina ("Messe, dietrofront di Conte"); la quotidiana intervista all' Innominabile, che voleva devastare la Costituzione e ora la insegna al premier; una ventina di pagine sui piagnistei di quelli che vogliono riaprire tutto subito, con tanti saluti ai morti (appena 3-400 al giorno, dunque spariti); e soprattutto la nota politica di Stefano Folli che, per la noia che emana, viene letta solo dagli addetti ai lavori, sempreché riescano ad arrivare in fondo senza cadere in catalessi. Nato a La Voce Repubblicana con Molinari e Oscar Giannino (quello che mentì sulla laurea e persino sullo Zecchino d' Oro, anche lui giornalista di centrodestra, ingaggiato dal gruppo Stampubblica e parcheggiato a Radio Capital), Folli stava al Corriere e poi al Sole 24 Ore, dov' era strenuo difensore di B. e fan del leghismo lombardo-veneto. Poi nel 2014 approdò a Repubblica, ma nessun lettore si domandò che ci facesse lì perché i pochi che leggevano i suoi arzigogolati dire-non-dire ne uscivano con la labirintite. Ma ora il Folli liberato parla finalmente chiaro: evoca scenari da Grand Guignol e invoca un cambio non solo di governo (legittimo), ma addirittura di sistema costituzionale. L' altro giorno, con vari salti logici e storici, paragonava l' emergenza Covid che investe il mondo intero alla guerra d' Algeria che in Francia riportò al potere il generale De Gaulle. E augurava all' Italia una bella svolta presidenzialista con apposito "uomo forte", possibilmente Draghi. Ieri, con chiarezza per lui inusitata, ha optato per il golpe bianco, invitando Salvini & Meloni a prepararsi per non mancare all' appuntamento. Titolo: "Il tempo stringe per Salvini e Meloni" (entusiasmo incontenibile degli eventuali lettori nel vedere il loro giornale, che un tempo sussurrava al Pci-Pds-Ds-Pd, consigliare amorevolmente Matteo&Giorgia). Svolgimento: "Dopo la prova televisiva di domenica, è opinione diffusa che Conte si sta avviando a diventare il capro espiatorio del possibile disastro". Di chi sia l' opinione diffusa e in quale terrazza o loggia si annidi, visto che il sondaggio Openpolis sulla prova televisiva di domenica dà l' 81% pro Conte e il 16% anti, non è dato sapere. Ma il Folli già sa che presto arriverà "l' ancora più drammatica emergenza economica. Il che pone due interrogativi". Tenetevi forte, perché qui entriamo in una via di mezzo fra il Piano di rinascita della P2 e Vogliamo i colonnelli di Monicelli: "La crisi si aprirà secondo canali tradizionali e sarà gestita dalle forze politiche in base al rituale tipico ovvero l' insieme di protagonisti e comprimari è destinato a essere travolto da circostanze eccezionali?". Ora sarebbe interessante sapere di quali "canali tradizionali", "rituali tipici" e "circostanze eccezionali" stia vaneggiando. La Costituzione prevede che le crisi di governo si aprano in Parlamento, dove il capo dello Stato verifica l' esistenza di una maggioranza e, in caso contrario, indìce le elezioni. Senz' alcun cenno a circostanze eccezionali. Folli (o chi per lui) sta chiedendo qualcosa di diverso a Mattarella, in codice? Lo fa pensare il secondo interrogativo: "Nel caso in cui il bandolo della matassa fosse ancora nelle mani dei poteri riconosciuti, c' è qualcuno che già ora si prepara a gestire una stagione drammatica?". Ecco: a quali mani, diverse da quelle dei "poteri riconosciuti" (capo dello Stato e Parlamento eletto dal popolo) il Folli vorrebbe consegnare il bandolo della matassa? La famiglia Agnelli-Elkann? La Fiat-Fca tornata a essere "la Feroce" di Pansa? La Confindustria? Una superloggia? Qualche conventicola di tecnocrati mai eletti né legittimati dal Parlamento? L' esercito? I Caschi blu? Le teste di cuoio? Le Giovani Marmotte? "In quel caso", scrive il (ti)gellino, "occorre aver predisposto un piano B". Un bel piano Solo, o più probabilmente un piano Sòla: "un sentiero tendenziale verso qualche forma di unità nazionale". Fortuna che "il Pd - incalzato da Renzi - comincia a rendersi conto che lo status quo non può durare" e bisogna "tenere sotto controllo il premier" (per fargli fare quel che vuole Folli o chi per lui). Invece, se Dio vuole, " FI è già pronta per il dopo" (qui i lettori di Rep fanno proprio la ola). Purtroppo "Salvini ha perso il piglio che aveva a suo tempo, comunque si volesse giudicarlo" (testuale), ma Zaia e Giorgetti scalpitano e "per lui il tempo stringe", sennò si perde sul sentiero tendenziale. Meglio la Meloni, che "non esclude il confronto" e ha "carte migliori da giocare al tavolo dei futuri assetti" per evitare, Dio non voglia, che "il 14% dei sondaggi finisca in frigorifero". Nulla è previsto, nel Risiko folliano, per quel trascurabile dettaglio del M5S , partito più votato alle ultime elezioni. Ma l' allegato 13-bis del Piano Sòla, intitolato "Gli enucleandi", prevede per loro la deportazione nella base di Capo Marrargiu.
Liberoquotidiano.it il 29 aprile 2020. Marco Travaglio, nel suo abituale plauso a Giuseppe Conte, è incappato in un vero e proprio scivolone. Il direttore del Fatto Quotidiano, dopo la diretta tv di domenica sulla Fase 2, è corso in aiuto al premier. Sul suo quotidiano ha inveito contro chi nutre "quell'opinione diffusa e in quale terrazza o loggia si annidi" che Conte si sia macchiato di un disastro nella conferenza sul coronavirus. In poche parole Travaglio se la prende con tutti, visto e considerato che il presidente del Consiglio per le misure restrittive ribadite e il modo in cui le ha comunicate è stato preso di mira da opposizioni e non (basta pensare a Matteo Renzi e il suo "calpesta la Costituzione" ndr). Il direttore del Fatto prosegue nel suo elogio citando il sondaggio di Openpolis "sulla prova televisiva di domenica" che dà l'81 per cento degli italiani pro-Conte e solo il 16 contrario. Peccato però che la smentita arrivi da niente di meno di Lorenzo Pregliasco, sondaggista di YouTrend: "Il direttore Travaglio oggi cita uno strano sondaggio su Conte - è il preludio su Twitter -. A una prima verifica: il sondaggio non è di Openpolis (che non fa sondaggi!) ma di Demopolis, poi il sondaggio non era "sulla prova televisiva di domenica", ma sul prolungamento delle misure al 3 maggio" Travaglio, nel suo encomio a Conte, questa volta ha esagerato.
Travaglio, incredibile “riabilitazione” di Berlusconi dalla Gruber: “Non ho mai detto che…”. Redazione de Il Secolo D'Italia mercoledì 29 aprile 2020. Ci vuole un bel coraggio, o faccia tosta, trattandosi di Marco Travaglio. Anzi, impudenza. L’odiatore numero uno di Berlusconi arriva ora a smentire se stesso ed elogia a modo suo il fondatore di Forza Italia. La “conversione” a Berlusconi è avvenuta ad “Otto e mezzo” da Lilli Gruber. La difesa dell’indifendibile governo Conte gli fa dimenticare che buona parte della sua vita professionale Travaglio l’ha dedicata ad attaccare il Cavaliere, ai limiti dell’insulto. Una piroetta ridicola. Ce lo ricordiamo tutti dare man forte a Michele Santoro in tv. Gli ha dato del mafioso. Cosa è cambiato ora, di grazia? Cambia che il direttore del Fatto si attacca anche al leader di Forza Italia un tempo odiato, per farci digerire la pillola amara del governo Conte. Berlusconi, si sa, in questa emergenza coronavirus è colui che nell’opposizione sta usando toni più sobri nella critica a Giuseppe Conte. Berlusconi con il “sì” al Mes per le spese mediche e sanitarie ora viene visto da Travaglio come un’ancora di salvezza per il governo nei rapporti con l‘Europa. Berlusconi improvvisamente agli occhi di Travaglio diventa buono. Perché la sua missione quotidiana ormai è difendere, sempre e comunque e ad ogni costo, Giuseppe Conte. la retromarcia di Travaglio è indigeribile, lo diciamo francamente. Dopo anni passati a insultarlo, Travaglio – ospite di Lilli Gruber a Otto e Mezzo – ha l’ardire di affermare: “Non ho mai detto che sia un cafone, Berlusconi sta facendo opposizione educata”. Insomma, per Travaglio il Cav ora è un mito. O quasi. Incredibile retromarcia. A quando la beatificazione? Travaglio ne sarebbe capace…
Pietrangelo Buttafuoco per il “Fatto quotidiano” il 27 aprile 2020. L'unica destra accettata è quella che piace a sinistra. Mara Carfagna che porta i diritti civili ai ricchi invece che garanzie sociali ai borgatari, quindi Silvio Berlusconi che tiene da conto Giuseppe Conte e, infine, Papa Francesco: il titolare del marchio "Dio, Patria e Famiglia" che rinfresca la ragione sociale della ditta in chiave Cirinnà, nel senso di Monica. Nessuno dei tre, sia Carfagna, sia Berlusconi che Bergoglio - manco a dirlo - mai vorrebbe essere collocato a destra e fatto è che destra-destra ha cattiva stampa: è coatta, abita la pancia degli italiani, ed è ancora una volta quella "alle vongole"; giusto quella della formula di Mario Pannunzio - lo scriveva su Il Mondo, correva l' anno 1952 - marchiata nella condizione di minorità antropologica. La lingua del potere che è quella della sinistra - quella degli italiani di serie A, che è quella delle istituzioni oltretutto - è l' unico codice incaricato di ammannire le legittimazioni per così fare del sistema "Paese", nell'interezza della sua struttura burocratica-amministrativa, un vero e proprio regime di psico-polizia. Un unico tazebao la cui voce del padrone è il mainstream che decreta la reputazione di tale e di talaltro ben oltre il perimetro della discussione pubblica. Il dettato, interviene direttamente sul sentimento e sulla percezione di uomini e fatti, e gli esempi - ma la discussione è davvero logora - non mancano. Vittorio Feltri ha la scorta da vent'anni ma questa sua condizione di pericolo non determina nessuna narrazione epica, anzi. Adesso che s'è venuto a sapere di certo qualcuno si premurerà presso il ministro Lamorgese per chiederne la revoca. La sua aura, infatti, è quella del ceffo cui censurare le "incaute ospitate" presso le apposite autorità morali. Al di là dei discorsi sui meridionali - sull' eccesso di pop che il direttore di Libero è capace di generare - nessuno si accorge di un dettaglio rivelatore: in occasione dei 96 anni di Eugenio Scalfari, sul suo giornale impossibile da esibire tra i benpensanti, Feltri scrive un così magnifico ritratto del fondatore de La Repubblica da costringerci tutti a un perché. Perché mai, a parti invertite, un fatto così cavalleresco e sincero, da sinistra a destra non potrà mai esserci? Quando muore Giovannino Guareschi, l'autore di Don Camillo, l'Unità scrive una breve: "È morto lo scrittore che non era mai nato". Il Secolo d' Italia - il quotidiano della destra nazionale - in morte di Palmiro Togliatti pubblica un articolo di compiuta eleganza: "Questo requiem per Togliatti è venuto giù come ci veniva; come conveniva all'uomo e alla nostra stessa dignità". La destra, urge ripeterlo, segue l'insegnamento di Leo Longanesi: "Irresistibilmente attratti dalle idee altrui." La sinistra, al contrario, si compiace di sé al punto di voler conformare a se stessa la propria negazione. A immagine e somiglianza dell'Italia, ce n'è solo una di destra: "Una destra che piacerebbe a Montanelli", dice Aldo Cazzullo, editorialista de Il Corriere della Sera, in un' intervista a Pietro Senaldi di Libero. Ed è, questa della variabile "Montanelli", il suggello. Apre la strada a quella maggioranza silenziosa da sempre senza voce e senza rappresentanza politica, avvia il sentire del ceto medio in un altrove tutto di destra-destra, senza più complessi di sudditanza perché, sia detto una volta per tutte, non c'è paragone tra Il Mondo di Pannunzio e Il Borghese di Longanesi. Non c' è mai stato paragone.
Editoria, Verdelli non è più il direttore di "Repubblica". Oggi il cda del gruppo editoriale Gedi comunicherà il nome del nuovo direttore di Repubblica. In pole ci sarebbe Maurizio Molinari. Gabriele Laganà, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale. In modo inaspettato La Repubblica e Carlo Verdelli si dicono addio. L’attuale direttore del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ha comunicato al Cdr di aver appreso stamane che la proprietà aveva deciso la risoluzione del rapporto. È stato lo stesso Cdr del giornale in una nota a rendere pubblica la notizia. "Non essendo possibile vedersi in assemblea per evidenti ragioni legate all'emergenza coronavirus, è convocata ad horas una riunione da remoto con tutti i fiduciari dei settori e delle redazioni locali", si aggiunge nel documento. Il tutto avviene alla vigilia del cda del gruppo editoriale Gedi, controllato dalla famiglia Elkann. Questa importante novità nel mondo dell’informazione apre ad un valzer di nuove nomine. Secondo fonti qualificate, Maurizio Molinari si appresta ad assumere la carica di direttore di Repubblica, in sostituzione di Carlo Verdelli. Molinari, che oggi dirige La Stampa, sarebbe a sua volta sostituito alla guida della testata torinese da Massimo Giannini, attuale vicedirettore di Repubblica. Sia la Stampa che Repubblica fanno parte del gruppo editoriale Gedi. In questi giorni, attraverso #iostoconverdelli, Verdelli aveva incassato la solidarietà di politici e giornalisti per le minacce di morte ricevute sui social nei giorni scorsi. "Ancora minacce di morte a Carlo Verdelli, già costretto a una vita sotto scorta. Come ormai accade da mesi, l'odio contro il direttore e i giornalisti di Repubblica viaggia sui social network, veicolato da account anonimi. L'ennesimo episodio è purtroppo solo l'ultimo, in ordine di tempo, di una lunga serie cominciata con minacce e intimidazioni provenienti da gruppi di estrema destra. Al direttore, al Cdr e a tutta le redazione va la solidarietà della Federazione nazionale della Stampa italiana. Ma gli attestati di vicinanza non bastano". È quanto avevano affermato in una nota Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Fnsi. "E' necessario - avevano aggiunto- che il ministero dell'Interno si attivi per risalire agli esecutori e ricostruire la linea dei mandanti delle intimidazioni a Verdelli, che sono attacchi alla libertà del giornale che dirige e alla libertà di informazione nel nostro Paese. La Fnsi ha chiesto di convocare una riunione tematica dell'Osservatorio per la sicurezza dei giornalisti istituito al Viminale per mettere a punto misure per arginare le minacce ai cronisti provenienti da gruppi di ispirazione nazifascista".
Repubblica, la lettera di Carlo Verdelli ai lettori: "Partigiani si nasce". Una cannonata contro John Elkann? Libero Quotidiano il 24 aprile 2020. Cacciato, fatto fuori di John Elkann: Carlo Verdelli è stato costretto a lasciare la direzione di Repubblica. Decisione che ha fatto insorgere la redazione, in sciopero: oggi, venerdì 24 aprile, il quotidiano non è in edicola e il sito non viene aggiornato. E il sito si apre con una lettera inviata da Verdelli ai lettori (qui il testo integrale), missiva in cui il direttore usa toni appassionati, in linea con la svolta a super-sinistra che aveva impresso alla sua Repubblica, che poteva piacere oppure no ma che aveva ritrovato una grande identità. E nelle battute finali si legge: "Eugenio Scalfari, nel 1976, ha creato il dna di questa scuola di giornalismo e i pochi direttori che gli sono succeduti, a cominciare da Ezio Mauro e poi da Mario Calabresi, l’hanno fatta crescere, gli hanno aggiunto ingredienti, ne hanno rafforzato l’identità". E ancora, aggiunge Verdelli: "Ho parlato tante volte, durante questo mio viaggio, con Eugenio e Ezio, e molto ho imparato dalla sapienza di entrambi. Soprattutto ho imparato, in un corso accelerato, quale sia l’anima profonda di questo giornale, quanto abbia a che fare con i valori forti della democrazia, dell’indipendenza, della libertà". Infine, il direttore ricorda come "sabato sarà il 25 aprile, la festa sacra e laica della Liberazione. Repubblica la onorerà con un impegno particolare, visto il momento che il Paese sta attraversando. Sarà il nuovo direttore, Maurizio Molinari, a cui va il mio in bocca al lupo, a guidare il giornale in un momento che sarà insieme di memoria e di voglia di rinascita. Lo seguirò da lettore, con l’attaccamento appassionato per un giornale che è qualcosa di più di un giornale, per una comunità di lettori che ne è la ragione prima di esistenza, per una redazione con la quale è stata una fortuna condividere questo viaggio". Ed eccoci alla chiusa scelta da Verdelli: "Partigiani si nasce, e non si smette di esserlo". Ovvio il riferimento al 25 aprile. Ma non è difficile scorgere dietro a queste parole un riferimento anche ad Elkann, un attacco, una rivendicazione dell'ormai ex direttore il quale non è disposto a cambiare le sue idee. A costo di farsi cacciare.
Da repubblica.it il 24 aprile 2020. Cari lettori, Repubblica non sarà in edicola venerdì 24 aprile, giorno in cui anche il sito internet sarà fermo, a seguito dello sciopero deciso a larghissima maggioranza dai suoi giornalisti dopo la decisione del Cda del Gruppo Gedi di sostituire il direttore Carlo Verdelli come primo atto della nuova compagine proprietaria nel giorno del suo insediamento. L’iniziativa dei giornalisti di Repubblica non vuol essere un atto ostile nei confronti del nuovo direttore Maurizio Molinari, al quale sin da ora la redazione offre la propria collaborazione con lo stesso impegno, la dedizione e lo spirito di sacrificio che hanno accompagnato tutte le precedenti direzioni di questo giornale. Ciò nonostante, la Redazione non può non rilevare come la scelta dell’editore cada in un momento mai visto prima per il Paese e per tutto il pianeta, aggrediti da una pandemia che sta seminando dolore e morte e sta chiamando tutti noi a uno sforzo straordinario. E proprio nel giorno indicato come data della morte del direttore Verdelli dagli anonimi che ormai da mesi lo minacciano, tanto da spingere il Viminale ad assegnargli una scorta. Una tempistica quanto meno imbarazzante. La Redazione di Repubblica, consapevole delle difficoltà che sta attraversando – e non da ora - il settore dell’editoria, continuerà a fare la sua parte, ma chiede al nuovo editore di rispettare i sacrifici che i giornalisti sopportano ormai da anni e di predisporre un piano industriale che preveda investimenti e non ulteriori tagli. Men che meno agli organici. Repubblica non è e non è mai stato un giornale come tutti gli altri. Ha sempre avuto una identità forte espressa in una linea chiara. “E’ un giornale d’informazione il quale anziché ostentare una illusoria neutralità politica, dichiara esplicitamente di aver fatto una scelta di campo”. Sono le parole usate dal fondatore Eugenio Scalfari nel suo primo editoriale del 1976. Parole che valevano allora. E valgono a maggior ragione oggi. Il Cdr di Repubblica.
Carlo Tecce per “il Fatto Quotidiano” il 25 aprile 2020. Va così dal 14 gennaio 1976: "Io non lascio Repubblica. E domenica scrivo il mio pezzo, come sempre. Voglio tributare il mio saluto a Carlo Verdelli, il direttore liquidato, fatto fuori, cacciato in maniera brutale, e voglio porre alcune condizioni ambientali per il futuro, non per me, ma per il nostro giornale", dice il fondatore Eugenio Scalfari con un sottofondo di musica da camera. "Verdelli era il mio alter ego, mi piaceva molto. Ha colto subito lo spirito di Repubblica. Io gli ho offerto alcuni consigli, lui mi ascoltava e lavorava. Non meritava questo trattamento, è vergognoso. Maurizio Molinari non mi ha chiamato, certo non può convocarmi in ufficio perché siamo reclusi per la pandemia, però non mi ha telefonato e non l' ha fatto neanche l' editore John Elkann. Aspetto, poi tra un po' mando il mio testo a Molinari. Devo riflettere ancora, sto rileggendo il Candido di Voltaire. La prima domanda era sulla mia salute. Io sto bene come può augurarsi di stare bene un uomo che ha appena compiuto 96 anni. Ormai ho trascorso altre due settimane, quindi mi avvicino a un mese dei 97". Ogni volta che accade qualcosa a Repubblica il pensiero corre a Scalfari, e di cose ne sono accadute in mezzo secolo, con un' inesorabile caduta dei simboli nell' ultimo tratto. L' epilogo è l' addio della famiglia De Benedetti, l' ingresso degli Agnelli che di cognome fanno Elkann, la direzione assegnata a Maurizio Molinari con il licenziamento improvviso di Verdelli. Le redazioni di Repubblica, e per esteso dell' ex gruppo Espresso riconiato in Gedi, temono una svolta a destra, politica, concettuale, identitaria, comunque la fine di un modo di sentirsi sinistra e protagonista di un territorio culturale. "La qualità del lavoro nasce dalla fusione fra conoscenza, professionalità e passione", ieri l' azienda ha inviato ai dipendenti un comunicato abbastanza asettico con una doppia firma, da un lato l' amministratore delegato Maurizio Scanavino e dall' altro Maurizio Molinari con la qualifica di direttore editoriale. Scanavino e Molinari hanno enunciato un programma pregno di "innovazione", "piattaforma", "digitale", "transizione", un appello alla "schiettezza" tra colleghi e assai povero di valori. Anzi, di sentimenti. I sentimenti, con il loro armamentario di nostalgia, hanno contributo a uccidere i giornali di carta dopo che li hanno in parte generati, però nei dintorni di Repubblica si crede che senza i sentimenti - e senza la pretesa di interpretarli - quel tipo di giornalismo non possa esistere. Elkann applica una logica industriale e lo fa in modo totalizzante. Ha negoziato con la storia di Repubblica come la Fiat negoziò con i sindacati di Pomigliano: c' è un' unica linea, la sua. Il sommovimento che ha interessato Repubblica, La Stampa, l' Huffington post e le radio l' ha deciso in gennaio, tre mesi fa, già era organizzato in dicembre nei giorni dell' acquisto di Gedi per cento milioni di euro, un' operazione pianificata da quattro anni, altro che trattative istantanee. Elkann non ha intenzione - s' è capito - di mediare tra le differenze editoriali in Gedi, persegue un modello di giornalismo talmente diverso da Repubblica che ne è la sua negazione, e dunque la sua nemesi. Il disagio per l' approccio di John e la diffidenza con cui è stato accolto Molinari, con uno sciopero, può ispirare scissioni, progetti di nuovi giornali in nome di una sinistra perduta. È ciò che, forse, si augura lo stesso John. Per far riposare le forbici dei tagli e integrare meglio.
“PARTIGIANI SI NASCE, E NON SI SMETTE DI ESSERLO”. Carlo Verdelli per Repubblica.it il 24 aprile 2020. Cari lettori, non è difficile immaginare che cosa state provando, che sacrifici state facendo, quanti dolori e privazioni state sopportando, senza neanche sapere bene quando questo avrà fine. Non è difficile immedesimarsi nella sofferenza dei bambini, costretti a una lunga stagione senza gli amici, senza la scuola, senza l’aria da mangiarsi a bocca aperta correndo in un cortile o in un prato. Non è difficile patire insieme a quell’Italia ferita e smarrita e smagrita, che sa bene cosa l’aspetta alla fine del tunnel dell’epidemia: sacrifici, sacrifici e ancora sacrifici. E poi le scene delle bare, delle corsie con esseri umani stremati dentro a strani caschi, dei medici e degli infermieri che hanno dato letteralmente la vita cercando di salvare quella degli altri. La falce del coronavirus ha spezzato in due le nostre esistenze, in un prima che sembra lontanissimo e in un dopo, quello nel quale siamo ancora immersi, che richiederà molta forza e altrettanto coraggio per essere affrontato senza lasciarsi prendere dallo sconforto o dalla furia. Da Repubblica abbiamo cercato di raccontare tutto questo, come è nella storia lunga di questo grande giornale. Raccontare, cercare di capire, provare a spiegare in modo trasparente: il giornalismo non è un affare complicato. E’ un mestiere civile, che richiede devozione e passione. La redazione che ho avuto l’onore di guidare in questi 14 mesi è stata formata su questi principi, li applica in automatico, che si tratti di politica o di finanza, di cultura o di qualsiasi altro argomento di cui è intrecciato il nostro presente. Eugenio Scalfari, nel 1976, ha creato il dna di questa scuola di giornalismo e i pochi direttori che gli sono succeduti, a cominciare da Ezio Mauro e poi da Mario Calabresi, l’hanno fatta crescere, gli hanno aggiunto ingredienti, ne hanno rafforzato l’identità. Ho parlato tante volte, durante questo mio viaggio, con Eugenio e Ezio, e molto ho imparato dalla sapienza di entrambi. Soprattutto ho imparato, in un corso accelerato, quale sia l’anima profonda di questo giornale, quanto abbia a che fare con i valori forti della democrazia, dell’indipendenza, della libertà. Sabato sarà il 25 aprile, la festa sacra e laica della Liberazione. Repubblica la onorerà con un impegno particolare, visto il momento che il Paese sta attraversando. Sarà il nuovo direttore, Maurizio Molinari, a cui va il mio in bocca al lupo, a guidare il giornale in un momento che sarà insieme di memoria e di voglia di rinascita. Lo seguirò da lettore, con l’attaccamento appassionato per un giornale che è qualcosa di più di un giornale, per una comunità di lettori che ne è la ragione prima di esistenza, per una redazione con la quale è stata una fortuna condividere questo viaggio. Partigiani si nasce, e non si smette di esserlo.
Giampiero Mughini per Dagospia il 24 aprile 2020. Caro Dago, ai miei occhi restano assurdi i cerimoniali del sindacato dei giornalisti, cerimoniali che ho disprezzato per tutto il lungo tempo in cui ho tratto il mio pane dai giornali. Succede che la proprietà cambi con un gesto secco il direttore di un giornale molto importante, quel Carlo Verdelli al quale vanno i miei auguri di in bocca al lupo, e che succede? Che i giornalisti scioperano a costo di non fare uscire il giornale, il cui nuovo direttore è del resto una figura adamantina, Maurizio Molinari (me lo ricordo giovanissimo all’ “Indipendente” di Vittorio Feltri e poi di Pialuisa Bianco). Ma che senso ha non fare uscire il giornale? Quale occasione migliore per mettere sotto la lente di ingrandimento i pregi e gli eventuali difetti della “Repubblica” di Verdelli eccetera eccetera, i pregi se ci sono del nuovo direttore, il che e il come della “linea” possibile di Repubblica eccetera eccetera. E dunque la dichiarazione di addio di Verdelli l’ho letta su Dagospia. Ripeto, a lui mille auguri. C’è però una frase finale di quella sua dichiarazione che mi ha lasciato in bambola. Lì dove lui fa riferimento alle vicinissime e immancabili commemorazioni del 25 aprile, commemorazioni da cui la retorica colerà a fiotti al punto da oscurare le roventi verità storiche di quella data simbolo. Ed è la frase seguente: “Partigiani si nasce e lo si resta per sempre”. E’ una frase di cui ai miei occhi è oscurissimo il significato letterale. “Partigiani” in questo caso vuol dire partigiani come lo furono quelli italiani del 1943-1945. Premesso che in quelle bande partigiane c’era tutto e il contrario di tutto, c’erano monarchici repubblicani cattolici comunisti faziosi e comunisti che non lo erano socialisti marxisti e socialisti anticomunisti eccetera eccetera, e soprattutto c’erano degli eroi e dei delinquenti, c’erano degli italiani che volevano regalare Trieste ai comunisti jugoslavi e c’erano italiani come il fratello di Pier Paolo Pasolini e l‘ultimo dei tre nipoti di Italo Svevo che pagarono con la vita il fatto di voler difendere Trieste italiana. Di questo dobbiamo parlare 75 anni dopo anziché cantare “Bella ciao”. E poi la cosa principale, non è vero niente che “partigiani” nel senso del 1943-1945 “ci si nasce”. Furono le condizioni drammaticissime dell’Italia che era andata in guerra contro la Francia, contro l’America, contro l’Urss e che era stata annichilita dalle bombe lanciate dagli aerei angloamericani che fecero una strage al quartiere San Lorenzo di Roma, a creare le condizioni per cui uomini come Giaime Pintor o Willy Jervis (il padre del notissimo psichiatra Giovanni Jervis) buttarono la loro vita sulla bilancia della guerra civile. Giame Pintor lo scrive al suo fratello minore Luigi che se fosse stato per lui si sarebbe dedicato alla letteratura (e alle ragazze), un campo in cui era un maestro già a 24 anni, e non dire che se c’era uno che non “era di sinistra” era lui, interessatissimo com’era agli autori della Rivoluzione Conservatrice in Germania. E’ lui a consigliare alla Einaudi di pubblicare il bellissimo libro di Ernst von Salomon (“I proscritti”), uno che il 24 giugno 1922 che aveva accompagnato alla macchina quelli che stavano andando a uccidere il ministro ebreo Walther Rathenau. Condannato a lunga lunga detenzione, von Salomon in carcere aveva “revisionato” il suo estremismo partigiano _ partigiano in un senso opposto a quello che gli attribuisce Verdelli _ e aveva tentato di comprendere i perché di quella sua formazione estrema e i perché della vittoria del nazismo. Il libro che ho ciato e l’altro libro capitale di von Salomon, “Il Questionario”, sono due tra i grandi libri europei del Novecento. Partigiani non si nasce affatto, semmai si nasce faziosi, “di parte”, e quella è una sciagura che ha colpito tantissimi della mia generazione, gente con la quale per me è difficile persino condividere l’aria che respiriamo quando ci parliamo. Partigiani nel senso di “faziosi”, scriveva Elias Canetti, sono gli articoli dei giornali perché questa è la loro caratteristica, vantare i pregi di una parte contro un’altra in modo da attrarre i lettori favorevoli alla “parte” celebrata. Credo che nel giornale del bravissimo Verdelli ci fossero maree di questi articoli, che instancabilmente celebravano una parte. Mai mai mai, e tanto per fare un esempio, che in uno di quegli articoli si ricordasse che cosa avevano fatto i “partigiani” della 28° Brigata Garibaldi “Mario Gordini” quando il 29 aprile 1945 arrivarono a Pescantina e a Bussolengo, nel veronese, dove s’erano rifugiati parecchi ravennati appartenenti alle disciolte formazioni della Repubblica Sociale. Oltre 300 di loro vennero prelevati e caricati sui camion: molti di loro sottoposti a sevizie e poi fucilati a gruppetti. Nella sola Codevigo la versione ufficiale indica la cifra di 137 fra uomini e donne massacrati. Dopo 75 anni è possibile indicare i fatti di Codevigo o invece bisogna battere e ribattere con il martello della risibile retorica sul fatto che “partigiani si nasce”? Non solo, e poi non è vero che persino nel 1943-1945 non c’era niente di meglio che battersi per la vita e per la morte tra italiani. Ci furono italiani dabbene che si astennero dal praticare la religione del sangue e che vanno ricordati con i loro nomi e cognomi. Raccomando a chi mi sta leggendo un libro pubblicato da Einaudi alcuni anni fa, “Due anni senza gloria. 1943-1945”, di Lovodico Terzi, un libro che meritò il plauso di due lettori eccezionali quali Carlo Fruttero e il Goffredo Fofi della maturità. Per fortuna Terzi “non c’era nato partigiano”, anzi stando alle sue origini familiari avrebbe dovuto andare a combattere dalla parte di Salò. Non ne ebbe la benché minima libidine di farlo, restò in disparte, si astenne. Meno male che in molti lo abbiano fatto tanto che il bagno di sangue è stato inferiore. A meno di non credere, ma questo lo può fare solo un babbeo, che la Liberazione del 25 aprile 1945 fosse dovuta ai partigiani e non agli angloalleati che con i loro bombardamenti avevano squassato le principali città italiane. Ho letto qualche tempo fa un libro famosissimo, il “Napoli ‘44” dell’inglese Norman Lewis, che a fine 1943 era sbarcato in Italia e che risalì la penisola a fianco delle truppe alleate. Lewis menziona soldati polacchi, canadesi, inglesi, americani, marocchini (purtroppo per molte donne italiane), non un solo soldato italiano per non dire un partigiano. Semplicemente perché non c’erano. Non ce n’erano di partigiani che erano nati tali e che lo sarebbero rimasti tutta la vita.
Repubblica in sciopero per la cacciata di Carlo Verdelli. Le ragioni di Elkann, perché anche Scalfari è stato sconfitto. Libero Quotidiano il 24 aprile 2020. Cacciato, di fatto, da John Elkann. Questo è quanto accaduto a Carlo Verdelli, a cui il nuovo Cda di Gedi ha tolto la direzione di Repubblica (al suo posto, Maurizio Molinari). Un cambio che deriva dalla nuova proprietà: Exor, controllata di Elkann e dalla famiglia Agnelli, ha acquistato il 43,7% del gruppo. E Exor, tramite la nuova società Giano Holding, salirà al 60,9% del capitale sociale. Elkann è stato nominato presidente del gruppo, e ha deciso di rimuovere Verdelli. Già, per l'erede Agnelli era schierato troppo a sinistra, anche se era riuscito a dare nuova linfa e identità al quotidiano dopo la parentesi di Mario Calabresi. Un giornale barricadero, schieratissimo, che però piaceva al suo pubblico anche se come molti nel settore continuava a perdere qualche copia. Verdelli aveva grandissima sintonia con Eugenio Scalfari, ma ciò non è bastato. Così come non sono bastate le proteste della redazione, convinte che in piena emergenza coronavirus il cambio di direzione non fosse una scelta saggia. E ancora, negli ultimi giorni si è molto parlato delle minacce di morte ricevute da Verdelli, messo sotto scorta: insomma, in molti dentro a Repubblica e non solo hanno trovato pessimo il tempismo della cacciata. E infatti, ora, è l'inferno. La redazione ha duramente protestato contro la decisione di Elkann: dopo la comunicazione è stata convocata un'assemblea che è durata molte ore. Alta tensione, nervosismo. E al termine della riunione è stato decretato uno sciopero per oggi, venerdì 24 aprile: il quotidiano non è in edicola, il sito rimarrà fermo 24 ore.
Carlo Verdelli, lo sfogo di Eugenio Scalfari contro il cambio di direzione: "Elkann non mi ha chiamato”. Libero Quotidiano il 25 aprile 2020. Eugenio Scalfari rompe il silenzio dopo che Carlo Verdelli è stato liquidato "in modo brutale" dalla direzione di Repubblica. "Verdelli era il mio alter ego, mi piaceva molto. Ha colto subito lo spirito di Repubblica. Io gli ho offerto alcuni consigli, lui mi ascoltava e lavorava. Non meritava questo trattamento, è vergognoso". Maurizio Molinari, nuovo direttore chiamato da John Elkann (alla guida di Gedi, l'ex Gruppo Espresso ndr) parte già con il piede sbagliato. "Non mi ha chiamato - confessa Scalfari nello sfogo captato dal Fatto Quotidiano - certo non può convocarmi in ufficio perché siamo reclusi per la pandemia, però non mi ha telefonato e non l'ha fatto neanche l'editore John Elkann. Aspetto, poi tra un po' mando il mio testo a Molinari. Devo riflettere ancora". Ma quanto è avvenuto ai vertici del quotidiano ha indignato anche i giornalisti: al disagio per l'approccio di John Elkann e la diffidenza con cui è stato accolto Molinari, la redazione ha risposto con uno sciopero. Sciopero sostenuto, a quanto pare, anche dal fondatore.
Andrea Montanari su senzabavaglio.info il 24 aprile 2020. Proviamo a mettere in fila un po’ di pensieri sul tema Exor, Cir, Gedi, Repubblica, Verdelli, Molinari ecc ecc ecc. Alcune premesse:
1) Exor è una delle holding più liquide in assoluto sul panorama italiana, seppure sia olandese, ma la famiglia Agnelli-Elkann sia di Torino. Ha ceduto asset – da Partner Re a Fca che si sposa con Psa e prima Fca ha venduto Magneti Marelli – e si tiene il gioiellino Ferrari.
2) John Elkann ha sempre avuto la passione/pallino per l’editoria: Fiat/Fca era il primo socio di Rcs – la gestione non è stata certo il top in anni di crisi – prima di passare la mano a Urbano Cairo che ha vinto la sfida con il salotto buono. Exor è azionista di The Economist. John apprezza l’Osservatorio Giovani Editori di Andrea Ceccherini.
3) Il matrimonio tra l’ex Gruppo l’Espresso e Itedi è durato lo spazio di un mattino, visto che in tre anni è stato stravolto l’assetto proprietario con la Cir dei De Benedetti – nel 2008 Rodolfo aveva studiato lo spin-off delle attività allora controllate, compresa Sorgenia, un progetto non andato in porto per la contrarietà del padre Carlo. Per cui ci si aspettava che il cambio di direzione a Repubblica, del quale si parlava da mesi, ossia da quando CIr ed Exor hanno studiato il nuovo deal, non avvenisse ora, in un periodo emergenzial, ma in autunno, con calma. Quindi qualcosa deve essere andato storto o precipitato. Perché?
1) Carlo Verdelli era arrivato nel febbraio 2019 a Repubblica dopo una lunga riflessione dei soci Elkann-De Benedetti. La scelta che pareva più logica, per un giornale come il quotidiano romano, faceva riferimento a Ferruccio de Bortoli, molto apprezzato dall’Ing e non solo. Ma non piaceva a John Elkann, forse anche per qualche incompresione quando FdB era direttore del Corriere della Sera con Fiat/Fca 1° socio.
2) Si scelse Verdelli per il curriculum, la storia, l’indipendenza, il carattere e perché tutti i giornalisti che hanno lavorato con lui lo hanno sempre apprezzato, nonostante anche nella breve esperienza in Rai le cose non andaron benissimo: esiste la leggenda, molto vera, del semaforo sulla porta del direttore Verdelli per accedere alla sua stanza.
3) Verdelli ha raccolta l’eredità di Mario Calabresi con un quotidiano che vendeva in edicola 138.675 copie (dato Ads del febbraio 2019) e lo ha lasciato con 132.270 copie (dato Ads febbraio 2020, ultimo disponibile), quando per esempio nel febbraio 2015 ne vendeva, sempre in edicola 238.476.
Questi sono i fatti (e i numeri fino a oggi). Ma poi cosa è successo? John Elkann è persona decisa, vuole i suoi uomini: l’ad di Gedi, Laura Cioli, che aveva avuto e voluto anche in Rcs dopo l’esperienza di Pietro Scott Jovane, non è stata confermata già mesi fa quando si è deciso il merger. Al suo posto è arrivato Maurizio Scanavino, magari della scuderia torinese tra Fca, Itedi, Publikompass ecc ecc molto vicino a Elkann stesso. Manager apprezzato dal mercato. Ma il blitz a Repubblica, consumato curiosamente o stranamente nel giorno in cui l’hashtag #iostoconverdelli spopolava su Twitter (a difesa del giornalista minacciato più volte sui social e non, al punto che era comparsa persino un data di morte, guarda caso proprio oggi, poi cancellata, per fortuna direi), è particolare. Ma ha delle spiegazioni. Elkann apprezza parecchio Maurizio Molinari che ha voluto nel novembre 2015 alla direzione de La Stampa (copie vendute in edicola: 140.472) e che lascia con 86.619 copie (febbraio 2020), -38,33%. Si fida di lui, anche se politicamente è distante, parecchio, da Repubblica e dal suo lettorato. E’ una scelta, forte, di campo, da decifrare. Per questo la redazione di Repubblica oggi ha proclamato un giorno di sciopero. Verdelli ha dato uno svolta a Repubblica, ha fatto titoli forti, d’impatto, che magari non erano in linea con lettorato del quotidiano romano da sempre faro del Centrosinistra e del Pd, o di una parte di esso: le battaglie combattute dalla testata fondata da Eugenio Scalfari sono state d’impatto e decisive per il Paese e la politica. Linea che però, dati alla mano non ha portato risultati crescenti – del resto il mercato è in crisi dal 2008 – e non ha colmato il gap con il Corriere della Sera, quotidiano che Verdelli conosce bene per esserne stato vicedirettore anche con de Bortoli. Ma probabilmente la linea strong della Repubblica di Verdelli non erano e non sono nei canoni editoriali di Elkann che forse preferisce tematiche meno politiche o campagne mediatiche meno strillate. Poi c’è un particolare che nel mondo giornalistico oggi è tornato alla mente: Verdelli era il direttore di quella Gazzetta dello Sport che sollevò e cavalcò il caso Calciopoli, scoppiato nel 2006 – anno della vittoria dell’Italia ai Mondiali di calcio che garantì al quotidiano sportivo il record di copie, 2 milioni nel giorno successivo al successo – che portò alla retrocessione in B della Juventus di proprietà degli Agnelli-Elkann.
(Agenzia Nova il 25 aprile 2020) - Il presidente del gruppo automobilistico italo-statunitense Fiat Crhysler Automobiles (Fca) John Elkann, erede della famiglia Agnelli, sta perseverando nella sua scommessa controcorrente sulla carta stampata in Italia, nonostante i problemi strutturali del settore e le conseguenze della pandemia di coronavirus sull'economia italiana. Lo afferma il quotidiano britannico "Financial Times" commentando la notizia che Exor, holding della famiglia Agnelli, ieri 23 aprile ha completato l'investimento da 102,4 milioni di euro con il quale ha acquisito la quota di controllo di Gedi, il maggior gruppo editoriale italiano facente capo alla famiglia De Benedetti. Annunciata a dicembre del 2019, la transazione segna la fine del regno trentennale dei De Benedetti alla guida di Gedi, che impiega oltre mille giornalisti e include i quotidiani "La Repubblica" e "La Stampa", il settimanale "L’Espresso" e tre stazioni radio a diffusione nazionale. Nell'editoria italiana, l'acquisizione di Gedi da parte di Exor è ampiamente considerata un ritorno degli Agnelli in un settore di cui sono stati a lungo protagonisti. Come nota il "Financial Times", nel 2016 Exor aveva venduto "La Stampa" ai De Benedetti, ma l'anno prima era diventata il primo azionista del settimanale britannico "The Economist", rinnovando la passione per i mezzi di informazione nutrita dal nonno di Elkann, Gianni Agnelli. A ogni modo, secondo il "Financial Times", l'acquisizione di Gedi non è "né un trofeo né frutto di nostalgia, ma un investimento": Elkann è, infatti, convinto di ottenere un successo commerciale dall'operazione ed ha dei piani dettagliati per riuscirci. Nonostante le perdite per 129 milioni di euro registrate da Gedi nel 2019 e quelle che faranno seguito alla crisi innescata dal coronavirus, il presidente di Fca è sicuro che Gedi possa tornare a fare profitti, producendo giornalismo di qualità. I primi obiettivi saranno il potenziamento delle piattaforme digitali, il taglio dei doppioni nelle redazioni locali e lo snellimento della struttura complessiva del gruppo. Tuttavia, la strategia di Elkann potrebbe incontrare diversi ostacoli. In primo luogo, la possibile opposizione nelle redazioni soprattutto dei quotidiani "La Repubblica" e "La Stampa", dove è diffusa la preoccupazione per una maggiore interferenza della proprietà linea editoriale e per tagli del personale. Elkann sembra non preoccuparsi più di tanto ed è davvero convinto che "innovazione e trasformazione digitale" getteranno le basi del giornalismo del futuro.
Perché Verdelli è stato licenziato da direttore di Repubblica, il retroscena. Aldo Torchiaro de Il Riformista il 24 Aprile 2020. Si chiama Giano, come la divinità romana bifronte, la nuova Holding che controlla il gruppo Gedi. Ed è a Giano, Dio dei nuovi inizi, che viene offerta in sacrificio la direzione di Carlo Verdelli a Repubblica. La dipartita di Verdelli, giunta come un fulmine a ciel sereno, è stata il primo atto di un Consiglio di guerra del gruppo Gedi, che ieri ha ridistribuito le carte: nominato Maurizio Molinari, nuovo direttore editoriale del gruppo, ha assunto la direzione di Repubblica indirizzando all’uscente Verdelli gratitudine per il lavoro svolto nel corso dell’ultimo anno e piena solidarietà per le intimidazioni di cui è vittima, e per le quali vive sotto scorta. «In questo nuovo ruolo», precisa una nota, «Molinari avrà il compito di valorizzare la forza giornalistica, i prodotti editoriali e i contenuti intellettuali del gruppo anche attraverso lo sviluppo di progetti innovativi e multimediali». È il risiko, Massimo Giannini assumerà invece l’incarico di direttore de La Stampa e di Gnn (il network dei giornali locali del gruppo Gedi). Pasquale di Molfetta (Linus) sarà il direttore editoriale del polo radiofonico del gruppo, che riunisce tutte le radio intorno a Capital, e rappresenta un asset strategico non di poco conto. Last but not least, Mattia Feltri assumerà la direzione dell’Huffington Post, continuando a firmare il Buongiorno de La Stampa. Beppe Giulietti, segretario della Fnsi, va giù duro. «Premesso che ho la massima stima professionale per Carlo Verdelli, per Maurizio Molinari e per Massimo Giannini, mi sento di dire che se lo stile significa ancora qualcosa, la contemporaneità tra il licenziamento di Verdelli e le minacce a lui rivolte, ebbene è davvero infelice, sebbene casuale». La data in cui viene eseguito il defenestramento infatti coincide con un’altra, fa notare Giulietti: «Proprio oggi cade il giorno in cui le minacce a Verdelli (prima attraverso una falsa pagina di wikipedia, poi con un finto manifesto funebre) fissavano la data della sua morte. Da stamattina con l’hashtag #iostoconverdelli a migliaia su twitter manifestano solidarietà al direttore». Lazzaro Pappagallo, segretario di Stampa Romana, fa un’analisi generale. «Certamente non è stato un gesto appropriato, ci voleva maggiore garbo vista anche la situazione in cui si trova Carlo Verdelli, che vive sotto scorta. Assistiamo a un cambio di linea su tutte e tre le testate. La dirigenza aziendale vuole avere linee chiare dal punto di vista dell’operatività, e non a caso ha deciso simultaneamente tutti i cambi al vertice. Ora vanno visti i piani editoriali. Il timore di Repubblica, avendo un organico così ampio e vendite in calo, è che questa nuova stagione metta a rischio la tenuta occupazionale». I telefoni di Giulietti e Pappagallo sono incandescenti. Le nuove investiture non vanno giù ai giornalisti, soprattutto a Repubblica. Il Cda si riunisce per sette lunghe ore. Poi tutto il personale si autoconvoca in assemblea, dalla quale emerge grande preoccupazione. Si preannunciano 150 esuberi. Si manifesta solidarietà a Verdelli, anche se nessuno vuole comparire. «Hanno fatto un’infamata», ci dice una firma storica del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Il riassetto ai piani alti riguarda anche la governance del gruppo. Per effetto degli acquisti da Cir, Mercurio, Sia Blu e Giacaranda Caracciolo e tenuto conto dell’impegno di Exor, è previsto che Giano Holding venga a detenere una partecipazione in Gedi pari complessivamente ad almeno il 60,90% del capitale sociale. Giornate calde, per l’editoria di informazione. Per la prima volta, sotto la spinta di Vittorio Di Trapani (Usigrai) e per la pronta reazione del presidente Odg, Carlo Verna, si parla non solo di un deferimento disciplinare di Vittorio Feltri, colpevole di affondi particolarmente offensivi verso i meridionali, ma anche di azioni legali in sede civile e penale. E l’Ordine ha anche puntato il dito contro Mario Giordano e quei conduttori tv che calpestano la Carta dei diritti e dei doveri dei giornalisti, la deontologia fondamentale.
Vittorio Feltri, la verità su Verdelli pugnalato da Elkann a Repubblica: "Editori e colleghi traditori, è andata così". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 25 aprile 2020. Anche nei giornali avvengono cose turche, come in tutto il mondo e non solo in Italia, e non sono stupito che Carlo Verdelli, successore di Mario Calabresi alla direzione di la Repubblica sia stato sollevato dall' incarico di direttore, a distanza di un anno o poco più dalla nomina. Verdelli non è uno sconosciuto, l' ultimo arrivato: nella sua lunga vita professionale si è distinto per abilità e intelligenza. Attenzione: io non ho mai condiviso una riga di quanto egli abbia scritto. Di più, non mi è capitato una dannata volta di essere d' accordo con un suo sospiro. Questo per dire che non sono un suo amico o sodale, semplicemente osservo che la sua defenestrazione è stata insensata. Lo hanno voluto alla guida del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, immagino poiché l' editore, che poi si è pentito di averlo assunto, ne apprezzasse le indubbie capacità. Evidentemente non ha sbagliato Verdelli a fare il Verdelli, ma il padrone che prima lo ha scelto come salvatore della patria e poi lo ha cacciato con lo stile con cui si licenzia una cameriera a ore. Proprietari della prestigiosa testata (che a me sta sul gozzo) sono gli Agnelli, cioè la Fiat, non dei droghieri arricchiti. Per quale ragione hanno combinato questo assurdo pasticcio? Con certezza non si sa, si possono soltanto fare delle supposizioni, parenti strette delle supposte. Eccone una. Carlo è stato a capo della Gazzetta dello Sport, tutta milanese, per cui a suo tempo non fu carino con la Juventus, preferendo il Milan e l' Inter, squadre meneghine. Furono i fratelli De Benedetti a chiamarlo al vertice del foglio maneggevole. Credevano in lui, che però ovviamente stava sullo stomaco a Elkann, parente stretto dei bianconeri. Nel momento in cui questi acquistò Repubblica - già possedendo la Stampa e il Secolo XIX di Genova - si ritrovò tra le palle il sullodato Verdelli e alla prima occasione lo silurò: vendetta, tremenda vendetta. La carta stampata è come la moglie: se le hai fatto le corna, anche se lei le ha fatte a te, prima o poi ti punisce nel peggiore dei modi. Cosicché Carlo, senza colpe, si ritrova in mezzo alla strada piena di virus. Racconto questa storia affinché si apprenda che guidare qualunque organo di informazione comporta rischi che oscillano tra il ridicolo e il tragico. Allorché fui chiamato a passare dal Corriere alla massima responsabilità dell' Europeo, la redazione organizzò un comitato d' accoglienza che indisse uno sciopero contro il sottoscritto. Una cosa mai vista: due mesi di astensione. Si consoli Verdelli. Non ebbi la solidarietà di nessuno. Peggio degli editori esistono soltanto i colleghi. Nel giro di due anni condussi - con l' aiuto di Sanculo - il settimanale da 79 mila copie a 136 mila. Fui in seguito chiamato a menare il torrone all' Indipendente che era in via di estinzione. Pure lì fui accolto come uno stupratore, il che mi succede ancora regolarmente, eppure portai trionfalmente la tiratura da 16 mila copie a 126 mila. Poi me ne andai al Giornale orfano di Montanelli e lo trascinai da 120 mila copie a 256. Il mio assistente fu di nuovo Sanculo. Tuttavia, non c' è un cane che mi riconosca almeno la fortuna. E ora sono ancora qui a combattere, a 77 anni, contro i pregiudizi e le invidie. Per offendermi affermano che sono un ricco antimeridionale. Non me la prendo. Il mio sogno è dimettermi dall' ordine dei pennini. Ti ho narrato, Verdelli, le mie tribolazioni per rincuorarti. Non ti deprimere: sei bravo. Sfrutta la tua maestria e manda tutti al diavolo. In particolare redattori ed editori.
Repubblica, Maurizio Molinari non cita Carlo Verdelli nel suo editoriale: l'ultimo caso. Libero Quotidiano il 26 aprile 2020. Riavvolgiamo il nastro fino a ieri, 25 aprile, non solo festa della Liberazione ma anche giorno d'esordio per tre nuovi direttori: Massimo Giannini a La Stampa, Mattia Feltri all'Huffington Post e Maurizio Molinari a Repubblica. Quest'ultimo il debutto più pesante, anche solo per le polemiche che lo hanno accompagnato, con lo sciopero della redazione contro la cacciata di Carlo Verdelli. E inatti, come nota Dagospia, nel suo fondo di esordio, Molinari ha rivolto un saluto ad Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro. Ma Verdelli non lo ha neppure citato, come se non esistesse. Uno sgarbo, una manchevolezza che hanno notato in molti. E sempre Dago, però, sottolinea come non sia piacevole essere accolto dalla tua nuova redazione con uno sciopero di benvenuto...
La Repubblica di Maurizio Molinari tra bufale, foto farlocche e svolta a destra. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 16 Maggio 2020. Che cosa sta succedendo a Repubblica da quando Maurizio Molinari ne è diventato direttore con la cacciata dalla mattina alla sera di Carlo Verdelli, dopo un solo anno di lavoro? Una intervista scoop ai rapitori di Silvia Romano si rivela una bufala. Una foto dei Navigli milanesi affollati malgrado il Covid 19 viene sputtanata sui social come farlocca, alterata. Un improvviso guizzo forcaiolo mette del tutto a sorpresa Repubblica in competizione con il Fatto, per non dire della linea politica sdraiata su quella del governo, osannato con titoli barocchi. Per aiutare il lettore, specialmente se giovane, dichiaro subito il mio conflitto di interessi (ideali) e la mia inevitabile asimmetria, per avvertirlo – a sua tutela – che sono poco oggettivo anche se del tutto onesto. Come forse qualcuno ricorda, feci parte della prima ciurma assunta da Eugenio Scalfari nel dicembre del 1975 per varare il primo quotidiano tabloid italiano che sarebbe uscito per la prima volta dalle rotative il 14 gennaio del 1976 col nome di la Repubblica. Poiché provenivo dalla direzione di un giornale regionale e prima ancora da un decennio di giornalismo all’Avanti! ai tempi di Pietro Nenni e Giacomo Mancini (lo stesso che salvò dall’arresto Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi condannati in primo grado per le rivelazioni sullo scandalo dei fatti del 1964, facendo del primo un deputato milanese e del secondo un senatore a Sapri) diventai per caso il primo caporedattore notturno del neonato giornale. Poi mi liberai di quella fatica notturna e diventai pian piano una delle firme di quel giornale, sicché conservo con piacere la dedica che Scalfari mi scrisse sul suo La sera andavamo a via Veneto: “A Paolo Guzzanti, creatura bizzarra grazie al quale Repubblica è quel che è, e senza il quale non sarebbe ciò che è”. Vecchie glorie ingiallite, d’accordo, ma sempre glorie. Quel giornale nacque e si impose non solo come quotidiano ma anche come oggetto, come griffe, inghiottendo l’argenteria del quotidiano comunista Paese Sera, e poi, grazie allo scandalo della loggia di Licio Gelli P2 sorpassò il Corrierone di via Solferino che perdeva tutti i pezzi, fra cui il direttore Piero Ottone che l’aveva spostato a sinistra con la firma di Pier Paolo Pasolini, e che Scalfari detestava e per puro sfregio, assunse. An other country, an other time. Non sto a rifare la storia del giornale di piazza Indipendenza ma voglio ricordare che quella storia fu esaltante e unica, perché c’era un uomo solo al comando, Eugenio Scalfari che oggi ancora bravamente si difende malgrado l’età veneranda. Inventando la Repubblica con quella sua anima, Eugenio è stato un personaggio unico in Europa e perché fece un giornale unico e irripetibile, persino con un eccesso di identità. E l’identità è quella cosa che se c’è, l’individuo è vivo; ma che se vola via, l’individuo è morto chiunque ne indossi i panni. Quando Carlo De Benedetti (che nel frattempo era diventato l’editore unico) decise – come mi confermò in libro-intervista, di disfarsi del caro fondatore, organizzò nel 1996 una bella cena a casa di Carlo Caracciolo e lì – con le dovute maniere e gli inchini di rito – Scalfari fu archiviato nel ruolo di “Fondatore” e Ezio Mauro (che era stato fino a quel momento il mio direttore a la Stampa dove ero trasmigrato nell’agosto del 1990) prese il suo posto. Il giornale ebbe allora molte reazioni, alcune anche di rigetto, ma poi si assestò. La seconda Repubblica era un opulento giornale della sinistra vicina al Pd ma certo non somigliava molto a quello di Scalfari. Giunto al ventesimo anno di direzione, Ezio volle lasciare e al suo posto andò Mario Calabresi che distribuiva opinioni e fatti con ordine anonimo. Fu così che quando giusto un anno fa riaprii Repubblica guidata da una persona che ancora non conoscevo, Carlo Verdelli, ebbi la sorpresa con molti lettori di una strepitosa novità: è tornata Repubblica. Non la Repubblica del passato, ma un altro giornale che però riaccendeva memorie, sorprese, invenzioni. Tutto andava bene, ma invece si arriva di colpo al cambio della guardia con l’insediamento di Maurizio Molinari, che nel frattempo era stato un ottimo direttore della Stampa di Torino. L’avvicendamento fra Verdelli e Molinari è accaduto a causa di un dramma familiare: i figli di Carlo De Benedetti da tempo non volevano più saperne della carta stampata e, contro il parere del loro padre infuriato, avevano messo Repubblica, l’Espresso e giornali della catena sul mercato. Dopo un paio di mesi la nuova Fiat di Elkann comperò tutto il gruppo che era stato di De Benedetti e con una sola telefonata licenziò in tronco Verdelli per far posto a Molinari, che lasciava la Stampa in un girotondo di nomine. Tutto normale, nel duro mondo dell’editoria. Anche se ci sono modi e modi. Verdelli, inseguito dall’affetto della sua redazione che aveva conquistato in un anno o poco più se ne va lasciando la sedia a Molinari ma accadono eventi editorialmente inauditi, nel senso che non si erano uditi mai. Scalfari – prossimo al secolo e che si definisce «vegliardo» – scrive in un articolo che essendo lui il Fondatore e dunque titolare del genoma di Repubblica, avrebbe posto sotto osservazione il nuovo direttore, raccontando anche di avergli parlato a quattr’occhi, senza però riferire che cosa Molinari avesse risposto. Cose veramente mai viste. Ma immaginiamo che un atto del genere abbia costituito una discreta pressione su Molinari. Come se non bastasse, De Benedetti ha annunciato, furioso, la fondazione di un nuovo giornale diretto da Lucia Annunziata, anche se assicura non tenterà di portarsi via le firme storiche. Anche il neo direttore Molinari aveva esordito con una stranezza non simpatica: nel rituale passaggio delle consegne, non aveva neppure nominato il predecessore Verdelli. Una inconsueta scortesia. Un terzo elemento di pressione esterno è venuto dal fatto che a Repubblica si dà per scontato che il nuovo editore e quindi il suo direttore, vogliano imprimere una “svolta a destra” al giornale. È dunque possibile che Molinari, persona per sua natura compostissima, si sia sentito minacciato, accerchiato, abbia reagito con eccesso, mandando Repubblica fuori controllo. Infatti, senza alcuna ragione giornalisticamente comprensibile, Repubblica si è messa in competizione con il Fatto di Travaglio, ammanettandosi ai manettari durante la rissa fra ministro Sbircia-Sigilli e magistrato Di Matteo, cercando di far sua la crociata per ricacciare in cella “i boss” che, grazie alla pandemia del Covid erano erano stati trasferiti dal 41 bis agli arresti domiciliari, anche per mettere in sicurezza gli agenti penitenziari. Come ha ricordato Piero Sansonetti su questo giornale i numeri dei reclusi che hanno beneficiato di questa utile precauzione salutare e umanitaria, e la loro pericolosità non sono in alcun modo proporzionati a un allarme così carico di elementi forcaioli. L’unica spiegazione è che Molinari, infastidito dalle profezie che lo danno per uomo “di destra” che certamente non è, abbia adottato lo slogan francese Pas d’ennemis à gauche, mai avere mai nemici a sinistra, specialmente se devi fare una politica di destra. Sarebbero le nostre solo congetture se però non fossero capitati altri incidenti: ecco che salta fuori uno screenshot di Repubblica. Una foto che testimonierebbe l’affollamento sui Navigli milanesi in barba al Covid 19 viene smontata sui social come taroccata, cioè manipolata e dunque falsa. Pubblicare immagini certe e certificate oggi è difficilissimo perché tutti sappiamo che Photoshop e fake, manipolazioni e falsi, costituiscono il nuovo scivoloso terreno sul quale chi fa un giornale rischia di farsi male. Una foto, si dirà, è soltanto una foto, ma non si tratta solo di questo. Repubblica sempre più appare sdraiata sulla linea dell’avvocato Conte e il suo sciagurato governo. E così la Repubblica di ieri apriva la prima pagina con una intervista al ministro dell’Economia Gualtieri sotto un titolo baldacchino, assolutamente sottomesso: “Capisco la rabbia. Aiuteremo tutti”. Già vi par di sentire il caposcorta che sussurra: “Presto, eccellenza, non c’è un momento da perdere, la folla è inferocita, i gendarmi sono pochi e male armati, ma un sottomarino ci attende al largo”. E poi, colmo della sfiga, arriva questo scoop su Silvia Romano che porta Repubblica a un incidente – ooops – di un genere sconosciuto al suo direttore. Che succede? Che il quotidiano pubblica una segretissima intervista (del genere detto in gergo “aum-aum”, cioè senza prove certe) con un sedicente membro della banda che ha rapito Silvia Romano, e poi si scopre che quel tizio che ha parlato con Repubblica è morto da 6 anni. Hanno fatto uno scherzo? Se lo sono fatto da soli? La “gola profonda” si era qualificata come un pezzo grosso del jihadismo e “portavoce” dell’organizzazione al-Shabaab, che ha tenuto prigioniera per tutto questo tempo la povera Romano, raccontando dettagli sul rapimento e le sue conseguenze. E poi salta fuori un vero appartenente vivo dell’organizzazione che dichiara che questo Ali Dehere era stramorto. Anche la credibilità comincia a soffrire. Tutte cose che capitano, per carità. Ma quando capitano a un direttore incartato nella plastica con le palline e che sembra aver preso le prime curve a centocinquanta, be’, si resta interdetti. lo ammiro Molinari come analista e scrittore e credo lo sappia. Ma proprio per questo vorrei dirgli, come faceva parte del genoma originario, perché non provi a fare Repubblica senza effetti speciali da autoscontro? Questi accidenti raramente portano bene.
Eugenio Scalfari contro John Elkann per Verdelli. Bomba Dagospia: "Colpa dell'età che avanza". Il fondatore di Repubblica racconta balle? Libero Quotidiano il 25 aprile 2020. Eugenio Scalfari è il bersaglio di Dagospia, dopo che il fondatore di Repubblica ha critcato il cambio di direzione del quotidiano con Molinari al posto di Verdelli. Scalfari si è lamentato soprattutto con Alain Elkann, nuovo presidente della Gedi che comanda il gruppo editoriale di cui fa parte Repubblica, per non essere stato consultato sull'avvicendamento. Il giornalista 96enne, scrive il sito fondato da Roberto D'Agostino, è seduto su una montagna di miliardi di lire per la vendita di Repubblica a Carlo De Benedetti e si lamenta di non essere stato consultato da Elkann sulla nomina di Molinari. magari Elkann si sarà ricordato di ciò che successe a De Benedetti quando lo avvisò della nomina di Giulio Anselmi come suo successore alla direzione di Repubblica ed Eugenio scatenò l'inferno e venne nominato il più docile al pensiero scalfariano Ezio Mauro - comunque, Elkann ha parlato, consultato no, ma non era neanche dovuto, con Scalfari giovedì e Molinari l'ha chiamato più volte: tutta colpa dell'eta' che avanza? Si chiede Dagospia.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 23 aprile 2020. Alcuni giorni orsono Eugenio Scalfari ha compiuto la bellezza di 96 anni. Su Dagospia ho visto una sua fotografia che lo ritrae canuto e fiero, la sigaretta in bocca che sembra una sfida contro la vecchiaia e coloro che la disprezzano, pensando male di tutti i vegliardi, per quanto vispi e intelligenti siano. Del fondatore di Repubblica non si è parlato male mai abbastanza per motivi squallidamente politici. Tuttavia non ho mai incontrato alcuno che non ne abbia riconosciuto un grande valore professionale. Perfino io, che con lui ho avuto vari battibecchi non l' ho mai considerato meno di un fuoriclasse. Concetto che nella presente circostanza desidero ribadire. Non mi interessano i suoi molteplici ribaltoni ideologici, tutta roba fisiologica; chi non ne ha fatti scagli la prima pietra. Eugenio nella sua lunga vita ha attraversato mille burrasche senza mai arrendersi. Almeno questo occorre dirlo e ribadirlo. Non intendo ripercorrere le tappe interessanti della sua esistenza, bensì celebrare un possente giornalista, più fazioso e molto più bravo di me, capace di imporsi con la forza di argomenti capziosi ma assai convincenti. Lo sanno tutti: è stato fascista come numerosi uomini della sua generazione. Chi se ne frega! Pure mio padre era una camicia nera, e non per questo mi do delle arie. Poi Scalfari ha navigato in molti mari procellosi senza bagnarsi le scarpe, poiché è astuto e scaltro più di ogni suo collega, firme illustri comprese, magari più abili con il calamo, per esempio Indro Montanelli, eppure meno provetti nello stare al mondo, un' arte, questa, in cui eccellono soltanto le menti superiori. La sua biografia si beve come champagne: studente modello, già incline a essere un leader, impiegato di banca e, infine, giornalista di vaglia in grado di salire sui gradini più alti di questo mestiere sconcio e difficile. Il nome di Scalfari è legato alle più prestigiose testate nazionali, dal Mondo all' Espresso, le quali hanno segnato il cammino civile del nostro sgangherato Paese. Ovunque la sua penna si sia mossa ha lasciato una traccia indelebile. A un certo punto egli ha realizzato un capolavoro: la fondazione di Repubblica, che sembrava destinata a morire bambina. Era il 1976, quando il regno della carta stampata era dominato dal Corriere della Sera.
INIZI TRIBOLATI. Gli inizi del cosiddetto quotidiano maneggevole (per via del formato) furono senza dubbio tribolati. Lanciare un nuovo organo di informazione è impresa proibitiva. Ma il caso volle che dopo un paio d' anni le Brigate Rosse, assassini che piacevano ai comunisti per comunanza di idee, si accanissero su Aldo Moro, rapito e ucciso a sangue freddo. Scalfari intuì che era il momento giusto per sferrare un attacco rimpinguando le tirature, e riuscì a vincere la battaglia cavalcando il fatto più clamoroso di quel periodo. Guadagnò copie su copie e si impose sul mercato, spaventando i signori di via Solferino alle prese con problemi enormi, poi aggravati dalla questione P2. Fu la svolta. Repubblica nel giro di un biennio, sotto la guida del neo barbuto direttore, divenne di moda. Semplificando, allorché al Corriere assunse il timone Piero Ostellino, fra i due giornali le distanze si assottigliarono. Finché avvenne il sorpasso grazie al Portfolio, un giochino borsistico che entusiasmò i lettori. Un evento sensazionale in seguito al quale Scalfari sedette sul trono dell' informazione. Un successo su cui nessuno avrebbe scommesso un soldo e che invece durò a lungo. Tutto questo non si può obliare né sottovalutare. Mai nessuno prima di Barbapapá era giunto ad insidiare il primato corrieresco. Sorvoliamo sulle beghe che caratterizzarono la vendita a Berlusconi della Mondadori (azionista di Repubblica), semmai ricordiamo che don Eugenio a quel tempo cedette le quote personali dell' impresa che aveva avviato, incassando miliardi a gogo. Un affare colossale il cui merito fu tutto di Scalfari. Come si fa a non ammirare un personaggio del genere, che alla sua produzione aggiunse altresì alcuni libri pregevoli? Uno di questi è stato Incontro con io, che rammento di aver recensito sul Giornale in termini entusiastici. Sui difetti e le sbandate del nostro Gigante sorvolerei, fanno parte delle contraddizioni umane da cui nessuno si salva. Menziono solo un episodio buffo. Io vergai per un paio di anni sul Venerdì, allegato di Repubblica, e mi lagnai a un certo punto con il direttore perché non mi pagavano. Gli telefonai e lui ribatté che non era vero, avendo firmato i bonifici destinati sul mio conto. Aveva ragione lui, io non me ne ero accorto. Mi scusai. Una volta Eugenio, intervistato da Lucia Annunziata, interrogato su di me, confidò che ero come un suo figlio degenere. Tutto sommato, un complimento. Abbastanza di recente mi sfidò a duello, immagino scherzosamente. Gli raccomandai di essere accorto nella scelta dell' arma, in quanto io da giovane ero stato un decente schermidore e lo avrei con scioltezza infilzato. Finì con una risata. Dimenticavo. Una sera incrociai il sommo direttore in un ristorante milanese, il Baretto. Quando mi alzai per andarmene, mi fermai a salutarlo al suo tavolo. Egli mormorò solenne: «Attento ché ti seguo». Ed io prontamente: «Ti seguo anche io. Da sempre».
De Bendetti, Agnelli e Scalfari: le guerra dei giornali nell’Italia del coronavirus. Francesco Damato su Il Dubbio il 28 aprile 2020. De Benedetti non perdona ai figli di avere venduto la Repubblica a John Elkann, il nipote del compianto Gianni Agnelli. A ciascuno la sua “ripartenza”, anche di carta, e più o meno a distanza, in questi tempi terribili di convivenza col coronavirus. Muore dalla voglia di ripartire come editore il vecchio ma ancora vitalissimo Carlo De Benedetti, che non perdona ai figli, già inutilmente ripresi quando ne avevano solo l’idea, di avere venduto la Repubblica a John Elkann, il nipote del compianto Gianni Agnelli. Il quale ha formalizzato l’acquisto sostituendo il direttore Carlo Verdelli, per quanto minacciato di morte e sotto scorta rafforzata, con Maurizio Molinari. Che a sua volta ha ceduto la direzione della Stampa, lo storico giornale della Fiat, a Massimo Giannini, tornato da Repubblica a Torino. Dove era stato accolto di persona dall’” avvocato”, che gli parlò del suo come di “un giornale perbene”. Lo ha voluto ricordare lo stesso Giannini nell’editoriale di insediamento, tanto per far capire bene con lodevole franchezza chi conduce le danze nel nuovo gruppo editoriale. Convinto non solo che i figli si siano fatti pagare troppo poco ma anche che la sua ormai ex Repubblica sia destinata a spostarsi praticamente a destra, come ha raccontato in una intervista al Foglio, De Benedetti sarebbe disposto addirittura ad acquistare la storica e dormiente testata comunista dell’Unità per ristamparla come organo non più del Pci, ormai defunto, ma di una forma di socialismo liberale. Dove potrebbero approdare, all’occorrenza, lettori e giornalisti delusi della Repubblica del nuovo corso: non so, francamente, se a cominciare davvero da Eugenio Scalfari. Col quale l’” ingegnere” ebbe qualche mese fa uno sgradevole e, temo, irreversibile scontro a distanza nel salotto televisivo di Lilli Gruber rinfacciandogli la “carrettata” di soldi pagatagli a suo tempo in un cambio di proprietà e dandogli praticamente dello svanito per i 96 anni allora neppure compiuti. Di socialismo liberale ha deciso di rivestire il vecchio Avanti! anche Claudio Martelli, l’ex ministro e delfino quasi ripudiato da Bettino Craxi negli anni terribili di “Mani pulite”, quando l’allora guardasigilli si offrì pubblicamente a “restituire l’onore” al Psi, che evidentemente lo aveva perduto. Ma, non avendo di certo i soldi di De Benedetti, le ambizioni di Martelli sono assai modeste: una riedizione assai ridotta dell’Avanti!: una al mese da qui a giugno e poi chissà, forse una ogni quindici giorni, come Il Borghese di prima maniera di Leo Longanesi. Peccato, però, sia per De Benedetti sia per Martelli, che abbia deciso di afferrare la bandiera del liberalsocialismo anche Scalfari, sventolandola nell’editoriale di domenica scorsa dalla metaforica torretta della Repubblica. Dove egli si è barricato come “fondatore”, deciso a vigilare perché il suo “fiore” di carta non appassisca prima dei “cento anni”: quelli non dalla nascita dello stesso Scalfari, che vi è quasi arrivato, ma della testata. Che esordì nel 1976, cioè 44 anni fa, per cui gliene resterebbero nella serra, o addirittura all’occhiello della giacca immaginata dal fondatore, almeno altri 56. L’annuncio della vigilanza di Scalfari era scontato nonostante la fretta della rottura attribuitagli dal Fatto Quotidiano con un certo interesse di bottega, scommettendo sullo spazio a sinistra che Marco Travaglio spera di poter occupare in caso di crisi immediata e clamorosa nella redazione di Repubblica. Meno scontata tuttavia era la bandiera liberalsocialista di Scalfari, almeno ai miei occhi di vecchio cronista ancora fermi su quel titolo, e relativo articolo, in cui l’allora direttore di Repubblica, nel 1978, si sostituì al segretario del Pci Enrico Berlinguer per rimproverare a Craxi di avere voluto “tagliare la barba a Marx”. Ciò era avvenuto, in particolare, col “Vangelo socialista” pubblicato sull’Espresso e commissionato dal segretario del Psi a Luciano Pellicani, morto recentemente di coronavirus. Un’altra cosa sorprendente di Scalfari, sempre ai miei modesti occhi di vecchio cronista, è stata l’intervento sull’anagrafe politica dell’attuale presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che da designato e poi addirittura imposto a Palazzo Chigi dai grillini – imposto, in particolare, nella scorsa estate in un improvviso cambio di maggioranza a un Pd che reclamava “discontinuità” nel passaggio da una coalizione gialloverde ad una giallorossa-è diventato nell’editoriale di Scalfari di domenica scorsa “vicino” al partito guidato da Nicola Zingaretti. Così in effetti cominciano, in verità, a considerare il presidente del Consiglio anche fra i grillini, diventati perciò insofferenti e sospettosi, nonostante la mano metaforicamente e protettivamente distesa sul suo capo da Grillo in persona. Ma Conte non mi sembra per niente o non ancora deciso a una frattura col movimento delle cinque stelle. Anche nell’intervista appena concessa al nuovo direttore di Repubblica egli ha lasciato ancora sospeso il suo sì al fondo europeo salva- Stati, o Mes, su cui potrebbe consumarsi in Parlamento la scissione dei grillini irriducibilmente contrari. Non solo “vicino” al Pd ma decisamente liberalsocialista è stato definito Conte da Scalfari nell’editto un po’ pragmatico e un po’ ideologico emesso dalla già ricordata torretta di Repubblica. Sempre da vecchio e ingenuo cronista politico, mi chiedo se non hanno qualcosa da obiettare a questo proposito nel Pd, dove è minoritaria ma non ininfluente, qualche volta anche decisiva, la componente proveniente dalla sinistra democristiana. Che negli anni Ottanta del liberalsocialismo di Bettino Craxi, per quanto alleato di governo, diffidava a tal punto da ricorrere, per proteggersene, al grintosissimo Ciriaco De Mita eleggendolo segretario del partito con l’appoggio del corpaccione doroteo dello scudo crociato. E De Mita, sostenuto anche da Scalfari alla guida della Repubblica, non deluse di certo le attese e le speranze dei suoi sostenitori, anche se le perdite elettorali del 1983 obbligarono persino lui a mandare Craxi a Palazzo Chigi, allontanandolo dopo quasi quattro anni.
DAGONEWS il 27 aprile 2020. A proposito dello spin-off di Repubblica che ha in mente Carlo De Benedetti, idea anticipata mesi fa da Dagospia all'indomani dell'acquisto di Gedi da parte di John Elkann, le trattative sono ancora in corso, e non stanno andando per il meglio. L'Ingegnere infatti non vuole partire in questa avventura da solo, ma con il sostegno di Carlo Feltrinelli, della sua casa editoriale e della sua rete di librerie. A 85 anni, e con i figli che gli hanno svenduto l'impero, vuole qualcuno che possa garantire continuità. Per questo aveva scelto il 44enne John Elkann, per questo ora punta sul 58enne Carlo che, finora, non si è appalesato. In pista di nuovo ci sarebbe Gad Lerner, autore Feltrinelli e già unico volto noto (e unico spettatore?) della ormai dimenticata tv engagé ''La Effe'' (bagno di sangue per Feltrinelli), e con De Benedetti vorrebbe strappare una decina di glorie di Repubblica per farci il suo nuovo-vecchio giornale. La preda più ambita ovviamente è EuGenio Scalfari, che a 96 anni dovrebbe mollare tutto per imbarcarsi in un'ultima avventura decisamente vaga. Nell'editorialone-flusso di coscienza di ieri, intitolato ''Un fiore che non appassisce'' (riferito ovviamente alla sua creatura), Molinari ''appare esattamente nello stesso modo'' di Verdelli, ovvero in grado di tutelare l'anima liberal-socialista del giornale. Ma poi aggiunge in modo sibillino ''Vedremo il seguito'', non escludendo che ''il Fondatore'' – parla di sé in terza persona – possa cambiare giudizio sulla ''Quarta Repubblica''. Al secondo posto c'è Ezio Mauro, per 20 anni alla direzione nel dopo-Scalfari. Il suo passato forte a La Stampa ne fa però un nome gradito agli Agnelli-Elkann. Il suo placet alla direzione Molinari lo ha dato firmando l'editoriale di oggi: se il suo obiettivo è andarsene, si sarebbe eclissato dalle pagine del quotidiano. Ma dove lo otterebbe uno stipendio così dovizioso? Seguono le altre firme storiche – Natalia Aspesi, Corrado Augias, Francesco Merlo, Manconi – più i ''giovani'' (ormai 50-60enni) cari a CDB, tra cui l'ultimo arrivato Carlo Verdelli, che l'Ingegnere incensò dalla Gruber mentre umiliava il reietto Mario Calabresi. Nel frattempo, al duo Elkann-Scanavino non dispiacerebbe affatto se CDB si portasse via un po' di firme che costano ciascuna come dieci giornalisti giovani. Il nuovo corso di Repubblica che vuole essere meno parrocchia e più quotidiano si è capito dall'intervista, very friendly, di ieri a Giuseppe Conte, firmata da Molinari e da Stefano Cappellini, uno dei pochi a non essere uscito dalla fucina di Piazza Indipendenza/Largo Fochetti, essendo cresciuto tra Riformista e Messaggero. Dei desideri editorial-politici di Cdb l'agnelloide se n'è sempre fregato. La sua ambizione è di portare avanti l'eredità dell'Avvocato, di riportare la dinasty torinese a livelli internazionali, creando un gruppo multimediale innovativo e con un focus sugli esteri, di cui Molinari è un appassionato, ma soprattutto sull'economia. La Exor è infatti l'azionista di maggioranza dell'Economist, ma visto che l'austero settimanale inglese ha uno statuto blindato che non permetterebbe di farlo diventare una succursale del gruppo Gedi, sarà il gruppo Gedi a diventare un po' più come l'Economist. Un gruppo che possa rivaleggiare con Le Monde e che produca giornali letti, o quntomeno citati, anche all'estero. Per questo ci saranno varie uscite (a L'Espresso, che sarà rivoltato come un pedalino, tremano), convinti come sono a Torino che se si tolgono dai piedi gli aficionados dell'era Scalfari-Mauro, è pure meglio, visto che il concetto di chiesa-parrocchia tiene lontani molti lettori che non vogliono aprire un quotidiano ogni mattina per sentirsi dire quanto sono cafoni e stronzi.
Dagospia il 25 aprile 2020. IL "CHIAGNE E FOTTI" DI CARLO DE BENEDETTI - INTERVISTATO DAL “FOGLIO”, ANNUNCIA CHE "ANDRA' FONDATA UNA NUOVA "REPUBBLICA" PERCHE' MOLINARI È UN CONSERVATORE E PORTERÀ IL GIORNALE DA UN’ALTRA PARTE" - BENE, ALLORA CDB RISPONDA ALLE SEGUENTI DOMANDE: PERCHE', LEI PRESIDENTE DEL GRUPPO EDITORIALE, E MALGRADO IL SUO BEL PATRIMONIO IN SVIZZERA, HA FATTO ENTRARE IL LIBERAL JOHN ELKANN CON LA FUSIONE "REPUBBLICA-STAMPA"? PERCHE' HA CEDUTO IL SUO IMPERO AI TRE FIGLI CHE NON HANNO MAI AVUTO IL PALLINO EDITORIALE E APPENA VISTO IL ROSSO DEL BILANCIO HANNO VENDUTO? PERCHE', PER UN NUOVO QUOTIDIANO CON SCALFARI, MAURO E VERDELLI, HA BUSSATO QUALCHE TEMPO FA AL PORTAFOGLIO DI CARLO FELTRINELLI? PERCHE', INVECE DI CONTINUARE AD ANNUNCIARLO 'STO CAZZO DI GIORNALE, NON LO FA SUBITO CON I SUOI SOLDI, VISTO CHE LEI DICE CHE "OGGI FARE UN GIORNALE NON COSTA NEMMENO TROPPO"?
Estratto dell’articolo di Salvatore Merlo per “il Foglio” il 25 aprile 2020. (…) “Penso che John Elkann voglia modificare la natura di Repubblica. La portano più a destra. Credo sia in animo uno snaturamento sostanziale del filone culturale che è stato all’origine del giornale fondato da Eugenio Scalfari. Quella ‘certa idea dell’Italia’ che Repubblica ha interpretato con grande dignità negli ultimi quarantacinque anni. Per questo penso che ci siano buone ragioni culturali, politiche e persino un grande spazio editoriale per un nuovo quotidiano”. Con Scalfari ed Ezio Mauro. E Carlo Verdelli direttore. “Oggi fare un giornale non costa nemmeno troppo”. Svuotare Repubblica delle sue firme storiche, che sono ormai quasi tutti pensionati i cui contratti di collaborazione scadono a dicembre, e quindi rifondare attorno a un gruppo di giornalisti riconosciuti il quotidiano della sinistra italiana: agile, corsaro, popolare e partigiano, che è poi l’espressione utilizzata giovedì sera proprio da Carlo Verdelli, nel suo editoriale di commiato, scritto dopo aver saputo alle 14 di giovedì d’essere stato sostituito da Maurizio Molinari alla direzione di Repubblica: “Partigiani sempre”. (…) Maurizio Molinari è soprattutto un grande professionista, chissà quali progetti di sviluppo avrà in mente per il giornale. “Non lo metto in dubbio”, risponde De Benedetti. “Ma non è un giornalista di Repubblica. E’ un conservatore, nell’accezione migliore del termine. Un conservatore alla anglosassone. Mi dice lei cosa c’entra con Repubblica? Non ho dubbi che porterà il giornale da un’altra parte rispetto alla sua storia e alla sua tradizione. E questo, anche dal punto di vista editoriale e industriale, lascerà campo libero. Spazio. Direi praterie, anche a un nuovo giornale che recuperi lo spirito più vero di Repubblica”.
Storia di Repubblica, da Scalfari a Verdelli un giornale corsaro che non esiste più. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 25 Aprile 2020. Per molti di noi il giornale La Repubblica ha, o almeno aveva, un’anima. Me ne accorsi quando la gente, i giovani di allora, degli anni Settanta, cominciò ad indossarlo come un accessorio, sul portapacchi della bicicletta nelle domeniche dell’austerity, nelle tasche dei giacconi, nei borselli che allora anche i maschi portavano a tracolla: era una novità inventata da Eugenio Scalfari e andava molto oltre il nuovo formato tabloid che non si era mai visto prima: cambiava il linguaggio, la grafica, la retorica, l’uso della fotografia, ed era un giornale che aveva nel suo primo articolo della costituzione questo motto: «Repubblica non è un giornale di informazione, ma di campagna: prende posizione e combatte in modo asimmetrico e convoca insieme emozioni e lingua, immediatezza e attacco». Eugenio Scalfari mi invitò nel suo piccolo studio all’Espresso di via Po nel novembre del 1975 e mi fece vedere i menabò lucidi in negativo. Era bello. Anche lui, Scalfari, non era quel veggente prossimo al secolo che appare oggi in televisione, ma un uomo duro, alto, la barba brizzolata e ferrigna, la montatura degli occhiali d’acciaio. Mi chiese di restare in Calabria dove dirigevo un quotidiano, come corrispondente del suo giornale. Presi un periodo di vacanze arretrate per partecipare ai mesi di preparazione di quella bolgia di ragazzi, femministe, gruppettari, tutti rappresentanti giovanissimi di un’Italia che oggi neanche ve la sognate e che era già infetta di terrorismo, ma che sperava nel sorpasso del Pci sulla Dc, con lo sganciamento definitivo del partito di Berlinguer. Dovendo tornare in Calabria perché le mie ferie erano finite, Eugenio mi chiese: perché te ne vai? E io dissi: perché ho un contratto. Due sere dopo, nella sperduta redazione di Piano lago di Mangone, provincia di Cosenza, un centralinista di nome Docimo mi urlò: «Dottore Guzzanti! U dutturi Scalfari vi vuole a ‘u telefono». La mattina dopo ero a piazza Indipendenza alle quattro del mattino, con le camicie arrotolate e l’essenziale alla rinfusa nel portabagagli della mia vecchia Fulvia. E cominciò la mia avventura che terminò quando Paolo Mieli mi chiamò alla Stampa nel 1990. Dalla Stampa, per fatto personale dopo essere stato ridotto al silenzio non da Scalfari ma dal suo “Ufficio centrale” che somigliava un po’ troppo a un Comitato centrale, mi sbizzarrii a dare buchi al mio ex giornale quasi ogni giorno e inaugurai la stagione fulminante di Cossiga, che ho già raccontato qui sul Riformista. Poi andai a New York quando Ezio Mauro fu trasferito di colpo dalla Stampa di Giovanni Agnelli a Repubblica di Carlo De Benedetti e per un po’ sognai una ricongiunzione che però non avvenne. Repubblica cambiò stile e forma e certamente non fu più quella di prima. Ma ci sono qualità che formano l’essenza di una individualità e ne formano l’anima permanente. E quelle o ci sono o non ci sono. Il giornale che si trasferiva dalla storica piazza Indipendenza della nostra gioventù battagliera a Largo Fochetti, verso l’Eur, mutava in un altro oggetto: esauriente, organico, trasudante di firme e di trovate, sempre inappuntabile, esprimeva una linea politica che seguitava ad essere quella della campagna continua, prima contro Craxi e poi contro Berlusconi, ma con toni sempre meno libertari, molto più in giacca e cravatta, senza badare a spese (almeno come opulenza dell’immagine) ma – è la mia personale opinione – si distaccava giorno dopo giorno dai fondatori del Mayflower che non erano più dei giornalisti narratori e settlers della notizia e degli eventi. Sotto la direzione di Eugenio Scalfari, alcuni di noi ogni anno facevano un reportage mondiale a ruota libera. Un giorno Eugenio mi aveva convocato dicendomi: «Ti ho fatto comprare il carteggio dei fratelli Verri di cui uno stava a bottega e l’altro viaggiava comperando mercanzie e scrivendo lettere sui cambiamenti in Europa: parti e scopri come nacque la borghesia». E partii per un viaggio indimenticabile. Oppure: «Ripercorri le rotte di Ulisse», e mi ritrovai a Troia con le mura di Ilio ancora visibili durante una esercitazione d’artiglieria dell’esercito turco. E poi l’impero di Venezia e infine mi stabilii a Praga mentre cadevano i muri in via Franzuskjaa, e lì vissi per spostarmi poi a Budapest e nella Bucarest del dopo Ceausescu. Dove vidi le criminali azioni del Kgb gorbacioviano le cui imprese mi fu vietato di scrivere sicché decisi di andarmene, e questa è la mia storia personale. Ma poi Scalfari fu messo da parte da Carlo De Benedetti con cui strinsi una forte amicizia scrivendo insieme un libro intervista mentre quella testata, quel vascello, navigava con altre velature ma non con la stessa manovrabilità pirata che sa apparire e scomparire, sorprendere e fare imboscate. Il vascello era ormai un galeone con mille cannoni come quello di Jenny delle Spelonche nell’Opera da Tre Soldi. Troppi cannoni e troppe vele per essere la stessa guerra da corsa. Ecco dunque la sorpresa di un anno fa quando, leggendo sull’iPad la vecchia testata diretta da Carlo Verdelli che non conoscevo, trovai un guizzo, l’anima dell’antico spirito folletto. Non era l’antica nave: era una nuova nave, ma aveva quegli stessi cannoni, quel gusto del titolo (ai tempi di Eugenio si passavano ore a scandirli come versi finché non si trovava quello che “cantava”) e così scrissi due righe al nuovo direttore congratulandomi e mi rispose con mia sorpresa ricordando l’epoca in cui io facevo parte con pochi altri della vera ciurma della Tortuga che era – oltre che politica – letteratura del giornalismo in cui la lingua era parte della semantica e della grafica e le parole competevano con le foto. Oggi è tutto diverso, tutto deve essere sul digitale per ventiquattro ore durante le quali la carta in edicola dura soltanto quel che vive la rosa, ma la scommessa era di nuovo quella di mettere insieme certi elementi di forte identità industriale combinata come in genetica con una forte componente di alta creatività. La notizia della fine della direzione Verdelli è per questo molto triste anche se Maurizio Molinari è un giornalista formidabile che cominciò la sua scalata nel cursus honorum partendo proprio da dove io avevo lasciato, come inviato speciale a New York per la Stampa. Molinari, leggo, è non soltanto il nuovo direttore del glorioso vascello, ma l’interprete globale della strategia globale dell’editore che un tempo fu anche il mio, ai tempi dell’Avvocato Agnelli. Riusciranno i nostri eroi a rianimare l’ircocervo facendone una creatura quadrimensionale scatenata sulle nuove tecnologie e sul fascino dell’antico? È una scommessa appassionante, ma personalmente provo un vero dolore per questa estromissione di Carlo Verdelli, perfettamente legittima. Per il modo, i tempi e per un valore sottratto, anziché aggiunto, all’impalpabile qualità anche sul mercato di un prodotto che come il Golem deve camminare da solo, ma ricordando che ha caviglie e piedi d’argilla. Verdelli aveva in un anno riconquistato i cuori di una redazione che era più sperduta degli abitanti dell’Isola che non c’è. E che ha scioperato, fatto inusuale non di buon auspicio per un prodotto che pur nella sua massima perfezione industriale cibernetica, si può reggere soltanto se è vivo un Dna di alchimie come il fattore umano di Graham Greene, più volatile della nitroglicerina. Tutto ciò, a prescindere dalla “linea politica” che non può che essere di sinistra democratica ma che da sola significa poco se non va a calzare i costumi che identificano maschera e proiezioni, lingua e suggestioni. Carlo Verdelli stava riuscendo con un lavoro minuzioso e paziente che richiamava alle armi un modo di essere, di leggere, di ottenere notizie, interpretarle e proporle. Questa è la sfida e personalmente auguro a Maurizio Molinari di cui ho antica stima per le sue straordinarie qualità di lettore e narratore della storia, di ritrovare e riallacciare il tessuto lacerato e tesserlo di nuovo. Non sarà facile, ma nemmeno impossibile, come ha dimostrato proprio Carlo Verdelli che non viene dalla covata di Repubblica ma dall’altro mondo del Corriere e della Rai e di tante altre cose eccellenti che ha fatto. Seguiremo col batticuore questa evoluzione, ma a Carlo Verdelli daremmo una speciale medaglia per aver inventato un giornale che non c’era più, rimettendolo ben vivo sul mercato delle cose vive.
Da huffingtonpost.it il 4 maggio 2020. È stata costituita oggi a Torino, presso il notaio Silvia Lazzaroni, con un capitale di 10 milioni di euro, la società "Editoriale DOMANI S.p.A", posseduta da due società il cui azionista unico è l’ingegner Carlo De Benedetti. Presidente è Luigi Zanda. Il Consiglio di amministrazione è formato, oltre che da Zanda, da Giovanni Canetta, Federica Mariani, Virginia Ripa di Meana, Massimo Segre e Grazia Volo. Secondo quanto si è appreso, è iniziato l’iter per costituire la Fondazione Domani, presieduta dall’ingegner De Benedetti, alla quale, dopo la fase di avvio, andrà la proprietà dell’Editoriale Domani.
(ANSA il 4 maggio 2020) - Il senatore Luigi Zanda ha rassegnato oggi le dimissioni da Tesoriere del Partito Democratico. "Auguri a Luigi Zanda - scrive il segretario Nicola Zingaretti - che ringrazio per il lavoro di questi mesi da Tesoriere del Partito. Gli avevo chiesto, per la sua autorevolezza e per le sue indiscutibili capacità, di ricoprire questo delicato e fondamentale incarico, anche a fronte di una situazione molto difficile per le finanze del partito e per i dipendenti, che Luigi ha saputo esprimere al meglio affrontando diverse sfide elettorali e organizzative". "A lui un ringraziamento - conclude Zingaretti - da parte di tutti i democratici e un augurio per la sua nuova avventura che, ne sono certo, saprà affrontare con il massimo delle energie". Il senatore Pd lascia il ruolo di tesoriere dei Dem per ricoprire l'incarico di presidente - oltre che membro del Consiglio di amministrazione - della società "Editoriale Domani s.p.a", costituita oggi a Torino il cui unico azionista è l'ingegner Carlo De Benedetti.
De Benedetti, Stefano Feltri è il direttore di Domani: il pupillo di Travaglio scelto con la benedizione della Annunziata. Libero Quotidiano il 04 maggio 2020. Si chiamerà Domani il nuovo giornale di Carlo De Benedetti e sarà diretto da Stefano Feltri. A rilanciare l’indiscrezione è Dagospia, secondo cui l’ex pupillo di Marco Travaglio ha sciolto la riserva e accettato l’offerta dell’ingegnere per la direzione del nuovo quotidiano. L’ingegnere aveva contattato Ezio Mauro, Carlo Verdelli, Gad Lerner e anche Lucia Annunziata, che fino a ieri sembrava essere la candidata principale per il ruolo da direttore. E invece proprio lei sembra che abbia spinto De Benedetti a puntare sul 35enne Feltri, che ora vive a Chicago dopo aver ricoperto il ruolo di vice direttore del Fatto Quotidiano. Secondo Dagospia, però, la sua nomina a direttore non esclude un ruolo per la Annunziata, che è libera dopo aver lasciato l’Huffington Post. Nel nuovo quotidiano di De Benedetti potrebbero migrare anche alcune vecchie glorie di Repubblica, con l’intenzione dichiarata di fare un “giornale di sinistra”.
Carlo De Benedetti, "Domani" è il nuovo giornale: sfida a Repubblica con Lucia Annunziata direttore. Libero Quotidiano il 4 maggio 2020. Ne aveva parlato a Il Foglio subito dopo la "cacciata" di Carlo Verdelli da Repubblica. Aveva iniziato a parlare di un nuovo quotidiano "de sinistra sinistra" e il soggetto era Carlo De Benedetti. Bene, quel quotidiano starebbe già per nascere e se ne conoscerebbe già il nome: Domani. L'indiscrezione è stata rilanciata inizialmente da Open, in un pezzo non firmato, che probabilmente potrebbe essere opera di Enrico Mentana. Come fonte viene citata una mail scritta da De Benedetti ad alcuni amici e conoscenti per informarli dell'iniziativa. Messaggio che si conclude con il messaggio "Basta eredi!!!", e ogni riferimento a John Elkann e alla sua dinastia non è puramente casuale. Dunque, altri particolari circa la nuova pubblicazione sono arrivati da Dagospia: si tratterebbe di un giornale di otto pagine, il direttore sarà Lucia Annunziata (che ha recentemente lasciato l'Huffington Post). Secondo Dago, l'ingegner De Benedetti prima dell'Annunziata avrebbe contattato Carlo Verdelli, Ezio Mauro e Gad Lerner, che però avrebbero rifiutato l'offerta. Nel nuovo quotidiano potrebbero "migrare" alcune vecchie glorie di Repubblica: una grossa perdita per il quotidiano e un significativo risparmio per Elkann sugli stipendi di questi.
De Benedetti fonda il suo Domani e assume subito il tesoriere Pd. L'Ingegnere registra la società, Stefano Feltri direttore del nuovo giornale. Zanda si dimette ma resta senatore. Paolo Bracalini, Martedì 05/05/2020 su Il Giornale. Prende forma il nuovo giornale di Carlo De Benedetti. L'ex editore di Repubblica non ha digerito il passaggio della sua ex creatura nelle mani di Elkann e nel giro di pochi giorni ha messo in campo un muovo progetto che punta a prendersi i lettori di sinistra «traditi» dallo «snaturamento» (così secondo De Benedetti) di Repubblica portata «più a destra» (sempre a parere di Cdb) dalla nuova proprietà. Il nome per il quotidiano di De Benedetti è Domani, il direttore sarà Stefano Feltri e non Lucia Annunziata come risultava dalle prime indiscrezioni. Feltri, classe 1984, già vicedirettore del Fatto, dall'anno scorso dirige ProMarket.org, la rivista web dello Stigler Center, il centro di ricerca guidato dall'economista Luigi Zingales alla University of Chicago. Intanto De Benedetti ha già costituito presso un notaio di Torino la «Editoriale DOMANI S.p.A», azionista unico lui stesso, capitale di 10 milioni di euro. Nel cda nel ruolo di presidente De Benedetti ha chiamato una vecchia conoscenza, il senatore Pd Luigi Zanda che era stato già consigliere del gruppo Espresso per un decennio. Zanda ha subito accettato la chiamata dell'Ingegnere e si è dimesso da tesoriere del Pd (restando però senatore), con gli auguri formulati da Zingaretti a nome di tutti i dem «per la sua nuova avventura». La scelta di Zanda fa capire l'ambito politico in cui si collocherà la nuova testata, un giornale di sinistra ma più snello nella foliazione (8 pagine) e con una redazione giovane. Nel cda ci sono poi altre persone di fiducia dell'Ingegnere, da Giovanni Canetta, Chief Investment Officer di De Benedetti, poi Virginia Ripa di Meana (figlia di Vittorio, già consigliere del gruppo Espresso), poi Federica Mariani direttrice del Festival della Tv di Dogliani), il commercialista Massimo Segre e l'avvocato Grazia Volo. Il prossimo step sarà la creazione di una fondazione come figura giuridica a cui attribuire la gestione della testata in modo da garantire maggiore distanza tra giornale ed editore. Resta da capire quante firme di Repubblica De Benedetti sia in grado di portare nel suo nuovo giornale. Nei giorni scorsi ci sono stati contatti con gli ex direttori Ezio Mauro, Carlo Verdelli, poi con Gad Lerner e Lucia Annunziata. Ma l'offerta non è bastata a convincerli. Dagospia racconta di un battibecco con Ezio Mauro. «Carletto gli ha rinfacciato che fu lui a nominarlo direttore. Eziolo ha replicato per le rime: no, è stato Scalfari, tu avevi scelto Giulio Anselmi». Potrebbe però esserci un ruolo per la Annunziata, così come per altri nomi conosciuti di Repubblica meno a loro agio con la nuova gestione Elkann-Molinari. Lo scoglio sono i soldi, a Repubblica prendono stipendi faraonici, difficili da replicare in un giornale appena nato.
DAGONEWS il 5 maggio 2020. All’indomani della cacciata “all’americana” di Carlo Verdelli (otto ore per fare gli scatoloni), gli unici due giornalisti e scrittori che hanno girato i tacchi si chiamano Stefano Benni e Pino Corrias. Ezio Mauro, Lerner, Merlo, Manconi, Serra, etc. sono tutti, per ora, rimasti attaccati a Largo Fochetti. Poi, quando il prossimo 31 dicembre scadranno i loro contratti (sono tutti pensionati), vedremo quanti saranno, e a che compenso, riconfermati da Molinari. La sorpresa maggiore è arrivata dal mancato invito di Carlo De Benedetti ad imbarcarsi nella nuova avventura editoriale all’amico di villeggiatura Gad Lerner, aspirante direttore. Dopo il no secco di Verdelli, l’Ing. ha puntato su Lucy Annunziata come grande firma, ma per ora non si hanno notizie. L’ex direttore dell’UffPost non è un carattere docile che “ascolta” (in fondo CDB, politicamente, è sempre stato un repubblicano, vicino ai La Malfa e Spadolini, perfetto quindi con Folli e Molinari). Meglio Stefano Feltri, più establishment, da sempre legato alla linea Bernabè-Gruber-Bildelberg con attovagliamenti serali al Ceppo, dove Lillibotox tramava di scalzare Chicco Mentana e diventare l’anchor-woman del TgLa7. Poi, un anno fa, è scoccata l’ora di Feltri, che aveva il peso della fattura quotidiana del “Fatto”, di farla finita con la lotta continua con Travaglio sulla linea politica del giornale (“Viva Conte!”) e, su consiglio anche di Mario Draghi che lo stima, si era esiliato sotto l’ala americana di Luigi Zingales.
Gad Lerner lascia Repubblica. Gad Lerner lascia Repubblica in aperto dissenso con la linea editoriale imposto dai nuovi proprietari, la famiglia Agnelli. Francesco Curridori, Domenica 17/05/2020 su Il Giornale. "Non la riconosco più". Dopo poco più di un anno dal suo ritorno, Gad Lerner lascia Repubblica in aperto dissenso con la linea editoriale imposto dalla famiglia Agnelli, i nuovi proprietari che hanno rilevato il giornale dai De Benedetti. "Mi ero imposto di aspettare, di non fare scelte affrettate, benché suonasse forte e chiaro il messaggio contenuto nel licenziamento senza preavviso di Carlo Verdelli", scrive Lerner in un post su Facebook. Il giornalista di origini palestinesi accusa la nuova proprietà di aver esposto "solo per vaghi accenni il progetto industriale e giornalistico intrapreso". Nonostante questo, nel giro di poche settimane, "Repubblica è già cambiata" e, nonostante il nuovo direttore Maurizio Molinari gli abbia proposto di continuare la collaborazione, Lerner preferisce "interromperla qui". "Saluto con affetto e riconoscenza tutti i colleghi, a cominciare dal fondatore Eugenio Scalfari", conclude il giornalista che aveva già collaborato con Repubblica già nel decennio 2005-2015. La rottura, all'epoca, fu di natura economica, mentre stavolta questo addio sembra preludere all'arrivo di Lerner nella redazione di Domani, il nuovo giornale ideato da Carlo De Benedetti che sarà diretto da Stefano Feltri, già vicedirettore del Fatto Quotidiano.
Sul web scoppia la polemica. Intanto sui social scoppia la polemica e i messaggi di solidarietà nei confronti del giornalista si sprecano. Il giornalista Enrico Deaglio, che nei giorni scorsi aveva già preceduto Lerner nell'addio a Repubblica, commenta il suo post in maniera molto sintetica: "Ben fatto". Lo scrittore Christian Raimo, assessore dell'VIII Municipio di Roma, invece, preferisce dedicare un post in cui riempie di lodi Lerner, "uno dei migliori giornalisti italiani" e il primo "a indagare sulla tragedia del Pio Albergo Trivulzio, dimostrando come un giornale possa essere fondamentale per la democrazia di un paese, soprattutto nei momenti di crisi". Secondo Raimo il suo addio "è un colpo durissimo per un giornale" e " Persino dei non editori come gli Elkann dovrebbero capirlo". Altri utenti, invece, annunciano: "Leggo la Repubblica dal n°1 del 14 gennaio 1976. Ho continuato ininterrottamente fino ad oggi, però domani dirò al mio edicolante di non lasciarmi più il giornale".
La carriera di Gad Lerner, una vita a sinistra. Lerner ha iniziato la sua carriera nel 1976 nel quotidiano Lotta Continua e, prima di approdare in televisione, si è fatto le ossa scrivendo sempre per giornali di sinistra come Il Manifesto o L'Espresso. Raggiunge la notorietà con Profondo Nord, un programma di Rai3 che per primo esplora il fenomeno Lega. Dal '93 al '96 è vicedirettore de La Stampa, mentre nel biennio '97-'99 torna a lavorare per la tivù di Stato e conduce Pinocchio. Nel luglio 2000 diventa direttore del TG1, ma, dopo varie polemiche, rassegna le dimissioni già il primo ottobre. L'anno successivo passa a Tele Monte Carlo e, una volta divenuta La7, assume la direzione del telegiornale. Sempre per la stessa tivù conduce il programma L'Infedele e contemporaneamente scrive editorialista anche del Corriere della Sera. Nel 2017 Lerner fa il suo gran ritorno a piazza Mazzini con una serie di programmi di approfondimento come Operai, La difesa della razza e L'Approdo, tutti trasmessi su Rai 3. Restano indimenticabili le numerose incursioni ai raduni della Lega e le critiche, alcune volte al limite dell'insulto, che Lerner ha rivolto al segretario Matteo Salvini.
Guerra a Repubblica, Gad Lerner sbatte la porta e i giornalisti si scagliano contro Molinari su Fca. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Maggio 2020. Non accenna a placarsi la tensione a Repubblica, col nuovo corso targato Molinari-Elkann che sta provocando malumori e spaccature mai viste prima nel quotidiano di Largo Fochetti. Dopo il licenziamento dell’ex direttore Carlo Verdelli da parte di Exor, la holding della famiglia Elkann, con la cacciata del 23 aprile scorso nel giorno del tweetstorming in favore del giornalista per le minacce subite da gruppi di estrema destra, arrivano in rapida successione nuovi clamorosi sviluppi. Domenica il giornale fondato da Eugenio Scalfari, punto di riferimento della sinistra liberal, ha dovuto incassare l’addio di Gad Lerner, storica firma del quotidiano. Su Facebook il giornalista ha ricordato come “in poche settimane Repubblica è già cambiata. Non la riconosco più. Per questo, pur ringraziando il nuovo direttore che mi aveva chiesto di proseguire la collaborazione, preferisco interromperla qui”. Nel post Lerner ricorda il messaggio “forte e chiaro contenuto nel licenziamento senza preavviso di Carlo Verdelli. A parte quel gesto, la nuova proprietà ha ritenuto di esporre solo per vaghi accenni il progetto industriale e giornalistico intrapreso”. Una uscita di scena che segue quella di altre due autorevoli firme, Enrico Deaglio e Pino Corrias, tutti andati via in aperta polemica con la nuova linea del giornale. L’ultimo fronte di scontro tra giornalisti, direzione e proprietà nasce invece dal caso Fca, il gruppo Fiat Chrysler controllato dagli Elkann che avrebbe chiesto un prestito da 6,5 miliardi euro garantito dallo Stato per fare fronte all’emergenza economica causata dal Coronavirus. Il Comitato di redazione del quotidiano, di fatto il sindacato interno dei giornalisti, non ha ritenuto corretta la gestione editoriale della vicenda da parte del direttore Maurizio Molinari, tanto da chiedere di pubblica in pagina un comunicato con la posizione dei giornalisti. Lo stesso Molinari ha però risposto con un ‘no’ alla richiesta del Cdr, che oggi alle 15 si riunirà in assemblea. Il rischio è di un clamoroso secondo sciopero dei giornalisti, che farebbe seguito a quello già attuato dopo la cacciata di Verdelli.
Il comunicato dei giornalisti di Repubblica. La Repubblica il 18 maggio 2020. I giornalisti di Repubblica, riuniti in assemblea a seguito dei servizi pubblicati sul caso Fca, ritengono che occorra la massima cautela e un surplus di attenzione quando si trattano argomenti che incrociano gli interessi economici dell’azionista. Il patto che il nostro giornale ha stretto 44 anni fa con i suoi lettori è quello dichiarato dal fondatore Eugenio Scalfari nel suo primo editoriale del 1976: “Repubblica è un giornale indipendente ma non neutrale”. Che significa libero da qualsiasi influenza che non sia garantire una informazione di qualità, autonomo nella lettura di ciò che accade in Italia e nel mondo, con una precisa collocazione politica. Valori in cui la Redazione si riconosce ancora oggi e che continuerà a difendere da qualsivoglia ingerenza, interna ed esterna. L’assemblea respinge infine gli attacchi, spesso interessati, che tentano di attribuire al giornale, in questa nuova fase, manovre politiche di parte, legate agli interessi dell’editore, e respinge il tentativo di accreditare uno snaturamento dell’identità democratica e progressista della testata. Per queste ragioni l’assemblea dei giornalisti si impegna a vigilare sull’autonomia e l’indipendenza di Repubblica. L’Assemblea dei giornalisti di Repubblica.
Lettera a Michele Serra per la sua rubrica su ''il Venerdì - la Repubblica'' il 28 maggio 2020. «Caro Michele, non ho mai perso una tua Amaca. Si contano le pochissime volte che ho dissentito da te, ma veniamo al sodo. Come nel film di Forman, Jack Nicholson dice al Grande capo: che ci facciamo noi qui, Grande capo? Ecco, che ci fai ancora lì, a Repubblica intendo? Che ci fate tu, Merlo, Augias, De Gregorio, Rampini e aggiungi chi vuoi? Sembrate bei quadri appesi in un’abitazione che non è stata pensata per voi. Quello non è più posto per voi. Siamo in tantissimi a pensarla così. Insieme a Lerner, Deaglio, da qualche altra parte, ricominciate, per favore. Vi seguiremo di sicuro». Nicola Purgato
Caro Nicola, scelgo la tua lettera, per la brevità e la precisione polemica, in rappresentanza delle tantissime sul tema “che succede a Repubblica”. A quasi tutte sono riuscito a rispondere privatamente. Non l’avevo ancora fatto in questa rubrica perché il lasso di tempo (otto giorni) che trascorre tra la sua stesura e la sua pubblicazione è lunghissimo; temevo, insomma, che il succedersi dei fatti rendesse superate, una settimana dopo, le mie parole. Ora spero che le cose si siano un poco assestate. Scrivo questa nota venerdì 22 maggio sperando che quando le leggerete, il 29 maggio, non sia accaduto niente di così clamoroso da renderle “vecchie”. La prima cosa da dire è che ho totale rispetto per la scelta di Lerner e Deaglio. Sono entrambi grandi giornalisti e il primo è, per me, tra gli amici più stretti. La seconda cosa da dire è che pretendo identico rispetto – non un grammo di meno – per chi ha scelto di rimanere in un giornale che considera casa propria, punto di riferimento per un numero di lettori ancora importante nonostante la crisi dell’informazione a pagamento ne assottigli i ranghi mese dopo mese. Quelli che rimangono, dunque. Sto parlando non solo del Fondatore e di Ezio Mauro, direttori dei primi quarant’anni di Repubblica. Ma di tutte le firme storiche (Augias, Aspesi, Valli per citare solo alcuni dei “senatori”) e di quelle raccolte strada facendo, Altan, Baricco, Rumiz, Merlo, Recalcati, Saviano, io stesso e molti altri. Non faccio vita di redazione e dunque non ho il polso del “corpo vivo” del giornale, delle assemblee, dei malumori, delle voci di corridoio. Ma ci siamo parlati molto, in queste settimane, specialmente dopo il licenziamento, traumatico nei tempi e nei modi, di Verdelli, e dopo l’addio di Lerner. Ha prevalso l’opzione “Repubblica siamo noi”, che prevede di continuare a fare il nostro lavoro come l’abbiamo sempre fatto, e dunque di confrontarci con Maurizio Molinari nello stesso identico modo con il quale ci siamo confrontati con i precedenti direttori. Non considerandolo pregiudizialmente un “invasore”, o un corpo estraneo, ma il nostro primo interlocutore, come legittimamente è ogni direttore. Le discussioni quotidiane sulla fattura del giornale, sulla sua linea politica, sulle ambizioni (e sulle vanità) delle “grandi firme” sono il suo mestiere, la sua croce e la sua delizia. Spetterà a lui conquistare sul campo, oppure no, la fiducia dei giornalisti e dei lettori. Sa benissimo di trovarsi di fronte a una platea consolidata e agguerrita. Molti temi, soprattutto di politica internazionale, saranno occasione di acceso dibattito (una per tutte: le imminenti elezioni politiche americane, nelle quali il match populismo-democrazia vivrà una pagina decisiva). Vorrei ricordare ai lettori, a questo proposito, che nelle più arroventate questioni politiche recenti (i referendum di Renzi,per esempio), Repubblica non ha avuto, e per fortuna, una “linea” univoca, da quotidiano di partito. È stata sede di un dibattito vero, acceso e ampio, con i commentatori divisi tanto quanto i lettori. Quanto all’editore. Ogni editore è ingombrante, e quello attuale, che è una multinazionale con radici italiane, ma trazione mondiale, lo è ancora di più. I miei editori, per la cronaca, sono stati, in quasi mezzo secolo di giornalismo, il Partito comunista (il più ingombrante di tutti), il gruppo Espresso, la mitica “Cuore corporation” fatta in casa, la multinazionale televisiva Endemol e la multinazionale americana Condé Nast. Il solo editore che ho rifiutato a priori, per mia irriducibile ostilità, tra l’altro molto precedente la sua “discesa in campo”, è Berlusconi. Per il resto non mi sono fatto mancare niente, né mi sono sentito ingabbiato da alcuno, anche se spesso, come in ogni mestiere capita, ho vissuto conflitti, frizioni, incomprensioni, delusioni. Non vedo perché dovrei rifiutare a priori, come editore, un Agnelli. Dalla direzione della Stampa, proprietà di famiglia ben prima dell’acquisto di Gedi (e ci scrivevano Bobbio, Galante Garrone, Barbara Spinelli, Carlo Petrini) provengono due direttori di Repubblica, Mauro e Calabresi. Molinari è il terzo. Lo stesso Lerner è stato vicedirettore della Stampa per qualche anno. Nessuno ha mai pensato che “lavorare per gli Agnelli” abbia significato, per loro così come per altri, vendere l’anima, o come direi al bar, il culo. Chiedo a voi lettori, con una certa decisione, mettendo sul piatto anche il mio quasi mezzo secolo di reputazione, di non pensarlo adesso. Giudicate il giornale da come sarà fatto. Se non vi piace più, trovatene uno migliore, ne avete facoltà. Punto. Ogni editore è un padrone. Valeva anche per la famiglia De Benedetti, alla quale tutti noi di Repubblica riconosciamo, nella difesa dei propri interessi extra-editoriali, una sostanziale discrezione. Quanto al nuovo padrone, e al direttore da lui insediato,vi rimando alla collezione delle ultime due settimane di Repubblica per stabilire se sulla vicenda, nevralgica, governo-Fca, il giornale sia stato imbavagliato oppure abbia dato ampio spazio (vedi l’intervista a Orlando, le cronache politiche quotidiane, le risposte di Augias ai lettori) alle polemiche e alle critiche, compresa quella – sostanziale – sul “domicilio fiscale” di Fca in Olanda.
Da ultimo, una nota personale. Non saprei su quale altro giornale scrivere per due ragioni fondamentali. La prima è che non ne conosco altri che mi siano ugualmente familiari, e idealmente vicini. La seconda è che nessuno mi ha chiamato per propormi alcunché, e questo mi fa sperare che, a quasi sessantasei anni, nel caso venisse meno il mio lavoro di giornalista potrò serenamente invecchiare dedicandomi alla letteratura, al teatro e all’agricoltura. Quanto mi basta, ampiamente, per campare, e soprattutto per essere felice. Sul Venerdì del 29 maggio 2020
Estratto dell’articolo di Gad Lerner per “il Fatto quotidiano” il 30 maggio 2020. "Perché resto a Repubblica". Lo spiega Michele Serra rispondendo all' invito perentorio del lettore […] Ma questo non è stato un cambio di direttore come gli altri. […] Maurizio Molinari […] ha un profilo giornalistico e culturale assai diverso dal nostro. Tu che pratichi l'agricoltura sai che gli innesti sono operazioni delicate. A maggior ragione, nei giornali, quando coincidono con l' arrivo di una nuova proprietà […] […] Il rapporto fra editore e redazione è soggetto a […] rapporti di forza, non riconducibili soltanto al sano imperativo di risultare credibili di fronte ai lettori e alla concorrenza. Mi ero […] imposto di attendere […] sebbene le modalità del licenziamento di Verdelli, così brutali, […] e senza che il successore ritenesse come d' uso di rivolgergli neppure un saluto e un ringraziamento, suonassero già come inequivocabile avvertimento: da oggi […] qui comandiamo noi, adeguatevi. Evidentemente anche lo stile degli azionisti […] cambia nel tempo. Io ci ravviso un ritorno a metodi che il primo giornale in cui hai lavorato, l' Unità, avrebbe definito "padronali". Che mal si conciliano col profilo del giornale d'opinione che dal 1976 riusciva felicemente a conciliare la difesa del libero mercato con le istanze e le passioni del popolo di sinistra. […]
Fulvio Abbate per Dagospia il 29 maggio 2020. Ancor prima che da “Repubblica” di Agnelli-Elkann, Michele Serra dovrebbe dare le dimissioni da se stesso, per amor proprio, dissociandosi da ogni volontà autopunitiva. Se la sinistra, in Italia, vive una condizione residuale si potrà dedurre che tra le ragioni di un simile abisso c’è il pensiero edificante e masochistico così come proprio Michele Serra e colleghi lo manifestano da decenni? Un istinto penitenziale che, modellato su una presunta ossessione pedagogica, non è riuscito neppure a determinare consenso duraturo, se non a margine dei cosiddetti ceti medi riflessivi, marginali e sovente detestabili. Sorvolo sulle rendite di posizione personale, altrimenti il discorso si farebbe brutale, e andrebbero passati in rassegna, uno a uno, i volti che in questi anni, con il ricatto della “vocazione maggioritaria” sostenuta da un mediocre politico romano travestito ormai da scrittore e cineasta, hanno conquistato contratti e visibilità, soprattutto nei media appaltati, appunto, alla sinistra più triste. La parole con cui Michele Serra risponde al lettore sul perché ha scelto di rimanere sull’Amaca mostrano tragicamente una paura intellettuale, timore del mare aperto, non perché Serra abbia l’obbligo etico di traslocare se stesso altrove, piuttosto perché confermano per l’ennesima volta un sentire politico privo di Eros, quest’ultimo riferimento non sembri estraneo al nodo dell’intera questione, posto che una sinistra lontana dall’idea del Piacere non ha ragion d’essere, meglio, una sinistra bigotta che abbia paura di pronunciare, metti, umanissime parole come “sborra” o “bocchino” ai miei occhi di scrittore appare risibile, sconfitta in partenza. Ritengo non si possa avere paura del linguaggio, di più, non si possa privare la parola del suo tratto carnale. Sempre a Serra, sarebbe facile ricordare l'imbarazzo nel difendere il profumo “Eau de moi”, che firma insieme alla consorte Giovanna Zucconi, una difesa che mostra subalternità rispetto all’autorità familiare, materia da complesso di Edipo. Chi in passato si è fatto carico degli strumenti della satira non avrebbe mai dovuto sottoscrivere il bugiardino destinato a un prodotto narrativamente esilarante: chi abbia tempo e voglia vada a leggerlo nel sito della “Serra & Fonseca”. Ciò che personalmente trovo insostenibile è la paura individuale che ogni parola di Serra emana, ciò che altri definirebbero moderato, appare invece ai miei occhi un crimine contro il piacere dell’ironia, per non citare il bisogno di rivolta che la sinistra dovrebbe fare sempre proprio. Che prigione interiore ritenere invece che questa abbia invece il dovere di dotarsi di senso di responsabilità con il compito di salvare il mondo dall’Osceno. Lo so, che per molte creature a modo di sinistra come Serra il narcisismo è da ritenere un crimine, imbevuti come sono di cattolicesimo da sezione Pci. Ripeto: l’idea un giornalista, uno scrittore debba lavorare alla costruzione del consenso in nome del Bene è quanto di più penoso la sinistra abbia prodotto negli ultimi decenni, ancora peggio se lo si fa dal pozzo della tomba in cui questa è finita. Che pena ulteriore leggerlo a proposito delle intercettazioni del giudice Palamara, soprattutto quando dice che lui da Neri Marcorè, finito incolpevole nei brogliacci, “comprerebbe anche un’auto usata”; più che della persona, sembra una difesa d’ufficio della sua sinistra raccolta nel salotto di Fabio Fazio. Auguri.
Giampiero Mughini per Dagospia il 31 maggio 2020. Caro Dago, tutto nasce dal fatto che io leggo ogni mattina “Il Fatto” e soprattutto leggo le sue (tante) migliori firme, non perché io pensi di trovare nei loro scritti quello che io penso e bensì quello che loro pensano. (Tra parentesi Stefano Feltri, il futuro direttore del quotidiano voluto da Carlo De Benedetti è un ragazzo in gambissima. In bocca al lupo.) Figuriamoci se tra i primi articoli che leggo non c’è quello che scrive Pino Corrias, un giornalista/scrittore di primissima qualità, che è anche un mio amico. E dunque ecco che oggi leggo un suo giudizio sprezzante sulla trasmissione serale di Barbara Palombelli (mia amica e madre del mio figlioccio Giorgio) di cui si dice che è “un sottoscala”. Mando subito un sms a Pino dicendogli che un insulto non è mai un argomento. Lui mi risponde che voleva essere “irridente” e non “offensivo”. Aggiunge che non ha in simpatia i “sovranisti” che appaiono numerosi nello spazio condotto da Barbara. Replico che per quanto mi riguarda ho per quei “sovranisti” il più grande disprezzo possibile. Un disprezzo beninteso che qui affermo e qui nego nel senso che mai e poi mai scriverei contro ciascuno di loro un articolo alla maniera di quelli che Corrias scrive contro quelli che non gli stanno simpatici. Io scrivo solo di quelli che mi interessano e che premono sulla mia immaginazione: lo scrittore francese Robert Brasillach, il generale russo Vlasov fatto impiccare da Stalin, Elias Canetti. “Gente che non conosce nessuno” come dice la compagna della mia vita, e ha perfettamente ragione. Ho per quei sovranisti il massimo disprezzo possibile ma quanto a disprezzo non scherzo nemmeno nei confronti dei fanatici e fanatizzanti della sponda opposta. Ho trovato surreale il confronto tra Gad Lerner e Michele Serra se sì o no restare in un quotidiano di nome “Repubblica” da quando ha come direttore un “sionista” e un amico di casa Agnelli quale Maurizio Molinari. (Naturalmente sono io che appioppo quelle definizioni a Molinari, non loro.) E’ un uomo a modo chi continua a scrivere avendo come direttore Molinari (e come “Padrone” la Fiat), ossia Serra, o chi sale con “le scarpe rotte” sulle montagne rappresentate dalle pagine del “Fatto”, ossia “il partigiano” Gad Lerner? Una contesa da riderci sopra se non fosse che è da piangerci sopra. Tutti i giornali ma proprio tutti hanno dei “padroni”, quale più e quale meno liberale degli Agnelli. Quando ero entrato a far parte della redazione del “Manifesto”, i padroni del giornale erano quelli che volevano costruire un Partito comunista più a sinistra di quello di Palmiro Togliatti e Enrico Berlinguer. Io non credevo alle mie orecchie quando li sentivo parlare. E appena Lucio Magri venne da me a dirmi che avevo fatto male a pubblicare le interviste a un paio di intellettuali di sinistra che non erano entusiasti dei primi numeri del quotidiano, presi la mia borsa a tracolla, sbattei la porta della redazione e mai più. Qualcosa di eroico? Ma nemmeno per sogno. Così quando alla terza pagina del “Paese Sera” filocomunista (in realtà cento per cento comunista) arrivò un articolo di un professore comunista che insultava Bettino Craxi, andai dal vicedirettore a dirgli che quella era monnezza e non era degna di essere pubblicata. Lui disse che andava pubblicata. Sbattei la porta e mai più. Qualcosa di eroico? Ma ovvio che no. Il “Paese Sera” era destinato ai lettori comunisti e loro doveva rincuorare. Avevano ragione quel mascalzone intellettuale di professore comunista e il vicedirettore, non io. Ogni giornale ha il suo pubblico, il suo ruolo, la sua destinazione intellettuale. Direttore geniale, Eugenio Scalfari aveva fatto del suo quotidiano un breviario che ogni mattina rassicurava i suoi lettori di essere la gente migliore al mondo. I decenni sono passati. L’odierna “Repubblica” deve trovare un suo ruolo al tempo in cui la diade destra/sinistra non ha più alcun senso. Carlo Verdelli si faceva una sua idea di questo ruolo, Molinari se ne fa un’altra. Un buon giornalista può scrivere quel che vuole e può nell’uno e nell’altro caso. I “padroni” non c’entrano nulla. Non credo che John Elkann si alzi alla mattina e vada a scrutare una a una le righe dell’articolo in cui Francesco Merlo scrive se sì o no Giorgio Almirante meriti una via lui intestata. Sono i giornali, bellezza. Dei prodotti editoriali. Una merce che si deve vendere. Niente a che vedere con un sacrario dove sono pronunciate cose Alte e Vere, come crede Lerner e che lui sia il più atto a pronunciarle. Niente ma proprio niente di tutto questo, e salvo per le migliaia e migliaia di fanatici e i fanatizzanti dell’una o dell’altra sponda. Entrambe da me disprezzate.
Antonella Baccaro per corriere.it il 5 maggio 2020. De Benedetti lancia «Domani», un nuovo giornale a sinistra. La nuova avventura editoriale dell’ex proprietario de la Repubblica, Carlo De Benedetti, il quotidiano Domani, ha visto la luce ieri con la costituzione a Torino della società omonima, con un capitale di 10 milioni, posseduta da due società, di cui azionista unico è l’Ingegnere, classe 1934. Presidente è Luigi Zanda, dimessosi da tesoriere del Pd, di cui rimane senatore.
Il formato. Sarà un foglio di 8/16 pagine, la cui uscita è prevista per l’autunno, su carta e web. Politica, economia e grandi inchieste, i temi che saranno trattati. Trentacinquenne il direttore, che quasi certamente sarà Stefano Feltri, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano, oggi direttore del blog ProMarket.org. E da giovanissimi — è la promessa del fondatore — sarà composta la redazione. Con l’eccezione, si racconta, di un editorialista, cui l’Ingegnere sarebbe legato da ragioni di affetto. Un modo per escludere che Domani voglia mettersi in concorrenza con Repubblica, magari sottraendole qualche grande firma, ipotesi circolata in questi giorni ma che viene esclusa dai ben informati.
La governance. Il consiglio di amministrazione della società è composto da Giovanni Canetta, capo del Family Office di De Benedetti, Federica Mariani, nota come ideatrice del Festival della tv di Dogliani, Massimo Segre, storico commercialista, Virginia Ripa di Meana, figlia di Vittorio già consigliere del Gruppo Espresso, e l’avvocata Grazia Volo. Oltre a Luigi Zanda, già consigliere per dieci anni del Gruppo Espresso, che dice di essere stato «sedotto dal coraggio di un uomo di 85 anni che scommette ancora su un’impresa fatta da giovanissimi». Sarà l’AntiRepubblica? «Non è possibile: Repubblica è un prodotto unico, nato da una congiuntura straordinaria, con un vivaio di giornalisti di grande qualità e con la genialità di un direttore inimitabile». Zanda lascia la tesoreria del Pd sapendo «che i problemi economici non mancano, come in tutti i partiti, ma che c’è una struttura amministrativa solida». E precisa: «Non c’è nessun legame tra il Pd e il nuovo giornale, dove porterò i miei valori».
La Fondazione. Intanto è iniziato l’iter per la costituzione della Fondazione Domani, presieduta dall’ingegner Carlo De Benedetti, alla quale andrà la proprietà dell’Editoriale quando lui non ci sarà più. Secondo indiscrezioni pubblicate dal sito Open, l’Ingegnere l’avrebbe annunciato con un’email a alcuni amici, con la nota: «Basta eredi!!!».
La cessione di Repubblica agli Elkann. Qualche mese fa l’editore aveva tentato di riacquistare direttamente le azioni di Repubblica, ma i figli avevano preferito trattare e poi cederle agli Elkann, che da tre anni erano già soci dei De Benedetti nella Gedi.
Dagonota il 23 giugno 2020. Vette di umorismo ieri sera a ''Otto e Mezzo'', starring un Carlo De Benedetti mejo di Crozza. Infatti è stato proprietario del gruppo Espresso ma soprattutto della Cir, che possiede o ha posseduto aziende nella sanità, nell'energia (Sorgenia valeva 2 miliardi) e nella componentistica auto. Non solo: l'Ingegnere ha sempre amato giocare in borsa con la sua Romed, scatenandosi su molti settori di cui scrivevano i suoi giornali (Indimenticabile la telefonata dell’allora editore di “Repubblica” con il suo broker. Un affare da 600 mila euro. L’Ingegnere seppe in anticipo dall'allore premier Renzi della riforma e ordinò acquisti in Borsa sulle banche). Eppure ieri sera, in diretta su La7, per la serie "Senza vergogna", si è lamentato dello stato dei media italiani pronunciando questa frase: ''A parte Cairo, per gli altri editori la stampa non è il business principale, e dunque usano i loro giornali per i loro interessi economici prevalenti, e questo è un dramma''. Meraviglioso che a 85 anni si abbia ancora l'energia e lo sprint per farsi una rivergination così eclatante. La Gruber ben due volte prova a ribattere: ''Ma queste erano le critiche che le facevano quando era proprietario del gruppo Espresso, che non fosse un editore puro e avesse un conflitto d'interessi'', eppure la povera giornalista non riceve risposta. L'ospite in studio, Antonio Padellero, non apre la boccuccia, troppo impegnato a difendere Conte dagli attacchi di CDB.
Alberto Giorgi per ilgiornale.it il 23 giugno 2020. In attesa che il "suo" Domani esca in edicola – il quotidiano sarà dato alle stampe quest’autunno – Carlo De Benedetti torna a parlare e a far parlare di sé sparandola grossa in televisione. Già perché ieri sera, in occasione dell’ospitata su La7 a Otto e mezzo di Lilli Gruber, l’editore ha invocato la patrimoniale. "Per risolvere il problema delle disuguaglianze sociali ci vuole una patrimoniale annuale come fa la Svizzera, dove non ci sono pericolosi comunisti. Penso a una tassazione sul patrimonio dello 0,8% annuo, che sarebbe giusta perché darebbe un segno nella risoluzione delle disuguaglianze. La patrimoniale è impopolare ma è giusta", il De Benedetti pensiero. Un punto di vista peraltro molto simile a quello emerso dai recentissimi Stati Generali a Villa Pamphilj a Roma. Ecco, la serie di incontri voluta dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte è stata bocciata in toto dall’ex editore di Repubblica, che l’ha definita come una passerella sia per il premier sia per il suo portavoce Rocco Casalino: "Non vedo perché l'Italia e il governo debbano essere più forti dopo gli Stati Generali, la kermesse è stata una passerella per la gloria di Conte e di Casalino, un'assoluta perdita di tempo". A seguire, la stoccata ulteriore all’inquilino di Palazzo Chigi: "Su Conte non ho un'opinione, non ho nessuna prevenzione ma penso sia una persona senza una visione…". Dallo spettro della patrimoniale al nodo dell’Iva. De Benedetti è contrario a una sua riduzione e lo dice chiaro e tondo: "Abbassare l'imposta sul valore aggiunto è una sciocchezza, 10 miliardi sono un'inezia ma danno un segno che l'Italia anziché pensare di mettere mano ai propri conti, dà una mancia". Dunque, affonda il colpo contro la maggioranza giallorossa: "Non hanno un progetto per il Paese. A settembre si risolverà tutto con mance e polizia, un pò di ordine pubblico e un po’ di modesti regali che non modificano lo stato d'animo della gente che è incazzata". Poi Carlo De Benedetti punta il dito anche contro Confindustria, dicendo di non condividere la linea e i toni del presidente Carlo Bonomi: "Non condivido i toni usati da Confindustria, certe dichiarazioni sfiorano l'eversività". Infine, una lamentela sempre rivolta alla galassia di Confindustria: "Tra l'altro, qualche giorno fa ho fatto un'intervista per il Sole 24 Ore. Il giorno successivo è uscito un editoriale del direttore di Domani Stefano Feltri in cui criticava il presidente di Confindustria Bonomi. A quel punto, ho scoperto che la mia intervista al Sole è stata cancellata. Ho anche scritto al direttore Tamburini per chiedere spiegazioni, ma non ho mai ricevuto alcuna risposta. Hanno censurato un'intervista che non parlava nemmeno di Confindustria ma solo del mio nuovo giornale".
Da liberoquotidiano.it il 23 giugno 2020. "Mettere in discussione Nicola Zingaretti è una cosa che puzza tanto di Renzi". Carlo De Benedetti strappa una risata a Lilli Gruber. "Nel Pd qualcuno ha voluto aprire una discussione sul leader: Zingaretti è troppo debole?", chiede la padrona di casa di Otto e mezzo al suo ospite.
Alessandro Sallusti per ''il Giornale'' il 24 giugno 2020. Si chiamerà Domani, ma meglio sarebbe chiamarlo Ieri, il nuovo quotidiano che Carlo De Benedetti, fresco orfano della Repubblica sta per portare in edicola. L'ingegnere ne ha parlato lungamente l'altra sera ospita a Otto e mezzo di Lilli Gruber e senza vergogna è arrivato a dire che sarà l'unico giornale libero del panorama italiano perché il suo editore - cioè lui - è uomo libero e senza conflitti di interesse. Può essere che oggi De Benedetti non abbia più molti interessi, data l'età ci sta. Ma per favore basta con la favola di De Benedetti - e dei suoi giornali - più puro dei puri. Fino a ieri non è stato così e lo sanno anche i muri della Repubblica oltre a quelli del Banco Ambrosiano, di Olivetti, di Omnitel e di Sorgenia, le più famose delle aziende che lui ha spolpato con l'aiuto di denaro pubblico e politici compiacenti. Salvo poi abbandonarle in stato fallimentare sul groppone di banche e creditori, mentre lui accumulava miliardi con la finanza più spregiudicata. Ma davvero uno squalo simile può essere credibile quando parla dal suo rifugio svizzero di volere annullare «il divario sociale» attraverso l'introduzione di una «patrimoniale perpetua» o di «libertà di stampa perché in questo Paese - penso si riferisse all'Italia e non alla Svizzera - mancano editori puri»? Di recente è stato sospettato dell'inverso, cioè di avere provato ad allargarlo, il divario sociale, mettendo a frutto in Borsa un'informazione super riservata che Matteo Renzi, allora premier, gli aveva soffiato al telefono su un'imminente riforma delle banche popolari. E a proposito di editori puri, può essere divertente andare a rileggere sulla Repubblica le cronache dell'arresto - correva l'anno 1993 - dell'Ingegnere per tangenti e i successivi attacchi che il suo «giornale libero» fece al pm Augusta Giannini, che osò firmare quell'ordine di custodia contro uno degli uomini più potenti del momento (la Repubblica, querelata, dovette risarcire per calunnia in modo importante la malcapitata signora). Ci sarebbe da scrivere un'enciclopedia sulla «purezza» di Carlo De Benedetti, ma per carità di patria fermiamoci qui. Ieri tangenti, fallimenti e inciuci con i governanti di turno, Domani non si sa, vedremo. Ma a occhio la musica non cambierà, invecchiando certi vizi non spariscono, al massimo peggiorano.
Vittorio Feltri per liberoquotidiano.it il 21 maggio 2020. Non ci scandalizziamo se lo Stato decide di aiutare la Fiat concedendole un prestito cospicuo allo scopo di finanziare l'attività automobilistica in Italia che non vive giorni felici. Il fatto che la famiglia Agnelli sia proprietaria non soltanto di stabilimenti industriali, ma anche di una catena robusta di quotidiani, tra cui la Repubblica e la Stampa, ci lascia nella più completa indifferenza. Chiunque abbia proseguito gli studi dopo le elementari sa che i media nostrani, quelli francesi e spagnoli sono figli dell'ideologia politica, appartengono a capitalisti determinati a coprire i propri affari e quelli di amici potenti della pubblica amministrazione. Mentre la stampa anglosassone è nata con finalità diverse, infatti appartiene a editori puri che puntano al business, cioè a guadagnare con la vendita di quotidiani popolari e non. Questa è la tradizione e c'è poco da discutere in quanto essa è consolidata. Nel nostro Paese, tranne rare eccezioni, le maggiori testate sono sempre state nel portafogli di importanti imprenditori che le usavano per fare favori ai governi o per ottenerne, do ut des, in poche parole latine ma chiare. Pertanto se Elkann controlla un impero editoriale non mi straccio le vesti, lo considero normale nella nostra Nazione anormale. Però, poiché sono dotato di buona memoria nonostante l'età, devo aggiungere una considerazione senza intenti polemici. Ci fu un periodo lungo durante il quale in patria imperversava una discussione inesauribile. Al centro dell'acceso dibattito c'era soprattutto o esclusivamente Silvio Berlusconi, accusato di essere padrone e imperatore di varie emittenti e di altre attività cartacee tramite le quali egli influenzava gli orientamenti della opinione pubblica. Durante gli anni in cui Silvio dominava la scena romana non si parlava che di conflitto di interessi e alcuni grossi partiti si prodigavano per combatterlo o, meglio, per impedirlo. Si scatenò una vera e propria guerra contro il Cavaliere al quale rimproverarono di raccattare molti voti non perché li meritasse bensì grazie alla propaganda dei suoi potenti mezzi di informazione. Le baruffe proseguirono per lustri, però una legge che vietasse a un uomo solo, per di più impegnato nell'agone politico, di guidare un gruppo non marginale di giornali e di televisioni, non vide mai la luce. Significa che non è facile contrastare gli interessi che tengono in piedi un colosso editoriale. Oggi, in forme diverse, si ripete lo scenario: secondo i luogocomunisti, invero instancabili, bisognerebbe vietare a Elkann di usare i propri cannoni informativi per tutelare le proprie aziende. Operazione illusoria giacché le regole di mercato vengono imposte dal capitale e non dai comitati di redazione, che campano di stipendio e sono costretti a piegare la schiena sinché non riusciranno a fondare giornali propri che, comunque, saranno guidati da un pilota e non da quattro scagnozzi in bolletta.
Liberoquotidiano.it il 22 maggio 2020. Una Lilli Gruber a sorpresa, quella che a Otto e Mezzo su La7 parla niente meno che del suo editore, Urbano Cairo. Accade nella puntata in onda su La7 giovedì 21 maggio, in cui la Gruber, riferendosi alle recenti vicende che hanno travolto Repubblica con John Elkann editore, afferma: "Urbano Cairo, il mio editore, è un editore puro. Non ha mai interferito nelle scelte di Otto e Mezzo, ci tengo veramente a dire che non abbiamo mai avuto pressioni di alcun tipo". E non abbiamo alcun dubbio al riguardo. Eppure, sentire una giornalista che parla del suo direttore in diretta tv colpisce sempre. E avrebbe colpito ancor di più se la Gruber avesse detto il contrario...Michele Anselmi: Faceva un po’ sorridere il minuetto d’amorosi sensi che hanno ballato Lilli Gruber e Beppe Severgnini a “8 e mezzo” , su La7, giovedì sera. Era ospite il vice segretario del Pd Andrea Orlando, quindi s’è parlato anche del prestito da 6.3 miliardi di euro chiesto da Fca e difeso, diciamo come una voce sola, dai giornali cugini “la Repubblica” e “La Stampa”, ora sotto l’ombrello della medesima Fca. A un certo punto, senza che ce ne fosse un motivo reale, Gruber ha intonato un peana al suo editore Urbano Cairo, per dire quanto sia democratico, tollerante, rispettoso, insomma “puro” (Orlando aveva parlato domenica di “editori non puri”). Neanche un minuto e anche Severgnini s’è unito al ditirambo dicendo che “a La7 si fa così”, cioè che lì, e naturalmente anche al “Corriere”, Cairo non interviene mai (oltre ad aver rinunciato a incassare i dividendi per dare un segnale). Peccato che in un epico video motivazionale di qualche tempo fa lo stesso Cairo fece sapere che verso le 8 di sera raggiunge sempre la redazione di via Solferino “per dare una mano al direttore Fontana a chiudere il giornale”. Sarà puro, ma piuttosto invadente. Direttore de Il Sole 24 ORE dal 1997 al 2001. Dal 2002 al 2004 è stato presidente dell’Itedi, la società caposettore che presiede alle attività editoriali del gruppo FIAT. Questa sera dalla Gruber è andata in scena la perfetta rappresentazione del vizio italiano di parlare di cose serie e complesse senza avere alcuna conoscenza della materia. La Gruber ha chiamato a discutere del prestito che FCA ha chiesto a banca Intesa con garanzia da parte dello Stato il vice segretario del PD , Orlando e due giornalisti Telese e Severgnini, notoriamente completamente a digiuno di economia e di industria. Impossibile replicare a tutte le castronerie che sono state dette, ma due cose mi hanno colpito. la prima è che tutti hanno parlato di soldi dello Stato o di garanzie che sarebbero comunque onerose per il contribuente. Nessuno ha ricordato che questo prestito nasce dalla necessità di sostenere una impresa colpita in maniera molto forte dalla crisi sanitaria , e comunque non si tratta di soldi dello Stato, mentre le garanzie comporteranno un onere solo in caso FCA non fosse in grado di restituire il prestito. Se invece FCA non dovesse fallire, cosa che tutti auspicano, per lo Stato l’operazione comporterà un guadagno di circa un centinaia di milioni di Euro. In secondo luogo tutti hanno parlato di garanzie su occupazione, investimenti, sede fiscale della holding, dividendo straordinario previsto in caso di fusione con Peugeot. Forse Banca Intesa dovrebbe preoccuparsi dato che la garanzia dello Stato coprirebbe solo l’80% del prestito e quindi la banca dovrebbe metterci oltre un miliardo e 200 milioni di soldi suoi. Infatti se la politica riuscisse a mettere troppi vincoli questo potrebbe compromettere la capacità dell’azienda di ritrovare una economicità di gestione. Al contrario l’ Italia dovrebbe fare il tifo per rendere più produttivi possibile gli stabilimenti italiani, unica vera garanzia in una multinazionale della sopravvivenza degli stabilimenti medesimi. La storia di Pomigliano, passata da ultimo della classe a campione mondiale, lo dimostra. Chiedere a Bentivogli per saperne di più. Infine mi chiedo come mai Cairo che certamente di bilanci ne capisce , tollera che si facciamo trasmissioni che mettono sotto le scarpe la cultura industriale e contribuiscono a togliere ai pochi imprenditori rimasti la voglia di investire in Italia.
Stefano Balassone per “la Repubblica” il 28 Gennaio 2020. Dal 7 gennaio Ieneyeh occupa il preserale di Italia 1 (19.20) passando in rassegna un ventennio di imprese de' Le Iene e compiendo, a quanto si dichiara "un tuffo nel nostro passato per capire meglio il nostro presente". Il pubblico non è folla, ma l' importante è che il marchio persista fino al ritorno nel cuore della sera. L'occasione è buona per chi voglia, fuori dalla pressione della cronaca, distinguere e soppesare il funzionamento del cosiddetto "reporting percussivo". Che come è noto prende le mosse dal sussurro di qualche volonteroso, invelenito circa ingiustizie in corso all' interno di un' impresa, di un ministero o fra gli abitanti di un paesello. Tanta denuncia viene tosto appesa all' amo di una telecamera da corsa (talora nascosta) per lanciarsi, portiamo un esempio, a stanare quel pensionato che ebbe a suo tempo la rendita calcolata sull' ultimo anno di lavoro. In virtù, è vero, di una vecchia legge ad clientes che era tuttavia legale, osserviamo, come quella ad aziendam che nell' 84 garantì le sorti del Biscione e dunque de' Le Iene. Per infoltire l'audience la redazione conta su due fattori. Il primo è che la mamma degli indignati è sempre incinta. L' altro sta nella comicità patetica del "briccone" che fugge e balbetta incalzato dal reporter mentre costui fa un figurone grazie a commenti e battute inseriti dallo scaltrito montatore. Così non v' è chi non lodi il cacciatore e non ne disprezzi la preda, ridicola come sarebbe chiunque fosse braccato da una troupe energumena e forte di ogni trucco del linguaggio. Il format lo inventò, che son trent' anni, Chiambretti Piero facendo Il Portalettere , ma con leggerezza ironica e non da bullo. In più mirando sempre e solo ai "grandi" e non ai mezzi poveracci della variegata fenomenologia dell' arrangiarsi. Piero stia dunque innanzi al Tribunale della Storia avendo tracciato il solco alla tv da marciapiede. Ma altra è la pasta di chi dentro quel solco da vent' anni ci sprofonda e sguazza.
Nanni Delbecchi per “il Fatto Quotidiano” l'1 febbraio 2020. Vedendo scorrere il sottopancia "Intervista ESCLUSIVA al ragazzo che stava dietro al famigerato citofono di Salvini" abbiamo pensato di essere finiti per errore su Non è la D' Urso Live. Invece no, eravamo proprio sintonizzati su Piazzapulita, il talk show dei quartieri alti che se la tira alla grande, e dove però è arrivato il coronavirus del voyeurismo in forma di scoop. Ma come? Ci si chiede giustamente come abbia potuto Salvini violare la privacy di una famiglia tunisina, e quella stessa privacy viene ora sparata in video come grande pagina di giornalismo? Non vogliamo sapere con quali argomenti sia stato convinto il diciassettenne Yassin a mostrarsi "in esclusiva". Ma una cosa è certa: se Salvini ha compiuto quel deplorevole gesto per una speculazione politica, Formigli quel gesto lo ha a sua volta strumentalizzato, e sempre sulla pelle del ragazzo. Dal citofono al videocitofono. "Salvini dovrebbe chiedere scusa" proclama il conduttore contrito; segue processo sommario all' untore con Paolo Mieli, una giornalista di Repubblica e Maria Elena Boschi: un parterre bulgaro, da fare invidia a Quarta Repubblica di Nicola Porro. Capace di un giornalismo di rango quando si occupa di esteri, caso unico tra i talk, sulle cose di casa Piazzapulita eredita tutta la presunzione e la retorica del giornalismo de sinistra. Invece di ispirarsi alla gastroenterologia della dottoressa Giò, Formigli dovrebbe prendere lezioni di autoironia dai suoi vicini di palinsesto, Propaganda live.
Gianluca Roselli per “il Fatto Quotidiano” l'1 febbraio 2020. "E tu chi ca sei?". "Ora ti rompo il culo". "Ti aspetto fuori". Non siamo al bar dello sport ma all' assemblea di redazione del Tg2 andata in scena giovedì per quasi 8 ore. Una lunghissima riunione dove sono deflagrate tutte le perplessità di una parte consistente (ma non maggioritaria) della redazione nei confronti della linea sovranista imposta dal direttore Gennaro Sangiuliano che, a loro dire, è anche causa del preoccupante calo di ascolti sia nell' edizione delle 13, la più importante, che in quella delle 20.30. Le critiche però non sono state prese per niente bene da quella parte della redazione che sta dalla parte del direttore nominato in quota Lega. E così sono andati in scena insulti, urla e minacce. Fino alla rissa quasi sfiorata, con il giornalista Roberto Taglialegna che si è scagliato contro il segretario dell' Usigrai Vittorio Di Trapani. Per fermare il caporedattore del Tg2 sono dovuti intervenire un paio di colleghi. Ma Di Trapani era stato pesantemente insultato anche poco prima da Mario Scelba, omonimo e nipote del ministro democristiano, anch'egli caporedattore del telegiornale. "Nelle assemblee di redazione può capitare che l' ambiente si scaldi e volino parole grosse, ma quello è accaduto giovedì pomeriggio non si era mai visto. Una situazione intollerabile", racconta chi c'era. Molti hanno poi parlato di un clima intimidatorio nei confronti dei giornalisti non schierati sulla linea di Sangiuliano. A una conduttrice che aveva espresso critiche è stato detto: "Qui si fa così, se non ti va bene puoi andartene". Alla fine la parte critica della redazione non è riuscita nemmeno ad approvare un documento di dissenso (morbido) verso la direzione. Il timore dell' Usigrai è che ora i giornalisti che si sono schierati contro Sangiuliano possano essere vittime di ritorsioni professionali. "Per questo monitoreremo la situazione giorno per giorno", dicono dal sindacato.
Da Sanremo alla Calabria di Timperi. Da Falcone al Duce. Tutte le colpe della Rai. L'Autorità per le Comunicazioni motiva la sua sanzione alla televisione di Stato citando una lunga serie di gaffe, errori, parzialità. Aldo Fontanarossa il 21 Febbraio 2020 su La Repubblica. In 36 pagine, l'Autorità per le Comunicazioni motiva la sua decisione di sanzionare la Rai (per 1,5 milioni). La violazione del Contratto di Servizio, in cui è in corsa Viale Mazzini, è effetto di una lunga galleria di parzialità, gaffe ed errori che l'Autorità rintraccia sIa nei notiziari sia nelle trasmissioni di intrattenimento. Ecco tutte le colpe della tv di Stato. "Le sanno le conseguenze". Scrive l'Autorità. "La puntata della trasmissione Realiti (5 giugno 2019) ospita due cantanti neomelodici siciliani. Uno dei cantanti, in studio, dice dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: queste persone che hanno fatto queste scelte di vita, le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce ci deve piacere anche l'amaro". Secondo l'Autorità, siamo di fronte a una chiara violazione del Contratto di Servizio che imporrebbe di "veicolare una cultura della legalita".
Mussolini a Predappio. "Il 28 aprile 2019, nell'edizione delle 19.30 del Tgr Emilia Romagna, è andato in onda un servizio sulla manifestazione dei nostalgici a Predappio nel quale compare un gruppo di persone riunite per la commemorazione della morte di Benito Mussolini". Questo, "senza alcun contraddittorio né contestualizzazione sociale o politica". Il servizio "mostrava tricolori, saluti romani e cimeli del regime; e si raccoglievano le dichiarazioni di alcuni presenti - ivi compresa la nipote di Mussolini - al limite dell'apologia del fascismo senza alcuna stigmatizzazione da parte dell'intervistatore".
Il carabinieri e i nordafricani. "Nell'edizione delle ore 13 del Tg2 del 26 luglio si riporta la notizia dell'assassinio del vice-brigadiere Mario Cerciello Rega. Il notiziario è l'unico tra quelli Rai" a indicare con una assoluta certezza i responsabili dell'omicidio "come nordafricani", mentre i presunti responsabili sono in realtà due cittadini statunitensi.
L'omicidio Pomarelli. Per quattro giorni - il 9, 10, 11 e 12 settembre 2019 - La vita in diretta (RaiUno) si concentra sull'omicidio di Elisa Pomarelli (a Piacenza). L'Autorità riconosce che il tema è di primaria importanza, alla luce dei troppi femminicidi che funestano il Paese. Il servizio pubblico tv, però, non ha sempre rispettato l'"Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive".
I piloni della Salerno-Reggio Calabria. Mattina in Famiglia, RaiUno, 25 gennaio 2020. I conduttori del programma parlano con un telespettatore in collegamento dalla Calabria, c'è un quiz. Dopo aver risposto a una prima domanda, per la seconda il telespettatore chiede aiuto e il conduttore Tiberio Timperi fa: "L'aiutiamo, l'aiutiamo, altrimenti poi andremo a fare i piloni della Salerno-Reggio Calabria", accompagnando la battuta da una mimica del corpo. Secondo l'Autorità, "l'episodio, apparentemente banale, contribuisce a rafforzare stereotipi e pregiudizi" mentre la Rai dovrebbe contrastare "ogni forma di discriminazione".
Sanremo: stereotipi sulla donna. "Sono pervenute all'Autorità diverse segnalazioni che lamentavano la scorretta rappresentazione dell'immagine femminile e il ruolo stereotipato della donna nelle trasmissioni Rai. Anche in questo caso è stata verificata una carenza della particolare responsabilità richiesta alla Rai nella garanzia della dignità della persona e nella rappresentazione dell'immagine femminile".
Perché l'attacco a Fazio? In un suo editoriale del 4 marzo 2019 , "il Tg2 commenta ironicamente l'intervista rilasciata a Fabio Fazio dal presidente Macron su Rai Uno. Il cittadino e utente viene esposto a un editoriale che bersaglia i due interlocutori senza un chiaro ancoraggio a una notizia".
Bannon dà i voti all'Italia: "Un'altra segnalazione ha riguardato un'intervista del 25 gennaio 2019 (Tg2), a Steve Bannon, presentato in studio come teorico della destra sovranista americana". L'intervista si sostanziava "in una serie di commenti sui leader delle forze di governo italiano di allora, senza fornire alcun chiarimento in ordine alle ragioni per le quali si riteneva di dare spazio a Bannon e, dunque, senza alcuna precisazione circa la sua figura e il suo ruolo".
Le carceri libiche. Scrive ancora l'Autorità: "L'approdo, condotta da Gad Lerner e andata in onda su Rai Tre il 5 luglio 2019, fornisce una apprezzabile rappresentazione della questione delle torture nelle carceri libiche". Ora, il programma propone anche "dichiarazioni contro il ministro dell'Interno dell'epoca e contro la politica del governo italiano". Su questo punto il programma "avrebbe dovuto garantire la possibilità di replica e di contraddittorio da parte dei diretti interessati" e dunque "la completa rappresentazione delle diverse posizioni in campo".
Minibot a senso unico. Nella trasmissione del 5 giugno 2019 di Tg2 Post è stato trattato, tra l'altro, "il tema dei minibot". E viene fornita "una spiegazione dello strumento dei minibot e del loro funzionamento. La rappresentazione di tale tematica, tuttavia, è risultata univoca perché non illustra le diverse opzioni e posizioni al riguardo".
I risparmi nel materasso. Carta Bianca del 3 dicembre 2019. "Il commentatore fisso Mauro Corona - interpellato sul tema del Fondo Salva Stati - si rivolge ai telespettatori dicendo: vorrei dire ai risparmiatori, tiriamo fuori i nostri risparmi e li mettiamo sotto il materasso". Pur avendo la conduttrice Berlinguer stigmatizzato questa affermazione, "l'informazione fornita al cittadino-utente su un tema complesso risulta del tutto sommaria".
Marco Castoro per leggo.it il 27 febbraio 2020. C'è tempo fino al cda del 5 marzo per trovare la quadra a Viale Mazzini. O l'ad Fabrizio Salini riesce a presentare (e a far approvare ai consiglieri) la nuova organizzazione dei tiggì o dovrà fare le valigie. Il nodo è sempre lo stesso: la nomina a direttore del Tg3 di Mario Orfeo, l'ex dg Rai, nonché ex direttore di Tg2 e Tg1. In pratica i Cinquestelle per trovare un accordo col Pd hanno bisogno che la nomina di Orfeo salti. Salini è all'ultima curva prima del traguardo, ma proprio perché il percorso è impervio potrebbe sbandare. L'ex dg è ben visto dai renziani e anche dal Pd, mentre Di Maio non ne vuole sapere. Per contro il Pd vorrebbe mandare a casa Salini, difeso però a spada tratta proprio dal ministro degli esteri (fu Di Maio a sceglierlo). Il Pd sta già facendo scaldare i muscoli a eventuali sostituti. Ma chi potrebbe prendere il posto di Salini? Due i nomi che circolano. In prima fila troviamo l'ex presidente Monica Maggioni (attuale numero 1 di RaiCom) e Paolo Del Brocco, il manager più accreditato di RaiCinema. I due hanno portato a casa ottimi risultati per l'azienda e quindi offrono garanzie di management. Poi c'è sempre un manager del calibro di Antonio Marano che potrebbe entrare nella partita. Ovviamente se dovesse andare a casa Salini salterebbe tutto il banco del cda e della governance, presidente compreso. Quest'ultima carica potrebbe andare proprio a Marano.
Marco Castoro per leggo.it il 27 febbraio 2020. I telegiornali Rai (e non solo) sono monitorati dall’AgCom per quanto riguarda lo spazio che concedono a partiti e istituzioni (presidente della Repubblica, di Senato e Camera premier e governo).
Per quanto riguarda il tempo di parola concesso nell’intero mese di gennaio ai soggetti politici e a quelli istituzionali il Tg1 diretto da Giuseppe Carboni vede in testa il Pd con il 14,88% davanti al M5S (13,08%) e alla Lega (12,27%). Al quarto posto Forza Italia (9,66%). Il governo vanta il 18,14%, il premier Conte l’8,86% e il presidente Mattarella 7,96%. Molto equilibrato il Tg2 diretto da Gennaro Sangiuliano: Pd 14,38%, M5S 14,29%, Lega 13,49%, Forza Italia 12,20%. Il governo è al 10,46%, Mattarella 8,01%, Conte 7,82%. Il Pd ha più tempo di parola di tutti anche nel Tg3 di Giuseppina Paterniti (14,69%) davanti al M5S (10,15%), Forza Italia (8,98%) e Lega (7,83%). Governo al 16,33%, Mattarella 10,07% e Conte 7,12%. A RaiNews di Antonio Di Bella è ancora Pd al comando (14,67%) davanti a M5S (13,63%). Nettamente più staccate le forze dell’opposizione: Lega (8,86%) e Forza Italia (5,86%). Il governo raggiunge il 19,51%. Il premier 11,16% e Mattarella 8,18%.
Ma veniamo ai cosiddetti “piccoli”. Fratelli d’Italia oscilla da un 3,93% del Tg2 a un 2,27% di RaiNews, passando per un 3,52% del Tg3 e un 3,44% del Tg1. Italia Viva è più considerato dal Tg2 (4,59%), mentre viene in pratica ignorato dai restanti tiggì: 1,28% il Tg1; 1,40% Rainews e 1,82% Tg3. Va meglio Liberi e Uguali: Tg1 2,92%; Tg2 2,44%; Tg3 4,30% e RaiNews 2,78%. Ai soggetti politici dell’Unione europea è il Tg3 che concede più tempo di parola (3,92%), seguito da RaiNews (1,92%), Tg1 (1,01%) e Tg2 (0,31%).
TEMPO DI NOTIZIA – In questi dati dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni sulle news il Pd non è leader ovunque. Non primeggia né al Tg2 (preceduto da Cinquestelle e Lega) né a RaiNews (quasi 9 punti percentuali in meno rispetto al M5S). Va invece fortissimo il premier Conte che facendo la media di tutte le notizie dei quattro tiggì Rai si piazza al primo posto con la percentuale del 17,27%. Davanti ai Cinquestelle (17,19%), Pd (12,48%), Lega (11,85%), Governo (11,20%), Mattarella (7,54%) e Forza Italia (5,97%).
TEMPO DI ANTENNA – Questo dato indica il tempo complessivamente dedicato al soggetto politico o istituzionale come somma del “tempo di notizia” e del “tempo di parola”. Il Pd è primo in classifica al Tg1 (13,64%) e al Tg3 (14,33%), mentre è secondo a RaiNews (13,01%) e terzo al Tg2 (12,72%). I Cinquestelle primeggiano al Tg2 (15,16%) e a RaiNews (17,63%) mentre sono secondi al Tg1 (12,87%) e al Tg3 (12,50%). La Lega di Salvini è sempre terza a eccezione del Tg2 dove è seconda davanti al Pd e dopo il M5S.
Queste le percentuali del Carroccio divise per testata: Tg1 11,75% - Tg2 14,53% - Tg3 11,39% - RaiNews 10,15%. Grande spazio al premier Conte: Tg1 16,76% - Tg2 13,96% - Tg3 11,31% (qui è superato dai suoi ministri 14,74%) - RaiNews 14,94%. Complessivamente nei quattro tiggì Rai il tempo di antenna dedicato a premier e governo raggiunge il 28,45% che sommato al 34% di tutti i partiti che compongono la maggioranza si arriva al 62,45%. Con il 7,79% di Mattarella si tocca quota 70,24%. Il restante 29,76% è il bottino che si dividono le forze dell’opposizione, i presidenti di Camera e Senato, gli europarlamentari.
Feltri, Salvini e la "guerra mondiale" in Emilia: "In tv tutti a far festa per il Pd. Sorvolo sulla Gruber". Libero Quotidiano il 28 Gennaio 2020. Ho letto e ascoltato vari commenti post elettorali e ne ho tratto l' impressione che il Pd abbia vinto la guerra mondiale. In realtà ha solo riconquistato una regione rossa da sempre. Una impresa storica o una semplice conferma che l' Emilia Romagna è un vivaio di riciclati, passati disinvoltamente da Stalin a Occhetto, e da questi, strada facendo, sono arrivati, in una decrescita qualitativa, a Zingaretti? Il comunismo a mio modesto avviso non è una fede politica, bensì una grave malattia mentale da cui si può migliorare, non guarire. Pertanto non deve stupire che anche stavolta i compagni l' abbiano spuntata, battendo la Lega, la quale ingenuamente si era illusa di sbarazzarsi di loro. Figuriamoci se un popolo che si fece ammaliare dal marxismo sia disposto a salire in massa sul Carroccio fondato da Bossi e rifondato da Salvini. Oddio, è lecito illudersi ma fino a un certo punto. Oggi Matteo viene allegramente spernacchiato su ogni emittente e ogni giornale, i politologi di complemento, reclutati per analizzare i risultati espressi dalle urne, godono quali ricci nel valutare la sconfitta del Capitano. Non riescono a trattenere la loro beatitudine, e non capiscono che la sua è stata una prova eroica. Chi mai prima aveva sfidato minacciosamente i signori progressisti, che poi tali non sono? Neppure la Democrazia cristiana fu in grado di raggiungere in Emilia le percentuali raggiunte da Matteo. Il quale durante la campagna elettorale ha fatto il ganassa, come si dice a Milano, però ciò è normale. Chiunque partecipi a una competizione esibisce i muscoli onde intimorire l' avversario, non si mette in posizione supina. Ovvio. L' affermazione scontata del Pd ha dato la stura ai peggiori sentimenti anti leghisti. I conduttori televisivi e i loro ospiti non si sono trattenuti dal manifestare soddisfazione, anzi, gioia per l' inciampo di Alberto da Giussano. Sorridevano beati quasi avessero azzeccato un terno al Lotto. Perfino la mia amica Myrta Merlino, di norma composta (non sempre) si è abbandonata al buonumore. Per non parlare di Tiziana Panella, giuliva e contenta quanto mai nella celebrazione del successo Pd, trascurando il fatto che la destra recentemente si è impadronita di otto regioni, ultima la Calabria che, secondo lei, donna del Sud, non vale una cicca. Ormai La7 di Cairo è l' ufficio stampa della sinistra, le trasmissioni più apprezzabili sono le pubblicità riguardanti i materassi e le poltrone. Sorvolo sulla Gruber, per decenza.
Pierpaolo La Rosa per “il Tempo” il 23 gennaio 2020. Continua a far discutere la scelta del candidato del centrosinistra alle elezioni suppletive, in programma il 1 marzo nel collegio di Roma Centro della Camera. Nei guai è il Pd che aveva indicato Gianni Cuperlo. Niente da fare, tanto che in una nota Zingaretti - dopo aver ringraziato il diretto interessato per la disponibilità - avverte che «a fronte di una richiesta di parte della coalizione per una candidatura unitaria e civica e avendo sempre, in ogni occasione, dimostrato la nostra volontà di preservare la massima unità, invito le forze locali della maggioranza a riunirsi nelle prossime ore per valutare la soluzione più condivisa». A seminare ulteriore zizzania ci pensa la capogruppo di Iv a Montecitorio, Maria Elena Boschi, che fa un endorsement - supportata da Calenda - per la giornalista Federica Angeli. Parole che provocano la reazione di Massimiliano Smeriglio: «Non so se Boschi si renda conto del danno che possono fare candidature, anche autorevoli, gestite, però, come bandierine di partito».
Elezioni suppletive a Napoli, ecco Ruotolo: «Sono il candidato di tutti, dalle sardine agli operai». Il Mattino Mercoledì 22 Gennaio 2020. Usa la parola «squadra» numerose volte: «Nessun passo in avanti e nessun indietro, si cammina insieme», mette in chiaro. La sua candidatura la definisce un «laboratorio per il futuro per le forze progressiste e di sinistra». Dice di sentirsi una «sardina, seppur stagionata» e cita Borsellino, «mi sono candidato perché amo la mia terra». Sandro Ruotolo, in corsa per il seggio al Senato lasciato libero dal defunto Franco Ortolani, eletto nel 2018 nel collegio partenopeo, si è presentato così. Con il Pd da un lato, Dema dall'altro, le Sardine accanto e un obiettivo: «Essere il candidato di tutti». Prove di coalizione allargata, a Napoli. Anche se tutti guardano alle suppletive, non certo alle regionali dove i distinguo restano eccome. Ad ascoltarlo, in conferenza stampa, ci sono tanti: il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, ma anche il segretario metropolitana del Pd, Marco Sarracino, tra gli altri. Ruotolo parla di una «sfida bellissima» e dice anche di sentire addosso «tutta la responsabilità di guidare una coalizione allargata». «Bisogna rispondere al sovranismo, a Salvini che vorrebbe portare l'odio anche qui», avverte. Parla della Terra dei fuochi, del lavoro («ieri prima di presentare la mia candidatura ho incontrato i lavoratori della Whirlpool»), parla della camorra avendo accanto parenti delle vittime innocenti dei clan. Ci sono anche le sardine accanto a lui, «ragazzi che finalmente hanno fatto presente che la politica deve occuparsi delle persone». E poi, su tutto, Napoli e la capacità di essere squadra. Guai a dirgli che la sua è una candidatura opzionata dal sindaco di Napoli, Luigi de Magistris: «Non è una operazione intelligente, questa. Ho stima e amicizia per Luigi ma per tanti altri». «E poi - aggiunge - io l'unica tessera che ho è quella dell'Anpi, tutti dovrebbero averla». Se dovesse essere eletto, si siederà nel gruppo misto, spiega. E a chi gli chiede cosa si aspetta dai cinquestelle, risponde così: «Io li rispetto. Dobbiamo essere e non solo dire di essere contro l'odio e il rancore. Io metto sul piatto la mia storia, la gente sa chi sono. Anche l'elettore grillino mi ha trovato sempre. Io vorrei un voto di opinione per cui si vota la persona, questo per me è importante».
Lucia Annunziata lascia la direzione di HuffPost Italia. La giornalista ha guidato il sito dalla sua nascita, nel 2012: "È una decisione personale e felice, non c'è stato nessun attrito. Sono stata chiamata per fare una startup e dopo 8 anni il giornale è diventato adulto ed è in crescita". Lucia Annunziata lascia la direzione di HuffPost Italia e il gruppo Gedi: "Ho fatto 8 anni di Huffington Post. È una mia decisione quella di andare via. È una decisione personale e felice, non c'è stato nessun attrito", ha dichiarato Annunziata all'agenzia Adnkronos. "Quando un editore cambia è giusto anche che ci sia una discontinuità nella direzione. Sono stata chiamata per fare una startup e dopo 8 anni il giornale è diventato adulto ed è in crescita. Sono soddisfatta, quindi è il momento giusto per andare via", conclude la giornalista, che ha guidato l'edizione italiana di Huffington Post dalla sua nascita nel 2012. Huffington Post Italia è una joint venture controllata al 49 per cento dal gruppo Gedi (editore di Repubblica) e al 51 per cento da Verizon.
Da primaonline.it il 22 gennaio 2020. Lucia Annunziata lascia la direzione dell’HuffPost e il gruppo Gedi. Lo ha comunicato ieri al direttore generale Scanavino e al direttore del personale Moro. Nella giornata di ieri, martedì 21 gennaio, il direttore di HuffPost Italia Lucia Annunziata ha comunicato le sue dimissioni alla redazione. Una decisione in linea con la formula "nuovo editore, nuovo direttore". Dopo 8 anni consegna una testata con i conti in ordine e che negli ultimi anni ha portato circa 1 milione di euro l'anno al Gruppo Gedi. Oggi HuffPost Italia è al 14esimo posto nella classifica dei giornali online più letti in Italia (Audiweb) ed è in crescita costante. Nell'ultimo trimestre 2019 il traffico sul sito è risultato essere superiore del 25% rispetto allo stesso periodo del 2018. Il 90% del traffico totale arriva da mobile. Tra le fonti di traffico il 50% è da social network. HuffPost Italia, inoltre, è sul podio dei giornali online più consultati dai parlamentari per il secondo anno consecutivo secondo una ricerca Quorum/Youtrend per Il Sole 24ore. Anche alla luce di questi numeri, nel ringraziare Lucia Annunziata per lo straordinario lavoro alla guida di HuffPost Italia, la redazione auspica che il Gruppo Gedi colga l'occasione per chiarire in tempi rapidi le strategie di sviluppo e le prospettive per la testata. Il Cdr di HuffPost Italia Giuseppe Colombo, Giacomo Galanti, Pietro Salvatori.
L'Agcom ordina a Rai, Mediaset, Sky e La 7: "Riequilibrare il pluralismo". Il monito: "Provvedano ad assicurare nei notiziari una immediata e significativa inversione di tendenza rispetto a quanto rilevato nel trimestre settembre-novembre 2019". La Repubblica il 17 gennaio 2020. Il Consiglio dell'Agcom ha deciso a maggioranza di rivolgere a Rai, Mediaset, Sky Italia e La7 "un ordine affinché provvedano ad assicurare nei notiziari una immediata e significativa inversione di tendenza rispetto a quanto rilevato nel trimestre settembre-novembre 2019". La decisione è stata presa dopo aver esaminato i dati dei tg relativi a dicembre 2019 nei quali l'Agcom "ha accertato il permanere delle criticità: in particolare, i tempi fruiti da alcuni soggetti politici non sono risultati coerenti con le rispettive rappresentanze parlamentari". Per l'andamento registrato nel trimestre settembre - novembre, le società RAI, RTI, Sky Italia e La7 erano state già invitate, con comunicazione trasmessa il 30 dicembre, "a garantire il più rigoroso rispetto dei principi sanciti a tutela del pluralismo dell'informazione, avendo cura di assicurare, pur nel rispetto della libertà editoriale e alla luce dell'attualità della cronaca, un equilibrato accesso di tutti i soggetti politici al fine di garantire un'informazione completa ed imparziale". Il Consiglio dell'Autorità, relatore Antonio Nicita, ha pertanto deciso di rivolgere alle società - a maggioranza e con il voto contrario dei Commissari Antonio Martusciello e Francesco Posteraro, quest'ultimo perché in dissenso sul termine per la verifica dell'ottemperanza ai provvedimenti dell'Autorità - un ordine affinché provvedano ad assicurare nei notiziari una immediata e significativa inversione di tendenza. Nel trimestre in corso (dicembre 2019 - febbraio 2020) - sottolinea la nota Agcom - "dovrà dunque essere garantita un'informazione equilibrata e un effettivo e rigoroso rispetto del principio della parità di trattamento tra i soggetti politici, che tenga conto del grado di rappresentatività di ciascun soggetto politico, anche con riferimento al rapporto dei tempi fruiti tra i diversi soggetti politici, nel rispetto dell'autonomia editoriale e giornalistica e della correlazione dell'informazione ai temi dell'attualità e della cronaca politica".
Massimo Falcioni per tvblog.it il 24 gennaio 2020. Se c’è una sera della settimana in cui Carlo Calenda non prende impegni, quella sera è il martedì. L’ex ministro dello sviluppo economico infatti ha un appuntamento fisso (o quasi) con Giovanni Floris. Dal 10 settembre ad oggi sono state 13 le ospitate di Calenda a Di Martedì, su 18 trasmissioni complessive. Una copertura pari al 72% del totale, con il leader di Azione presente in studio o in collegamento, ma in ogni caso pronto a confrontarsi con giornalisti, tecnici e avversari politici. Calenda ha risposto all’appello fin dall'esordio stagionale del programma di La7 e così ha fatto per le tre settimane successive (10, 17 e 24 settembre e 1 ottobre). Stop di un turno e poi di nuovo in onda il 15 e 22 ottobre. Sempre due le apparizioni a novembre (5 e 26), mentre a dicembre è stato ancora filotto: 3, 10 e 17 dicembre. Dopo Natale, Calenda si è invece rivisto il 14 e il 21 gennaio. Contrarissimo all’inciucio tra Pd e Cinque Stelle, il ruolo dell’europarlamentare è ben definito all’interno del racconto politico. Calenda critica, ammonisce, boccia. Nell’arena ci sta benissimo e anche negli uno contro uno tende ad esaltarsi. Peccato solo che il film venga replicato di settimana in settimana, con gli interlocutori che – alla lunga – risultano essere sempre gli stessi. Sì perché a sorprendere non è solamente la frequenza degli inviti, ma pure i cosiddetti remake regalati da Di Martedì, che tra i talk politici sembra a tutti gli effetti il più affascinato dal concetto di reiterazione. In questo modo, Calenda si è trovato di fronte sette volte Alessandro Sallusti, quattro volte Pietro Senaldi, quattro volte Elsa Fornero, quattro volte la grillina Carla Ruocco e tre volte la leghista Francesca Donato. Quasi meglio di una telenovela a puntate.
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 24 gennaio 2020. «Quante notizie dà il telegiornale? Come le dà? In che misura e in che modo le manipola?» Questo è il celebre attacco di un articolo di Umberto Eco del 1972, Il Televisionario. Mi è tornato in mente seguendo in questi giorni Sonoleventi, il nuovo tg del Nove condotto da Peter Gomez (ore 20). Invece di Sonoleventi sarebbe stato più giusto chiamarlo Sonoilfattoquotidiano, visto che il notiziario appartiene a pieno titolo, anche in termini produttivi, alla Galassia Travaglio. Davvero Gomez vuol raggiungere un target giovane? Siamo sicuri che non si accontenti di raggiungere uno spettatore già convinto? E cosa c’entra questo tg con la programmazione di Nove? Secondo Eco, la prima regola di trattamento suggeriva di commentare «solo ciò che si può o si deve commentare (tutto deve apparire come pura oggettività)». Che è esattamente quello che ha detto Gomez in sede di presentazione: obiettivi e imparziali senza rinunciare a dire la propria opinione. Ecco, potremmo fermarci qui, per spiegare il forte impianto ideologico di questo tg, che ha esordito lunedì con una lunga intervista al presidente del Consiglio «Giuseppi» Conte. Gomez difende con forza la proposta sulla prescrizione, voluta dal Guardasigilli Alfonso Bonafede; difende il reddito di cittadinanza e si chiama a commentarlo il sociologo Domenico De Masi (mica pizza e fichi!); parla di Bibbiano sottolineando il fatto, con le interviste on the road, che la popolazione si sente abbandonata dal Pd. E se parla della lotta all’inquinamento, chi meglio del ministro Sergio Costa? Sonoleventi si espone solo quando i 5 Stelle si sono già esposti e quindi le notizie non hanno bisogno di commenti scoperti. L’impianto scenografico, voluto da Duccio Forzano, è di quelli che ti fanno venire il mal di testa per eccesso di ambizione artistica.
Stefano Balassone per “la Repubblica” il 24 gennaio 2020. Sono le venti (canale Nove) scocca in realtà alle 19.53 e termina dopo mezz' ora esatta, ponendosi a cavallo dell' orario dei Tg della sera e facendo ogni sforzo per mostrarsi differente. L' ambientazione è "antirazionalista", rutilante di colori e linee, ma contaminata con immagini di affreschi celebri e figure sghembe; la scrivania col mezzo busto è assente e Gomez conduttore resta esposto, scamiciato e intero, su uno sgabello. Si esprime a frasi corte, è attento a non ripetersi e, in particolare, vola rapido sulle schermaglie di palazzo. Non bada, a differenza di Mentana, a cercare nessi che cuciano la scaletta in un unico racconto. Tanto più che relega le "notizie importantissime" dentro una veloce hit parade. Fra tante è questa la scelta che più s' adegua al dato di fatto che per intere generazioni, le meno anziane, le notizie si scorrono sullo smartphone durante il giorno, e alla tv ti volgi semmai solo per capirne il senso a fondo. Il cuore del prodotto è costituito da coppie di fatti mostrati e seguiti dai commenti. C' è il filmato "fatto apposta" che mostra la cosa e/o il luogo del problema, seguito dall' incontro un personaggio competente o per incarico o per sapienza. Così è stato col ministro dell' Ambiente circa i buchi nelle barriere antinquinanti di Porto Marghera, e col sociologo che spiega e critica il perché della paga e dei ritmi di lavoro subiti dalle donne che rassettano le stanze negli alberghi. Oppure Bersani, che convocato a dire delle dimissioni di Di Maio definisce l' humus del primo M5S come "radicalismo civico" centrando anche il nocciolo editoriale del "non TG" di Gomez. Il modello centrato sul "contenuto approfondito" comporta, se non scambiamo la realtà con i nostri auspici, due conseguenze: limita i costi rispetto all' uso di un corpo redazionale classico, ossificato in generi e materie; non richiede, per tenere sveglio lo spettatore, di pizzicarne il senso di paura e allarme permanente. Il pubblico della Nove fin qui risponde.
Laura Rio per “il Giornale” il 18 gennaio 2020. Non è un tg, non è un talk, non è un programma di approfondimento tradizionale. È il tentativo di fare un nuovo tipo di informazione in un mondo invaso da un tale flusso di notizie da rendere paradossalmente ancora più difficile decifrare la realtà. Debutta il 20 gennaio alle 20 e si chiama appunto Sono le venti la striscia quotidiana in onda sul canale Nove (di Discovery) dal lunedì al venerdì, realizzata da Loft produzioni. La sfida ai telegiornaloni in onda a quell' ora, momento di punta di tutta l' informazione televisiva, viene lanciata da Peter Gomez. Il direttore de ilfattoquotidiano.it, che si è fatto le ossa in televisione con il programma La confessione, non scende però sullo stesso terreno dei telegiornali delle reti ammiraglie, non vuole certo fare concorrenza in termini di ascolti ma di modalità di racconto. «Il nostro obiettivo - chiarisce - è spiegare agli spettatori quello che di veramente importante è accaduto durante la giornata, scegliendo tre o quattro fatti importanti, di tutti gli argomenti, alti e bassi, cercando di illustrarli e semplificarli perché chiunque li possa capire. Anche con l' aiuto di esperti». E soprattutto con la promessa di presentarsi senza una visione ideologica. «Io ho le mie idee, si conoscono, ma il tentativo è di essere imparziali. Ciò che non sopporto è il concetto di due pesi e due misure, come succede in certi talk come quelli di Lilli Gruber o di Lucia Annunziata: se c' è un ospite di destra o se c' è Salvini viene massacrato di domande, invece si è più morbidi con uno di sinistra e questo non mi piace soprattutto da parte di giornaliste (la frecciata è diretta alla Gruber) elette al Parlamento Europeo grazie a quella parte politica». Molto importante nel programma sarà l' uso delle immagini, tanto che alla direzione artistica è stato chiamato Duccio Forzano, regista di molti programmi di successo e la redazione è composta da giovani videomaker. «Gomez sarà immerso in un flusso di immagini grazie a dei totem digitali e avrà a disposizione una scrivania interattiva».
Azzurra Barbuto per ''Libero Quotidiano'' il 19 gennaio 2020. All'interno del programma di approfondimento Otto e mezzo, condotto dalla giornalista Lilli Gruber, venerdì sera ad essere scandagliata è stata pure l' esistenza privata della deputata della Repubblica Maria Elena Boschi. «Lei ha rivelato recentemente di avere avuto una relazione importante, rimasta segreta, di cui nessuno si è accorto: uno, perché l' ha tenuta nascosta? Due, è finita questa relazione?», ha chiesto la conduttrice. «Sì, è finita», ha risposto Boschi, subito incalzata dalla Gruber: «Ma perché l' ha tenuta nascosta?». E poi, sempre più intenzionata a non farsi i fatti suoi: «E adesso ha un fidanzato, compagno, una relazione?». Con ironia ed eleganza Maria Elena ha dichiarato: «Non penso che sia così rilevante. Comunque no». Un attimo dopo sul web i giornali si sono scatenati, titolando: «Maria Elena Boschi: non sono più fidanzata», «Sono tornata single. Ho protetto questa storia», «Ero fidanzata. Ma ora è tutto finito». Addirittura Repubblica, per condensare tutta l' intervista, ha fatto questa bizzarra titolazione: «Boschi: Sono tornata single. Italia Viva può arrivare al 10 per cento». Tuttavia sfugge il nesso causale tra una e l' altra affermazione. E sui social network sono piovute critiche nei confronti della parlamentare Boschi, colpevole di una imperdonabile indecenza: avere 39 anni ed essere non sposata e senza figli. Poco conta che la signora sia già stata ministro e abbia una carriera alle spalle e davanti tutt' altro che insignificante. L'Italia è affetta da questo provincialismo qui: ci impuntiamo sulle astine alle vocali per non offendere il gentil sesso, eppure continuiamo a giudicare una ragazza in base al suo stato civile e ci stupiamo se ella, pur essendo trentenne, non abbia al fianco un uomo. Insomma, diamo per scontato che una femmina debba sposarsi e figliare, altrimenti è inutile, non avendo assolto la sua funzione riproduttiva, e che debba accompagnarsi ad un maschio. E ci meravigliamo ove questo non avvenga. Lilli Gruber, autrice del libro Il potere delle donne contro la politica del testosterone. Basta!, si propone di combattere il sessismo imperante, eppure ella è la prima a porre domande da rotocalco rosa ai politici ospiti nel suo studio, se questi sono di genere femminile, quindi ad applicare un trattamento differente in base al sesso. Un esponente politico dovrebbe essere interrogato e dovrebbe rendere conto riguardo i programmi e le scelte sue e del partito che rappresenta e non riguardo la sua vita intima, la quale deve restare privata e non deve in alcun modo coinvolgere il pubblico. Quando la smetteremo di classificare le donne in base al loro stato civile? E perché questo non accade mai agli uomini? Per quale motivo alle parlamentari in tv vengono chiesti ragguagli inerenti ai loro affari di cuore e nessuno si sogna di interpellare ministri, deputati e senatori circa fidanzate, amiche di letto, mogli ed amanti? I tempi sono cambiati e dovrebbe a questi conformarsi anche la mentalità evidentemente atavica di Lilli Gruber, la quale si incuriosisce davanti ad una giovane bella, intelligente, brillante eppure sola, e vuole indagare gli oscuri motivi di codesta ingiustificata singletudine. Oggi sono centinaia di migliaia le trentenni felici che, pur credendo nell' amore e nella famiglia, vivono concentrate sul lavoro che le appassiona e le gratifica e non sono maritate né hanno un compagno. E la spiegazione è semplicissima: non hanno fretta di gettarsi nelle braccia di chiunque pur di riempire il posto accanto a loro, tanto meglio tenerlo libero. Non si sentono perse senza un coniuge. Non sognano le nozze, bensì la propria realizzazione personale e professionale. E si rimboccano le maniche per edificare il proprio avvenire. Ciò che le terrorizza non è il ritrovarsi sole, bensì l' accontentarsi di un amore posticcio, o flebile, giusto per mettere l' anello al dito. Giovani così rivendicano il proprio essere donne e non intendono assomigliare agli uomini, tuttavia pretendono di essere trattate come questi ultimi. Pure da Lilli Gruber.
Mail di Carla Vanni a Dagospia il 13 maggio 2020. Cara Lilli Gruber, noi non ci conosciamo personalmente ma lei ha un talk molto seguito e da lungo tempo ed io la seguo solo dall’inizio di questa pandemia – confesso. Prima non avevo mai sentito la necessità di vedere “8 e ½” anche perché nella stessa ora seguivo con molta passione una fiction su “Rai Tre” – “Un posto al sole” – e mi divertiva molto di più. Bene. Poi è arrivata la pandemia, “Un posto al sole” è stato sospeso e il suo “8 e ½” ha preso per me quel posto, quel “tempo”. Così ho assistito all’escalation nel tentativo di distruggere il premier Conte. Venerdì sera, 8 maggio, abbiamo sentito un ospite di fama parlare addirittura di sciacallaggio. La sera dopo il giornalista Borgonovo ha sparato a zero su Conte, parlando di un ritorno di dittatura, di assorbimento di poteri, di limitazione della libertà individuale inconcepibili in una democrazia e via dicendo, e lei riassumendo le parole (assurde) di Borgonovo ha parlato di Conte come di un “dittatorino”. Potrei sottolineare tanti altri modi di dire che lei ha usato avendo come obiettivo solo quello di togliere credibilità, peso, serietà al presidente del Consiglio. E allora mi è venuta una curiosità. “Perché? Dove vuole arrivare? Perché non riesce ad essere obiettiva e a porre delle domande in maniera corretta ai suoi interlocutori? E soprattutto a fare agli “esperti” domande pertinenti alla loro professionalità? Perché chiedere al professor Galli, ad esempio, se va bene che lei metta sempre il tailleur e non un abito a fiorellini? Mi sembrerebbe più serio. È inutile che io le dica che sono d’accordo con alcune delle persone “invitate” da lei – qualcuna al di fuori del coro serve per un minimo di serietà del talk – quando dicono che il presidente Conte ha compiuto degli errori. È vero. Ma ha fatto un percorso serio e ha preso decisioni difficili che hanno evitato che questi momenti terribili degenerassero in follia collettiva. Parliamo di solidarietà, di unità, di “teniamoci tutti insieme”. Lei ha cercato con il suo talk una strada opposta. Una piccola nota. Perché si siede sempre sull’orlo della sedia? Anche se il suo profilo, magari, mettendosi più comoda e normale, perderebbe un po’ di stilizzazione, fascinazione, personalizzazione, non darebbe un tono più naturale anche al suo talk? Perché così ci aspettiamo, e speriamo, che lei un giorno scivoli. E sarebbe molto divertente.
Dopo il flop Gad Lerner torna in Rai con un programma sui partigiani. Il giornalista condurrà per Rai Tre il format "Partigiani" in vista della Festa della Liberazione. Quest'estate il flop de "L'approdo". Alberto Giorgi, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. C'è sempre posto per un programma di Gad Lerner in Rai. Anche nonostante il flop d'ascolti della sua ultima esperienza televisiva per l'emittente pubblica. Salvo ripensamenti dell'ultimo minuto, il giornalista condurrà su Rai Tre il programma Partigiani. Una striscia quotidiana della durata di un'ora che dovrebbe andare in onda dalle 20:30 alle 21:30. Un format studiato ad hoc in vista del 25 aprile, festa della Liberazione. L'ultima trasmissione di Lerner per "Mamma Rai" è stata un (mezzo) fallimento. Dal lunedì 3 giugno 2019 il saggista fece ritorno con il talk show L'Approdo, in seconda serata e sempre sulla terza rete pubblica. Un programma per analizzare il presente e il panorama politico, economico, sociale e culturale attuale. Non a caso la prima puntata del format venne dedicata al cambiamento e all'ascesa della Lega di Matteo Salvini, spiegando come, da Umberto Bossi e dalle origini a oggi, si sia imposta come prima forza politica dello Stivale. Fu, appunto un flop. Il primo appuntamento raccolse seguito: il 7,5% di share, pari a un milione e rotti di telespettatori. Ma i seguenti episodi registrarono una sensibile e verticale flessione di audience e share, pari a un milione e rotti di telespettatori. Come scrive La Verità, la trasmissione è stata approvata e inserita nel palinsesto di Rai Tre da Stefano Coletta, prima che diventasse direttore della rete ammiraglia. E anche questa volta l'amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini ha dato il suo benestare alla presenza e al lavoro di Lerner per l'azienda. Col rischio di incassare un altro, ennesimo, flop. Partigiani, come si può intuire dal titolo, racconterà le storie e le testimonianze della Resistenza, però a senso unico. E come riporta sempre La Verità, lo staff di Gad Lerner sta portando avanti da mesi un progetto con l'Anpi (l'associazione nazionale dei partigiani italiani) "per realizzare un primo archivio delle video-testimonianze dei partigiani viventi, che sono circa cinquemila". Infatti, si legge, "il giornalista tempo fa aveva lanciato un appello funzionale alla raccolta di storie e testimonianze di quel periodo di guerra fratricida per restituire memoria ai veri personaggi simbolo". Queste, insomma, le premesse e i presupposti di Partigiani. Bisognerà attendere la primavera e la fine di aprile per conoscere i risultati portati a casa da Lerner per la Rai.
I telegiornali Rai occupati da Salvini oscurano Italia Viva, intervengano le Autorità. Michele Anzaldi il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. Per la prima volta nella storia della tv italiana il leader che ha più spazio nelle tv e nei telegiornali è uno dei segretari dell’opposizione. Matteo Salvini è in testa a tutte le classifiche, spesso addirittura sopra al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica. Salvini ha parlato più di tutti i leader al Tg2, al Tg5, nei talk show di Rai3 e di Rete4, al Tg1 risulta secondo solo sotto a Conte. La Lega risulta prima a Porta a porta, nei programmi di Rai3 e negli approfondimenti delle reti Mediaset. Un’occupazione senza precedenti per un partito che sta all’opposizione e che alle ultime elezioni politiche ha preso il 17% e in Parlamento ha, quindi, ha un peso pari a questa percentuale. Di fronte a questa palese violazione del pluralismo, di fronte al rischio che la Rai subisca una maxi sanzione da oltre 70 milioni di euro per episodi di potenziale propaganda come ad esempio al Tg2 di Gennaro Sangiuliano, come fa l’amministratore delegato Salini a non mettere mano al più presto ai telegiornali? I dati dei monitoraggi Agcom e dell’Osservatorio di Pavia sono davvero indecenti: come è possibile che l’Authority non proceda al più presto con sanzioni pesanti? Si susseguono da mesi campagne elettorali per le regionali e Salvini continua ad occupare tutte le tv, pubbliche e private. A che servono le autorità di garanzia se non intervengono? Mentre sovraespongono Salvini e la Lega, le tv del servizio pubblico cancellano Italia Viva e Matteo Renzi. Nel mese di dicembre, nei tg di prime time, Italia Viva ha avuto spazi di parola pari all’1,4% al Tg1, 2% al Tg2, 1,6% al Tg3. In pratica il nostro partito è stato totalmente cancellato, sebbene rappresenti la terza forza della maggioranza. Renzi è stato totalmente oscurato nei tg, con spazi di parola inferiori al minuto e mezzo in un intero mese, quindi una media di 3 secondi al giorno in tutte le edizioni. Nelle trasmissioni di informazione di Rai1 (Porta a porta, Uno Mattina La vita in diretta, etc) Italia viva ha avuto lo 0,74% di spazio in un intero mese, 3 minuti e 55 secondi, rispetto a un’ora e passa per Pd, Lega, M5s. Questo è pluralismo? Servono sanzioni al più presto, ma serve anche un’Agcom con pieni poteri. Da mesi i presidenti delle Camere rinviano la convocazione delle votazioni per il rinnovo dei vertici, è evidente che a qualcuno sta bene che la vigilanza resti vacante.
Stefano Bini per “Libero quotidiano” il 14 gennaio 2020. Quando, su La7, ci s' imbatte nel programma Propaganda Live condotto da Diego Bianchi si ha come l' impressione di essere in un magazzino abusivo, adibito a centro sociale, con musica che può piacere solo a chi frequenta quel contesto, con persone politicamente post-comuniste e ben indottrinata a ridere a comando. Propaganda Live, di sicuro un programma fuori dal coro di La7 ma perfettamente spostato a sinistra come tutti i contenuti della rete, dopo i fasti iniziali sta perdendo ascolti, un po' perché il format è ripetitivo e un po' perché essere finti buonisti in questo particolare momento storico non paga. A presenziare, ci sono sempre gli stessi ospiti, artisti o giornalisti, rigorosamente del Pd o filo renziani, come il povero Marco Damilano che gira e rigira pronuncia rigorosamente le solite cinque frasi; il buon Diego Bianchi ce la mette tutta per essere simpatico, tra battute, vignette, twitt da leggere e discorsi da saputello imparate e memoria, ma non riesce mai nell' impresa. Fa molta più ironia il suo modo di vestire, ovvero una maglia attillata a maniche lunghe che gli fascia la pancia, stile budello con la salsiccia; o ancora, maglietta a mezze maniche sopra ad una con maniche lunghe, ovviamente stretta in vita in stile premaman. L' idea del direttore di La7, Andrea Salerno, di lanciare un programma sui generis come questo è stata sicuramente azzeccata; il fatto è che, pur scostandosi dagli altri formati di prima serata per meccanismo, ha la stessa impronta politica degli altri e di questo, oggettivamente, non se ne può più. E gli ascolti sono lì a dimostrarlo. Si è stancato di ciò il pubblico generalista, ma soprattutto il "pregiatissimo" target della rete, che ogni sera propina più o meno sempre la stessa zuppa; fanno eccezione Massimo Giletti e in parte Giovanni Floris, i quali tentano di staccarsi da una fissa e oramai monocorde impronta sinistroide. L' ironia che non fa ridere di Diego Bianchi, la finta concitazione video di Corrado Formigli o il politically correct di Lilli Gruber non fanno altro che far perdere ascolti ai loro programmi, creare irritazione e talvolta odio, spiacevoli fraintendimenti e deviazioni della realtà, nonché inimicarsi sì il pubblico di centrodestra ma attirare soprattutto le antipatie dell' elettore di centrosinistra, che non ne più di girare la solita minestra da anni, prima contro Silvio Berlusconi, poi contro Matteo Salvini, ora pro clandestini. Eppure, dopo venti anni di grandi vittorie del Cavaliere, i buonisti e fans del politicamente corretto televisivo non hanno ancora capito niente, visto che è anche grazie a loro che la sinistra non riesce a vincere uno straccio di elezione. Se persone come Gad Lerner e Michele Santoro sono state fatte fuori dallo stesso pubblico che per anni li ha osannati, un motivo ci sarà. É oggettivo che programmi come, appunto, Propaganda Live, Piazza Pulita, Otto e Mezzo, cioè con fortissima matrice a sinistra, perdano tutti punti di share e ascolto, in favore di talk politici magari urlati ma sicuramente politicamente scorretti, quindi giusti, democratici e liberi. Da qui, Urbano Cairo, editore di La7, che da Silvio Berlusconi ha imparato l'«abc» della televisione italiana, dovrebbe fare una profonda riflessione su programmi, giornalisti, conduttori e ospiti; il troppo stroppia, gli ascolti se ne vanno e gli investitori scappano, è la dura legge della tv.
Il top e il flop 2019 delle telegiornaliste. Gian Paolo Serino, 6 gennaio 2020 su Nicolaporro.it. Non perché siamo in tempi di Befane, ma di Epifania (“il rivelarsi)” ecco la “Top Flop Parade” delle telegiornaliste. Le cinque migliori e le cinque peggiori conduttrici televisive, con qualche sorpresa sotto il burqa esistenziale…
Top
1. Bianca Berlinguer: lontana da Direttore del Telegiornale di Rai3, carica che ha ricoperto dal 2009 al 2016, con il suo Carta Bianca non fa rimpiangere Floris, migrato su La7, ottimo conduttore, ma Bianca Berlinguer ha una marcia in più. Smesse le vesti seriosi di figlia di (Berlinguer) è cambiata: è più Bianca. Sarà anche merito dei siparietti iniziali con lo scrittore Mauro Corona, quasi dei separè, una sorta di “soap opera” settimanale con litigi, riavvicinamenti, dichiarazioni di amore di Corona, versione Don Giovanni dei Boschi, che la chiama “Bianchina”, come la macchina che a metà anni ’50 doveva essere la “versione lussuosa” della Fiat 500. In sintesi: una rivoluzionaria in pelliccia. Bianca Bianchina Berlinguer è, però, molto capace di mettere a proprio agio ospiti e telespettatori facendoli sentire a casa pur essendo a casa. A parte le molte ospitate, troppe, di Eugenio Scalfari, sempre a ripetere che “Enrico Berlinguer era un pilastro della democrazia…” con stacco di telecamera con Bianca Berlinguer emozionata e prostrata, è la conduttrice dell’anno: perché, a livello di gentilezza e formalità, dialoga con ospiti di destra e sinistra con la medesima gentilezza.
2. Myrta Merlino merita il secondo posto perché il suo talk quotidiano (dal lunedì al venerdì dalle 10.30 alle 13.30) è davvero “Aria Pulita” nel panorama di demenzialità del palinsesto mattiniero. Sarà merito del cognome ma Myrta Merlino è un mago nell’essere una bandiera delle cause perse (lavoratori in licenziamento, metalmeccanici in protesta, dipendenti di supermercati in esubero) ma con una capacità di essere credibile che alla fine ci crediamo anche noi. Visto l’ottimo share per un talk, immaginiamo che ogni giorno quando torna a casa con il compagno Marco Tardelli urlino insieme come alla finale del 1982 Italia-Germania.
3. Veronica Gentili: siamo stati i primi a scriverne ma la Gentili è il futuro della televisione. Scalzato Giuseppe Brindisi, ha iniziato a indossare decoltè tacco 12 – che posta prima di andare in onda ogni giorno su Instagram – e gambe in direzione di telecamera. Una Lilli Gruber di anni fa, ma più competente, meno faziosa, capace di condurre la trasmissione Stasera Italia con una preparazione non da poco. Era nata come attrice e in tivù ha finalmente compreso del tutto che una parte scenica ci vuole oltre all’estrema professionalità. È nata una stella.
4. Nadia Toffa: non perché sia morta, e tutti a ricordarla, ma Nadia Toffa sino alla malattia è stata tra le migliori co-conduttrici oltre che giornalista che ha saputo dare a Le Iene quella credibilità giornalistica che prima non avevano. Questo è un grande merito perché, in un format nato come “giornalismo d’assalto”, ha saputo creare un giornalismo d’inchiesta credibile e meno spettacolare, ha cioè diminuito quell’ “infotainment” (informazione-divertimento) che alla lunga stancava. E questo è stato il suo più grande, immenso e a oggi non riconosciuto, lavoro.
5. Josephine Alessio: l’astro nascente della televisione italiana. Unica conduttrice di un telegiornale in classifica: in onda ogni mattina dalle 4 su RaiNews24 riesce ad essere professionale ed al contempo affascinante. Un elemento che, per chi la segue a quell’orario, regala un sorriso lontano da quello stampato in 3D di Giorgino su Rai1.
Flop
1. Gad Lerner: non ci siamo sbagliati. Gad Lerner riesce comunque anche a trasformarsi in conduttrice. Come ospite prende subito la scena. Che sia nascosto sotto il burqa, che reciti la parte di un israeliano sfuggito a quei “terroristi” dei palestinesi, che si trasformi in un Michael Jackson all’incontrario scurendosi il viso, che si trasformi in un profugo appena sbarcato a Lampedusa, che riprenda le sue vesti da “solone” per accusare chiunque di razzismo, la migliore conduttrice è lui. Rimane da chiedersi dove andrà vestito da Befana. Noi lo vedremmo bene da Magalli e, se continua così, da Piazza Pulita finirà a Piazza Italia a contestare il Comitato accusando Michele Guardì di parlare in italiano.
2. Lucia Annunziata: la faziosità, la cattiveria dello sguardo, il suo sempre pronta ad attaccare come un cobra la rende inguardabile. Anche perché è una contraddizione vivente. Il suo “Mezz’ora circa” è fascista già dal timer che attacca al collo degli ospiti e, conducendo lei, su mezz’ora parla 45 minuti.
3. Lilli Gruber: Con il suo Otto e Mezzo su La7 è una certezza: gli ospiti sono sempre quelli. Paolo Mieli, sempre in studio, e in collegamento: Marco Travaglio con dietro la scritta Il Fatto Quotidiano e tutti gli arretrati del suo quotidiano (se continua così gli rimarranno solo gli arretrati); Andrea Scanzi, con il quale ho iniziato a lavorare 30 anni fa quando si occupava di musica (ad alti livelli), che considero un amico ma che quando è dalla Gruber si trasforma in una sorta di schiavetto (non ha mai fatto mistero del suo feticismo per le scarpe) e con il tempo ha perso anche il fascino che aveva come uomo: ora si presenta sempre con giacche improbabili e con maglioni a collo alto con una collana in bellavista con il simbolo nautico dell’ancora. Ancòra? Lilli Gruber dal canto suo, a parte le solite e noiose critiche sul botox (ognuno è libero di fare ciò che vuole) continua ad indossare mise sempre più audaci, con giubbini in pelle nera aderente stile “dominatrice” e con la voce in falsetto ma deciso, in realtà, riesce davvero a dominare lo studio. Peccato gli manchino ormai i telespettatori.
4. Eleonora Daniele: Su Rai 1 ogni mattina conduce Storie Italiane, il peggio del peggio che la televisione possa dare. La Daniele sembra una “iena ridens” che si deve abbeverare del sangue delle storie che racconta: sempre truci, torbide, tra sesso, ammazzamenti, storie mai sentite. È la versione televisiva di “Cronaca Nera”, il settimanale più letto nelle scuole (ognuno di noi è cresciuto con una bidella che ne nascondeva una copia sotto il tavolo nel corridoio). Una cronaca da tivù del dolore che rende degli angeli persino i “Chi l’ha visto?”.
5. Milena Gabbanelli: Ormai ha perso. Non solo Report, sostituita ottimamente da Sigfrido Ranucci: durante la sua conduzione era molto capace di imporre il suo viso (in)flessibile e influenzare l’opinione pubblica tanto che era diventata quasi una minaccia il “Ti denuncio a Report”. Ormai confinata all’oblio del suo DataRoom – dove presenta infografiche e inchieste che poi lei stessa si è trovata a dover smentire – è capace di trasformare in uno psicodramma ogni suo articolo scritto e poi mandato in video. Come si dice: “Il Potere logora chi non ce l’ha”. Gian Paolo Serino, 6 gennaio 2020
Massimo Falcioni per tvblog.it il 27 dicembre 2019. Una Rete 4 sempre più a tinte salviniane. Al di là delle smentite dei diretti interessati, con tanto di reazioni colorite, il 2019 ci regala una fotografia lampante sul rapporto tra il leader leghista e il terzo canale della famiglia Mediaset. Se le opinioni possono lasciar spazio a interpretazioni da parte delle varie correnti, ecco che noi abbiamo deciso di far parlare i numeri: freddi, secchi, inappuntabili. Considerando i tre programmi di informazione di prima serata - Quarta Repubblica, Dritto e rovescio e Fuori dal coro - l’ex ministro dell’Interno nell’arco dell’intero anno è risultato presente per ben 28 volte. Per concentrare l’osservazione ed evitare di allargarci su una scala troppo ampia e generica, l’analisi prende in considerazione i soli talk di Nicola Porro, Paolo Del Debbio e Mario Giordano, tenendo conto, tra le altre cose, che le produzioni non sono andate in onda ad agosto, mese della clamorosa crisi di governo innescata dallo stesso Salvini e che, per forza di cose, lo ha visto ancora di più al centro delle cronache politiche. Inoltre, va sottolineato come le tre trasmissioni non godano della stessa vita televisiva, dato che Del Debbio si è ripresentato in video lo scorso marzo e Fuori dal coro è stato lanciato in prima serata a luglio. Pertanto, negli ultimi dodici mesi Quarta Repubblica conta 43 appuntamenti totali, Dritto e rovescio 30 e Fuori dal coro 18. Andando nel dettaglio, Salvini è andato a Quarta Repubblica per 13 volte: 7 gennaio, 4 febbraio, 11 febbraio (con dichiarazioni registrate in merito alla vittoria sanremese di Mahmood), 25 marzo, 8 aprile, 20 maggio, 28 maggio, 8 luglio, 2 settembre, 14 ottobre, 28 ottobre, 18 novembre e 9 dicembre. Dieci le apparizioni a Dritto e Rovescio: 7 marzo, 21 marzo, 9 maggio, 16 maggio, 30 maggio, 6 giugno, 12 settembre, 24 ottobre, 31 ottobre, 28 novembre. Cinque invece le partecipazioni a Fuori dal coro: 4 luglio, 25 settembre, 6 novembre, 19 novembre (accolto in una sala da cinema) e 17 dicembre (col faccia a faccia avvenuto durante una partita a tombola). Sembra passato un secolo dall’estate del 2018, segnata dall’annunciata rivoluzione editoriale che avrebbe dovuto regalare un nuovo volto a Rete 4. Archiviata la brevissima parentesi di Gerardo Greco, l’emittente pare essere tornata al passato, ma con un tono ancora più ‘sovranista’. Se ai tempi di Emilio Fede il canale rappresentava l’emblema del berlusconismo, oggi l’ex premier risulta ‘inghiottito’ a tutto vantaggio del nuovo leader della coalizione del centrodestra. “Salvinizzati un cazzo”, ha affermato di recente Del Debbio. Almeno ventotto motivi per non essere d’accordo ce li abbiamo.
Paolo Del Debbio nel Paese dei Balocchi. Il giornalista di Dritto e Rovescio su Rete 4 è l’Omino di burro dell’informazione: promette realtà, regala orecchie da asino. Beatrice Dondi il 30 dicembre 2019 su L'Espresso. In quel capolavoro intergalattico chiamato Pinocchio ci sono diversi antagonisti. Ma il vero personaggio senza riscatto, il cattivo che gioca sull’accanimento è l’Omino di burro. Un signore «tenero e untuoso con un visino di melarosa e una voce carezzevole», che fa salire i bambini sul suo carro e li accompagna nel Paese dei Balocchi. La promessa è quella di una vita spensierata e giocosa. La realtà è un risveglio con le orecchie da asino. Praticamente una fake news. Ecco nel panorama tv del 2019 che volge al termine nessuno si avvicina all’Omino di burro quanto Paolo Del Debbio. Colto, filosofo e ideologo di Forza Italia, il giornalista di Dritto e rovescio (Rete 4) non spacca le zucche con la mazza come l’esimio collega Giordano, alla stregua di un gatto o una volpe qualsiasi. Piuttosto si muove placido in un salotto all’apparenza variegato che gestisce dando spazio senza clamore alle peggiori escrescenze della cosiddetta pancia di un Paese irreale. Che piace solo a lui e ai piccoli malcapitati che cascano nelle trame del suo racconto dal sapore zuccheroso della Cuccagna. E ne restano invischiati come mosche senza scampo. Del Debbio interviene con decisione solo quando gli indisciplinati si permettono un dissenso nei suoi confronti. Invita ma alla prima critica minaccia la cacciata. Succede con Majorino che ironizza sul suo fare politica, succede con Oliviero Toscani che suppone che la claque sia pilotata e così via: puntuale il nostro replica con un secco «Questi discorsi li fa a casa sua sennò qui non ci viene». Tutti a casa praticamente, tranne il signor Brasile, quello che appunta il suo gradimento verso Hitler e Mussolini direttamente sulla pelle, e che fa parte del cast del programma. Ben prima infatti dello scontro con Vauro, il gentiluomo interveniva nel dibattito “Italiani esasperati: basta immigrazione” spiegando che l’unica soluzione quando vedeva "questi personaggi stranieri" per le strade della sua Roma era farsi la legge da solo. Ma si sa che lo studio dritto ha sempre un suo rovescio. Intanto mentre scorrono i temi portanti del nostro quotidiano in forma di emergenze allo stato puro con titoli apodittici: “Uccidono e rubano, ma non pagano mai” o domande mal poste, come “Siamo razzisti perché ci sono troppi immigrati?”, a buon diritto interviene nel dibattito sulla xenofobia un illuminato Umberto Smaila, che non può essere razzista in quanto ha la cameriera marocchina. Non fa un piega, è evidente. Così il nostro continua a guidare la carretta trainata da pariglie di ciuchini con gli stivali bianchi in attesa di trasformazione. Quando sarà il momento li venderà alle fiere per ricavarne il giusto. In termini di ascolti, ça va sans dire.
· Emmy Awards & Company 2020. I premi dei partigiani.
Da repubblica.it il 13 settembre 2020. "La polemica sulla composizione della giuria lascia il tempo che trova: è assolutamente inutile e ingiusta". Lo ha detto il direttore della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera, replicando alle polemiche sul palmarès del festival che ha lasciato fuori tre dei quattro film italiani in concorso. In particolare, Barbera ha replicato alle critiche dell'ad di Rai Cinema, Paolo Del Brocco che si è detto dispiaciuto e deluso del verdetto sui film italiani, aggiungendo che la composizione della giuria "probabilmente non includeva tutte le diverse forme del cinema". "Quando Del Brocco dirigerà la Mostra sceglierà lui i giurati", ha detto Barbera, che su Twitter ha ironizzato sulla polemica con "la canzone del giorno: Bisogna saper perdere". "La giuria è composta da sette persone che esprimono giudizi soggettivi" ha aggiunto il direttore, "non c'è nulla di oggettivo in un verdetto. Anche quando ci sono state giurie composte solo da registi si è polemizzato allo stesso modo. Quando il verdetto non piace a qualcuno si trovano giustificazioni di tutti i tipi". "Non ha senso parlare dei premi" ha ribadito poi più volte durante la conferenza stampa di bilancio della Mostra. "Avete parlato con la giuria sabato sera e la risposta è in quelle dichiarazioni. Non c'è nulla da aggiungere, non c'è nulla che io abbia intenzione di aggiungere. Non voglio più commentare i premi perché è un esercizio ridicolo, autolesionista e inutile. In tutte le edizioni della Mostra di Venezia, come dei festival di Cannes e di Berlino non c'è una volta che un verdetto non sia stato criticato. È inutile recriminare sui verdetti delle giurie: sono le regole del gioco è vanno rispettate in quanto tali. Altrimenti decidiamo che non diamo più premi e ognuno si fa il suo palmarès personale". In ogni caso, per Barbera "il verdetto non mette per nulla in discussione il valore della Mostra, quello che ha significato, quello che ha rappresentato per il mondo del cinema, degli autori, dell'intera filiera dell'industria del cinema. Ci sono arrivate lettere di apprezzamento e ringraziamento da tutto il mondo", ha sottolineato il direttore. "Non esiste alcuna polemica con Alberto Barbera. Il nostro è sempre stato un rapporto amicale, serrato, franco e costruttivo anche nelle fasi di selezione" replica Del Brocco all'Ansa smorzando i toni dello scontro a distanza. "Abbiamo ruoli diversi, tutti e due difficili. Non si tratta di vincere premi o meno. Più volte, malgrado i tanti film che normalmente abbiamo al festival, siamo usciti a mani vuote e non ho mai detto nulla. Anzi, agli atti ci sono molti miei elogi pubblici per il prezioso lavoro che Alberto ha svolto in questi anni. Nella mia dichiarazione" continua l'ad di Rai Cinema "ho semplicemente espresso in modo educato un'opinione. Penso sia legittimo per una società che tanto fa per l'industria del cinema e per il festival, poter svolgere una riflessione certamente non offensiva del lavoro di alcuno. Rinnovo i complimenti per il festival a tutti coloro che lo hanno voluto fortemente e valorizzato. In primis il suo direttore".
Marco Giusti per Dagospia il 13 settembre 2020. Venezia77. Ma che ve state a inventà? Come avrebbe detto Tomas Milian ai critici italiani stizziti per i premi della Giuria capitanata da Cate Blanchett. Lo sapevamo da subito che a Venezia avrebbe vinto “Nomadland” di Chloé Zhao con Frances MacDormand, che hanno inviato una divertente clip di loro due on the road con le ciavatte in primo piano, cosa che avrebbe fatto inorridire l'ex-presidente Baratta (Cicutto è più moderno). Risponde perfettamente, come tanti altri film premiati, con protagonista donna e regista asiatica-americana, alle nuove regole di inclusione degli Oscar. Ciavatte comprese. E agli Oscar finirà, ci scommetto. E ci finirà di corsa anche “One Night in Miami” di Regina King, donna e nera, che non ha vinto nulla perché fuori concorso (ma perché?). Come sapevamo da subito che una giuria di questo tipo, poco addentro agli affari italiani, dove l’unico paladino italiano era lo scrittore barese (lo dico per i salviniani) Nicola Lagioia, avrebbe premiato la nuova reginetta del cinema internazionale Vanessa Kirby, inglese e bravissima, miglior attrice per “Pieces of a Woman” di Kornei Mundruczo, prodotto e presentato da Martin Scorsese, che ho perso due volte in sala per le nuove regole tassative veneziane ("se entra, si siede non al suo posto e mi infetta qualcuno?"...), ma che in tanti mi hanno detto essere un polpettone lacrimoso. Io l’ho adorata in “The World To Come” di Mona Fastvold, altro film tutto al femminile, ma lì forse avrebbe dovuto dividere il premio con Katrin Waterston, la co-protagonista della storia d’amore. Strano che non l’abbiano premiato, inoltre, visto che è un piccolo miracolo di produzione, girato in 16mm in 24 giorni nelle foreste rumene dove è stato ricostruito il quasi-west come ai tempi degli spaghetti western. Vincono i due premi maggiori, dietro “Nomadland”, due registi paladini del cinema cinefilo moderno da festival, il messicano Michel Franco con “New Order”, Gran Premio della Giuria, e il giapponese Kiyoshi Kurosawa con “Wife of a Spy”, miglior regia, non capiti dalla critica italiana, poracci… ho letto tali sciocchezze su questi film e ho letto tante interviste a Elisabetta Sgarbi e a Elisa Fuksas (ma perché?). Giustamente, ha vinto la miglior sceneggiatura, oltre che il premio Fipresci, il bellissimo film indiano “The Disciple” di Chatanya Tamhane, pupillo di Alfonso Cuaron, ma si meritava il premio totalmente. Vallo affà (questa è per i giovani registi italiani maschi...). Il Premio Speciale della Giuria va invece a Andrei Konchalovsky che a 80 anni è in grado di dirigere un film così complesso come “Dear Comrades”, magari un o' stalinista e putiniano ma solida come un film di Blasetti. Avrebbe dovuto vincere il raccomandato di ferro Amos Gitai che ogni anno porta lo stesso film a Venezia da trent’anni? Konchalovsky è uno dei pochi grandi registi internazionali rimasti, non scherziamo. L’Italia, come saprete già, si deve accontentare della Coppa Volpi come miglior attore a Pier Francesco Favino per “Padrenostro” di Claudio Noce, che non è un film riuscitissimo, può vantare un endorsement non gradito di Salvini sul tappeto rosso, ma ha molti elementi interessanti (a parte il finale che va da tutte le parti…). Certo, a ben vedere, Favino non è neanche protagonista, e inoltre, ahi!, è l’unico film che non è prodotto da Rai Cinema che si è impegnata davvero tanto sulla costruzione di questo festival. Nulla a Gianfranco Rosi per “Notturno”, e questo mi dispiace perché è un film bellissimo e difficile, ma ha diviso il pubblico. C’è, anche tra i critici italiani, chi lo ha ritenuto “falso”, “messo in scena”, ha ritirato in scena le accuse di Jacques Rivette al celebre carrello di "Kapò" di Pontecorvo (un effetto "volgare" per farci piangere...) non capendo che non è propriamente un documentario, ma un film dove Rosi vuole farti vedere esattamente le cose che vedi. Ma questa divisione si deve essere ripetuta anche tra i giurati, presumo. Rosi ha vinto talmente tanto negli anni passati che può andare oltre, diciamo, ma è un peccato, al di là dei premi, che il film non sia stato capito. Perché le accuse sono davvero ingiustificate a un regista che ha passato tre anni in una zona di guerra per cercare di capire e farci capire. Nulla a “Miss Marx” di Susanna Nicchiarelli, che non è affatto male, ma che i film al femminile di Mona Fastvold e di Chloé Zhao hanno rapidamente oscurato. Nulla a Emma Dante per “Le sorelle Macaluso”, e lì avrà pesato temo una costruzione più passionale che razionale dell’opera teatrale della stessa Dante. L’uso eccessivo di Satie non avrà aiutato. Ma soprattutto l’arrivo di un film femminile forte e vitale come “Nomadland” l’avrà asfaltato nello sguardo dei giurati. Purtroppo era inevitabile. Esattamente come per la Nicchiarelli. Ottimi i premi di Orizzonti dove la giuria era presieduta da Claire Denis, “The Wasteland” dell’iraniano Ahmad Bahrami miglior film, miglior regia a Lav Diaz per “Genus Pan”, Premio della Giuria, oltre che premio Opera Prima, a “Listen” di Ana Rocha de Sousa, che ha pianto ogni volta che è salita, premiati i miei attori preferiti, la stupenda cantante marocchina Khansa Batma di “Zanka Contact” di Ismaeil El Iraki e il siriano Yahya Mahayni che si fa tatuare la pelle da un artista per diventare opera d’arte e scappare dal Medio Oriente in “The Man Who Sold His Skin” di Kaouther Ben Hania. Ma il premio che dovrebbe rallegrarci maggiormente e farci smettere con le solite lamentele sul mondo cattivo dei festival, è quello a Pietro Castellitto per la migliore sceneggiatura del suo “I predatori”. E’ un premio importante, consegnato da Claire Denis, per un film scritto con intelligenza che lancia davvero un nuovo talento, come attore-regista-sceneggiatore in un cinema, il nostro, dove i film, “Favolacce” compreso, non sono scritti così bene e con questa attenzione. E’ un buon punto da dove ricominciare. In generale, se è vero che il cinema diretto dalle donne ha fornito a questa Venezia77, soprattutto per il Concorso, la sua ossatura, erano tanti titoli e in gran parte buoni, la giuria presieduta da Cate Blanchett, a parte il premio a “Nomadland” di Chloé Zhao, ha cercato di non essere così schierata sul femminile, premiando film e tematiche completamente diverse. La verità e questo spiega anche il premio a Favino, è che non c’erano ruoli maschile forti nel concorso. Certo se pensiamo alla performance incredibile di Jim Broadbent i n “The Duke”, fuori concorso… Credo, insomma, che avesse uno dei pochi ruoli possibili maschili in evidenza. Inoltre un premio al cinema italiano andava dato. Rosi avrebbe salvato un po’ tutti, suppongo. Ma non deve essere davvero piaciuto. E mi dispiace. Non è stato un festival facile per nessuno, alla fine. Difficile da seguire già negli spostamenti, non parliamo nella concentrazione. Ma i film, anche se mancavano i titoli di Netflix e un po’ di americani che in altri tempi avrebbero fatto la differenza, erano generalmente buoni o molto buoni. Con il buco delle grandi produzioni sono entrati molti film mediorientali o africani, ad esempio, che però avevano molto da dire. Soprattutto rispetto al nostro cinema che, Rosi e Castellitto a parte, non ci sembra essere in forma smagliante. Non so se con “Tre piani” di Nanni Moretti, che ha scelto di spostarsi verso Berlino o Cannes 2021, le cose sarebbero andate diversamente. Magari sarebbe finito tra le vecchie glorie come Konchalovsky , mentre Chloé Zhao, Mona Fastvold, Michel Franco, Gianfranco Rosi giocano ormai in serie A. Detto questo, diciamo che Barbera ha vinto la sua scommessa, il festival, anche se mi ha molto spaventato non tanto la durezza dei controlli nella Zona Rossa del Palazzo, quanto la disinvoltura di Zaia e Brugnaro nel riempimento eccessivo dei vaporetti e degli autobus, andava fatto. Esternamente, a leggere i giornali americani, è un successo che apre a Toronto, al London Film Festival e a tutta una serie di festival dove si dovrà convivere col virus se vogliamo mandare avanti un’industria. I premi, alla fine, erano davvero secondari. E ora vediamo chi vorrà vedere questi film, premiati o meno, al cinema.
Marco Giusti per Dagospia il 21 settembre 2020. Come sono andati gli Emmy stanotte? Una bomba. Totalmente anti-trumpiani, neri, al femminile, gay e perfino canadesi. Come ci si poteva aspettare. Sia per i premi sia per la conduzione di Jimmy Kimmel. Vediamo però se ho capito bene il palmares. Zendaya, 23 anni, premiata come protagonista di “Euphoria”, è la più giovane attrice che abbia vinto un Emmy e la seconda attrice nera a vincerlo. Le sue fan sono impazzite sui social. “Euphoria” è una serie popolarissima che già puntava su personaggi fluidi. E vedrete come andrà l’anno prossimo agli Emmy “We Are Who We Are” di Luca Guadagnino che sviluppa gli stessi temi…“Watchmen”, candidato con 26 nominations, ne porta a casa undici. I quattro più importanti sono miglior miniserie, miglior protagonista di miniserie, la strepitosa attrice nera Regina King, a Venezia come regista con “One Night in Miami”, miglior attore non protagonista, il nero Yahya Abdul-Mateen II, miglior sceneggiatura. “Watchmen è la storia di un trauma”, ha detto ritirando il premio l’attore, “la storia sulle ferite ancora aperte del terrorismo bianco domestico… la storia sulla corruzione e la brutalità della polizia. Ma è anche la storia su un dio che scende sulla terra per trasmettere a una donna nera tutto l’amore che merita”. Per Regina King, che si è presentato con la maglietta di Breonna Taylor in puro stile Black Lives Matter come un’altra attrice nera vincitrice, Uzo Aduba,, è il quarto Emmy in sei anni, in mezzo c’è un Oscar per “If Beale Street Could Talk”. Ha ricordato la morte del giudice star delle cause umane e sociale, RBG, e ha invitato il pubblico a andare a votare. “Watchmen” è anche il primo caso di serie tratta da un comic book che prende un premio. Nella sezione comedy trionfa vincendo non uno o due premi, ma proprio tutti i premi possibili la sitcom supergay canadese “Schitt’s Creek” con Daniel Levy protagonista, che è anche ideatore della serie, suo padre Eugene, anche lui remiato, Catherine O’Hara. Daniel Levy si è presentato in diretta con la gonna, un po’ come faceva Alberto Sordi, direi… Nella sezione drama superpremiata anche la serie HBO “Succession”, che vince miglior serie, regia, sceneggiatura e protagonista maschile, Jeremy Strong. La giovanissima Julia Garner vince come non protagonista della sezione drama per “Ozark”. Nel film è la ragazza della famiglia in fuga. Una serie molto amata da tutti anche in italia, “Unorthodox” vince solo per la regia, Maria Schrader. Mentre Mark Ruffallo vince come protagonista maschile per la serie “I Know This Much Is True”, che vedremo a giorni anche in Italia.
· La Cnn e la tv del futuro.
Quando 40 anni fa la Cnn inventò la tv del futuro. News 24 ore su 24 e dirette da ogni parte del mondo Nel 1980 nessuno ci credeva, oggi è un modello. Massimo M. Veronese, Domenica 31/05/2020 su Il Giornale. Lei aveva la chioma bionda cotonata dal phon e sembrava uscita da Desperate Housewives, lui il capello tinto e il panciotto indossato dai pianisti dei saloon. Erano marito e moglie e alle cinque del pomeriggio di una domenica di giugno, il primo di quarant'anni fa, appena le luci delle telecamere si accesero su di loro, pronunciarono solo nove parole «Buonasera, sono Dave Walker...E io sono Lois Hart...» e il mondo non fu più lo stesso. Era nato il network più famoso del pianeta, il padre di tutte le tv all news, «una follia tipica di quel pazzo di Ted Turner» sorridevano con sarcasmo i giornalisti delle corazzate dell'etere come la Cbs o la Abc che ribattezzarono con disprezzo la Cnn «la tv brodino di pollo». Non andrà lontano, dicevano sicuri, non durerà. L'audience fu di un milione e settecentomila famiglie americane, adesso è più di due miliardi di persone in tutto il mondo. Il primo servizio fu su una sparatoria nell'Indiana con diretta sul posto, interviste ai parenti delle vittime, flash dall'ospedale per avere notizie sui feriti e reporter a caccia dei pistoleri insieme agli sceriffi. Un telefilm dal vivo dai tempi velocissimi, «news when it's news, not history», diceva Ted Turner, la notizia quando è notizia, prima che diventi storia. Bisogna cambiare il modo, masticò il suo sigaro, in cui le persone vedono il mondo. Non è più la primadonna, la FoxNews di Rupert Murdoch gli ha strappato il primato delle notizie 24 ore su 24 e MsNbc gli contende il pubblico liberal, ma nessuno come il Cable News Network, fondato da Turner e Reese Schonfeld, ha cambiato la storia del giornalismo, ridisegnato la televisione, immaginato il futuro. Una storia lunga quarant'anni che si è intrecciata alla storia diventandone parte anche nei dettagli. La Cnn è Gorbaciov che firma la fine dell'Unione Sovietica con la stilografica che gli allunga Tom Johnson, il boss della tv; è Magic Johnson che rivela in esclusiva di essere positivo all'Aids; è l'11 settembre che piomba nella case degli americani, sette minuti dopo l'impatto: «Stamattina abbiamo notizie non confermate secondo cui un aereo si sarebbe schiantato contro una delle torri del World Trade Center...». E poi il massacro di Piazza Tienanmen, l'inseguimento di O. J. Simpson sull'Interstate 405 di Los Angeles, l'esplosione dello Space Shuttle nei cieli della Florida, quel poco che si può vedere della guerra delle Falkland e dello sbarco dei marines a Grenada, prima che la Guerra del Golfo trasformasse la Cnn nel ministero degli Esteri ombra degli Stati Uniti, prima che il Pentagono coniasse il termine «effetto Cnn» per spiegare l'impatto che le dirette h24 avevano sui processi decisionali del governo americano. Peter Arnett, l'icona del giornalismo che viaggiava con un amuleto indiano per scacciare gli spiriti maligni e si cuciva nel giubbotto i dollari per le spese, quando trasmette in diretta dall'ultimo piano dell'hotel Rashid i cieli illuminati di Baghdad, racconta, prima della guerra, che cosa sta per diventare l'informazione da quel momento in poi. Per anni il potere la teme e la usa. Saddam permette solo alla Cnn di restare in Irak per parlare all'America e al mondo, è il solo network ad avere un ufficio a Cuba, l'unico a cui gli ayatollah di Teheran si offrono per un'intervista. La Cnn con i suoi 42 uffici, 31 dei quali sparsi per il mondo, le sue 900 stazioni affiliate, il sito web, i canali radiofonici, quelli per gli aeroporti, le Headline news che raggiungono 212 paesi nel mondo ogni giorno; la Cnn con le sue star: Christiane Amanpour, la first lady del giornalismo embedded, dallo sguardo sempre fisso sulla telecamere e le parole sparate come proiettili, spesso persino più letali. O Larry King, al secolo Lawrence Harvey Zeiger, il signore dei salotti dalle bretelle rosse e dalla voce rauca con le sue 50mila interviste realizzate e le sue otto mogli: «Con me finisce il talk show», disse prima di essere pensionato. Ted Turner, «mouth of the south», la lingua lunga del sud, o Terrible Ted, oggi ha novant'anni e un inizio di Alzheimer: dicono ami ancora l'ex moglie Jane Fonda, pensò persino al suicidio quando lei lo abbandonò, e ha lasciato la sua creatura nel 2003 qualche anno dopo la fusione con il colosso della comunicazione Aol-Time Warner, anche perché le cose cominciavano ad andare male. Non solo per i tagli sanguinosi e i bilanci a picco o perché i concorrenti nel mondo erano diventati tanti, ma perché la regina di Atlanta, che trasmette dall'anno scorso dal 30 Hudson Yard di New York, ha faticato a rinnegare se stessa e adattarsi al trend del giornalismo partigiano creato da Fox e che MsNbc ha abbracciato: un giornalismo più costruito sulle opinioni che sulle notizie, più cattivo che aggressivo, un modello di informazione, un tempo deplorato, che è ora lo standard che ha rimodellato lo scenario americano dei media. Alla fine la programmazione e lo stile orgogliosamente distaccato e libero da punti di vista schierati ha dovuto cedere alle leggi dello spettacolo prima che a quelle dell'imparzialità. Per i conservatori oggi non è nient'altro che il megafono dei liberal, la compagna di merende della MsNbc, la «Clinton News Network» come l'ha ribattezzata Trump. Ma i tempi non sono più gli stessi di Dave e Lois: anche per la tv della notizia inseguire a ogni costo i gusti del pubblico paga di più che cercare di informarli.
Massimo M. Veronese per “il Giornale” l'1 giugno 2020. Lei aveva la chioma bionda cotonata dal phon e sembrava uscita da Desperate Housewives, lui il capello tinto e il panciotto indossato dai pianisti dei saloon. Erano marito e moglie e alle cinque del pomeriggio di una domenica di giugno, il primo di quarant'anni fa, appena le luci delle telecamere si accesero su di loro, pronunciarono solo nove parole «Buonasera, sono Dave Walker... E io sono Lois Hart...» e il mondo non fu più lo stesso. Era nato il network più famoso del pianeta, il padre di tutte le tv all news, «una follia tipica di quel pazzo di Ted Turner» sorridevano con sarcasmo i giornalisti delle corazzate dell'etere come la Cbs o la Abc che ribattezzarono con disprezzo la Cnn «la tv brodino di pollo». Non andrà lontano, dicevano sicuri, non durerà. L'audience fu di un milione e settecentomila famiglie americane, adesso è più di due miliardi di persone in tutto il mondo. Il primo servizio fu su una sparatoria nell'Indiana con diretta sul posto, interviste ai parenti delle vittime, flash dall'ospedale per avere notizie sui feriti e reporter a caccia dei pistoleri insieme agli sceriffi. Un telefilm dal vivo dai tempi velocissimi, «news when it's news, not history», diceva Ted Turner, la notizia quando è notizia, prima che diventi storia. Bisogna cambiare il modo, masticò il suo sigaro, in cui le persone vedono il mondo. Non è più la primadonna, la FoxNews di Rupert Murdoch gli ha strappato il primato delle notizie 24 ore su 24 e MsNbc gli contende il pubblico liberal, ma nessuno come il Cable News Network, fondato da Turner e Reese Schonfeld, ha cambiato la storia del giornalismo, ridisegnato la televisione, immaginato il futuro. Una storia lunga quarant'anni che si è intrecciata alla storia diventandone parte anche nei dettagli. La Cnn è Gorbaciov che firma la fine dell'Unione Sovietica con la stilografica che gli allunga Tom Johnson, il boss della tv; è Magic Johnson che rivela in esclusiva di essere positivo all'Aids; è l'11 settembre che piomba nella case degli americani, sette minuti dopo l'impatto: «Stamattina abbiamo notizie non confermate secondo cui un aereo si sarebbe schiantato contro una delle torri del World Trade Center...». E poi il massacro di Piazza Tienanmen, l'inseguimento di O. J. Simpson sull'Interstate 405 di Los Angeles, l'esplosione dello Space Shuttle nei cieli della Florida, quel poco che si può vedere della guerra delle Falkland e dello sbarco dei marines a Grenada, prima che la Guerra del Golfo trasformasse la Cnn nel ministero degli Esteri ombra degli Stati Uniti, prima che il Pentagono coniasse il termine «effetto Cnn» per spiegare l'impatto che le dirette h24 avevano sui processi decisionali del governo americano. Peter Arnett, l'icona del giornalismo che viaggiava con un amuleto indiano per scacciare gli spiriti maligni e si cuciva nel giubbotto i dollari per le spese, quando trasmette in diretta dall'ultimo piano dell'hotel Rashid i cieli illuminati di Baghdad, racconta, prima della guerra, che cosa sta per diventare l'informazione da quel momento in poi. Per anni il potere la teme e la usa. Saddam permette solo alla Cnn di restare in Irak per parlare all'America e al mondo, è il solo network ad avere un ufficio a Cuba, l'unico a cui gli ayatollah di Teheran si offrono per un'intervista. La Cnn con i suoi 42 uffici, 31 dei quali sparsi per il mondo, le sue 900 stazioni affiliate, il sito web, i canali radiofonici, quelli per gli aeroporti, le Headline news che raggiungono 212 paesi nel mondo ogni giorno; la Cnn con le sue star: Christiane Amanpour, la first lady del giornalismo embedded, dallo sguardo sempre fisso sulla telecamere e le parole sparate come proiettili, spesso persino più letali. O Larry King, al secolo Lawrence Harvey Zeiger, il signore dei salotti dalle bretelle rosse e dalla voce rauca con le sue 50mila interviste realizzate e le sue otto mogli: «Con me finisce il talk show», disse prima di essere pensionato. Ted Turner, «mouth of the south», la lingua lunga del sud, o Terrible Ted, oggi ha novant'anni e un inizio di Alzheimer: dicono ami ancora l'ex moglie Jane Fonda, pensò persino al suicidio quando lei lo abbandonò, e ha lasciato la sua creatura nel 2003 qualche anno dopo la fusione con il colosso della comunicazione Aol-Time Warner, anche perché le cose cominciavano ad andare male. Non solo per i tagli sanguinosi e i bilanci a picco o perché i concorrenti nel mondo erano diventati tanti, ma perché la regina di Atlanta, che trasmette dall'anno scorso dal 30 Hudson Yard di New York, ha faticato a rinnegare se stessa e adattarsi al trend del giornalismo partigiano creato da Fox e che MsNbc ha abbracciato: un giornalismo più costruito sulle opinioni che sulle notizie, più cattivo che aggressivo, un modello di informazione, un tempo deplorato, che è ora lo standard che ha rimodellato lo scenario americano dei media. Alla fine la programmazione e lo stile orgogliosamente distaccato e libero da punti di vista schierati ha dovuto cedere alle leggi dello spettacolo prima che a quelle dell'imparzialità. Per i conservatori oggi non è nient'altro che il megafono dei liberal, la compagna di merende della MsNbc, la «Clinton News Network» come l'ha ribattezzata Trump. Ma i tempi non sono più gli stessi di Dave e Lois: anche per la tv della notizia inseguire a ogni costo i gusti del pubblico paga di più che cercare di informarli.
· Dicembre 1975, così nacque Radio Radicale.
Falconio: «Anche nel periodo Covid Radio Radicale ha seguito 292 udienze. Così scongiuriamo i processi mediatici». Valentina Stella su Il Dubbio il 16 ottobre 2020. Il 19 ottobre si apre il processo a carico del nostro ex direttore, Piero Sansonetti, e del collega Damiano Aliprandi, accusati di diffamazione a mezzo stampa. Abbiamo chiesto di assistere virtualmente ma la richiesta è stata negata, causa Covid. Ne parliamo con il direttore di Radio Radicale, Alessio Falconio. Il 19 ottobre si apre presso il Tribunale di Avezzano il processo a carico di Piero Sansonetti, già nostro direttore e ora alla guida del Riformista, e del collega Damiano Aliprandi. Sono accusati, come sapete, di diffamazione a mezzo stampa, querelati da due magistrati: il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e l’ex sostituto procuratore del capoluogo siciliano Guido Lo Forte. L’accusa? Aver messo su “una vera e propria campagna diffamatoria” nei loro confronti in relazione all’archiviazione del dossier mafia- appalti, voluto da Giovanni Falcone e al quale era interessato Paolo Borsellino. Si tratta di una indagine che spaventò parecchio Cosa nostra: infatti, secondo due sentenze – Borsellino ter e Borsellino quater – sarebbe stata proprio l’attenzione sull’intreccio mafia- appalti a spingere Cosa nostra a uccidere Paolo Borsellino. I colleghi sostengono di aver portato avanti un’attenta analisi dei fatti processuali e delle tappe con cui l’indagine venne archiviata, chiedendosi anche se sia stato un errore archiviare quel dossier. Per Scarpinato e Lo Forte si tratta invece di una interpretazione sbagliata e diffamatoria degli accadimenti. Su questo sarà un giudice di Avezzano a decidere. Noi avremmo voluto comunque essere spettatori virtuali del processo grazie a Radio Radicale ma purtroppo è arrivato il diniego da parte del giudice Daria Lombardi alla registrazione. La motivazione: permanere dell’emergenza sanitaria da Covid 19. Abbiamo deciso di saperne di più con il direttore di Radio Radicale, Alessio Falconio. Abbiamo anche scritto al giudice Daria Lombardi per chiederle se prima di rifiutare la richiesta avesse chiesto un parere alle parti. Al momento non abbiamo ricevuto risposta.
Direttore Falconio, accade spesso di ricevere un rifiuto alle registrazioni?
«Non è una consuetudine ma non è nemmeno la prima volta che succede. Speriamo sempre nella possibilità di un ripensamento, pur rispettando le prerogative che la legge inequivocabilmente attribuisce al Presidente nel decidere in un senso o nell’altro. Questo diniego comunque ci sorprende perché in tempo di Covid, come successo in altri procedimenti anche di maggior rilievo, la nostra presenza è stata apprezzata proprio dagli stessi magistrati perché ha consentito di evitare gli assembramenti in aula e contemporaneamente ha permesso ai colleghi giornalisti interessati di avere notizie del processo».
Di solito quali sono le motivazioni addotte per il diniego?
«Formalmente la motivazione che ci viene addotta è la mancanza di rilevanza pubblica».
Nel periodo di covid quanti processi avete seguito?
«Dal primo marzo al 14 ottobre in tutta Italia abbiamo documentato 292 udienze. E i processi, prevalentemente iniziati prima dell’emergenza sanitaria, sono 42».
Qualche giorno fa su questo giornale abbiamo riportato la notizia che il ministro francese della Giustizia, Eric Dupond-Moretti, ha manifestato la sua volontà di rendere i processi giudiziari “totalmente” filmati e diffusi al pubblico. Lei sarebbe d’accordo o crede, come qualche magistrato francese, che tale iniziativa andrebbe ad alimentare il processo mediatico fuori dall’aula?
«L’esperienza di Radio Radicale insegna proprio che l’integralità della fonte del processo rappresenta sicuramente la garanzia migliore per scongiurare il rischio di processi mediatici. È proprio la presenza di una possibile controprova, rispetto a quello che si scrive in un legittimo lavoro giornalistico di sintesi di un procedimento o che si sente in un talk show, a tutelare la narrazione esatta del dibattimento. Il caso Tortora, seguito dal nostro grande maestro Massimo Bordin, in questo senso è l’esempio di scuola: se ci fossimo attenuti esclusivamente ai resoconti giornalistici non avremmo capito che si stava commettendo un grave errore. Grazie alle udienze trasmesse da Radio Radicale abbiamo preso consapevolezza di quello che stava veramente succedendo in quell’aula durante quell’incredibile procedimento».
Direttore, oggi è l’anniversario della morte di Antonio Russo, il giornalista ucciso il 16 ottobre del 2000 a Tiblisi, in Georgia, perché raccontava la guerra tra Russia e Cecenia.
«Radio Radicale gli dedicherà l’intera programmazione della notte tra giovedì e venerdì, con un lungo servizio realizzato con materiale d’archivio e poi alle 14 di venerdì, presso la sala stampa di Montecitorio, verrà illustrata l’opera di restauro ultimato per l’occasione dell’archivio di Radio Radicale con le corrispondenze di Russo dai diversi teatri di guerra nel mondo».
Dicembre 1975, così nacque Radio Radicale. Pino Pietrolucci e Claudia Rittore Il Dubbio l'11 febbraio 2020 e l'Incontro 29 Marzo 2019. Autunno 1975, nascevano le prime radio libere. Con un caro amico decidiamo di farne una anche noi, per gioco, per divertimento, perché amavamo la musica, per sfida. In casa nostra, nella stanza all’ultimo piano, con una terrazza adatta ad ospitare un’antenna. La decisione era stata presa mentre bevevamo allegramente in un locale di Via del Vantaggio che ora non esiste più, “Il dito al naso”. La mattina dopo, appena svegli, abbiamo rivalutato, da sobri, quella decisione. Allora, lo facciamo davvero? E subito una corsa da Consorti, il grande negozio di alta fedeltà dell’epoca, per comprare tutta l’attrezzatura necessaria, firmando una pila di cambiali. A parte i registratori, i mixer, i cavi e l’antenna di 12 metri, molti elementi necessari bisognava costruirli. Conoscevamo un ragazzo, il figlio del pasticcere di quartiere, che diceva di essere in grado di farlo. E in effetti ci riuscì. Così nacque Radio Blu, destinata a una vita brevissima. La nostra radio trasmetteva solo un segnale e la richiesta di chiamare il numero telefonico di casa se il segnale veniva recepito. Alla fine di novembre Radio Blu aveva cominciato a trasmettere musica e le telefonate per confermare che il segnale arrivava forte e chiaro erano continue. Avevamo due figli piccoli, era impossibile sopravvivere in quella casa, con il passaggio di tutte le persone coinvolte e il telefono che squillava ininterrottamente. Ci siamo consultati, decidendo che bisognava risolvere al più presto, trovare un’altra sede. Uno degli amici aveva sentito dire che Pannella pensava, forse, di fare una radio. Noi non lo conoscevamo, Marco, ma lo amavamo, come qualsiasi italiano ragionevole. Pino dice: io ci vado. E va al partito, chiede di parlargli, gli racconta dell’attrezzatura messa insieme, del segnale che arriva nel nostro quartiere, Monteverde Vecchio. Marco è gentile con questo sconosciuto pieno di entusiasmo, ma sbrigativo. Gli dice: “vuoi fare Radio Radicale? Falla!”Pino entra in contatto con Angiolo Bandinelli, che abitava anche lui a Monteverde Vecchio, poi, suo tramite, con Peppe Picca e Andrea Torelli, che contribuiranno al finanziamento dell’impresa. Si costituisce la SO.GE.M srl, soci Pino e Andrea, per gestire i beni della Radio. Da quel momento l’attività diventa frenetica: la ricerca della sede, che doveva essere lì, a Monteverde, vicina a casa nostra, l’acquisto di un’antenna più potente, di un trasmettitore più potente, che si vendeva solo a New York e che riuscimmo a procurarci grazie alla gentilezza e disponibilità di Gianluigi Melega, che riuscì a farlo arrivare con la valigia diplomatica. Il 26 marzo 1976 iniziano le trasmissioni di Radio Radicale nella nuova sede di Via di Villa Pamphili: tre stanzette all’ultimo piano, una grande terrazza occupata dall’antenna, due linee telefoniche, un ascensore cigolante che funziona solo con monetine da dieci lire. Angiolo Bandinelli e Gianfranco Spadaccia, in quanto iscritti all’albo dei giornalisti, i primi direttori responsabili, con entusiasmo e massima discrezione, Pino il direttore esecutivo e capo redattore, Ezio Valente il suo braccio destro e Vincenzo Mundo, detto Anguillone perché strisciava ovunque pur di sistemare cavi, il tecnico capace di qualsiasi miracolo.
UNA RADIO “DI QUARTIERE”In studio Emma Bonino e Pino Pietrolucci. La Radio era più che altro “di quartiere”. Il segnale non copriva completamente Roma ma arrivava a Civitavecchia, Anguillara, Vetralla, Fiano Romano, Poggio Mirteto, Tivoli, Albano, Pomezia e Ostia. Per le elezioni del 20 giugno 1976, dopo un massacrante filo diretto di Marco con Pino per oltre 72 ore, fu raggiunto il quorum. La notte del voto, man mano che arrivavano i risultati, Massimo Teodori, seduto al tavolo delle dirette, con blocco e penna, continuava a fare calcoli. È stato lui che a un certo punto ha capito che ce l’avevamo fatta e scoperto che i voti determinanti (ci sembra di ricordare 400) per l’elezione dei primi quattro deputati radicali erano concentrati nell’area di maggior ascolto della Radio, davvero modesta. L’emozione, la sorpresa, la consapevolezza nella voce di Massimo quando ha finalmente alzato la testa da quel blocco per annunciare la vittoria sono indimenticabili. Nessuno se l’aspettava, è stata una sorpresa per tutti e il partito ha cominciato da quel momento a investire per ampliare la copertura di ascolto. Sono nate altre radio radicali in altre città – molti ci chiedevano aiuto su come fare – e a Roma c’era una persona che passava ogni giorno molte ore a riversare i nastri delle trasmissioni per mandarle a queste radio, dove venivano trasmesse in differita o, a volte, in contemporanea, fingendo in quei casi di avere copertura nazionale. Anni dopo Berlusconi farà lo stesso con le sue prime televisioni. Cominciano le trasmissioni di tutti i movimenti federati con il partito: MLD, Movimento di Liberazione della Donna, condotto da Daniela Gara; FUORI, Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, forse la prima voce pubblica degli omosessuali in Italia, con Claudio Mori e Alba Montori; LOC, Lega Obiettori di Coscienza, CLEC, diretto da Liliana Pannella, contro la censura; la trasmissione anticoncordataria di Mauro Mellini e poi di Laura Arconti; Radio Carcere, inventata e proposta alla Radio da Antonio, un avvocato di cui non ricordiamo il cognome; A Tu per Tu, la trasmissione sul teatro di Bianca Toccafondi e Giorgio Albertazzi. E ancora Fabrizio Zampa con la storica rassegna musicale (arrivava con i suoi 33 giri sottobraccio), Rodolfo Roberti con la sua trasmissione notturna “Gallina Vecchia, Onor di Capitano”, un filo diretto con gli ascoltatori insonni, che si protraeva fino all’alba. Argomento: la vita. E come non ricordare qui quel tassinaro romano, con orario notturno, che si offrì come “sistema d’allarme” vivente: lui restava sintonizzato sulla radio anche durante le poche ore in cui era deserta, noi tenevamo aperti i microfoni.
LA NASCITA DELLA “DIRETTA DAL PARLAMENTO”.Con i primi quattro deputati – Emma Bonino, Adele Faccio, Mauro Mellini e Marco Pannella – i radicali entravano a Montecitorio e avevano diritto a un ufficio. Andammo in visita, appena fu assegnato. Era un grande stanzone all’ultimo piano di via Uffici del Vicario, con in più un ufficetto minuscolo, dove si era insediato Roberto Cicciomessere. In questa stanza, sopra la cornice della porta, c’era un oggetto di legno, quadrato, misterioso. “Cos’è quello?” E Cicciomessere: “L’altoparlante, per sentire cosa succede in aula e partecipare ai lavori.” Pino sale sulla scrivania, stacca l’altoparlante e lo appoggia accanto al telefono, poi chiama “Anguillone” e gli dice: ”vedi un po’ se riesci a mandare in onda”. Anguillone ci riesce, si sente benissimo, l’unico problema è che abbiamo solo due linee telefoniche e non possiamo proprio tenerne una costantemente occupata. Non so come la cosa si sia risolta, ma il collegamento fu fatto senza appoggiare più la cornetta accanto al microfono, con un collegamento fisso. Le reazioni furono immediate e irritate. Flaminio Piccoli e Gerardo Bianco, evocando un’indebita interferenza dall’esterno e dimenticando il principio costituzionale della pubblicità delle sedute parlamentari, si appellarono alle istituzioni per farci tacere…
LA NASCITA DELLA “LETTURA DEI QUOTIDIANI DEL GIORNO DOPO. L’idea credo sia nata perché c’era un militante della radio, un ragazzo adorabile, che studiava al Conservatorio corno inglese e correva per aumentare il fiato. Questo ragazzo faceva il giro dei quotidiani, in centro, verso mezzanotte e correndo a perdifiato ce li portava su a Monteverde, dove alla velocitò del fulmine sottolineavamo i passaggi più significativi e li leggevamo in diretta verso l’una, dandoci il cambio ogni notte in tre o quattro, non di più: Claudio Mori, Claudia Di Giorgio, io, l’ ”altra Claudia”. Pino Pietrolucci e Claudia Rittore
Memorie. La storia della seconda Radio Radicale, quella di Torino. Giulio Galetti su L'Incontro l'1 Aprile 2019. C’era parecchio fermento a Torino in via Garibaldi al numero 13. Si entrava in un cortile acciottolato malamente e di fronte (dietro a una vetrata) c’era la sala per le assemblee del Partito Radicale del Piemonte, con una cinquantina di sedie assortite. Sulla sinistra, in un grande stanzone soppalcato, montagne di manifesti e tavoli da imbianchino accatastati vicino a fustini di detersivo vuoti che contenevano i kit per la raccolta firme. Le penne BIC, il materiale da distribuire ai tavoli, il megafono RCF e i moduli prefincati. Sulla destra si apriva una porta che dava in una piccola saletta divisa in due da una parete con un vetro a doppia camera. Era tutto rivestito da portauova in condizioni pietose. Avevano però il pregio di isolare dal freddo e dal rumore, oltre a trattenere la polvere. Le aveva regalate a Radio Radicale un grossista di uova e pollame di via Barbaroux, a un isolato di distanza. Qua e là qualche piumetta incrostata di tuorlo ancora visibile, testimoniava la provenienza ruspante di quella regalia. L’odore di fumo dentro a quel locale era terribile, come la polvere che nessuno levava.
ERA L’ESTATE DEL 1976 ED ERA RADIO RADICALE 90 E 300 CHE TRASMETTEVA IN MODULAZIONE DI FREQUENZA. Pochi mesi prima in un bilocale, nei pressi di Villa Pamphili, era nata Radio Radicale a Roma. La cabina di regia torinese e lo studio di registrazione occupavano meno di venti metri quadri e il collegamento tra l’antenna trasmittente e lo studio, avveniva con una connessione telefonica a 300baud attraverso un acoustic coupler. La qualità del segnale era miserrima, ma la voce si riusciva a distinguere. E ciò bastava. Si metteva la cornetta telefonica in un alloggiamento dotato di due morbide membrane, che isolavano dai rumori esterni, e sotto la guida di un grande esperto in telecomunicazioni come Albanese, il segnale tra la regia e l’antenna veniva stabilito. La prima collocazione del trasmettitore e dell’antenna fu il tetto di un condominio dalle parti di Corso Francia, da cui si dovette sloggiare dopo pochi mesi. Le interferenze generate rendevano impossibile la visione del secondo canale Rai e l’assemblea condominiale intimò a Delfina, che ci aveva ospitati sul tetto del suo attico, di eliminare la causa accertata di tutta quella neve sui cinescopi dei proprietari. Delfina era la figlia di Armando Testa, l’indimenticabile genio creativo del pianeta Papalla, di Carmensita e del logo Punt&Mes. Era stata Titti Muratore (la prima direttrice di Radio Radicale) a coinvolgerla per collocare l’ingombrante trasmettitore dotato di valvola da ben 100watt e di un palo d’antenna di 3 metri con un unico dipolo striminzito. Radio Maria non c’era ancora, ma si doveva fare già i conti con le radio commerciali, assai più dotate sul fronte delle apparecchiature di alta frequenza. La bassa frequenza era rappresentata da due giradischi Lenco, un mixer Teac a 6 piste e 4 microfoni Sennhaiser, uno in regia con il paravento giallo e 3 in studio collocati ai lati del tavolo. I dischi provenivano dalle case degli operatori che si avvicendavano alla consolle. Molti erano miei con cantautorame assortito, c’erano quelli di Bobo con i suoi chansonnier, Dante e la sua collezione di Blues. Le interviste le facevo io con un vecchio registratore portatile che si mangiava le cassette, ma con quel ferro vecchio intervistai Paola Borboni, Paolo Poli e Lucia Poli, Eugenio Finardi che mi parlò del suo desiderio di entrare nella “meccanica della dinamica della Storia”, Gianna Nannini che venne in Radio, da absolute beginner a presentare il suo primo LP (quello con il vibratore in copertina) uno sconosciuto Renato Zero, quasi anoressico, e una star come Francesco Guccini, intercettato dietro al palco del Palasport. Venivano a trovarci giornalisti incuriositi come Ezio Mauro che a quel tempo scriveva per la Gazzetta del Popolo, avvocati non ancora famosi come Mittone e Gianaria, venne anche Zagrebelsky, non ancora assiso sugli alti scranni. E poi (ovviamente) Marco Pannella che impestava di Celtique i 25 metri cubi foderati di portauova che rilasciavano poi l’inconfondibile lezzo per settimane. Nei primi anni di vita ogni Radio Radicale locale aveva una sua programmazione e una propria regia indipendente. Le trasmissioni centralizzate da Roma arrivarono qualche anno dopo. Gli ascolti aumentavano: politica, dibattiti, musica senza pubblicità. Eravamo una voce dissonante dal coro partitocratico, come lo definiva Marco con uno dei tanti neologismi che si diffusero rapidamente.
NEL 1978 SI DECISE DI FARE IL SALTO DI QUALITÀ. L’ antenna venne trasferita sulla collina torinese, che garantiva quei 400 metri in più per coprire Torino e i paesi a nord che vennero “illuminati” da ben 4 dipoli collocati su un palo strallato di 8 metri sul tetto di una stalla di maiali. Avevo trovato quel sito dopo aver chiesto a un compagno di scuola di poter utilizzare il ristorante paterno con una cucina a base di funghi a 15 minuti di vespa dalla Gran Madre di Dio. Si prendeva la strada ripida che saliva nell’ombra di Villa della Regina per arrivare 300 metri più in alto in località Fontana dei Francesi. Nonostante le rassicurazioni, Il padre aveva opposto un netto rifiutò, ma ci aveva suggerito di chiedere al “porcaro”, che aveva occupato abusivamente una cascina a un tornante di distanza. Si mormorava che fosse ai domiciliari comminati dalla Procura di Palermo. Con l’aiuto di Pino, che capiva la lingua, la trattativa fu veloce. Il “porcaro” parlava siciliano stretto ed era un tipo tosto (pure troppo) con il quale era stato necessario stabilire un rapporto inquietante: fummo cooptati (presumo per puro sadismo) nell’uccisione di un suo maiale. Un’esperienza che avrebbe spinto al veganesimo più radicale chiunque, ma una infanzia a salsiccia e gramigna, oppose argine invalicabile a quella scelta scellerata. E la Radio trasmetteva bene, il segnale era forte grazie all’altitudine guadagnata, ma le antenne concorrenti posizionate sulla sommità del colle della Maddalena, spingevano forte debordando sulle frequenze limitrofe. Era il tempo del Far West nelle radio che sorgevano come funghi dopo la pioggia notturna. La campagna referendaria esigeva una copertura migliore e allora, con mezzo milione, raccolto in autofinanziamento, andammo a prendere una nuova valvola dal rappresentante milanese di una ditta tedesca che produceva valvole over 1000watt. Con quella potenza e i 4 dipoli collocati in collina, riuscimmo a raggiungere Lanzo (quasi quaranta chilometri a nord). Ma ancora non era sufficiente. Adelaide Aglietta, Giovanni ed Elena Negri volevano una copertura più vasta, più regionale. Avevamo bisogno di un posto alto, molto alto, che coprisse ciò che era a sud della collina torinese e magari anche il resto del Piemonte. Paolo Vigevano al tempo era il Tesoriere nonché direttore di Radio Radicale, mosse le sue conoscenze e trovammo ciò che cercavamo. La Madonna Nera di Oropa era l’ideale. Alta, senza trasmettitori intorno, strategica. E fu la volta di Hans Fisher un signore di Zurigo che ci portò, con un autoarticolato, un traliccio di quelli tosti che posizionammo sulla collina di Oropa. Eravamo solo in tre a issarlo: Io, Pino e Hans ma fummo in grado di piazzare un traliccio di 25 metri di altezza su cui troneggiava un solo dipolo tostissimo. Il trasmettitore usato era stato rilevato da una radio Comasca che trasmetteva musica classica e tutto il materiale complementare lo prelevammo in un magazzino della Elettronica Industriale di proprietà di tale Geom. Adriano Galliani (che al tempo aveva pochi capelli e nessuna ambizione politica). Oropa illuminava il Piemonte e arrivava alle porte di Milano.
SUL FINIRE DEL 1979 SI VERIFICÒ LA SVOLTA CENTRALISTA CHE NON VENNE PRESA BENISSIMO DA COLORO CHE ASCOLTAVANO RADIO RADICALE. Gli ascoltatori fissi erano abituati a una edizione locale piuttosto caotica, ma assolutamente interessante per la varietà dei contenuti che venivano proposti: Spazi autogestiti di qualunque natura vi possa venire in mente: Fuori, Autocoscienza, medicina alternativa, macrobiotica, Collettivo Trans (il prodromo LGBT), Nucleare No Grazie, il Ghiottone, I Dubbi del Sabato Sera, Bob&Jack, Antivivisezionisti, LIPU, WWF. Sì iniziò a trasmettere da Roma con una linea dedicata che collegava tutte le emittenti sparse sul territorio nazionale. Eravamo in diretta costante, e i lavori parlamentari iniziarono ad essere trasmessi sistematicamente. La parte musicale era sempre stata piuttosto compressa, in favore dei dibattiti, delle interviste, dei fili diretti che contraddistinguevano le trasmissioni rispetto a quelle delle radio concorrenti. Rubriche autogestite e trasmissioni decisamente sperimentali come “I dubbi del Sabato Sera” dove in realtà si attaccava alle 23:00 e si finiva alle 5:00 con l’aiuto di una cassa di birrette Moretti (piccole però). Arrivò poi la svolta “classica”. Sigle con messe da requiem e pezzi classici piuttosto severi, in modo da rendere il segnale sempre riconoscibile quando si scansionava l’etere. Si vociferava che questa impostazione fosse stata suggerita da Roberto Cicciomessere a Pannella e che Marco si fosse convinto all’istante. Una notazione a parte merita il “Filo Diretto” che nacque nella Radio Radicale di Torino da un’idea di autofinanziamento. Quella che poi diventò “radio parolaccia” fu una intuizione che consentiva a chiunque di poter dire la propria per due minuti senza alcuna interruzione. Conquistammo spazi nei giornali che commentavano esecrati la tracimazione volgare del popolo becero e villano. Eh sì… Perchè gli interventi erano spesso sequenze ottundenti di bestemmie e termini da trivio. Fino a quel momento esisteva una sorta di censura che poteva essere esercitata da parte del conduttore, durante i fili diretti. Era capitato di azzerare l’audio nel momento in cui l’interlocutore all’altro capo del filo trascendeva e offendeva. Attivammo una segreteria telefonica che doveva essere scaricata costantemente in quanto i messaggi entranti erano centinaia. Venivano trasmessi puntualmente, e questo modus operandi fece balzare gli ascolti della radio come mai prima di allora. La cronaca mancanza di soldi contraddistingueva le iniziative radicali allora come ora. Iniziavano le trasmissioni radio votate alla autofinanziamento consentendo ai cittadini di intervenire in diretta e senza filtri. Più il conduttore era trasgressivo è più piovevano le telefonate per lo più di coloro che godevano nello scaricare ogni tipo di contumelia (in certi casi sordide minacce) nei confronti del diverso di turno. Molinengo (uno dei più noti membri del FUORI) era il bersaglio preferito. Al delicato “cupio” si alternava “Frocio di Merda sappiamo dove abiti” dopodiché arrivavano telefonate che annunciavano il sostegno economico. Più le ingiurie erano disgustose e becere e più aumentava l’importo delle donazioni. Una volta appreso quel meccanismo mediatico confesso di aver simulato qualche telefonata particolarmente becera per dare il via al ciclo virtuoso, ma ero giovane e speranzoso e mi autoassolvo per aver cavalcato la tigre mediatica con una metodologia discutibile. Per salvare Radio Radicale dalla chiusura arrivammo anche a mettere all’asta i nostri dischi e nel corso della trasmissione in diretta un mio disco “Io se fossi Dio” di Giorgio Gaber venne aggiudicato per mezzo milione di lire. Andammo a portarlo al compratore che stava in una bella casa di via Po. Ci venne ad aprire una governante arcigna che ci introdusse in un salotto di legno e tappeti con un pianoforte a mezza coda. Era un musicista in pensione, quasi cieco, che non si muoveva più di casa e che ascoltava solo Radio Radicale. “Siete diventati la mia famiglia e non posso pensare di perdervi”. Frasi che rimangono in testa per la vita. Giulio Galetti
· La rivoluzione mancata di TeleBiella.
La rivoluzione mancata di TeleBiella, la tivù libera che la sinistra non riuscì a capire. Sfidava il monopolio Rai e faceva informazione dal basso sulle ali del Sessantotto. Ma presto fu schiacciata dalla paura della Dc e dalla miopia dei comunisti. Che spalancarono la strada al futuro impero Fininvest. Giandomenico Crapis il 28 agosto 2020 su L'Espresso. Correva l’anno 1970. Mentre alla Rai il vicepresidente Italo De Feo metteva sotto accusa Tv7, il programma informativo di punta dell’azienda, per un servizio di Sergio Zavoli sul vecchio codice fascista Rocco e Mike Bongiorno tornava con “Rischiatutto” ai successi di “Lascia o Raddoppia?”, in una cittadina piemontese si dava vita ad un nuovissimo esperimento di tv, frutto dell’intraprendenza di Giuseppe “Peppo” Sacchi. Sacchi lavorava proprio alla Rai, ma in passato aveva collaborato alla tv svizzera familiarizzando con la tecnologia del cavo. All’iniziativa non erano estranei i fermenti sessantottini, l’insofferenza verso la tv di Stato di Ettore Bernabei e De Feo, nonché le mitologie della comunicazione dal basso e della controinformazione. Il modello nazionale per la verità era stato già messo in discussione negli anni Cinquanta da privati che avevano rivendicato il diritto ad una tv in nome dell’art. 21 della Costituzione, istanze da cui era scaturita la sentenza della Corte del 1960 che sanciva il monopolio. In realtà Sacchi il primo esperimento lo aveva fatto già a dicembre del 1967 registrando nell’hotel Colibrì di Biella uno spettacolo, poi in onda con un rudimentale collegamento con tre televisori sistemati in altrettanti luoghi del centro: due presentatori, un gruppo jazz, una recita di poesie locali, un notiziario e un po’ di pubblicità alla maniera di Carosello. Solo però nel 1970 i «tupamaros del video», come li definì l’Espresso, davano vita ad una vera emittente. Esperienze simili in realtà ce n’erano state, anche se di breve durata: tanto per restare in Piemonte, il 15 gennaio di quell’anno TeleTorino aveva chiuso dopo poche settimane. Esperienze di tv alternativa erano state anche quelle varate dai comunisti nel 1968, però sia Terzo Canale (un sistema capillare che distribuì programmi nelle sezioni del Pci durante le elezioni politiche) che Tv Libera (una tv a circuito chiuso nella festa nazionale de l’Unità di quell’anno) si erano concluse presto. Di tv privata insomma in Italia si era parlato poco, ma con la nascita di Telebiella, che all’inizio si chiamava Videoinformatore A21-Tv (dove A21 si riferiva all’articolo della Costituzione), le cose cambiarono. La tv, che trasmetteva una o due volte la settimana, dopo qualche tempo veniva registrata come “periodico audiovisivo”, ma con il trascorrere dei mesi Sacchi cercava di capire se la sua creatura potesse reggere a quella tollerata clandestinità. Infatti la tv biellese godeva di una curiosa situazione di vacatio legis, quasi un tratto caratteristico, come sappiamo, delle tv private che però per Telebiella non durò molto.
L’emittente via cavo trasmetteva approfittando del fatto che la legge che regolamentava la materia, ovvero il vecchio codice postale, risaliva al 1936 e per ovvi motivi non contemplava la nuova tecnica di trasmissione. Dunque, in assenza di un divieto esplicito, Sacchi e i suoi collaboratori approfittavano dell’impasse normativa per far crescere la loro «tv da cortile», come la chiamavano sarcasticamente i suoi colleghi della Rai. Ad esempio durante le elezioni del 1972 l’emittente varava delle vere tribune politiche con i candidati locali. L’interesse si andò moltiplicando e nel corso dell’anno l’emittente cablava la città con otto chilometri di cavi per i nuovi abbonati. La situazione però si complicava nel 1973 quando Sacchi convinceva un amico a denunciare TeleBiella per violazione del codice postale, certo di una sentenza favorevole che lo avrebbe messo al sicuro. La sentenza favorevole infatti giungeva il 24 gennaio, ma proprio quest’ultima catalizzava l’attenzione della stampa nazionale e delle forze politiche: articoli e reportage si moltiplicavano, ma crescevano anche le attenzioni del governo che, resosi conto del vuoto normativo, dopo un paio di inutili aut aut all’emittente, varava a maggio un nuovo codice postale con l’esplicito divieto ai privati di trasmettere via cavo. A questo punto il destino di Telebiella era segnato. Un mese dopo i funzionari dell’Ecopost si presentavano nella sede e tagliavano i cavi mettendo di fatto fine a quella esperienza oramai spintasi troppo oltre. «Un fatto assai grave», commentava il giorno dopo sul Corriere della Sera il giurista Paolo Barile. Sull’esempio di Telebiella, però, sin dall’anno precedente erano nate sul territorio, dal Piemonte alla Sicilia, decine di altre esperienze simili. Ciò avveniva nella totale incomprensione delle forze politiche di governo e della stessa sinistra, la quale considerava il cavo quasi una truffa senza accorgersi che il fenomeno, che incrinava per la prima volta lo storico monopolio, andava governato ma non ostacolato. Sfidando questa miopia Eugenio Scalfari nel gennaio del 1972 aveva sostenuto controcorrente sull’Espresso che continuare a discutere astrattamente, dopo avere visto quanto passava sui teleschermi, se il monopolio fosse preferibile a un eventuale oligopolio privato era una giaculatoria inutile: «Dobbiamo invece stabilire se il monopolio di Ettore Bernabei, appena velato dalla benevola copertura di Luciano Paolicchi e d’una mediocre e corrotta frangia di sedicenti intellettuali progressisti, abbia reso e possa rendere al paese dei servizi informativi migliori di quanto non facciano quotidianamente i Crespi col Corriere della sera, Agnelli con La Stampa, i Perrone col Messaggero e il partito comunista con l’Unità». Del resto, profetizzava, «i progressi tecnici dei satelliti e delle video cassette stanno sempre più avvicinando il momento in cui il monopolio cadrà per ragioni tecniche»: si stava «dunque discutendo di una cosa che tra due o cinque anni non ci sarà più per mancanza di oggetto». Per una sinistra all’epoca strenua sostenitrice del modello vigente di tv il tema della libertà d’antenna sollevato dal giornalista era una «cortina fumogena» (scriveva l’Unità) per mascherare il tentativo di sferrare un colpo alla libertà d’informazione. Riccardo Lombardi, pure compagno di partito di Scalfari (che era stato deputato del Psi), affermava che l’attacco al monopolio pubblico si era sempre servito «di motivazioni di sinistra per perseguire scopi di destra», mentre Giuliano Amato giudicava la tesi scalfariana, «anche quando espressa con nobiltà d’intenti, inaccettabile perché antistorica». Ma la contrarietà a dire il vero era abbastanza trasversale e, a parte i liberali, a tutti il monopolio sembrava l’unico orizzonte possibile in tema di emittenza. Anche il progetto della commissione Quartulli del 1972, che apriva alla tv via cavo privata pur in ambito locale, veniva accantonato senza tante proteste: l’obiettivo era piuttosto una riforma della tv statale che attendeva da anni e che vide la luce nel 1975. Del tutto priva però dei necessari dispositivi legislativi per affrontare la rivoluzione tecnologica in corso, che proprio Telebiella aveva in qualche modo incarnata. Anzi, proprio dall’emittente piemontese era partita l’onda d’urto che nel giro di pochi anni avrebbe dissolto il sistema tv nazionale grazie anche alle sentenze della Corte del biennio ’74-’76, di certo figlie delle effervescenze delle tv via cavo. Contemporaneamente alla sua nascita però e nella stagione che ne derivò, di fronte alle novità tecnologiche e culturali che rendevano il modello tradizionale di comunicazione obsoleto (nascevano le videocassette e le videocamere a portata di tutti) si andò sedimentando un sentire politico chiuso e incapace di gestire un passaggio epocale. In particolare la sinistra, che pure aveva in sé le risorse culturali per un approccio differente come abbiamo visto, o meglio una parte di essa, si schierava da allora in poi a difesa dell’ente pubblico concentrandosi sulla difesa della riforma del ’75 e mostrando insofferenza verso le tv private che andavano sorgendo un po’ dappertutto. Eppure proprio il cavo e le esperienze come TeleBiella se debitamente riconosciute e disciplinate nella riforma del 1975 (in realtà su scala locale veniva ammesso il cavo, ma nella forma monocanale del tutto antieconomica), avrebbero rappresentato un freno al dilagare della confusione catodica della seconda metà del decennio. Dopo la sentenza del ’76, che liberalizzava l’etere in ambito locale, l’assenteismo politico fu totale, in parte complice e in parte no. Mentre a sinistra la cultura giuridica marxista si appropriava della riforma facendone per alcuni anni l’esegesi, considerandola l’elemento dimostrativo di una nuova giurisdizione del “pubblico”, fuori da quest’ultimo cresceva nell’indifferenza generale tutto un altro mondo, caotico e disperso che presto Silvio Berlusconi avrebbe trasformato nel più grande monopolio televisivo privato d’Europa. Tutto ciò accadeva, almeno fino alla fine dei Settanta, nell’indifferenza di una parte della sinistra che non seppe vedere i pericoli futuri, il Far West e la legge del più forte che incombevano, mentre un’altra parte con questo disordine pensò di conviverci sperando, a torto, di trarne vantaggio politico. Abbiamo visto come è andata a finire.
· Novella 2000: 100 anni.
Maria Sorbi per “il Giornale” il 10 agosto 2020. Il vizio di spiare dal buco della serratura la vita dei vip ha origini ben più antiche rispetto ai paparazzi e alle riviste di gossip. Ma ha sempre conservato lo stesso sapore: oggi sulla poltrona del parrucchiere o sotto l'ombrellone così come una volta nei salotti di corte o, prima ancora, nei gruppetti di soldati radunati attorno al fuoco negli accampamenti di guerra. Un modo per passare il tempo? Sì, ma anche un collante sociale fondamentale per raccontare la nostra storia e muoversi su un terreno comune. Corre (...) (...) l'anno 120 dopo Cristo e comincia Gaio Svetonio Tranquillo a narrare i vizi del potere, dalle follie di Caligola ai vizi di Nerone. Lo fa con il preciso intento di ferire la reputazione dei personaggi che hanno leso la sua amata Repubblica. E arriva dritto dritto al risultato: di tutto ciò che abbiamo studiato al liceo due aneddoti chiave riguardano proprio Caligola, che nominò console il suo cavallo, e Nerone che, oltre a tre mogli, pare avesse avuto anche due mariti. Insomma, si tratta di pettegolezzi sopravvissuti nei secoli e arrivati persino ai nostri libri di storia. «Senza pettegolezzi l'informazione non esisterebbe - conferma il direttore del dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Marco Lombardi -. Cancellarli vorrebbe dire annullare le relazioni. Citando il caro vecchio McLuhan, i mezzi di comunicazione sono l'estensione dei nostri sentimenti e il mondo è un villaggio. Insomma, noi cerchiamo relazioni nella nostra prossimità e vedere che i vip hanno i nostri stessi problemi ed entrano in casa nostra con le loro debolezze, ce li fa sentire più vicini. Abbiamo bisogno di ridurre le distanze e il gossip ha proprio questo potere. Ovviamente però bisogna distinguere tra gossip e fake news: il gossip non chiede il permesso di raccontare, è sfrontato ma non inventa nulla, la fake news invece è la costruzione pilotata di una falsità». La psicologa sociale Nicoletta Cavazza, nel suo libro «Pettegolezzi e Reputazione», racconta le due facce della maldicenza. Da una parte il suo potere persuasivo nell'attaccare la reputazione altrui, dall'altra il valore rafforzativo all'interno dei legami sociali e nella promozione di comportamenti cooperativi. E così è da generazioni. Tanto che la storia dei tempi nostri si potrebbe ricostruire in varie sue pieghe sfogliando gli archivi delle riviste gossipare. Una su tutte: Novella 2000 che ha narrato - spiandoli ma mai inventandoli - i costumi degli ultimi 100 anni d'Italia. Passando dalle scappatelle extra matrimoniali degli attori «in bianco e nero», alle pose osé degli anni Cinquanta che oggi sarebbero foto da educande. La rivista, attualmente diretta da Roberto Alessi, esce per la prima volta in edicola nel giugno 1919, inizialmente con la pretesa di proporsi come rivista letteraria ma ben presto decretata come «vangelo» popolare delle cronache rosa e nere. Gli esordi, alla fine della prima Guerra mondiale, sono a cadenza mensile, poi quindicinale. Fondata dai reduci del fronte (Mario Mariani, Gino Rocca, Eugenio Gandolfi e Tomaso Monicelli, padre di Mario, regista de «I soliti ignoti»), ha firme celebri: Luigi Pirandello, George Bernard Shaw, Marino Moretti. Lo stesso vate Gabriele D'Annunzio, tra gli autori celebri del giornale, ne diventa anche protagonista, non solo come firma, cogliendone a fondo lo spirito provocatorio e «pruriginoso». Intuendo cioè che lo scopo della rivista è dire quello che non si può, far vedere quello che si dovrebbe celare. Il poeta viene ritratto in copertina intento a scrivere con aria intellettuale e si scopre, tra le pagine all'interno, in pose da sirenetto in spiaggia, con indosso solo un misero perizoma a sacchetto: scatti scandalosi (nel 1927) che anticipano di quasi un secolo le immagini che oggi troviamo ovunque. All'inizio del Novecento, quando nasce, la cronaca rosa, protagonista indiscussa del gossip, è molto ristretta e comprende solo le vicende private delle famiglie aristocratiche e dell'alta società. Nel dopoguerra si allarga ai divi del cinema. La crisi petrolifera del 1973 segna, con il definitivo tramonto del boom economico, la fine di alcuni modelli imitativi che, per tutto il Novecento hanno invece fatto la fortuna di molti periodici a larga diffusione (per esempio, Oggi, Gente ed Epoca). Oggi la cronaca rosa riguarda, oltre agli attori, anche i cantanti, i personaggi della televisione e i campioni dello sport. Le riviste di gossip dedicano anche ampio spazio alla cronaca nera: dal caso Tortora al rapimento Moro, ovviamente con tono ben diversi rispetto a quelli dei quotidiani. Hanno raccontato il caso di Alfredino Rampi, il bambino morto nel pozzo di Vermicino, o la tragedia di Luigi Tenco, morto suicida dietro le quinte di Sanremo. Tuttavia i grossi filoni seguiti dalle cronache riguardano le storie d'amore. Due su tutte: quella tra Carlo e Diana, farcita di amanti, colpi di scena e gialli sulla morte della principessa triste, e quella tra Al Bano e Romina, amore nazional-popolare vissuto e sofferto da generazioni di appuntamenti dal parrucchiere. Altra storia entrata nelle case italiane e vissuta come si trattasse della vita della nostra vicina di casa riguarda Mina, la ventenne che diventa ragazza madre: lui è Corrado Pani, bello da impazzire, sposato. Lei popolarissima e dal talento infinito. Altre ancora sarebbero andate lontano, scappate, nascoste, come Claudia Cardinale, che fece passare suo figlio per suo fratello, strada percorsa anche da Moana Pozzi. Mina no, con coraggio parla e vive il suo amore alla luce del sole in un'epoca in cui le donne non sono assolutamente libere di amare e in cui la Dama Bianca di Fausto Coppi - sposata con un altro - finisce persino in prigione. Anche la politica finisce sulle riviste scandalistiche: Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista, e la relazione con Nilde Iotti, emersa dopo l'attentato. Bettino Craxi, leader socialista, immortalato in intimità con Sandra Milo. E poi Gianni Agnelli che rivoluziona tutte le regole: non fugge dai paparazzi ma si mette in posa e, con una moglie (Marella Caracciolo) e infinite donne, dichiara: «Innamorarsi è da cameriere». Siamo passati dalle foto in bianco e nero dello statista Alcide De Gasperi, a fianco della castigatissima moglie Francesca Romani, agli scatti del «tuca tuca» di Luigi Di Maio che in mare stuzzica la compagna in bikini. A dimostrazione che l'asticella si è alzata parecchio negli anni. E ha cambiato il concetto di pudore, intimità, limite. Siamo cambiati noi. Maria Sorbi.
· L'Espresso, 65 anni: partigiano.
L'Espresso, 65 anni dalla parte del Paese migliore. Era il 2 ottobre 1955 quando sbarcò in edicola il primo numero del nostro settimanale. Ai medici, gli insegnanti, i volontari, gli amministratori locali, i giovani, gli scienziati, gli intellettuali, i lavoratori e chi il lavoro l’ha perso e ai nuovi cittadini italiani senza legge di cittadinanza vogliamo dedicare il nostro compleanno. E il nostro impegno. Marco Damilano su L'Espresso l'1 ottobre 2020. L’Espresso compie 65 anni di vita. Il 2 ottobre 1955 uscì il primo numero in edicola, sedici pagine formato lenzuolo, da due amici, pochi finanziamenti e un’idea, ricorda Eugenio Scalfari raccontando il momento della fondazione, lo stato nascente del giornale, con i valori di libertà, uguaglianza e fraternità che sono «i colori di una bandiera che abbiamo sempre amato in nome della patria italiana ed europea». È l’idea di giornalismo e di un Paese non pietrificato in ideologie e appartenenze, ma inclusivo, sempre sul lato dell’innovazione, com’è oggi la grande trasformazione digitale che per l’editoria rappresenta il campo più affascinante. La verità non si possiede, la verità si cerca, insieme ad altri. È questo il nostro mestiere, il nostro modo di fare giornalismo, con le inchieste di queste ultime settimane sui poteri di ogni tipo che vanno ad aggiungersi alle tante che hanno fatto la storia d’Italia, con le nostre prese di posizione, le nostre campagne per i diritti civili e sociali, con il dibattito culturale che alimentiamo. Da 65 anni L’Espresso riesce a compiere il miracolo di essere un giornale universale che parla a tutti e insieme un giornale che sta da una parte sola, dalla parte del Paese migliore che si batte per tenere insieme quel che altri vogliono dividere. Lo abbiamo visto all’opera in questo 2020: i medici, gli insegnanti, i volontari, gli amministratori locali, i giovani, gli scienziati, gli intellettuali, i lavoratori e chi il lavoro l’ha perso, i nuovi cittadini italiani senza legge di cittadinanza. A ognuno con la sua battaglia da compiere. A loro dedichiamo il nostro compleanno. E il nostro impegno.
L'Espresso, formidabili questi anni. Gli esordi. Le battaglie per i diritti civili. Le inchieste sul Palazzo. Le innovazioni nel linguaggio. E il patto stretto con la comunità dei lettori. Per raccontare in modo diverso i cambiamenti del Paese e del mondo. Dal 1955 a oggi è questa la storia de “l’Espresso”. Eugenio Scalfari su L'Espresso il 30 settembre 2015. L’Espresso” è nato in formato grande, “lenzuolo”, perché “L’Europeo”, il settimanale fondato nel 1948 da Arrigo Benedetti era così. E la nascita de “l’Espresso”, nell’ottobre del 1955, è legata all’uscita di Benedetti da “L’Europeo”. Ecco come è andata. L’editore de “L’Europeo” era Gianni Mazzocchi, editore di “Domus”, poi di “Quattroruote”, e anche de “Il Mondo”. Ma “L’Europeo” e “Il Mondo” erano giornali con un preciso colore politico e questo a Mazzocchi non stava più bene, voleva occuparsi appunto di architettura, automobili. Così ha ceduto “Il Mondo”, che perdeva, gratis a Nicolò Carandini e altre persone, mentre “L’Europeo”, che guadagnava, lo ha venduto ad Angelo Rizzoli. Rizzoli però voleva una linea politica molto diversa da quella di Benedetti, anzi opposta. E voleva anche cambiare il formato del settimanale, da grande a quello di “Time”, e “Newsweek”. E così ha fatto, sapendo benissimo che questo sarebbe bastato perché Benedetti se ne andasse, senza che ci fosse nemmeno bisogno di discutere la linea politica. Infatti Arrigo ha dato subito le dimissioni, perché per lui il cambio di formato era tutt’uno con un cambio anche di contenuti. E siamo venuti da Milano a Roma. Arrigo e io già ci frequentavamo a Milano, dove io facevo il funzionario della Banca Nazionale del Lavoro, e lui aveva un circolo di amici con cui ci si vedeva spesso, Giancarlo Fusco, Camilla Cederna, Emilio Radius, Manlio Cancogni, Antonio Delfini. Poi dopo un articolo contro la Federconsorzi, la Bnl mi ha licenziato...Così, nel 1954, tutti e due abbiamo lasciato Milano e ci siamo trasferiti a Roma, con l’idea di fondare un quotidiano. Era un’idea che già coltivavamo, ne parlavamo la domenica a casa sua quando gli amici facevano salotto con sua moglie e lui ed io ci chiudevamo nel suo studio a parlare di un nuovo giornale. Ora eravamo a Roma, e si trattava di realizzarlo. Arrigo disegnava il menabò, le pagine, la grafica, i titoli, ecc. Io invece mi occupavo del piano industriale. Avevo lavorato in banca, e quindi mi intendevo di economia, non solo delle teorie, ma anche delle cose pratiche, la gestione, i costi, i finanziamenti. Ecco, ci chiedevamo, chi può finanziare il nostro progetto, visto che noi i soldi non li abbiamo? Adriano Olivetti, rispondevamo entrambi. Olivetti aveva un suo movimento politico, Comunità, un po’ utopistico, con idee che si ispiravano al socialismo umanitario e cooperativo. La nostra visione era diversa, ma Olivetti era comunque un democratico e, pensavamo, era l’unico grande industriale con una mentalità abbastanza aperta da finanziare un giornale come il nostro. Arrigo già lo conosceva, io ancora no, quando siamo andati a trovarlo a Ivrea, dov’era la Olivetti. Gli abbiamo illustrato tutto il progetto e lui ci ha detto: «Mi interessa, e molto. Vi darò una risposta tra qualche giorno. Io sicuramente devo venire a Roma, vi cercherò e vi farò sapere cosa ho deciso». Quattro o cinque giorni dopo, infatti, è arrivato e ci ha fatto questo discorso: «Ho fatto i conti, sulla base del piano industriale preparato da Eugenio, e ho visto che da solo non ce la faccio. Ho sicuramente bisogno di un socio. E ho anche pensato chi può essere qualcuno che sia gradito tanto a me quanto a voi. Perché la vostra linea politica è di un certo genere e ci vuole qualcuno che non solo la condivida, ma abbia anche la forza di opporsi a certi interessi. Ce n’è solo uno: Enrico Mattei, il presidente dell’Eni. Andate da lui, parlateci, e sappiate che da lui accetto qualunque condizione. Se vuole che siamo soci alla pari, 50 per cento a testa, mi sta bene. Se vuole la maggioranza, mi sta bene lo stesso. Va bene anche se dovessi avere solo il 10 per cento, perché sono convinto che con lui non avremmo problemi di linea politica». E così Adriano è tornato a Ivrea e noi abbiamo chiesto di parlare con Mattei. Era il presidente dell’Eni, il gruppo pubblico di gas e petrolio nato pochi anni prima. Già si capiva che potenza economica e politica avrebbe raggiunto, Mattei aveva contro i grandi industriali privati e in politica vedeva di buon occhio un’apertura della Dc verso i socialisti. Non lo avevamo mai incontrato di persona, ma lui sapeva benissimo chi era Arrigo Benedetti, che aveva già diretto settimanali importanti. Quando lo abbiamo incontrato e spiegato quello che volevamo fare, Mattei ci ha detto: «Be’, di giornali non mi intendo, ma l’idea mi seduce. Mi piacerebbe avere un quotidiano, acquisterei un peso politico molto superiore a quello che ho. Certo, lascerei autonomia al direttore, non voglio influire, per carità, ma comunque la linea politica la concordiamo... Allora adesso affronterete la questione con alcuni miei collaboratori, la studiate insieme, poi quando avranno finito questo lavoro mi diranno se considerano la cosa fattibile». Uno di questi collaboratori era Umberto Segre, un intellettuale raffinato, filosofo, politologo, giornalista, molto importante in quegli anni, anche se oggi lo ricordano in pochi. Tutti i contatti con gli uomini dell’Eni li ho tenuti io, perché Arrigo diceva «adesso si tratta solo della parte industriale, a me interessa poco, occupatene tu». Alla fine, dopo venti giorni di lavoro ci hanno detto, «adesso il piano va bene, daremo il nostro responso a Mattei». Siamo stati convocati, Arrigo ed io, da Mattei all’albergo Eden, dove lui viveva quando era a Roma. Non viveva a casa nemmeno quando era a Milano, ma insomma a Roma aveva questo appartamento fisso all’Eden dove c’era anche un grande salotto. Mattei aveva deciso: «I miei hanno detto sì. Per me va bene. Potete dire ad Adriano Olivetti di scegliere: vuole il 50 per cento? Io ci sto. Vuole il 10? Ci sto. Anche se volesse il 30 per cento. Scelga, quello che vuole lui a me sta bene». Siamo partiti per Ivrea, entusiasti, raggianti, per questa risposta. Ma Adriano ci ha accolto dicendo: «Ci ho pensato bene. Non c’è proporzione tra il peso che ha Mattei e quello che ho io. Mettersi in società con lui, anche se fossimo alla pari, è come fare un pasticcio con un cavallo e un’allodola. E l’allodola sarei io. Quindi, se volete, potete fare il quotidiano con lui, che lo fa anche da solo. Se invece volete lavorare con me, facciamo un settimanale. Ho fatto convertire dai miei uomini i costi, i ricavi, la pubblicità che voi avete studiato per un quotidiano in un piano industriale per un settimanale. Questo me lo posso permettere. Scegliete , e potete darmi la vostra risposta quando volete». Mentre eravamo sul tassì che ci riportava verso l’aeroporto, Arrigo ha detto: «Senti, io non so tu come la pensi, ma se per Adriano Olivetti lavorare con Mattei significa fare un pasticcio di allodola e cavallo, per noi cosa vorrebbe dire? Un pasticcio di un cavallo con una mosca. Non mi sembra il caso». E io ero d’accordo con lui. Allora abbiamo subito detto al tassista di invertire la marcia, siamo tornati da Adriano per dirgli: «abbiamo già deciso, faremo un settimanale con te». E, nell’ottobre del 1955, è uscito il primo numero de “l’Espresso”. A Mattei l’idea del quotidiano era piaciuta tanto che lo ha fatto, e subito. Nell’aprile del 1956 è nato “Il Giorno”, quotidiano di proprietà dell’Eni dove abbiamo tra l’altro viste applicate diverse nostre idee. Nel settembre del 1957 Adriano ci ha chiamato: «Guardate, sapevamo di avere tutti contro. Ma qui la Confindustria è arrivata a boicottare gli acquisti di macchine Olivetti. E poi la linea del giornale non aiuta il movimento di Comunità, siete troppo diversi. Essere l’editore di questo giornale proprio non mi conviene. Esco. Ve lo regalo». Così Carlo Caracciolo, che aveva già una piccola quota, ha avuto la maggioranza delle azioni. Ad Arrigo e me, ha regalato il 5 per cento ciascuno. Allo stampatore Tumminelli e alla Kompass (sempre di Caracciolo) che raccoglieva la pubblicità sono andati altri piccoli pacchetti. Così stampatore e concessionaria, essendo soci, lavoravano a costi molto bassi. Da allora siamo andati avanti con la formula “lenzuolo” fino ai primi anni Settanta. Negli anni Sessanta “Panorama” che era nato come mensile, era diventato settimanale ed era il nostro principale concorrente. Il direttore era Lamberto Sechi, l’editore era Mondadori, il giornale aveva adottato il formato e la formula di “Newsweek”, e piano piano da inseguitore che era ci ha raggiunto e superato, arrivando a vendere 180 mila copie, mentre noi eravamo stabili sulle 120-130 mila. Noi avevamo degli amici francesi, che facevano “L’Express”. Era il gruppo di Jean-Jacques Servan-Schreiber, Françoise Giroud, che dirigeva il settimanale ed era la sua amante, e Jean Daniel. “L’Express” è stato un modello per noi, che non a caso abbiamo scelto il nome L’Espresso, anche quando nel 1973 abbiamo deciso che avremmo cambiato, di colpo, il formato. Alcuni dei nostri azionisti erano contrari. Erano raccolti in una società chiamata Piccolo Naviglio, ed erano tutti giovani eredi di dinastie industriali del Nord e tutti politicamente e culturalmente vicini alle nostre idee. C’era Roberto Olivetti, figlio di Adriano, Vittorio Olcese e Aldo Bassetti che, anche se veniva da una famiglia di tradizioni molto cattoliche, era su posizioni laiche, anzi anticlericali. Loro si opponevano al cambio di formato. Ma Caracciolo e io avevamo la maggioranza, e abbiamo detto loro: «Vabbè, a voi l’idea non piace, ma a noi sì. Quindi si fa». Il primo numero del nuovo formato, nel marzo del 1974, ha venduto 350mila copie. E così il secondo, poi ci siamo assestati intorno alle trecentomila. Con quelle vendite, per la prima volta nella nostra storia, abbiamo visto i soldi veri. Fino ad allora eravamo andati avanti con dei bilanci che chiudevano più o meno in pareggio, cinque-sei milioni di perdite o di attivo. Invece con trecentomila copie e la pubblicità che si impennava, abbiamo cominciato a guadagnare moltissimo. Dopo un anno avevamo un miliardo e mezzo...E allora ci siamo detti: «Beh, ora lo facciamo, il quotidiano».
Il brano di Eugenio Scalfari pubblicato in queste pagine è tratto dal film “Paesaggio civile”. Si tratta di una “Conversazione su crimine, potere, stampa” tra Eugenio Scalfari, Umberto Eco e Roberto Saviano che prende spunto dai 60 anni dell’Espresso.
· Il decimo anno di Instagram.
Instagram? Ha fatto anche cose buone. Il social festeggia il decimo anno con numeri da capogiro: un miliardo di utenti e cinquecentomila stories al giorno. Elvira Fratto su Il Quotidiano del Sud l'11 ottobre 2020. Dieci candeline, un miliardo di utenti attivi, cinquecentomila stories al giorno: Instagram festeggia il suo decimo compleanno con numeri da capogiro. Il 6 ottobre 2010 nasceva il social contrassegnato da una piccola Polaroid, un mondo che a poco a poco si è colorato di foto, contenuti e un target di utenti giovanissimo, il vivaio più prolifico per i nuovi influencers. Come per tutte le versioni primordiali di un progetto, anche i primi vagiti digitali di Instagram risultavano insufficienti man mano che il bacino di utenza si allargava. Ingolosito dal social network con la Polaroid, Mark Zuckerberg, già amorevole papà di Facebook, decise di adottare anche Instagram, acquistandolo per la modica cifra di un miliardo di dollari. Iniziò da qui l’ascesa di Instagram che, da ballerina di periferia, ben presto diventa l’étoile del web: ma cosa è davvero cambiato nella piattaforma? Zuckerberg l’abbellisce con i filtri e le stories, vera e grande novità entrata a gamba tesa a cavallo tra il 2015 e il 2016: contenuti video e foto da condividere con i propri followers per la durata di 24 ore e, in più, numerose (e apprezzatissime) modifiche al formato delle foto da caricare nelle proprie gallerie e la possibilità di postare video che durano fino a un minuto, e non pochi secondi come accadeva prima della rivoluzione Zuckerberghiana. Ma non basta: Instagram ha smesso di essere un mero contenitore di fotografie e aspira a diventare l’anello di congiunzione tra un appassionato di fotografia e uno di moda. Vengono introdotti i “direct”, vale a dire le chat o meglio, i messaggi privati, e ben presto nasce anche la “IG TV”, sezione in cui caricare video che durano anche un’ora: un tripudio per gli influencers che non devono più rispedire i fans alle proprie rispettive pagine Facebook per essere seguiti a lungo. Carrie Bradshaw in “Sex and the City” si chiedeva dove va a finire l’amore una volta che è finito; gli utenti Instagram, invece, si sono chiesti a lungo dove andassero a finire le stories una volta scadute le 24 ore. Forse si è pensato che anche i ricordi brevi dovessero avere un posto nei feed degli utenti, così è arrivata anche la possibilità di ripescare le stories postate dal proprio apposito archivio e metterle “in evidenza”. In pratica è possibile creare dei piccoli album da personalizzare e catalogare, contenenti alcune tra le stories preferite degli utenti: vacanze, compleanni, momenti speciali, concerti: Instagram diventa così la memoria digitale di ciascuno di noi. E per chi storce il naso di fronte alla prospettiva che un social possa “derubare” la nostra vita dei ricordi più speciali, bisogna far presente che – per giocare con un usato modo di dire, in rete ma non solo – “Instagram ha fatto anche cose buone”: tantissime sono state le campagne solidali nate proprio con gli hashtag, parole o frasi chiave che accompagnano Instagram sin dai suoi albori e che caratterizzano i contenuti. Tanto per fare qualche esempio, durante il durissimo periodo del Covid-19 che ha messo in ginocchio le attività commerciali, è partito a razzo l’hashtag #iostoconiristoratori, supportato e condiviso da oltre 80 influencers (che hanno pubblicato oltre 240 stories) e che si pone come obiettivo quello di innovare il settore della ristorazione, sfruttando le potenzialità dell’impresa digitale. Anche Medici Senza Frontiere e il WWF si sono adoperati per rendere più appetibili i propri contenuti e sensibilizzare il pubblico di Instagram alle cause più nobili, come la tutela del pianeta o le attività più significative svolte da medici e infermieri nei luoghi più poveri del mondo. L’intuizione, indubbiamente, è immediata e sfrutta tutto il potenziale della piattaforma: quale migliore piazza di un social network con un miliardo di utenti per postare dei contenuti volti alla sensibilizzazione o alla diffusione di una notizia?
Ma come nello Yin e Yang, esiste anche la “dark side” di Instagram, e fa spesso capolino tra incidenti diplomatici, foto troppo intime postate per sbaglio da attori famosi e insidie di ogni genere, soprattutto per i più giovani. Instagram è a tutti gli effetti una vetrina, e le vetrine espongono i prodotti migliori: il rischio, tra modelle e influencers magrissime e bellissime, è che l’ondata emulativa da parte dei giovanissimi utenti di Instagram possa diventare patologica, che si sfiorino fenomeni come quelli dei disturbi alimentari e che tutti i buoni propositi di utilità del social finiscano per essere assorbiti dal fattore “apparenza”, che inevitabilmente è la sua caratteristica di punta. Amleticamente dobbiamo chiederci: ridurre o non ridurre l’uso di Instagram? Questo è il dilemma. Che poi, in realtà, così dilemma non è, perché ad Amleto risponde Asclepio che, come per qualunque fàrmakon – termine greco dal doppio significato di “medicina” e “veleno” – consiglierebbe di assumerlo a piccole dosi e senza abusarne.
· Il metodo Iene.
Renato Franco per il Corriere della Sera il 6 ottobre 2020. «Il metodo Iene, per chi ce l’ha superficialmente affibbiato, sarebbe l’approccio approssimativo con cui, secondo i nostri detrattori, tratteremmo gli argomenti nel nostro programma. In realtà Le Iene in questi 23 anni hanno fatto un sacco di cose importanti, soprattutto dal punto di vista giornalistico (se qualcuno avesse voglia di scorrere la nostra rassegna stampa se ne renderebbe facilmente conto). Gli inviati non sono parcheggiati davanti a una scrivania, ma vanno sempre a cercare gli interpreti dei fatti, registrando in video la loro reale versione. Alle Iene non c’è letteratura. Sono i protagonisti a parlare. Sempre. Poi capita di sbagliare. Ma ci sbagliamo poco. Su centinaia e centinaia di servizi ci contestano sempre le stesse quattro cose». Davide Parenti da oltre 20 anni è la mente del programma di Italia 1 al via con due appuntamenti a settimana (martedì e giovedì).
La iena Giulio Golia è risultata positiva al Covid. Come siete organizzati?
«È una stagione che parte in salita, è il Covid che muove tutto. Lo studio è senza pubblico, noi siamo divisi in gruppi per contenere eventuali contagi, ma siamo settati in modo da farcela anche se si ammala qualcuno».
Tanti contenuti gireranno intorno alla pandemia, che è un tema sanitario, ma anche economico, sociale, sportivo.
«Abbiamo seguito l’esperienza di Mantova, Padova e Pavia sul plasma iperimmune come terapia per il virus. È una strada che non ha praticato nessuno a parte Zaia. E siamo andati a capire perché non ne parla nessuno e non ci si è impegnati davvero in questo senso. Il sangue di pazienti guariti dall’infezione fornisce ai malati gli anticorpi utili a contrastarne gli effetti: mi sembra una bella idea da socialismo reale. Faremo il punto sui vaccini e ci siamo anche proposti come cavie: volevamo provare lo Sputnik ma i russi non erano d’accordo. Come sempre ci saranno anche servizi leggeri. Siamo andati a Madrid a parlare in italiano con Suarez, ma il suo staff di sicurezza ci ha preso come pelli di fico e buttati in giardino. Abbiamo ripiegato con Cassano, è stato al gioco: se gli facessero l’esame di italiano gli toglierebbero la cittadinanza».
Il format prevede servizi brevi, perfetti da rendere virali sul web, ma da qualche tempo alla consueta programmazione «Le Iene» affiancano speciali da un’ora e mezza: perché due registri così differenti?
«Noi lavoriamo in una spa il cui core business è la tv e centrali rimangono i contenuti pensati per questa piattaforma. Gli speciali ci servono per raggiungere spettatori che di solito non guardano Le Iene: Rosa e Olindo, il Monte dei Paschi e la morte di David Rossi, Mirko Scarcella e le sofisticazioni di Instagram, la vicenda di Chico Forti, servono per far conoscere il nostro linguaggio a chi non ci segue abitualmente. A differenza di Canale 5 o Rai1 dove c’è tanto transito, Italia 1 è una rete piccola, siamo come una pizzeria in una strada non particolarmente frequentata. Siamo su una rete che fa il 5/6% di share e normalmente noi facciamo il doppio. È questo il nostro successo».
Su Rosa e Olindo c’è una sentenza definitiva, perché insistere?
«Perché sono andati a processo già da colpevoli, è una vicenda in cui ci sono tantissimi punti oscuri, e noi li mettiamo in evidenza. C’è un sacco di gente che non vuol vedere questi aspetti e si ferma alle ricostruzioni del 2006».
Non correte il rischio di far confondere intrattenimento e giornalismo?
«Sono due aspetti distinti, tutti capiscono quando un servizio è di intrattenimento e quando è giornalistico. Il nostro è un formato di formati: possiamo passare da uno scherzo a un tema serio».
La televisione generalista è vitale, moribonda o morta?
«L’oggetto rimane al centro della casa, ma nel frattempo si è riempito di Amazon, Netflix, di tante piattaforme che offrono tante possibilità. La generalista è una tv per pigri».
· Le "signorine buonasera".
Silvia Fumarola per “il Venerdì - la Repubblica” il 30 novembre 2020. Le "signorine buonasera", definizione riduttiva ma efficace, oggi, per dirla col premier Conte, sarebbero congiunte. Erano figure familiari, entravano in milioni di case - con la messa in piega a prova di bomba, i sorrisi suadenti - e gli italiani davanti alla tv fantasticavano. Donne idealizzate, discrete e misteriose; persino mettere e togliere gli occhiali era visto come un gesto seduttivo. Michele Vanossi le celebra nel libro Le signorine buonasera - Il racconto di un mito tutto italiano dagli anni Cinquanta a oggi (Gribaudo). «Quanti italiani si sono invaghiti di quei volti belli e rassicuranti, che colmavano, magari, temporanee o definitive solitudini» scrive Maurizio Costanzo nella prefazione. «Ricordo, per esempio, che quando Mariolina Cannuli dava la buonanotte, molte mogli s' ingelosivano». Impegnate in turni di 8 ore e 35 minuti per gli annunci in diretta, erano diversissime tra loro: "il viso d' angelo" Gabriella Farinon, "la principessa" Paola Perissi, "la fatina" Maria Giovanna Elmi, "la nuvola bionda" Anna Maria Gambineri. Per Rosanna Vaudetti il soprannome lo creò Alberto Sordi: "Vaudetti annunci perfetti". Marina Morgan (vero nome di Marina Meucci, in tv dal 1975 al 2002), memoria di ferro - non abbassava mai lo sguardo sui fogli - era "Pico della Mirandola". Nel libro racconta che Gino Cervi la paragonò a Wanda Osiris e che fu contattata da Tinto Brass per girare La chiave: «Lo ringraziai per aver pensato a me e gli dissi che un film così non lo avrei mai fatto». Anche grazie a un' imitazione di Alighiero Noschese con boa di struzzo in Doppia coppia nel 1969, Mariolina Cannuli (signorina buonasera dal 1961 al 1994) diventò "la sexy" del gruppo. Le papere? «Ne ricordo una in cui anziché dire Sua Santità dissi Sua Maestà, però nessuno se ne rese conto e continuai con l' annuncio» spiega. Vanossi ripercorre la storia dei volti Rai (ultimi annunci nel 2016, con le nuove leve) e di quelli Mediaset (sparirono nel 2018). La maestra indiscussa è Nicoletta Orsomando (in carriera dal 1953 al 1993), veterana che il 3 gennaio 1954 - come ha più volte sottolineato - inaugurò le trasmissioni del servizio pubblico. Diversa da tutte perché uguale a se stessa, non ha mai cambiato pettinatura. Tra le curiosità: negli Stati Uniti fu ospitata dalla moglie di Orson Welles, in una puntata de Il musichiere conobbe Gary Cooper. Per la festa dei 90 anni, nel 2019, la foto ricordo con Rosanna Vaudetti, Aba Cercato, Gabriella Farinon, Paola Perissi e Maria Giovanna Elmi, scatena l' affetto nostalgico dei fan. Anche tra i testimoni del libro - Bruno Vespa, Carlo Conti, Fabio Fazio, Antonella Clerici, Mara Venier - serpeggia la nostalgia per le annunciatrici. Vespa ricorda «soprattutto quelle in bianco e nero, della prima generazione. Erano belle, ma non conturbanti. Perfette per entrare in casa senza irrompervi. Punti di riferimento garbati, con la dizione perfetta, gli abiti giusti e il sorriso giusto. Autorevoli in una televisione autorevole. Perché così era la Rai». Un' altra vita. Oggi con lo streaming e la tv on domand, il pubblico costruisce il proprio palinsesto, ed è la grafica a ricordare l' offerta sulle reti generaliste. Nel mondo dominato dagli hater, la meraviglia è leggere di spettatori devoti che inviavano lettere e fiori. «Erano lettere affettuose» dice Rosanna Vaudetti in servizio dal 1961 al 1998 «richieste di consigli, proposte di matrimonio e altre missive infuocate». Ammiratori romantici e concreti: «Un signore cercava di convincermi a sposarlo perché aveva la pensione reversibile e secondo lui, per questa ragione, potevo considerarlo un buon partito!». Un altro le spedì il suo testamento olografo. «Mi lasciava ogni suo avere dicendo che aveva trascorso più tempo con me (seppure in modo virtuale, nel suo televisore) che con i suoi parenti. Finsi di non averlo mai ricevuto». Anche Paola Perissi (in tv dal 1969 al 2000), ricorda «l' ornamento di un diadema che un nobile lasciò nel suo testamento...», e conserva la lettera di un gruppo di terremotati del Friuli, che si consolò vedendo la sua immagine «rassicurante e amica» in un televisore di fortuna. A Maria Giovanna Elmi fu inviata una busta che conteneva 500 lire «accompagnata da un biglietto: "Ho giurato sulla testa dei miei figli che sarei riuscito a offrirti un aperitivo... ti prego, fallo con questi soldi"». Racconta la sera in cui fece l' autografo a Audrey Hepburn in un ristorante. «Visto il mio stupore, aggiunse che era "per il suo bambino, Luca, che mi seguiva sempre in tv". Probabilmente sono l' unico personaggio al mondo a cui Audrey Hepburn ha chiesto un autografo».
Arriva Berlusconi. Volto di Rete 4 dal 1990 al 2018, Emanuela Folliero dice di non aver mai scambiato quattro chiacchiere con Silvio Berlusconi. «So che quando si occupava di editoria e telecomunicazioni, anche i provini venivano sottoposti alla sua supervisione... Mi raccontarono che affermò di avermi scelta per due motivi: per il sorriso rassicurante e perché sosteneva che fossi leggermente strabica (io non credo, forse lo ha pensato perché guardavo fissa in centro all' obiettivo...). Sicuramente non mi scelse per le tette, perché ai casting indossavo una camicetta a fiori accollatissima!». Mentre Gabriella Golia (al Biscione dal 1982 al 2002) ricorda «la corte professionale e garbata di Berlusconi quando ero ancora in Rusconi. Voleva a tutti i costi che lavorassi per Fininvest. Nessuno sapeva chi fosse questo grande imprenditore che mi telefonava per convincermi a passare a quella che sarebbe stata Italia 1». Oggi pittrice, casa e atelier a Nizza, Fiorella Pierobon (star di Canale 5 dal 1984 al 2003) dice che il passato televisivo le sembra «un' altra vita». Ricorda «l' entusiasmo di quegli anni, la professionalità degli artisti», è grata per l' affetto di chi continua a scriverle. «Quando ho lasciato la tv mi sembrava diventata così brutta, urlata e volgare. E, purtroppo, non credo sia migliorata». Ha un retrogusto amaro il racconto di Janet De Nardis (volto Rai dal 2003 al 2009), invitata con cinque nuove annunciatrici da Raffaella Carrà per presentarsi dopo il cambio della guardia con le storiche signorine buonasera. «Per questa occasione ci fecero preparare una canzone e un balletto. Entrammo in scena in diretta e, a un certo punto, dietro di noi si palesarono le "vecchie" annunciatrici, e cantarono una canzone poco divertente, quasi denigratoria nei nostri confronti (diceva che noi stavamo sdraiate sul divano, che non sapevamo fare il nostro mestiere, che alla Rai mancavano loro). Come se fossimo state noi a decidere il restyling della Rai». Facile, mettere contro le donne tra loro. Anche le signorine buonasera.
· Alda D' Eusanio.
Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 14 ottobre 2020.
Alda D' Eusanio, 70 anni compiuti oggi e non li dimostra. Come fa?
«Perché il corpo parla e ti dice se sei acida, biliosa o serena... Che vita hai fatto e che persona sei diventata».
E lei com' è diventata?
«Migliore di com' ero. Poi, nel 2012, dopo essere stata investita, il coma mi ha riportata un po' indietro: avevo imparato a riflettere prima di parlare e ho disimparato».
Quando nel 1993 denunciò sul Corriere lo strapotere dei socialisti nel Tg2 di cui era conduttrice, quanto ci aveva riflettuto?
«Dentro quel tg, venivo da anni di battaglie contro una banda di colleghi arrivati dall' Avanti e bulimici di potere. Non me ne sono pentita, anche se l' ho pagata: fui relegata per cinque anni alla notte».
Era socialista anche lei e amica di Bettino Craxi. Lui come la prese?
«Bene: erano cose che gli dicevo sempre. Era uno scontro continuo. Mi ero già rifiutata di fare lo spot del Psi per le Europee '89. E poi non gli dovevo niente: ero stata assunta che non lo conoscevo e il successo arriverà dopo il tracollo socialista. L'Italia in diretta è del '95: l' ho ideata, l'ho fatta un anno, me l'hanno tolta, è diventata La Vita in diretta che c' è ancora».
Come le sembra oggi la tv del pomeriggio?
«La guardo e mi chiedo perché mi attaccavano così tanto e in modo così brutale. Quando Marco Pannella mi mollò un panetto di hashish in diretta, fui processata dall' Ordine dei giornalisti e dalla giustizia ordinaria. Un putiferio. Ma Pannella mi era stato imposto dalla rete per promuovere un referendum. Me lo trovai in studio all' ultimo e dissi subito: questo è veleno, tienitelo e vai in galera. Fui assolta, ma nessuno si spese in mia difesa».
Perché, che risposta si dà?
«Perché non appartengo a circoli, gruppi, sono sola, nel senso di libera. In Rai, ho fatto 11 anni di precariato. Mio marito mi diceva: chiamati col mio cognome, sarà più semplice. E io niente».
Suo marito era il sociologo Gianni Statera, lei chi era e da dove veniva?
«Venivo da Tollo, in Abruzzo, tremila anime, tutti contadini. Eravamo poveri. Papà aveva imparato a leggere e scrivere a vent' anni, mamma tuttora mi dice: io non ti avrei fatta studiare. Invece, andai in collegio, poi mi laureai in Sociologia a Roma, facendo la cameriera per mantenermi. Avevo tutti 30 e 30 lode».
Primo incontro col professor Statera?
«Io ero un sacco rossa, un sacco comunista e sottoproletaria. Lui era socialista e, per me, era un borghese nemico di classe. Era bravissimo, ma non mi affascinava. Aveva solo sette anni più di me, ma era già direttore del dipartimento di Sociologia. Aveva scritto il suo primo libro a 12 anni. Era un genio, ma io pensavo che per uno che aveva mangiato pane e cultura era il minimo».
Quindi?
«Alla presentazione di un libro, iniziò a corteggiarmi, gli permisi il primo bacio dopo sei mesi. Mi conquistò con l' intelligenza, che è quello che succede ancora. Continuo a discutere con lui e a farci pace. Ha una mente forte, siamo due caratteri da scontro totale. Lui era tutto preso dall' università, la mia rivale: studiava e leggeva sempre. Io lo prendevo in giro. Rifletteva sui massimi sistemi e gli dicevo: scusa , tu che sai tutto, che ore sono? A volte, mi svegliavo e lo trovavo che mi guardava e rideva. Ancora lo fa, la mattina. Ancora lo amo tanto».
Ne parla come se fosse vivo, ma è morto nel '99.
«Per me è molto vivo. Un amore vero va al di là del corpo, degli oceani, dell' eterno. Soffro la sua morte solo il giorno del mio compleanno perché il suo regalo era passare un giorno intero con me».
Per cui, che farà oggi?
«Piangerò tutto il giorno. Gianni se n' è andato in 15 giorni per un male fulminante. All' inizio, non mangiavo e non bevevo, ero arrivata a 34 chili, volevo solo morire. Poi, in un negozio, ho visto Giorgio, un pappagallo tutto piume e ossa che pativa un lutto e non mangiava più. L' ho portato a casa, a lui piace la pasta e, un rigatone lui e uno io, abbiamo ripreso a mangiare».
Oggi che vita fa?
«Ho tanti amici. Mi sono iscritta all' Accademia di Santa Cecilia per studiare fisarmonica. E a dicembre debutto in teatro con in una pièce scritta con Ilenia Costanza».
Dove trova tanta energia?
«Mentre ero in coma, preferivo morire: mi vedevo da fuori e stavo bene, nella luce. Invece, nonostante cinque emorragie cerebrali, tornai viva. Mi dissi: si vede che la vita mi deve ancora un sogno».
Che sogno?
«Ancora devo scoprirlo».
· Alessandra Ghisleri.
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 10 agosto 2020. Non c'è niente di più interessante della vita quotidiana, insieme banale e avventurosa, delle persone in cui ci imbattiamo per lavoro, per dovere sociale o per piacere della conoscenza. Si è chiusi in se stessi, e nel proprio pregiudizio difensivo. Ed ecco che una frase, un sorriso fa entrare nel nostro guscio un brillìo. Ho fatto di recente questa esperienza leggendo un libro il cui titolo mi repelleva. Sono uscito invece da quelle pagine, non dico con un inno alla gioia, non esageriamo, ma con il sospetto che la nostra corsa da criceti sulla ruota dell'esistenza possa non essere del tutto insensata, e che compiendo il dovere delle solite cose possano aprirsi squarci colorati nel grigio. E dire che il testo non brilla per espedienti narrativi fascinosi, la copertina non è la porta di una miniera di gemme linguistiche. A volte è impastato di gergo iniziatico. E allora dove sta la sua forza? Esso è lo specchio della persona che lo ha scritto, la comunicazione del gusto del lavoro, la dimostrazione in corso d'opera che investire sul proprio talento, giocandosela, è l'essenza di una vita utile. Girava per casa dai primi di marzo, dall'inizio del confinamento domestico da Covid, il libro di Alessandra Ghisleri intitolato La Repubblica dei sondaggi: L'Italia raccontata attraverso i numeri (Piemme, pagine 224, 17, e-book 9,99). Ho pensato: la signora famosa per indovinarle tutte è andata a gambe all'aria: come si fa a passare per profetesse quando si manda un volume con le proprie performance nelle librerie proprio quando sono chiuse? La cosa più interessante, per dirla tutta, mi era parsa l'aggiunta del secondo nome in copertina, cioè Paola. Ah, si chiama Alessandra Paola, finalmente una notizia nuova. Quanto alla storia politica di questi anni, per di più raccontata attraverso le tabelle degli istituti di ricerca, mi sembrò quanto di meno ghiotto esistesse, a parte forse i romanzi di Walter Veltroni. Ma sì, che barba, infilare la propria noia per la centesima volta nel come e perché Berlusconi vince e poi perde, Prodi poi lo supera per un pelo, e infine l'irresistibile idiozia degli italiani ha portato al governo il Movimento 5 Stelle. Quanto alle recensioni: tutte positive, spiegavano che l'imperdibile protagonista del volume erano i magnifici sondaggi e il loro contorno di fuochi d'artificio. Ciao Ghisleri. Ci vediamo a cena oppure ti guardo alla tivù. Sei la più brava di tutti nel raccontare il presente intravedendone gli sviluppi e le deflagrazioni. Il passato recente, in attesa che rispunti un De Felice, preferisco ricordarmelo da solo. Fatto sta che, per controllare certi dati e certe date, avendo a tiro quel mattoncino rallegrato dal nome dell'autrice, sono andato all'indice e da lì sono scivolato a piluccare certe pagine. Sorprendenti. Sul serio. Bisognerebbe leggere e lavorare a scuola e nelle famiglie, quelle che esistono ancora, la storia non della vittoria di Berlusconi (c'è, e ben scritta) ma della vittoria della Ghisleri sulla disoccupazione, la sola attività verso cui avesse una preclusione ideologica. Per questo dopo la laurea in Oceanografia paleontologica, e dinanzi al vuoto di proposte di lavoro conseguenti ai suoi meravigliosi studi sui fondali tirrenici intorno all'isola di Ponza, invece di lamentarsi per l'assenza di prospettive di stipendio per sognatori, si butta in qualsiasi lavoro fornisca sostentamento. Succhia insegnamenti ovunque, anche dalla propria esperienza nei call center, a far domande idiote e proposte squinternate a gente furente per la perdita di tempo. Comincia lì.
PRECARIATO. Non parte dalle teorie sociologiche per afferrare cosa frulli nell'umore quotidiano della popolazione, si situa al livello più basso di coloro che si beccano gli insulti di tutte le classi sociali per la rottura di scatole di una telefonata che gli fa raffreddare la bistecca. Afferra qualsiasi offerta salariale che migliori il contenuto del portafogli. Lavoro precario? La-vo-ro: mai vissuto come una umiliazione dati i suoi alti studi in fondo al mare. Trascrivo la pagina, a usare parole mie la rovinerei. «Non mi sono mai sentita mortificata da una situazione lavorativa che altri definirebbero sbrigativamente precaria. Ogni piccolo impiego - dal semplice lavoro come vestierista o venditrice negli showroom di moda milanesi, alla presentazione della carne irlandese nei supermercati, alle giornate trascorse dietro una scrivania nell'agenzia di un'assicurazione - mi ha sempre insegnato qualcosa. Ho sempre riconosciuto il valore di ogni esperienza e la necessità di capitalizzarne i contenuti». Finché un professore universitario che ricordava le sue attitudini riflessive le domanda una "paginetta" sulle prospettive di successo di un nuovo partito che nascesse dal Centro Cristiano Democratico (CCD di Casini) per seguire Buttiglione nei Cristiani democratici uniti (CDU). Le diedero i risultati di un sondaggio: arrangiati, elabora. Tutti abbiamo dimenticato quelle sigle preistoriche sprofondate anch' esse come paleontologia nel mare di Ponza, ma non chi è emersa da quelle acque come la Venere dei sondaggi: lei, la Ghisleri. Luigi Crespi la assume e la trascina nel mondo nuovo di cui diventerà regina. Se la porta in una trasmissione con Gianfranco Funari, vero e proprio maestro ghisleriano. Funari aveva compreso quel che poi Berlusconi sviluppò in grande. La potenza degli stati d'animo trasferiti in politica. Alessandra Paola Ghisleri lo spiega con quel linguaggio complicato e astruso che dà lustro scientifico all'invenzione della ruota in politica, ma che è il prezzo da pagare se vuoi essere incoronata come scienziata: «Funari aveva già compreso il valore del percepito nella realtà quotidiana». Qui sembra Umberto Eco quando illustrò la fenomenologia di Mike Bongiorno. Funari ordinava di fare sondaggi con domande tipo: «Come si sente stamattina? Felice, triste o stressato?». La chiacchiera da bar come moneta per la vittoria elettorale.
INTELLIGENZA E MEMORIA. Qual è la marcia in più che la Ghisleri è stata in grado di innestare? Si chiama intelligenza intuitiva ma anche memoria prodigiosa e capacità di controllare le emozioni nei momenti di caos. Che avesse doti eccezionali lo dimostra un episodio che racconta con modestia. C'è Funari che trascina la trasmissione fino al suo diapason al mezzodì di Rete 4. Lei se ne sta dietro il computer su un tavolino Ikea. Mancano venti secondi al disvelamento del sondaggio che toccherà a lei annunciare. Ed ecco: puff! Lo schermo diventa nero, è saltato tutto. Va così: «Il panico. L'agitazione era forte e le imprecazioni, ovviamente solo pensate, tante. Non so come, ma riuscii a estraniarmi dalla situazione e ricostruii, secondo uno schema collaudato che avevo acquisito all'università, l'intero istogramma in poche manciate di secondi et voilà! Gianfranco Funari chiamò il collegamento e filò tutto liscio come l'olio». Ho guardato che cos' è istogramma sul vocabolario. Troppo lungo per ripeterlo. Diciamo che non so quale tecnica Alessandra abbia applicato alla propria testa. Ma la questione non è la tecnica, ma la testa di Alessandra. Nessuna superbia, chi ha avuto la fortuna di frequentarla e di lavorare con lei lo sa: la gentilezza, il non tirarsela mai. La capacità di andare al fondo di quel che pensano e sentono gli italiani mescolando i dati empirici con i propri fermenti interiori. Senza sbagliare. Gli altri fanno sondaggi onesti. Ma è come se si fermassero all'inoppugnabile somma delle quantità. Lei aggiunge qualcosa. L'esperienza dei call center, quella con Funari, l'aver studiato oceanografia, una genialità che è innata ma si sviluppa con il lavoro sul campo: fatto sta che corregge i risultati dell'algoritmo. Va oltre. E fornisce ai suoi clienti le ipotesi di quel che bisognerebbe fare per intonarsi con i sentimenti del popolo. Serve dire che aveva previsto sin dal 2007, in un report per Berlusconi, la travolgente ascesa politicamente trasversale di Grillo? Ha intuito l'abilità di Giuseppe Conte che lo fa stare in alto nelle graduatorie della popolarità: «Conte ha superato Salvini con le sue stesse armi». Poi spiega qual è oggi la domanda politica degli italiani: «Dalle indagini emerge chiaramente, in modo trasversale alle scelte elettorali, la richiesta di recuperare un'etica politica centrata sui valori di coerenza, affidabilità, competenza e fattività, che sappia superare l'attuale sensazione di ricatto e paralisi decisionale per ridare fiducia nel futuro». Coerenza, affidabilità, competenza, etica. Ciao Alessandra Paola Ghisleri. Hai descritto te stessa. E poi dev' essersi rotta la macchinetta.
· Alessio Orsingher e Pierluigi Diaco.
Anna Montesano per "ilsussidiario.net" il 17 giugno 2020. Oggi pomeriggio, nel nuovo appuntamento con Tagadà, in onda dalle 14:15 su La7 torna, in molti hanno subito notato un’importante assenza. La conduttrice del talk show di approfondimento giornalistico Tiziana Panella non era alla sua consueta posizione, ricoperta ormai da cinque edizioni. Pare infatti che la conduttrice stia male e, per questa volta, sia stata dunque sostituita. Al suo posto c’è infatti Alessio Orsingher, giornalista e redattore presente in studio, che prende dunque il ruolo di conduttore in via del tutto straordinaria. Non è la prima volta che Orsingher però ricopre questa posizione: il giornalista ha già preso in mano le redini del programma, sempre come sostituto. Questa volta però la situazione è molto diversa.
Alessio Orsingher sfida il marito Pierluigi Diaco: Rai 1 Vs La7. Alessio Orsingher va infatti a sfidare, con la trasmissione Tagadà, suo marito che conduce su Rai 1 proprio nella stessa fascia oraria Io e Te. Forse non tutti sanno che il giornalista è infatti il marito di Pierluigi Diaco (i due sono uniti civilmente dal 2017) che alla stessa ora sarà in onda su Rai 1 con Io e Te fino alle 15:40. Appare dunque abbastanza chiara la particolarità di questa sfida, certamente non voluta, ma necessaria ai fini del proseguimento della trasmissione. Diaco e Orsingher dunque si sfidano, seppur in due talk totalmente differenti: il primo, infatti, intervista volti noti dello spettacolo e risponde a lettere d’amore, il secondo invece si occupa di approfondimento politico.
Stella Dibenedetto per "ilsussidiario.net" il 6 luglio 2020. Pierluigi Diaco piange in diretta a Io e Te. Durante l’intervista con Flavio Insinna, il conduttore ammette di essersi lasciato andare a delle intemperanze nei confronti delle persone che lavorano con lui alla trasmissione di Raiuno. “In questo mese che lavoro in questo studio mi è capitato per il troppo amore e la troppa passione che metto in questo mestiere, essendo un emotivo, di avere delle intemperanze e quindi a microfono aperto, mi sono permesso di giudicare il lavoro delle persone che lavorano qua dentro”, afferma Diaco che poi aggiunge di essersi reso conto che la passione con cui lavora alla trasmissione non può essere la stessa di chi lavora ad altri programmi della Rai. Diaco, così, ammette di essersi chiesto se sia all’altezza di lavorare in una squadra. Dopo aver ascoltato le parole di Diaco, Insinna spiega come, spesso, quando si urla si ha paura ed è un modo per chiedere aiuto. Profondamente toccato dalle parole di Insinna, Diaco si lascia poi andare ad una riflessione. Pierluigi Diaco riconosce di sbagliare quando si lascia andare a delle intemperanze, ma esorta il pubblico a scindere il personaggio televisivio dalla persona. “Ogni tanto ho perso la lucidità e ho perso anche la pazienza, ma se mi si rivolto in maniera sgradevole è perchè chiedevo aiuto e fare questo mestiere con la passione, con la dedizione con cui lo facciamo io e questo signore qui (Flavio Insinna ndr) a volte può portare a perdere la pazienza. Quindi se avete visto in circolazione, in questi anni, degli audio o dei video, non pensate che quelle reazioni assomiglino al comportamento e al carattere dei personaggi televisivi perchè come accade voi, nel vostro lavoro, di perdere la pazienza, accade anche a noi”, ammette il conduttore.
Da liberoquotidiano.it il 6 luglio 2020. Pierluigi Diaco fa i nomi delle persone che ritiene i mandanti di “questo schifoso linciaggio mediatico” che sta subendo negli ultimi giorni. Il conduttore di Io e Te aveva minacciato di passare alle azioni legali dopo che qualcuno ha messo in giro una voce secondo cui avrebbe tirato una sedia ad una conduttrice con cui ha condiviso l’esperienza di Uno Mattina Estate nel 2010. Poi nella serata di ieri il post di fuoco, che è stato poi rimosso quando ormai era però stato già immortalato. E così tutti hanno letto le parole di Diaco: “I mandanti del linciaggio mediatico ai miei danni - ha scritto il presentatore di Rai1 - sono Fabrizio (il delinquente con il culto di sé), il suo lacchè Gabriele (il servo) e Francesco (il “rosicone uncino”). Come scriveva Pasolini ‘io so. Ma non ho le prove. Io so perché sono un intellettuale’. Non mi fate paura”.
Mirko Vitali per gossipetv.com il 6 luglio 2020. Nelle scorse ore, la conduttrice e attrice Georgia Luzi ha scritto su Instagram un lungo post di denuncia nei confronti di alcuni colleghi con cui ha lavorato. Tra le righe ha anche fatto espressamente riferimento a un “collega” che le “lanciò una sedia” in passato. Nessun nome fatto, però. I rumors hanno subito messo nel mirino Pierluigi Diaco, conduttore attuale di “Io e Te” (Rai Uno), che con la Luzi guidò l’edizione 2010 di ‘Uno Mattino Estate’. Ora il giornalista del servizio pubblico interviene in prima persona sulle voci sul suo conto, difendendosi e smentendo in modo categorico che la persona a cui fa riferimento Georgia sia lui. Diaco ha inoltre minacciato le vie legali laddove qualcuno accosterà in futuro il suo nome all’episodio. “Resisterò a questo schifoso linciaggio mediatico. Se qualcuno osa sostenere che avrei tirato una sedia ad una conduttrice con cui ho condiviso l’esperienza di #unomattinaestate nel 2010, passo alle azioni legali. Ora basta.” Così su Twitter Pierluigi Diaco. Il polverone si è scatenato, come sopra accennato, dopo che la Luzi ha scritto un post di denuncia su Instagram (qui sotto). Per quel che riguarda invece il “linciaggio mediatico” di cui parla Diaco, da sottolineare come in questi giorni il conduttore di “Io e Te” sia finito al centro di parecchie polemiche, per via di alcune sue escandescenze. Escandescenze per le quali ha chiesto scusa in diretta tv. Tuttavia le voci critiche non si sono placate. Selvaggia Lucarelli, ad esempio, ha scritto un lungo editoriale al vetriolo contro il collega, definendolo una persona con poco talento, antipatica e autoreferenziale.
IL POST INSTAGRAM DI GEORGIA LUZI. C’è chi sceglie il silenzio. E chi decide di esporsi. E ad entrambi va il mio rispetto. Nella mia vita lavorativa ci sono stati periodi in cui ho accettato e subìto parole (e non solo) che forse avrei dovuto combattere ancor più energicamente di quanto abbia fatto. Anche se 1 metro e 60 di “bionditudine” non avrebbe spaventato nessuno. In quel momento...ho scelto di non “denunciare” almeno pubblicamente (ho continuato a lottare ogni giorno in silenzio, la testa non l’ho mai piegata). Sapevo a cosa sarei andata incontro e ho avuta paura. Paura di perdere il lavoro, di non essere creduta, di essere donna in un mondo di uomini. Perchè alle donne che scelgono di dire di “no” vengono fatte le pulci, ne vengono contestati i tempi e i modi (“come mai hai scelto di parlarne adesso e non prima?” “Ma non lo sai che i panni sporchi si lavano in casa???”) e così da vittime passiamo a carnefici. Queste persone sono le stesse che giustificano la propria condotta (meschina) con il “troppo amore” che mettono nelle cose che fanno. Il troppo amore...(un po’ come quelli che ti picchiano perché ti amano troppo). Quindi, quelli educati e perbene per far capire quanto ci tengono al proprio lavoro, devono insultare qualcuno. Quindi, vale tutto?! Eh no. Minacce, urla, parolacce non valgono. Arroganza, presunzione, violenza verbale, non valgono. E allora mi viene in mente quando un “collega” mi lanciò una sedia. E solo per aver espresso il mio parere. Fortunatamente il "caro collega" aveva sì un ego spropositato, ma anche una mira scarsissima. Mi ribellai… e nel tempo ho pagato le conseguenze anche di quello. Ancora oggi dà fastidio e fa paura che una donna abbia una testa pensante, abbia un’opinione e le sia data anche la libertà di poterla esprimere. Non permettete a nessuno di dirvi cosa potete o non potete dire, abbiate coraggio e siate gentili. Il loro “potere” è nulla di fronte alla vostra fierezza. E invece delle lacrime di coccodrillo, basterebbe portare rispetto. Perché siamo tutti UGUALI.
P.s. ora direte che sto a rosicà in quanto attualmente non sto lavorando ad un programma; lo aggiungerò alla lista dei motivi per cui rimanere in silenzio.
Alberto Matano, "silenzio sospetto". Dagospia e la "rissa con Diaco", cosa proprio non torna in Rai. Libero Quotidiano il 06 luglio 2020. "Come mai Alberto Matano non smentisce la presunta lite con Diaco?". Dagospia lancia di nuovo il sasso, nonostante Pierluigi Diaco sia intervenuto con parole chiarissime sulla vicenda. Ricapitoliamo: la scorsa settimana un paparazzo, via Instagram, riferisce di una rissa verbale tra Diaco, conduttore di Io e te, e il collega Matano, padrone di casa della Vita in diretta, in cui il primo avrebbe accusato il secondo di aver fatto fuori dal programma Lorella Cuccarini. Diaco ha smentito con forza, e anche oggi è arrivata una serie di tweet al riguardo: "Il confronto civilissimo con Matano è avvenuto dentro l’ingresso Rai di Via Teulada dove ci sono telecamere di servizio che possono provare quante persone erano presenti (nessun dirigente Rai) e il tono di voce usato Chi non ha altro da fare che infangarmi mi attenda in tribunale Dimenticavo: se qualcuno è curioso di sapere la data del confronto è il 23 giugno 2020", scrive Diaco, che poi aggiunge: "Ho una formazione cattolica e di sinistra. Poi leggendo Giuliano Ferrara ho capito il tasso di ipocrisia del mondo culturale di provenienza. Mi ritengo un liberale e constato che se non stai dalla parte della 'dittatura' culturale che conta, in Italia ti liquidano con sufficienza". Ma al di là di queste riflessioni, altamente condivisibili, a Dagospia non torna il silenzio sospetto dell'altra parte in causa, zitto anche di fronte alle accuse dirette di "maschilismo" della Cuccarini. Delle due l'una: coerenza o coda di paglia?
Selvaggia Lucarelli silura Pierluigi Diaco: “Antipatico, opportunista e senza talento”. Redazione Igossip il 6 luglio 2020. Selvaggia Lucarelli ha criticato duramente il conduttore del programma tv di Raiuno, Io e te, Pierluigi Diaco in un durissimo articolo pubblicato su Tpi.it. La famosa e influente giornalista, opinionista tv e blogger ha dichiarato senza peli sulla lingua che il conduttore tv, unito civilmente con Alessio Orsingher, è una persona antipatica, opportunista e senza talento.
Selvaggia contro Diaco. L’ex moglie di Laerte Pappalardo, Selvaggia Lucarelli, ha fatto a pezzi Pierluigi Diaco: “Ha un’evidente difficoltà a gestire la rabbia. Non si diventa personaggi a botte di antipatia, a meno che l’antipatia non sia supportata da un grande talento di cui a mio parere in Diaco non esiste una traccia riscontrabile”. Selvaggia ha poi sottolineato: “Il peggio di Diaco è quel cerchiobottismo che lo ha guidato per esempio nella difesa della paladina della famiglia tradizionale Giorgia Meloni (lui, sposato con uomo) e le sue dichiarazione su quella cosa oscena che fu il Congresso delle famiglie a Verona (il vero diritto a cui dovrebbe ambire la comunità gay è quello alla sobrietà, io credo che su questo congresso si sia concentrata un’attenzione mediatica smodata (…) La Meloni e Salvini mi hanno fatto gli auguri quando mi sono sposato…)”.
Selvaggia ha poi aggiunto: “Le ultime perle sono Diaco che dà dello sleale ad Alberto Matano si dice con modi pirotecnici dietro le quinte (ma lui nega) e Diaco che in un video destinato a diventare cult, piagnucola a favore di telecamera, con Insinna accanto, che lui se sbrocca come certe volta fa Insinna per troppa passione per questo lavoro, lo fa per chiedere aiuto e quelle reazioni non assomigliano ai personaggi televisivi”.
Alcune settimane fa si è scagliato contro Diaco e contro l’omosessualizzazione di Raiuno anche il giornalista e leader de Il popolo della famiglia, Mario Adinolfi. In un durissimo post social, Adinolfi ha scritto: “Con la rimozione di Lorella Cuccarini, immensa icona pop della tv italiana ma con la sfortunata condizione di essere una mamma di famiglia di molti figli e di idee cattoliche, Raiuno completa il processo di omosessualizzazione dei conduttori simbolo dei programmi di quella che una volta era la rete ammiraglia sotto il totale controllo della Dc. Oggi alla guida del principale contenitore quotidiano della rete rimane solitario il grande amico del duplex di Palazzo Chigi Casalino–Spadafora, Alberto Matano. Gay dichiarato, sostenuto nella sua battaglia per impadronirsi de La Vita in Diretta dal M5S di governo (che rifiutava la lottizzazione solo quando a farla erano gli altri), Matano ha giocato sporco contro la Cuccarini che andandosene gli ha riservato parole durissime”. E poi ancora: “A tenere in caldo il posto a Matano durante la versione estiva del principale programma di Raiuno (va in onda tutti i giorni per più di due ore al giorno) sarà Beppe Convertini, anche lui conduttore gay che ha rilasciato in queste ore un’intervista di in bocca al lupo alla Cuccarini che l’avrà fatta infuriare ancora di più. A fare il traino a La Vita in Diretta il mitico nuovo direttore giallorosso di Raiuno ha piazzato un programma imbarazzante per colonizzazione Lgbt, ovviamente condotto da un gay: Pierluigi Diaco. Il programma si intitola Io e Te, è bruttissimo, raffazzonato, scritto male e guidato peggio, non riesce ad arrivare manco al 10% di share, con momenti in cui letteralmente ci si vergogna per chi lo conduce come quando si dà spazio a tal ospite fisso Santino Fiorillo, che manco in una tv provinciale di terza categoria potrebbe aprire bocca e invece su Raiuno ha trovato il suo reddito di cittadinanza grazie ovviamente alla palese appartenenza alla nota lobby”.
Pierluigi Diaco: le sue brutte intenzioni e la maleducazione. Di Selvaggia Lucarelli il 4 Luglio 2020 su tpi.it. Una sera di un anno fa ero davanti alla tv e mi sono imbattuta in “Io e te”, il programma di Pierluigi Diaco in cui “io e te” sta per “io e te che ascolti estasiato me”. Non avevo mai visto il programma né Diaco nel ruolo di conduttore/intervistatore e ricordo che terminata la sua intervista all’incolpevole ospite (Garko), pensai che un mondo in cui Diaco è elevato al ruolo di intervistatore, è un mondo che meriterebbe una pandemia. Quindi no, il mercato degli animali di Wuhan probabilmente non c’entra nulla. Ma andiamo avanti. L’intervista fu un concentrato di risatine e leziosità costellate di riflessioni stucchevoli sulla vita e i sentimenti, in cui Diaco fingeva di essere interessato a Garko, ma per cui ogni risposta di Garko era un’occasione per fare la ruota lui. “Sono contento che tu abbia accettato, se tu ti concedi è perché hai fiducia nell’interlocutore”, esordì, che è un po’ come la D’Urso quando: “Tutti la volevano ma la madre di Favoloso ha scelto Domenica Live”. Che uno dice: me cojoni. E poi frasi meravigliose come: “Mantenere il brand Garko credo non sia facile!” o “A me capita spesso, a te capita mai di odiare l’iconografia Garko, il modo in cui gli altri ti raccontano?”, roba che scoprii contemporaneamente che Garko è un brand e che esiste un’iconografia-Diaco. Mi prese molto anche il passaggio “io l’analisi l’ho fatta per anni e trovo che dovrebbe essere obbligatoria per tutti!”, che è un po’ come se Di Maio dicesse “ho fatto dei corsi di leadership e trovo che dovrebbero farli tutti!”. Poi fece un lungo pippone – ovviamente autoreferenziale – su come avesse deciso di non chiedere nulla a Garko sulla sua vita privata perché ognuno ha la sua identità e normalità è non chiedere, pippone che ovviamente era un modo per spostare l’attenzione su di sé e farci sapere quanto è immenso il suo pudore. Garko, che davanti a lui era un gigante di acume e simpatia, rispose leggero: “Giusto, parliamo di cibo così non facciamo allusioni strane. Se a me piace la crostata con le pere e il salame piccante che problema c’è?”. A quel punto, il Diaco che volava alto e le questioni da portinaia per carità, rispose: “Aaaah mi hai dato un suggerimento…. “sei capriccioso Gabriel”…. “ti piacciono le cose forti”… “Prima o poi andiamo a mangiare insieme e capimmo se i gusti sono gli stessi!”. Insomma, volevo cambiare canale ma mi chiedevo se l’intervista potesse toccare dei punti di allusiva svenevolezza ancora più bassi. Ho fatto bene a tenere duro perché la risposta era ovviamente sì. È arrivato anche il momento della canzone strappalacrime fatta ascoltare in studio con Diaco inquadrato tutto il tempo con gli occhi chiusi e poi la frase di congedo: “Grazie Garko, sei una bella persona”. Sei-Una-Bella-Persona. Roba che non sentivo ‘sta frase da quando mi lasciò il mio ex al liceo. In questi giorni si parla molto di Diaco perché non sarebbe, lui, una bella persona. Nel senso che ormai i filmati in cui vengono mostrate le sue risposte stizzite all’ospite, le frasi piccate agli autori e le sparate da capetto de noantri tipo “Questa è casa mia”, “Vuoi condurre tu?” o “Datte ‘na calmata” a un autore reo di essere passato davanti a una telecamera, sono routine. Il problema di Diaco, oltre a un’ evidente difficoltà nella gestione della rabbia, è che è convinto di essere l’erede naturale di Maurizio Costanzo, di cui è inspiegabile pupillo. E forse, nella sua testa, crede che la ruvidezza di Costanzo, di cui talvolta sono stati vittime anche i suoi ospiti, sia un modello. In effetti potrebbe anche esserlo, solo che Costanzo è ruvido e sarcastico, Diaco è solo sgradevole e antipatico. E no, non si diventa personaggi a botte di antipatia, a meno che l’antipatia non sia supportata da un grande talento di cui a mio parere in Diaco non esiste una traccia riscontrabile neppure tramite tampone naso-faringeo. Sempre che per talento non si intenda quello che Grasso, scrivendo di lui, descrisse così: “Cerca di entrare nelle grazie di chiunque detenga un potere senza mai dispiacere l’interlocutore, inondandolo anzi di melassa e di condiscendenze. Le doti principali di Diaco sembrano essere appunto l’adulazione e l’opportunismo: è di sinistra ma anche di destra, dice di amare le donne ma anche gli uomini, parla da orecchiante ma anche da cultore di idées reçues, espresse preferibilmente in un italiano incerto”. Ecco, se si intende questo, Diaco a talento è Robert De Niro. Del resto, sul suo carattere la miglior fotografia resta “L’isola dei famosi” (2015) in cui fu concorrente: tacciato da più o meno tutti di essere doppio e retorico, uscì dal reality con un commovente record personale: quello di far rivalutare la simpatia di Alex Belli. A proposito, conobbi Diaco proprio alla mia prima esperienza da opionionista tv nel 2003. Era la prima edizione dell’Isola, sedevamo vicini e ricordo che non riuscii mai a spiccicare una parola, perché se la prendeva sempre lui. Inesperienza, direte voi. L’ho incontrato di nuovo a Domenica In, per la puntata post Sanremo quest’anno, e per tutta la prima parte in cui era accanto a me, non sono riuscita ancora una volta a prendere la parola per lo stesso motivo (e non solo io, una nota giornalista se ne andò durante la diretta). Non che mi sia offesa e non che sia stato maleducato, per carità, ma mi ha colpito quella fame di microfono che è tipica di chi per vincere la corsa non esiterebbe a darti una gomitata e a farti finire nel cespuglio. Ma credo che a me sia andata più che bene, visto che ci siamo solo sfiorati. Meno bene deve essere andata a Georgia Luzi, che oggi su Instagram ricorda un’esperienza lavorativa traumatica, con un collega dall’ego spropositato che le lanciò una sedia (lei e Diaco condussero insieme Uno Mattina nel 2010, chissà se parla di lui…). Ma in fondo non è nemmeno quello delle intemperanze caratteriali l’aspetto più fastidioso. Il peggio di Diaco è quel cerchiobottismo che lo ha guidato per esempio nella difesa della paladina della famiglia tradizionale Giorgia Meloni (lui, sposato con uomo) e le sue dichiarazione su quella cosa oscena che fu il Congresso delle famiglie a Verona (“il vero diritto a cui dovrebbe ambire la comunità gay è quello alla sobrietà”, “io credo che su questo congresso si sia concentrata un’ attenzione mediatica smodata (…) La Meloni e Salvini mi hanno fatto gli auguri quando mi sono sposato…”). Le ultime perle sono Diaco che dà dello sleale ad Alberto Matano si dice con modi pirotecnici dietro le quinte (ma lui nega) e Diaco che in un video destinato a diventare cult, piagnucola a favore di telecamera, con Insinna accanto, che lui se sbrocca come certe volta fa Insinna per troppa passione per questo lavoro, lo fa “per chiedere aiuto” e “quelle reazioni non assomigliano ai personaggi televisivi”. Ora, a parte che se Insinna voleva trovarsi un avvocato difensore per le sue, di isterie, era meglio perfino Carlo Taormina, sarebbe interessante capire cosa c’entrino la passione e il bisogno d’aiuto con “le brutte intenzioni e la maleducazione” (cit. Morgan vs Bugo). Cosa voglia dire questo monologo da teatrante di parrocchia, con le lacrime asciutte e lo sguardo in camera per trasmettere sincerità e cosa voglia dire che rispondendo male a ospiti e autori lui chiede aiuto. Se la maleducazione è una richiesta d’aiuto, devolviamo le donazioni Unicef a Vittorio Sgarbi. Infine, voler suggerire che il modo in cui trattiamo gli altri sul lavoro è qualcosa di slegato dal nostro modo di essere è un’acrobazia paracula che conferma esattamente l’opposto: le parole ci somigliano. E infatti le parole artefatte e costruite di chi cerca di uscire da una pessima e prolungata figuraccia spacciandola per una conseguenza della sua troppa passione e della sua troppa troppa bontà, somigliano a chi le ha pronunciate. Somigliano a Diaco, “il cui disordine no, non è una forma d’arte” (semi-cit. Morgan vs Bugo). È solo maleducazione.
· Alessio Viola.
Gianmaria Tammaro per Dagospia il 19 giugno 2020. Alessio Viola – classe ’75, di Roma, giornalista di Sky TG24 – ha la citazione giusta per ogni cosa: passa da Flaiano a Berlusconi, e da Berlusconi a Piotta. Scherza, insinua, fotografa. Ogni venerdì sera, su Tv8, conduce “Venti20”. “All’inizio, con l’arrivo di questa pandemia, siamo rimasti un po’ interdetti”, racconta.
“Abbiamo posticipato la messa in onda, e abbiamo recuperato solo in un secondo momento le cose che dovevamo ancora girare. Abbiamo rinviato la festa dei primi vent’anni del 2000, e per adesso ci siamo limitati a raccontarli”.
Immagino che sia stato piuttosto difficile: ogni giorno c’è la nuova foto dell’anno, e ogni giorno si rilancia sul sensazionalismo.
“La visione collettiva di questi eventi, come li abbiamo vissuti, fanno sicuramente parte della nostra storia. E quello che c’è stato prima, paradossalmente, è meno visibile. Molte cose che sono successe, soprattutto negli ultimi dieci anni, le abbiamo viste mentre accadevano”.
E quindi?
“E quindi, come facciamo nella puntata di stasera, è importante partire da una premessa. E cioè: anche nella comunicazione, ci sono stati un paziente e una casa 0. Da una parte c’è Costantino Vitagliano, che è stato il primissimo influencer, prima ancora di Chiara Ferragni, e dall’altra c’è la casa del Grande Fratello, che ha dato inizio all’estinzione dell’uomo comune”.
Addirittura.
“Oggi l’uomo che abbiamo imparato a conoscere negli anni ’90 non c’è più. Tutti sono star. Tutti lavorano sulla loro immagine. Tutti hanno un ufficio stampa”.
I famigerati quindici minuti di celebrità.
“Sono diventati molti di più, in realtà…”.
Insieme all’influencer, resiste la figura del commentatore da divano.
"Se ci pensa anche quello è un modo per attirare l’attenzione. Commentiamo perché ci vogliamo far notare. Buttiamo fango per un motivo preciso: esserci. Per carità: c’è una gestione più approssimativa, rispetto all’influencer. Ma il narcisismo è lo stesso”.
L’italiano medio resiste.
“C’è una buona fetta di persone che sì, è rimasta sempre la stessa. Ma c’è anche chi cambia continuamente. È il fenomeno del ‘pensavo fosse Obama, invece era Trump’”.
Come nel film di Troisi, “Pensavo fosse amore, invece era un calesse”.
“Il meccanismo è lo stesso. Una parte di società è cresciuta con lo sviluppo della rete, di Internet. Quando nel 2008 sulla scena mondiale si è affacciato Obama, la ventata progressista è arrivata anche in Italia. Poi Obama è passato, e siamo finiti nel trumpismo. E siamo approdati alla cialtroneria, al sovranismo, al populismo".
Come italiani, spesso, ci siamo limitati a copiare…
“Il centro-sinistra italiano faceva quello. Veltroni, ricordo, lanciò Insieme si può fare, il nostro Yes, we can. Renzi, poi, si diede alle foto in camicia bianca, con le maniche arrotolate...”.
Un paese di imitatori.
“Abbiamo avuto l’Obama italiano, il Macron italiano... Di volta in volta ci siamo adeguati. Salvini è stato prima l’Orban italiano, poi il Trump italiano. La Meloni, invece, è la Le Pen italiana… Ma è vera anche un’altra cosa”.
Mi dica.
“Un prodotto italiano, originale, c’è. E sono i cinquestelle”.
Pure loro sono cambiati tanto nel tempo.
“E non so quanto resisteranno. Una volta in un tweet ho scritto che alla fine è stata la povertà ad abolire i cinquestelle”.
Torniamo ai primi vent’anni del 2000. Che cosa resta, oggi?
“Filmati, filmatini, foto. Abbiamo imparato a seguire le notizie così. Con le testimonianze dirette di chi c'era. Citando Piotta: io non t’ho visto, t’ho vissuto. La chiave per raccontare i grandi eventi, forse, è diventata proprio questa: il mezzo. Ed è il mezzo che, più di ogni altra cosa, ha influenzato, e influenza, il contenuto”.
Lei ha deciso, cambierà carriera?
“Io continuo ad essere un giornalista. Mi sono sentito giornalista anche quando ho lavorato a X-Factor. Quello che prevale, credo, è l’approccio che si ha. Non voglio certo diventare Carlo Conti”.
Ma?
“Quest’anno si sono sovrapposte un po’ di cose, è vero: Venti20 e Ogni mattina di Tv8. Venti20 mi somiglia molto di più, perché è un racconto più vicino al mio carattere. Ma è, tutto sommato, solo una piccola virata nel linguaggio di ogni giorno”.
E che linguaggio è, il suo?
“Ho seguito Sanremo, ho seguito le elezioni politiche, ho fatto interviste di cronaca e ho intervistato Corrado Guzzanti e Gianni Morandi. Ho sempre voluto spaziare, e sono stato abbastanza fortunato da poterlo fare”.
Questa della conduzione è solo una parentesi?
“Vediamo come va. Muoio alla giornata, direbbe Flaiano. Non voglio mica presentare Sanremo”.
Intanto, quest’anno, ha anticipato il vincitore.
“È stato un episodio abbastanza tragico…”.
Anche quello, però, è passato.
“Perché Sanremo è come una guerra, e in quella settimana sei come un inviato sul campo di battaglia. Durante il Festival, non si parla d’altro. Quando finisce, il giorno dopo, sembra passato già un anno”.
Obama, la pandemia, l’influencer 0. Cos’altro le interessa raccontare di questi anni Venti?
“Il lungo periodo di declino di Berlusconi. È stato un periodo pazzesco. C’era un’atmosfera da fine Impero”.
Oggi si parla con nostalgia del Cavaliere.
“È diventato uno statista. Lo dice anche Travaglio. Il berlusconismo ha cambiato il nostro modo di comunicare”.
Ci piace cambiare idea.
“Facciamo elezioni in cui votiamo una cosa, e due anni dopo votiamo l’esatto opposto. Questa è l’epoca della velocità. Dei social”.
Il problema qual è?
“Una volta, avevamo più tempo. Una volta, il processo mediatico era più lento del processo della giustizia. Oggi basta una sola giornata. E anche nei rapporti personali siamo diventati più veloci”.
Cioè?
“Iniziano, crescono e muoiono nei nostri telefoni. Mi chiedono che fine fanno, tutte queste relazioni nate sulle app. Ci siamo tinderizzati. Se mi piace, glielo dico. Se non mi risponde, passo al prossimo. Una volta eravamo più poetici, e vivevamo in una puntata di C’è posta per te...”.
Da questa pandemia, da questi vent’anni, usciremo migliori?
“No. Pensi a quello che è successo con Silvia Romano. Non ne usciremo migliori per un semplice motivo. Si esce come si entra. Se entri migliore, esci migliore. Se entri peggiore, ne esci peggiore”.
Si stava meglio quando si stava peggio?
“Ma non direi che eravamo meglio noi, ai nostri tempi... Se vedo i ventenni di oggi, non mi sento di dire che sono peggiori dei ventenni di una volta. Forse, ecco, noi eravamo più informati. Ma avevamo anche noi i nostri problemi”.
· Andrea Scanzi.
Giallo sul parcheggio di Scanzi "La sua auto su posto invalidi". Andrea Scanzi sarebbe stato beccato ad Arezzo a occupare due posti destinati ai disabili con la sua vettura di lusso. Francesca Galici, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. Andrea Scanzi è il "giornalista più potente", come annunciato da lui stesso qualche giorno fa con un post su Facebook. Inevitabile, quindi, che sia al centro dell'attenzione e sotto i riflettori più di altri suoi colleghi. Il giornalista, originario di Arezzo, trascorre molto tempo nella sua città natale ed è qui che si trova in questi giorni. Arezzo non è una grande città e i movimenti di un personaggio noto sono in vista. Ecco, quindi, che in queste ore a Il primato nazionale è arrivata la segnalazione di una presunta infrazione di Andrea Scanzi, che con la sua vettura di lusso avrebbe occupato due posti dedicati ai disabili in una zona centrale della città. Come indicato sul quotidiano, la foto risalirebbe allo scorso venerdì 16 ottobre. Perché fa scalpore? Ogni qual volta una vettura non avente diritto parcheggia nei posti riservati a persone con disabilità andrebbe perseguita in base ai termini del codice della strada. Vittorio Brumotti a Striscia la notizia da diversi anni persegue e insegue, letteralmente, i trasgressori e regala loro un poco piacevole gadget come simbolo della brutta figura. Andrea Scanzi, braccio destro di Marco Travaglio de Il fatto quotidiano, sovente dai social sale in cattedra, moralizza e delizia i suoi seguaci con lezioni di etica e morale. Il parcheggio in un posto riservato ai disabili non è solo un illecito legato al codice della strada, punibile con una multa e con la decurtazione dei punti dalla patente di guida, è anche un gesto eticamente esecrabile per quello che rappresenta. Non ci sono indicazioni sulla possibile presenza sulla vettura del giornalista del contrassegno destinato ai disabili, che gli darebbe pieno diritto di occupare uno dei posteggi speciali, ma comunque solo a patto che con lui a bordo ci fosse una persona realmente assegnataria del contrassegno.
Le "profezie" del giornalista. Il "veggente" Scanzi, discepolo di Travaglio che non ne indovina una (dal tennis al Coronavirus). Carmine Di Niro su Il Riformista il 16 Settembre 2020. Per essere uno che si spaccia per tuttologo, Andrea Scanzi non ne becca una. Il giornalista del Fatto Quotidiano, "discepolo" del direttore Marco Travaglio e opinionista principe di Facebook, dove quotidianamente dedica ai suoi followers le sue idee sullo scibile umano, è incappato nell’ennesima previsione sbagliata. Scanzi dedica nella giornata di martedì un post al tennis, in particolare agli Internazionali di Roma che ieri hanno visto concludersi il primo turno. Un passaggio è dedicato al match tra Lorenzo Musetti e Stan Wawrinka: il primo è un 18enne italiano di belle speranze, già finalista dello Us Open Juniores del 2018 e vincitore dell’Australian Open Juniores nel 2019; il secondo è considerato tra i migliori tennisti di questa generazione, capace di vincere tre tornei dello Slam (l’Australian Open 2014, il Roland Garros 2015 e lo US Open 2016). Per Scanzi il giovanissimo Musetti è quindi il “classico tennista italico tutto talento e poco agonismo”, bravo nel superare le qualificazioni per accedere al main draw del Master 1000 ma “troppo bello e piacione (sin qui almeno) per poter essere un campionissimo”. Il pronostico di Scanzi? “Stasera può far bella figura con Wawrinka, anche se ovviamente come pronostico parte chiusissimo (salvo suicidi elvetici, e chi lo sa!)”. Risultato? Musetti è il primo tennista classe 2002 ad ottenere una vittoria in un torneo Master 1000, con l’elvetico Wawrinka sconfitto col risultato di 6-0/7-6 a suon di palle corte e rovesci a una mano. L’ennesima ‘profezia’ del giornalista del Fatto Quotidiano, che già il 25 febbraio scorso dimostrava di non prenderne mezza quando durante una diretta su Facebook si sfogava sull’argomento Coronavirus, a suo dire “non una malattia mortale porca puttana di una troia ladra”, per prendersela poi col “delirio collettivo” su Covid-19, quando però era già più di 300 le persone contagiate nel Paese.
Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 15 luglio 2020. Tocca fare i complimenti ad Andrea Scanzi, il comunicatore più social d'Italia. È un pizzico egoriferito, ma questo è un pregio nell'ambiente del web, dove la realtà è un optional e chiunque può atteggiarsi a Napoleone senza passare per matto, insolentire il prossimo senza dover poi passare dal tribunale e affermare che il Coronavirus non è una malattia mortale senza che l'Ordine dei Giornalisti apra un'inchiesta a suo carico. Andrea è un grande della comunicazione in rete. Mi è bastato rispondere a un suo tweet per guadagnare cento seguaci. Mi sfotteva perché ha più interscambi su internet di me. Gli piace vincere facile. Lui posta venti volte al giorno, ovviamente sui temi che fanno tendenza, io una ogni due settimane. Non mi spiego perché mi tenga come punto di riferimento malgrado facciamo due lavori diversi. Io dirigo un quotidiano; lui, più furbamente, soltanto se stesso. Scanzi deve guardare più in alto, alla Ferragni e Jovanotti, a Cicciogamer e Wanda Nara, non a noi falegnami della carta stampata, condannati tutti i santi giorni a lavorare e fare i conti con la realtà, senza poterla raccontare come una pièce teatrale; intendiamoci, il palcoscenico è un'arte nobile e difficile, ma non c'entra nulla con il mestiere di giornalista, che Andrea pensa di fare. Comunque, la vera ragione per cui devo complimentarmi con Scanzi è che il suo ultimo libro, quello che tratta della recente pandemia, è primo in classifica. E chissà come sarà invidiosa Ilaria Capua, che prima di scrivere un testo sul morbo si è dovuta prendere una laurea e un dottorato di ricerca, mentre a lui è bastata una ricerca su google per potersi permettere di tirare le orecchie a scienziati come Burioni e Galli. Devo ammettere che anche io ho contribuito alla causa. Mi ha incuriosito il titolo, I cazzari del virus. Memore del video nel quale il professor Andrea sosteneva, con il suo linguaggio poco oxfordiano e alquanto assertivo, che gli italiani erano tutti grulli a chiudersi in casa, che l'influenza uccide più del Covid e che non se ne poteva più di questo delirio collettivo per cui le persone non si fiondavano più a teatro ad applaudirlo, mi ero convinto che il libro fosse un'autobiografia in cui Scanzi si dava dell'imbecille. Così mi sono precipitato a comprarlo. E ho scoperto che forse l'imbecille sono io, o comunque chi, come me, è caduto nel trappolone del furbastro del Covid, che scivola, immemore e imperturbabile, sulla cacca pestata e si pulisce la suola sulle natiche di chi gli sta sul gozzo. I cazzari del virus infatti non sono quelli che l'hanno sparata più grossa. Che so, per esempio Conte, che a febbraio dichiarò di essere «prontissimo all'arrivo della pandemia» e che era «da razzisti» mettere in quarantena chi arrivava dalla Cina, oppure che le mascherine non servivano, mentre in segreto razziava le poche che c'erano per riempirne gli sgabuzzini di Palazzo Chigi. Sfogliando il libro, perché in onestà non merita il tempo della lettura, si scopre che gli untori sono Salvini e Renzi. I Mattei sono i bersagli preferiti dell'autore. Non perché sono peggio di altri, ma soltanto in quanto i due sono nel mirino del capo di Scanzi, Travaglio. Quando si dice la libertà di pensiero degli intellettuali Per conoscere quel che c'è scritto nel tomo non serve neanche voltare la prima di copertina. È tutto previsto, titolo compreso. Come chiunque, Andrea è libero di attaccare l'asino, ossia se stesso, dove vuole il padrone, che è l'uomo che l'ha inventato giornalisticamente. Bravo lui, che essendo più abile di me nella pratica del killeraggio su commissione, ma per un cane da riporto del suo livello ormai non c'è neanche più bisogno della comanda, è riuscito a fare dello sparare sentenze a capocchia un mestiere redditizio. Grazie a questo è primo in classifica, e ci resterà probabilmente a lungo, come la Juventus. Ha il merito di saper vincere anche quando gioca male e di avere una serie di tifosi per i quali conta solo che lui segni, non importa come. Il suo colpo da campione è l'insulto, ma per fare gol gli basta tirare. A differenza dei rigori di Ronaldo, quelli di Scanzi non necessitano precisione né freddezza; più sgraziati e concitati sono, più bucano la rete del suo pubblico.
“ANDREA SCANZI, IL PRINCIPE DEI CAZZARI”. Francesco Specchia per Libero Quotidiano il 20 giugno 2020. “Più che un saggio deve trattarsi senz' altro di un'autobiografia". Al massimo, di un ardito memoir. Queste sono le briciole di commenti, la scia dei frizzi e dei lazzi che accompagnano l'uscita del nuovo libro di Andrea Scanzi "I cazzari del virus, Diario della pandemia tra eroi e chiacchieroni" (PaperFirst) già primo in classifica su Amazon e già trend topic per la polemica che ne anticipa e surclassa il cotè squisitamente letterario. Molti stanno massacrando il libro di Scanzi prima ancora d'averlo sfogliato. Ma Scanzi -cronista di buon livello, penna aguzza con una pregevole affezione per il teatro canzone di Gaber - ne conosce perfettamente la causa: il titolo dell'opera è un inevitabile motivo di sputtanamento a cui i suoi avversari attingono in queste ore a mani basse. Perché Scanzi, il quale giustamente trasforma la sua prosa in un bazooka contro quei politici che negarono la sottovalutazione del Coronavirus, è in realtà il primo ad avere negato, dello stesso virus, la pericolosità, i drammi sociali, i cadaveri che ne hanno cadenzato il contagio. Il 25 febbraio scorso Scanzi, maestro dei social, indossando occhiali scuri e un giubbotto a metà fra Fonzie e Renzi, postò un accorato j' accuse contro gli allarmisti da Covid: «È una normale influenza, non uccide più di una influenza». E ancora tuonava su Facebook: «Non è una malattia mortale porca puttana di una troia ladra», prendendosela con il "delirio collettivo" sul Covid-19. Che, infatti, poi s' è visto. Anzi, a dire il vero, a quella data, bastava sfogliare bollettini e agenzie stampa per accorgersi dell'escalation della pandemia: i contagiati in Italia erano 322, con già 10 decessi. Era l'inizio dell'isolamento di Codogno e di altri 11 comuni lombardi. Le persone cominciavano a stecchire a grappoli. Eppure, Scanzi affermava che «non è possibile che io veda la gente che non esce più di casa» sottolineando come «l'influenza qualsiasi ce l'ha dello 0,1-0,3%, il coronavirus ha un'incidenza mortale, se va male, ad oggi dello 0,4-0,5%». E ancora: «Non succede una sega nel 99,7%». Mentre Scanzi urlava il suo disappunto, il presidente della Lombardia Attilio Fontana, molto prima di essere trattato come l'umarell che osserva un cantiere istituzionale troppo grande, aveva avvertito la popolazione. Sicché se da un lato ora il web si riempie delle estemporanee recensioni del libro neanche fosse l'ultimo di Philip Roth, dall'altro la stessa rete s' ingolfa di post che attribuiscono all'autore epiteti che variano dalla malafede alla coglioneria. Ora, capita a tutti di dire o fare delle cazzate. Noi giornalisti, in questo, siamo campioni olimpici. E capita a tutti di parlare prima di accendere il cervello, e poi pentirsi, e ripensare e magari scusarsi del pregresso; sul Covid, io stesso seguivo la "scuola Gismondo", dalla virologa del Sacco di Milano che metteva il virus sul piano inclinato d'un raffreddore. Proprio Il Fatto Quotidiano, il giornale di Scanzi, a firma di Alessandro Ferrucci, pubblicò una paginata contro il vizio di dichiarare sul Covid prima di pensare, a opera di "politici, vip e pseudovip"; e non ricordo se, tra le categorie fosse citato Scanzi, ma non ha molta importanza. Ha importanza, invece, che, se magari uno scrive «Sin dall'inizio, il Coronavirus cortocircuita Matteo Salvini. Non che ci volesse molto, ma è evidente come il cazzaro verde appaia in difficoltà: abituato com' è ad attaccare tutto e tutti, si è reso conto -forse - che fare la parte del bullo in tempi di Covid-19 non paga»; be', dovrebbe evitare almeno di proiettare i suoi complessi di colpa junghiani sugli avversari. Non è, diciamo, elegantissimo. Intendiamoci: Scanzi ha ragione sulle amnesie, i finti abbagli, le capriole a cui ci hanno abituati i politici da Salvini (ricordo le sue posizioni sull'istituto del recall sparito dai radar) a Renzi (di lui ricordo tutto il resto). Per non dire della parabola dei virologi in tv, gente che si contraddice reciprocamente in un racconto stordente quasi balzachiano. Scanzi ha ragione sulle amnesie degli altri, ma si dimentica le proprie. E fargli scrivere un libro sui cazzari del virus equivale a far firmare a Gianni Riotta un libro sulla Costituzione (mitica la sua gaffe sull'art.1) o all'ex ministro Gelmini un trattato sui tunnel dal Cern al Gran Sasso, o a Di Maio dei pamphlet geopolitici su Pinochet. Ma Scanzi è troppo intelligente per non saperlo. E il sospetto è che anche le critiche come questa gli producano pacchi di pubblicità gratuita.
Filippo Facci per ''Libero Quotidiano'' il 10 maggio 2020. Spettabile Feltri, vorrei spiegarle perché l' articolo che Lei mi ha chiesto mi mette in una difficoltà imbarazzante. Di norma io rifiuto di scrivere articoli che contraddicano i miei principi morali (ne ho ancora qualcuno) ma non è questo il caso, a dir il vero: qui è peggio, perché Ella mi ha chiesto di scrivere nientemeno che un «ritratto» di Andrea Scanzi, personaggio che da subito avrei difficoltà a definire (giornalista? Opinionista? Egolatra?) e questo dopo che Lei, direttore, ha rifiutato di pubblicare una semplice pagina bianca come le avevo suggerito. La mia prima difficoltà è che per descrivere Scanzi sarei costretto a descrivere un' intera epoca, che è notoriamente un' epoca dove tutto (niente) è comunicazione e le parole sono un flusso inarrestabile e senza vera importanza, ogni gabbia è stata aperta in virtù della «democrazia del web» dove a destra trovi un carpentiere che ti urla «stronzo» e a sinistra trovi Scanzi che te lo urla dalla tv. Si preferisce surfare sulle superfici e non si approfondisce più nulla, se non ogni tanto, sui giornali che ormai leggono in pochi. Mi fermo qui per dire, insomma, che abbiamo i grillini al governo e abbiamo uno come Scanzi opinionista: e mi sembra tutto, perfetto, coerente. Il giornalista non è il mezzo, il giornalista è il fine. Non si guarda il telegiornale: si guarda Mentana. In un campo forse più vicino all' intrattenimento, si guarda Scanzi. Il quale, per come lo conobbi, non mi era neanche particolarmente antipatico. Il problema è che di recente ha detto che lui rappresenta «ciò che io avrei voluto diventare, senza riuscirci», e questo ora mi mette in difficoltà. Procedo lo stesso. La prima volta che ne sentii parlare, è perché parlò male di me in un libro che idolatrava Beppe Grillo. Poi se la prese anche con Giuseppe Cruciani, quello della Zanzara. Ho notato che Scanzi tende a prendersela con chi individua come dei concorrenti non troppo anziani e che non facciano troppo schifo alle donne. Successivamente affiancarono me e lui in qualche duellino verbale su La7, e quando una volta gli feci nettamente il mazzo ebbe l' onestà di ammetterlo: «Eri in forma, accidenti»; «sì, ma ti rendi conto che non abbiamo detto nulla? Nulla», risposi. Poteva anche capitare che vincesse lui. Perché era vacuità, dialettica, parolame, battutine preparate, prontezza di riflessi. In seguito ci ritrovammo sotto lo stesso tetto in un periodo in cui il giornalismo si stava trasformando, cioè eravamo organizzati da una «agente» che tentava di orientare le carriere mia, di Cruciani e di Scanzi: io mi ritirai quasi subito (per la mia ingestibile tendenza a mandare tutti affanculo) e così fece Cruciani, mentre Scanzi rimase con l' agente e con la netta proiezione verso un nulla di grande successo. Buon per lui. Così solo una cosa pare certa, oggi: io, Cruciani e Scanzi figuriamo come «giornalisti» ma facciamo tre mestieri diversi. Ebbene, Scanzi è l' unico che si preoccupa regolarmente di puntualizzare che ad avercelo più lungo è sempre lui. Non tanto rispetto a noi due: rispetto al Pianeta. Da allora, detto senza acrimonia, Scanzi ha lasciato le briglie di ogni sua recondita insicurezza (purtroppo è roba ineliminabile: ha dato forfait anche la psicoanalisi) e così, un tempo, leggevi le grandi firme e ti ritrovavi le dita sporche d' inchiostro: oggi leggi Andrea Scanzi ed eccole sporche di fondotinta. «Siamo la generazione dell' io», ha detto una volta, ergendosi ad archetipo. «Ho un ego che fa provincia» ha rimarcato in un' altra occasione, come se ammetterlo fosse un' attenuante. Tutte cose che si sapevano, dopodiché si tende a pensare che naturalmente ci sarà un limite. No. Non c' è. Scanzi è il più grande celebratore di se stesso che sia capitato di vedere in ogni campo. Lui non lascia o non provoca che circolino voci su di lui. Le dice direttamente. Donne? Lui ne ha avute di «meravigliose» (io ne ho viste solo due, serberò il mio giudizio) e per il resto si è immerso nella peggio schiuma dell' effimero: ha risposto a domande sulla sua abbronzatura, sulle lampade solari, sul fondo tinta televisivo, sul gel autoabbronzante, ha raccontato di andare dall' estetista, ovviamente i suoi gusti sessuali (cose di piedi e di sandali) e insomma una vita così, tra una bulimia mediatica e l' altra, e nuove campagne, nuove manie. Twittò nel 2015: «Sempre più fiero di essere vegetariano, sempre più atterrito da una crudeltà così smisurata». Io però me lo ricordavo nella primavera passata da Cesarino, in centro a Perugia, a scofanarsi quintali di carne in un ristorante specializzato in carne. Poi forse aveva cambiato idea. Più di recente si è inventato la passione per la corsa (come Cruciani) ma ha fatto ridere tutti gli appassionati d' Italia pretendendo d' aver registrato sulla distanza della mezza-maratona (21km) un tempo degno del record italiano della categoria senior, suscitando l' ilarità degli addetti ai lavori. E fatto così: oltretutto ha le gambe a X. Un altro esempio? Forse saprete che la stringatezza nel descriversi (tipo nei risvolti dei libri) è sinonimo di eleganza e di consapevolezza; bene, guardate che cosa scrive, tra un milione di altre cose, Scanzi di se stesso: «Mi occupo di quasi tutto...cultura e spettacoli, sport, politica, costume, sociale, enogastronomia e (ove possibile) sadomaso. Sono, tra le altre cose, sommelier degustatore ufficiale (AIS) e assaggiatore di formaggi (ONAF). Sono anche vegetariano... Sono stato tra i primi in Italia a credere nella letteratura sportiva, a raccontare il percorso politico di Beppe Grillo e a fotografare il renzismo... Sono stato il padrino della maratona di Alba». Scanzi è uno di quelli che accetta i premi giornalistici senza imbarazzi, anzi, nella sua lunghissima biografia su internet elenca anche i noti premi Galvanina, Casentino, Pigro, Lunezia e Caccuri. Scanzi non ha figli, ma in un' intervista a Vanity Fair ha offerto il fianco a una possibile resipiscenza: «Mi dispiacerebbe non continuare la stirpe Scanzi». Troverà un' incubatrice all' altezza? Descrivere tutto il resto è inventariare il suo legittimo iperattivismo. Su wikipedia (chissà chi ha scritto le varie voci) apprendiamo che è pubblicista, ha scritto per Il mucchio selvaggio, il manifesto, Il Riformista, L' Espresso, Panorama, MicroMega, Linea Bianca, Tennis Magazine, Grazia e Donna Moderna, La Stampa, Il Fatto Quotidiano (politica, musica e sport), autore e interprete di spettacoli su Giorgio Gaber e Fabrizio De Andrè, vari eroi dello sport, trasposizioni di suoi libri (come Travaglio) e naturalmente ospite pagato per La 7 e Rai3. Come conduttore non ha lasciato segni indelebili (Reputescion, Futbol, The Match, Accordi&Disaccordi e altra roba che vabbeh). Il punto è che l' insulto non propriamente raffinato è la sua regola, requisito utile per piacere al ventre molle del Paese. Costantino della Gherardesca ha parlato del suo «look da vecchio discotecaro morto di figa» ma io sono stato più gentile: l' ho definito un insaziabile «grimpeur». Sta di fatto che passa giornate a contare i «like», la classifica del libretto, i seguaci, i follower e quant' altro come nessuno al mondo che non sia un bimbominchia di 12 anni. Uno così non si è visto mai, sul serio. A Briatore, seguito ogni mese da 20 milioni di persone, Scanzi ha detto che «non l' ascolta nessuno». Naturalmente dice un sacco di cazzate: tra le più note c' è il video-sfogo del 25 febbraio contro i suoi colleghi che dedicavano troppo spazio al Coronavirus: «Basta», urlava avvolto in un giubbino di pelle, «lo volete capire o no che si tratta di un semplice raffreddore? Non è una malattia mortale, ma quale pandemia!». Il Fatto Quotidiano, in un articolo che annoverava chi le aveva sparate più grosse sull' innocuità del virus, si è dimenticato di citarlo. Ora è tra i più strenui difensori dell' attività di Giuseppe Conte nel contrasto al morbo, come Travaglio ordina. Durante una delle ultime puntate di Accordi e disaccordi su La9 (soprannominato «Accordi senza disaccordi») il giornalista Luca Sommi intervistava il premier Giuseppe Conte. A terra - forse una trovata dell' arredatore - c' era un tappeto piallato per benino, tipo pelle di leopardo senza unghie: era Andrea Scanzi. Emilio Fede - e non stiamo scherzando - proprio ieri ha detto di aver forse individuato in Scanzi un suo erede: con idoli diversi, certo, ma stesso stile.
LA RISPOSTA DI SCANZI SU INSTAGRAM. Gioiamo tutti: Libero, il giornale che si prende in giro sin dal nome, mi sbatte un'altra volta in prima pagina. Troppa grazia: non son degno! A novembre a scrivere il pezzo fu renato farina, l'ex agente Betulla amico. Stavolta è toccato all'uomo che si pettina coi petardi, filippofacci: se continuano così, immagino che il prossimo articolo me lo dedicherà il mostro di Milwaukee. L'articolo, a tutta pagina, è la consueta colata lavica rosicante di facci. Viva! Per chi non lo conoscesse, cioè tutti, filippofacci è l'ex postino del latitante Craxi. La sua carriera ebbe un rigurgito di fama nella seconda metà degli Anni Zero, quando viveva in tivù nel ruolo di anti-grillino comicamente querulo al soldo di Mediaset. Già allora sfoggiava quel bel musino torto, montato credo da un mastro ferraio sadico, e vantava quelle graziose meches da fidanzato vagamente eunuco di Kiss Me Licia. Poi è caduto nel dimenticatoio, e oggi viene usato al massimo come controfigura di Meluzzi quando i 47 ospiti precedenti hanno detto di no. Un calvario straziante. Filippo Facci ha scritto un libro sulle donne, che è come se Gasparri scrivesse un saggio su Einstein, registrando un record di vendite paragonabile all'unplugged di Povia a Ciggiano. Ha partecipato a un oscuro reality sugli scalatori, che ovviamente nessuno ha visto, facendo ridere tutti gli scalatori veri. Bisognoso di visibilità come un Cruciani che non ce l'ha fatta, vive di polemiche meschine che reitera per avere tre like e quattro haters in più. Giocando poi al martire su TeleSugna. Di recente è arrivato ad attaccare (anche dopo la sua morte) perfino Nadia Toffa, che secondo lui non aveva il diritto di parlare di cancro. Più che un uomo, un caso umano allo stato brado. Grazie filippo! Con questo post ti ho reso famoso per cinque minuti: vantatene con la buonanima del tuo povero tricologo. Ti siano lievi le doppie punte!
· Anna Billò.
Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 30 ottobre 2020. Alla prima puntata di Champions League Show , il 20 ottobre su Sky Sport, è andata in soccorso di Paolo Condò che non ricordava il nome del terzino ucraino Vitalij Mykolenko: «È la fortuna di aver fatto tanta Europa League con Lele Adani, è lui il super esperto. Magari la prossima volta non ho la stessa prontezza!». Dopo quel debutto, il giudizio che temeva di più era di Tiago e Tomas, i figli di quasi nove e sei anni: «Sono sempre molto attenti, mi dicono se sono vestita bene, sorridente o preoccupata. Più precisi di una scheda tecnica, la loro impressione conta perché non hanno filtri». Aver preso il timone da Ilaria D' Amico non le ha creato ansia da prestazione: «Considero questa conduzione un passaggio del mio percorso: lavoro in Sky da 16 anni. In passato mi sono sempre criticata molto, ma quando sono diventata mamma ho capito che dovevo ridurre lo stress. Ho la fortuna di fare un lavoro che è la mia passione, devo solo cercare di farlo al meglio senza darmi voti». Dalla collega che ha sostituito, però, non ha ricevuto alcun messaggio: «Ma la conosco, ha un rapporto pessimo con il telefono. Per me Ilaria è stata un grandissimo esempio, la trovo una professionista pazzesca, sempre pronta e charmante ». Anna Billò, 43 anni di Carate Brianza, papà Angelo operaio e mamma Elena commessa, al telefono da Milano conferma l' impressione che dà ogni martedì e mercoledì prima e dopo le partite di Champions circondata da Alessandro Costacurta, Fabio Capello, Esteban Cambiasso, Alessandro Del Piero e Condò: è competente, umile, generosa. Le domande ama più farle che riceverle, come si capì bene il giorno in cui il fidanzato Leonardo Nascimento de Araújo - ex campione del Milan - le chiese di sposarlo alla fine dei sorteggi dei quarti di Champions in diretta tivù. Era il 15 marzo 2013. Due figli e qualche trasloco dopo, del marito dice: «Sento davvero il suo orgoglio per le cose che faccio: non era scontato. Soprattutto, ha capito che per me il lavoro sarebbe rimasto un punto fermo, anche dopo la nascita dei bambini: si rende utile banalmente anche nell' organizzazione quotidiana, non mi fa mai mancare il suo appoggio». Anna fa la pendolare tra Milano e Parigi, dove Leonardo è direttore sportivo del Paris Saint-Germain. «Parto il lunedì e torno il giovedì. Ho cercato di avere un' organizzazione che funzioni anche quando non ci sono. Ma quando sono a Parigi, i bambini li porto io a scuola o a fare le attività. Compatibilmente con i suoi impegni, lo fa anche Leo. E poi tante video chiamate!». Da bambina aveva l' album Panini e oggi lo completa con Tiago e Tomas. «Loro sono molto fortunati. Quando ero piccola io dovevo scambiare le figurine con gli altri e affannarmi per finirlo». È golosa di tiramisù, appassionata di musica italiana da Vasco Rossi a Laura Pausini, l' ultimo libro che ha letto è Cambiare l' acqua ai fiori di Valérie Perrin. Nel suo curriculum figurano pure due prove da attrice, ma giura di non avere ambizioni artistiche: « L' allenatore nel pallone 2 , del 2008, nasceva da una collaborazione con Sky. In C'è tempo, del 2019, è stato Walter Veltroni a volermi e per lui ho indossato i panni di un giudice: avendone grande stima non potevo dirgli di no, mi ha divertito, ma non è il mio mondo». Durante la prima ondata del coronavirus tutta la sua famiglia si è ammalata. «Ha cominciato il piccolo, poi io e Leo e per ultimo il grande. Questa cappa ti fa sentire l' incertezza, ma sono sentimenti che proviamo tutti, in ogni Paese». Se le chiediamo chi vince la Champions non ha dubbi: «Oggi direi il Bayern Monaco: ha dimostrato una forma incredibile. Però la Champions è una competizione pazza, fino alle ultime giornate riserva sorprese».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 23 ottobre 2020. Competenza, modestia, essenzialità. Anna Billò, con quella sua aria di entrare sempre in punta di piedi nelle cose che fa, ha dato una svolta a «Champions League Show», il programma sportivo di Sky che segue le partite delle squadre più forti d' Europa. Soprattutto ha mantenuto le promesse della vigilia, quando dichiarava: «Non mi porrò da protagonista, darò voce alla partita, agli ospiti La carta stampata mi ha insegnato l' utilizzo delle parole e i tempi di scrittura, la radio mi ha dato modo di pensare in diretta senza preoccuparmi del capello. In tv la possibilità trasversale di stare in studio e dietro le quinte». È così: la trasmissione appare priva di fronzoli, la conduttrice non ha bisogno di farsi sparare addosso tutte le luci come una maschera, la vita personale rimane fuori dallo studio.È vero che in questo viaggio è accompagnata da una comitiva ragguardevole (Alessandro Costacurta, Paolo Condò, Fabio Capello, Esteban Cambiasso e Alessandro Del Piero) ma il pregio più grande è proprio quello di togliere a «Champions League Show» quell' aria da bar, da circolo di fanatici, da maschi infoiati per il calcio che hanno altre trasmissioni analoghe. Per una volta, anche grazie alle partite, si vive in un' atmosfera più internazionale, il tifo non si manifesta con le solite ipocrisie. Anna Billò non ha cominciato facendo la valletta, o qualcosa di simile, ma ha fatto la sua brava gavetta a bordocampo, ha scalato quello che c' era da scalare. Perciò, non dovrebbe più fare notizia o suscitare stupore che molte donne sappiano raccontare lo sport meglio degli uomini. Lo sanno fare per preparazione, per garbo e per quel tocco di leggerezza che costringe a non prendersi mai troppo sul serio. Per ora, la trasmissione è sempre sul pezzo ed evita quel peccato di autoreferenzialità che è il vero virus della televisione.
Michela Tamburrino per la Stampa il 20 ottobre 2020. Esce dallo stereotipo, Anna Billò. Lo fa con ironia, cultura, grande competenza calcistica acquisita sul campo. Elementi indispensabili per poter giocare da vincente come giornalista sportiva bionda e bella, sposata con un ex calciatore famoso come Leonardo, oggi dirigente sportivo: una vita che la porta a dividersi tra Parigi dove abita e Milano dove lavora. Anna ha un Palmares da fare invidia, 16 anni di gavetta a Sky Sport, i primordi al Corriere dello Sport e in radio e tanta Europa League. Ora prenderà il posto di una fuoriclasse come Ilaria D'Amico alla conduzione di Champions League Show, lo studio pre e post partita della Champions in onda su Sky Sport, con tutte le interviste ai protagonisti prima e dopo i match. Accanto a lei, Alessandro Costacurta e un dream team composto da Paolo Condò, Fabio Capello, Esteban Cambiasso e Alessandro Del Piero. Al via stasera con la fase a gironi, su Sky Sport e in streaming su NOW TV.
Billò, entrerà con la maglia che fu di D'Amico. Come adatterà il programma alla sua personalità?
«Ilaria è un talent, io sono una giornalista entrata in Sky da praticante. Non mi porrò da protagonista, darò voce alla partita, agli ospiti. Al mio fianco avrò Mister Champions Costacurta e tanti altri campioni sul campo».
Promossa sul campo dopo gli anni di Europa League.
«Sì, alla fine la gavetta è stata riconosciuta. La carta stampata mi ha insegnato l'utilizzo delle parole e i tempi di scrittura, la radio mi ha dato modo di pensare in diretta senza preoccuparmi del capello. In tv la possibilità trasversale di stare in studio e dietro le quinte».
Perché a condurre trasmissioni sportive non c'è mai una brutta? Cominciò la Clerici e a seguire una carrellata di bellone fino a D'Amico, Leotta, lei stessa.
«Succede in tutto l'ambito televisivo. L'impatto in video serve».
Lei è nata a Carate Brianza ma si è laureata in sociologia a Roma. Come ricorda quegli anni?
«Come i più divertenti della mia vita, da studentessa fuori sede. Ho adorato Roma, la prima casa da sola, i primi passi con le mie gambe, le piccole radio locali».
Lei ha due figli da Leonardo, sposando oltre a suo marito, il cliché contemporaneo: la giornalista con il calciatore, stile D'Amico-Buffon. «E no, sarei stata comunque fuori tempo. Io e Leonardo ci siamo incontrati da vecchi a livello anagrafico, così abbiamo evitato lo stereotipo. Anche perché Leonardo non era più neanche calciatore ma un dirigente. È stato molto paziente, io lo schivavo per tutte le connessioni con quel mondo che non volevo fuori dal lavoro. Poi piano piano mi ha conquistata».
Molto si parla della domanda di matrimonio fatta in diretta stile Fedez-Ferragni. Imbarazzo mondiale?
«Di più. Ma eravamo collegati e non faccia a faccia. Ero stupita, noi due siamo gelosi della nostra privacy, non era nel suo stile. Mi sono sentita morire, tendo a non voler ricordare. Mi imbarazza ancora».
Lei ha avuto il Coronavirus come tutta la sua famiglia. Un'esperienza devastante. Come l'ha vissuta?
«L'abbiamo avuto durante il lockdown. Ce lo ha passato il più piccolo dei miei figli, quando si diceva che i bambini ne erano quasi immuni. Abbiamo avuto la fortuna di avere un medico sempre collegato e di non aver avuto problemi respiratori. Leggevo e cercavo di cucinare, mi piace molto. Ma è durata moltissimo, ero malandata e preoccupata».
Ha cambiato qualcosa della sua vita, dopo?
«Non è vero, come si dice, che poi si ristabiliscono le priorità. Ci pensa la vita a riportati alla normalità. È vero che non bado più alle ansie da perfezionista che mi assillavano, penso all'oggi in positività. Respiro e vivo».
· Augusto Del Noce.
Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 30 marzo 2020. «Certo i cattolici hanno un vizio maledetto: pensare alla forza della modernità e ignorare come questa modernità, nei limiti in cui pensa di voler negare la trascendenza religiosa, attraversi oggi la sua massima crisi, riconosciuta anche da certi scrittori laici». Questa è una delle risposte date all' intervista su Il Sabato nel giugno del 1985 a proposito della «scristianità» dal professor Augusto Del Noce, filosofo e padre di Fabrizio, giornalista, politico e dirigente pubblico (è stato il più longevo direttore di Rai1). Ed è in questo contesto culturale ed umano che Fabrizio Del Noce cresce e sviluppa la propria formazione umana e culturale. Lo raggiungo telefonicamente, io in Italia e lui in Portogallo, legati da un destino comune dettato dal Covid-19 che ci obbliga, a livello planetario, a rimanere ognuno nelle proprie dimore.
Suo padre è stato un grande filosofo moderno, quanto ha influito la sua presenza nella formazione umana?
«Penso tanto, anche se eravamo molto diversi. Mio padre ha sempre rispettato le mie scelte anche perché certi mestieri si trasmettono per vocazione non per sangue; così è stato, lasciandomi molto libero ha contribuito a fondare il mio grande senso di libertà che cerco di trasmettere ai giovani».
I giovani d' oggi sono simili ai giovani della sua epoca?
«Io noto che i giovani d' oggi appartengono ad una generazione profondamente differente dalla mia. La generazione del '68 nasceva da un substrato comune che era dato dalla lettura dei libri, dalla cultura che avevano un valore predominante. Oggi tutto questo è soppiantato dai social che apparentemente avvicinano ma in realtà allontanano».
In che periodo storico stiamo vivendo? La nostra è sempre più una società nichilista?
«Certo. All' interno della Chiesa molte cose mi lasciano perplesso. Si va più verso una religione dell' umanità che verso una religione trascendente. Anche se non sarà "politicamente-corretto" dirlo questa attenzione del Papa ai migranti lo rende più vicino al ruolo di un segretario dall' Onu che al Santo Padre questo lo dico con il dovuto rispetto che un cattolico deve al Papa. Ricordo con devozione Paolo VI che ribadiva la presenza reale di Cristo nella eucarestia e nello stesso tempo una presenza altrettanto reale del Demonio sulla terra. Siamo sempre più immanenti e sempre meno spirituali».
La sua è una critica a Bergoglio?
«Tanti gesti non li capisco, il Santo Padre non necessariamente deve essere come uno di noi, immanente, ma diversamente deve essere trascendente e spirituale».
Lei è stato inviato in Medio Oriente negli anni 80 e 90, pensa che sia cambiato in questi ultimi anni?
«Non lo frequento più e quindi le cose le vedo in modo diverso ed adesso leggo quello che scrivono gli altri. Un' analogia è nella facile profezia che in Medio Oriente non si arriverà, in questo momento, a nessuna pace stabile ma solo ad intervalli tra guerre. In politica mai dire mai ma non vedo uno stato di Israele accanto a quello palestinese indipendente».
Lei, insieme al giornalista del Manifesto Stefano Chiarini fu l' unico ad essere in Iraq quando esplose la Guerra nel Golfo. Cosa ricorda di quel periodo?
«Bush voleva creare nuovo ordine mondiale mentre Gorbaciov non aveva più la forza di contrastarlo; in questa situazione Saddam ha voluto entrare in un gioco più grande di lui ed è stato per qualche mese al centro della politica mondiale. Saddam però rifiutò proposte di mediazione, in primo luogo venute dalla Francia, e una volta scoppiata la guerra, non accettò l' ultimatum di Bush che lo invitava a lasciare il Kuwait per salvare la sovranità dell' Iraq. I politici spesso sono in ritardo nel cogliere il momento esatto per una scelta favorevole».
C' è un' immagine del periodo che ricorda?
«La foto con Saddam mentre lo intervistavo mi fa tuttora effetto perché anni dopo è stata trasmessa in mondovisione la sua esecuzione; cosa che nemmeno per gli imputati del processo di Norimberga che, pur giustiziati, non subirono il pubblico ludibrio».
E che consiglio darebbe ad un politico per essere contemporaneo ma visionario?
«Regalerei una frase di Aristotele "in politica crea più danni chi insegue l' eccesso da chi agisce in stato di necessità"».
Il suo impegno in politica come nacque?
«Nacque perché in Rai, che è stata sempre politicizzata, non si intravedevano schiarite per rientrare in prima linea. Pensi che dopo Baghdad la Rai mi regalò un piatto d' argento per il mio impegno e poi solo due anni dopo, quando ci fu l' incontro tra Rabin, Clinton e Arafat (trasmesso a reti unificate) non venni chiamato nemmeno per un intervento. A quel punto mi candidai e fu una bellissima esperienza».
Il suo ritorno in Rai portò un po' di polemiche come quella su Biagi: tolse il programma il Fatto, era il prologo dell' editto bulgaro?
«Assolutamente no. Quella trasmissione, che durava dieci minuti, non poteva contrastare Canale 5 con Striscia la notizia. C' erano quindici punti di share di differenza che diventavano irrecuperabili nella fascia di prime time che va dalle 20.30 alle 22.30. Così portai Bonolis con "i pacchi" ed iniziammo a vincere».
Accordo Bonolis-Rai siglato grazie a Lucio Presta...
«Presta è un uomo che conosce la televisione ed è estremamente corretto. Anche adesso abbiamo un rapporto di amicizia; con lui siamo legati da una straordinaria scommessa».
Quale?
«Quella che portò Benigni su Rai 1 con l' ultimo del Paradiso. La sfida di portare Dante in 1ª serata con 12 milioni di ascoltatori e il 52% di share cementa e lega le persone anche umanamente. A Rai 1 mi sono trovato bene con molti artisti e, come produttori, con i fratelli Bassetti, Giorgio Gori ed il compianto Bibi Ballandi».
Lei vive in Portogallo: che futuro vede per il nostro paese?
«Le rispondo con una frase di Leo Longanesi "Gli italiani sono buoni a nulla ma capaci di tutto».
· Barbara Palombelli.
Laura Rio per ''il Giornale'' il 31 agosto 2020. «Montanelli mi chiamò mentre stavo conducendo la rassegna stampa su Radio 3. E, in diretta, mi chiese di scrivere quello che stavo dicendo sul suo Giornale il giorno dopo. Per me fu un premio enorme. Avevo amato pazzamente i suoi libri e i suoi articoli, ma non lo conoscevo di persona. Poi ci siamo incontrati tante volte: mi invitava a pranzo all' Assassino a Milano. Lui mangiava solo pere e parmigiano. Anch' io ora, quando lavoro, faccio lo stesso». Parte dal ricordo del fondatore del Giornale la chiacchierata con Barbara Palombelli. Su di lei si potrebbe scrivere un' enciclopedia: quarant' anni di giornalismo tra radio, carta stampata, televisione, libri e quasi (a ottobre) 67 anni di vita tra quattro figli, di cui tre adottati e un marito «di peso», Francesco Rutelli. Anchorwoman da record, di ascolti e di presenza in video (700 ore nella scorsa stagione tv secondo il calcolo di Sorrisi e Canzoni), a guidarla da sempre è l' insegnamento che le ha lasciato il leggendario Indro: «Fregatene degli editori e rispondi solo al tuo pubblico». Così, spirito ribelle fin da bambina, ha fatto dell' anticonformismo la sua linea guida, evitando con maestria l' ortodossia «de sinistra». Dopo anni di lavoro a Repubblica, ha un approccio laico al fenomeno Salvini. Sposata con un avversario storico di Berlusconi, non ha mai snobbato le sue reti. E a Mediaset tornerà tra pochi giorni: alla guida di Forum dal 2 settembre su Canale 5 e a quella di Stasera Italia, la striscia quotidiana serale di approfondimento, dal 14 su Rete 4.
Barbara, sarà un rientro molto complicato.
«Per il Paese e per tutti. In questi mesi ho visto due Italie: quella che ha affrontato il lockown con serietà e disciplina e quella che si è lasciata andare nelle ultime settimane. Io sono un' ultrasessantacinquenne e mi fanno arrabbiare i comportamenti irresponsabili».
Ti sei offerta come cavia per il vaccino che stanno testando allo Spallanzani di Roma «Certo. E non capisco perché questo possa creare scandalo. La mia non è una provocazione: io ho seriamente paura, temo più il virus delle possibili controindicazioni. Ho fiducia nei medici, anche perché vengo da una famiglia di illustri pediatri. Mi sono messa in lista, anche se dubito mi chiameranno».
Hai dovuto interrompere Forum a metà marzo per il virus, ora come si riparte?
«Innanzitutto sono stata molto contenta che le repliche del programma andate in onda in quel periodo abbiano avuto un grande ascolto. Forum è una trasmissione popolare che ti mette in contatto con la gente vera, al di là degli snobismi di chi si chiude nelle torri di avorio. Ora ripartiamo con il pubblico in studio molto ridotto, una nuova scenografia e regole ferree. I nostri spettatori potranno collegarsi da casa. Abbiamo inventato anche la figura dell' avvocato d' ufficio per rappresentare chi non può o ha paura di venire. Per Stasera Italia è più semplice, avendo pochi ospiti in studio: saremo di nuovo in prima linea sui temi della pandemia».
Tornando a Montanelli, che pensi delle ultime polemiche sul suo passato coloniale e la ragazzina «sposata» in Africa?
«Era un uomo pieno di ironia: la sua statua imbrattata con la vernice? Ci avrebbe riso su, anzi sarebbe stato il primo a sfregiarla. Non avrebbe voluto alcun monumento, né giardini intitolati. Per lui tutto questo era muffa, come le sterili polemiche di chi si riempie la bocca col politicamente corretto».
Tu dici cose che in certi ambienti sono proibite.
«Non mi faccio condizionare dai pregiudizi ideologici. Prima di leggere Montanelli, è stato mio padre a regalarmi lo spirito critico: era un liberale antifascista e ha visto in azione la parte ipocrita della resistenza partigiana. Mi diceva sempre ricordati che Roma l' hanno liberata gli americani. Mi ha vaccinato contro tutti i radicalismi. A casa mia si leggevano tutti i giorni il Messaggero e Paese Sera».
Non temi neppure di sposare argomenti cari alla destra.
«Io ho fatto dell' accoglienza una ragione di vita, adottando tre bambini, di cui uno, Francisco, di colore, nato in Ecuador. Ma domando a tutti come si risolve il problema dell' immigrazione. Si deve accogliere nella legalità perché altrimenti gli italiani che vivono in condizioni disagiate nelle periferie non capiscono. Non si tratta di razzismo, ci vogliono regole ferree: se chi nasce in Italia va a scuola per 13 anni, anche chi arriva dall' estero deve studiare. Ancora non comprendo perché si nasconda la questione sotto una nuvola di buonismo: sono 30 anni che aspettiamo risposte concrete dalla sinistra. E dunque è naturale che la gente si rivolga a chi solleva questi temi come Salvini, anche se poi lui li rigira pro domo sua».
Quindi ti auguri che questa esperienza di governo finisca?
«Questo governo è nato perché bisognava bloccare le spinte sovraniste non solo in Italia ma anche in Europa. Ed è andato avanti perché Giuseppe Conte è stato ampiamente sottovalutato dagli alleati e dagli avversari e invece si è dimostrato un grande lavoratore. Ora non ci possiamo permettere una crisi politica e, anche grazie all' arrivo dei fondi europei, credo che la maggioranza abbia buone probabilità di reggere».
Il tuo spirito libero ti ha fatto chiudere in faccia diverse porte. Hai cambiato molte aziende: dalla Rai al Corriere a Repubblica passando per L' Europeo di Pirani e Panorama di Rinaldi.
«Da Domenica In nell' 87 mi cacciarono perché Mastella non apprezzò un' intervista che feci a Ciriaco De Mita uscita su Panorama. Da Raitre nel '94 mi fece mandare via Letizia Moratti perché voleva mettere in difficoltà Angelo Guglielmi. Dal Corriere nel 2006 mi licenziò Paolo Mieli facendomi mandare una raccomandata anonima: non ho mai capito il motivo e non gliel' ho mai chiesto, ma anni dopo abbiamo fatto pace. Da Repubblica nel 2000 me ne andai io perché mio marito si candidava alle elezioni politiche contro Berlusconi. Ma alla fine benedico ogni rottura perché si è trasformata in qualcosa di positivo che mi ha dato l' occasione per cambiare».
Alla fine sei approdata a Mediaset, nonostante ti sia schierata spesso contro il suo fondatore.
«A Mediaset ho trovato più libertà che in qualsiasi altra azienda in cui abbia lavorato. Quando stavo a Radio2 ho intervistato molte volte Berlusconi facendogli tutte le domande che andavano fatte e già in quel periodo collaboravo con Mediaset».
La tua è serenità d' animo o avventatezza?
«Non porto rancore perché è troppo faticoso, uno spreco di energia. Durante il lockdown, senza l' impegno di Forum, mi sono immersa nella lettura del Talmud: ogni riga ti insegna ad analizzare le sfaccettatura delle cose che ti capitano finché non trovi quella positiva. Mi sono avvicinata al Talmud perché stavo leggendo la biografia di Woody Allen e lui lo cita spesso. Il caso di Allen mi fa rabbrividire: il MeToo è uno di quei movimenti partito da una giusta causa e trasformatosi in una caccia agli stregoni. Se una donna subisce una violenza la deve denunciare entro pochi giorni, non anni dopo».
Anche tu hai raccontato di essere stata molestata da ragazza.
«Parecchie volte: ho preferito tenermelo per me e ancora oggi incontro quelle persone che fanno finta di nulla».
Anche da bambina eri così ribelle?
«Ero una peste. Ho fatto cose terribili: non so come sono riuscita a sopravvivere. Giravo in motorino senza casco, mi sono schiantata due volte, rischiando di morire. Il mio unico scopo, a 13, 14 anni era uscire di casa. Mi inventavo qualsiasi cosa: dicevo a mia madre che andavo in giro a fare interviste su Dio per conto dei Padri Gesuiti e invece correvo in centro a Roma a comprare il rimmel. A 16 anni guidavo la macchina senza patente».
Ma ai tuoi figli hai permesso queste libertà?
«Beh, i miei tre figli adottivi (Francisco, 32 anni, Serena, 30 e Monica, 27) dovevano pensare a ben altro che a ribellarsi. Fin dalla nascita hanno dovuto sopravvivere alle loro situazioni familiari. Ora sono grandi e hanno preso la loro strada, anche la più piccola non vive più con noi. Ho cercato di allevare tutti e quattro (compreso Giorgio, il primo figlio, 37 anni, attuale vice direttore di Dagospia) in piena autonomia. E sono orgogliosa di loro».
Serena, che hai adottato insieme alla sorella Monica, grazie alla partecipazione al Grande Fratello ora è quasi più famosa di te e di Rutelli.
«E va bene così. È stato molto difficile convincere Francesco. Lei me lo chiedeva da dieci anni. Ci ha aiutato anche il parere dello psicologo che l' ha sempre seguita. Alla fine è stata un' esperienza importante che l' ha aiutata a consolidare la sua autostima».
Quarant' anni insieme a Rutelli. Come si sopravvive a un matrimonio così lungo e con un personaggio così ingombrante?
«Siamo ancora sorprendentemente felici e innamorati. Non è stato facilissimo stargli accanto ma il segreto è lasciare libero l' altro di dire e pensare quello che vuole. Anche dall' esterno siamo stati percepiti fin da subito come due entità diverse».
Dopo aver lavorato in tv, radio, carta stampata, che vorresti fare ancora?
«Magari scrivere una serie tv.
Chissà che un giorno non lo faccia. D' altronde ho quasi 67 anni, potrei anche andare in pensione se non fosse che, come diceva Baudelaire, lavorare è meno noioso che divertirsi».
Maria Berlinguer per ''La Stampa'' l'8 giugno 2020. «Abbiamo avuto una media di 5,5 di share, un punto più dell'anno scorso ma non sono una fissata con gli ascolti e poi in questa stagione drammatica gli ascolti della politica sono andati bene tutti, la gente aveva bisogno di capire, è cresciuta Raidue ma anche La7. In più banalmente non ci sono state le partite alle 20,30, e lo dico come appassionata di calcio e della Roma, una fede che non si discute, se vendono pure Zaniolo mi sparo però resto qui». Barbara Palombelli ha da poche ore rinnovato il contratto con Mediaset per altre due stagioni di Forum, programma che conduce da otto anni, e per Stasera Italia, striscia preserale di informazione politica in concorrenza con Otto e mezzo, programma di punta de La7 guidato da Lilli Gruber. Una sfida tutta al femminile.
Come vive la concorrenza?
«Con Lilli ci conosciamo da una vita, sono stata anche un suo autore. Era il periodo dell'euforia per Mario Segni, il '92, con Massimo Franco abbiamo firmato, "Al voto, al voto". Poi lei è stata a lungo all'estero, ma abbiamo sempre avuto un buon rapporto. "Otto e mezzo" l'ho persino condotto con Giuliano Ferrara. Tra noi non c'è rivalità, ci incontriamo dal parrucchiere, Roberto D'Antonio, condividiamo l'interesse per la politica e probabilmente anche dell'altro. La nostra sfida non è con lei che va in onda da tanto e può contare sul formidabile traino del Tg di Mentana, secondo me uno dei migliori. Ma con il pubblico. L'anno scorso Piersilvio ci ha chiesto di cambiare la natura di Retequattro, mi sembra che ci siamo riusciti».
Un passaggio difficile?
«Sì. La rete ha un ascolto molto trasversale, noi, e penso soprattutto al capo progetto, Alessandro Usai, senza risse, senza comici e senza trucchi abbiamo cercato di spiegare quello che succedeva andando sempre in diretta. Siamo stati critici con il governo giallo verde e altrettanto lo siamo stati con quello Zingaretti-Di Maio. Certo quest' anno è stato tutto molto più difficile. Con il virus. Quando riscriveremo la storia di questi mesi il calendario sarà importante per capire cosa è successo».
In che senso?
«Ci hanno preso in giro tutti a febbraio quando ho cominciato a chiedere di stare a casa e indossare le mascherine. Era il 23, il 27 Sala e Zingaretti hanno organizzato gli aperitivi con lo slogan Milano non si ferma. E le stesse cose dicevano Salvini e Renzi. Un messaggio devastante per il Nord che infatti è partito in massa per la settimana bianca. Era il periodo in cui si postavano foto mangiando gli involtini primavera per dimostrare di essere amici dei cinesi, per carità non è che ce l'ho con i cinesi, ma diciamo che mi sono sembrate cose fuori luogo. Sono stata preveggente? No, ma sono una fifona e per fortuna ho capito la tragedia che stava capitando grazie a Melania Rizzoli che mi inviava gli algoritmi dove si vedevano i centomila contagiati in prospettiva e all'oncologo milanese Garbagnati che ci ha accompagnato per tutta la stagione. All'inizio tutti facevano ironia sul virus. Bisognerà ricostruire giornalisticamente quelle due settimane, per vendicare e risarcire tutte quelle persone che sono morte da sole. Noi la mascherina l'abbiamo cominciata a usare il 20 febbraio, lo rivendico».
C'era chi allora diceva che la mascherina non andava usata, anche nel governo e tra gli esperti. Persino l'Oms lo sosteneva.
«Per questo penso che sarà importante capire le responsabilità di ciascuno. Le Regioni dovranno fare un censimento per tutelare le persone a rischio. Vaccinandole. Soprattutto se ci sarà una seconda ondata. Non credo molto alla app immuni. Ho appena letto uno studio dell'Accademia dei Lincei sui tedeschi. Certo hanno tante terapie intensive ma lì la popolazione sopra i 65 anni è tutta doppiamente vaccinata per l'influenza e lo pneumococco».
C'è qualcuno che ha rifiutato un suo invito?
«Mi sarebbe piaciuto avere Conte. Ma va poco ospite, preferisce le conferenze stampa. Per il resto direi di no, sono venuti tutti quelli che abbiamo invitato».
Quattro figli, dei quali tre adottati, due nipoti di 2 e 8 anni, un marito, Francesco Rutelli, ex sindaco di Roma e ora presidente dell'Anica con il quale sta da 41 anni. "Abbiamo messo su un circo" ha detto suo marito della sua famiglia. Come ha fatto a sopravvivere e a lavorare?
«Sono molto organizzata e ho sempre usato le tecnologie. Desideravo una famiglia numerosa e dopo la prima adozione di Francisco che è andata da subito molto bene ho convinto Francesco. È stata dura certo. Ma anche divertente e ce l'abbiamo fatta. Con mio marito sono andata a convivere dopo appena una settimana, stiamo insieme da quarant' anni. Forse perché non mi sono chiesta quanto sarebbe durata o perché ci siamo lasciati in pace. Però questo tempo è volato».
· Bernardo Valli.
Da professionereporter.eu il 15 settembre 2020. Bernardo Valli, definito da Repubblica cinque mesi fa, “il più grande reporter di guerra italiano della seconda metà del Novecento”, lascia Repubblica. Il 15 aprile ha compiuto 90 anni. Dalla sua casa parigina di rue Chaptal, nono arrondissement, ha scritto una lettera secca al direttore Maurizio Molinari. Per dire addio. Nella lettera non lo spiega chiaramente, da gentiluomo. Ma il nuovo corso di Repubblica, con la proprietà della Gedi di John Elkann e la direzione Molinari, non lo convince. Valli è un esperto eccezionale di tutti i luoghi di crisi del mondo e qui c’è un nodo particolare, che riguarda il Medio Oriente. Molinari guarda con benevolenza al governo israeliano, Valli ne ha descritto più volte -nei decenni- errori, debolezze, cadute e anche successi. Da cronista, sempre legato strettamente ai fatti. Con la sua lingua chiara e avvolgente. Il punto di rottura anche se non dichiarato ufficialmente è questo. Molinari inoltre ha promosso collaboratrice corrispondente da Gerusalemme Sharon Nizza, ex candidata del Pdl alla Camera dei deputati e prima collaboratrice in Parlamento di Fiamma Nirenstein, anche lei molto vicina al governo Netanyahu. A maggio, sul suo profilo social, Leonardo Coen, già firma di Repubblica, ha scritto: “Possibile che Scalfari non se ne renda conto? Gliel’avranno riferito che recentemente il direttore Molinari ha chiesto a Bernardo Valli di modificare qualcosa nel suo pezzo e che l’anziano ma ancora baldanzoso Bernardo ha minacciato di dimettersi?”. Era un pezzo sul Medio Oriente. Con la direzione Molinari, da Repubblica sono andati via Enrico Deaglio, Gad Lerner e Pino Corrias. Nessuno di loro si può paragonare a Valli, presente a Repubblica dalla fondazione, un monumento del giornalismo di battaglia, colto e preciso, documentato e capace di far comprendere la complicazione dei fatti. Valli nasce a Parma in una famiglia benestante: il padre è chirurgo, la madre crocerossina. Nel 1949, a diciannove anni, si arruola nella Legione straniera francese. Nel 1954 assiste, nella base di Sidi Bel Abbes, alla parata dei reduci dalla sconfitta di Dien Bien Phu. Poco dopo, decide di lasciare la Legione. Si trasferisce a Milano, dove fa il praticantato da giornalista al quotidiano L’Italia. Nel 1956 è al neonato Giorno, dove si occupa di cronaca nera. Dopo solo un anno passa dalla cronaca alla politica internazionale. E’ testimone della rivoluzione algerina. Negli anni sessanta è presente a Cuba e racconta la Guerra dei Sei Giorni in Medio Oriente. Nel 1971 si trasferisce al Corriere della Sera, scrive dal Vietnam, dall’India, dalla Cina, dalla Cambogia. Nel 1975 rientra in Europa, come corrispondente da Parigi. Nel 1979 racconta la rivoluzione khomeinista in Iran. Lascia il Corriere per Scalfari. Con base a Parigi continua a seguire tutti i più grandi eventi di politica e di cronaca nel mondo. Nell’intervista al suo giornale per i 90 anni, ha detto: “Se dovessi fare una diagnosi sbrigativa, il mio lavoro è stato un miscuglio di dilettantismo e professionismo. I due aspetti si sono sempre incrociati. Raramente ho fatto dei servizi giornalistici senza conoscere le radici storiche profonde del Paese che raccontavo, ma allo stesso tempo mi sentivo libero dal peso della conoscenza. Così una certa disinvoltura che puoi anche chiamare sfacciataggine o leggerezza si è sempre sposata con un impegno professionale quasi arcigno”.
Fabio Isman per professionereporter.eu il 18 settembre 2020. A 90 anni, Bernardo Valli ha lasciato la Repubblica e il suo Gruppo editoriale, perché voleva sopprimere una frase da un suo articolo: io, che spero di avere la schiena altrettanto ritta quanto lui, assai più modestamente dovrei forse lasciare un Ministero. È una storiella alquanto irrilevante, ma credo un po’ educativa; e non solo per chi eserciti la professione di Reporter. Riguarda infatti un dicastero; un articolo richiesto, s’intende gratuitamente; il panico per qualche avvenimento che è realmente accaduto; una censura tentata e progressiva. E, infine, la pena di morte inflitta al testo, senza alcun contradditorio. Comincia a fine luglio: una funzionaria dei Beni culturali, responsabile di una tra le riviste del Ministero, scrive che «la scomparsa improvvisa di Paolo Ferri ci ha lasciato attoniti, e per chi ha avuto il privilegio di conoscerlo da vicino, orfani di un grande uomo, un grande esperto e difensore del patrimonio culturale italiano, e di un caro e sincero amico». Al magistrato che, da solo e con coraggio, ha indagato la “Grande razzia” di antichità dal nostro sottosuolo avvenuta dal 1970 in poi (un milione e mezzo di pezzi scavati in modo illegale e spesso venduti all’estero, almeno a 47 grandi musei del mondo), sarà dedicato un numero speciale della rivista. Me ne chiede un’introduzione. Si presume che ne abbia già parlato e discusso con i suoi “superiori”. Scrivo, e seguono undici mail e più di un’ora di telefonate, che necessariamente sintetizzo. Il primo messaggio, afferma che ho «fatto rivivere con le mie parole» il personaggio, «tutto vero, zero retorica», e informa sulla presentazione del volume. Già la seconda mail, però, manifesta dei dubbi: invece che «l’archeologia non è faccenda con cui le toghe abbiano troppa dimestichezza: non sanno nemmeno distinguere un’oinochoe da uno psykter, nomi assenti dalle pandette», ci si potrebbe fermare alla parola «dimestichezza», magari i magistrati s’arrabbiano? E perché raccontare che, quando Ferri se n’è andato, «lo Stato italiano non ha battuto ciglio: nessuna dichiarazione, nessun compianto»: non sembra una critica?. Capisco che è una rivista, diciamo così, “ufficiale”: cedo e accondiscendo. E lei: «Grazie, vedrai che vinceremo la battaglia». Battaglia? E contro chi? Veramente, credevo che fosse soltanto un articolo. Dopo un paio di giorni, ecco però che «il testo cita i nomi dei maggiori trafficanti e mercanti» che hanno depredato la Penisola: «Il Ministero non usa farli». Ma sono sentenze ormai definitive, passate in Cassazione… «E bisogna proprio scrivere che in seguito alle indagini di Ferri molti Paesi hanno mutato le loro leggi, ma l’Italia no: non ci è ancora riuscita?». È un dato storico: il primo articolato risale ancora all’epoca in cui era ministro Francesco Rutelli, e non se ne è mai fatto nulla. «Poi, c’è una citazione proprio del giudice: “Da noi, è più rischioso rubare un paio di jeans, che trafugare un vaso antico”. La si può cancellare?». Al telefono, la funzionaria evoca i suoi “superiori”, che peraltro conosco: se è opportuno, posso parlarci io, e spiegare. No, non occorre. C’è un preavviso di quanto sta per accadere: un’altra mail scrive che forse, è più opportuno «restituirmi» il testo: «A furia di eliminazioni e probabili ulteriori emendamenti (sic!), diventerebbe tutto un altro». Fino alla sentenza irrevocabile: «Mi preme comunicarLe con il più vivo rammarico che ho appena ricevuto l’ordine superiore, che non condivido ma che ho il dovere di eseguire, di inserire solo testi istituzionali». Mi sa che dovrò chiedere a Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali, se è opportuno che io continui a far parte, gratis e su sua nomina, di una commissione tecnica in un dicastero che si comporta in questa maniera: fino ad aver paura anche della propria ombra. E che ritiene di poter cancellare, una ad una e un funzionario dopo l’altro, le parole di un professionista cui, peraltro, si era rivolto chiedendo un piacere. Forse, non sarebbe lecito nemmeno se Franceschini trasformasse il proprio ministero in quello delle Comunicazioni. O Scomuniche? Che il magistrato Paolo Giorgio Ferri incuta ancora timore, anche quando non c’è, purtroppo, più?
Antonio Gnoli per ''la Repubblica'' - 1 marzo 2015. Dopo una conversazione durata quasi tre ore e che ci inoltra nel pieno di una sera parigina, Bernardo Valli mi invita in un ristorante non lontano da casa. Vive nel nono arrondissement. «Un tempo fu il regno dei letterati e degli artisti. La chiamavano la Nouvelle Athènes. Ci stavano stabilmente Baudelaire e Zola; ci venivano George Sand e Turgenev. Non distante c’è il liceo Condorcet dove Proust studiava. Qui offrì a una compagna un mazzolino di fiori prima di scoprire la sua omosessualità ». Valli ha buone letture. E straordinari ricordi. Non mi sorprende. I suoi articoli (una parte è uscita qualche mese fa da Mondadori) aprono a mondi narrativi costruiti con la precisione del grande meccanico. Usciamo dal ristorante che è quasi mezzanotte. Fa freddo. Un tratto di strada a piedi. Poi improvvisamente Pigalle: uno schiaffo di luci rosse. «In quarant’anni che vivo a Parigi non sono mai stato al Moulin Rouge», confessa. Penso che l’ombelico del turismo famelico non gli interessi. Non gli susciti alcuna emozione. Che “animale” ho di fronte? Sfuggente, certo. Ma anche abile nella caccia. Mansueto e duro. Capace di coprire grandi distanze ma anche di starsene tranquillo nella tana.
Non hai mai pensato di tornare in Italia?
«A volte. Alla fine la pigrizia ha avuto la meglio».
Non sembri un uomo pigro.
«La pigrizia scherma le mie esigenze. I miei rituali. Il mio lavoro che organizzo. Le mie partenze, a volte repentine. Sono appena tornato da Vilnius. Un tempo era la Gerusalemme d’Europa. Ne hanno ammazzati tanti di ebrei, allora. Circa duecentomila. Sai chi era di Vilnius?».
Un sacco di gente è di Vilnius.
«No, no. Guarda pensavo a uno scrittore. Romain Gary. L’ho conosciuto bene. Siamo stati anche amici. Come ebreo lituano era sentimentale e dotato di grande fantasia. Pensavo a lui quando ero a Vilnius. Il fantasma che mi accompagnava».
È morto suicida.
«Si tirò un colpo di pistola alla testa. Era il 1980».
L’anno prima si era suicidata la sua ex moglie Jean Seberg.
«Ho conosciuto bene anche lei. Ma non mi va di parlarne. È raro che ci si uccida per mancanza di talento. Per eccesso, forse sì».
Come Tommaso Besozzi, l’inviato speciale e grande cronista de L’Europeo.
«Tu scavi nel passato. Morì nel 1964. Gli ero stato amico. Vedevo in lui crescere l’angoscia. Farsi smisurata. Si lasciò esplodere con una bomba».
Tu hai scritto che a un certo punto della vita non riuscì più ad adeguare le parole ai fatti.
«È così. Le esigenze dello scrittore presero il sopravvento sulla realtà. Poteva rimanere per ore davanti al foglio bianco senza scrivere una parola».
A te è mai accaduto?
«Raramente, non sono un letterato».
Lo ritieni quasi un insulto.
«È il destino, nel bene e nel male, del giornalismo italiano ».
Il bello scrivere?
«Scrittura impressionista che più che guardare all’Inghilterra, come credeva Albertini, si ispirava alla Francia. Giornalismo pamphlettario. Molta denuncia e pochi dati».
Qual è la tua idea di giornalismo?
«È prima di tutto un servizio. Una cosa pratica. Informa: dagli orari delle farmacie a quello che accade in una guerra. È un lavoro artigianale. Non letterario».
È come se tu volessi allontanare una tentazione.
«Non ho mai avuto queste tentazioni. Certo, oggi è diverso. Un tempo, quando ero in Africa o in Asia, un articolo lo dettavo al telefono, se lo trovavo; o lo trasmettevo per telex. Capitava che arrivassi in un posto alle sei del pomeriggio e alle dieci di sera dettassi il pezzo. Cosa mi spingeva a fare tutto questo? La curiosità, prima di tutto. E poi, l’incoscienza. Che è una risposta all’ignoranza».
Sembra tutto molto eccitante.
«È un’immagine sbagliata. Ho vissuto in un’epoca in cui i tempi erano maledettamente lunghi. Estenuanti. Viaggiavo spesso in solitudine. La sola cosa che alla fine facevo era leggere».
Che tipo di lettore sei?
«Calvino diceva che ci sono letture intellettuali, colte; e letture che puntano al godimento immediato. Sono un lettore che legge per piacere. Anche se a volte non mi sono tirato indietro davanti a costruzioni impegnative. In Medioriente tentai di leggere l’ Ulisse di Joyce. In Thailandia lessi tutto L’uomo senza qualità di Musil ».
Cosa ti spingeva a leggere Musil in quel mondo così remoto?
«Pensavo che il regno di Kakania non fosse poi così diverso da quello thailandese. Leggere è un modo per staccare. Riprendere fiato. Durante l’assedio di Phnom Penh, in una biblioteca abbandonata, ho riletto buona parte di Dumas. Era un modo per liberare la testa».
Forse anche di riempirla con qualcosa che sarebbe riecheggiata nei tuoi articoli.
«Qualcosa resta. Il ritmo. Certe parole. Ma, al tempo stesso, so che non c’entro niente con Stevenson o Conrad o, magari, Graham Greene. Ho sempre letto. Fin da giovane. Sono stato un cattivo studente. Ma spesso leggevo i libri che al liceo Attilio Bertolucci consigliava a mio fratello maggiore».
Hai una classifica di buoni libri?
«Ho letto spesso in maniera disordinata. Negli anni in cui ho abitato a Singapore lessi tutto Balzac e Zola. E a proposito di francesi, a Saigon feci leggere a Terzani – che amava soprattutto i libri di storia e di viaggio – Un cuore semplice di Flaubert. Venne da me con le lacrime agli occhi. Non prenderlo come un vezzo. Le letture più belle sono state per me quelle più occasionali».
Di Terzani sei stato molto amico.
«Oggi ne hanno fatto una specie di guru. È un’immagine che mi infastidisce. Quello che ho conosciuto e del quale sono stato amico era una persona dolcissima che non aveva nulla del santone. Alla fine evitavamo di parlare di ciò che ci divideva».
Cosa esattamente?
«Io restavo un cronista. Lui inseguiva le idee. Una delle ultime volte che ci vedemmo fu a Kabul nel 2001. Ebbi netta la sensazione di un uomo incalzato dalla morte e alla ricerca della verità. Sembrava spoglio, come un albero d’inverno. Dormiva a terra. Quando partii gli lasciai il mio sacco a pelo».
Della verità che idea ti sei fatto?
«Ho dato come titolo alla raccolta dei miei articoli: La verità del momento . Per un cronista non c’è altro».
È duro da accettare.
«Sì, lo è. Ho passato buona parte della vita a correggere quello che ho scritto. Le situazioni cambiano. Il mondo cambia. Ne ho dovuto prendere atto».
La “verità del momento” è una forma di ateismo. Non trovi?
«Dio c’entra poco con le verità relative».
Che ricordo hai della Fallaci che certo non si nutriva di verità relative?
«È stata un gran personaggio. Era uno spettacolo vederla nella stanza di un albergo lottare con la macchia scrivere. Intensità. Passione. A volte passava ore davanti al foglio. Cercava i fatti. Ma poi i fatti sotto il suo sguardo diventavano un’altra cosa. Per quello che ricordo, Oriana non ha mai usato il condizionale».
E tu?
"E' una pratica salutare per un cronista".
Oltre che cronista sei un viaggiatore.
«Mai per il solo gusto di viaggiare. Sono stato complessivamente sette anni in Asia; diversi altri in Africa e poi l’America, l’Europa. Che dire? Sono il risultato di una carta geografica».
Cosa ti è restato?
«Tutto. Ti confesso che ho amato particolarmente l’Asia. L’ho vista distruggersi, modificarsi, cambiare volto. Macao è sparita ed è diventata una Las Vegas. La Cina che vidi la prima volta che vi entrai nel 1970 non c’è più. Il Giappone che mi affascinava per la fierezza ha vissuto il dramma di un legame sempre più incerto con la tradizione. L’India ha cambiato radicalmente i propri connotati. E nonostante ciò l’Asia continua ad affascinarmi. È difficile da capire».
Perché? Dopotutto lì c’è un pezzo della tua vita.
«La mia vita è quella di un provinciale. Un tempo la provincia era importante. Sarà per stupido sentimentalismo, mi è restata attaccata come una seconda pelle».
Sei nato a Parma.
«Da una famiglia borghese. Mio padre era medico. Non volevo avere niente a che fare con quelle radici borghesi».
La chiameresti inquietudine?
«Non lo so. Andai via di casa molto giovane. Ma non perché ce l’avessi con la famiglia. Eppure sono scappato. E, forse, ancora continuo a scappare».
Si può dire che la prima fuga sia stata quella più importante?
«A cosa ti riferisci?».
Ai tuoi anni giovanili trascorsi nella Legione Straniera.
«Quella fu una fase che non ha aggiunto niente alla mia vita successiva».
Non hai mai voluto parlare di quel periodo. E non credo che tu lo faccia per qualche forma di vergogna o di pudore. Né di snobismo. Del resto molta gente importante è finita lì.
«Vuoi che non lo sappia? Anche Ernst Jünger e Curzio Malaparte. Ma cosa significa?».
Ci si andava per i più diversi motivi.
«Allora ti dico che ero un ragazzo quando scelsi la Legione. Forse perché avevo la testa piena di certe letture. Forse perché cercavo un punto estremo dove posarmi. Ci sono rimasto cinque anni. Ho disertato. Fui ripreso. Ho fatto anche una certa carriera. Ma è stata una parentesi, capisci? Non ha avuto nessun riflesso sugli eventi successivi».
Permettimi di dubitare.
«In effetti qualcosa ha lasciato. Mi ha insegnato a marciare. Ancora oggi, malgrado l’età, ho gambe forti. Mi ha dato il senso della disciplina. E un’altra cosa. L’ultima: mi ha lasciato come un senso di indignazione. Un bisogno di andare dalla parte opposta. In fondo, se sono diventato terzomondista, contrario al colonialismo, è stata una reazione a quella scelta che feci da giovane».
Quell’esperienza fu anch’essa una “verità del momento”. Ma vorrei domandarti qualcosa in merito alla caduta di Dien Bien Phu. Cioè di come i francesi persero l’Indocina. In un lungo articolo tu racconti quella battaglia e l’assedio che durò circa due mesi.I francesi avevano schierato in prima linea la Legione Straniera. Tu dove eri esattamente?
«Non c’ero».
Mi risulta il contrario.
«Perché dovrei mentirti?».
Sei come il pescatore di perle che ingoia o nasconde la perla più grossa.
«Non sono stato in quella battaglia. L’ho raccontata, è vero. Ma perché conoscevo gli ufficiali. Conoscevo quel mondo. Il luogo, la porta per il Laos. Dopo che Dien Bien Phu cadde nelle mani del comandante Giap ci fu a Sidi Bel Abbes, la cittadella dei legionari, una grande cerimonia alla quale assistetti».
Cosa vedesti?
«Vidi una grande parata in omaggio all’eroismo o meglio al coraggio con cui avevano combattuto a Dien Bien Phu. La Legione aveva resistito. Era tutta schierata davanti al Maresciallo di Francia Juin. Vidi un mondo che stava finendo, almeno per come lo avevo immaginato. Vidi i mutilati schierati in bella vista. Segno delle ferite e del sacrificio. Del prezzo che era stato pagato. Percepii il gusto per il macabro che la Legione Straniera aveva spesso esibito. E alla fine pensai che lì, in quel piccolo mondo, dove un ladro di polli poteva trasformarsi in soldato vero, si fabbricava qualche eroe e molti mitomani. Quell’anno, era il 1954, lasciai la Legione».
Sei stato definito (da Franco Contorbia che ha curato, scelto e raccolto i tuoi scritti) un “avventuriero disciplinato”. Ti riconosci?
«Come ossimoro non mi dispiace. Mi fa pensare, visto che ne abbiamo parlato, alla Legione Straniera come a un collegio di correzione. Anche se oggi è un’altra cosa».
Correzione, educazione, disciplina. Cosa ti affascina? Non sembri così succube di queste pratiche.
«Non lo sono, è vero. Mi piace pensare l’umanità divisa tra chi ha una mentalità militare e chi non ce l’ha. La prima è fatta di cose semplici: la mattina rifarsi la branda, marciare, obbedire a certe regole. Ecco, il lavoro del giornalista contempla anche questo che può sembrare il lato meno creativo».
È l’altra faccia della luna.
«I miei occhi hanno visto molto. Sono stato testimone della rivoluzione algerina nel 1958. Ho raccontato il Vietnam, Cuba, la Guerra dei sei Giorni e la rivoluzione khomeinista. Sono stato ovunque: dal Congo al Sudafrica. Ho visto facce che sembravano eroi trasformarsi in spietati dittatori. Ho vissuto pericoli e rischiato la vita, come quando nella città di Takeo fui circondato dai khmer rossi. E ogni volta era come la prima volta. Come ricominciare da capo. Perché la cronaca è un lampo. Uno squarcio che si richiude. E tu sei lì, insignificante, a chiederti se stai facendo la storia. Ma la storia è un’altra cosa».
· Bianca Berlinguer.
Bianca Berlinguer, Miss #Cartabianca e papà Enrico: "Cosa pensava dei giornalisti. Forse..." Libero Quotidiano il 18 agosto 2020. Bianca Berlinguer non potrà mai sapere se suo papà Enrico sarebbe stato felice di vederla giornalista in tv. La sua carriera in video, spiega la conduttrice di #Cartabianca a La Stampa, è iniziata subito dopo la morte dello storico segretario del Partito comunista italiano. "Finito il liceo ero indecisa se fare la psichiatra, ma mi piaceva molto scrivere. Non pensavo alla tv e ho cominciato a collaborare con Il Messaggero e L'Espresso, poi a 25 anni, subito dopo la morte di mio padre, Giovanni Minoli mi propose di entrare a Mixer, dove scoprii l'immediatezza delle immagini per raccontare una storia". Forse il giudizio di Berlinguer padre sui giornalisti non sarebbe stato tenero: "Allora si rilasciavano poche interviste, si parlava di meno e per comunicare contenuti significativi. Da politico forse non era felicissimo che facessi la giornalista, ma non ha mai voluto condizionare né me né i miei fratelli. La verità è che è morto troppo presto e non ha potuto conoscere il mio lavoro".
· Bruno Vespa.
Marco Castoro per leggo.it l'8 settembre 2020. «Con quel vitino di 52 centimetri che enfatizza un seno già di suo generoso, fianchi morbidi, una statua a clessidra polposa e conturbante. In più un viso meraviglioso, cesellato d’alabastro, con gli occhi giganti e il naso che sembra scolpito nel marmo». Sono versi che non ha scritto Casanova, ma Bruno Vespa. Già proprio lui. Sì perché anche un cronista è un uomo. Soprattutto al cospetto di donne belle, anzi Bellissime! Come il libro (edito da RaiLibri) scritto dal conduttore di Porta a Porta. «Uno spaccato del costume italiano degli ultimi 60 anni. Dal Neorealismo fino a Instagram, sembrano siano passati sei secoli», spiega Vespa.
Gli italiani vivono di dualismo. Dopo Bartali-Coppi c’è Lollo-Loren…
«Molto diverse tra loro ma entrambe vincenti. Forse la Loren viene considerata più diva perché si è tenuta fuori da Roma e da quel gossip nostrano che un po’ impoverisce, mentre si è perfettamente inserita nello star system del cinema anglosassone. Sophia ha incarnato un’immagine di sex symbol per famiglie. Del resto aveva a fianco un produttore come Ponti. Quando ha interpretato la Ciociara si è liberata del peso consacrandosi grande attrice. La Lollo invece è andata avanti con le sue forze. Ha fatto tutto da sola, non aveva un produttore che la proteggesse. Con Pane, amore e fantasia ha mostrato i muscoli dell’attrice vera».
Se la Lollobrigida è il primo capitolo, Diletta Leotta è l’ultimo. Su di lei - cito testualmente – è scritto: «Si ha la sensazione che tutta questa grazia di Dio e dei chirurghi potrebbe essere sostituita da un momento all’altro con altra grazia. Diletta sconta quel senso di bambola italiana made in China uscita da un catalogo». Forse ci è rimasta male…
«Che io sappia no. Del resto la bellezza può essere anche costruita a tavolino se fa contare milioni, non solo di follower. È un rischio ma vale la pena correrlo».
Qualcuna ha ringraziato…
«La Marini è stata la più gentile. Del resto tra il 1996 e il 2020 l’ho avuta a Porta a Porta per 39 volte».
Claudia Koll, che coraggio e che svolta!
«Scelta autentica molto vera. Molto forte, è stata vicina negli ultimi tempi a Laura Antonelli, la più sfortunata di tutti. E la Koll le era vicino nel momento peggiore».
Perché tra le Bellissime non hai inserito Elizabeth Taylor e Marilyn Monroe?
«L’unica straniera che c’è è Brigitte Bardot... ».
Ci sono pure le Kessler.
«Ma le Kessler sono più italiane di me. La Bardot è la più italiana delle francesi, parla bene la nostra lingua».
Tante spigolature e aneddoti nel libro, tipo Claudia Cardinale che non voleva fare cinema e invece sognava di diventare un’esploratrice. Vedo che c’è anche Marisa Allasio… Forse non tutti la ricordano. «Non poteva mancare. Avevo 13 anni e il suo bikini in Poveri ma belli toglieva il fiato. E chi se lo scorda. Prima di lei non c’era in giro il bikini e lei è stata tra le prime a indossarlo. Poi per anni si è eclissata».
E di quel gran pezzo dell’Ubalda di nome Edwige Fenech…
«La regina della generazione di attrici insaponate sotto la doccia. Non è necessaria una sceneggiatura quando l’acqua scorre sulle tette, si può spiare alla serratura e sognare cose porche che non hanno bisogno di scrittura. La Fenech entrava nella testa dei maschi. Garanzia di eccitazione, non di passione. Fibrillazione non innamoramento. Il più bel complimento lo fece Enzo Ferrari quando a Luca Montezemolo, il compagno di allora, disse dopo averla conosciuta: “Guarda che lei è molto meglio di te”, e ci credo rispose Montezemolo. Ma il patron della Rossa di Maranello precisò: “Non lo dico perché è bellissima ma perché è più intelligente di te”».
E di Monica Bellucci, la più francese delle italiane…
«La percepisco come quella più distante. Splendida donna, indubbiamente. Molto fredda però. Non è il prototipo della passionaria come la Lollo, la stessa Sandrelli è una molto passionale. Lei mi pare bellissima ma molto fredda».
In squadra c’è anche la Dellera…
«Una vita artistica di buon livello».
E Belen? A Roma si dice “giocace contro”…
«Ha una sensualità prorompente. Non è un’attrice, sia chiaro, mentre altre sono andate in carriera interpretando ragazzine e poi le nonne come la Sandrelli. Belen è molto intelligente, ha saputo valorizzare il proprio corpo sfruttando Instragram. Tanto di cappello».
Se ci fosse stato Instragram ai tempi di Lollo e Loren, il loro mito si sarebbe consumato prima?
«Non lo so. Probabilmente avrebbero potuto stancare prima. Allora si faceva la fila al cinema per vederle, file adesso scomparse. C’era l’aspettativa di vedere le dive, cosa che adesso non c’è più».
Ora però per par condicio - e in nome della parità tra i sessi - ci vuole un libro sui bellissimi…
«Ahahah. Chi lo sa… Perché no? Non lo escludo».
Il Pd contro Vespa: "Ha fatto spot a Salvini durante la Coppa Italia". Nella clip in onda durante l'intervallo di Juve-Roma spezzoni dei comizi del leader leghista. Zingaretti e i dem: "Se questo è servizio pubblico". Chiara Sarra, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. Matteo Salvini che citofona al presunto pusher e alcuni spezzoni dei suoi comizi. Una clip dedicata al leader leghista che preannuncia la puntata di stasera di Porta a Porta e il tema trattato da Bruno Vespa e i suoi ospiti: le elezioni Regionali in Emilia Romagna e Calabria di domenica prossima. Ma lo spot - andato in onda durante l'intervallo della partita di Coppa Italia - non piace al Partito democratico che insorge contro il giornalista e contro la Rai. "A Salvini consentito dalla Rai un solitario comizio durante l'intervallo della partita Juventus-Roma in piena campagna elettorale per l'Emilia Romagna", twitta Nicola Zingaretti, "Mai così in basso, altro che libertà e autonomia. E lo chiamano servizio pubblico". Al segretario del Pd fanno eco - a ruota - altri esponenti dem, tutti irritati per il video sulla Rai. "Ma sbaglio o quello che ho visto nell'intervallo di Juve-Roma era quello del citofono, senza contraddittorio, in un imbarazzante comizio elettorale? Pronto, vertici Rai?", dice il deputato Filippo Sensi, mentre Andrea Rossi, deputato Pd e responsabile comitato elettorale di Bonaccini annuncia un esposto all'Agcom per un comportamento definito "gravissimo, inaccettabile, inqualificabile". Sul tema è intervenuto anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all'editoria e all'informazione (in quota Pd), Andrea Martella: "Quanto sta accadendo in Rai preoccupa chi ha a cuore gli interessi del servizio pubblico, il pluralismo e le garanzie di un'informazione corretta in particolare alla vigilia di un appuntamento elettorale che riguarda oltre sei milioni di italiani che saranno chiamati alle urne in Calabria e in Emilia-Romagna domenica prossima", ha detto, " In diverse occasioni sono state segnalate, da più parti, violazioni del pluralismo richiamate anche dall'Agcom, recentemente, con un invito rivolto al riequilibrio dell'informazione del servizio pubblico. Auspichiamo un intervento deciso dei vertici del servizio pubblico, patrimonio di tutti i cittadini, per un riequilibrio della corretta informazione nel rispetto dei principi enunciati nel contratto di servizio".
Porta a Porta, Bruno Vespa sul caso-Matteo Salvini: "Una svista della redazione, rimedieremo". Libero Quotidiano il 23 Gennaio 2020. Bruno Vespa fa chiarezza sul caso Rai-Matteo Salvini scoppiato mercoledì sera 22 gennaio. Il Pd è insorto per la messa in onda di quello che ha definito uno spot elettorale, a pochi giorni dal voto in Emilia Romagna, durante l’intervallo della partita di Coppa Italia tra Juventus e Roma, seguita su Rai 1 da ben 6.577.000 spettatori (24.9% di share), del leader della Lega, ospite di Porta a Porta. Il problema si è verificato nel minutaggio a disposizione dei due politici nel corso dell’intervallo della partita, con Salvini che in solitaria ha beneficiato di tutto il tempo a disposizione mentre martedì sera Zingaretti ha diviso la scena con Giorgia Meloni. Vespa, alla luce delle feroci polemiche e accuse nei confronti della Rai, è costretto a dare spiegazioni sull’accaduto. Parla di svista alla quale provvederà a rimediare già questa sera giovedì 23 gennaio: “Per una svista della redazione, di cui mi assumo come sempre la responsabilità, il tempo di parola di Salvini è stato maggiore di quello di Zingaretti (che ha condiviso lo spazio con Giorgia Meloni) e di maggiore impatto politico. Proporrò alla direzione di Raiuno di riequilibrare le posizioni.
Bruno Vespa, la verità sulle dimissioni al Tg1: "Rimasi un anno senza lavoro, non potevo far vedere la faccia". Libero Quotidiano il 23 Dicembre 2019. Bruno Vespa racconta aneddoti e curiosità a Marco Marra su La mia passione, andato in onda ieri 22 dicembre su Rai3. Il giornalista ideatore di Porta a Porta ha ricordato il periodo da direttore del Tg1, iniziato nell'estate del 1990: "Ho raccontato la sepoltura della Prima Repubblica e devo dire che non ho taciuto nulla, quella era la storia e quella si raccontava". L'addio al Tg1, datato 7 febbraio 1993, è però arrivato in maniera turbolenta. "Vuoi che quando i moderati della Democrazia Cristiana perdono le elezioni, gli altri non si scoprano improvvisamente progressisti? Tutto il mondo è paese", ha commentato sarcasticamente Vespa. Il quale ha poi rivelato alcuni retroscena sulle dimissioni: "Commisi l'errore di dimettermi o comunque di farlo senza condizioni. Avrei potuto ottenere il mondo e non chiesi nulla, anzi mi fu ridotto persino lo stipendio". "Rimasi un anno senza lavoro - ha continuato - eppure quando nel '93 ci furono gli attentati a Roma fui il solo giornalista testimone. Ero insieme al Papa, a Scalfari ed a Parisi. Chiamai il nuovo direttore, Albino Longhi, con l'entusiasmo del giovane cronista e gli chiesi 'posso fare un servizio?'. Mi rispose di sì, a patto che non si vedesse la mia faccia. Questo era il clima".
· Daria Bignardi.
Daria Bignardi, mille volti di una donna, moglie, madre, giornalista, conduttrice, scrittrice. Maria Volpe il 21/10/2020 su Il Corriere della Sera. Oggi, mercoledì 21 ottobre, la nuova stagione de «L’Assedio« sul Nove. Nuove interviste per Daria Bignardi che ha cominciato con Gad Lerner, è passata per il GF e ha scritto sei romanzi.
Daria, chic, un po’ snob (meno di quel che sembra). Classe 1961, nata a Ferrara (città cui è legatissima), segno zodiacale Acquario, Daria Bignardi è decisamente poliedrica. E’ riservata, elegante, un po’ snob anche se poi a conoscerla è più alla mano di quanto appaia. Riesce a essere rigorosa, un po’ algida e un po’ sexy. Tutto insieme. Sarà per questo che è riuscita e riesce a esercitare professioni ed esperienze distanti tra loro. Molto riservata, se si imbattesse in una intervistatrice come lei - dalle domande impertinenti - chissà come reagirebbe. Mette una gran passione in tutto ciò che fa, si butta anima e corpo, poi quando ha dato il massimo e ha realizzato il progetto, cambia. Cambia programma, libro, look, rete. Spesso le hanno chiesto cosa amasse di più tra le sue esperienze lavorative. Lei dice «tutto». Ma non è del tutto vero. Il suo cuore batte forte per i libri. Ed essere scrittrice la fa sentire in paradiso.
Con l’ex marito Luca Sofri. Riguardo alla sua vita privata è sempre stata molto riservata. Di lei si sa poco e lei non ama parlarne. E’ stata sposata prima con Nicola Manzoni, insegnante di filosofia, dal quale ha avuto il primo figlio Ludovico; poi dal 2004 al 2018 è stata sposata con il giornalista Luca Sofri, figlio di Adriano, dal quale ha avuto la secondogenita Emilia. Ora , da poco, avrebbe un nuovo compagno: Daria è stata fotografata di recente con Stefano Aletti, che viene dalla finanza.
Il Grande Fratello. Per una che inizia la carriera con Gad Lerner, tutto ci si poteva aspettare tranne che vederla condurre «Il Grande fratello». Ma lei, allora, colse l’aspetto sociale, la grande novità di quel reality che avrebbe cambiato per sempre il linguaggio televisivo. E così nel 2000, su Canale 5, conduce la prima storica edizione del GF, e pure la seconda. Non rinnega quell’avventura - che peraltro le regala una immensa popolarità e le fa vincere il Telegatto e il Premio regia televisiva - anche se non ama parlarne troppo (com’è nel suo stile, «capitolo chiuso»). Di quella prima edizione le è rimasto nel cuore Pietro Taricone, purtroppo scomparso prematuramente: aveva colto l’umanità di quel ragazzo. Quanto a Rocco Casalino, anche lui partecipante alla prima edizione del Grande Fratello e ora portavoce e capo dell’ufficio stampa del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, di recente ha detto: «E’ più personaggio, che persona».
Le Invasioni Barbariche. A tutt’oggi «Le Invasioni Barbariche» su La7 è forse la trasmissione televisiva che meglio la rappresenta. Un programma cucito addosso a lei, portato avanti con modi «barbarici», eleganti, ironici, polemici , e pure con bevuta di birra finale. Daria ha regalato moltissime interviste profonde e divertenti. E molte litigate: da Brunetta a Casalino, da Alemanno a Feltri, passando per le frecciatine alla D’Urso.
L’Assedio. L’11 luglio 2019 Discovery ha presentato i suoi palinsesti ufficializzando la presenza di Daria Bignardi (che era reduce dall’esperienza di direttrice di Rai3) per la stagione 2019-2020 , come conduttrice de «L’Assedio» sul canale Nove. Conduzione rinnovata anche per quest’anno (da mercoledì 21 ottobre, alle 21) , dopo lo stop avvenuto causa lockdown della scorsa primavera. Dunque la giornalista è tornata al suo antico amore che aveva lasciato nel 2015. Lo stile è sempre quello delle «Invasioni barbariche», uno spazio in diretta dove la giornalista incontra e intervista star, personaggi emergenti, persone comuni. Il nome della trasmissione nasce come citazione del titolo di un film firmato da Bernardo Bertolucci nel 1998. «Ci sentiamo sotto assedio – aveva spiegato la Bignardi durante la presentazione dei palinsesti di Discovery – con quell’urgenza di essere felici ma in tempi di ansia». All’inizio, per questa nuova esperienza televisiva su un nuovo gruppo televisivo, aveva pensato ad un documentario con solo la sua voce. «Poi ho capito che quello che so fare è parlare con le persone perché mi piacciono le storie».
La malattia. Daria Bignardi ha vissuto la sua malattia, un tumore al seno, con molta riservatezza come sua abitudine. Quando si presentò con i capelli corti e grigi, in molti la attaccarono sui social, criticando questo look «da vecchia». Lei non rispose ad alcuno e tenne per sè la verità: la chemioterapia aveva fatto cadere i capelli. Per un po’ portò la parrucca (erano i tempi della sua direzione a Rai3), poi si stufò e decise di apparire così com’era, con i suoi capelli corti appena ricresciuti e senza tinta. Solo successivamente Bignardi parlò della sua malattia, rivelando di essersene accorta facendo una mammografia, un controllo di routine. E spiegò così il suo silenzio: «Chi è ammalato considera la propria malattia il centro del mondo, ma anche se ho rispetto per chi sta soffrendo in questo momento, parlare pubblicamente della malattia in generale, o peggio ancora della mia, non mi interessa. Per tanti motivi: un po’ per pudore, un po’ per paura della curiosità o della preoccupazione degli altri, un po’ perché quando guarisci volti pagina e non hai più voglia di parlarne ancora. Ho superato una malattia seria, ma al tempo stesso molto comune. Si ammalano milioni di donne, a cui va tutto il mio affetto».
Libri, il grande amore (quelli da leggere e quelli che scrive). Una divoratrice di libri, con tanta voglia di scrivere. Così nel 2009 esce il suo primo libro autobiografico «Non vi lascerò orfani» (la grande sofferenza per la morte della madre) con un grande successo di pubblico. Vince anche diversi premi tra cui il Premio Elsa Morante per la narrativa . L’anno dopo esce «Un karma pesante»; nel 2012 «L’acustica perfetta» tradotto in undici Paesi. Per questo romanzo nel 2013 ha ricevuto la Navicella d’Argento. L’anno dopo pubblica il romanzo «L’amore che ti meriti» i cui diritti vengono acquistati da molti paesi stranieri. Nel 2015 esce il suo quinto romanzo, «Santa degli impossibili», mentre il 20 febbraio 2018 esce nelle librerie il suo sesto romanzo, «Storia della mia ansia» dove si affronta sia il tema di una coppia in crisi e sia il tema del cancro al seno.
Direttrice di Rai3. Certo non le manca la tempra e il temperamento della direttrice , anche se in quel ruolo è stata spesso contestata. Nel 2002 viene chiamata - proprio dopo le due edizioni del «Grande fratello» - a dirigere il mensile «Donna». Ma la «Grande Chiamata» arriva il 17 febbraio 2016 quando viene nominata direttrice di Rai 3 , dal direttore generale della Rai Antonio Campo Dall’Orto. Anche in quel caso non sono mancate le polemiche. Sui social ci si chiedeva «Sarà all’altezza?», «Può una giornalista, conduttrice, dirigere una rete?». Probabilmente fosse stata uomo, nessuno se lo sarebbe chiesto. Come sempre lei ha tirato dritto per la sua strada, mettendoci anima e pancia, facendo cose belle e cose meno belle. Quando non ci furono più le condizioni (politiche e non) il 25 luglio 2017 si dimise rinunciando anche alle buonuscita. «Ho dato tutto quel che potevo e ho ricevuto in cambio molta stima. Per un anno e mezzo ho vissuto un’esperienza totalizzante, quasi mistica, come dice l’ex direttrice di Rai2, la mia amica Ilaria Dallatana. Lavoravamo almeno dodici ore al giorno. Poi a luglio mi sono dimessa e non ho più riacceso la televisione. Non so neanche cosa ci sia in tv adesso. È successo così anche con la malattia. Faccio tutto quel che devo e che posso, do tutto, poi volto pagina».
· Emilio Fede.
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 6 luglio 2020. Emilio Fede, noto giornalista televisivo, ha avuto una carriera formidabile sia in Rai (direttore del Tg1) sia a Mediaset (capo di Studio aperto e di Retequattro). Abilissimo davanti alle telecamere e dotato di un fiuto straordinario per le notizie, ha tenuto banco nel mondo dell'informazione per un numero sterminato di anni. Le sue performance sono memorabili.
Ne ricordo una: annunciò la prima guerra del Golfo contro Saddam. Era notte fonda quando egli mandò in onda i bombardamenti iniziali, che sembravano videogiochi, e gli italiani appresero da lui che era scoppiato il conflitto. Non è roba da poco. La sua vita (89 primavere) ha segnato la storia del piccolo schermo, un po' come accadde a Mike Bongiorno e Enzo Biagi, personaggi celebrati giustamente e simbolici. Tuttavia, la fase finale della lunga attività di Emilio è stata viziata da una serie di incidenti che ne hanno inficiato in maniera ingiusta la conclusione. Fede alcune settimane orsono se ne è uscito con un libro sintetico dal titolo poco apprezzato dagli esteti del politicamente corretto, ormai padroni della scena e del vocabolario: "Che figura di merda". Personalmente questa breve frase non mi scandalizza e ritengo che le 174 pagine di testo meritino una lettura, non tanto per comprendere l'autore quanto l'ambiente fetido del giornalismo e dell'editoria. Basti pensare che l'uomo di cui sto parlando dopo lustri di attaccamento - che definirei morboso - all'emittente berlusconiana, fu cacciato dalla mattina alla sera come un cameriere ad ore. Il suo licenziamento sgarbato grida ancora vendetta. Fede fu costretto a vuotare i cassetti della scrivania di cui era il Dominus e a lasciare seduta stante il timone del notiziario più affettuoso nei confronti di Silvio. Il siluramento non fu opera del Cavaliere, che lo subì con amarezza, bensì dei funzionari del Biscione, i burocrati, la razza più vendicativa dei lavoratori, si fa per dire, che oscillano tra lo spettacolo e l'informazione. Emilio stava sulle palle a parecchi signori della corte di Mediaset poiché era protetto da Arcore, che frequentava assiduamente quale amico di Berlusconi. Ignoro quale sia stata la goccia che fece traboccare il vaso, però so che dal momento in cui traboccò per Fede cominciò una specie di calvario mai più terminato. Trovo che la sorte sia stata crudele con lui, ponendolo in sofferenza nel periodo più delicato della sua esistenza segnata da molti successi. Addirittura Fede ha patito un assalto giudiziario, rimediando una condanna definitiva senza costrutto logico. Probabilmente gli hanno fatto pagare la sua amicizia col nemico della sinistra, il leader di Forza Italia. Lo hanno accusato di tutto, pure dei presunti riscaldamenti climatici. Prove, zero. Cosicché recentemente è stato perfino arrestato perché uscito di casa - essendo ai domiciliari - per festeggiare il compleanno in un ristorante di Napoli. L'ennesima umiliazione. Nonostante ciò il suo libro di memorie è lieve, non trasuda rancore, lo si legge volentieri in quanto è ricco di episodi gustosi narrati con prosa delicata. Fede, piaccia o no, si conferma un fuoriclasse e gli auguro di provare che la Figura di merda non è sua, ma di chi lo ha perseguitato.
Da corriere.it il 23 giugno 2020. Il giornalista Emilio Fede è stato arrestato a Napoli per evasione. Secondo quanto riportato dal Roma, l’ex direttore del Tg4 stava cenando con la moglie, Diana De Feo, in un ristorante del lungomare, per festeggiare il suo 89esimo compleanno (che ricorre domani, 24 giugno). I carabinieri gli avrebbero consegnato la richiesta del magistrato di Milano in cui il giornalista viene considerato latitante per evasione: Fede, infatti, non avrebbe atteso l’autorizzazione del giudice del tribunale di sorveglianza milanese e, scaduti i 7 mesi di domiciliari, si sarebbe messo in viaggio verso Napoli dopo aver informato i carabinieri di Segrate. Il giornalista deve completare la pena con altri 4 anni di servizi sociali. Fede avrebbe avuto in programma di tornare a Milano giovedì. Al momento Fede si troverebbe bloccato nel suo albergo, nell’attesa della decisione del giudice che sarà presa nella mattinata di martedì.
Da adnkronos.com il 23 giugno 2020. "Il mio arresto? E’ stata una cosa terrorizzante. Compivo gli anni e da Milano, con i domiciliari finiti, sono partito per trascorrere due giorni con mia moglie. Siamo andati al ristorante a mangiare una pizza io e lei, e lì sono arrivati i carabinieri, notificandomi gli arresti per il reato di evasione". Questo il racconto all’Adnkronos del giornalista Emilio Fede dell’arresto a Napoli per evasione dai domiciliari. "Mi viene contestato di essere partito da Milano quando non c’era ancora la firma sui servizi sociali. Sono stato accompagnato in albergo e ora non posso nemmeno affacciarmi alla finestra - dice ancora Fede - Io sono claustrofobico, sono stato operato alle vertebre e non posso camminare da solo, devo essere accompagnato e con il bastone. E’ stato un arresto davanti a tutti, sono terrorizzato, che si possa prendere un essere umano, non Emilio Fede, e arrestarlo così".
Emilio Fede, ecco lo straziante video dell'arresto: terrorizzato, piegato e col bastone. Libero Quotidiano il 23 giugno 2020. Arrestato alla vigilia del suo 89esimo compleanno per evasione fiscale. Si tratta di Emilio Fede, raggiunto da sei uomini dell'Arma in Borghese all'esterno di un ristorante a Napoli. Il magistrato gli contesta il reato di evasione per aver lasciato l'abitazione di Milano presso la quale deve scontare 7 mesi ai domiciliari. L'ex direttore del Tg4, infatti, deve terminare di scontare la sua pena con 4 anni di servizi sociali. Fede aveva chiesto il permesso di allontanarsi, la decisione era attesa in queste ore, ma lui la ha anticipata. Arrestato a Napoli per evasione dagli arresti domiciliari l'ex direttore del Tg4 Emilio Fede. Deve scontare altri 4 anni ai servizi sociali, ha lasciato Milano informando i Carabinieri ma non avrebbe atteso l'autorizzazione del giudice di sorveglianza. I momenti in cui è stato fermato sono stati mostrati dal Tg3, che mostra gli attimi in cui l'ex direttore viene portato via da due agenti in borghese. Spaesato, spaventato e con bastone, le immagini di Emilio Fede suscitano un mix di tenerezza e stupore. Successivamente si è sfogato: "Mi viene contestato di essere partito da Milano quando non c'era ancora la firma sui servizi sociali. Sono stato accompagnato in albergo e ora non posso nemmeno affacciarmi alla finestra. Io sono claustrofobico, sono stato operato alle vertebre e non posso camminare da solo, devo essere accompagnato e con il bastone. È stato un arresto davanti a tutti, sono terrorizzato, che si possa prendere un essere umano, non Emilio Fede, e arrestarlo così", ha dichiarato alla AdnKronos.
Emilio Fede arrestato e portato in hotel, l'intimazione dei carabinieri: "Guai se si fa vedere". Libero Quotidiano il 24 giugno 2020. Alla vigilia del suo 89esimo compleanno Emilio Fede ha subito il peggior trattamento di sempre: è stato arrestato. Lo storico direttore del Tg4, impegnato a Napoli in una cena con la moglie, è stato prelevato da uomini in borghese con l'accusa di essere fuggito ai domiciliari nella sua casa di Milano. "Non sto bene per niente - ha confessato al Tempo che è riuscito a raggiungerlo al telefono - ho avuto capogiri continui, pressione bassa, abbassamenti di voce, ho dovuto chiamare un medico e ora sto aspettando un'infermiera che dovrebbe somministrarmi del cortisone". Ma la paura per Fede non è finita qui, perché l'ex direttore, una volta portato in hotel, è stato intimato di non aprire la finestra. "Mi hanno detto 'guai se si fa vedere' - racconta -, Solo che io sono claustrofobico! Tutto questo è incredibile. Pensi che un altro carabiniere era andato pure a cercarmi a casa di mia moglie. Comunque, approfitto per ringraziare i gestori dell'albergo dove mi trovo tuttora perché mi stanno trattando molto bene e sono molto gentili con me in tutto questo". Una situazione che ha dell'assurdo e che ha lasciato a bocca aperta anche i suoi cari: "Mia moglie è forte e serena, una donna straordinaria", forse è anche per questo che Fede non si perde d'animo.
Il gip di Napoli libera Fede e bacchetta i pm: "Pericolo di fuga impensabile". Emilio Fede può tornare a Milano dopo la liberazione da parte del gip di Napoli, che nell'ordinanza ha contestato le ragioni del fermo. Francesca Galici, Mercoledì 24/06/2020 su Il Giornale. È finita l'odissea napoletana di Emilio Fede, che lunedì notte era stato fermato dai carabinieri in un ristorante di Napoli, con l'accusa di essere evaso dagli arresti domiciliari della sua residenza di Milano. Il tribunale di Napoli ha contestato le tesi d'accusa con le quali il magistrato di Milano ne ha richiesto il fermo, obbligando le forze dell'ordine a un'azione plateale in un locale pubblico. Il viaggio, principalmente organizzato per motivi di cura, sarebbe dovuto durare da lunedì a giovedì, quando Emilio Fede avrebbe fatto ritorno presso la sua residenza milanese. Cogliendo l'occasione della sua presenza a Napoli, l'ex direttore del Tg4 avrebbe quindi deciso di festeggiare l'89esimo compleanno con sua moglie. Dopo il fermo, Emilio Fede è stato accompagnato presso l'Hotel Santa Lucia, dove è stato prima interrogato e poi trattenuto agli arresti in attesa della decisione del gip di Napoli. Il giudice non solo lo ha liberato ma ha del tutto smontato quanto detto dal magistrato di Milano, che peraltro aveva chiesto per il giornalista i domiciliari nella città partenopea, dove Fede sarebbe stato colto "in flagranza di reato". Il gip di Napoli ha scritto nero su bianco le motivazioni per le quali ha deciso per l'immediata liberazione di Emilio Fede ed è stato particolarmente duro nel suo giudizio sulle valutazioni fatte al momento del fermo del direttore. Il direttore si trova per altro in una situazione di difficoltà motoria dopo un incidente domestico. Il gip di Napoli accerta la propria incompetenza territoriale sul reato contestato, rimandando tutto a Milano, dove effettivamente sarebbe stato commesso. A Napoli, infatti, ci sarebbe stato solo l'accertamento. Inoltre, il gip di Napoli fa notare come il Tribunale di Sorveglianza di Milano, con un'ordinanza del 9 ottobre 2019, autorizza Emilio Fede a spostarsi dal suo domicilio per ragioni sanitarie. "Lui, in qualità di uomo intelligente e furbo, ha fin da subito dichiarato spontaneamente che era a Napoli per motivi di cura, allora questa circostanza, unitamente all'età e al fatto che oggi è il suo compleanno, affievoliscono notevolmente il fuoco del dolo dell'evasione", scrive il gip della città partenopea, segnando un punto a favore di Emilio Fede. Alla luce di questo, come sottolinea il giudice per le indagini preliminari, Fede potrebbe essere caduto nell'errore involontario, convinto di potersi allontanare per ragioni di cura, cogliendo l'occasione per una visita alla moglie e una cena con lei in occasione del suo compleanno. Nell'ordinanza, il gip di Napoli affossa anche le esigenze cautelari per motivi di urgenza a carico di Emilio Fede. "Inquinamento delle prove o pericolo di fuga appaiono addirittura impensabili mentre l'unica astrattamente configurabile, la reiterazione di una scappatella da Milano, non potrebbe certamente essere preclusa dall'applicazione della richiesta misura degli arresti domiciliari", conclude il gip, sostenendo l'immediato ritorno di Emilio Fede a Milano.
Emilio Fede non andava arrestato: “Il giudice di Napoli è incompetente”. Viviana Lanza su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Nessuna nuova misura per Emilio Fede e atti trasmessi a Milano per competenza territoriale. Termina così l’odissea napoletana dell’ex giornalista, tratto in arresto lunedì sera, poco prima dello scoccare della mezzanotte e del suo ottantanovesimo compleanno, mentre era a cena con la moglie in un ristorante sul Lungomare di Napoli. Era accusato di evasione dagli arresti domiciliari. Una vicenda ruotata per gran parte attorno a un’autorizzazione del magistrato di Sorveglianza di Milano che aveva concesso a Fede la possibilità di curarsi anche fuori regione. Il gip Fabio Provvisier del tribunale di Napoli, pur convalidando il fermo, non ha previsto altre misure per Fede se non il suo ritorno in Lombardia dove era agli arresti domiciliari. La decisione è arrivata ieri, al termine dell’udienza di convalida. Fede ha scelto di non essere presente in Tribunale. Per lui c’erano gli avvocati Salvatore Pino e Gennaro Demetrio Paipais. Due le questioni sollevate dalla difesa: una relativa alla competenza territoriale, radicata a Milano e non a Napoli, e la seconda basata su quanto disposto dall’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Milano che il 9 ottobre 2019, fra le varie prescrizioni, “da subito” (e quindi da ottobre), autorizzava Fede a lasciare il proprio domicilio per motivi di salute. «Se a ciò si aggiunge – ha osservato il gip, convalidando il fermo e trasmettendo gli atti a Milano – che lui, in qualità di uomo intelligente e furbo, ha fin da subito dichiarato spontaneamente che era a Napoli per motivi di cura, allora questa circostanza, unitamente all’età e al fatto che oggi è il suo compleanno, affievoliscono notevolmente il fuoco del dolo dell’evasione». «Ed invero in ragione dell’avanzata età dell’indagato e da quanto ha dichiarato al momento dell’arresto, è verosimile – ha aggiunto il giudice nel motivare la decisione – che egli, pur essendo a conoscenza della propria condizione di detenuto, si sia allontanato dalla propria abitazione nell’erronea convinzione di potersi recare senza autorizzazione in altri luoghi per ragioni di cura e nell’occasione far visita alla moglie e con lei festeggiare il compleanno». Quanto alla competenza territoriale, è Milano perché «il fatto è stato commesso in Segrate e solo accertato a Napoli».
Emilio Fede, "arrestano lui e non i camorristi": l'affondo di Renato Farina. Libero Quotidiano il 24 giugno 2020. Emilio Fede, giusto oggi 89 anni, è stato arrestato da un commando di 7 (sette) carabinieri in borghese, per impedire che l'evaso da Alcatraz alla vista delle divise si allarmasse e fuggisse come Tarzan appendendosi alle liane. Rintracciamo un antico precedente. 11 maggio 1960, Buenos Aires: la cattura con un formidabile blitz da parte del Mossad del burocrate nazista della Shoa, Adolf Eichmann. Gli israeliani erano in quattro. Ma vuoi mettere la pericolosità per il genere umano di Emilio, noto mostro delle Olgettine? L'Arma non ne ha colpa, obbedisce agli ordini come forza di polizia giudiziaria. Constatiamo con sgomento lo spreco indecente della legge e lo sfregio del buon senso per un'azione che peraltro ha mandato in solluchero una platea di cannibali da social, subito scatenati nei festeggiamenti rispetto a cui le danze tribali davanti al pentolone dove sta cuocendo il povero missionario sono riti quaresimali. La cronaca. Il vecchio giornalista stava scontando agli arresti domiciliari nel suo appartamento a Milano 2 la condanna per non sappiamo più quale processo Ruby (il 2 o il 3?). Non eccepiamo qui sulla congruità della condanna e circa l'opportunità di una carcerazione di fatto coincidente con l'ergastolo. Sappiamo però che tra poco sarebbe scattato l'affidamento ai servizi sociali per gli ultimi quattro anni di pena. Fede ha perciò inoltrato domanda di potersi recare dalla moglie a Napoli al giudice di sorveglianza. Lo stagionato boccalone era sicuro di ricevere il permesso, del quale legalmente godono fior di giovani assassini e anziani mafiosi di cui va tutelata la salute corporale e spirituale messa in questione dal Covid. Non discutiamo di queste concessioni, siamo contro la tortura. Ma ci permettiamo di interrogarci su quali siano i criteri e come si applichino. Perché cioè se si deve distribuire un bonus di generosa umanità siano stati subito individuati gli anzidetti boss e Fede invece crepi lì. Misteri o arbitrarietà?
«ERO TERRORIZZATO». Fatto sta che per Fede il permesso tarda, sarà forse lo Smart Working dell'amministrazione giudiziaria, o magari la colpa è dell'incendio notturno dei mesi scorsi nella cancelleria del palazzo di Giustizia di Milano: un falò che ha incenerito proprio i fascicoli in uso ai giudici di sorveglianza. L'uomo non è fatto di legno, bussa all'uscio la data dell'ottantanovesimo compleanno, e Fede esplode, vuol passarlo a Napoli, dove abita la moglie Diana De Feo, santa donna, e celebrarlo con lei in un ristorante sul lungomare. Come scrisse un poeta prematuramente scomparso: «Primavera è due vecchi che si vogliono bene» (Brunello Mucci). Lo documenta la fotografia della coppia ottuagenaria di Barcellona che ha potuto infine baciarsi pur separata dalla plastica. Ma per Fede chi vuoi che si commuova? Emilio l'Africano decide di partire. Informa, povero pirla, i carabinieri di Segrate della sua decisione di dare per accordato il permesso e di recarsi sotto il Vesuvio sulla parola. Il viaggio fila liscio. Dalle parti di Castel dell'Ovo tira una profumata brezza. Due passi sul lungomare. Non mette la mascherina, in Campania non è obbligatoria, è riconoscibilissimo, pur rugoso e giallastro come i principi incartapecoriti dei romanzi russi. Il tavolo al ristorante con la signora. Ed ecco, prima di soffiare le candeline, la sorpresa. Si palesa e si qualifica un ufficiale dei carabinieri («gentilissimo», noterà Fede dalla camera d'hotel della sua neo-prigionia). C'è un mandato d'arresto per evasione. L'inventore del Tg4 non dimentica di essere un cronista assunto da Enzo Biagi alla Rai nel 1960, e sa che per il pubblico il gusto della narrazione sta nei particolari: vede i militari in borghese, li conta, sette in tutto. Lo portano via davanti alla moglie.
LA LEGGE DI GOMORRA. La gente intorno, ma anche noi che scriviamo, guardiamo la scena di questo monumento antico buttato giù pure lui come quelli americani, e restiamo interdetti. Viene interrogato per tre ore nella notte. Fede al telefono racconterà il suo stato d'animo: «Terrorizzato». Non bastava dire: ehi signor Fede, finisca pure la cena, se vuole prendiamo un caffè e usciamo insieme senza scandalizzare e senza farla vergognare davanti a camerieri e clienti? Siamo arciconvinti che Emilio Fede ha sbagliato. Bisogna assoggettarsi alle condanne e rispettarle. Sopportare anche quelle che si ritengono ingiustizie. In fondo lo Stato siamo noi. Se ci tocca ingozzarci di questa sbobba nauseabonda, ne siamo pure noi responsabili. Ma perché è così? Perché la giustizia colpisce inesorabilmente gli innocui - simpatici o antipatici non conta - incapaci di far danno, specie se ex potenti, e usa i guanti di seta e lascia nei loro aurei posti di comando toghe che hanno insozzato la loro sacra (?) missione? Imparzialità fammi un fischio. C'è qualcuno che può darci il visto per il Burundi o per l'Uganda, o la residenza in qualche altro Paese alle falde del Kilimangiaro dove esista almeno un barlume di civiltà e di rispetto per i vecchi? In Italia tutto questo è calpestato, altro che Stato di diritto. Da noi ci sono città - una a caso, Napoli - dove la criminalità impera, vi si alimentano leggende nere di eroi imprendibili e onorati dal volgo, e la letteratura e la tivù ne glorificano il regno con il nome biblico di Gomorra. In compenso un manipolo di agenti con una morsa a tenaglia da studiare all'accademia sono riusciti a catturare Emilio Fede. Altro che Eichmann.
Da leggo.it il 24 giugno 2020. «Alla fine è stata un'esperienza positiva, intorno a me si sono stretti tanti amici e colleghi. In questo momento mi farebbe piacere avere qui un rappresentante dell'arma a cui stringere la mano». Lo ha detto all'Ansa Emilio Fede, arrestato ieri a Napoli per evasione dalla detenzione domiciliare, dall'albergo del lungomare in cui ha trovato alloggio lunedì sera dopo essere arrivato all'ombra del Vesuvio. Fede si è anche brevemente affacciato al balcone dell'hotel, come è stato immortalato in un video. L'ex direttore del Tg4, che oggi compie 89 anni, attende la decisione del tribunale di sorveglianza che dovrà decidere se confermare la misura cautelare notificatagli dai carabinieri mentre era a cena con la consorte. Lui, fa sapere il suo avvocato, Salvatore Pino, «preferisce rinunciare a presenziare personalmente». A rappresentare il giornalista, nell'udienza di oggi, sarà l'avvocato napoletano Gennaro Demetrio Paipais. «Vivo questa esperienza - ha detto ancora Fede - come la vive un vero giornalista, senza rancori e senza odio, con la precisa intenzione di aprire un dialogo tra chi tutela i diritti dei cittadini. Un grazie ai carabinieri per come agiscono, accanto a noi».
M.A. per “il Messaggero” il 24 giugno 2020. Diana De Feo, giornalista ed ex senatrice di Forza Italia, è una donna intelligente, sempre pronta a battersi per il marito e a difenderlo in ogni occasione molto amorevolmente. Non ha uno stile altisonante, ma mai come stavolta sembra - a parlarci al telefono - sconvolta. «Sono qui in albergo con Emilio, nella sua stanza, e che nottataccia abbiamo passato. Sono ancora terrorizzata per la scena che abbiamo dovuto subire al ristorante, ma sono anche fiduciosa. Emilio non ha fatto niente di male. E’ venuto a trovare me, che vivo a Napoli, e per farlo ha avvertito chi doveva avvertire. Dov’è la colpa?». Diana abita in un posto molto bello, alla Floridiana, a Villa Santa Lucia. «Pure a casa mia sono venuti a cercare Emilio. Diana ha organizzato per stasera la festa napoletana per gli 89 anni di suo marito. «Ero contenta di fargli questo regalo. Anzi di farcelo a tutti e due, a tutti noi. Poteva essere un’occasione, dopo tanta sofferenza, per una rimpatriata con un sacco di persone che a Emilio vogliono molto bene. Una persona che viene a Napoli per curarsi, per stare con la moglie, e per vedere qualche amico non lo si può far passare per delinquente. Specialmente se ha chiesto il permesso. E oltretutto Emilio è un uomo che crede nella giustizia, come ha dimostrato sempre e anche durante questi mesi di condanna e di arresti domiciliari in cui si è comportato benissimo». Ma la festa non ci sarà? La De Feo non dispera. «Vediamo come va l’udienza oggi. Ma intanto stiamo amorevolmente litigando. Lui dice che deve restare chiuso in albergo al Santa Lucia, senza poter mettere il naso fuori dall’uscio. Io dico che non è detto e spero di vincere».
Emilio Fede: “Convinto di aver terminato una condanna ingiusta, questa è persecuzione”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Giugno 2020. Emilio Fede, in detenzione domiciliare a seguito della condanna definitiva per il processo Rubi Ter, lunedì ha preso il treno ed è andato da Milano a Napoli, dove risiede la moglie, l’ex senatrice di Forza Italia, Diana De Feo. Quando la coppia si mette a tavola in un ristorante del lungomare di via Partenope, però, non fa in tempo a consumare l’insalata ordinata: quattro carabinieri circondano l’ex direttore del Tg4 e lo portano via con le gazzelle, in stato d’arresto. L’accusa è di evasione. Era in attesa della comunicazione di fine dei domiciliari e dell’assegnazione ai servizi sociali per la parte rimanente della condanna. I carabinieri che lo arrestano non possono che confinarlo nella sua camera d’albergo – anche in ragione dei suoi 89 anni, festeggiati ieri – ma gli raccomandano di “non dare visibilità”. Noi lo abbiamo sentito, trovandolo molto provato. E un po’ di visibilità riteniamo di doverla dare. «Sono sotto choc, un trattamento che non meritavo. Ho saltato la cena ieri e dormito pochissimo stanotte. E adesso sto tremando dalla febbre», ci dice al telefono Emilio Fede. Mentre parla con noi sta aspettando il medico chiamato per visitarlo.
Andiamo con ordine. Ci racconta cosa è successo?
«Succede che ritenevo di aver concluso il periodo degli arresti domiciliari a cui ero stato condannato per il processo Rubi-Ter. Perché mi è arrivato un documento dove si dice che si sarebbe data esecuzione alla mia richiesta di assegnazione ai servizi sociali».
E così è uscito di casa, a Segrate, dove era ai domiciliari, ed è andato a Napoli.
«Ritenendo di poterlo fare, ho comprato il biglietto del treno per Napoli e ho raggiunto mia moglie Diana per festeggiare con lei il mio compleanno. Lei mi ha invitato a casa sua ma ci sono troppe scale da fare e io ho sono caduto e non muovo più bene una gamba. Cammino col bastone. Ho scelto un albergo in centro dove riesco a muovermi meglio».
Ma non poteva andarsene da casa.
«E io non lo sapevo. Prima di uscire ho preso il telefono e ho scritto un messaggio di testo al comandante della stazione dei carabinieri di Segrate, una bravissima persona che ha sorvegliato questo periodo in cui… dovevo stare a casa».
Ai domiciliari.
«Appunto. Ma io sono figlio di un brigadiere dell’Arma, in loro ho fiducia. Così ho scritto al Comandante: vado a Napoli dove c’è mia moglie e anche uno specialista per la gamba di cui mi fido. Mi faccio visitare, festeggio il mio compleanno e torno a casa. Ci rivediamo a Segrate».
Ed è stato arrestato. Come è andata?
«Una scena da film. Arrivo al ristorante, su via Partenope. Ordino una cosa leggera, una insalata di pomodori. Non fa in tempo ad arrivare, perché arrivano prima i Carabinieri. Un tenente e tre suoi uomini. Ci fanno alzare dal tavolo e ci portano a parlare in una sala riservata. Mi notificano un mandato di cattura e ci informano che una pattuglia si trova a casa di Diana (la moglie Diana De Feo, ex senatrice di Forza Italia, ndr). A quel punto ci portano via, io devo salire nella gazzella e mi conducono nel mio albergo, perché devono mettere a verbale».
E cosa le dicono?
«Che sono in arresto per evasione. Io ho detto: “Evasione? Ma io pago le tasse, cosa volete, oggi vivo con la sola pensione”. Allora hanno specificato: non evasione fiscale, evasione dai domiciliari. Perché non sarei ancora potuto uscire di casa, come credevo».
Ha chiesto l’assistenza di un legale?
«Sì e ho chiamato subito il mio avvocato, Salvatore Pino. Non rispondeva. E allora sono rimasto due, tre ore con i carabinieri che insistevano nel chiedermi perché fossi lì. Ho ripetuto cento volte le stesse cose. Alla fine l’avvocato ha risposto e ha parlato al telefono con l’ufficiale dell’arma. Ho firmato i verbali, mi hanno posto agli arresti in albergo, con obbligo di dimora e una raccomandazione che mi ha fatto trasalire».
Quale?
«Non si esponga. Non dia visibilità. Stia chiuso in camera, possibilmente anche con la finestra chiusa. Sono scattato, perché sono un uomo d’ordine e rispetto le regole, ma qui si esagera. Non mi si può trattare come un gangster. Sono un uomo pulito, in verità non ho mai avuto a che fare né con le escort, né con la droga. Già era ingiusta quella condanna, ora questa mi sembra persecuzione».
Lei fermo non ci sa stare.
«Da inviato andai in tutti i teatri di guerra più pericolosi, con la Rai che mi mandava a dire che se fossi morto, non si assumevano responsabilità. In otto anni in Africa ho girato più di quaranta reportage da paesi in guerra civile. In Angola sono saltato su una mina antiuomo. E rientrato in Italia, venni a Napoli durante l’epidemia di colera. C’era da documentare quel che accadeva nel reparto grandi infettivi del Cotugno, nessun operatore aveva il coraggio di entrare. Dissi: vado io da solo. E rimasi cinque ore tra gli infetti».
E adesso?
«Mi faranno il processo per direttissima, entro due giorni. Aspetto di sapere. Napoli è una città dove si respira umanità. E io nell’umanità ho sempre avuto fiducia, nonostante tutto».
Mario Ajello per “il Messaggero” il 24 giugno 2020.
Pronto, Emilio Fede?
«Lurido, pezzente, feccia della società!».
Pronto, pronto, Fede... Ma con chi stai parlando?
«Figlio di buona mamma, che ti possa prendere un accidente!».
Beh, ora esageri.
«Scusa, non ce l'avevo con te. Sull'altro telefonino mi chiamano sconosciuti e mi insultano, mi minacciano. Ma sono dei poveretti, isolati. L'opinione pubblica è con me e anche qui sotto all'albergo dove sono recluso, il Santa Lucia a Napoli, vista mare, mi dicono che c'è gente che grida: mettono il libertà i mafiosi e in galera Fede, vergogna! Ed è proprio così, una vergogna quello che mi sta accadendo».
Ma guarda che sei un evaso. Fuggito dagli arresti domiciliari a Segrate e nascosto a Napoli.
«Non sono evaso affatto, e figuriamoci se mi nascondo: mi conoscono tutti. Hanno inventato una fuga, anzi la fuga c'è stata - con tanto di bastone da vecchietto a cui mi appoggio per camminare e non è certo uno strumento da grandi evasioni - ma con un tacito permesso dei miei sorveglianti. Ho mandato un Whatsapp al comandante dei carabinieri di Segrate, che conosco e con il quale ogni tanto prendo il caffè, e nel messaggino ho scritto chiaramente: devo fare un salto a Napoli a farmi vedere da un bravissimo fisioterapista».
E lui ha risposto «vada pure»?
«Non ha risposto ma ho giudicato la non risposta un silenzio assenso».
E poi?
«Parto, arrivo alla stazione di Napoli, vado in albergo a lasciare la valigia, mangio una pizza con mia moglie da Antonio, ristoratore mio amico a Santa Lucia. O meglio, non ordino una margherita ma un'insalata di pomodori e cipolle rosse. La sognavo da tempo, chiuso nella mia casa a Milano. Ma non faccio in tempo ad addentarla che arriva Antonio e mi dice: lì vedi quelli, sono qui per te, vogliono arrestarti».
Quanti erano?
«Erano in cinque, credo. E in borghese. Se si fossero presentati in divisa, e con l'aria da blitz contro chissà quale boss della mafia, avrei reagito male. Mi sarei messo a gridare in mezzo alla sala rivolto ai presenti: salvatemi, fermateli, aiutoooo. E invece, per loro fortuna, hanno usato le buone maniere».
Però ti hanno arrestato davanti a tutti?
«Ma neanche per sogno. C'era un tenente dei carabinieri e altri quattro. Dico loro, seguitemi in albergo e parliamo nella hall».
Le guardie obbediscono all'evaso e non viceversa?
«Eh, quando ci sono di mezzo io anche questo può accadere. E comunque: mi interrogano per 4 ore. Ma sono io che porto per mano durante l'interrogatorio il giovane tenente, molto cortese in verità. Gli dico: non esagerate, tenete alto l'onore dell'Arma, non fate giustizialismi a vanvera. E aggiungo: mio padre, brigadiere dei carabinieri, eroe decorato al valor militare sul fronte somalo, mi ha insegnato a rispettare sempre l'autorità, ma dovete essere degni di rappresentarla. Quel che è certo è che nessun tenente o caporale può decidere della mia vita».
Oggi c'è l'udienza per convalidare l'arresto. Vincerai tu o vinceranno loro?
«Io, naturalmente. Ho tutto nel telefonino, e me lo tengo stretto anche di notte, lo metto nella tasca del pigiama o sotto il cuscino. Se sparisce quello sono fritto. Se invece lo posso esporre davanti al giudice, lui potrà leggere il messaggino che è semplice e chiaro e mi darà ragione. Così resto a Napoli, sennò, mi toccherà tornare a Segrate».
Ma sei sicuro di aver agito in buona fede?
«Sono Fede di nome e di fatto».
Non credi che la giustizia vada rispettata fino in fondo?
«E' proprio quello che faccio. Ma secondo te è giusto che una settimana fa il Tribunale di Sorveglianza mi dice che posso uscire subito dai domiciliari, per buona condotta nei 7 mesi di detenzione per il caso Ruby, e subito dopo riprendono a perseguitarmi? Stavo tranquillamente in attesa di andare ai servizi sociali, ma niente: si sono proprio accaniti».
Ti senti un perseguitato anche se ne hai fatte di tutti i colori?
«Mi sento un cittadino modello trattato da peggiore dei delinquente, costretto a vivere come Silvio Pellico, quello delle Mie prigioni che infatti sto rileggendo. Pensa che ho anche il divieto di apparire dalla finestra dell'albergo, sennò qualcuno può gridare: evviva Fede! Mi consolo con il fatto che mi stanno telefonando da tutto il mondo per dirmi: Emilio, siamo con te».
Anche il centrodestra in Italia sta dicendo che sei una vittima.
«Bravi, fanno bene. E la sinistra perché non lo dice? Sta perdendo un'occasione di onestà. La verità è che questo è un Paese giustizialista, speravo di vederlo cambiare, ma niente».
Silvio ti ha chiamato per solidarizzare?
«Ancora no, ma con Berlusconi ci sentiamo abbastanza spesso. Ci vogliamo un gran bene. Ma aspetta un attimo.... Cornuto, fetente, cialtrone!».
Ce l'hai di nuovo con lo sconosciuto di prima?
«No, è un altro. Ormai la miseria è dilagante. Non sono degni di parlare con Fede, ma insistono lo stesso».
Candida Morvillo per il "Corriere della Sera" il 26 giugno 2020. Alla fine, Emilio Fede è riuscito a festeggiare il compleanno in famiglia e a spegnere le candeline con la moglie, meritevole da quasi 60 anni di avergliele perdonate tutte. 'O sole mio e tamburelli in sottofondo: non diresti che l'happy family esce da 48 ore da incubo, con lui accusato di evasione dai domiciliari, fuga da Milano a Napoli e, di nuovo, rievocazioni in cronaca di scandali per prostituzione ed escort.
EMILIO FEDE DIANA DE FEO
La moglie arriva come se niente fosse: «Tempo buono, non caldissimo, è una bella serata». La figlia Sveva giustifica il papà con tenerezza: «Si era solo dimenticato di aspettare il permesso per partire: è andato in confusione per l'emozione di poterci finalmente incontrare. Viene anche mia sorella da Parigi». Si raccontano a cena al ristorante dell'Hotel Santa Lucia, dove l'ex direttore del Tg4 se n'è stato recluso dopo l'arresto e che ieri ha lasciato per scontare i domiciliari residui nella casa di Segrate. Addio affetti e addio camera vista mare e servizio cinque stelle lusso.
Fede: «Il proprietario mi fa uno sconto enorme: è un amico perché andiamo insieme in chiesa a pregare. Io ringrazio nel nome del padre del figlio e dello spirito santo per avermi dato la donna che più ho amato e amerò». La donna è Diana De Feo, giornalista, già senatrice berlusconiana, Napoli bene, figlia di un allora potentissimo dirigente Rai. Molti dei 56 anni di matrimonio li hanno passati lui al Nord, lei fra Roma e Napoli, ma sempre uniti. Lei: «Ci sentiamo dieci volte al giorno, abbiamo la stessa visione delle cose. Se litighiamo è solo per il piacere di fare una piccola discussione». Lui: «I domiciliari li avrei fatti da lei, magari me l'avessero consentito, e però ho anche una gamba inagibile, ho operato le vertebre, sette ore di intervento, mi muovo col bastone e l'autista che mi trascina, e casa di Diana è piena di scale». Pausa. Voce tremula. «Vengo da dieci mesi di solitudine. Questo è il primo momento di commozione e serenità. A Segrate, cucino, lavo i piatti, ho una cameriera due ore al mattino, poi va via. Vado a dormire a mezzanotte e 16 perché so che Diana spegne la luce dopo gli ultimi tg. Così, sogno di tenerla per mano: non dormiamo insieme, ma il sogno ci unisce». Quando parlano l'uno dell'altro, tanto lui è lirico, tanto lei è spiccia. Lui: «È un amore nato romanticamente, ero molto suggestionato dalla sua bellezza: era la più bella di Roma. Aveva avuto la proposta di matrimonio da Costantino di Grecia. La corteggiavo, ci sedevamo a tavola e, in base al risultato del solitario, decidevamo dove cenare. Quando le ho chiesto perché ha rifiutato Costantino, mi ha risposto: perché con te mi diverto». Lei: «Non c'era solo Costantino. Potrei fare i nomi di altri sovrani, ma ormai sono una vecchia signora e tutto è solo lontano». Quanto ai solitari, furono complici della proposta di matrimonio, per niente romantica, a sentir lei: «Eravamo al Cervino, lui cadde, si slogò una caviglia, io continuai a sciare. Lui mi fa: vai pure, io ora faccio un solitario e, se riesce, vuol dire che ti chiedo di sposarmi e dici di sì. Torno, dice che il solitario è riuscito e io: se è destinato così, va bene». Lui si professa divorato dalla gelosia: «Ho avuto paura di perderla molte volte. La mia è una gelosia eterna, solenne. Cercavo di corrompere la cameriera. Chiedevo: chi viene a cena e che tipo è? Adesso, la gelosia è alimentata dal fatto che lei è bella e io sono avvizzito». Lei scrolla le spalle: «Io la gelosia non so che sia, non è una cosa che m' interessa. Quello che lui fa mi è indifferente». Tutto il carosello del Bunga Bunga, delle Olgettine promosse a meteorine o candidate in politica, lui lo nega («mai visto sesso e porcherie varie») e lei gli crede, o comunque non le importa. Dice: «I processi non li ho vissuti con difficoltà, ho fiducia in Emilio, so che è tutto falso, lo so proprio». Domanda: davvero non ha mai contemplato la parola «divorzio»?
Risposta: «Ma scherza? Io sono per la famiglia, la famiglia è una cosa bellissima. Uno ha delle discordie, ma abbiamo due figlie, cinque nipoti, la famiglia è sacra». Avrà pure avuto un momento di esasperazione, fra scandali per giochi d'azzardo e processi sulle cene eleganti? Ma no: «Ho sempre reagito con un'alzata di spalle. Solo una volta gli ho tirato le orecchie: rilasciò un'intervista sul Viagra, gli dissi che non erano interviste da fare». Lui (agitatissimo): «Dirò una cosa sulla quale io e Diana, dopo, litigheremo, ma voglio che lei lo ammetta adesso, a un giornale. Se no, mi alzo da tavola e me ne vado. La cosa è questa: lei ama figlie e nipoti in modo eccezionale perché, inconsciamente, riversa su di loro l'amore che ha per me». Diana (imperturbabile): «Non gli badi. La verità è che lui è un po' gelosetto delle figlie: ha bisogno di credere che io amo tanto loro perché, in realtà, amo molto lui».
Tutte le "fedate" di Emilio, dal bunga bunga all’arresto. Il Corriere del Giorno il 24 Giugno 2020 di Paolo Berizzi tratto dalla sezione Rep: del quotidiano La Repubblica. Le cene con Berlusconi, Lele Mora e le veline. Le olgettine e il botulino. I guai con il fisco. La parabola del giornalista ammanettato in una pizzeria di Napoli sulla soglia degli 89 anni. Una “fedata”. Un azzardo dei suoi, di quelli che un tempo, quando le cose giravano bene, posava sul tavolo verde: Saint Vincent, Monte-Carlo dove era di casa, ossequiato come i clienti vip che spendono e spandono e lasciano mance più che altro per farsi notare. Celodurismo da roulette. E fa niente se dal passato incombeva qualche ombra, i soliti scandali che non se ne sono andati mai via (ma lì fu assolto): roba da polli da spennare. Erano gli anni belli della fama e della vita spericolata senza troppe conseguenze. Quando ancora era giovane; quando c’era il giornalismo e le cene eleganti non finivano nelle sentenze giudiziarie. Emilio Fede, il “Fido” Emilio. Ottantanove anni e l’ultimo arresto come un Arsenio Lupin in modalità agè, in fuga dagli arresti domiciliari per festeggiare il compleanno con la moglie a Napoli. Perché avrà anche perso il pelo, magari pure qualche vizio (forse), di certo un po’ di soldi. Ma se c’è una cosa che Fede proprio non ha perso è la passione per le cene. Da quelle a casa Berlusconi che gli sono costate una condanna per favoreggiamento della prostituzione alla “pizza” con degli amici napoletani che “mi avevano gentilente invitato”, “adesso sono qui chiuso in hotel che non posso nemmeno affacciarmi alla finestra”: l’antica arte del chiagni e fotti, appunto vernacolo napoletano, come napoletana è la moglie di Emilio, Diana De Feo che, dopo anni passati a sostenere e a difendere anche l’impossibile – non più le gaffe e basta, tutto il pacchetto, il veliname e le meteorine, le Ruby, i Lele Mora – si era decisa a declinare a distanza l’amore per il marito caduto in semidisgrazia o comunque abbandonato dagli dei. Nella vita di Fede c’è un prima e c’è un dopo. Difficile trovare, nel giornalismo diciamo patinato, un’altra parabola così: nel bene e nel male. Il prima è un giornalista Rai figlio di un brigadiere dell’Arma (a volte il destino: in via Partenope a “accompagnarlo” in caserma sono ancora i carabinieri) che entra nell’emittente pubblica nel 1961 e – grazie anche alla cura maniacale dei rapporti coi potenti di turno – sale velocemente la scala della carriera interna: uno dei potenti, il vicepresidente Rai Italo De Feo (suocero), ce lo aveva in casa. Ma Emilio da Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) vuole dimostrare di essere uno che vale anche sul campo, non solo nei salotti dove politica e giornalismo s’accompagnano e promuovono gli astri nascenti: per otto anni è inviato speciale in Africa. La cronaca è sempre stato il suo forte. Lui aggiungerebbe: anche le donne. L’inclinazione naturale per la conquista del gentil sesso lo accomuna all’uomo che diventerà il suo Dio: Silvio Berlusconi. Si conoscono nel 1982. Sette anni dopo il Cavaliere (ormai ex) gli affida la creazione di Videonews, l’informazione del Biscione. Il “prima” si compie: dopo aver diretto il Tg1, Fede guida Videonews, Studio Aperto e Tg4. Il “dopo”, la fase 2, per il direttorissimo Mediaset – per anni l’inamovibile per eccellenza – inizia quanto tutto sembra andare a meraviglia. La ruota della fortuna di Fede è abitata da feste, cene, donne, bulli, pupe e macrò. E’ la corte di Silvio. Di Cui Fede è imbattibile cortigiano. Devoto e felice. Del Capo lui è anche amico e compagno di serate. Uno dei pochi uomini ammessi al ”bunga bunga” (l’altro habitué è Lele Mora che però le donne le portava). Su Berluscolandia a un certo punto si abbatte il fato avverso, prima, e la scure della magistratura, poi. “Ruby io l’ho vista solo due volte”, dirà Fede ai magistrati prima di essere condannato. Che rapporti aveva l’ex inviato di guerra con Nicole Minetti, Ruby Rubacuori e lo stuolo di olgettine finite nei letti di Arcore, palazzo Grazioli e villa Certosa? Stando all’inchiesta, consuetudinari. Di “Lelito”, come chiamavano Mora, Fede è stato per anni amico. I due, potentissimi nei rispettivi mestieri, partecipavano attivamente all’agenda del divertimento di Berlusconi: con la differenza che se Mora in quel campo – far conoscere belle donne a imprenditori famosi – era maestro, Fede ci si è trovato un po’ così, a mezz’asta: fruendo del clima e però poi facendosi prendere entrambe le mani e cadendoci dentro. Uno che non ha mai avuto vergogna di nulla, la faccia come il bronzo si direbbe. E più lo accusavano di essere campione di piaggeria verso il datore di lavoro, più ci prendeva gusto e più lo blandiva. Un talento coltivato. Sempre al “servizio”. Fino a guadagnarsi un posticino nel mausoleo di Arcore (che può attendere, ovvio, e chissà però se sarà ancora disponibile). La batosta più pesante forse non è la condanna per la storia delle “avventuriere”, delle buste da sette o diecimila euro, degli appartamenti dove sono parcheggiate le olgettine, dei book come quello di Noemi Letizia che passano dalle mani di Fido Emilio. Il colpo più duro è la rottura del rapporto con Berlusconi, che lo ha sempre paracadutato. Colpa della tentata “cresta” da 1 milione e 200 mila euro che il Gatto e la Volpe (Mora-Fede) ordiscono bussando a palazzo Grazioli. “Un malinteso”, secondo Fede. Ma Zio Paperone (Berlusconi n.d.r.) li sgama: e per Emilio inizia il declino definitivo. Si lamenterà che a Mediaset, dopo averlo gentilmente accompagnato alla porta, gli hanno tolto l’autista. Lui che cantava con Apicella e poi tutto giù in taverna a vedere le ragazze ballare. I giorni cupi sono segnati da altri incidenti di percorso: la valigetta coi soldi in una banca svizzera (“altra balla”) su tutti. Fede non pensa più a rifarsi l’immagine: si rifà solo la faccia. Punturine che lo fanno sembrare la caricatura di se stesso. Basta vedere le ultime foto: sono dei post senza commento. L’ottantanovesimo compleanno, dopo la “fedata”, è andato indigesto. “Il mio arresto? Terrificante”. Se fosse un film si intitolerebbe “una pizza a Napoli”. The end.
Emilio Fede, un grande giornalista rovinato dalla fissa per Silvio Berlusconi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Giugno 2020. Un altro che ci fa pena e che un po’ vorremmo prendere un pochino a pedate fra abbracci e baci, è Emilio Fede. C’è della vocazione al ridicolo e al martirio in quest’uomo, per arrivare a farsi capitare tutte le disgrazie che soltanto a lui, Emilio Fede, sono capitate. L’ultima: si è fatto arrestare per reato di compleanno. Spiegatsija, ovvero spiegazione: lui – Fede Emilio – è condannato a un fracco di anni, credo sette, per la faccenda di Ruby nella quale ha fatto la parte del lenone, e procacciatore di zoccole eleganti. A noi quel processo fa tutto orrore e devo dire che sentire adesso il magistrato Palamara dire che bisognerà una buona volta riparlare del clima nel quale certa magistratura ha fatto i processi a Berlusconi, ci ha disposto tutti all’ascolto e siamo qui ad aspettare. Ma insomma, Emilio Fede è ri-finito al gabbio e poi, in considerazione della sua veneranda età, ottantanove anni finiti ieri, era stato destinato ai domiciliari. E che cosa ha fatto questo nostro amato scemone? Ha preso il treno, la macchina, o quel che è, e ha dato appuntamento a Napoli a sua moglie per festeggiare al ristorante il suo ottantanovesimo compleanno. Dice: ma ha chiesto il permesso? Sì, lui dice che l’ha chiesto. Ma poiché non arrivava in tempo e aveva una cena già stabilita con la sua consorte, anziché fare tutte le reverenze modulari e anziché auto-ammanettarsi preventivamente, quel coglione che cos’ha fatto? Ha fatto finta di essere un normale, un pover’uomo di quasi novant’anni che vuole bere un bicchiere per festeggiare la propria sgangherata vita e non ha rispettato le norme, leggi, statuti, ordinanze. Tutto. E che è successo? È successo che la police – come cantano i bambini francesi – toujour bien enformée, a mis un avis, pompon-pompon, qui diseait comme ca, pom-pon e pompon. E cioè l’avviso di polizia, tradotto, dice che: lu cusiddettu preggiudicati Fede Emiliu, reticendi, renitendi, cundannatu in via difinitiva – si rippadisce di-fi-ni-ti-va – anziché – giù il cappello e su i manetti, (fati vidìri a li fotografi li manetti) anziché stàsseni a casa suia bonu-bonu senza fari nènti e dari segni anghe minimi di vita anziana, illegalmente si ni curreva cu’ la machina fino a Napule, cu’ la scusa de lu compliranno di 89, detto anghe ginitlìacu, oppuri anniverzàriu di fistiggiari co’ la sua propria mugghièra i cu l’amichi ca ci vululevano fistiggiari a isso suddetto Fede Emilio priggiudicatu pericolusissimu, bandito futtutu, portatore di fìmmine a zonzo. anghe a gena di risturantu, visto letto firmato e trombato, si esequi all’arresti con ferri senza ulderiori inducci. Voi sapete che non si può fare un oltraggio del genere a una giustizia benfamata come quella italiana. Non si può, perché quella poi è vendicativa e s’incazza e ti viene sotto al tavolo mentre stai a magnà co’ la mugghièra per i tuoi ottantanove anni, che te pare un cameriere e invece no, era un leggiferato che ti fa vedere documenda e aggenda e ti dici: sc’cùseme, “Ma tu ci ll’hai lu permissu di fare a gena cu’ la tu mugghièra ca tu timentighi ca tu si de-te-nu-tu?” No – fece isso preggiudicato gastolano Fede Emilio, di fregante reato – “No, io non ce l’ho ancora però giuri chi lu chiesi u permissu, ma iddi nu mu fecétteru in tempu e io mi volevo festecciare chissu cumplerannu che macàri mi moru prima e non ge n’ho chiù ti gumbleanni ta festeggiàri”. Allora, dicette a Pulizzia e tutti i forzi dell’ortine e tutti li penitenziati e tutti li servitori della legge e la legge istessa midisima quanto segue e consegue, – levateve in piede, levateve lu cappello, state a capa scoperta e state a ssentì in rispettoso silenzio- chisso decreto ti ordino: Qua si prescrive che, per volere de li signuri suttuscritti, eccetera eccetera, cu tutti li timpri e li bulli e li marchi da cendo lire appiccicati, lei ci seguisse senza fare resistenza con tutti i suoi ottantanove anni di carriera finita a puttane in tutti i sensi, ca nuie la rivugghiamme dentr’ a galera, ccà llì tu devi mànere, quanno ti comannammu nuie. No che fai come cazzo ti pare, e questa mica è na repubblica di banani, qua teniamo manette e cicoria, tutto il mondo ci invidia. Emilio Fede è stato un grande giornalista. Molto bravo e molto Rai. Poi gli prese la fissa per Berlusconi fino a diventare tedioso per lo stesso Berlusconi che mi disse: «A me questo me l’ha imposto Spadolini che mi disse che era repubblicano e che gli dovevo fare assolutamente questo piacere, ma francamente tutto questo zelo mi imbarazza, ma non posso fare niente perché si è costruito questa fortezza di zelo». E infatti, quando hanno cercato di azzannare il Cavaliere, hanno appeso per i pollici al suo posto il suo cantore, adoratore, adulatore e fine dicitore, quello che Berlusconi lo metteva anche nelle previsioni del tempo, esagerando e facendo crollare lo share del suo tg, ma insomma era diventato una specie di brandy, no di brand, di trend e però gliel’hanno fatta pagare ben cara. Se sono vere le notizie di agenzia, Fede ha fatto una cosa illecita: non ha aspettato che accogliessero la sua richiesta di libera uscita per una sera in cui festeggiare l’entrata nel suo novantesimo anno, e ha fatto una specie di bravata e forzatura. E però, in questo Paese di legalità assoluta in cui danno il reddito di cittadinanza alla ‘ndrangheta perché lo si ottiene per autocertificazione dichiarando di essere puliti, a lui, lo prendòrno e lo impacchettòrno e lo mandòrno ar gabbio come alla banda della Magliana, che è un’altra storia italiana mentre questa di Emilio Fede è una storia triste, da accanimento su vegliardo davanti alle candeline, e che cazzo, suvvia, andiamo un po’, un minimo di decoro, no?
Chi è Emilio Fede, da inviato di guerra ad anchorman. Redazione su Il Riformista il 24 Giugno 2020. Figlio di un brigadiere dei Carabinieri di stanza diversi anni in Etiopia, Emilio Fede nasce a Barcellona Pozzo di Gotto (ME) il 24 giugno 1931. Trascorre parte della giovinezza a San Piero Patti, il paese d’origine della famiglia, dove frequenta le scuole dell’obbligo. Si trasferisce poi a Roma con la famiglia dopo la guerra dove consegue il diploma di maturità classica. Comincia giovanissimo l’attività nella carta stampata collaborando con Il Momento – Mattino di Roma. Poi lavora per la Gazzetta del Popolo a Torino Comincia a collaborare con la Rai nel 1954, come conduttore a contratto per Il circolo dei castori con Enza Sampò, passando così dalla carta stampata alla televisione. Il rapporto con la televisione di Stato diventa esclusivo dal 1961. Inviato speciale in Africa per otto anni, realizza servizi in oltre 40 Paesi nel periodo della decolonizzazione e dell’inizio delle guerre civili. L’esperienza africana termina per una malattia e per un contenzioso relativo alle spese di viaggio. Lavora poi con Sergio Zavoli nella redazione della trasmissione d’inchiesta Tv7, il settimanale di approfondimento del TG1. Nel 1987 termina il rapporto con la Rai, in seguito a un processo per gioco d’azzardo finito con l’assoluzione. Nel 1989 passa alla Fininvest di Silvio Berlusconi, dapprima come direttore di Videonews delle tre reti, poi di Studio Aperto, che il 16 gennaio 1991 è il primo notiziario ad annunciare in diretta l’inizio dell’operazione Desert Storm durante la Guerra del Golfo. Nel 1992 lascia la direzione di Studio Aperto perché aveva già accettato la direzione del TG4, il nuovo telegiornale di Rete 4, sostituendo Edvige Bernasconi. Il 30 ottobre 2014 Mediaset gli comunica la rescissione unilaterale, a partire dal giorno successivo, del contratto in scadenza a giugno.
Striscia la Notizia, colpo di grazia ad Emilio Fede: "Anche se ti hanno arrestato…", un fuorionda da brividi. Libero Quotidiano il 24 giugno 2020. "Buon compleanno Emilio Fede". A Striscia la notizia celebrano lo storico ex direttore del Tg4 proprio nel giorno del clamoroso arresto per "evasione" ai domiciliari. Per anni, il giornalista è stato nel mirino di Antonio Ricci per i suoi raptus fuori onda con i poveri redattori e inviati, e Michelle Hunziker e Gerry Scotti ripropongono un pazzesco "best of" dei suoi insulti e imprecazioni quando pensava di non essere ripreso. Ma vogliamo scherzare? Basta! Minchia, cazzotti in bocca poi vado in galera", sbottava il direttore con i sottoposti". Oggi, a 89 anni dopo una serie di disgrazie personali e professionali, ultima la notizia sconcertante arrivata da Napoli, non si può che ridere amaro. Quelli erano giorni...
Emilio Fede, la confessione su Luigi Di Maio: "Quando mi ringraziò perché avevo avuto l'umiltà di andarlo a salutare". Libero Quotidiano il 24 giugno 2020. "Questa non ci voleva proprio". Emilio Fede è distrutto. L'arresto a Napoli mentre si trovava a cena con la moglie in occasione del suo 89esimo compleanno è stato un fulmine a ciel sereno. Per lui l'accusa è di non aver rispettato i domiciliarli impostigli a Milano. "Peraltro - spiega l'ex direttore del Tg4 raggiunto telefonicamente dal Tempo -, un mese fa, dal Tribunale di sorveglianza di Milano avevo ottenuto la concessione di una detrazione di pena, rilevato che nel periodo in questione avevo osservato gli obblighi imposti. Quindi, stava andando tutto bene". Nonostante l'affetto, qualcuno nel mondo politico l'attacca. Si tratta di Alessandro Di Battista che ha scritto che Fede è l'interprete di "una stagione di impunità, di superbia, eccetera, eccetera". "Non me ne frega niente - ribatte il diretto interessato -. Scrivano quello che vogliono. Tanto, mica dai 5Stelle ci si può aspettare che dicano 'Bravo Emilio Fede'. Però voglio sottolineare che io ho un ottimo rapporto con Di Maio". Una dichiarazione inaspettata, che lascia tutti a bocca aperta: "Una volta - prosegue - l'ho incontrato in un ristorante, sempre qui a Napoli. Mi sono alzato e sono andato a salutarlo, perché è così che si fa di fronte ad un ministro della Repubblica. Prima di andare via, invece, lui che si è avvicinato al mio tavolo, e mi ha detto: 'Volevo ringraziarla, perché ha avuto l'umiltà di venirmi a salutare'. È un gesto che ho apprezzato molto, del resto non mi importa niente". Una frecciatina vera e propria che mette ancora più zizzania in un Movimento 5 Stelle già allo sbando.
· Fabio Fazio.
"Maschilista, un finto modesto" La Ferrario ora "massacra" Fazio. Tiziana Ferrario affonda il colpo contro Fazio Fazio e lo accusa di fare una tv maschilista e di essere un conduttore finto modesto. Francesca Galici, Lunedì 05/10/2020 su Il Giornale. C'è maschilismo in Rai? Questa è la velata (ma non troppo) accusa di Tiziana Ferrario, e non solo, a Fabio Fazio, conduttore di Che tempo che fa su Rai3.La giornalista del Tg1 si è lamentata del fatto che il giornalista, nel suo programma, preferisce ospitare prevalentemente colleghi uomini, dando poco spazio alle donne. La protesta è scoppiata su Twitter, dove in tanto si sono accorti della tendenza. La pacifica protesta si è sviluppata sotto l'hashtag #tuttimaschi, sottolineando come, anche durante l'ultima puntata, gli ospiti fossero tutti uomini. Giovanni Floris, Carlo Rovelli, Samuele Bersani, Nicola Zingaretti, Vincenzo Mollica, Pierfrancesco Favino, Johnny Dorelli, Alberto Mantovani, Ken Follett, Silvio Orlando e Fabio Fognini. L'unica donna della lunga serata è stata Flavia Pennetta, moglie di Fognini e vincitrice degli Us Open di tennis, che però non era in studio ma in collegamento. E il marito? Lui era sulla poltrona di Fabio Fazio. Il caso di Che tempo che fa è immediatamente stato sottolineato perché si inserisce in un contesto già messo in evidenza più volte da tantissime utenti. Negli, nei summit e nelle tavole rotonde, le donne sono sempre in minoranza ed è così che è nato l'hashtag #tuttimaschi, con il quale le donne lasciano le loro segnalazioni sugli eventi maschilisti. Il tema sta particolarmente a cuore a Tiziana Ferrario, che di recente ha anche scritto un libro in materia. Vista la polemica nata sul tema, il mezzobusto del Tg1 non poteva esimersi dal commentare e dire la sua. "La tv maschilista. Una tradizione italiana di cui non essere orgogliosi. Ecco gli ospiti di Che tempo che fa. Ne parlo nel mio nuovo libro Uomini è ora di giocare senza falli", ha scritto Tiziana Ferrario, denunciando un'usanza frequente nella tv italiana, soprattutto in quella pubblica, dove pare sia necessario introdurre l'obbligo delle quote rosa per vedere personaggi femminili nei parterre più autorevoli. Ovviamente, l'appunto della giornalista ha trovato anche pareri negativi in chi, sostenitore della tv di Fabio Fazio, ha suggerito alla Ferrario di cambiare canale se lo spettacolo non era di suo gradimento. "Bisogna fare in modo che sia più in linea con la realtà del nostro paese fatto da donne competenti. Perché non ci sono? Il parterre di un programma TV non è fatto a caso", ha obiettato Tiziana Ferrario. La giornalista non ha messo nel mirino solo la puntata di ieri del programma di Fabio Fazio ma l'intero format del giornalista, che va avanti invariato da molti anni. La struttura che prevede le parti invertite nei ruoli principali del programma, in Italia, non potrebbe essere realizzabile "con donna che conduce, bel valletto che annuncia e comico bravo ma bruttino".
Da liberoquotidiano.it l'8 ottobre 2020. Fuoco amico su Fabio Fazio. Anche il Fatto quotidiano, storicamente mai molto cattivo con il conduttore di Che tempo che fa, picchia duro per mano di Daniele Luttazzi. Il comico protagonista del famigerato "Editto bulgaro", nella sua rubrica fissa, si dice ironicamente "ammirato dal fiuto rabdomantico con cui, su undicimila giornalisti italiani, Fabiofazio riesce ogni volta a scovare nel mazzo quelli così educati da non contestargli mai le belinate". Luttazzi si riferisce all'intervista rilasciata da Fazio alla Stampa e la partenza è col botto: "Quando abbiamo cominciato, eravamo l'unico talk show", ha spiegato il conduttore genovese. "No - replica a distanza Luttazzi -, ce n'era un altro identico, ma proprio l'anno prima era stato fatto fuori dall'editto bulgaro, mentre il suo è in Rai da 18 anni ininterrotti (certa gente ha proprio tutte le fortune)". Su costi di produzione, maxi-contratto, giudizio della Corte dei Conti e pubblicità, poi, è un fuoco di fila: il comico sposa in tutto e per tutto le critiche di Michele Anzaldi, membro della commissione di Vigilanza Rai. E quando Fazio spiega di essere stato retrocesso prima a Raidue e poi a Raitre a causa di una "campagna diffamatoria, frutto del populismo", Luttazzi fa un salto sulla sedia e risponde con le parole sempre di Anzaldi sul Giornale: "Fazio attacca Salvini, ma la Rai di Salvini, presieduta dal Marcello Foa, lo ha lasciato al suo posto senza neanche sfiorare l'appalto a Officina srl, che è stato rinnovato tutti gli anni dalla Rai gialloverde alle condizioni di Fazio". Come la mettiamo ora?
Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 12 maggio 2020. A volte basta una battuta felice per sbaragliare una faticaccia di analisi. Il governatore Vincenzo De Luca (iscritto d’ufficio al Circolo Pickwick) ha definito Fabio Fazio «fratacchione». C’è da aggiungere altro? Un osservatore di costumi potrebbe scrivere che la tv di Fazio è prigioniera del perbenismo culturale, quel tarlo che ha trasformato la «cultura» in melensaggine e che consiste nel promuovere il già noto, il già celebre, «i volti più amati della tv». Se a fine anno qualcuno facesse l’elenco dei dischi, dei film, dei libri, delle iniziative «culturali» presentati da Fazio ne verrebbe fuori la mappa ideale del ceto medio riflessivo, dei democrat, di quella sinistra sentimentaloide che ha trasformato la Storia in patetismo («buoni» fuori ma «spietati» dentro, diceva quel tale). È vero, ma è un’osservazione quasi banale. Fratacchione è meglio. Un critico potrebbe scrivere che la tv di Fazio si fonda sulla ripetitività, sul linguaggio ridondante e «corretto», sul senso di appartenenza. La tv generalista funziona quando volge il suo sguardo all’indietro, quando non osa mai, quando le sue principali offerte vengono vissute come cerimonie sociali (le fragilità estetiche e linguistiche sono assorbire dalla liturgia della visione e la superfetazione diventa un punto di forza, di potere). È vero, ma è un’osservazione scontata. Fratacchione è meglio. Uno studioso della psiche potrebbe scrivere che Fazio (il personaggio, non la persona) da tempo immemorabile ripete sempre lo stesso schema mentale, con pochissime variazioni. Forse la sua esperienza giovanile di imitatore lo ha portato infine a imitare sé stesso, fiero del suo usato sicuro. È vero, ma è un’osservazione che sfiora il luogo comune. Fratacchione è meglio. Da parte mia potrei solo aggiungere che la tv di Fazio è una clessidra sociale che viene di continuo capovolta. Ma mi vergogno dell’insulsaggine. Fratacchione è molto meglio.
Antonello Piroso per “la Verità” il 29 settembre 2020. Io odio Fabio Fazio. Come - si parva licet - Antonio Gramsci odiava le persone «cosiddette serie, che cercano - abusando di questo loro carattere da commedia - di truffare la nostra buona fede». Come odia, in realtà, lo stesso Fazio. Arcano svelato da Nino Frassica, presenza gradita nella sua trasmissione: «È un uomo che ama e odia in maniera netta: se gli piaci è per sempre, altrimenti con lui scatta il "mai". Niente grigi». Fazio, insomma, non è un santo. Semmai un santino della sinistra da salotto televisivo, memori del giudizio che ammiccava a un certo qual suo conformismo di convenienza, emesso da Antonio Ricci, che non lo ama: «Noi siamo diventati di sinistra perché avevamo professori di destra. Fazio è diventato di sinistra perché aveva professori di sinistra». Per tacere dello scomparso Edmondo Berselli (direttore della rivista Il Mulino ed editorialista di Repubblica e Espresso, quindi non certo un populista-sovranista rancoroso e con la bava alla bocca) che prese posizione «contro il conformismo pensoso di Fazio, contro le modeste volgarità della madamìn Luciana Littizzetto, contro tutti gli idola tribus - gli idoli della tribù - che riempiono continuamente di applausi lo studio di Che tempo che fa, santuario e cenacolo dei ceti medi riflessivi». Fazio è umano, proprio come tutti noi (solo, sia detto con somma invidia, pagato decisamente un po' meglio). E se almeno dietro le telecamere non è sempre buono, davanti alla luce rossa, invece, o nelle interviste ai giornali, Fazio è un uomo a una dimensione, marcusianamente parlando: quella buonista. È successo ancora una volta sabato scorso, nell' intervista alla Stampa per il suo ritorno in video (e sarà stato poi un caso ma, domenica sera al debutto, il quotidiano torinese è stato ampiamente inquadrato durante l' intervista a Luigi Di Maio - proprio lui, quello che nel dicembre 2018 sentenziava: «Esiste un caso Fazio in Rai», il che conferma la nota coerenza di Di Maio, ma si sa, come si canta a Napoli e dintorni: «Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato»; il tutto per 2.280.000 telespettatori nella prima parte, un milione in meno nella seconda). Prima c'è stata una timida domanda sui suoi compensi, che ha consentito a Fazio di vestire i panni del martire, dopo aver scritto in passato su Twitter addirittura di «anni di linciaggio»: «C' è stata una campagna diffamatoria, frutto del populismo » (e te pareva), per poi aggiungere: «La Corte dei Conti ha sentenziato che Che tempo che fa costa la metà di qualunque altro varietà». E qui si potrebbe opinare che «programmi d' intrattenimento» tipo la fiction Il commissario Montalbano o tipo Ballando con le stelle sono più replicabili e più vendibili all' estero di un talk show, tanto più se gli ospiti sono autoctoni, vedi alla voce Gigi Marzullo e Orietta Berti, e non personaggi internazionali (che peraltro da Fazio non vanno sempre e solo perché sta loro simpatico: il campione del mondo di Formula Uno Lewis Hamilton avrebbe raggranellato 150.000 euro per 25 minuti, cifra mai rettificata). Tornando alla conversazione con La Stampa, è stato il passaggio successiva a innescare la mia idiosincrasia. Perché esso disvelava, a parer mio, la solita pulsione all'esibizionismo etico - stante la definizione di buonismo della Treccani: «L'ostentazione di buoni sentimenti, tolleranza e benevolenza». Per Fazio, infatti, mala tempora currunt: «Il populismo non mi sembra, né da noi né all'estero, un fenomeno destinato a un rapido fallimento» (e qui io avrei gentilmente interloquito: «D'accordo, ma non sarà che oggi abbiamo questi qua perché prima c'erano quelli là? E visto che celebriamo i 18 anni del programma, in tutto questo tempo lei non s'era accorto di nulla? E come incalzava i suoi ospiti, magari di sinistra, a fare di più e meglio per scongiurare l'arrivo dei barbari?"). Non basta: «Manca completamente la capacità di analisi, manca il pensiero, l'unica cosa che facciamo è consumare. Ha prevalso ancora una volta l'egoismo e la bulimia». E qui il Franti che è in me ha avuto un sobbalzo. Perché è davvero cosa buona e giusta preoccuparsi di come il mondo sia un luogo brutto, sporco e cattivo, non meritocratico, tracimante di aberranti sperequazioni e virus generati dalla nostra incontinenza, magari invocando la «decrescita felice», ma com'è che ce ne accorgiamo tutti non prima o durante, ma sempre dopo, quando cioè grazie alle rapaci leggi di mercato siamo diventati economicamente più ricchi? In fondo è quello che deve ritenere intimamente lo stesso Fazio, se parlando con Di Maio della proposta di «tagliare» gli emolumenti dei parlamentari, se n'è uscito così: «Una cosa sono gli sprechi, una cosa sono i costi, e in una società di mercato il denaro misura il valore delle persone». Et voilà. Forse intendeva «la competenza», ma in ogni caso l'assioma dice tutto (siamo dalle parti del «profitto come segno della grazia divina», evocando Max Weber e il suo L' etica protestante e lo spirito del capitalismo; sì: l'etica e la cotica).
Ergo: se è riuscito a strappare un accordo quadriennale per un programma che costa complessivamente 18 milioni e rotti all' anno (cifre del Sole24Ore nel 2019: 2.240.000 a lui, 10.644.000 alla società che produce il talk e di cui lui detiene il 50%, il resto sono costi industriali), è perché è bravo. Il più bravo. Di certo a farsi strapagare, beato lui. Da chi? Dalla tv pubblica, appunto. Dove fu trattenuto grazie al renziano - almeno all'epoca - direttore generale Mario Orfeo, e al presidente Monica Maggioni che chiosò (titolo di Repubblica): «Non so se la Rai avrebbe retto senza Fazio. Possibile impatto sistemico, occupazione a rischio». Nientemeno. E perché il pericolo di un trasloco in un'altra azienda fu scampato? Da chi era stata messa in forse la firma? Da Fazio stesso. E perché? Perché nel 2017 aveva scoperto che, toh, la Rai - dove aveva debuttato nel 1982 alla radio - era lottizzata, lui da sempre indicato come un Walter Veltroni boy, e «colpita al cuore» dalla partitocrazia: «Intrusioni senza precedenti, vulnus forse insuperabile». Forse, appunto. Visto che poi è intervenuto il sontuoso rinnovo. Che poi i partiti a qualcosa sono pure serviti, nella storia della Repubblica e anche in quella sua personale. Almeno a dar retta a Daniele Luttazzi, che nel 2007 tirò fuori la confidenza che Fazio gli fece nel 1992, quando lavoravano insieme a Tmc: aver evitato il servizio militare grazie a una raccomandazione di Bettino Craxi. Apriti cielo! Tuoni, fulmini e saette, smentite che non smentivano, il Tapiro di Striscia la notizia, Luttazzi che giustificava il tardivo resoconto con il fatto che qualcuno doveva pur affrontare la «paraculaggine infinita» di Fazio (nonché, andrebbe aggiunto, il fatto che Luttazzi non stima Fazio perché «non si fece scrupolo di approfittare della mia defenestrazione politica per rubarmi l' idea del mio talk in blocco», delizioso cortocircuito in cui uno accusato successivamente di plagio accusa un altro di furto intellettuale). Quanto poi all' attaccamento alla maglia di viale Mazzini, anche qui si potrebbe inzigare. Fazio ha sostenuto che in Finivest (dal 1993 Mediaset) gli offrirono ponti d' oro per ingaggiarlo, ma la cosa non si fece per il suo no. Ottimo. Peccato che a incrinare l' oleografico amarcord sia arrivato quel guastafeste di Roberto D'Agostino, che su Dagospia scrisse: «Sotto raccomandazione del Psi, Fazio incontrò Silvio Berlusconi in via Rovani a Milano. Il Berlusca gli propose di entrare a far parte del cast di Premiatissima, show della rete ammiraglia del gruppo. Si racconta che Fazio - forte della sua «copertura» - pretendeva però di avere addirittura la conduzione, ma dopo averlo sperimentato ad una soirée di Capodanno tenutasi a Campione d' Italia, il progetto fu abbandonato». Per non tirarla troppo in lungo, accantoniamo i rilievi sullo stile avanzati anche da chi da Fazio è andato e pure ritornato. Come Nanni Moretti, che davanti al conduttore in piena estasi adorante, «Tu sei il mio mito», lo ha canzonato: «Lo dici a tutti quelli che vengono qui, sei volte a settimana». Come Ornella Vanoni, che richiesta di confermare i gossip sul suo incontro con Gino Paoli, ha sospirato rassegnata: «Di nuovo? È la 500esima volta che lo racconto, lo faccio giusto perché mi stai simpatico», e chissà cosa le sarebbe uscito di bocca se il Nostro le fosse stato sugli zebedei. Come Francesco Vezzoli, artista cui Vanity Fair ha deciso di affidare la direzione di un numero del settimanale e che invece a Che tempo che fa non è mai andato (né mai ci andrà, se ha ragione Frassica): «Si è mai alzato qualcuno per andarsene da Fazio? No. Ed è un peccato. Magari venisse fuori un alito di vita, uno scazzo, una contrapposizione. La vita, l'editoria e il giornalismo non dovrebbero essere soltanto inchini e bomboniere». Tornando a Gramsci, che ai sepolcri imbiancati preferiva «l'impudenza sfacciata, la monelleria più scrosciante di allegria, anche l'abiezione che non ha vergogna di sé stessa e si mostra trionfante alla luce del sole», devo ai lettori una confessione finale. Non odio Fazio. Diciamo che non lo amo. Perché il mio cuore televisivo batte per Maria De Filippi. Che una volta, a chi la sfruculiava ancora sugli aspetti disdicevoli dei suoi programmi fatti con la gente comune, ritenendoli offensivi per il pubblico, confessò quello che per me è un pregio: «Ho rispetto per i telespettatori perché non mi ritengo migliore di loro».
· Fausto Biloslavo.
Fausto Biloslavo. Redazione CulturaIdentità il 09/05/2020 su Il Giornale Off. Oggi la diretta Facebook di CulturaIdentità con l’intervista dell’editore e fondatore Edoardo Sylos Labini a Fausto Biloslavo, grande inviato di guerra.
Il battesimo del fuoco di Fausto Biloslavo: gli israeliano assediano Beirut nel 1982, la sua prima esperienza di guerra come fotografo a 21 anni. Il “fattore C” gli permetterà di essere l’unico a fotgrafare Arafat mentre va va da Beirut a bordo della famose navi bianche. La colonna di blindati che scortano Arafat e la zuffa tra i giornalisti per fotografarlo: Biloslavo vede una Mercedes nera, apre la portiera, si vede un kalashnikov puntato alla testa: “sono un giornalista italiano e democratico!”.
E l’uomo dietro al kalashnikov: “Ho studiato a Bologna, salta su”. Prigioniero 7 mesi in Afghanistan: il reportage con i mujaheddin di Massoud contro l’Armata Rossa prima e contro i Talebani poi. Al rientro in Pakistan Biloslavo viene arrestato dai governativi e portato nelle galere di Kabul: i sovietici lo vanno a prendere con 7 elicotteri, di cui uno solo per lui.
Il ruolo di Cossiga. Quando il tribunale rivoluzionario lo condanna a 7 anni di prigionia, il Picconatore dà una svolta: scrive una lettera al Mohammad Najibullah, Presidente di un paese, l’Afghanistan, non riconosciuto dalla Nato. Al Ministero degli Esteri di Kabul l’unico funzionario che parla italiano prende una matita e inizia a correggere la lettera di Cossiga, che poi viene reinviata in Italia. Una settimana dopo Biloslavo viene liberato.
Il ritorno a Kabul: un camion militare lo riduce in fin di vita: tempo di scrivere il suo primo e ultimo articolo per il Corriere della Sera e un camion militare punta Biloslavo quasi uccidendolo, nel centro di Kabul: un piccolo cratere di un colpo di mortaio nel terreno gli salva la vita. Con Almerigo Griz e Gian Micalessin nasce l’agenzia Albatross (Almerigo Griz muore il 19 maggio 1987 in Mozambico). Il metodo di lavoro Albatros: essere multimedia, scrivere, fotografare e addirittura disegnare gli scenari bellici.
Guerre, fake news, migranti, ONG: Biloslavo è stato uno dei primi, in tempi non sospetti, a entrare nei centri di detenzione dei migranti. Ma i veri lager sono quelli dei trafficanti di uomini. La stragrande maggioranza però non sta nei centri di detenzione o nei lager dei trafficanti, ma sono agli angoli delle strade delle grandi città in cerca di lavoro. Ed erano pienamente informato della situazione in Italia, quando andare e quando no. E’ stata fatta tanta propaganda sulle navi ONG: quando arrivano sulle site della Libia, i trafficanti lanciano i gommoni verso la posizione della nave, che conoscono perfettamente grazie a una app installata nel cellulare. Le navi ONG quindi fanno da calamita, volenti o nolenti. No alla sanatoria, pensiamo alla situazione economica del Paese.
Biloslavo è stato l’ultimo giornalista italiano a intervistare Gheddafi. Un altro “fattore C”. Il Rais voleva lasciare un’intervista proprio al Giornale, perché sperava che Berlusconi arrivasse a Tripoli per evitare il bombardamento. In quell’intervista Gheddafi ha previsto tutto: perdita degli interessi nazionali per l’Italia, niente accordi con l’Eni, il terrorismo delle Bandiere Nere del Califfato nella Sirte, la bomba umana di migranti in Europa, la sua stessa tragica fine: ferito, ma non ucciso, dai miliziani nemici e finito da un misterioso emissario del governo francese…
Gli accordi di Berlusconi con Gheddafi e Putin: quando Napolitano fece pressioni perché Gheddafi venisse abbattuto. Il colpo di Stato nel 2011 in Italia: da quell’anno governano persone mai votate. Le guerre vanno raccontate con gli occhi, in prima linea. Haftar sarà sconfitto e tornerà in Cirenaica. Il vecchio scenario incubo della spaccatura della Libia: la Tripolitania con il gas e l’Eni e la Cirenaica con il petrolio.
Un’altra fake news di guerra: l’abbattimento di Saddam Hussein. L’unica distruzione di massa non erano le armi chimiche ma Saddam contro il suo popolo. E però anche lì si è aperto un altro bubbone, da cui nasce lo Stato islamico. Gheddafi e Saddam non furono fulgidi esempi di democrazia, ma forse si stava meglio quando di stava peggio: non si esporta la democrazia.
Siria: a cosa è servita la guerra in Siria? Buoni e cattivi non si dividono mai con l’accetta. Hassad non è l’unico “cattivo”. L’unica cosa certa è il cumulo di morti.
Covid-19: lo scontro USA-Cina. Sarà guerra? Di sicuro il virus è un macigno caduto sulla testa di Putin. La comunità internazionale chieda una seria commissione d’inchiesta internazionale indipendente formata da specialisti provenienti dai Paesi più colpiti fra cui l’Italia: il governo cinese non ce l’ha raccontata giusta fino in fondo.
Grillo sapeva? E’ l’inizio di un nuovo Ordine Mondiale? Intanto abbiamo aperto le porte alla Via della Seta: visto che i grillini sono così amici del governo cinese, chiedano di permettere agli ispettori di accedere al laboratorio di Wuhan. Dobbiamo arrivare alla verità fino in fondo sul modo in cui è nato il virus e come ha distrutto mezzo mondo. Si chieda massima trasparenza al governo cinese.
· Federica Sciarelli.
Maria Berlinguer per la Stampa il 15 luglio 2020. «Sono una spugna, prendo il dolore degli altri e cerco di trasformarlo in rabbia civile, però è chiaro che questo è un programma che ti porti sempre addosso e alla fine ne risenti. Non è un fatto di stanchezza, amo Chi l'ha visto perché mi fa sentire utile ma avevo voglia di staccare, di fare un passo indietro per un po', per questo avevo chiesto di lasciare ma l'azienda e tutti i direttori mi hanno chiesto di resistere e ho accettato». Federica Sciarelli, da 17 anni volto della trasmissione cult di Raitre, spiega perché alla fine non tornerà (almeno quest' anno) al suo primo amore professionale, la politica, conducendo il venerdì sera un talk sulla rete.
Una rinuncia che le pesa?
«Questa storia che lascio è ormai un tormentone estivo. In effetti il pensiero di cambiare l'ho avuto. Eccome. E tanti familiari di scomparsi di cui ci siamo occupati per anni mi hanno chiamato per dirmi che avrei fatto benissimo. Per esempio la mamma di Josè Garramon il ragazzino ammazzato a Castel Porziano, e Natalina, sorella di Emanuela Orlandi. L'estate faccio dei viaggi in bicicletta. Il primo anno siamo andati in Sicilia. Ogni tappa mi evocava ricordi terribili. Palermo? Qui è scomparsa Giusi Ventimiglia e sicuramente l'hanno ammazzata. Isola delle femmine, come non pensare ad Antonio e Stefano Maiorana, e poi Casteldaccia dove sono scomparsi due ragazzini che giocavano nelle ville dei mafiosi... I paesi per me sono diventati cimiteri fantasma. È di questo che sono stanca, non certo del programma».
Come l'hanno convinta a continuare?
«Chi l'ha visto? va fortissimo. Reggiamo anche l'urto delle partite, portiamo all'azienda soldi in pubblicità e siamo un format Rai, con logo Rai. In più io sono interna. Ovvio che l'azienda voglia andare avanti. Non è stato difficile convincermi, sono fiera del nostro lavoro. Siamo un servizio pubblico attivo sette giorni su sette. Polizia e carabinieri non possono impiegare tutte le volanti per cercare gli scomparsi, ma noi abbiamo i telespettatori e il nostro archivio, una vera banca dati degli scomparsi a cui fanno riferimento anche le istituzioni. Per quanto possa apparire macabro ho fatto una battaglia perché ci fosse una banca dati anche dei cadaveri non identificati e bisogna raccogliere il Dna dei parenti, perché spesso si ritrovano ossa come nel caso Claps o di Emanuela Orlandi che poi non era lei. Ci chiamano ai tavoli come esperti anche dall'estero».
Ovvero?
«Una mamma a Genova ci aveva contattato per la figlia. Qualche tempo fa poi ci chiama la gendarmerie francese: "È stato ritrovato il cadavere di una ragazza". Era lei. La cosa assurda è che quando succede una cosa del genere i familiari ti ringraziano persino: la verità è che non c'è niente di più straziante che non sapere più nulla di una persona cara. È un fine pena mai. Poi facciamo delle inchieste come è stato per Ilaria Alpi, mia carissima collega al Tg3. Il presunto colpevole era in prigione da 17 anni. Luciana, la mamma di Ilaria, me lo diceva sempre che Hashi Omar Hassan non c'entrava con l'esecuzione. Claudia Cazzaniga che sa l'arabo ha lavorato al caso e la verità è venuta fuori».
Perché la Lega ce l'ha con lei?
«Una vicenda surreale. Come surreale è stato quest' anno per tutti. Ho subito un attacco scomposto per aver letto in onda una mail di Vittoria Gervaso, un atto di accusa perché si facevano i tamponi ai vip ma non alle persone comuni, lei era preoccupata perchè il marito ha un tumore. La Lega l'ha preso come un attacco personale alla Lombardia. Ha persino messo in dubbio l'esistenza della lettera, insinuando che l'avessi scritta io. Mi ha addirittura chiamato Roberto Gervaso che non conoscevo. "Vi difendo io: te perché sei simpatica, mia moglie per paura"».
Federica Sciarelli accusa: "Per Floyd si è mosso il mondo, per Magherini nemmeno un colpo di tosse delle istituzioni". Federica Sciarelli non lascia Chi l'ha visto? e spiega perché va avanti, perché il senso di giustizia diventa per lei più forte del dolore somatizzato. Francesca Galici, Lunedì 22/06/2020 su Il Giornale. Va via. No, resta. Così, da diversi anni, prende il via il valzer d'inizio estate di Federica Sciarelli a Chi l'ha visto?. Ogni anno, iniziano a circolare le voci di un allontanamento della giornalista dalla trasmissione di Rai3, nate da un suo effettivo desiderio di cambiamento. Durano poco, qualche giorno al massimo, e poi rientrano come sono state diffuse, per la gioia dei tantissimi chilhavisters che non riescono a immaginare il loro programma preferito senza la presenza della giornalista, che da 16 anni ne è orgogliosa padrona di casa. Eppure le voci non sono mai infondate ma nascono da una reale voglia di Federica Sciarelli di cambiare aria, di cimentarsi in qualcosa di nuovo dopo quasi due decenni di conduzione. La sua non è semplice volontà di cambiamento ma qualcosa che va più in profondità, come se il suo istinto di sopravvivenza le chiedesse di allontanarsi dal dolore altrui per evitarle sofferenza. Intervistata dal Fatto Quotidiano, la giornalista ha spiegato cosa vuol dire condurre da 16 anni un programma in cui si affronta continuamente il dolore delle persone, nel quale si rischia di perdersi, perché si incolla addosso per sempre. "Sono così intima del dolore altrui da averlo fatto mio. Mi segue, mi accompagna, mi tinge le giornate e anche i pensieri. E scavo, scavo, scavo...", rivela Federica Sciarelli, il cui lavoro va oltre quello della ricerca delle persone scomparse, talvolta volontariamente e talvolta violentemente. La giornalista cerca di seguire la strada della ricerca della giustizia, un traguardo ambizioso che troppo spesso si scontra con il silenzio di chi, anche potendo cambiare le carte in tavola, sceglie di girarsi dall'altra parte. "Riccardo Magherini aveva 40 anni, pieno di vita, ed è morto dopo che un carabiniere gli è salito sopra", ricorda Federica Sciarelli, che associa il caso di questo ragazzo italiano a quello di George Floyd: "Per George Floyd si è messo il mondo, per Magherini nemmeno un colpo di tosse delle istituzioni". La vicenda riportata alla luce dalla conduttrice non è nemmeno così distante nel tempo e risale al 2 marzo 2014, quando testimoni raccontano di ripetuti calci e pugni all'addome di Magherini, fino alle ginocchia che gli schiacciano la carotide. La sua colpa pare sia stata un attacco di panico, ed era incensurato. Per quell'episodio, la Cassazione ha annullato la condanna in primo grado dei carabinieri. Sono tanti gli esempi che fa Federica Sciarelli per dimostrare come la giustizia in Italia, dal suo punto di vista, non sia uguale per tutti: "Esiste un'Italia degli ultimi a cui spesso è negata giustizia in ragione del censo, del ceto sociale". È di quest'Italia che Federica Sciarelli si occupa prevalentemente e sono queste storie che le restano addosso anche quando si spengono le telecamere e va in onda la realtà: "A me piace la bici e in estate in Sicilia con un gruppo di amici facciamo tragitti anche lunghi, un piccolo tour. La bici mi distende, mi rilassa. Partiamo da Palermo e subito mi viene in mente Giusi Ventimiglia, una giovane donna scomparsa incredibilmente, dopo essere forse persino stata costretta a prostituirsi. Arriviamo a Isola delle Femmine e mi accorgo che è il posto di altre due possibili morti bianche, Stefano e Antonio Maiorana, padre e figlio". È evidente la somatizzazione del dolore da parte di Federica Sciarelli, che per questo motivo avrebbe voluto staccarsi da Chi l'ha visto? e percorrere altre strade. Eppure non lo fa: "Se apri il libro della vita degli sventurati, lo inizi a sfogliare e non smetti più. Spesso, purtroppo, queste scomparse non sono solo i destini dei disperati, ma gli esiti di uno Stato che chiude gli occhi dinanzi ai deboli. E io mi incazzo". Ogni luogo, a Federica Sciarelli, ricorda una storia sventurata, tragica e insensata. Diventa pesante sopportare un simile carico emotivo dopo dopo 16 anni. "Perché la morte di Magherini non ha fatto notizia? Perché l'incredibile vicenda della Claps non ha prodotto subbuglio in Parlamento?", si chiede la Sciarelli, che rivendica il dovere giornalistico di chiedere e cercare la verità.
Silvia Fumarola per ''la Repubblica'' il 18 giugno 2020. Federica Sciarelli resta a Chi l'ha visto?. Se avesse lasciato il programma di Rai 3 sarebbe stata la notizia della prossima stagione televisiva, ma non ci sarà nessun addio. «Sì resto » spiega, «sono anni che penso di cambiare perché condurre la trasmissione è diventato molto faticoso dal punto di vista psicologico. Le storie degli scomparsi ti restano dentro. Ho vissuto periodi difficili. Sei sempre a contatto con il dolore delle famiglie, noi lavoriamo così: i casi possono durare anni. Seguiamo padri, madri, fratelli, diventiamo il loro punto di riferimento. È dura, ci sono momenti in cui senti di non farcela». Sedici anni in trincea. Da una parte il dolore, dall'altra l'orgoglio di essere utile e fare giustizia che danno un senso al proprio lavoro. Il neo direttore di Rai 3 Franco Di Mare, accogliendo le sue perplessità, offre a Sciarelli un talk politico previsto il venerdì sera. «Quando lavoravo al Tg3» ripete la giornalista, 61 anni, «seguivo la politica, mi ha sempre appassionato». Ma Chi l'ha visto? è un marchio (i programmi Rai in grado di coprire la totalità delle loro spese grazie alla pubblicità nel 2017 erano solo quattro ed è al primo posto), un punto fermo per gli investitori, lo sa bene la Sipra. I fan si scatenano sui social, persino Maurizio Costanzo, spettatore fedele, dice la sua: «Mi dispiacerà se lascerà. Posso capire che dopo tanti anni una professionista come lei voglia cambiare genere, io la pregherei di trattenersi ancora un po' davanti a quelle telecamere». Giorni di confronto, trovare la sostituta per la trasmissione (che continua a raccogliere due milioni di spettatori) non è facile. Nell'ultimo incontro Di Mare spiega che se lascia è un grosso guaio. Sciarelli resta al suo posto. Anche la scorsa estate - mentre il web lanciava l'allarme - era andata dall'allora direttore di Rai 3 Stefano Coletta a chiedere di cambiare «perché per me l'Italia è diventata un grande cimitero. Gli altri ricordano una gelateria, un panorama, per me ogni luogo rappresenta un caso, un corpo ritrovato. Cerco di essere la voce di chi chiede aiuto ma il dolore è terribile ». Poi la riflessione sul proprio lavoro. Casi delicati come l'omicidio di Elisa Claps, poi Vannini, Cucchi, la scomparsa di Emanuela Orlandi, le storie di donne sparite - «di certo uccise, le madri non lasciano i figli » - ragazzi perduti e malati di Alzheimer. Chi l'ha visto? è una macchina, dalle indagini alla messa in onda. Redazione unita e legata alla conduttrice. Nonostante le tempeste politiche, Chi l'ha visto? lavora con la massima autonomia. L'accusa di essere "partigiana" è una medaglia «perché lo sono», dice Sciarelli. «Sto dalla parte delle vittime e dei familiari. E se c'è un abuso di potere non faccio finta di niente». Rigore e empatia; dalle truffe romantiche a cui ha dedicato un libro («è da vigliacchi illudere donne e uomini che si fidano, abbiamo incoraggiato le vittime a denunciare: nessuna vergogna») all'ultima inchiesta sulle case di riposo focolai di Covid-19, dove sono morti nel silenzio troppi anziani. La Lega, con il segretario della bicamerale Massimiliano Capitanio, annuncia querela per la lettera della signora Vittoria Gervaso (moglie dello scrittore Roberto Gervaso, scomparso pochi giorni fa, ndr) che accusava la Regione Lombardia per le lacune nell'emergenza. Il deputato afferma che Sciarelli andrebbe sostituita perché "è stanca". «Lo volevo ringraziare per le attenzioni e rassicurare: non sono stanca, continuerò fare le mie inchieste. Le procure competenti per le indagini su Alzano e Torano hanno chiesto i nostri filmati per le indagini» replica lei in trasmissione. «Quello che dico in diretta è sotto la mia responsabilità, la redazione di Chi l'ha visto? è fantastica e continueremo a lavorare. Se volete prendervela con qualcuno attaccate me, che non sono stanca». No, non lo è.
Alessandro Ferrucci per il Fatto Quotidiano il 20 aprile 2020. Le minacce non le teme, le inquadra come possibili conseguenze del lavoro; la fatica nemmeno, le piace la redazione, ama le inchieste, ama varcare i cancelli della Rai "e subito ti provano la temperatura". Ma il gossip, no. Con Federica Sciarelli se si vuole ottenere una tregua rispetto a un costante fluire di parole, basta pronunciare "gossip" o porre domande sulla vita privata e scatta un deciso e ripetuto silenzio ("sono molto riservata, e quando sono apparsa, non per il lavoro, mi ha infastidito"). Da pochi giorni, insieme a Ercole Rocchetti, Veronica Briganti e Marina Borrometi, ha pubblicato Trappole d' amore: un libro che non lascia respiro, prende allo stomaco, avvolge l' animo di malinconia e riflessione, ed è basato su alcune delle storie (vere) affrontate da Chi l' ha visto?; sono tutte vittime di truffe online, sono persone sedotte, ammaliate, umiliate, depredate nei sentimenti e nel portafogli da gruppi criminali con sede in Africa e organizzati scientificamente. E c' è chi poi si è ucciso. Vere "Trappole d' amore". La tecnica è pazzesca: ho acquistato i libri che servono alla loro formazione, e sono dedicati alle strategie per far innamorare.
Come sono organizzati?
«Hanno vari livelli: iniziano i ragazzini, sono loro a inviare le richieste di amicizia sui social; poi quando il soggetto abbocca, entra in gioco un team più esperto e preparato a concludere le truffe. Iper strutturati. Per vacanza sono andata in Kenya, e lì ho capito il meccanismo: un tempo esisteva il turismo sessuale maschile, un processo molto basic, con l' uomo grasso e sudato, vicino a una donna giovane».
Mentre oggi?
«Vedi situazioni incredibili con donne occidentali accompagnate dai cosiddetti beach boys: questi promettono amore eterno, ma seducono e spillano soldi».
Ci è capitata in mezzo?
«In aeroporto c' era un ragazzo africano abbracciato a un' europea. Entrambi piangevano. Disperati. Ma quando lei è partita l' ho ritrovato all' uscita in cerca di una nuova turista appena atterrata».
C' è un livello culturale di chi subisce?
«È trasversale; c' è una psicologa che dopo aver scoperto la truffa è partita per la Nigeria spinta da un ragionamento: "Va bene, chi mi ha contattata non è un soldato americano, vedovo e con figli, comunque mi sono innamorata di lui"».
E Lo ha trovato e portato in Italia; ma lei è riuscita a ribaltare la questione, mentre le storie finiscono male. In quante le scrivono?
«È un continuo, tutti i giorni riceviamo segnalazioni o persone che ci inviano foto accompagnate dal messaggio: "Per favore, mi fate capire se è una truffa o meno?" Mettete il bollino. Marina Borrometi ha il compito di verificare e rispondere; in alcuni casi andiamo a cercare i soggetti che subiscono il furto del profilo e gli spieghiamo la situazione».
Tipo?
«È successo a Maurizio Aiello (uno dei protagonisti di Un posto al sole): le sue foto sono state utilizzate in Francia».
E Aiello?
«Alcune donne francesi lo hanno chiamato perché desideravano conoscerlo».
Macchine da guerra, i clan.
«È una truffa che a loro costa pochissimo, per organizzarla basta un computer, Internet e un po' di tempo a disposizione. E di tempo ne hanno tanto; (silenzio) mi rendo conto che noi di Chi l' ha visto? siamo un osservatorio sulla società.
Mantenete il contatto.
«Questo filo con gli spettatori ci consente di capire cosa accade; (cambia tono di voce) chi scompare in questi giorni, in realtà, si è quasi sempre suicidato».
Siete una comunità.
«Attualmente ci contattano per le tanti morti strane tra gli anziani È perennemente immersa nelle sue storie. Quando lavoravo nella redazione politica del Tg3 gli argomenti erano certamente più allegri di Chi l' ha visto?; il problema è che se dai il tuo aiuto a un familiare, non è che poi giri le spalle e attacchi il telefono; recentemente, a causa di un dramma, una collega della redazione è stata un' ora al cellulare per ascoltare lo sfogo di una donna appena colpita da un lutto».
Situazione tosta.
«(Tono semiserio) Ogni tanto, a fine stagione, chiedo di cambiare perché è un programma tosto e noi siamo delle spugne; in realtà ci credo fino in fondo».
Riesce a non portarsi tutto ciò a casa?
«Siamo sempre connessi, con il lockdown si lavora più di prima».
L' hanno descritta come una mamma apprensiva.
«Non è vero! È che quando mi intervistano alla fine piazzano sempre una domanda su mio figlio, e da lì esce un titolo forzato e frasi nelle quali neanche mi ritrovo».
Qual è la verità?
«In questi anni ho affrontato storie terribili come nel caso di Federico Aldrovandi: quando parli con sua madre, e ti racconta la notte della tragedia, lei che chiamava il figlio e il figlio non rispondeva perché già morto, sono immagini forti che ti restano dentro e si tramutano in cicatrici».
Quindi?
«A mio figlio raccomando: "Esci tranquillo, ma se fai tardi manda un messaggio, così se mi sveglio non mi agito"».
Non è ansiosa.
«A tredici anni avevo già il motorino.E andava alle manifestazioni. Frequentavo una scuola definita "rossa", ed ero in classe con Giorgiana Masi (uccisa il 12 maggio 1977): la sua morte ci ha segnati per sempre e in quel periodo, ogni settimana, veniva organizzata una manifestazione; (sorride) sono scesa talmente tante volte in piazza per Valpreda, che mi avrebbe dovuto omaggiare di un monumento».
Però.
«Era interessante, era un modo di discutere, di stare in mezzo agli altri, di aprire la mente; anni fa incontro la mia professoressa di Lettere del liceo, ero convinta che mi avrebbe attaccato, della serie "non ne potevo più di voi"; al contrario mi ha sorriso: "Bei tempi i vostri, adesso gli studenti hanno la testa piegata sul cellulare, non ti guardano, non protestano. È un piattume"».
Era rappresentante d' istituto?
«Non c' erano quei ruoli».
Però secchiona.
«Diplomata con 60».
È arrivata seconda al concorso Rai.
«Avevo vent' anni e partecipai al bando per l' avviamento alla carriera giornalistica; con me altri diecimila partecipanti».
Chi è il primo?
«Dario Laruffa del Tg2, ogni volta che lo incontro gli ricordo il primato; comunque allora era complicato entrare in Rai, utilizzavano solo la chiamata diretta, con la politica che lottizzava, e noi del concorso rappresentavamo qualcosa di anomalo, contrastavamo la spartizione. (sorride) Che succede? Anche nei concorsi conta la fortuna: nel questionario mi capitò una domanda dedicata all' hockey su prato, e credo di essere stata l' unica a rispondere: giocavo a hockey».
Come è finita la storia del concorso?
«Per un anno ho lavorato in varie redazioni, anche a Napoli, Firenze e al Tg1 dove ho conosciuto un Enrico Mentana praticante; lo stipendio era di 250 mila lire al mese, nonostante le trasferte E allora? Dopo un anno gli altri borsisti hanno organizzato una lotta per l' assunzione e insieme al sindacato; io nel frattempo mi sentivo offesa dal trattamento ricevuto, e mi iscrissi a un concorso per il Senato: mi presero all' ufficio delle informazioni parlamentari».
Altro mondo.
«Eravamo obbligati a mantenere un certo decoro: a un collega decurtarono metà dello stipendio perché aveva osato non indossare i calzini; un altro, tutti i giorni, era obbligato a togliere l' orecchino; mentre io sono sempre stata una un po' scapestrata. Comunque sono rimasta quattro anni e, appena assunta hanno tentato lo scherzo del "Sarchiapone selvatico"».
Cioè?
«Ti chiamavano dalla stanza accanto e chiedevano: "In quale anno è stato presentato il disegno di legge sul Sarchiapone selvatico?" Per fortuna avevo visto in televisione lo sketch di Walter Chiari e non ci sono cascata. Da lì sono salita nella scala dei valori. Quei quattro anni Esperienza bellissima, e siccome dovevo dare informazioni parlamentari, mi sono impossessata di tutti i meccanismi; al mio piano c' era il Gruppo misto e allora era presente solo Umberto Bossi».
Diventata amica?
«No, ero una dipendente».
E poi?
«Dopo 4 anni il ricorso con i sindacati si è sbloccato, come la possibile assunzione».
Lei, subito.
«Alt! Al Senato guadagnavo benissimo: 15 mensilità, stavamo chiedendo la sedicesima, quindi benefit, aiuti sul mutuo, e poi mio padre, da avvocato dello Stato, ripeteva: "Ma che sei matta, vuoi lasciare un posto del genere per il giornalismo?"».
Soluzione?
«Uno dei borsisti, Angelo Figorilli, mio amico e già entrato in Rai, aveva capito che non mi conveniva, però mi voleva bene e conosceva la mia psicologia, così rispetto ai guadagni mi sparò una cifra approssimativa».
Perfetto.
«Poi gli domandavo: "Quante ferie hai? Al Senato sono 40 giorni l' anno". E lui: "All' incirca così", e ancora un' altra serie di balle; quando mi è arrivato il primo stipendio, a momenti svenivo, e l' ho richiamato: "Che mi hai detto!!!". E lui: "Altrimenti non saresti entrata"».
In famiglia?
«Tutti contro di me, non solo mio padre; il massimo fu quando andai all' ufficio del personale del Senato: "Buongiorno, mi devo licenziare. Come si fa?". "Non lo sappiamo, non si è mai licenziato nessuno"».
Esordio al Tg3.
«Ero timida, terrorizzata, avevo paura di affrontare un mestiere importante, però mi misero nella redazione del Politico e mi ritrovai con una competenza pazzesca, ero dentro ai lavori parlamentari».
A Tele Kabul tra i nipoti di Stalin.
«Mi reputo fortunata: avevo Sandro Curzi come direttore e Corradino Mineo caporedattore centrale. Mi hanno insegnato tutto. E per noi del Tg3 non era semplice lavorare».
Emarginati?
«Ci consideravano solamente dei comunisti, mentre c' erano anche democristiani e liberali, poi uscì un articolo su il Popolo che ci derubricava a nipotini di Stalin e mi offesi; mentre Tele Kabul è opera di Giuliana Ferrara al congresso socialista, con noi relegati in uno scantinato».
Appunto, emarginati.
«Ci trattavano come l' ultimo dei Tg, ma noi eravamo combattivi, con Curzi che ci spediva nelle piazze, parlavamo di mafia, di morti bianche, di argomenti che nessun telegiornale affrontava».
Com' era un rimprovero di Curzi?
«Metteva paura, e anche Mineo non era male; (ride) un anno mi prendo un mese di ferie, destinazione India, ed esattamente in quel periodo scoppia la guerra in Iraq».
Dolore.
«Quando mia sorella mi viene a prendere in aeroporto, mi inquadra la situazione: "Adesso ti piazzeranno a incollare i francobolli, i tuoi colleghi sono tutti i giorni in diretta"».
E invece?
«Arrivo prestissimo in redazione, consapevole dell'incazzatura di Curzi, ma in India gli avevo preso un pareo con sopra tutte falce e martello; appena lo vedo gli do subito il dono. Lui lo prende e cambia d' umore».
Furba.
«Non ho mai totalmente rinunciato alla mia vita per il lavoro; Sandro è stato veramente un maestro, è lui ad aver ideato la rassegna stampa e tutte le sere a mezzanotte chiamavo i giornali e mi segnavo i titoli a penna».
Falce e martello l'affascinavano?
«Sono sempre stata di sinistra, la mia famiglia no, però oggi sorrido alla me quindicenne che credeva nella rivoluzione; adesso credo che se una persona è perbene lo è a prescindere dal voto».
Dal Tg3 a Chi l' ha visto? è diventata fonte di gossip.
«Mi ha sempre dato fastidio, e non vado da nessuna parte, nessuna festa, sono riservata».
La fermano spesso?
«Mah, normale, come accade a tanti; e poi giro in tuta, con il cane e il mollettone sulla testa».
Niente aperitivi.
«Macché! Ripeto: non sono mondana, sono una giornalista».
Minacce?
«Le ho messe nel conto; qualcosa è arrivato soprattutto dopo l' inchiesta sulla Banda della Magliana e le interviste ai superstiti di quel clan, tanto da volermi mettere sotto sorveglianza. Ma Ho fatto mia una frase di Nino Mancini (uno degli ex boss della Magliana): "È meglio morire sparati che in ospedale"».
Tempo fa è stata una delle candidate alla direzione del Tg1.
«Un sabato, mentre passeggiavo, all' improvviso mi esplode il cellulare di messaggi, ed erano tutti complimenti. Non capivo. Poi una collega mi scrive: "Ma è vero?" E io: "Cosa?" "l' Huffington post titola: 'È fatta, la Sciarelli direttore del Tg1'". Io basita. Poi sono andata a pattinare, e nel frattempo ho pensato: vabbè, sto zitta, per due giorni lo faccio credere».
E sono arrivate le raccomandazioni (Scoppia a ridere)
«Qualcuna sì vabbè, scherzo; però non sono una innamorata del potere, quindi non ho mai brigato per ottenere di più e ritengo il mio mestiere già un privilegio».
Altri suoi colleghi hanno cambiato la loro tipologia di contratto e ottenuto stipendi sopra la media. Lei come è inquadrata?
«Sono orgogliosamente dipendente della Rai e non ho neanche l' agente».
Un suo vizio.
«Lo sport».
Scaramanzia.
«Sono di origine napoletana».
Cattolica?
«La mia famiglia sì, io solo rispettosa».
Lei chi è?
«Una persona normale».
(Cantano i Mattia Bazar: "Sono una persona normale che fa da sé ma fa per tre. Non rinuncio a lottare. Ma mi piego all' amore, do all' amore tutto quel che ho").
· Franca Leosini.
Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 22 novembre 2020. «Non credo che la violenza contro le donne sia aumentata, per fortuna invece da tempo se ne parla, laddove prima veniva sottaciuta come se la società fosse rassegnata al fatto che una donna dovesse subire violenza come dato storico. Parlarne, più che sensibilizzare la figura maschile, sensibilizza le donne, le responsabilizza, le mette di fronte alla possibilità di reagire, di rifiutare, di allontanarsi». Franca Leosini diventa «direttrice di rete» per un giorno. Oggi ha scelto la programmazione di Rai Storia a 3 giorni dal 25 novembre, giornata internazionale per sensibilizzare le coscienze sul tema della violenza contro le donne. È il primo di una serie di appuntamenti pensati dalla Rai per tenere la luce accesa su un argomento necessario. Rai Storia ripercorre le figure di Nilde Iotti e di Elsa Morante. Rivedremo anche la puntata di «Storie maledette» dedicata a Luca Varani, che fece sfregiare Lucia Annibali con l'acido. «Tutta la storia del crimine privato è passata nelle mie mani. Ma quella è una delle vicende che mi ha segnato di più, uccidere finisce per essere un gesto pietoso rispetto alla violenza di voler cancellare l' immagine di una persona, la violenza più inaccettabile. È una vicenda che mi ha impressionato: non riuscivo a mettere insieme l' assoluta normalità di una persona con il gesto atroce di cui si era reso responsabile».
Torneremo anche negli anni 70, al massacro del Circeo.
«È difficile ingannarmi, ma ero sinceramente convinta che Angelo Izzo fosse profondamente pentito di quello che aveva fatto e avesse preso le distanze dal gesto di cui si era reso responsabile. Mi disse: noi avremmo meritato un colpo alla nuca per quello che abbiamo commesso. Ma una volta uscito dal carcere Izzo ha ammazzato altre due donne».
Cosa ha capito della banalità del Male?
«Che ognuno di noi può essere candidato a diventare protagonista di una maledetta storia, forse siamo solo più fortunati, abbiamo un sistema nervoso più forte: il rischio di svoltare quell' angolo determinante per la nostra e la altrui vita lo corriamo tutti. Il cuore di tutti può diventare di tenebra».
Sta lavorando a un nuovo progetto, «Che fine ha fatto Baby Jane?», che dovrebbe arrivare in primavera su Rai3. Di cosa si tratta?
«Ho rubato il titolo a un vecchio film che non ho visto ma che corrisponde alla realtà del programma: prendo in esame e ricostruisco la storia di alcuni dei personaggi protagonisti di Storie maledette per vedere che cosa ne è stato di loro, qual è la loro realtà adesso, dopo che hanno scontato la pena o sono in articolo 21 (ovvero assegnati a un lavoro all' esterno del carcere). Hanno ottenuto il cosiddetto perdono sociale? Come vivono, qual è il loro percorso, cosa ne è di loro? La società non è così generosa come si pensa, il perdono è piuttosto affare da preti e cardinali».
M.TAMB. per la Stampa il 23 novembre 2020. Franca Leosini proprio non immaginava tanto trambusto per una scelta fatta in piena buona fede nella certezza di operare al meglio. La signora del giallo che con le sue interviste in carcere ai responsabili dei più efferati delitti ha creato un genere, è stata direttrice per un giorno di Rai Storia. In questa veste si era trovata a sposare in pieno il palinsesto che era stato programmato dalla rete nel giorno dedicato alla lotta conto la violenza sulle donne. Comprese le due interviste, invece cassate: la prima a Luca Varani che con l'acido sfregiò Lucia Annibali, tolta tra le polemiche. La seconda eliminazione, l'intervista a Angelo Izzo, il boia del Circeo, passata sotto silenzio.
Leosini, le faccio una domanda ingenua, mi dica sinceramente, ma lei era proprio convinta di questa scelta?
«Convintissima, in piena coscienza e le dirò perché. Questa terribile vicenda credo sia, tra le tante che raccontano di violenza, la più paradigmatica. Quale violenza può essere più crudele di quella che viene inflitta a una donna e che le rimarrà impressa sul corpo per sempre? L'ha tenuta in vita obbligandola a pensare a quanto le ha fatto il giorno dopo».
Troppo forte il ricordo per la vittima se riproposto cosi, non crede?
«Assieme ai responsabili della rete abbiamo pensato che fosse importante mettere gli uomini di fronte all'operato di uno di loro che ha generato tanto dolore. Nel corso dell'intervista io ho incalzato Varani, ne è uscito come era giusto uscisse. Nessuna concessione come era giusto fosse e come uso fare in tutti i miei programmi che mostrano che cosa può fare di una persona apparentemente normale, un mostro».
Invece i vertici di rete e di Rai ci hanno ripensato e hanno soppresso le due interviste. Si é chiesta il perché data la sua convinzione di aver operato una buona scelta?
«Sono rimasta sconcertata perché, ripeto, ero certa di fare una buona proposta al servizio delle donne e indicativo del massimo rispetto per le vittime. Ma io sono una donna Rai e sono abituata ad uniformarmi alle decisioni della mia Azienda. Ho accettato per rispetto e per scongiurare l'ipotesi che tale scelta potesse ferire persone già duramente ferite. Capisco pure che le sensibilità possano essere diverse e che il mio modo di voler smuovere le coscienze può non essere condiviso».
Sulle possibili cause di tale decisioni, sulle polemiche e sulle pressioni non solo politiche per attivare tale decisione lei ha qualcosa da dire?
«Non tocca a me fare considerazioni di questo genere. E lanciarmi in congetture. Sono comunque contenta di essere stata direttore per un giorno di Rai Storia e di aver condiviso il palinsesto deciso dalla rete». Lei si rimprovera qualcosa a proposito di quella intervista fatta a Varani? «Non mi sono mai rimproverata perché nelle mie interviste, tutte studiate nei minimi particolari, ho sempre incalzato chi mi stava di fronte, senza mai tirarmi indietro».
Michela Tamburrino per la Stampa il 23 novembre 2020. Un fiume in piena, peggio, una tempesta perfetta che rischia di spazzare via i vertici Rai con il vento gelido di questi giorni. Gaffe, ripensamenti dell'ultim' ora, telefonate concitate ai politici, palinsesti che saltano con, in aggiunta, il primo referente dell'Azienda pubblica che spara sul comandante della nave Rai in difficoltà. E su tutto pesa una morìa di audience sottolineata poco tempo fa dallo stesso ministro Gualtieri. Il caso Morra Il caso che spacca la politica e precipita come una bomba sui vertici Rai è lo stop al presidente dell'Antimafia Nicola Morra, invitato a "Capitolo V" su Raitre e rimandato a casa quando stava per entrare in studio. Una figura non brillante della rete comunque la si veda. Sembra che siano stati l'ad Salini e il direttore di Rai3 Di Mare a dividersi i numeri di telefono per chiedere ai referenti politici che cosa sarebbe stato meglio fare. Di Mare, che ultimamente non ne sta azzeccando una, sembra abbia chiamato i suoi amici pentastellati, tra i quali il buon ministro Spadafora che molto lo stima, per ricevere consiglio. Si vede che le chiamate incrociate e frenetiche hanno sortito lo stesso risultato e l'improvvido Morra se ne è andato, non prima di essersi assicurato un'altra vetrina su La7 e aver ribadito che su Twitter continua a essere trend topic come una velina. Il presidente della Camera Roberto Fico, ospite in Rai da Lucia Annunziata, spara a zero contro l'Azienda pure se la conduttrice cerca di smussare: «Assolutamente grave, gravissimo che il presidente dell'Antimafia entri in camerino per andare in trasmissione e gli dicano "non puoi". Non sta né in cielo né in terra. Spero che in Rai ammettano che è stato un grande sbaglio». In soccorso di Morra pure il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Il nostro è uno strano Paese, Morra si è scusato. La frase infelice su Jole Santelli ha fatto notizia tra le polemiche. Invece Domenico Tallini, arrestato per mafia, va in secondo piano. Io non vedo l'ora di ascoltare in Rai tutte le domande che i giornalisti vorranno fare a Nicola Morra. L'indignazione è un valore, impieghiamolo per l'Italia più libera». Invoca la forza del cambiamento il vice mimistro Stefano Buffagni: «Per il futuro auspico che la Rai, ma tutte le televisioni, rispettino la rappresentanza dei cittadini e la legalità. È intollerabile vedere in Tv i vari Buzzi o il figlio di Riina e poi assistere a uno scempio come quello di venerdì. Come M5s dobbiamo aver la forza di cambiare questi meccanismi, consapevoli che di sole favole o ideali si muore: o il potere lo si esercita, o qualcuno lo farà per noi. Evolviamo, e difendiamo Nicola». Accuse a Leosini Ieri invece, a essere sconvolta da venti di guerra è stata persino la pacifica Rai Storia. Direttore per un giorno della rete era stata nominata Franca Leosini, a poche ore dalla Giornata internazionale dell'eliminazione della violenza sulle donne. Cosi la signora in giallo di casa nostra, ai vertici degli ascolti di genere, aveva voluto mostrare il male con esempi paradigmatici. Due nella fattispecie: la sua intervista a Luca Varani, condannato come mandante dell'aggressione con l'acido dell'ex fidanzata Lucia Annibali, e l'intervista a Angelo Izzo che si macchiò con altri della strage del Circeo: due donne seviziate in una villa e i loro corpi chiusi in un bagagliaio dove una delle due trovò la morte immediata, mentre l'altra non si riebbe mai più. Non pago, dopo anni di carcere, durante una uscita per buona condotta, Izzo ne ammazzò altre due. All'ultimo saltate tutte e due le interviste «per ragioni di opportunità». Tutto nasce da una dichiarazione del senatore Matteo Renzi, dunque di Andrea Romano e di Valeria Valente del Pd. Si grida allo scandalo, si accusa una programmazione giudicata vergognosa, si chiama in causa l'Ad Fabrizio Salini reo di aver permesso che fosse recato a Lucia Annibali ulteriore dolore. A quel punto scende in campo la direttora Calandrelli che questa scelta in buona fede aveva promosso e che, abituata agli ambiti culturali, mai si sarebbe aspettata tanta baraonda. Si racconta abbia preso in mano il telefono e si sia consultata con la diretta interessata. Cambio repentino di programma. Al posto dell'intervista che avrebbe potuto scavare nell'animo di chi guarda in modo più incisivo e certamente doloroso per tutti, è andata in onda una miniserie a tema ma da pubblico casalingo generalista. Lo stesso accade per il caso Izzo. La Rai interviene assicurando che la decisione è stata assunta «per non urtare la sensibilità delle vittime e dei telespettatori». Vallettopoli, no grazie Altra grana scoppiata ieri. A interrogarsi sulla bizzarria del fatto è la portavoce della Conferenza democratica delle donne Cecilia D'Elia: «Apprendiamo che l'Ad ha appena nominato alla Direzione pubblica utilità Giuseppe Sangiovanni, toccato dalla cosiddetta vicenda "Vallettopoli" che fu una brutta pagina della Rai di qualche anno fa. Non solo avalla a Rai2 nomine di vicedirettori solo uomini. Per non farsi mancare nulla sceglie anche uno dei protagonisti di Vallettopoli per promuoverlo a capo di un un'importante direzione Rai. Chiediamo a Salini di riconsiderare, visti anche i recenti inciampi, l'opportunità di questa scelta». E su questo punto le donne Rai del Pd non sentono ragioni. C'entra poco con il tema violenza ma molto sul lavoro delle donne, la dichiarazione fatta da Angela Caponnetto di Rainews 24 che ha ringraziato le forze dell'ordine «che ci hanno dato comunicazioni sottobanco e che continuano a lavorare per le Ong anche se hanno ordini diversi». A insorgere questa volta è Giorgia Meloni di FdI.
Alessia Ardesi per “Libero Quotidiano” il 30 novembre 2020. Ha un' immagine di papa Giovanni sul tavolino accanto al letto. Da più di vent' anni nella sua trasmissione frequenta il male e la morte; e per ogni storia che racconta studia con estrema accuratezza ogni atto processuale. Chiede di darle del tu - «sono Franca, non la Leosini» -, anche se io per rispetto non ci riesco. Ha fatto piangere più di uno dei "suoi" criminali, ma lei si commuove ricordando i morti di Covid. È finita sulla Treccani grazie al neologismo "Leosiner", che indica la comunità di appassionati del suo programma. Ora ne sta preparando uno nuovo: Che fine ha fatto baby Jane?, sul seguito delle vite degli assassini.
Come ha cominciato a interessarsi di storie maledette?
«Da giornalista, all' epoca del Tempo e dell' Espresso, seguivo in particolare i grandi processi. Sono stata contattata dalla Rai, da Telefono giallo, per costruire l' inchiesta sull' omicidio di Anna Grimaldi. Era una bellissima donna, moglie di un armatore, che avevo conosciuto perché amica dei miei genitori. Per questo delitto fu processata Elena Massa, giornalista del Mattino, accusata perché gelosa della passione del marito per l' incantevole Anna».
E poi?
«Poi, sono stata chiamata da Raitre, diretta da Angelo Guglielmi come autore delle più grandi inchieste della trasmissione Telefono giallo, condotta da Corrado Augias. Così iniziai ad andare in video. Proposi in seguito a Guglielmi un nuovo programma: Storie maledette. Lui mi rispose: "Il titolo è bellissimo, vediamo cosa ci metti dentro"».
Perché questo genere la appassiona?
«Perché nel noir scorrono tutte le grandi passioni della vita».
Lei è credente?
«Sono più credente che osservante. Non vado sempre a messa, ma so che il Signore è con me sempre. Essere credenti è un ancoraggio umano e psicologico molto forte».
Ha paura di morire?
«La chiami pure vigliaccheria, ma non penso alla morte. È un argomento da cui rifuggo, forse anche perché "penso positivo"».
E del Covid?
«Stiamo attraversando una immensa tragedia umana che richiede massima prudenza.
Adotto doverosamente tutte le precauzioni. Non ne sono ossessionata. Certo (e qui le si rompe la voce per la commozione, nda), per le persone che hanno perso lavita, provo un dolore profondo».
Crede nell' Aldilà?
«Spero nell' Aldilà. Ma vivo serenamente la vita. Con il mio programma, la morte la frequento già abbastanza».
La condizionano le storie che racconta?
«Sono corazzata sul piano umano e quindi più forte dei drammi che mi attraversano».
Come riesce a farsi confidare il male?
«Con me le persone si aprono perché sanno che non le giudico. I verbi che mi appartengono sono: capire, dubitare, raccontare. Cerco di comprendere quale guasto nella vita, nella coscienza possa aver portato delle persone a precipitare da una normale quotidianità nel vuoto di una maledetta storia».
Qual è la chiave per capire i delitti?
«Non avere certezze. I delitti mai si giustificano, però si interpretano. Tutti i miei "intervistati" avevano vite non progettate al crimine».
Dove vanno gli assassini dopo la morte?
«Se siamo cattolici, dobbiamo credere che il sacramento della confessione, il pentimento vero e la richiesta di perdono, anche solo al momento dell' addio, dovrebbero dare un lasciapassare quantomeno per il Purgatorio».
E le vittime? In Paradiso?
«A loro, alle vittime, spettano già gli altari in vita, e la tutela della loro memoria. Avranno certo una linea diretta per il Paradiso. Come Gesù crocefisso».
Il male è frutto di una devianza o è dentro ognuno di noi?
«Un cuore di tenebra alberga in ognuno di noi. Chi non commette crimini è forse solo più fortunato, ha un sistema nervoso più solido. E la possibilità di vivere in luoghi e famiglie che condizionano positivamente i suoi comportamenti, le sue scelte».
In molti chiamiamo mostri gli assassini che le hanno raccontato la loro storia. Lei come li definisce?
«Io rifiuto la parola mostro. Mi sembra persino banale, uno slogan inclusivo del nulla. Sono persone che hanno sbagliato, segnate nel profondo da realtà negative, che spesso hanno forse assorbito i funesti miasmi dell' ambiente malato che li ha circondati».
Il male le fa paura?
«In qualche modo sì. Mi fa paura perché molto spesso è incontrollabile, e quasi sempre ingiustificato, supera l' immaginazione. E una persona per bene non ha strumenti per opporsi».
Le propongo un gioco: colpevole o innocente?
«Proviamo».
Annamaria Franzoni?
«È una donna malata, non una mente criminale. Ha vissuto un tragico momento di smarrimento e per questo avrebbero dovuto solo ricoverarla in un istituto di cura. La Franzoni ha l' ergastolo dentro».
Olindo e Rosa?
«Colpevoli. E trovo inaccettabile che qualcuno continui a gettare manate di fango sulla famiglia delle vittime ipotizzando assurdamente che, per questioni economiche, siano altri gli autori della strage».
Erika e Omar?
«Un vero dramma umano. Non li ho mai incontrati. Ma ho un grandissimo rispetto per il padre di Erika che ha sublimato la sofferenza. È riuscito a convertire il dolore in pietà e non ha mai abbandonato la figlia».
Amanda Knox?
«Sono d' accordo sull' assoluzione: non c' erano prove per condannarla. E nemmeno la certezza della sua eventuale responsabilità. Si condanna al di là di ogni ragionevole dubbio».
Sabrina Misseri e Cosima Serrano?
«Le ho intervistate. Sono convinta che non volessero uccidere Sarah. Nei fatti, è stato un delitto preterintenzionale. Che meritava certo una sanzione grave, ma non l' ergastolo. Una sentenza discutibile perché il carcere a vita è condanna che prevede la premeditazione e il vilipendio del corpo: aggravanti che di sicuro mancano in questo caso».
Lei è garantista?
«Fino a quando non ci sono prove certe della colpevolezza delle persone, essere garantisti è doveroso».
Perché voleva riproporre la sua intervista con l' uomo che sfregiò Lucia Annibali?
«In occasione della giornata sulla violenza contro le donne avevo scelto due vicende dolorose che a mio avviso erano altamente emblematiche. Una era l' orrida vicenda del Circeo (avevo intervistato Angelo Izzo). L'altra era incentrata sull' intervista a Luca Varani, responsabile di aver dato mandato perché fosse sfigurato con l' acido il bellissimo volto dell' ex fidanzata Lucia Annibali. L' alfa e l' omega di una efferata violenza che, anche a distanza di oltre quarant' anni tra un caso e l' altro, continua a essere perpetrata con uguale ferocia e crudeltà».
Angelo Izzo tolse orrendamente la vita a Rosaria Lopez e seviziò Donatella Colasanti. Era pazzo?
«Indubbiamente in lui c' era, c' è anche una vena di follia, sommata a un quoziente di crudeltà talmente alto da superare forse la sua stessa volontà. Devo dire che Izzo, che ancor prima era riuscito a ingannare il magistrato di sorveglianza, ha ingannato anche me. Operazione - le assicuro - non facile».
Come andò?
«Conducevo su Rai 3 la mia trasmissione Ombre sul giallo. Con un permesso speciale Izzo doveva venire in studio. Così non fu. Appena uscito dal carcere commise un altro atto di indicibile ferocia: uccise la moglie e la figlia del suo ex compagno di cella. Devo dire che avevo creduto nella sua resipiscenza: oltre all' orrore per quell' ulteriore gesto di crudeltà mi sono sentita quasi tradita da lui. Izzo lo seppe e mi scrisse per dirmi che in lui era presente sia la parte in cui io avevo creduto, sia quella negativa, che ancora una volta aveva preso il sopravvento».
Per quale motivo il male e i delitti attraggono più del bene?
«Perché il bene può essere estremamente noioso, odorare di sacrestia. Purtroppo il male affascina. È la sintesi estrema di un percorso, di intrecci umani che intrigano e coinvolgono».
Qualcuno dei suoi "intervistati" è crollato e ha pianto. Come si è sentita?
«Come una persona che è riuscita a smuovere le corde della coscienza».
A lei è successo di piangere?
«Una volta, quando ho intervistato Mary Patrizio, la giovane donna che ha affogato il suo bambino di cinque mesi nella vasca da bagno. Al processo non aveva detto neanche una parola. A me ha descritto nei dettagli come aveva annegato nella vasca da bagno suo figlio. Al termine della trasmissione sono crollata. Ho appoggiato la testa sul tavolo e ho pianto a lungo. A consolarmi è stata Mary Patrizio».
Prova mai pietà per i suoi "intervistati"?
«Per tutti, perché non sono professionisti del crimine, bensì persone che a un certo punto hanno commesso un crimine che non somiglia alla loro realtà umana. Hanno distrutto altre vite, ma anche la loro».
Dietro a un Leosiner non si potrebbe celare un maniaco?
«Non dietro i Leosiners. Non temo che mi si possa far del male perché credo di essere protetta dall' onestà intellettuale e morale con cui lavoro. Non ho mai ricevuto minacce».
Un condannato all' ergastolo come aspetta la morte?
«Gli ergastolani non parlano mai della morte. L' impegno costante dei detenuti è contare i giorni: quelli che mancano per un permesso premio, per un articolo 21, per la semi libertà, per la speranza di ritornare alla vita».
Perché mantiene rapporti con gli assassini che ha conosciuto?
«Perché io non mi lascio usare, ma non li uso. Esiste anche un forma di reale gratitudine per avermi dato fiducia. Sono scesi con me nell' inferno del loro passato».
Maria Berlinguer per ''La Stampa'' il 7 settembre 2020. «Bisognerebbe conoscere la realtà e la vita precedente di queste donne, sapere in che famiglie hanno vissuto perché è il fattore ambientale a essere decisivo per il tuo futuro. Se una ragazza cresce in una famiglia in cui la violenza è stata il pane quotidiano pensa che quei comportamenti siano normali, assimila la violenza del padre contro la madre come un fattore normale. L'ambiente ha una forza dominante in ciascuno di noi». Franca Leosini non vuole commentare la storia della giovane donna del torinese che, soccorsa dai carabinieri per strada con costole rotte e un dito della mano fratturato, non ha voluto denunciare il compagno violento. Tornando a casa dal suo aguzzino.
«Non si può commentare avendo così pochi dettagli, ma certo è un caso esemplare», dice l'autrice e conduttrice di "Storie maledette". A luglio è stata attaccata per aver detto a Sonia Bracciale accusata di essere mandante dell'assassinio dell'ex marito: «Lei ha un quoziente di responsabilità come lo hanno tutte le donne che al primo omaggio di uno schiaffone non mollano l'uomo che si è permesso di darglielo».
Lo ridirebbe?
«La frase è stata volutamente falsata. Se una accetta di subire una situazione diventa non dico responsabile, ma complice del suo carnefice. Se una donna, una ragazza, ha vissuto in una famiglia dove il padre, come si dice a Roma, corcava regolarmente la madre e la madre subiva e non era capace di reagire è matematico che possa introiettare questi comportamenti. Trovarli normali e quindi accettare un maschio che si comporti così con lei. Per questo dico a tutte le donne che al primo schiaffone devono scappare».
Molte però sono ancora vittime della sindrome «io ti salverò». Sono convinte che il loro compagno potrà cambiare.
«La retorica dell'"io ti salverò" l'ho superata da tempo, e non per la mia persona che non avrei mai accettato nessun tipo di violenza ma in generale. Ormai le donne sono informate, sanno le cose. Purtroppo vanno considerati anche i fattori caratteriali, ma ribadisco: è l'ambiente a essere condizionante in maniera totale. Se la prassi quotidiana è la violenza sarà introiettata e ripetuta».
Cosa c'è dietro un maschio violento?
«Nella mia esperienza ho visto che la violenza è sempre figlia di comportamenti violenti, di uno stile di vita dove c'è il dominio dell'uomo e la rassegnazione delle donne. Ci sono famiglie drammatiche. Genitori che sono un modello sbagliato. Se un ragazzino vive in un ambiente di camorra o di mafia avrà molte più possibilità di diventare camorrista o mafioso. La coazione a ripetere è in ogni manuale di psicologi, anche nel più banale. Un ragazzo che ha visto il padre menare la madre lo rifarà. E le donne che non reagiscono, che non riescono a lasciare e prendere le distanze da un compagno violento non hanno alcuna autostima. Spesso c'è dietro anche un vuoto culturale».
Però la violenza sulle donne non è solo nei ceti disagiati.
«I maneschi sono più dove la cultura è meno frequentata, in altre situazioni magari non c'è bisogno di arrivare a esserlo. La violenza e l'umiliazione non è detto che debbano passare per un gesto fisico. Il dominio può essere esercitato in altri modi altrettanti violenti. Umiliando le donne in modo più subdolo. Ma ribadisco che al primo schiaffo te ne devi andare perché altrimenti dai un lasciapassare, poi diventa uso di vita. Io comando tu obbedisci. Purtroppo succede molto più di quanto sia raccontato. Magari finisce nei trafiletti di cronaca fino alla tragedia. E mi dispiace dirlo ma accade più al Sud».
Luca Dellisanti per deabyday.tv l'1 settembre 2020. Ogni volta che torna in tv, il suo nome schizza in trending topic su Twitter. Franca Leosini è uno dei volti più amati della televisione italiana grazie al suo programma “Storie Maledette” che, dal 1994 ad oggi, è diventato un piccolo cult di Raitre per tutti gli appassionati di cronaca giudiziaria. Lo stile di Franca Leosini, il suo rigore e il suo piglio nel condurre sono inconfondibili e anno dopo anno hanno conquistato il cuore dei telespettatori, a sorpresa, anche molto giovani, che la adorano e l’hanno eletta icona indiscussa. La conduttrice tornerà a dicembre su Raitre con un nuovo programma, “Che fine ha fatto Baby Jane” per far luce su cosa succede dopo la detenzione, una volta scontata la pena in carcere. Con lei abbiamo fatto una chiacchierata a 360 gradi, per sapere tutto ma proprio tutto sulla sua esperienza professionale e anche qualcosa sulla sua vita privata. L’importanza del linguaggio.
Lei è celebre per il suo lessico forbito e allo stesso tempo è diventata icona dei social network, spesso criticati anche per aver impoverito il linguaggio.
«Mi permetto di contestarti la parola “forbito”. Mughini direbbe “aborro”. Parlo un italiano corretto. Il problema vero è che in questo momento storico si è impoverito il linguaggio. Quando si usa un lessico che supera la banalità di un linguaggio da supermercato sembra strano. Uso un vocabolario ricco o, certamente, non povero. Le persone che fanno questo tipo di lavoro fanno anche in genere buone letture e questo finisce per arricchire. La cosa grave è vedere il vocabolario ridotto a paginette. Questo è grave anche per i ragazzi, per chi vorrà fare il nostro mestiere. Se mi consenti, la parola forbito la cancellerei dal vocabolario. Se dicessi che ho un vocabolario ricco sarei presuntuosa».
Sa che quando va in onda il suo nome schizza subito in trending topic su Twitter? E’ consapevole di usare espressioni che diventano poi meme sui social? Ne cito qualcuna: una relazione scopereccia, romana quindi puttana, sentimentalmente genuflessa…
«Essere amata dai giovani mi lusinga tantissimo, mi riempie di orgoglio e mi stimola sempre di più ad essere me stessa. La cosa importante è essere sé stessi. I ragazzi intuiscono che quello è un linguaggio autentico, che non esce da un vocabolario. Bisogna avere fantasia anche in questo e usare un linguaggio che entri nel profondo, che segni e che non annoi. I ragazzi sono una cartina di tornasole pazzesca per chi fa il nostro lavoro e con loro bisogna usare un linguaggio autentico, oltre che di qualità».
So che invece la parola femminicidio non le piace...
«La trovo banale e quasi sprezzante. Esiste il maschicidio? Esiste l’omicidio a danno di una donna. Semplificare agevola, ma il termine femminicidio non mi piace proprio. La donna prima è donna, poi è femmina».
Parliamo di alcune donne molto celebri che sono state protagoniste di puntate storiche del programma "Storie Maledette". Le chiedo per ognuna di loro una sensazione, un ricordo. Partiamo con Sabrina e Cosima Misseri...
«Un segno profondo. Un segno di grandissimo dolore, di pietas infinita e di irritazione profonda per la condanna che hanno avuto. Non ci sono termini sufficienti per risarcire una vita. Non bastano dieci vite per risarcire la fine della vita di Sarah Scazzi. Detto questo, quella tragedia è un delitto di impeto. Esiste il codice penale al di là del codice morale. Devo fare un nome, Salvatore Parolisi ad esempio, è stato condannato con l’accusa di aver ucciso la moglie con 29 coltellate. Parolisi prese 29 anni prima, ridotti poi in appello a 18 anni, e sono d’accordissimo perché non basta una vita per risarcire altre vite. Però, per Sabrina e la madre che sono state condannate all’ergastolo, nutro profonda pietà. Con che criterio è stato dato l’ergastolo? Allora per un delitto di impeto si dà l’ergastolo? Non mi sta bene. Se fossi nel loro avvocato farei un appello al Presidente della Repubblica perché lo trovo inaccettabile, in rapporto non solo al codice penale ma anche al codice di equiparazione e rispetto ad altre vicende giudiziarie. Delitti di ben altro peso hanno ricevuto altre condanne. Insomma, mi fanno entrambe una grande pena. Conducono una vita di grande rigore, ho appreso dalla direzione del carcere che con grande dignità stanno realizzando delle mascherine e lavorano entrambe in sartoria».
Un suo ricordo di Patrizia Reggiani Gucci.
«Patrizia intanto è fuori adesso. È una persona molto speciale. Anche quando l’ho intervistata ed era dietro le sbarre per una lunga pena, mi ricordo che sorrise e disse “Io sono Patrizia Gucci”. Ho sempre apprezzato la dignità con la quale ha superato quel periodo di detenzione. Credo che abbia ripreso una vita pressochè normale, anche se sono vicende che la normalità te la cancellano per sempre. So che ha una querelle adesso con le figlie per un problema ereditario. Mi spiace che il suo destino sia segnato sempre , da capitoli lunghi da affrontare».
Cosa mi dice di Gigliola Guerinoni (detta la mantide di Cairo Montenotte, condannata per omicidio di Cesare Brin)?
«Tra tutte le puntate e le persone incontrate, è una delle persone con cui ho avuto un non-rapporto. Con quasi tutte ho sempre mantenuto rapporti personali. Il mio rapporto con lei si è chiuso dopo l’intervista».
In genere cerca di non commuoversi e di non farsi coinvolgere dall’emozione, ma so che le è capitato durante il montaggio della puntata su Mary Patrizio, la signora che affogò il bambino nella vasca da bagno. È vero?
«È verissimo, cerco di non commuovermi. Quando registro la trasmissione è come se fosse in diretta. Non faccio pause. Mary Patrizio mi ha raccontato i dettagli, era come una specie di trance Era come se lei lo vedesse, come se lo vedessi io e mi diceva “giù giù giù”… Anche ora lo sto facendo con la mano. In quel momento in quella vasca da bagno c’ero pure io. Quando ho finito l’intervista ho pianto per un quarto d’ora. E Mary Patrizio consolava me. Forse è stata l’intervista in cui ho avuto maggiore difficoltà emotiva».
Cambiando discorso, suo marito vive a Napoli, lei a Roma. Ha dichiarato: “Dico sempre che quando si ha poco tempo per stare insieme si ha anche poco tempo per litigare!” È il segreto per stare insieme a lungo?
«È uno degli elementi di maggior fascinazione in un rapporto. Non stando sempre insieme, non si usura il rapporto. Io vivo prevalentemente a Roma per lavoro, lui va e viene. Vado a Napoli, dove abbiamo in realtà dimora, per le feste comandate e qualche giorno in estate. Vedersi meno nel quotidiano, secondo me, agevola un rapporto e lo rende più fresco».
Che rapporto ha con le sue due figlie?
«Ottimo come madre. Le vedo poco perché vivono entrambe a Napoli ma ci sentiamo continuamente. Loro questa mamma la vivono molto come una persona che fa un certo tipo di lavoro. Ho sempre apprezzato molto che abbiano capito che tante cose, con loro, non le potevo fare. Sono sempre stata molto presente, ma certe cose non facevano parte della mia vita come accompagnarle alle feste quando erano piccole. Non potevo. Sono entrambe molto orgogliose di me e di quello che faccio. E poi tutto non si può avere dalla vita!».
E lei in tv cosa guarda?
«I talk politici, tutti!».
Tornerà in onda a dicembre con il programma “Che fine ha fatto Baby Jane” con l’intento di raccontare quello che succede dopo la detenzione. Qualche anticipazione?
«Quale che sia la partita della vita, mai scoprire in anticipo le carte. E’ saggezza antica, di intramontabile attualità».
"Colpa delle donne che non mollano il marito al primo ceffone". Bufera per le parole di Franca Leosini. L'ultima puntata di Storie Maledette ha scatenato una brutta polemica per le parole rivolte dalla conduttrice a Sonia Bracciale, condannata a 21 anni di reclusione come mandante dell’omicidio dell’ex marito violento. Novella Toloni, Martedì 16/06/2020 su Il Giornale. L'ultima puntata di Storie Maledette ha lasciato non pochi strascichi. A far letteralmente infuriare le associazioni contro le violenze sulle donne è stata l'insospettabile Franca Leosini. La popolare conduttrice di Storie Maledette, volto apprezzato e amato dal pubblico, è finita al centro di una polemica per alcune affermazioni fatte durante l'ultima puntata della sua trasmissione. Durante l'intervista con Sonia Bracciale, condannata a 21 anni di carcere come mandante dell’omicidio del marito violento, la Leosini si sarebbe fatta sfuggire una pesante affermazione: "La responsabilità ce l’ha anche lei come tutte le donne che non mollano il marito al primo schiaffone". Parole che hanno scatenato una durissima reazione. A puntare il dito contro Franca Leosini è stata Antonella Veltri, presidente dell’associazione D.i.Re - Donne in rete contro la violenza che - attraverso un comunicato stampa - ha ammonito la giornalista, parlando di un dialogo pieno di insinuazioni, colpevolizzazioni e giudizi moralistici. Secondo Antonella Veltri, Franca Leosini con le sue parole avrebbe cercato di far sentire in colpa Sonia Bracciale che per anni ha subito le violenze fisiche e psicologiche del compagno: "Si chiama vittimizzazione secondaria, succede ancora continuamente nelle aule dei tribunali, dove le donne che denunciano la violenza non sono credute. Ieri questo trattamento è stato imposto a Sonia Bracciale da Franca Leosini nel suo programma Storie maledette su Rai Tre". Le parole pronunciate da Franca Leosini - che durante l'intervista andata in onda su Rai Tre si è lascia scappare anche un sarcastico: "Ma lei una padellata in testa a suo marito non gliel'ha mai data?'"- hanno toccato profondamente i vertici dell'associazione che nella nota, ci sono andati giù pesanti dando a Franca Leosini dell'incompetente: "Al di là dell’incompetenza con cui una giornalista si permette di parlare a una donna che ha subito violenza senza avere una formazione e gli strumenti di base per affrontare un discorso tanto delicato, quanto complesso ciò che emerge prepotente e insopportabile è l’eterno giudizio verso le donne che non se ne sono andate per tempo dalla figura violenta. Neppure quando vengono ammazzate, si smette di giudicarle".
Da huffingtonpost.it il 17 giugno 2020. “Un concentrato di insinuazioni, stereotipi sessisti, giudizi moralistici, colpevolizzazioni per la violenza subita, e giustificazioni del maltrattante in prima serata tv”. Così Antonella Veltri, presidente dell’associazione D.i.Re - Donne in rete contro la violenza si è espressa in una nota stampa a proposito dell’ultima puntata di Storie Maledette, condotta da Franca Leosini su Rai Tre. Durante la trasmissione, andata in onda domenica 14 giugno, la giornalista ha dialogato con Sonia Bracciale, condannata a 21 anni di reclusione come mandante dell’omicidio dell’ex marito Dino Reatti, accusato di maltrattamenti ai suoi danni. Rispetto ai toni utilizzati in trasmissione, la nota di D.i.Re prosegue: “Si chiama vittimizzazione secondaria, succede ancora continuamente nelle aule dei tribunali, dove le donne che denunciano la violenza non sono credute”. ″‘La responsabilità ce l’ha anche lei come tutte le donne che non mollano il marito al primo schiaffone‘, ha detto Leosini ieri sera a Sonia Bracciale. Al di là dell’incompetenza con cui una giornalista si permette di parlare a una donna che ha subito violenza senza avere una formazione e gli strumenti di base per affrontare un discorso tanto delicato, quanto complesso ciò che emerge prepotente e insopportabile è l’eterno giudizio verso le donne che non se ne sono andate per tempo dal violento. Neppure quanto vengono ammazzate, si smette di giudicarle”, ha detto invece Manuela Ulivi, presidente di Cadmi-Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano. “Un programma del genere non sarebbe andato in onda - ha aggiunto Antonella Veltri di Di.R.e - se la Rai applicasse le raccomandazioni del Grevio, il Gruppo di esperte sulla violenza contro le donne del Consiglio d’Europa, che nel suo Rapporto sull’applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia ha segnalato quanto i media continuino a perpetrare stereotipi e pregiudizi nei quali affondano le radici della violenza maschile contro le donne”. Commenti all’ultima puntata di Storie Maledette sono giunti anche dai social network. “Non mi piace il messaggio che sta facendo passare Franca. Sembra quasi colpevolizzarla per non aver lasciato il marito che le faceva violenza”, ha scritto un utente Twitter durante la messa in onda. E ancora: “Cara Franca, sono una di quelle che al primo schiaffo non se n’è andata. Ho mollato dopo due anni, sono andata in terapia per cercare di capire perché non ci fossi riuscita prima. Non giudicare... Né me, né quelle che non ce la fanno ad andare via subito”. “Franca Leosini io ti adoro, ma la colpa non è mai delle vittime di violenza”, ha aggiunto qualcun altro.
Franca Leosini chiarisce: "Mollare il marito al primo ceffone? Un consiglio, non un rimprovero". Franca Leosini risponde alle polemiche nate in seguito alla sua intervista per Storie Maledette a Sonia Bracciale: "Il mio un consiglio, non un rimprovero". Luana Rosato, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. Dopo la polemica dalla quale è stata travolta per le frasi pronunciate durante l’intervista a Sonia Bracciale nella seconda puntata di Storie Maledette, Franca Leosini decide di fare chiarezza. Nell’intervista andata in onda lo scorso 14 giugno, la conduttrice di Rai Tre si è resa autrice di una esternazione che ha scatenato la furia degli spettatori. “La responsabilità ce l’ha anche lei come tutte le donne che non mollano il marito al primo schiaffone”, ha commentato la Leosini rivolgendosi alla Bracciale, accusata di essere la mandante dell'omicidio del marito violento. Davanti a queste parole, il web è insorto e, in seguito alle polemiche dalle quali è stata travolta, Franca Leosini ha deciso di fare chiarezza in una intervista per La Stampa. “Non ho detto che la responsabilità è delle donne, era un contesto colloquiale dove ho espresso un pensiero che corre sul filo della logica e soprattutto che è da considerare un consiglio, non certo un rimprovero – ci ha tenuto a precisare lei - . Perché, lo ripeto, sarebbe opportuno per una donna andarsene al primo accenno di violenza. Non aspettare che la violenza monti arrivando alle estreme conseguenze”. Franca Leosini ribadisce, quindi, il suo intento di dare un consiglio a tutte le donne che subiscono violenza tra le mura domestiche senza mai cadere nel giudizio troppo affrettato o inopportuno. “È sbagliato prendere alla lettera una affermazione che è figurativa e dove non c'è un giudizio ma un consiglio che mi sembra di minima prudenza – ha continuato lei - .A me dispiace essere fraintesa, anche perché con la mia vita e le mie battaglie ho dimostrato come la penso e che sono sempre dalla parte delle donne”. “Mi sembra incredibile che si possa supporre il contrario – ha aggiunto - . Ci mancherebbe che una donna fosse responsabile di una violenza subita. Capire dubitare raccontare, sono i tre verbi che io frequento nella mia trasmissione”. Il verbo giudicare, dunque, non appartiene né a Franca Leosini né a Storie Maledette che, come ribadito dalla conduttrice, nasce con l’intento di comprendere. “[...]Io cerco di capire cosa possa avere portato quella persona dalla normalità a un gesto estremo che a quella persona non somiglia. Questo è il senso, il nucleo fondante di Storie Maledette”, ha sottolineato lei senza nascondere che, dopo aver analizzato a fondo alcune delle storie più tragiche della cronaca nera italiana, abbia avuto qualche dubbio sulla colpevolezza di alcuni condannati.
Maria Corbi per “la Stampa” il 17 giugno 2020. Franca Leosini si meraviglia della polemica nata per una frase pronunciata durante la seconda puntata di Storie Maledette e diretta a Sonia Bracciale, accusata di essere la mandante dell'omicidio del marito violento.
Le rimproverano di avere colpevolizzato le donne dicendo alla sua intervistata: «La responsabilità ce l'ha anche lei come tutte le donne che non mollano il marito al primo schiaffone».
«Non ho detto che la responsabilità è delle donne, era un contesto colloquiale dove ho espresso un pensiero che corre sul filo della logica e soprattutto che è da considerare un consiglio, non certo un rimprovero. Perché, lo ripeto, sarebbe opportuno per una donna andarsene al primo accenno di violenza. Non aspettare che la violenza monti arrivando alle estreme conseguenze».
Questa volta anche i leosiner, i suoi fans, hanno avuto da ridire. Chiara, su Twitter, la invita a non giudicare: «Cara Franca, sono una di quelle che al primo schiaffo non se n'è andata. Ho mollato dopo due anni, sono andata in terapia per cercare di capire perché non ci fossi riuscita prima».
«È sbagliato prendere alla lettera una affermazione che è figurativa e dove non c'è un giudizio ma un consiglio che mi sembra di minima prudenza. A me dispiace essere fraintesa, anche perché con la mia vita e le mie battaglie ho dimostrato come la penso e che sono sempre dalla parte delle donne. Mi sembra incredibile che si possa supporre il contrario. Ci mancherebbe che una donna fosse responsabile di una violenza subita. Capire dubitare raccontare, sono i tre verbi che io frequento nella mia trasmissione».
Capire. Cosa ha capito degli uomini che uccidono le donne? Lei ne ha incontrati diversi.
«Che hanno in comune un tratto: la fragilità. Un uomo che ha la forza morale di elaborare non è mai violento. Per fortuna esistono i centri antiviolenza e le donne devono prendere in maniera veloce le distanze. E ritorniamo alla frase che ha fatto tanto polemiche "al primo schiaffone".
Soprattutto quando ci sono i figli, perché oltre alla sofferenza che gli si infligge, gli si fa subire un modello di comportamento che spesso viene replicato».
Quando li incontra ha l'idea che siano consapevoli di quello che hanno fatto?
«In carcere c'è molto tempo per riflettere, e il mio ruolo, lo ripeto, non è quello di giudicare. Io cerco di capire cosa possa avere portato quella persona dalla normalità a un gesto estremo che a quella persona non somiglia. Questo è il senso, il nucleo fondante di Storie Maledette. La cosa che mi fa anche molta tenerezza sono i figli che continuano ad andare a trovare i genitori nonostante quello che hanno fatto. Un gesto di grande pietas. Hanno in loro quella enorme e meravigliosa capacità che è il perdono. Uno dei più grandi esempi di generosità umana. Li guardo con grande tenerezza e rispetto».
Dubitare. Ha mai dubitato della colpevolezza di un condannato?
«Assolutamente sì. Mi sono fatta l'idea che ci sono stati degli errori giudiziari. Sonia Bracciale è stata condannata a 21 anni di reclusione come mandante dell'omicidio. Posso credere che sia stata mandante del pestaggio del marito ma sono certa che non ne volesse la morte perché tra le altre cose lei si stava separando.
SARAH SCAZZI E SABRINA MISSERI
La condanna a 21 anni mi è sembrata eccessiva. Oppure nel caso di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima (è il caso di Avetrana, ndr.) colpevoli - perché le sentenze si rispettano - di un delitto per il quale non c'è possibilità di risarcimento visto che si tratta della vita di una quattordicenne, ma dove non c'è stata premeditazione e non c'è stato vilipendio del corpo. Eppure hanno avuto l'ergastolo. E poi ci sono altri casi invece in cui a 35 coltellate corrispondono solo 20 anni. È il libero convincimento del giudice e, come ho detto ai 110 anni della Associazione Magistrati, mi lascia perplessa».
35 coltellate e 20 anni. Parla di Parolisi, che ha da poco avuto un permesso premio.
«Io sono d'accordissimo che abbia una seconda possibilità, non sono d'accordo sull'ergastolo dato a Sabrina e alla madre».
Raccontare. Lei ha raccontato i delitti più efferati di questo Paese. Tra cui la strage del Circeo, 45 anni fa, intervistando Angelo Izzo. È vero che è riuscito a imbrogliarla?
«Io difficilmente mi faccio imbrogliare dalle persone. Nel caso di Izzo mi aveva convinto del suo cambiamento. Mi disse "noi meritavamo un colpo alla nuca"».
Uscito dal carcere uccise due donne. L'ha più sentito?
«Mi fece sapere che lui veramente pensava di essere cambiato, che quella parte di lui buia non potesse più prendere il sopravvento. E spero che ora la sua carcerazione sia per sempre. Credo sia giusto dare una possibilità di recupero, ma quando vedi che il recupero non c'è allora l'ergastolo non deve avere spiragli. Lo dico con dispiacere ma con assoluta certezza. Anche intervistarlo vorrebbe dire dargli un'altra chance e io per prima non voglio dargliela».
Lo strano caso di Franca Leosini. Icona femminista, ma degli anni Cinquanta. Le donne come angeliche spose e un linguaggio da secolo scorso. Simonetta Sciandivasci il 9 Giugno 2020 su Il Foglio. Domenica sera è ricominciato “Storie maledette” di Franca Leosini e Fedez ha scritto su Twitter: “Franca Leosini e Roberta Petrelluzzi spiriti guida forever”. La cosa, se pure Fedez non v’appassiona e pensate che non rileva (e invece rileva, e non solo perché è l’unica first lady che abbiamo) dà la misura esatta del leosinismo, culto social di conio non recente, ma di portata sempre crescente. L’anno scorso, quando nella Treccani venne inclusa la parola leosiner (“chi sostiene con entusiasmo la giornalista Franca Leosini”), si ufficializzò che FL era passata dal dare la notizia a esserlo e, soprattutto, dal condurre un programma a essere il programma. In un articolo assai dettagliato su come questo passaggio abbia quasi del tutto tradito lo spirito iniziale di “Storie maledette”, 26 anni e più di onorata carriera, Jonathan Zenti ha scritto su Il Tascabile che da indagine sul tema del delitto, la trasmissione è diventata un Leosini show: vent’anni fa FL non parlava che per il 20 per cento del tempo, oggi supera il 45 per cento; le sue domande sono spesso retoriche e più che a smontare e rimontare la storia dell’intervistato, servono a giudicarlo, metterlo alle strette, usarlo – aggiungiamo qui – per dare agli spettatori un’idea piuttosto manichea di giusto e sbagliato. E dire che il senso del lavoro di Leosini è sempre stato l’opposto, e lo aveva descritto lei stessa in un’intervista all’Huffington Post di qualche anno fa: “Io mostro la realtà umana di persone che all’epoca dei loro crimini sono state descritte con i toni, le emozioni e le tinte forti del momento. Il mio compito non è giudicare, ma cercare di comprendere quanto più possibile”. Domenica sera la puntata è stata dedicata al caso Rocca, il dentista sardo condannato all’ergastolo per aver commissionato l’assassinio di sua moglie, essendosi invaghito della sua assistente, e che però si è sempre dichiarato innocente. Come sempre, anche domenica sera abbiamo assistito a una ricostruzione dei fatti esposta con un italiano ricco, aulico, quasi fuori dal tempo, che è una delle ragioni principali del successo di Leosini – “io non ricerco le parole: le possiedo” – e a un dialogo tra lei e il detenuto che è parso in alcuni momenti una seduta psicoterapica, in altri una chiacchierata tra suocera e genero, in altri ancora (i peggiori) una conversazione tendenziosa sceneggiata in modo da compiacere il pubblico. Incalzandolo sull’adulterio, Leosini ha detto a Rocca: “Lei, farabutto e fedifrago come tutti i mariti che tradiscono angeliche spose”; “La sua era solo una storia scopereccia?”, “Noi donne, per vostra sciagura, abbiamo le antenne, e sua moglie, molto presto, ha scoperto la sua tresca”. Queste frasi sono state twittate, ritwittate, postate con il solito, accesissimo entusiasmo leosiniano, anche se i giornali hanno riportato lo scontento di alcuni fan, che hanno lamentato l’eccesso di protagonismo della loro Maestra di Vita, venendo naturalmente zittiti da sostenitori più fedeli, che hanno obiettato che Franca può tutto. Il problema, però, non è che Leosini accattiva il pubblico con qualche parolina truce o truculenta, bensì che lo porta a sé proponendo un ordine massimalista, fortemente polarizzato, all’interno del quale l’uomo è un maschio fanfarone, bugiardo, meschino e la donna un angelo del focolare. L’Italia è una Repubblica fondata sull’adulterio, Leosini lo sa, e offre una catarsi. L’Italia s’indigna perché nella grafica di Immuni c’è una donna che culla un bambino e un uomo che va a lavorare, ma non s’accorge che per raccontare l’assassinio di una donna c’è ancora bisogno di evidenziare che brava moglie fosse. E allora una cambia canale, finisce su Giletti, e prima di andare a letto fa un pensiero che non condivide su come La7, in fin dei conti, renda più giustizia alla giustizia di quanto non faccia la Rai. Poi, però, le viene in mente Leosini che dice a Rocca “con quale delle due donne è stato più busciardo?”, e sorride, dicendosi che un farabutto fedifrago ha avuto quello che si meritava, ed è troppo stanca per accorgersi che anche questo è un pensiero che non condivide.
Simonetta Sciandivasci. Nata a Tricarico nel 1985 e cresciuta tra Matera e Ferrandina, ora vive a Roma, senza patente. Libri, uno: La Domenica Lasciami Sola (Baldini&Castoldi, 2014). Scrive su Il Foglio, Linkiesta, Rolling Stone, La Verità. È redattrice di Nuovi Argomenti.
Maledetta Avetrana. “Storie maledette” riparte da qui. Il caso di cronaca più mediatizzato d’Italia nelle mani di Franca Leosini diventa un genere a sé, scrive Andrea Minuz il 12 Marzo 2018 su "Il Foglio". “La lettura dell’Italia si può fare attraverso il delitto”, dice Franca Leosini che riparte da Avetrana e non ha mai scritto un romanzo, anche se molti editori glielo chiedono, anche se “per ogni storia che porto in video è come se ne avessi scritto uno”. Il romanzo c’è già. “Storie maledette” non è solo un programma fatto di interviste, ma il grande romanzo italiano a puntate che racconta pulsioni, trasformazioni e perennità di questo paese, delle sue strutture sociali, della sconfinata, profonda provincia che pensiamo di conoscere ma che non conosciamo mai davvero. Nella complessa geografia del delitto italiano (Novi Ligure, Cogne, Erba, Garlasco, Perugia) Avetrana è anzitutto il punto di non ritorno del cortocircuito tra informazione, cronaca, spettacolo; perfetta sintesi di giustizialismo, voyeurismo e ferocia dei talk-show. Qui i media non arrivarono dopo ma costruirono un’indagine parallela culminata nell’annuncio del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi in diretta su “Chi l’ha visto”. Il delitto a sfondo familiare si trasformava definitivamente in reality. Ci sprofondammo tutti con un orrore via via sempre più grottesco e i negozi del Rione Sanità che vendevano il “vestito di carnevale di Zio Michele”. Un’“epopea baraccona”, come l’ha definita Franca Leosini nella prima puntata di domenica. Pensavamo di averne avuto abbastanza di Sarah, del diario, del cellulare, di Sabrina, “Zio Michele”, Cosima, Ivano. Invece è stato come entrare ad Avetrana per la prima volta. Orchestrati dentro un doppio racconto, quello di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano, Franca Leosini intreccia i fatti come in un confronto all’americana costruito sulla parola. Al delitto ci accompagna per gradi, anzi per grandi cerchi concentrici che delineano il quadro logico-passionale degli eventi, l’ambiente, i personaggi. Perché “la forza di ‘Storie maledette’ non è il delitto ma il percorso”, come dice Leosini. La cronaca ha fretta. Lei no. C’è il preludio, lo sguardo dall’alto sul teatro dell’azione come nel romanzo dell’Ottocento, poi l’affondo sui dettagli: i “devoti sms”, i capelli bianchi di Cosima che “non vuole essere schiava della tinta”, i “crateri di cellulite” delle signore di Avetrana massaggiate da Sabrina che ha un alibi a forma di “cordon bleu” divorato di corsa il giorno del delitto e rigorosamente pronunciato “Gordon blé”. Ogni puntata lascia dietro di sé una scia di “meme” e tormentoni rilanciati in rete dai “leosiners”. Ma alla fine appare riduttivo spiegare il suo successo coi tailleur colorati, il linguaggio desueto, il piglio contemporaneamente empatico e freddo della conduzione. Casomai, in una televisione fatta di format costruiti su casting, montaggio e ospitate gratis, “Storie Maledette” è uno dei pochi programmi che punta tutto sulla scrittura. C’è la tragedia con Sabrina che rievoca i compagni di scuola che la sfottevano per la peluria ed entravano in classe con le lamette, ma ci sono anche dialoghi che sembrano usciti dalle migliori pagine della nostra commedia, non a caso detta “all’italiana” perché quasi sempre moriva qualcuno: “Nei 4.500 sms a Ivano lei appare come una questuante dell’amore”, incalza Leosini; “sì, ma avevo anche la promozione coi messaggi gratis”. Siamo davvero dalle parti di Billy Wilder. “Se tornassi indietro non farei neanche un’intervista”, dice a un certo punto Sabrina, “però così avrebbero detto che di Sarah non me ne fregava niente”. Sintesi formidabile di come le dicerie di Avetrana siano solo la versione in scala ridotta di quelle nazionali. “Il delitto di Avetrana si è compiuto in una profonda campagna secondo un modo familiare cioè contadino”, scriveva Giorgio Bocca, “ma tutti gli italiani lo hanno sentito come proprio, a smentita che la società italiana moderna abbia perso i suoi fondamenti contadini”. Ce ne siamo ricordati anche il 5 marzo.
Franca Leosini, fredda analista dei delitti, ma icona dell’empatia. I leosiners (i fan della giornalista e conduttrice) amano l’enfasi retorica consacrata alla vittima, ma amano ancor più il personaggio, vagamente démodé eppure affascinante, scrive Aldo Grasso il 12 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". È tornata Franca Leosini con le sue «Storie Maledette» per dedicare due puntate all’omicidio di Sarah Scazzi, la giovane di Avetrana uccisa a 15 anni il 26 maggio 2010. Lei si definisce un’instancabile indagatrice di anime, narratrice di persone che cadono nel buio della coscienza: «Capire, dubitare, raccontare: mai come in questo caso i miei verbi, quelli che frequento di più, come scelta narrativa, etica e di rigore, si sono confermati importanti». Anche in Dino Buzzati c’era sempre questa tensione al tragico attraverso il patetico (ogni delitto che raccontava era patetico, letteralmente un’esplosione di sofferenza), questo bisogno di tradurre l’angoscia più cupa dell’esistenza in un teatro del quotidiano. Per questo la sua scrittura cercava continuamente una mediazione estetica per non cedere al dolorismo, per non assecondare la nostra morbosità nei confronti dell’orrore. Qual è lo stile di Franca Leosini? Uno stile, per altro, ormai così riconosciuto che le ha meritato un invito al Festival di Sanremo di Claudio Baglioni (la gag è stata alquanto modesta, in verità). La Leosini è una sgobbona, bisogna ammetterlo: prima di incontrare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima, condannate all’ergastolo e recluse nel carcere di Taranto, la giornalista napoletana ha studiato tutte le carte del processo. Poi scrive, scrive e in trasmissione legge tutto (più radio che tv): è il suo modo di fare letteratura, anche se ho molti dubbi sulla tenuta stilistica della sua prosa, piena di barocchismi («ardori lombari», «bipede sgualcito»), e sul suo marcato sociologismo (il vero colpevole è sempre il contesto). I leosiners (i suoi numerosi fans) amano l’enfasi retorica consacrata fatalmente alla vittima, ma amano ancora di più il personaggio, vagamente fuori moda eppur affascinante, fredda analista dei delitti eppur icona dell’empatia.
Classica eppure modernissima, la giornalista e conduttrice di «Storie maledette» è diventata un’icona sui social network, scrive Chiara Maffioletti l'11 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Il suo programma, «Storie maledette», è in onda dal 1994: e questa sera torna in onda alle 21.25 su RaiTre. Ma solo negli ultimi anni, quelli dei social network, la giornalista e conduttrice è diventata un fenomeno cult. Tutti la amano, tutti la commentano. Il suo stile — impeccabile — è diventato, nel suo essere senza tempo, il segreto della sua modernità. Lontana dai social eppure mai così presente, protagonista, Leosini è oggi un’icona. Dopo essere stata anche guest star al cinema — nella commedia «Come un gatto in tangenziale» —, e al Festival di Sanremo (dove è stata protagonista di una gag con Claudio Baglioni — Franca Leosini è pronta a tornare in onda. «Lo ammetto: la tv, la fiction e il cinema mi corteggiano. Ma non partecipo mai ai talk show, con tutto il rispetto per i colleghi che fanno un lavoro meraviglioso, faticoso, spesso quotidiano. E sono così cari da accettare i miei no. Al cinema ho detto sì al film di Riccardo Milani perché, al di là della grande amicizia che mi lega a Paola Cortellesi, ero me stessa. Non ho mai voluto, invece, interpretare ruoli». E a proposito dell’affetto straordinario del pubblico, ha fatto sapere che «mi riempie il cuore e mi dà tanta forza di lavorare». Il suo programma riparte con due puntate dedicate al delitto di Avetrana, all’omicidio di Sarah Scazzi, a Sabrina Misseri e alla madre Cosima. «Ho letto 10 mila pagine di processo, dalla prima all’ultima parola. Sul piano personale e professionale, ogni storia che racconto è un percorso umano, giudiziario e ambientale faticosissimo: non cerco la verità, che è compito di inquirenti e magistrati, cerco di capire, a volte arrivando a una verità che non è sempre quella storica e processuale. Penso che la storia dell’Italia si possa leggere anche attraverso i delitti». A gratificarla è soprattutto «l’affetto dei ragazzi, che seguono la trasmissione con amore e con grande attenzione al linguaggio, una responsabilità enorme per chi fa questo mestiere».
Franca Leosini: ecco chi è la giornalista di Storie Maledette, star sui social, scrive "Popcorntv.it". Franca Leosini, giornalista e conduttrice di Storie Maledette, è seguitissima sui social e ha anche un gruppo di fan che si fa chiamare Leosiners. Fredda e distaccata ma precisa e pungente: ecco chi è Franca Leosini, giornalista e conduttrice tv, diventata un vero e proprio idolo sui social tanto da avere anche un suo esercito di fan che si è ribattezzato Leosiners. Sono tantissimi i personaggi che Franca Leosini, nel suo programma Storie Maledette, in onda dal 1994 tutte le domeniche in prima serata su Raitre, ha intervistato: tra questi anche Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all'ergastolo per l'uccisione di Sarah Scazzi.
Chi è Franca Leosini. Una delle prime curiosità sul conto di Franca Leosini è legata alla sua data di nascita, eh sì perché secondo alcune biografie ufficiali la nota giornalista sarebbe nata nel 1949, anche se nell'annuario dei giornalisti è riportato 1934. Nonostante questo, la Leosini è nata a Napoli il 16 marzo e il suo cognome è Lando, Leosini è il suo cognome, invece, da coniugata.
Franca Leosini: carriera. Nel 1974 Franca Leosini ha conseguito il tesserino da giornalista pubblicista, regolarmente iscritta presso l'albo della Campania. Fin da piccola è sempre stata una grande studiosa e appassionata della lingua italiana e così dopo il diploma ha scelto di proseguire gli studi e di laurearsi in Lettere Moderne. Il suo primissimo lavoro è stato presso l'Espresso, collaborando per il settore della cultura, e subito ha cominciato ad occuparsi non solo di interviste ma di vere e proprie inchieste. Nel 1974, inoltre, la Leosini si è occupata dell'inchiesta denominata Le zie di Sicilia, in cui Leonardo Sciascia ha accusato le donne dello sviluppo della mafia. Non tutti lo sanno ma Franca Leosini, per un periodo, è stata anche direttrice di Cosmopolitan e ha curato la terza pagina de Il Tempo.
Franca Leosini: le frasi. Franca Leosini è considerata una vera e propria superstar sul web. In tantissimi, infatti, su twitter non perdono occasione non solo di farle i complimenti ma anche di esaltare il suo operato, le sue interviste e il suo modo di parlare, ciò che più incanta gli internauti. Basti pensare che su Facebook esiste una pagina intitolata Le perle Franca Leosini, che conta oltre 8mila like, in cui vengono riportati tutti i suoi tormentoni, come: «Questo lo dice lei».
Curiosità su Franca Leosini. Franca Leosini, nel 2013, è stata eletta come icona gay della serata romana Muccassassina. Franca Leosini a DM: «Ho studiato 10 mila pagine di processo per intervistare Sabrina e Cosima Misseri. Detesto la parola femminicidio», scrive mercoledì 7 marzo 2018 Mattia Buonocore su "Davide Maggio". “Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare”. Con queste parole Franca Leosini inizia il suo racconto del caso Scazzi, la triste vicenda di cronaca nera che ha toccato l’Italia intera. Le interviste a Sabrina e Cosima Misseri terranno banco nel nuovo ciclo di Storie Maledette, al via domenica 11 marzo in prima serata su Rai3. DavideMaggio.it ha incontrato Franca Leosini.
Cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova stagione di Storie Maledette?
«Di vederlo. Io non faccio mai anticipazioni, è una cosa che definirei anche di cattivo gusto. Nel senso che è una trasmissione che va vista, seguita. Per fortuna viene seguita con grande amore, il che mi gratifica molto. E mi gratifica moltissimo il fatto che sia seguita da fasce sociali completamente differenziate, difformi, e soprattutto sia seguita dai ragazzini. I leosiners sono dei ragazzini e questa è una cosa straordinaria perchè il mio non è un varietà, la mia è una trasmissione impegnativa. I ragazzi purtroppo stanno perdendo l’uso del linguaggio a furia di stare su twitter e di scrivere messaggini; mi dicono che seguono Storie Maledette perchè a loro piace il linguaggio. C’è sicuramente un linguaggio non povero, e noi siamo dei modelli, chi ci ascolta ci imita. Così come ci imitano come siamo vestiti, ci imitano anche con il linguaggio. Questa è una cosa che mi gratifica. E’ una trasmissione difficile la mia».
In questo ciclo di puntate si parlerà del caso Scazzi.
«Saranno due puntate, con due protagoniste che sono Sabrina e la madre. Diciamo che il Professore Coppi, che è l’avvocato principe, mi ha fatto studiare diecimila pagine di processo. Gli editori, che sono sempre così gentili con me, mi sollecitano a scrivere libri ma io scrivo un libro ogni volta che faccio una storia maledetta. E’ un lavoro anzitutto molto capillare di studio del processo, della psicologia dei personaggi, della cultura dell’ambiente e anche diciamo proprio del luogo; dico e ripeto, è molto importante la cultura del posto. Una lettura del paese si potrebbe fare anche attraverso i delitti, perchè tante cose si verificano in una parte di Italia e in un’altra no? Tornando al mio lavoro, io faccio poche puntate, con grande disperazione dei miei direttori proprio perchè è ogni puntata è una struttura narrativa, un grande romanzo – parliamoci chiaro – del quale io sono l’autore unico. E’ un lavoro molto complesso, d’altronde la cosa che mi gratifica è che l’apprezzamento c’è».
E’ un’anomalia il fatto anche di avere due ospiti conosciute.
«Ho avuto tanto riscontro – la parola successo la rifuggo, preferisco parlare di risultati, quando mi dicono: “sei una donna di successo”, dico: “ho avuto dei risultati mai successo” – con casi assolutamente sconosciuti. Un caso come quello Scazzi è quasi una vicenda del secolo, per il retrogusto di questa storia».
Va in onda nella prima serata della domenica.
«E’ una scelta del direttore. Io avrei preferito un’altra serata, logicamente è il direttore che sceglie e io sono un soldato di Rai3».
Tu sei anche molto legata alla seconda serata.
«Ho amato molto la seconda serata, ma ci sono dei casi talmente forti che sai… A suo tempo – Storie Maledette ha 20 anni – quando andai da Guglielmi a dire: “Vorrei fare Storie Maledette”. Lui mi disse: “Il titolo mi piace vediamo cosa ci metti dentro”. Ci ho messo dentro Storie Maledette. Lui voleva già da allora la prima serata e io mio sono battuta per la seconda serata. Ci sono dei casi che sono veramente molto forti, romanzati».
Tuo marito cosa ti ha detto quando gli hai detto: “Mi accompagni a Sanremo”?
«Lui è molto carino con me. E’ stata un’occasione per stare insieme perchè oltretutto lui vive a Napoli. A suo tempo, mi ricordo ci furono le targhe alterne. Una mia amica mi disse: “come va con tuo marito?”. Le risposi: “Ci vediamo a targhe alterne quindi è stata anche un’occasione per stare insieme”».
Il fatto di essere una donna ti aiuta nel tuo lavoro.
«Forse noi donne abbiamo quel sesto senso in più, quella capacità di capire anche le debolezze che gli uomini non individuano o non accettano».
Si parla molto di donne in questo periodo.
«Purtroppo ora è diventato un argomento di grande attualità, giustamente ora presente sul mercato delle idee, dei sentimenti e dei progetti. Logicamente la violenza sulle donne ha radici antiche ed è indubbiamente aumentata nel momento in cui le donne hanno cominciato a scegliere per la loro vita, per il loro destino. Le donne vivevano quello che era il ricatto economico, logicamente hanno raggiunto un’indipendenza che le consente di scegliere per il destino delle coppie. Purtroppo le liti nascono sempre dal rifiuto di una donna di accettare il progetto dell’uomo, bisognerebbe educare l’uomo prima di educare la donna. Ad esempio se c’è un termine che detesto è femminicidio perchè dico che la donna è anzitutto è persona, quindi non è femmina. Non si dice maschicidio».
"Al supermercato so quando entro ma non quando esco, faccio selfie tutto il giorno". Franca Leosini torna su Rai3 con una nuova stagione di Storie Maledette con un doppio appuntamento domenicale dedicato alle interviste di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, scrive il 7 marzo 2018 Sebastiano Cascone su “Il Sussidiario”. Franca Leosini torna, su Rai3, al timone di Storie Maledette, dall’11 marzo con tre puntate, le prime due, dedicate all'omicidio di Avetrana e intitolate "Sarah Scazzi: quei venti minuti per morire", con le interviste esclusive a Sabrina Misseri e la mamma Cosima Serrano: "L’omicidio di Avetrana fa parte della cultura e della storia giudiziaria e umana di un Paese. Ma è stata anche una vicenda televisiva, che ha diviso nella passione del giudizio. Con i risvolti umani e le inquietudini che si è portata dietro" ha confessato la giornalista al settimanale Tv Sorrisi e Canzoni in edicola questa settimana. La conduttrice napoletana sceglie con scrupolosa attenzione le storie dei protagonisti che vuole intervistare per dare un occhio totale della realtà dei fatti: "La parola importante è “rispetto”. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta. Sono persone come noi, può succedere a tutti: ci sono momenti in cui la consapevolezza si smarrisce. Il limite tra giusto e sbagliato è gelatinoso… Queste persone accettano di scendere con me nell’inferno del loro passato".
LA SCELTA DELLE STORIE E DEI PROTAGONISTI. Franca Leosini ha rivelato, per la prima volta, l'iter, per la scelta delle storie dei vari protagonisti: "Scrivo a mano una lettera in carcere alla persona che vorrei incontrare. È importante che veda la mia calligrafia, per stabilire subito un rapporto umano. Poi sento l’avvocato, che ha sempre un breve ruolo nella puntata perché ci sono problemi tecnici che deve risolvere. Quanto a me, cerco di non far capire quello che penso: il mio ruolo è doverosamente super partes". Poi, inizia il complicato percorso dei permessi fino all'incontro con l'intervistato, della durata di un giorno, per creare il giusto feeling. Da lì, passano tre quattro mesi per "studiare gli atti del processo, scrivere dalla prima faccio anche un lavoro di solfeggio, proprio come su uno spartito musicale: intonazione della voce, pause, all’ultima parola, creare la struttura narrativa". Un lavoro che richiede, quindi, tempo e la giusta concentrazione per mettere a punto un prodotto qualitativamente alto che non delude le aspettative degli affezionati telespettatori. Il segreto? Non anticipare mai le puntate ai diretti interessati per rendere il tutto più fluido e naturale possibile.
L'AMORE DEI LEOSINERS. Franca Leosini, recentemente ospite del Festival di Sanremo per una gag molto divertente con Claudio Baglioni, ha un folto seguito di fedelissimi sulla rete che non perdono una puntata di Storie Maledette. La giornalista è orgogliosa di un consenso trasversale che abbraccia diverse generazioni: "Al supermercato so quando entro ma non quando esco. L’ultima volta non sono riuscita a comprare neanche un pomodoro, perché ho fatto selfie tutto il tempo. Ma lo faccio con gioia. Oltre che un piacere, è un dovere dare al pubblico tempo e attenzione". I Leosiners sono un gruppo molto numeroso che, compatto, scalpita per la messa in onda delle nuove attesissime puntate (eccezionalmente alla domenica sera): "Siamo dei modelli e siamo imitati per come ci comportiamo. Se abbiamo un linguaggio che non è povero, trasmettiamo quella ricchezza a chi ci ascolta. E la cosa che mi gratifica è che i “leosiners”, che sono giovani e di tutte le estrazioni, amano quel linguaggio".
Leosini, racconto luci e ombre dell'omicidio Scazzi. Torna Storie Maledette da domenica 11 marzo su Rai3, scrive Angela Majoli il 9 marzo 2018 su "Ansa". "Capire, dubitare, raccontare: mai come in questo caso i miei verbi, quelli che frequento di più, come scelta narrativa, etica e di rigore, si sono confermati importanti". Instancabile indagatrice di anime, scrupolosa narratrice di persone che cadono nel buio della coscienza, Franca Leosini torna con la 16/a edizione di Storie maledette, domenica 11 marzo in prima serata su Rai3, e dedica due puntate all'omicidio di Sarah Scazzi, la giovane di Avetrana uccisa a 15 anni il 26 maggio 2010. Prima di incontrare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima, condannate all'ergastolo e recluse nel carcere di Taranto, la giornalista napoletana ha "studiato 10 mila pagine di processo: non faccio cronaca - spiega - svolgo un percorso che va in profondità nella storia dei protagonisti della vicenda e nell'ambiente in cui si è svolta. Ho disegnato un pannello che affonda le radici non solo nella realtà umana dei personaggi, ma anche nell'humus circostante. La cronaca non ha tempo, mentre io vado in verticale". Pur avendo incontrato Sabrina e Cosima separatamente, "perché altrimenti si sarebbero influenzate a vicenda", Leosini ha creato però "una sceneggiatura nella quale interagiscono", intrecciandone le testimonianze. "E' stato molto difficile non soltanto studiare gli atti, ma anche ricostruire la storia, vederne i risvolti, con luci e ombre, perché è una vicenda particolarmente complessa per la molteplicità e la poliedricità dei personaggi. C'è Sarah, questa creatura sottile come un gambo di sedano, con i capelli biondi come spighe di grano, che a un certo punto scompare. Ci sono Sabrina e Cosima, ma c'è anche Michele Misseri (marito di Cosima, ndr), una figura terza ma anche il motore mobile della vicenda, che parla un linguaggio tutto suo, il misserese. E poi c'è Ivano (che sarebbe stato il movente della gelosia di Sabrina nei confronti della cugina, ndr), trascinato in una storia in cui non ha responsabilità ma ha un ruolo da protagonista. E poi la madre di Sarah". Due puntate per raccontare "un delitto di cui si sa tanto e poco nello stesso tempo, perché ne esistono tante versioni", sottolinea Leosini, convinta che "il senso di una storia possa nascondersi nei dettagli. La verità storica e quella processuale non sempre coincidono: i miei interlocutori parlano liberamente, ma io devo sempre tener presente gli atti. Le sentenze in democrazia si discutono, ma bisogna rispettarle". Il nuovo ciclo di Storie maledette avrà una terza puntata, "mentre la quarta è caduta - spiega la giornalista - perché il protagonista, un uomo, mi ha chiesto le domande in anticipo. Ma io non patteggio mai nulla: tutto deve essere vero, spontaneo, anche se poi si interviene con il montaggio. E così ho preferito annullare l'incontro, pur avendo lavorato tantissimo". Un lavoro preparatorio che passa anche per il solfeggio dei testi, abitudine 'svelata' dagli stessi redattori del programma: "Per me la parola conta moltissimo, vivo la prosa come musica, ecco perché - spiega Leosini - solfeggio i testi", raccolti in un librone che è diventato una leggenda. Solfeggiato era anche il copione del suo intervento sul palco di Sanremo, accanto a Baglioni: "Quando Claudio lo ha visto, non riusciva a crederci. E' stata un'esperienza straordinaria, ho avuto commenti talmente lusinghieri che Sting, a confronto - dice ridendo - si è rivelato un dilettante". Quella 'maglietta fina' di Questo piccolo grande amore trasformata in 'storia maledetta' ha rafforzato l'affetto del pubblico per la giornalista, osannata dal web, adorata dai 'leosiners' che sono soprattutto giovani: "E' una responsabilità, uno stimolo, una motivazione in più. Il successo? E' una parola effimera. Forse la gente mi ama perché, al di là del mio impegno, sente che sono una persona semplice".
"Con Cosima e Sabrina vi racconto la verità sull'inferno di Avetrana". Stasera a «Storie Maledette» il colloquio in cella. «Ma i pedofili mai: non voglio mostri», scrive Paolo Scotti, Domenica 11/03/2018, su "Il Giornale". Si dice che prima d'indagare sui misteri altrui ci si debba interrogare sul proprio. E l'enigma che avvolge Franca Leosini inesorabile investigatrice delle anime nere di Storie maledette (da stasera alle 21,20 su Raitre) - è: come può una garbata signora provare interesse per i mostri che intervista? «Le mie non sono interviste ma incontri. E quelli che incontro non sono mostri ma uomini caduti nelle tenebre del male».
Signora Leosini: stasera lei avvicinerà Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, entrambe all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Cosa prova di fonte a persone simili? Curiosità? Rabbia? Pietà?
«Innanzitutto rispetto. E poi, spesso, compassione. I delitti non si giustificano mai. Però si devono interpretare. Capire è un dovere. Io non sono un pubblico ministero. Sono un'indagatrice dell'anima».
Insomma la pensa come Papa Francesco, che ai carcerati disse «Potrei essere al posto vostro».
«Esattamente. Un cuore di tenebra batte nel petto di ciascuno di noi. Non m'interessa il criminale in quanto tale: è l'uomo, che voglio indagare. Il mostro assoluto no: per questo non ho mai incontrato un pedofilo».
Ma loro perché l'incontrano? Un'estrema speranza di riabilitazione? Un insperato processo d'appello?
«Un po' tutte queste cose. Certo: loro sanno che ne avranno un restauro d'immagine. Chi accetta di scendere con me nell'inferno del passato, spera di gettare un ponte fra sé e la società nella quale, prima o poi, è destinato a ritornare».
E lei? Non prova alcuna inquietudine, neppure un po' di malessere, dopo essersi immersa in queste storie?
«Le vivo come psicodrammi. Dopo aver conosciuto la Misseri e la Serrano non ho chiuso occhio. La verità è che il callo non lo fai mai. Quando Mary Patrizio spiegò nei dettagli come uccise il figlio di cinque mesi, ricorsi a tutto il mio coraggio per non scoppiare a piangere».
Da Angelo Izzo a Patrizia Gucci a Pino Pelosi. Quanti di loro si dichiarano innocenti e quanti ammettono la colpa?
«Diciamo metà e metà. La verità vera non sempre coincide con quella processuale. Per ottenerla talvolta pongo domande durissime. I miei amici si stupiscono che io non riceva come risposta un cazzotto in faccia».
E le risposte sono davvero sincere? Mai dubitato d'essere ingannata, forse strumentalizzata?
«Una volta sola, con una donna molto celebre. Ma io sono ferratissima: studio per mesi tutti gli atti processuali, solo per Avetrana diecimila pagine di faldoni. Non gliela feci passare liscia».
E non teme di sottoporre i suoi spettatori al fascino del male? O di rendere i suoi ospiti degli eroi negativi?
«Quel fascino lo ha già abbondantemente esercitato la cronaca nera, che il male lo strumentalizza in innumerevoli programmi, da mattina a sera. Io cerco invece di capirlo. C'è una bella differenza».
I suoi incontri favoriscono in queste persone una presa di coscienza? Magari l'inizio di una redenzione?
«Ecco la mia soddisfazione più grande! Con molti di loro resto in contatto epistolare: Quante cose ho capito di me e di quel che ho fatto, mi scrivono. Fabio Savi, il capo della banda della Uno Bianca, mi scrisse d'essersi profondamente pentito. Ma mi chiese di non parlarne, e io mi astenni. Ho fatto cose troppo terribili perché possa permettermi di dire pubblicamente che ne sono pentito».
«Storie Maledette», Franca Leosini torna in tv e Twitter impazzisce per lei, scrive il 12 marzo 2018 “Il Corriere della Sera”. Ci sono “gli ardori lombari” dell’incauto giovanotto. E “l’immobile geografia del mistero”. E c’è soprattutto lei, Franca Leosini. Che a “Storie maledette” ripercorre uno dei delitti che più hanno sconvolto l’opinione pubblica degli ultimi anni, quello di Avetrana. Intervista in carcere Cosima Serrano e Sabrina Misseri, ma a conquistare il web è il modo, in cui la conduttrice racconta la vicenda e interpella le due. Così Ivano Russo diventa “l’incauto giovanotto”, e Sabrina “sentimentalmente genuflessa”.
Animazioni, vignette, su Twitter Franca Leosini diventa subito una star. Franca Leosini e le sue metafore su Sarah Scazzi. Sul web è trionfo, scrive lunedì 12 marzo 2018 "Il Secoloditalia.it". E’ stato un ritorno in grande stile quello di Franca Leosini su Raitre con le sue Storie maledette. La puntata di esordio del programma ha avuto al centro il giallo di Avetrana con le interviste a Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Il segreto del successo della Leosini sta nel suo modo sarcastico e arguto di porre le domande. “Mi accosto a questi personaggi – ha spiegato lei stessa – non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta”. Sui social i fan si sono scatenati nel commentare la puntata e soprattutto il linguaggio usato dalla giornalista, che già nell’introdurre il tema ha fatto ricorso alle sue celebri metafore: “Quando scompari misteriosamente in un giorno d’estate, subito hai diritto a una biografia. Anche se hai solo 15 anni, se sei sottile come un gambo di sedano e ti chiami Sarah”. E ancora: “Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare”.
Storie Maledette: dagli «ardori lombari» ai «crateri di cellulite». Ecco le frasi cult della Leosini sul caso Scazzi, scrive lunedì 12 marzo 2018 Giovanni Rossi su "Davide Maggio". Franca Leosini torna a parlare e far parlare. Nella prima puntata del 2018 di Storie Maledette la giornalista ha intervistato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, in carcere per la morte di Sarah Scazzi. E nella lunga intervista in onda ieri sera su Rai 3 (di cui è stata trasmessa solo la prima parte) la Leosini ha sfoderato una serie di espressioni che conferma, ancora una volta, come il suo stile così arzigogolato sia un marchio di fabbrica in grado di catalizzare l’attenzione del pubblico. Ecco quindi una rassegna delle frasi “cult” pronunciate da Franca Leosini nel corso della prima puntata di Storie Maledette 2018.
La frase emblema della serata è quella in cui Franca chiede a Sabrina Misseri come ci si sente ad essere rifiutate durante un approccio sessuale: “L’incauto giovanotto, mentre - frenando i suoi ardori lombari – s’inforcava le mutande, come si giustificava con lei?”.
Poco prima la giornalista aveva stuzzicato Sabrina – secondo lei “sentimentalmente genuflessa” -, per farsi dire che tra lei e Ivano ci fosse qualcosa in più di una semplice amicizia: “Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei”.
E ancora, non riuscendosi a spiegare il successo riscosso da Ivano tra le ragazze di Avetrana, Franca dice che “Brad Pitt in confronto sembra un bipede sgualcito”. Il giovane viene definito anche: “A portata di cazzeggio”. Poi, rivolgendosi a Sabrina, parlando della sua presunta ingenuità, le confessa: “Lei è proprio una babbalona. Ma perché chiacchierava tanto?” .
Sul suo rapporto con il “Delon” di Avetrana, Franca chiede alla galeotta: «Flaiano ha scritto “i grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo?”. Con Ivano a lei è accaduto questo, Sabrina?».
Altra perla della serata è quella relativa alla professione di estetista svolta dalla Misseri all’epoca dei fatti. Franca Leosini vuole sapere: “Al di là di spianare crateri di cellulite sulle cosce delle signore di Avetrana, lei che faceva?”.
E sempre su tale argomento si lascia andare a una considerazione: “Oggi anche per spremere una foruncolo ci vuole un master”.
La giornalista definisce l’intera vicenda una “epopea baraccona”, e parla delle voci di paese come di “becera chiacchierologia”. Arriva addirittura a rabbrividire per il congiuntivo sbagliato usato da Sarah Scazzi sulle pagine del suo diario: A proposito del diario della vittima, quando Sabrina Misseri sembra mentire sulle intenzioni che l’avrebbero spinta a leggerlo, Franca Leosini chiede elegantemente: “Mi permette di dubitarne?”. La giornalista ironizza su un colorito diverbio via sms tra Sabrina e Ivano e lo descrive come “uno scambio di opinioni di alto livello”, poi chiosa con un “Del senno di poi sono piene le fosse” davanti al pentimento della Misseri per aver rilasciato troppe dichiarazioni al tempo dei fatti. Non mancano nemmeno le similitudini religiose: “Dopo 40 giorni, 40 come una buia Quaresima, c’è un primo, clamoroso colpo di scena che scompagina l’immobile geografia di quel mistero”.
Franca Leosini intervista Sabrina Misseri e le sue citazioni conquistano il web. La prima puntata della nuova edizione di Storie Maledette è stata dedicata al delitto di Avetrana, scrive Giuseppe D'Alto, Esperto di Tv e Gossip, su "it.blastingnews.com" il 12 marzo 2018. Dopo il duetto canoro conClaudio Baglioni a Sanremo, #franca leosini è tornata protagonista della prima serata di Rai 3 con #storie maledette, con uno dei casi più dibattuti e controversi della cronaca italiana: il delitto di Avetrana. La giornalista ha riferito di aver studiato diecimila atti processuali prima di intervistare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per la morte di Sarah Scazzi. Dopo averle incontrate non ho chiuso occhio, ha riferito a Il Giornale. La Leosini ha riavvolto il nastro ed ha provato a ripercorrere passo dopo passo con la Misseri quella tragica estate di otto anni fa. ‘Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana.
Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina con i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scomparve‘. L’eleganza e la raffinatezza con la quale la conduttrice ha affrontato il delicato argomento hanno reso ancora più affascinante narrazione e intervista. La giornalista è passata con eleganza da un linguaggio forbito a quello più popolare per trattare argomenti più intimi e stimolare l’interlocutrice.
Frasi e citazioni sono diventate virali. Frasi e sottolineature che sono diventate subito virali sul web, con Storie Maledette che ha conquistato rapidamente la topic trend di Twitter. Facendo riferimento all’attività di estetista della Misseri, la Leosini ha sarcasticamente affermato: Oggi anche per un foruncolo sembra ci voglia il master. In riferimento al flirt della cugina di Sarah con Ivano la conduttrice ha citato Flaiano: I grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo? Sul rapporto con il ragazzo, la Leosini si è soffermata a lungo nel corso della prima parte dell’intervista con Sabrina: Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei.
Io e Sarah vittime di bullismo. La descrizione dell’incontro in auto della Leosini è stato definito un capolavoro dai numerosi seguaci di Storie Maledette: L’incauto giovanotto, mentre frenando i suoi ardori lombari s'inforcava le mutande, come si giustifica con lei? Dall’altra parte Sabrina ha spiegato che Sarah era la sorella che non aveva mai avuto ed ha rivelato che entrambe sono state vittime di bullismo. ‘Lei si fidava di me e frequentando amici più grandi stava iniziando a credere di più in se stessa’. La Misseri ha ammesso di aver sbagliato a rilasciare tante interviste dopo la scomparsa della cugina.
Oggi non lo rifarei. Cosima Misseri si è soffermata sul rapporto con Sarah Scazzi ed ha spiegato che quando era piccola giocava con lei: Ho smesso di farlo quando mi ha detto che voleva essere adottata.
Franca Leosini e le sue “pillole”, Storie Maledette sul caso Avetrana è un grande evento tv La giornalista fa ritorno in tv trattando uno dei casi di cronaca più torbidi degli ultimi anni. Le interviste a Sabrina Misseri e Cosima Serrano diventano il teatro per le proverbiali perle della conduttrice, che come al solito trovano nei social un’immediata valvola di sfogo per innumerevoli citazioni, scrive il 12 marzo 2018 Andrea Parrella su "Fan page". Il ritorno di Storie Maledette in televisione era, probabilmente, uno degli appuntamenti più attesi di questa stagione televisiva. E si è confermato un evento. Franca Leosini, al netto della sua apparizione a Sanremo, era assente da diversi mesi dal piccolo schermo con nuove indagini sui casi di cronaca italiani più eclatanti degli ultimi anni. E l'attesa è stata soddisfatta con una puntata interamente dedicata al delitto di Avetrana, che vede condannate Sabrina Misseri e Cosima Serrano all'ergastolo per l'omicidio volontario di Sarah Scazzi e Michele Misseri ad 8 anni di reclusione per soppressione di cadavere e inquinamento di prove. La prima puntata della nuova stagione di Storie Maledette, concentrata per buona parte sull'intervista a Sabrina Misseri, è andata in onda su Rai3 domenica 11 marzo, confermando l'amore eterno instauratosi tra Franca Leosini e il suo pubblico. "Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare", questo l'incipit che caratterizzava lo spot promozionale apparso sulle reti Rai nei giorni scorsi, una premessa che prometteva benissimo.
Il frasario della conduttrice del programma si è arricchito di altri aforismi precocemente citati su Twitter dai tantissimi utenti che seguono la trasmissione televisiva di Rai3 riproponendo, con fare devoto, le costruzioni sintattiche elaborate, forbite e ficcanti della giornalista napoletana. L'account ufficiale della trasmissione riprende quella che probabilmente è stata la frase più richiamata della serata, quella con cui la Leosini descriveva l'incontro sessuale tra Sabrina Misseri e Ivano: Non seconda è la smorfia inorridita della Leosini nel leggere alcuni passaggi del diario di Sarah Scazzi e soffermarsi, in particolare, su un congiuntivo sbagliato. Qualcuno tira in ballo un riferimento politico piuttosto telefonato ("severo ma giusto", direbbe qualcuno) di questi tempi. E tra le tante pillole di Leosini emerse in serata non possono mancare i messaggi di piena e completa ammirazione per la personalità e l'aplomb di una delle conduttrici più apprezzate del piccolo schermo. Con un piccolo colpo di scena, che non era stato preventivato da molti, la puntata non si chiude con la terminazione del racconto, visto che ci sarà una seconda puntata di Storie Maledette sul caso di Avetrana, in onda domenica 18 marzo 2018, come prontamente Rai3 pochi secondi dopo la sigla finale. Con qualche reazione scomposta…
Perché "Storie Maledette" è ormai un evento tv. Non c'è dubbio che Storie Maledette abbia assunto, negli ultimi anni, i caratteri di un programma in cui il personaggio alla conduzione rischia di essere prevaricante rispetto alle vicende e ai protagonisti stessi delle storie maledette raccontate. Si può spiegare forse con questo pericolo, oltre che con l'enorme mole di studio che richiede una trasmissione come Storie Maledette, la parsimonia nelle apparizioni tv di Franca Leosini e il numero esiguo di puntate per singola stagione del programma. Tutti elementi che contribuiscono a rendere una trasmissione televisiva un grande evento.
Franca Leosini e "Storie maledette". Le sue frasi cult fanno impazzire i Leosiners. La conduttrice torna sui Rai Tre con le sue interviste garbatamente sconvolgenti ed è subito leosiners-mania, scrive Adalgisa Marrocco il 12/03/2018 su "Huffingtonpost.it". Grande ritorno televisivo per Franca Leosini, che ha aperto la nuova stagione di Storie Maledette, nella prima serata domenicale di Rai Tre, tornando al 2010 e al delitto di Avetrana. La conduttrice televisiva ha infatti intervistato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Un ritorno attesissimo, quello della Leosini, divenuta vera e propria star del web, oltre che del piccolo schermo, grazie al suo stile elegante ma incisivo, e alla capacità di affrontare personaggi e casi di cronaca sconvolgenti con una compostezza che le impedisce di scadere nel sensazionalismo e nella TV urlata. Un atteggiamento che non ha mancato di procurarle l'adorazione di Facebook, Twitter e degli altri social network, anche in chiave affettuosamente ironica (emblematica la pagina Uccidere il proprio partner solo per essere intervistati da Franca Leosini). Anche stavolta Franca non ha tradito le attese e la prima puntata di Storie Maledette si è rivelata una miniera: Cosima "dimostra una modernità insospettata" e sembra "una donna del 3000"; Ivano, talmente bello che "Brad Pitt al confronto sembra un bipede sgualcito", "frena i suoi ardori lombari" con Sabrina, una "babbalona" che racconta un po' troppo in giro le sue faccende più intime. E quando la ragazza ripercorre i pensieri che la attraversavano nelle drammatiche ore dell'omicidio di Sarah, arrivando ad ipotizzare un fantomatico rapimento, Franca la incalza: "Neanche Avetrana fosse la Locride dei sequestri degli anni '70...". Finezze linguistiche e argomentazioni simili a colpi di fioretto che hanno scatenato la reazione social dei cosiddetti leosiners.
Franca Leosini e le sue frasi di culto, oltre 1 milione 800 mila spettatori. Grande attesa e grande esordio per il programma condotto da Franca Leosini: «Storie maledette» è stato visto da oltre 1 milione 800 mila spettatori (7,5% di share), scrive Renato Franco il 12 marzo 2018 su “Il Corriere della Sera”. Franca Leosini è tornata con la sua testa cotonata, gli occhi che guardano dritto per dritto, il suo lessico che mette in crisi gli accademici della Crusca, figurati un ergastolano, la sua capacità di raccontare il morboso in modo profondamente lieve. Domenica sono andate in scena le intervista a Sabrina Misseri e a sua madre Cosima Serrano che hanno raccontato la loro verità sull’omicidio di Sarah Scazzi. Grande attesa e grande esordio: Storie maledette è stato visto da oltre 1 milione 800 mila spettatori (7,5% di share, ampiamente sopra la media di Rai3 che è al 6,1%). Successo anche sui social, per quel che vale (il programma che genera maggiori discussioni non è detto che sia il più visto): la prima puntata è stata al primo posto dei programmi più commentati dell’intera giornata con oltre 132 mila interazioni.
Alla fine Sabrina si è pentita. Franca Leosini ha spiegato così il suo approccio ai casi che racconta: «La parola importante è rispetto. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta». Ma a rapire, come al solito, è il suo registro lessicale capace di pescare tra espressioni come «ardori lombari» ma non disdegnare di pronunciare parole come «cazzeggio». Le sue frasi sono già di culto: «Oggi non si prenderebbe a schiaffoni per aver scritto questi messaggi?»; «Oltre a spianare i crateri di cellulite sulle cosce delle signore di Avetrana, che vita faceva?»; «Flaiano ha scritto “i grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo?”. Con Ivano a lei è accaduto questo, Sabrina?»; «Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei»; «L’incauto giovanotto, mentre frenando i suoi ardori lombari s’inforcava le mutande, come si giustifica con lei?». Gioco, partita, incontro.
Storie Maledette, Sabrina Misseri e Cosima Serrano: ascolti record per la prima puntata. Franca Leosini, Storie Maledette: enorme successo per la prima parte dell'intervista a Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Le espressioni della giornalista rilanciate sui social, scrive il 13 marzo 2018 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Storie Maledette, il programma di Franca Leosini, è tornato in onda, in prima serata su Rai 3, domenica 11 marzo 2018, con un'intervista esclusiva rilasciata da Sabrina Misseri e Cosimo Serrano, le due donne coinvolte in uno dei casi di cronaca nera più eclatanti degli ultimi anni, l'omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana. Come riporta Wikipedia, "il 21 febbraio 2017, la Corte suprema di cassazione ha definitivamente riconosciuto colpevoli e condannato all'ergastolo per concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione Sabrina Misseri e Cosima Serrano". L'intervista di Franca Leosini ha ottenuto i favori di pubblico e critica e l'entusiasmo dei cosiddetti "leosiners", la fascia di pubblico giovane che segue Storie Maledette e che riporta fedelmente le frasi cult della giornalista sui social network. E il ritorno di Franca Leosini sul piccolo schermo è stato premiato anche dagli ascolti: la prima puntata della nuova edizione di Storie Maledette è stata seguita da 1.855.000 telespettatori con uno share pari al 7.5%. (Aggiornamento di Fabio Morasca)
LE DICHIARAZIONI DI STEFANO COLETTA. Un «fenomeno televisivo», così viene definita Franca Leosini dal direttore di Raitre Stefano Coletta. Soddisfatto per i numeri registrati dal suo Storie Maledette, Coletta ha fatto i complimenti alla giornalista e conduttrice, diventata una superstar sul web. «La perizia d'indagine e la narrazione costruita su un appassionato linguaggio letterario fanno di Franca Leosini un fenomeno televisivo. Dietro l'ottimo dato di ascolto di Storie Maledette, si nasconde una platea istruita, prevalentemente femminile e fortemente interattiva». Il programma ha fatto infatti registrare 132 mila interazioni sui tre principali social network, classificandosi al primo posto tra le trasmissioni televisive più commentate in rete. C'è grande soddisfazione a Raitre per i risultati complessivi raggiunti nel 2018, infatti è considerata «saldamente la terza rete generalista». (agg. di Silvana Palazzo)
PROFESSIONALITÀ INECCEPIBILE PER IL WEB. A Storie Maledette, Franca Leosini ha intervistato Sabrina Misseri, tornando quidi sul caso dell'omicidio di Sarah Scazzi. A colpire, oltre alle parole della Misseri, è stata la grande professionalità e il carattere fermo e deciso della Leosini. Tanti i commenti d'apprezzamento per la conduttrice: "Un racconto reso unico dalla professionalità ineccepibile della Leosini. - scrive una telespettatrice sui social dedicati alla nota trasmissione - Con le giuste parole e l'appropriato pathos si è materializzata la vita breve Della piccola Sarah. Il "babbalona" detto più volte a Sabrina è arrivato come un rimprovero fatto ad una figlia, che ha sbagliato e non può più tornare indietro. [...] In attesa di domenica io oggi guarderò nuovamente la puntata di ieri. Dalla tanta maestria si può solo imparare. Grazie" (Aggiornamento di Anna Montesano)
GRANDE SUCCESSO PER LA LEOSINI. Franca Leosini con il suo stile elegante e dissacrante insieme, è tornata ieri in occasione del nuovo ciclo di puntate di Storie Maledette, su RaiTre. Un appuntamento oltremodo atteso non solo per la sua collocazione nel prime time (scelta del direttore di rete, come specificato dalla stessa Leosini in una recente intervista al blog DavideMaggio) ma anche per il calibro delle protagoniste, ben due, intervistate: Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Saranno due le puntate dedicate al delitto di Avetrana nel corso delle quali la padrona di casa, dal carcere di Taranto, ha ripercorso le tappe che hanno portato alla morte di Sarah Scazzi, rispettivamente cugina e nipote delle due intervistate, entrambe condannate nei tre gradi di giudizio all'ergastolo. La doppia intervista ha visto Sabrina e la madre Cosima intervistate separatamente in due differenti sale. Una scelta anche questa voluta fortemente dalla Leosini per non farle influenzare nel corso dei loro racconti-ricordi. Protagonista assoluta è stata però Sabrina, alla quale è stata dedicata gran parte della prima puntata di Storie Maledette dedicata al delitto Scazzi. A farla da padrona non sono state tanto le lacrime che in più occasioni hanno rigato il viso della giovane Misseri, oggi trentenne, quanto piuttosto il linguaggio forbito, misto allo stile classico che la signora Leosini ha portato in tv e che in qualche modo contrastavano con il lessico semplice e a tratti insicuro di Sabrina e della madre. Messa in piega come sempre impeccabile, tailleur sartoriale scuro ed elegante e quasi una sorta di tenerezza che ha dimostrato in certi passaggi dell'intervista a Sabrina: la Leosini è andata avanti spedita, con frasi pungenti, altre capaci finanche di strappare un sorriso nonostante lo scempio di un delitto che ha spezzato la vita di una 15enne innocente che, come ricordato nell'esordio dalla stessa giornalista, fa ora parte della schiera degli angeli.
STORIE MALEDETTE DI FRANCA LEOSINI: SUCCESSO TV E SOCIAL. Un successo atteso e meritato, quello segnato ieri sera dalla prima parte dell'intervista a Sabrina Misseri e Cosima Serrano realizzata da una magistrale Franca Leosini nella sua trasmissione Storie Maledette. Il pubblico e i numerosi leosiners hanno premiato ancora una volta la signora del giornalismo italiano, che con la sua eleganza e le sue frasi diventate oggi già virali, ha segnato un ottimo risultato in termini di ascolto tenendo incollati al piccolo schermo 1.855.000 telespettatori con una share media del 7.5%. Un risultato senza dubbio migliore rispetto a quello che era stato registrato nell'esordio della passata stagione, quando l'intervista a Rudy Guede, condannato per il delitto di Perugia, aveva invece interessato 1.459.000 con share del 5.32% nonostante il clamore. Enorme anche l'interazione social che ha permesso di far volare la prima puntata di Storie Maledette direttamente in cima alle tendenze dei programmi più commentati dell'intera giornata, con oltre 132 mila interazioni. Ad appassionare saranno certamente state quelle domande così prive di pregiudizio, lo stesso che Sabrina ha invece più volte denunciato. Sua premura quello di fornire al telespettatore un ritratto visto da un'angolazione inedita rispetto a quello emerso dalle pagine di cronaca nera. Non è un caso se proprio a proposito della sua trasmissione la Leosini aveva commentato, come spiega TvZap: "La parola importante è rispetto. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta". Qual è il ritratto che la giornalista ha tracciato di Sabrina? Come da lei ribadito nel corso della puntata, certamente quello di una ragazza "insicura e fragile", ma anche "sentimentalmente genuflessa" a Ivano Russo, il tutto condito da frasi ironiche durante la lettura dei loro sms le cui espressioni non sono passate inosservate dagli spettatori, subito rilanciate sui principali social in attesa del secondo capitolo.
Leosini fa il record con Avetrana: “Affronto le storie con equidistanza”, scrive il 13/03/2018 Michela Tamburrino su "La Stampa". Un fenomeno televisivo quello di Franca Leosini, capace di catalizzare l’interesse del pubblico, di strappare audience alla concorrenza anche di casa e di tracciare una linea netta su come si fa televisione d’inchiesta. Storie maledette raccoglie il 7.53% di share, quasi 1,9 milioni di telespettatori (e punte dell’11% di share e 2 milioni) e segna il record di ascolto del programma dal 2014, domenica su Rai 3 in prima serata. Una platea, la sua, istruita, prevalentemente femminile e fortemente interattiva. Il programma va fortissimo sui social network, è il commentato del giorno in Rete. Merito di Leosini che è un’icona e non solo nell’universo spinoso della giudiziaria. Conducesse Sanremo probabilmente il successo sarebbe lo stesso, tanto è entrata nell’affezione del telespettatore generalista. «Merito» anche delle protagoniste della prima puntata di domenica sera, al centro di una storia che prenderà due appuntamenti. Dall’altra parte del tavolo siede Sabrina Misseri, giudicata colpevole d’aver ucciso la cuginetta Sarah Scazzi. Per gelosia, per amore. Con lei, condannata anche la madre Cosima che per una felice intuizione di sceneggiatura è stata posta ad interagire con la figlia ma in lontananza.
Ma perché questa storia ha tanto catturato l’interesse della gente? Forse perché Leosini ha dato una lettura diversa della vicenda mettendo in luce le crepe dell’inchiesta e confrontando la verità processuale con la verità possibile?
«Io affronto sempre le storie che tratto con grande equidistanza, per rispetto del protagonista e per rispetto del pubblico. Un dovere morale per una professionista come me che sa valutare le conseguenze di un processo. Bisogna anche dire che esistono eventi di cronaca che diventano storia. Questo attiene alla realtà dei personaggi e all’ambiente in cui i fatti avvengono. Luoghi che si fanno paesaggi dell’anima».
Come Avetrana, un piccolo centro che rimanda un po’ Peyton Place, oppure?
«Se dovessimo fare un parallelo italiano, parlerei di Cogne, per l’intensità dei personaggi». Archetipi tragici che si muovono in un universo malato. «Nella prima puntata ho descritto l’ambiente, il paese che da luogo gentile si trasformerà in capitale del pettegolezzo. Nella seconda puntata la figura del padre di Sabrina, Michele Misseri, esploderà. Per la prima volta intervisterò una collega giornalista, la vostra Maria Corbi che per lavoro è stata molto addentro alla storia che narriamo».
Franca Leosini, soddisfatta degli ascolti?
«Sono molto contenta per la rete anche perché avevamo contro concorrenti di peso: Fazio, Giletti e la partita Napoli-Inter». Perchè i protagonisti delle Storie maledette si fidano di lei così tanto? «Perchè affronto con loro la fatica del ricordo».
· Francesca Baraghini.
Ida Di Grazia per leggo.it il 29 giugno 2020. Si definisce salina e ventosa come la sua Genova, Francesca Baraghini, classe 1984, è una delle giornaliste più apprezzate del panorama televisivo. Volto di Sky Tg24 dalla prossima settimana inizia una nuova avventura su TV8.
Venerdì ha condotto l’ultima puntata di Skyline, lunedì inizierà” con il TG8, addio vacanze?
«Nella prossima vita farò il gatto, così dormirò. Scherzi a parte, farò sicuramente qualche giorno ad agosto ma quando nascono i nuovi telegiornali è così».
In conferenza ha detto che il suo modo di condurre non viene mai prima dei fatti, che cosa intende?
«I fatti sono i protagonisti e noi io. Io posso cambiare registro, se ad esempio parliamo di un morto sulla strada rispetto alla nascita di un bambino cambierà il linguaggio, ma il mio stile di conduzione non può venire prima di una notizia. Io voglio che rimanga il concetto di approfondimento senza togliere nulla, senza abbassare la qualità ma usando meno parole».
A proposito di conduzione, di lei hanno detto che ha uno stile anarchico, si rivede?
«Sono principalmente una spettatrice e mi annoio tantissimo quando guardo la televisione se non c’è ritmo e dunque porto in onda questa cosa. Mi piace il ritmo di un certo tipo che non è anarchico, Bakunin dice: l'uomo non ha bisogno di leggi perché sono già dentro di te e io la penso così. Possiamo darci delle regole da soli, quindi il mio stile ha a che fare con la mia noia personale, mi piace il ritmo veloce e qualcuno che abbia qualcosa da dire. Il mio stile rimane, non fingo mai davanti alle telecamere, magari cerco di far vedere che sono meno emozionata possibile, però sono vera».
Qual è il momento in cui leggendo il diario di Anna Frank ha capito che voleva fare la giornalista?
«Al termine del libro lei dice che un giorno uscirà da quell’alloggio segreto e racconterà la verità a tutti. Questo concetto di verità è diventato per me quasi un’ossessione che è andata avanti nel tempo. Ho letto il libro a nove anni, ma ho continuato a leggerlo anche dopo e ogni volta capivo sempre di più cosa volesse dire mettersi in discussione, e impari il concetto di verità, di ingiustizia sociale e quando ho letto questa frase ho pensato che anch’io volevo raccontare quello che vedevo. Ho provato anche a fare altro, il dentista con mio papà ma non era la mia passione».
Tra MotoGp e Calcio quale sport ama di più?
«Difficile scegliere, ma più che calcio in genere io amo proprio la Samp, sono una tifosa da stadio… da divano quando c’è il derby. Sono una Fedelissima e i miei amici mi dicono sempre che sono una “camalla mancata” che da noi sono gli scaricatori di porto, perché mi piace cantare, stare con gli amici e uscire dal mio ruolo istituzionale».
Extra lavoro quali sono le sue passioni?
«Me l’ha passata mio papà, è la pesca a traina, è una cosa che a volte mi viene criticata sui social ma devo dire che li ributto eh! Concettualmente lo capisco, partiamo dal fatto che io vengo da una famiglia vegetariana, è proprio una questione legata ai miei ricordi. Ci rilassiamo in balia del mare».
I suoi Haters cosa le rimproverano?
«La cosa della pesca li ha fatti molto arrabbiare, poi c’è la mia voce che è amatissima o odiatissima Però in questo caso è una parte di me, io non fingo sono proprio così».
C’è qualcosa che l’ha ferita?
«Ferita no, le critiche le prendo in considerazione se hanno a che fare con il mio mestiere perché voglio migliorare, se hanno a che fare con la mia vita personale provo a farmele scivolare addosso. Quando la mia riservatezza però viene interpretata come una persona che se la tira lì sì un po’ mi dispiace».
Che rapporto ha con i social?
«I social non sono la mia vita ma sono una forma di racconto e a me piace farlo. Spesso racconto il mare di casa mia (Genova ndr), l'acciuga fritta che mi piace mangiare, il sax che suono… ma non ci sono video!»
Il Sax?
«Ho fatto conservatorio durante il liceo e suonavo il piano, a un certo punto all'età di vent'anni ho pensato che volessi uno strumento un po' per rilassarmi ma soprattutto per non far vedere quello che provo e il sax è perfetto. È uno strumento ad ottone quindi se sei arrabbiato o felice si sente, la sfida è cercare di non far uscire queste emozioni».
Cos’è che non vuole far vedere?
«Mi fanno arrabbiare tante cose ma non voglio che si veda soprattutto sul lavoro perché la notizia viene prima. Prendiamo l’esempio del Ponte (Morandi ndr) della mia città, quello è un ponte che mio papà usa per andare al lavoro. Sapere che poteva accadere a chiunque, che sono morte 43 persone che passavano di lì perché era la strada di casa è una roba che mi fa molto arrabbiare, ma non posso andare in onda sempre con questa rabbia, devo mantenere un certo distacco perché devo avere rispetto per chi ci guarda».
Dov’era durante il crollo del ponte Morandi?
«Ero a Milano, dovevo andare a casa ma c’era un’allerta arancione con mia mamma decidemmo di lasciar stare, c’era la possibilità che in quel momento fossi lì».
Lei crede nei segni?
«Credo in Dio, ed è una fede costruita e non di nascita, e poi sì credo molto nei segni: ai miei nonni che non ci sono più, che ci sia sempre possibilità di sentire quella voce dentro che non è mia ma di qualcun altro e comunque 8 vuol dire infinito è quindi già è un altro segno!»
C’è una trasmissione che le piacerebbe condurre?
«Il mio grande sogno sarebbe un programma in prima serata, tipo Skyline, di attualità cronaca e politica che arriva a tutti, che sia semplice».
· Furio Colombo.
Furio Colombo: con Sartre sulla jeep guidata da Che Guevara. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 23 agosto 2020. È la mattina del 31 dicembre 1960, «primo anniversario della rivoluzione giovane e allegra che aveva messo in fuga il dittatore Fulgencio Batista». Sotto la scaletta dell’aereo ci sono Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Françoise Sagan e un giornalista italiano: Furio Colombo, arrivato da New York con un visto a matita scritto sul passaporto da Raulito Castro, figlio di Raul, il fratello di Fidel. Una jeep arriva veloce, troppo veloce, e inchioda davanti al gruppo. Al volante c’è lui: Che Guevara. «Un bel sorriso un po’ mondano, la barba a ciuffi, il viso già disegnato nella nostra memoria dagli eventi, ma più bianco e upper class delle immagini da combattimento…». Ecco, Furio Colombo è uno che ha girato per L’Avana con Sartre su una jeep guidata da Che Guevara. E ora le sue storie diventano un libro, La scoperta dell’America, pubblicato da Aragno nella collana dei Classici del giornalismo diretta da Alberto Sinigaglia, che firma la prefazione. La prima intervista è con Eleanor Roosevelt («una amministrazione conservatrice incoraggia il conformismo e il conformismo è capace di crescere smisuratamente, funziona più delle leggi e dei controlli, produce la più rischiosa delle censure quando la gente arriva al punto di sentire il silenzio giusto e necessario»). È il 1961. L’autore è in America per l’Olivetti. Ha fatto il liceo con Edoardo Sanguineti, l’università con Umberto Eco, è entrato in Rai con Gianni Vattimo (e ancora Eco), è stato assistente di Giovanni Conso alla cattedra di diritto penale. Da New York comincia a scrivere sul «Mondo» di Pannunzio. L’America è una fucina di talenti e personaggi; Colombo li incontra e li racconta pressoché tutti. Allen Ginsberg: «Qui, come nelle rivoluzioni, ogni morte è necessaria perché il progetto, visto dal piccolo punto di osservazione di ciascuno di noi, è incomprensibile. Ma tutte le morti, insieme, sono un capolavoro». James Baldwin: «Nato e vissuto in Harlem, sa bene quale può essere il tormento di un giovane negro intelligente, fra l’ottusità dei razzisti e il gelo conformista degli altri. Ma sa che non c’è salvezza per i negri da soli, che non c’è liberazione se non comune». Arthur Schlesinger: «Si vedono bene due linee inverse di forza, un po’ superficialmente si potrebbe dire: due anime, che si contendono il controllo del grande corpo di questo Paese». Un’anima conservatrice, talora reazionaria; e un’anima progressista. «L’anima di Jackson, di Jefferson, di Lincoln, dei due Roosevelt torna a venir fuori continuamente, dal colmo dei peggiori momenti, e il Paese ricomincia ad andare. Questo era il periodo di Kennedy». Furio Colombo riceve lettere da Joan Baez in carcere, arrestata per aver guidato una manifestazione contro la guerra in Vietnam. Accompagna i Beatles in India, a meditare sull’Himalaya sotto la guida del Maharishi Mahesh Yogi. «Ruba» un’intervista a Woody Allen a una festa. Sorprende Philip Roth facendogli notare che ha preso il nome dello psicanalista del Professore di desiderio, Klinger, da un salone di bellezza della Madison Avenue. Conosce Andy Warhol, Susan Sontag, Arthur Miller, Tom Wolfe, Norman Mailer, Leonard Bernstein, Mark Rothko. Muhammad Ali, in uno studio televisivo. E Frank Sinatra, nel ghetto di Atlanta in rivolta. Ma a rappresentare il centro del libro non sono gli incontri fortunati. Sono tre tragedie. Tre delitti. Bob Kennedy, di cui stava raccontando la campagna per le primarie democratiche che avrebbe potuto portarlo alla Casa Bianca. Martin Luther King, di cui incontra l’erede, Andrew Young («Chi ha sparato?» «Che importanza ha. Un negro del Sud vive da secoli nell’attesa di essere ucciso»). E Pier Paolo Pasolini, che intervista per il primo numero di «Tuttolibri» (l’inserto culturale della Stampa a lungo diretto da Sinigaglia) alla vigilia dell’assassinio. Un colloquio serratissimo, a tratti duro, a cui è lo stesso Pasolini a dare il titolo: «Siamo tutti in pericolo». C’è un legame tra le pagine più intense del libro e quelle che lo aprono. Brevi appunti autobiografici, in cui Furio Colombo condensa l’esperienza e la memoria giovanile del fascismo, delle leggi razziali, della guerra, dei primi treni della Ricostruzione: «Solo dopo il lungo andare tra Milano e Torino con fermate lunghissime nella campagna vuota o vicino a macerie, durato sette o otto ore, ho capito che avevo dormito in piedi con la faccia contro quel braccio e non mi ero svegliato mai. Prima ancora di muovermi ho visto Superga, sulla collina, e ho capito che eravamo a Torino. E ho visto vicinissimo, come ingrandito su un quaderno scolastico, il numero sul braccio che mi aveva sorretto. Così vicino, mi appariva una scrittura elementare, come una annotazione di lavoro. E si vedeva che non potevano cancellarla, anche se non sapevo, a quel tempo, che cosa fosse un tatuaggio». Perché anche una vita fantastica e piena non salva dall’esperienza del dolore e dell’orrore.
· Gad Lerner.
Gustavo Bialetti per “la Verità” il 16 luglio 2020. Ma perché agitarsi così tanto per rifarsi una verginità a 60 anni suonati, quando si potrebbe tranquillamente cambiare idea (spiegandolo, ovvio) senza rinfacciarsi l'un l'altro decenni di allegro (e ben pagato) libertinaggio? Negli ultimi giorni abbiamo dovuto leggere l'eminenza bigia della sinistra roma, Goffredo Bettini, ammettere che la sinistra è prona ai poteri forti. Poi ecco Ezio Mauro, dimentico di aver diretto per anni Repubblica, spiegare al popolo che il politicamente corretto nuoce al dibattito e alla democrazia. E ieri ecco Gad Lerner che prende spunto dal (tardivo) pugno di ferro del governo con Atlantia per denunciare «l'omertà» della sinistra e dei giornali dopo il crollo del Morandi. Lerner, vicino di casa a Dogliani del suo storico padrone e amico Carlo De Benedetti (con il quale è stato ritratto in un tête-à-tête nella villa in Sardegna dell'industriale) ha ricordato sul Fatto «l'atteggiamento dei grandi giornali dell'establishment nei giorni successivi alla tragedia. Invano, nei loro titoli, si sarebbe potuto rintracciare anche solo il nome degli azionisti di Autostrade». «Pesava, certo, il fatto», rivela Lerner, «che i Benetton erano parte del capitalismo di relazione insediato nelle proprietà dei giornali, che l'ad dell'editoriale Gedi sedeva anche nel cda di Atlantia, e che questi ultimi erano ottimi inserzionisti pubblicitari. Ma quell'istinto di subalternità è stato alla base di un'informazione distorta che solo oggi trova parziale e tardiva riparazione». I nostri lettori, queste le cose le sanno bene, ma quando le scrivevamo noi erano «fango» e «illazioni». Vi risparmiamo poi la lezioncina del compagno Gad sul «voto operaio finito alla Lega» (ma dai?) e torniamo al dilemma iniziale. Ma quando la casa d'appuntamenti chiude, bisogna per forza fare le catechiste?
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 29 aprile 2020. Menomale che durava solo una ventina di minuti e andava in onda a sera non troppo inoltrata, sennò l' effetto soporifero sarebbe stato assicurato. Eppure anche così molti telespettatori, per scacciare il sonno incombente, hanno cambiato canale, compiendo la scelta migliore: quella di non guardare La Scelta. Il programma condotto da Gad Lerner, intitolato La scelta. I partigiani raccontano, dedicato ai protagonisti della Resistenza e in onda da lunedì alle 20.20 su Rai 3, può già considerarsi l' ennesimo flop del giornalista. Lo dimostra la prima puntata di due giorni fa. Certo, la concorrenza a quell' ora era spietata: il programma se la giocava in contemporanea coi tiggì della sera che infatti lo asfaltavano, ma aveva come competitor pure Stasera Italia su Rete 4 e la serie Instinct su Rai 2, con cui la partita era più aperta. E invece niente, La scelta perdeva anche con loro e affondava al 4% di share, facendo meglio solo della serie The O.C. su Italia 1. E soprattutto il programma risultava il secondo meno performante di tutto il palinsesto di Rai 3 da pomeriggio a notte: tra il Tg3 (al 17,6%) e Report (al 9,2) c' era un buco nero chiamato La scelta. Una débâcle non limitata dal fatto di aver ottenuto poco più di un milione di spettatori: con gli italiani a casa e a quell' ora davanti alla tv, fare quei numeri è il minimo sindacale. La sconfitta si pone in scia ad altri insuccessi tv di Lerner, come il talk show dello scorso anno L' Approdo, crollato dal milione e 174mila spettatori della prima puntata ai 353mila dell' ultima. E rappresenta un cortocircuito rispetto a un programma che dovrebbe raccontare le storie non dei vinti, ma dei vincitori. Alla performance negativa contribuiscono i ritmi lentissimi delle interviste, non aiutati dal fatto che gli interlocutori di Lerner siano partigiani ultranovantenni. Anche se, a tratti, sembrano più scattanti gli intervistati dell' intervistatore. Stona parecchio anche la retorica secondo cui partigiani in fondo si nasca, non lo si diventi; ossia l' idea per cui essi fossero antifascisti prima della Resistenza. Lerner raccoglie così la storia di Tosca, staffetta partigiana, che dichiarò di non sopportare Mussolini sui banchi di scuola, scrivendo un tema contro il Duce. E quella di Ermenegildo che decise da che parte stare già da ragazzo, quando una squadraccia nera costrinse suo padre a ingurgitare dell' olio lubrificante. Storie vere, caratterizzate da umanità dolente e scelte coraggiose, ma che non rappresentano l' intero universo della Resistenza: sappiamo come molti partigiani divennero antifascisti solo dopo l' 8 settembre, facendo il salto della quaglia. Più in generale, risulta incomprensibile la scelta di protrarre il programma per ben 8 puntate fino all' 8 maggio, analizzando la rava e la fava della Resistenza: dalle storie dei partigiani guerrieri alle donne partigiane, dai partigiani bimbi ai partigiani contadini, fino naturalmente agli amori partigiani. E non mancherà neppure uno spazio di approfondimento extra l' 8 maggio a partire dalle 23.10. Va bene celebrare la Liberazione, ma protrarne la commemorazione per 2 settimane rischia d' essere un esercizio stucchevole. Dal 4 maggio saremo un po' più liberi di uscire. E molti, oltre che dalla quarantena, si libereranno pure dalla Liberazione. Con buona pace del partigiano Gad.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 4 febbraio 2020. Ho molta ammirazione per Gad Lerner. Un giornalista che riesca a restare a galla per anni senza azzeccarne una ha infatti del talento. Ricordo ancora quando sponsorizzava la guerra contro il colonnello Gheddafi. Secondo lui, quelli che manifestavano dubbi sull' intervento militare per liberare la Libia, prefigurando il caos e un esodo biblico di profughi, erano ballisti patentati. Come sia andata a finire la campagna tripolitana del nostro amico Gad è cosa nota. Ma ho in mente anche quando il simpatico collega di Repubblica, che ha una casa nella campagna del Monferrato, scriveva che la Lega era un partito minoritario, «destinato a rimanere tale», per lo meno in Piemonte. Anche in questo caso abbiamo visto la notevole capacità di preveggenza del fine analista politico che è in lui, prova ne sia che alle ultime elezioni Salvini da quelle parti ha raccolto il 37 per cento. L' elenco delle infallibili previsioni potrebbe continuare, ma forse è il caso che vi spieghi perché mi occupo di lui. Ieri, sulla prima pagina del giornale che abbandonò perché il compenso che gli veniva offerto non era all' altezza di un giornalista del suo rango (salvo poi rientrare perché nessuno gliene aveva offerto un altro), Lerner ha pubblicato una lunga intervista a Umberto Bossi. Il colloquio era sintetizzato da un titolo che era tutto un programma: «Salvini sbaglia. Il nazionalismo fa perdere la Lega». Le parole del vecchio leader sono state raccolte mentre il Senatùr guardava in tv la partita fra Galles e Italia, in cui i rugbisti inglesi le hanno suonate agli azzurri per 42 a 0. Bossi ha una simpatia per il Galles, ma di sicuro non ne ha molta per Salvini e dunque Lerner ne ha approfittato per girare il coltello nella piaga. Al vecchio leader è riuscito a cavare frasi che sembrano prefigurare una fuga di massa dalla Lega, dove i militanti non sopporterebbero che l'ex ministro dell' Interno abbia cancellato l'insegna del Nord dalla ragione sociale. «Molti sono già andati via, ma sbagliano prospettiva». Perché anche se soffrono non è finito il mondo, un recupero è possibile, assicura il Senatùr. Ma a Lerner non basta stuzzicare Bossi sulle modifiche al logo padano: vuol fargli dire chiaro e tondo che ora la Lega deve modificare altro, in particolare la guida. Cambiare leader, gli chiede astuto il nostro Gaddino. «Evidentemente anche cambiando leadership», gli risponde quell'altro. Ma Lerner non è contento, per cui affonda il colpo: «Scusi se mi permetto, ma vederla qui, isolato e affaticato, mi ricorda il destino di un altro leader della prima Repubblica: Bettino Craxi. Gemonio è la sua Hammamet?». Servita su un piatto d'argento e di perfidia, non poteva mancare la risposta giusta: «Mi hanno messo ai margini, è vero, ma io posso e voglio rientrare. Mi batterò finché avrò forze per la libertà e l' autonomia dei nostri popoli. Ricevo pressioni enormi da altri partiti che vorrebbero farmi passare dalla loro parte. Ma io sono nato e morirò leghista». Per Gad però non è sufficiente neppure questo, perché mica può mollare la presa ora che il vecchio leone si è lasciato andare ai rimpianti. «Dopo la sconfitta elettorale della settimana scorsa, crede davvero che nella Lega si possa riaprire una discussione interna?». Diamine, uno che in Emilia Romagna ha triplicato i voti rispetto a cinque anni prima vuoi che non venga messo sotto processo con una discussione a porte chiuse? Ovvio che sì e Bossi, spingendosi sulla sedia a rotelle, non si tira indietro: «Guai se non succedesse. La base del Nord è in fermento. Bisogna che qualcuno trovi il coraggio di darle voce, perché altrimenti se ne andranno via in tanti. Su di me possono contare». Già mi pare di vedere il ghigno di Lerner per essere riuscito a far dire al Senatùr quello che aveva sul gozzo. E mi pare di vederlo, lui e il suo direttore, mentre in prima pagina fanno il titolo grosso, con scritto: Il vecchio Bossi: «Caro Salvini così sbagli tutto». Certo, chi ha lasciato il partito al 4 per cento e con un debito di 49 milioni, che ogni volta a Repubblica si affrettano a ricordare, è la persona giusta per dare le lezioni a un altro che in cinque anni il partito lo ha portato al 32. E Gad è la persona giusta per consentire al vecchio leader di impartire la predica al suo successore. Non è forse sua la prefazione all'Idiota in politica, un libro del 2011 che si riprometteva di descrivere «l'antropologia della Lega Nord» e invece descriveva l'antropologia di Bossi? Con il titolo «Il predone del Nord», Lerner accompagnava i lettori immaginando l'espulsione del fondatore, il cui nome era già stato cancellato dal «bollettino del partito», ossia dalla Padania. «Difficilmente tornerà a comparirvi. Fine ingloriosa dell'Idiota in politica, che idiota certo non era». «Trattarlo come un deficiente che firma i bilanci senza accorgersene è un trucco che non funziona più», scriveva a proposito dei soldi incassati grazie al finanziamento pubblico. Tralascio le spiegazioni sulla «repentina crisi del movimento leghista» e quelle «sull'inadeguatezza culturale del populismo al governo». Mi limito a osservare che riesumare Bossi per colpire Salvini, oltre al cinismo mostra, ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, l' acume politico di un tizio che da Lotta continua è passato a Gianni Agnelli e Carlo De Benedetti senza azzeccarne mai una, ma sempre insegnando agli altri come gira il mondo.
· Gavino Sanna.
Paolo Baldini per il “Corriere della Sera” il 24 dicembre 2019. Gavino, sarà la bellezza a salvarci? «Le rispondo così: e chi salverà la bellezza? Il regno della cultura e del buon vivere esiste ancora? Spesso sono gli stranieri a spiegarci che il nostro è un Paese stupendo. Noi fatichiamo ad accorgercene. Roma non sarebbe ridotta in questo modo. E anche la mia Sardegna. Sa una cosa? Siamo in mano ai pasticcioni, ai profittatori, agli odiatori di professione». Gavino Sanna, 79 anni, il creativo italiano «più stimato, copiato e premiato», con 7 Oscar della pubblicità e oltre trenta libri, l' autore di campagne «che fecero epoca», collezionista di caffettiere da western in ferro-smalto, non usa computer e gira al largo «dall' inferno di Internet». Una vita da romanzo. Da Porto Torres dov' è nato, a New York. Dall' Italia di Carosello alla cavalcata americana. Oggi si dice «ottimista e in pace con se stesso». Si tiene in disparte nella casa-museo di Milano e confessa di amare la solitudine, «che può essere una magnifica compagna». Per tutta la vita, sostiene, ha inseguito una passione e si è rotto la schiena «per andare al massimo, per essere il migliore». Ha fatto campagne elettorali per quattro governatori della Sardegna e se n' è «pentito amaramente». In una riunione pubblica, ricorda, «mi sono anche scusato». S' accalora: «La protesta ci affascina. Rispondiamo ai richiami ideali. Le foreste minacciate coinvolgono tutti. Ma se vuoi pulire le strade di Roma chi ti viene dietro?».
Racconti come tutto cominciò.
«Male. A scuola ero un somaro, bocciato due volte alle medie. I miei genitori non sapevano cosa fare di me. Poi uno zio ebbe un' intuizione. Gavino, suggerì, è il nipote di uno dei pittori più importanti della Sardegna tra 800 e 900, Mario Paglietti: mandatelo all' istituto d' arte Filippo Figari di Sassari. È stata la mia fortuna. Sono stato l' unico allievo dell' istituto promosso con 10 in disegno dal vero».
La pubblicità era lontana.
«Finita la scuola, andai da un altro zio: Giovanni Manca, pittore, giornalista e caricaturista, collaboratore del Corriere dei Piccoli , inventore dell' arcivernice che rendeva reali i quadri e del sor Cipolla. Quando entrai nel suo studio, a Bergamo, mi sembrava di sognare. Tornai a casa felice, ma a mani vuote».
Allora?
«Seguii l'indicazione di un amico che lavorava nella più importante agenzia dell' epoca, lo Studio Sigla del commendator Mario Bellavista. Fui assunto con lo stipendio di 45 mila lire al mese, una miseria. Trovai alloggio a Ospitaletto, Brescia. All' alba prendevo il treno dei pendolari per Milano. Mi infilavo sul tram 33 e arrivavo in piazzale Biancamano, sede della Sigla. La città mi appariva enorme, con la neve, il traffico e le latterie dove mi sfamavo a furia di pane e caffellatte. Allo Studio Sigla, che lavorava per Bic e Spic e Span, dovevo indossare un camice cremisi, come tutti i creativi. Stavo in un salone con le penne ben disposte e la carta fine. Non sapendo che fare, disegnavo. E tutti mi si facevano intorno. Il disegno è sempre stato il mio asso nella manica».
Il primo cliente importante?
«Baci Perugina. Chiamammo un famoso regista-fotografo. Fece uno splendido servizio. Lo slogan era: Ovunque c' è amore c' è un Bacio Perugina . Preparammo i bozzetti e andammo a Perugia, ma inaspettatamente fummo presi a male parole. Bocciati. In una settimana dovevamo rivedere tutto, senza più soldi. Trovammo uno stagno e una barchetta sul Lambro, un fotografo di matrimoni e due modelli improvvisati: io stesso e una segretaria, molto carina, appena assunta. Fu il successo che sappiamo».
Poi?
«Passai alla Ata Univas e ottenni il primo stipendio accettabile, 240 mila lire, ma rimasi solo un anno. Trovai alloggio da una sartina sposata con un investigatore privato che riceveva nello Studio Lince. Lessi sul giornale che un' agenzia di marketing cercava collaboratori e passai alla Lintas. Creammo l' uomo in ammollo di Franco Cerri. Il copy nel frattempo se n' era andato alla Mc Cann Erickson e poco dopo mi chiamò con sé. Lui era Massimo Magrì e divenne un bravo regista. Avevamo commesse di Gillette, Esso, Motta. Ci arrivavano le "pizze" americane: ero affascinato. Non ci misi molto a decidere: mollai il posto e volai a New York».
Come andò?
«Prima di tutto mi iscrissi a un corso di inglese. Dormivo nel ricovero dei ragazzi cattolici. Intanto un grafico romano che aveva lavorato a Cuba ed era diventato il pittore della Rivoluzione mi fece incontrare il titolare di una piccola agenzia: John Paul Itta, origini greche. Gli portai i miei disegni. Mi assunse e cominciò un periodo magnifico. Conobbi Patricia, una bellissima hostess della Pan-Am nata a Memphis: divenne mia moglie. Grazie a lei ottenni un colloquio con il direttore della Mc Cann. Mi assegnò la campagna per Tampax e subito dopo quella per la famosa birra Miller.
Tra i nostri clienti c' erano la Coca Cola e il governo Usa. Strinsi la mano a Richard Nixon: non mi fece una grande impressione».
Il passo successivo?
«Entrai nel tempio della creatività internazionale, Scali McCabe & Sloves. Avanti paisà , mi disse Sam Scali, il capo. Mi consegnarono il budget per Revlon. Lavorai con Richard Avedon, il grande fotografo, e Lauren Hutton, l' attrice di American Gigolò. Facemmo insieme un' indimenticabile campagna per i prodotti di bellezza. Lei nuda, e la crema: incantevole».
Come nasce la pettinatura a caschetto?
«Da bambino avevo un taglio alla tedesca. Ma, per eredità di famiglia, ho le orecchie come Dumbo, perciò le copro con i capelli. In Usa li tenevo fino a mezza schiena. Mi scambiavano per un apache: di che tribù sei, Gavino?».
I suoi incontri: Frank Sinatra, Elvis Presley, Paul Newman, Catherine Deneuve, Luciano Pavarotti, Sophia Loren, Alain Delon, Christian Barnard. E poi lui, Andy Warhol.
«Appena arrivato seguivo le sue lezioni sul cinema. Raccontava di sé, spiegava come aveva girato Sleep , un anti-film in cui John Giorno dorme per 5 ore e 20 minuti . Il suo studio era un covo di gente bizzarra. Girava sporco di vernice, con la Polaroid in mano. Aveva una collezione di parrucche: la preferita era rosa. Un rivoluzionario. Attaccatissimo alla madre. Diceva: gli italiani mi sono simpatici, hanno sempre la patta sdrucita perché continuano a toccarsi lì. Lo incontravo spesso al Club 54, seduto in un angolo con Truman Capote».
Perché, al culmine del successo, è tornato in Italia?
«Un' agenzia internazionale, Benton and Bowles, voleva aprire una sede in Italia e mi fece un' offerta irrinunciabile. Davanti a me si stendeva la Milano da bere. Avevo appena divorziato. Il mio matrimonio era stato seppellito dalla crisi del settimo anno. Decisi che avrei rivoluzionato il linguaggio della pubblicità e per questo mi feci molti nemici. Una mano me la diede anche Berlusconi, che con le sue tv stava cambiando le regole della comunicazione pubblicitaria. Arrivarono clienti come Barilla, Giovanni Rana, Fiat, Simmenthal».
Già: il cliente Barilla.
«Andai a Parma a conoscere Pietro e i figli. Lui mi portò in un piccolo ufficio. Mi disse: vede, questo non è solo il marchio della pasta, ma il nome della mia famiglia, ne tenga conto. È stato il brief più bello della mia carriera. Proposi un film di 90 secondi. Un distinto signore dalla stazione centrale di Milano viaggia per tornare in famiglia. In tavola trova pacchi di pasta. Dove c' è Barilla c'è casa , lo slogan. Tutto sbagliato, mi sgridò Pietro. Una settimana dopo si scusò: Gavino, è un capolavoro».
Motivo?
«Barilla faceva le vacanze a Cortina e il suo migliore amico era Indro Montanelli. Che un giorno lo incontrò: ho visto il tuo spot, caro Pietro, è davvero bellissimo. Arrivò la bambina che torna a casa con il gattino e mette il fusillo in tasca a papà. Fioccarono i premi».
Con Berlusconi ha lavorato a lungo.
«L' ho conosciuto al rientro in Italia. Mi invitò al Gallia per una tavola rotonda. Vedevo che mi fissava da lontano. Mi raccontò: quando ero giovane portavo i capelli come i suoi, poi li ho tagliati e la mia vita è cambiata. Mi dia retta: li tagli anche lei. Se lo fa, ci daremo del tu. È diventato il titolo di uno dei miei libri».
Com' è arrivato a essere viticoltore?
«Un bel giorno, qualche anno fa, mi stavo facendo la barba. Chiamo Lella, mia moglie, e le dico: oggi sento i miei partner americani e vendo tutto. Detto, fatto. Il vino è la mia attività dal 2004. Pensi che nella mia famiglia nessuno beveva. E io sono astemio. Tutto da solo, ho disegnato la bottiglia, il logo e ideato gli slogan per il lancio, un vero atto d' amore per la Sardegna. Così, nel Sulcis, è nata Cantina Mesa».
Come si definirebbe?
«Gavino, che si diverte come un bambino a fare le caricature».
· Gianni Minà.
Giuseppe Smorto per Il Venerdì- la Repubblica il 18 maggio 2020. Cose che succedevano a casa Minà. Jennifer Beals (Flashdance) che cerca il suo innamorato Troisi in mezzo alla festa e prova il napoletano. «Massimo se n' è ghiuto?». Monica Bellucci giovane e sconosciuta, in completo di pelle. Il teologo della Liberazione Frei Betto che invita alla preghiera, prima di un pranzo. Edoardo Vianello che canta A-a-abbronzatissima. Eduardo Galeano che beve una sambuca col chicco di caffè. E per la festa degli 80 anni, Renzo Arbore, don Ciotti e il giudice Di Matteo sul divano.
Le domande scomode. Gianni Minà ha messo in un libro (Storia di un boxeur latino, Minimum Fax) la sua vita, insieme a Fabio Stassi: e chissà quante storie avranno buttato via. Ha ragione Fiorello: eravamo io Sì, soprattutto c' era lui. Come nelle barzellette, chi è quell' uomo in veste bianca, quell'attore, quel cantante, quel politico, quel campione accanto a Minà? A Fiorello torneremo alla fine, ora è giusto lasciare la parola a lui, al "boxeur latino", come lo ha chiamato Paolo Conte. «Quell' italiano che ha fatto un' intervista a Fidel Castro» come dicono nel film Natural Born Killers - ma nella versione italiana non c' è. Il "grillino caraibico" e altre definizioni ben più forti. Divisivo, empatico, schierato, e ancora popolarissimo come succede ai grandi della vecchia Rai. L'unico che nel '78, prima dei Mondiali, chiese all' ammiraglio Lacoste: «È vero che in Argentina stanno scomparendo delle persone?». In una carriera giornalistica, una domanda che può fare la differenza. (L'ammiraglio rispose: «Lei è male informato»). Tutto parte da una foto: da sinistra a destra, Gabriel García Márquez, Sergio Leone, Muhammad Ali, Robert De Niro e Gianni Minà. Sono al ristorante Checco er Carettiere di Roma. Si nota sul lato sinistro una signora di spalle, seduta: si volta ma non guarda le star, guarda lui e sembra chiedergli: come hai fatto? Il racconto di come nacque quella magica serata sta nel libro, resta la domanda della signora. E prima ancora: come sono entrati i Beatles nella 600 che suo fratello gli aveva prestato?
Quella notte con i Beatles. Cominciamo dai Beatles «Come ci sono entrati? Spingendoli! Non fu difficile più di tanto George e Ringo, con un paio di ragazze, si erano stretti nella 600, mentre John e Paul, con altre amiche, erano saliti su una più comoda Rolls Royce. Il giorno dopo i quattro concerti all' Adriano, tutti li aspettavano al Piper, inaugurato solo da qualche mese. I Beatles ne avevano già sentito parlare, volevano visitarlo. Ma appena arrivati scorgemmo una fila che partiva da piazza Buenos Aires, per i romani piazza Quadrata. Non era il caso di rischiare, e così optammo per il Club 84, un night più rétro, in via Veneto. Tirammo tardi, fino al mattino, e poi tornammo al Parco dei Principi, era il giugno del '65». Non è una vita banale, quella in cui una sera a Londra George Harrison ti accompagna in una cantina dove «un certo Eric Burdon» sta cantando The House of Rising Sun. Una vita che comincia con le privazioni, la pace celebrata e un ricordo incancellabile: «La strage di Superga fu il mio sconcerto di bambino: quell' aereo caduto sulla collina della mia città sembrava la continuazione della guerra. Le prime ferite della comprensione e dello stupore, come ha scritto Juan José Saer».
Cuore granata e popolare. Essere tifoso del Toro, vecchio cuore granata è anche - si sa - un atteggiamento verso la vita. Minà cresce nelle case popolari in zona stadio, vicino a uno dei primi campioni paralimpici, Giovanni Pische, eroe di guerra, e si inventa le prime radiocronache. Fa il servizio militare, si occupa di rassegna stampa: il generale golpista Giovanni de Lorenzo lo rimprovera ogni giorno per la cravatta di sbieco e gli scarponi non lucidati. Minà si vendicherà delle vessazioni, ed è una delle poche volte che mostra un lato vagamente ostile. Per il resto, è metodo. Anni da freelance, letti e pasti rimediati, appostamenti da paparazzo, incontri incredibili, 17 anni di precariato in Rai: più quinte che scena, dice. «Quella foto da Checco è il risultato di tante coincidenze e di una filosofia di vita, di una insaziabile curiosità. A me interessano le vite vissute, le esperienze delle persone. Mi piace il senso di amicizia e di ammirazione che traspare da quel gruppo. Avevo un grande dialogo con loro, con Gabo, Sergio, Ali e Bob, ma più che a mirare allo scoop, volevo conoscere la loro storia e la loro umanità. Ali mi considerava un giornalista importante, perché gli chiedevo, sempre con rispetto, anche le realtà più spinose o più banali; Sergio Leone, invece, era un uomo molto timido. Un giorno mi chiese di accompagnarlo lungo il tappeto rosso al Festival di Venezia. Mi strinse forte il braccio e mi disse a mezza bocca: "E mo' nun te move da qua, me la sto a fa' sotto" e a me, che tentavo di divincolarmi, afferrandomi ancora di più: "Mò m' accompagni, perché non ce la faccio da solo". Con De Niro siamo stati complici e amici. Gabo Márquez era un uomo difficile, pensava fossi un rompiballe. Poi lo conquistai».
Uno scoop globale. Minà è per formazione un Route 66, l' America di Woodstock, il pop e la West Coast. A poco a poco scopre l' altra America. Il Messico della strage di Piazza delle tre culture, l' Argentina dei desaparecidos, le dittature feroci, l' anomalia cubana. Gli esuli brasiliani, Vinícius de Moraes che cena con Ungaretti e gli dedica un ritornello. Benedizione, Ungaretti, che quando ti penso, m' illumino d' immenso, tu che sei immenso, tu che sei denso, tu che sei intenso. Siqueiros che fa ritratti a Gianni (nonostante il veto della moglie) e alla troupe. Passione e amore per l' America Latina che dura nel tempo, prima e dopo la famosa (e fatale?) intervista a Fidel Castro, durata dalle 14 del pomeriggio del 28 giugno 1987 fino alle 5 del mattino dopo. Uno scoop mondiale che sostiene di aver pagato caro.
«Ma io non ho mai fatto nessuna sterzata politica. La pensavo in un certo modo e non ho cambiato idea. Semmai gli altri si sono spostati L' intervista a Fidel mi ha fatto conoscere all' estero, ma mi ha chiuso, definitivamente, le porte in Italia. E ancora non so perché. Il Festival di Berlino mi ha dedicato una rassegna, quello di Montréal mi ha premiato: i miei documentari sono andati in tutte le tv del mondo, ho diretto riviste e collane editoriali. Sempre seguito la mia curiosità, mai fatto calcoli di carriera. Ero a Città del Messico con Manolo Vázquez Montalbán: il subcomandante Marcos mi contattò con un messaggio portato da un bambino. E in quei casi che fai? Dici no all' intervista? Cuba ha retto perché ha dato una organizzazione sociale al Paese che gli ha permesso di vivere poveri ma dignitosi per oltre mezzo secolo. E malgrado un blocco economico spietato che, anche nel vivo della pandemia, gli Usa continuano a mantenere senza nessuna ragione umana e politica. Dopo tutti questi anni, qualcuno si ricorda il perché di questa prepotenza abnorme?».
La dedica è la parte più difficile del libro, sta all' inizio ma è un pensiero finale: «A Lucho». Luis Sepúlveda. «Patriota e guerrigliero, scrittore militante. Una sera arrivò a casa con un gruppo di ex esuli cileni e mi lasciò un tappeto di bottiglie vuote. Io mi ero arreso alle 4 del mattino, chiesi solo di chiudere la porta. Un' altra volta venne con me a San Vittore insieme alla sua Carmen. Non era preoccupato solo per il suo Paese, mise in letteratura una coscienza ambientalista, da vero cittadino del mondo». Quante amarezze a Viale Mazzini Resta tanto da raccontare. L' incontro con altre stelle ribelli: Tommie Smith, Diego Armando Maradona, Pietro Mennea. Il tramonto (a Torvaianica) di un campione come Garrincha. Gli incroci della vita con Toquinho, Celentano, Morandi, Isabella Rossellini. Il premio Nobel Rigoberta Menchú e le tribù indigene del Guatemala: Quiche, Kekchi, Kaqchikel, Mam, Tzutuhiles, Ixil, Kanjobal. Pertini, Jorge Amado e Franco Califano. Così si torna a Fiorello e alla Rai: «Ha centrato alcuni tic che mi riguardano, ma mi fa molto ridere: lo fa con simpatia, con amore e non con cattiva fede. Alla Rai ho dato più di quello che ho avuto, quante processioni dal direttore generale di turno, fino a quando mi hanno fatto fuori. In cineteca ci saranno almeno mille ore tra servizi, interviste e programmi: prima di tutto Blitz, dove Fellini si nascondeva per studiare la scenografia. La Rai non se ne occupa, quanta amarezza». Resta un piccolo grande rimpianto: «Volevo intervistare Mandela: riuscii a parlargli, poi lo mancai per poco. Nel nostro mestiere non puoi perdere l' istante». Mai accontentarsi, una questione di metodo.
Gianni Minà: «Ero un nemico per la Cia, a Castro gli scrivevo se non ero d’accordo con lui». Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Elvira Serra.
Testiamo la sua memoria. Eravate lei, Fidel, Iván Pedroso, Paco Peña, Cassius Clay, Dorando Pietri, i Supertramp, John Cassevetes, Red Canzian, Carlo Croccolo, Valerij Borzov. E...?
«... e anche Fiorello ha dovuto alzare le mani con me! È stato molto affettuoso. Del resto, se ha preso spunto dalla mia vita per farne degli sketch significa che avevo colpito duro».
Allora proviamo con questa: eravate lei, Muhammad Ali, Bob De Niro, Sergio Leone e Gabo García Márquez. E...?
«... e andammo da Checco Er Carettiere».
Come fece a metterli insieme?
«Era passato a trovarmi Muhammad Ali, che in quei giorni era a Roma, e stavamo per andare a cena, quando mi chiama Robert De Niro, di cui sono amico, per vederci. Gli dico con chi sono e gli propongo di raggiungerci e lui risponde che si considerava già invitato. Stavamo per uscire quando squilla di nuovo il telefono, questa volta era Sergio Leone, appena bidonato da De Niro: “A fijo de ‘na mignotta voglio veni’ pur’io!”. Buon ultimo chiama Gabo (García Márquez, ndr) e il gruppo era fatto».
Chi pagò il conto?
«Io! Abbiamo speso un po’...».
A Gianni Minà si illuminano gli occhi quando parla dei suoi amici, dell’affetto che gli hanno tributato negli anni, delle cose memorabili che ha fatto. Ogni tanto si rabbuia. Più di tutto, adesso, gli dispiace di non essere citato in nessun manuale di giornalismo: «Mia figlia Francesca, all’esame di Storia della radio e della televisione, non ha trovato il mio nome da nessuna parte». La sua celebre intervista a Fidel Castro del 1987, che durò 16 ore, l’ha donata alla Cineteca di Bologna come «Fondo Minà». Le agende con i numeri di telefono più incredibili, da Luis Sepúlveda a Robert Redford, su cui Massimo Troisi costruì un indimenticabile sketch per il compleanno di Pino Daniele, che si può ancora trovare su YouTube, sono allineate in ordine di anno dentro il mobiletto dell’ingresso. Con noi, discreta e affettuosa, c’è anche Loredana Macchietti, la moglie e madre delle figlie Francesca e Paola, 23 e 21 anni, mentre la primogenita, Marianna, 46 anni, è nata dal precedente matrimonio con Georgina García Menocal.
Il 3 giugno 2016 morì Muhammad Ali. Chi l’avvisò?
«Mi chiamò sua moglie, Lonnie. A casa loro ero uno di famiglia, la mamma di Ali mi preparava i sandwich che faceva per il figlio».
Fidel Castro morì il 25 novembre dello stesso anno. Quella volta da chi fu avvisato?
«La morte di Fidel mi fu annunciata almeno cinque volte, dai colleghi. Ma quando successe davvero mi avvisò da Cuba la zia di un mio figlioccio due ore prima che Raul Castro desse l’annuncio in tv».
Devo chiederle di un altro lutto: molte delle persone che ha intervistato e che erano sue amiche non ci sono più.
«Purtroppo».
Come andò con Pietro Mennea, il 21 marzo 2013?
«Quella volta a telefonarmi fu un giornalista. “Due battute per Mennea che è morto”. E io: “Ma che è successo?”. E quello: “Ma che, non lo sai?”. Riattaccai».
Vi volevate bene.
«Manuela, la vedova, per i miei 80 anni mi ha regalato quello». E indica una foto incorniciata dove lui e l’atleta sono insieme dopo il traguardo di Città del Messico e a destra c’è un foglio dell’agenda privata di Mennea in cui aveva annotato l’orario della finale dei 200 metri, 15.20, e il tempo, 19.72.
De Niro lo sente ancora?
«Mi ha chiamato l’ultima volta per gli ottant’anni, il 17 maggio 2018. Mi ha anche mandato un bellissimo biglietto di auguri».
Mina?
«Ci chiamiamo per parlare delle nostre vite. Un’artista immensa. Contrariamente a quel che succede oggi, tutto il repertorio di Antonello Falqui era stato prima approvato da lei».
Luis Sepúlveda?
«Un amico fraterno. Quando dirigevo la collana “Continente desaparecido” di Sperling & Kupfer lo intercettai per intervistarlo in due puntate di Storie. Purtroppo oggi non si riesce a metterle di nuovo in onda perché i diritti cinematografici costano troppo».
Maradona?
«Il più grande calciatore mai nato».
Più di Pelé?
«Ai tempi di Pelé era un calcio più lento».
Come spiega l’affetto di personaggi così diversi?
«Credo sia una questione di intimità. Io ho i modi che soddisfano le relazioni umane. E quando mi dicevano no, non insistevo».
I suoi colleghi furono molto duri con lei. Valerio Riva in una lettera al «Corriere della Sera» definì la sua intervista a Castro come «la più lunga in ginocchio». Franco Escoffiér sul «Gazzettino» scrisse di lei: «È irritante. Di gradevole ha assai poco. Non di rado, moltiplicando con smorfie inopportune una già scarsa avvenenza, si rende ridicolo».
«L’intervista a Castro mi costò una causa con Riva e Carlos Franqui al Tribunale di Trento. La vinsi, ma spesi in avvocati tutto quello che avevo guadagnato con il documentario. Agli altri non ho mai replicato: sono sempre stato fedele a una certa classe di giornalismo».
Persino Enzo Tortora la accusò di non amare il sapone e che i primi piani del suo collo gli davano le vertigini.
«E invece, dopo che lo difesi in tivù a Blitz dal linciaggio mediatico, mi chiamò a casa e mi disse: “Tu sei stato un uomo”».
Si è mai chiesto perché tanta acredine?
«Il mio lavoro di contro informazione sull’America Latina dava fastidio alla Cia e all’Usaid. Credo mi facessero cattiva stampa».
Addirittura?
«Il mio peccato è stato ridicolizzare il loro liberismo, aver dimostrato che la democrazia può essere più dittatrice della dittatura».
Come con Silvia Baraldini.
«Con lei ora ci sentiamo un po’ più raramente. L’aiutammo a tornare a casa della madre, a Roma, in via del Babuino, e venti giorni dopo le fecero lo sfratto esecutivo».
Lei è stato editore (della rivista «Latimoamerica»), direttore (di «Tuttosport»), autore e giornalista (per la Rai) e scrittore (di numerosi saggi). Quale ruolo l’ha divertita di più?
«Fare il cronista è la cosa più bella».
Ha intervistato chiunque, dai Beatles a Frei Betto, dal Subcomandante Marcos a Tommie Smith. Nessun rimpianto?
«Mi è sfuggito Nelson Mandela. Ci eravamo messi d’accordo e mi aveva invitato in Sudafrica. Poi dovetti rinviare per tre quattro giorni e non siamo più riusciti a vederci».
Qualcuno le ha mai detto di no?
«Obama, quando era presidente. Per valutare la nostra proposta chiesero le copie dei miei documentari, poi vollero che trovassimo un politico che perorasse la nostra causa. Hanno chiesto anche le domande per iscritto e dopo due mesi ci fecero sapere che non erano ancora pronti per quel genere di intervista».
Ci rimase male?
«Più che altro ho notato la differenza di stile con Castro. Prima della famosa intervista dell’87 chiesi al Comandante se voleva leggere in anticipo le domande. Mi rispose: le pare che noi possiamo avere paura delle parole?».
Castro è una figura controversa.
«Quando sono stato in disaccordo con lui gli ho scritto che dissentivo dalle sue scelte e spiegavo perché. Lui mi rispondeva difendendo a sua volta le sue idee».
Per l’intervista-scoop a Fidel Castro Oliver Stone la cita nel film «Assassini nati». Peccato che quel passaggio in Italia sia stato tagliato.
«Sì, confesso che mi è dispiaciuto».
A una puntata del suo «Blitz» vennero Federico Fellini, Giulietta Masina, Sergio leone, Robert De Niro, Claudia Cardinale, Ennio Morricone. Cose che oggi neanche da Fazio o De Filippi. Adesso chi vorrebbe intervistare?
«Vasco Rossi. Sa che fui io a presentargli Fellini? Ci incontrammo a Rimini sulle colline del Bandiera Gialla».
Chi erano i suoi maestri?
«I miei maestri sono stati Antonio Ghirelli e Maurizio Barendson, e avevo stima di Enzo Biagi. Un uomo di grandissima onestà intellettuale. Durante un viaggio con Pertini a Città del Messico García Márquez mi chiese di incontrare il nostro presidente perché voleva parlargli di Julio César Turbay e dei suoi modi dittatoriali in Colombia. Maccanico gli aveva detto che non era possibile. Io intercessi con Pertini e Márquez per ringraziarmi si fece intervistare. Io allargai l’invito a Biagi, che si impegnò a far uscire l’intervista sul Corriere dopo che fosse uscita la mia in Rai. Fu di parola».
Tifa sempre il Toro?
«Mio papà era del Toro. Io e mio fratello abbiamo fatto una cosa molto sentimentale: abbiamo comprato due seggiolini nel nuovo Stadio Filadelfia, come due ragazzini».
E ci andate?
«No». E ride.
Ha ricevuto moltissimi premi. A quale è più affezionato?
«Al Kamera della Berlinale. Mi ha ripagato di tutto». Due anni fa la vita ha fatto uno sgambetto a Gianni Minà. Lui ha reagito impegnandosi per organizzare il matrimonio della primogenita in coincidenza del suo ottantesimo compleanno. Prima che il cuore gli tirasse l’ultimo scherzo aveva scritto per Minimum Fax Storia di un boxeur latino: il libro uscirà a maggio.
· Giovanna Botteri.
Klaus Davi per affaritaliani.it il 16 ottobre 2020. Pare proprio che le trattative con il patron della RCS sia a buon punto e che Giovanna Botteri, inviata e corrispondente storica della Rai, possa passare alla concorrenza. Un contratto quadro, sulla falsa riga di quello concesso a Milena Gabanelli, che coinvolgerebbe la giornalista friulana sia in video che come editorialista di punta del Corriere della Sera . Giovanna infatti è arrabbiatissima con Salini perché le ha negato il trasferimento da Pechino a Bruxelles, cui lei ambiva. Andrea Pucci, giornalista di razza alla guida della portaerei Newsmediaset (300 giornalisti sul campo) sta per riaprire il contenitore Mag di Studio Aperto prevista il 18 ottobre. Il tg di Italia Uno sta raggiungendo vette di ascolto mai viste da anni. Giustamente, l’azienda del Biscione lo premia con la riapertura del dossier quotidiano. Si preannunciano inchieste di cronaca ma anche speciali dedicati a emergenze sociali, criminalità, impegno delle forze dell’ordine, e tanta attenzione per il tema delle disuguaglianze. Alfonso Samengo vice direttore di Rai Parlamento, fa fare (di nuovo) bella figura alla Rai. La prima intervista realizzata a Jole Santelli appena nominata sottosegretario , prematuramente scomparsa ieri a soli 9 mesi dalla nomina a Presidente della Calabria, la realizzò lui nel 2001 per la Rai di Cosenza. E ieri lo scoop è ricomparso sugli schermi di "Porta a Porta" dopo 20 anni. Anche se non è stata certo una gioia per il giornalista calabrese che era legato alla coraggiosa politica cosentina da amicizia e profonda.
Aldo Grasso per il ''Corriere della Sera'' il 16 ottobre 2020. Capita sempre più spesso di veder Giovanna Botteri ospite di qualche talk nella nuova veste di opinionista. Abituati come siamo a seguire la valente cronista in veste di corrispondente dalla Cina e dall'intero Oriente, isole comprese, lo stupore non è poco. Un mesetto fa ha anche vinto il Premio Ischia come «giornalista dell'anno» (erano premiati anche Gianni Minà e il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano) e non passa giorno che qualcuno ne tessi giustamente le lodi. Molti spettatori la ricordano corrispondente da New York, sempre un po' affannata, perennemente scarmigliata, tanto che, anni fa, un gruppo di sue ammiratrici si era proposto con affetto di fare una colletta per assicurarle un buon coiffeur. Osando però un consiglio da «vecchie zie»: in pubblico ci si presenta sempre al meglio (allora si poteva, oggi non più). Poi è successo che un servizio di «Striscia la notizia» ha ironizzato sui suoi capelli arruffati e sul suo abbigliamento. Diciamo così: un'ironia su trucco e parrucco non compresa fino in fondo che ha scatenato l'immediata solidarietà di un ampio fronte di botterologi. C'è chi ha parlato di body-shaming e attacchi sessisti. Laura Boldrini ha tenuto a far sapere che alle giornaliste «non servono look prestabiliti e ricciolo d'ordinanza». Alberto Matano, uno sempre molto attento al look, è intervenuto per solidarizzare con la collega: «giornalista e donna molto speciale, ironica, iconica, vera. E assai cool». Iconica e cool. Persino le Sardine hanno lanciato un appello a suo favore. Proviamo a rivoltare il guanto, forti del fatto che la prima a ridere di queste polemiche e a sdrammatizzare è stata proprio Botteri. Senza queste polemiche, o presunte tali, Giovanna Botteri avrebbe avuto tutta questa visibilità? Ovviamente non possiamo che esserne felici, ricordando che fra le regole tv ne esiste una che recita più o meno così: non tutti gli insulti vengono per nuocere.
Laura Rio per ''il Giornale'' il 9 agosto 2020. Esausta, stremata e anche un po' amareggiata, ma senza perdere la sua proverbiale serenità. Dopo i duri mesi vissuti nel Paese che ha dato origine alla più grande pandemia della storia recente, tra lockdown, veglie notturne, continui collegamenti con l' Italia, solitudine, paura, fatica, stress, ora Giovanna Botteri, la corrispondente Rai da Pechino, potrà finalmente trascorrere un periodo di riposo in Italia. Sta tornando in queste ore con un viaggio fortunoso perché i voli sono pochi e complicati. Primo desiderio: festeggiare i 30 anni della figlia Sarah. Si aspettava, però, di restarci in questa parte del mondo, nella sede di Bruxelles della tv di Stato, per un cambio di lavoro e di vita. Anche una meritata ricompensa per questo periodo difficile, oltre che per tutta la sua carriera. Ma non è andata così.
Giovanna, partiamo da qui: ci sei rimasta male? Pensi di restare a Pechino?
«Sarebbe stata per me una grande sfida. Avevo fatto domanda tramite il job posting interno all' azienda. Immaginavo che il mio curriculum fosse sufficiente Dopo aver coperto i Balcani, il Medio Oriente, l' America e l' Asia, pensavo di raccontare l' Europa in modo diverso. E anche di avvicinarmi a casa. Ma rispetto le decisioni dell' ad Salini. Adesso penso solo a godermi mia figlia e dormire poi vedremo cosa fare».
Di guerre ne hai raccontate tante, dai Balcani all' Irak, dall' Afghanistan al Kosovo, ma quella del Covid è stata diversa, subdola, incomprensibile.
«Vero. La differenza con i tanti altri conflitti che ho visto è che lì sapevi chi era il tuo nemico. Qui no. Può essere il tuo vicino, l' amico del cuore, un parente. Quando fai l' inviata, sai come comportarti, ti premunisci, cerchi di evitare pericoli, di metterti in salvo, con il virus non lo puoi fare, non ti puoi nascondere, non puoi scappare».
Un anno durissimo a Pechino, che da gennaio è diventato il centro dell' attenzione mondiale...
«E all' inizio da fuori nessuno capiva quanto qui fosse terrificante. Non se ne aveva la percezione: 60 milioni di persone chiuse in casa, dalla sera alla mattina, le città vuote, le strade deserte. Non sapevamo niente, avevamo una grande paura. E, poi, abbiamo dovuto riviverla una seconda volta, quando c' è stato un nuovo focolaio».
In tutto questo, hai dovuto quadruplicare il lavoro, con corrispondenze di giorno e di notte, per tg, talk e radio.
«Quando è iniziato il lockdown ho riempito il frigorifero dei nostri uffici nella sede Rai. Spesso dormivo lì, di solito alla mattina, tra le pause dei telegiornali, dato il fuso orario in avanti rispetto all' Italia. Ho tenuto in servizio solo due montatori, gli altri sono rimasti a casa in smart working. Per gestire tutti i collegamenti, c' è una sola possibilità: l' organizzazione».
Hai avuto paura, momenti in cui hai pensato di non farcela più?
«La paura della morte la porto sempre addosso: quando la respiri nei posti di guerra non te ne puoi più liberare. Ma bisogna tenersela per sé, non ti puoi permettere di trasmetterla agli altri, altrimenti quelli che ti guardano cosa possono pensare? Andavo in panico all' inizio, magari avevo qualche linea di febbre e pensavo al peggio, soprattutto di finire in quei lebbrosari dove sono morte chissà quante persone. E non lo sapremo mai...»
Non era certamente facile ottenere informazioni in un paese già poco «trasparente» come la Cina.
«A darci una mano ci sono i social, che fanno un grande lavoro di contro-informazione, a volte basta una foto o una frase per farci capire tante cose. Poi ovviamente si ascoltano le fonti ufficiali. Io leggo molto anche il South China Morning Post che si colloca in mezzo, né filo né antigovernativo, una fonte attendibile».
Tanti mesi sola, senza la famiglia.
«In effetti la solitudine è stato l' aspetto più difficoltoso. Mia figlia Sarah era chiusa in casa a Roma, anche lei sola: il senso di impotenza, il non poter fare qualcosa per lei mi affliggeva. Una solitudine che già sentivo quando sono arrivata in Cina, ma che è dilagata con il lockdown: non parlo il mandarino e dunque è difficile entrare in contatto con la gente. Sono stata 13 anni a New York e lì mi sentivo a casa. Ho anche girato tutto il mondo come inviata, ma qui è tutto diverso...».
Sei stata accusata di essere filo cinese e anti trumpiana.
«Mi sembra proprio un' accusa gratuita. È ovvio che quando stavo in America diventava difficile fare l' apologia di Trump. Ma pensare che sia dalla parte del governo di Pechino è assurdo».
Ti sei mai pentita di aver inseguito tante guerre lasciando spesso tua figlia senza di te, soprattutto quando era piccola?
«Pentita di aver scelto questo lavoro mai. Ora mia figlia è grande e non mi rimprovera le assenze. Abbiamo costruito un rapporto e una vicinanza che vanno oltre la presenza fisica. Lei ha sempre saputo che io per lei c' ero, che sarei tornata, come nell' analisi freudiana del gioco del rocchetto: scompare e ricompare quando il bambino lancia il filo a cui è attaccato e poi lo tira indietro. Ricordo sempre quando stavo per partire per l' Afghanistan insieme al convoglio in cui c' era anche Maria Grazia Cutuli, l' inviata del Corriere rimasta uccisa in quell' agguato. Mia figlia mi disse basta, torna, ho bisogno di te. Insomma, mi ha salvato la vita. Io avevo un motivo in più per stare attenta: dovevo tornare da Sarah».
Ti sei mai chiesta: ne vale la pena?
«Sì spesso, soprattutto quando hanno ucciso Ilaria Alpi in Somalia, la mia amica del cuore, la compagna di banco nella redazione del Tg3. Miran Hrovatin, morto con lei, era stato mio operatore. Io ero in Bosnia. Mia figlia con mio padre a Trieste, la mia città di nascita. All' asilo, un' amichetta le dice: Ho sentito che è morta un' inviata, è tua mamma? Sono tornata di corsa a casa».
E cosa ti spinge a continuare questa vita?
«Quando cominci a raccontare le storie delle persone, non riesci più a fermarti. Non sono mai stata interessata ad altri tipi di carriera, alle direzioni. Faccio il lavoro che so fare. Mi chiedo sempre come una persona possa vivere, dormire, mangiare, amare, sognare quando le cadono le bombe sulla testa. Come fanno le mamme a mandare fuori i figli a giocare quando sanno che potrebbero non tornare più come quei sei bambini di Sarajevo che mi rimarranno sempre in mente: usciti per scivolare sulla neve e rimasti lì. Quando assisti a tanto dolore e ingiustizie capisci che non ci si può arrendere, non si possono abbandonare le persone che soffrono e che non avrebbero neppure la possibilità di far sentire la loro voce».
Si è parlato tanto di te negli ultimi mesi per il servizio di Striscia la notizia che ti prendeva bonariamente in giro per il look. Si è tirato in ballo il body-shaming, sono scoppiate polemiche... Tu, alla fine, hai sdrammatizzato.
«Mah... sì, penso che sia stata anche un' occasione per parlare di temi importanti come l' immagine della donna e la pressione della società sull' aspetto fisico, discorsi che possono far bene alle giovani generazioni. E, poi, forse, non è stato casuale che l' argomento sia nato proprio in periodo di Covid quando non si poteva andare dal parrucchiere: la gente a casa ha avuto bisogno di vedere in tv persone normali e non modelli patinati irreali».
Ma tu ci vai o no dal parrucchiere?
«Ma avete visto che capelli lunghi ho? Ci andrò in Italia, li taglierò 30 centimetri. I miei capelli sono anarchici: per questo da ragazza li tenevo sempre corti. Cerco di sistemarli come riesco. Non c' è nulla di male, ovviamente, a tenere in ordine il proprio aspetto. E vogliamo parlare delle magliette, pure tanto criticate? Mi dicono che metto sempre la stessa, nera: ma io, per praticità, ne ho 40, tutte simili: vanno bene per sistemare il microfono e per come mi stanno addosso».
Caso Botteri, per le donne la bellezza è un obbligo che viene da lontano. Lea Melandri su Il Riformista il 6 Maggio 2020. Bisogna dire che la vicenda della giornalista Giovanna Botteri, fatta oggetto di critica e derisione per il suo aspetto fisico, ha avuto come risvolto interessante la possibilità di sottrarre al silenzio quella che si potrebbe considerare una “evidenza invisibile”: l’importanza che ha sempre avuto la bellezza, oltre alla maternità, nel definire ruoli e identità del femminile. A spostare l’attenzione su un problema che interessa in realtà l’immaginario e la cultura patriarcale che abbiamo ereditato, fondamento ancora oggi delle figure o stereotipi di genere, è la stessa Botteri. In una lettera a Usigrai e Giulia giornaliste di alcuni giorni fa scrive: «A me piacerebbe che noi tutte spingessimo verso un obiettivo, minimo, come questo. Per scardinare modelli stupidi, anacronistici, che non hanno più ragione di esistere. Non vorrei che un intervento sulla mia vicenda finisse per dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non la meritano. Invece sarei felice se fosse una scusa per discutere su cose importanti per noi, e soprattutto per le generazioni future di donne». L’obiettivo a cui Giovanna Botteri si riferisce, è quello che si è già affermato in paesi che, a differenza del nostro, hanno sostenuto politiche contro ogni tipo di discriminazione: di classe, sesso, razza, condizione sociale, età, aspetto fisico, orientamento sessuale. Nei numerosi attestati di solidarietà e apprezzamento usciti sui social, a essere poste in primo piano sono state le scelte di una donna coraggiosa e di indiscusso valore professionale. Ma è ancora un modo per svicolare da un interrogativo che è stato difficile porre anche per il femminismo, forse perché considerato “imbarazzante” o impresentabile: quanto conta la bellezza nella vita delle donne? Quando la redazione della rivista “Lapis” decise di affrontarlo, faticammo molto a trovare chi fosse disposta a scriverne. Lo fecero Bruna Bianchi e Laura Kreyder. Nella nota introduttiva all’articolo si legge: «La bellezza, costitutiva dell’immagine femminile, è cantata, ma poco la indaga chi ne è gratificata (…) Le donne belle, vittime del culto che ispirano, parlano con la bocca dei loro adulatori. I quali tuttavia innalzano dee perché le si possano, nella sensualità, profanare. D’altra parte, il trucco, la cura del proprio corpo, le sue particolarità, sono sempre stati temi prediletti delle conversazioni tra donne». Che nell’educazione delle donne contasse soprattutto l’essere desiderate per la loro bellezza, le loro attrattive erotiche, e apprezzate per il materno sacrificio volto a “rendere piacevole e dolce” la vita dell’uomo, era già detto con chiarezza nell’Emilio di Rousseau. A riprenderlo, quasi letteralmente, è il saggio pedagogico di Erik H. Erikson, Infanzia e società (Armando Editore, 1966), in uso nelle scuole fino alla soglia del ’68. Quanto ha contribuito l’emancipazione a modificare “doti” femminile esaltate e svilite al medesimo tempo? Le donne e il corpo – scriveva Jean Baudrillard nella Società dei consumi – «solidali nella schiavitù», restano legati anche nell’emancipazione: «la donna, un tempo asservita in quanto sesso, oggi è “liberata” in quanto sesso». Messe oggi nell’opportunità di fare scelte, sono le donne stesse a servirsi delle “risorse”, che l’uomo ha visto in loro, come una moneta di scambio, una condizione imposta da volgere a proprio vantaggio. Se in passato l’emancipazione è stata soprattutto assimilazione al modello maschile, cancellazione del corpo e della “femminilità”, per generazioni più giovani costrette a lavori saltuari e poco pagati le “potenti attrattive” della sessualità e della maternità tornano ad essere necessarie “per vendersi bene”. «È provato che nei contesti dei servizi alla persona e al consumo oggi, già nei regolamenti stessi, si chiede al dipendente di mettere in gioco una certa “corporeità” ammiccante e sorridente, che coinvolga il cliente (…) È possibile che si vada creando un “contesto prostituzionale allargato”…» (Posse, Aprile 2003, Divenire-donna della politica). A confronto con culture più attente al “politicamente corretto”, il contesto italiano, specialmente quello dove l’apparire è il registro dominante, non ha modificato molto il modello tradizionale della femminilità, e il traguardo massimo della modernità sembra incarnato da chi sa tenere insieme, come Lilli Gruber, tacchi a spillo e professionalità inappuntabile. A chi si rammarica che l’intelligenza, la cultura, la creatività femminile, esaltate come “talenti” indispensabili e ciò nonostante lasciate ai margini dei luoghi dove si esercitano i poteri e i saperi della vita pubblica, sfugge evidentemente una delle consapevolezze più originali del femminismo: la “violenza invisibile”, interiorizzazione da parte delle donne stesse della visione del mondo imposta dal dominio maschile. Per un processo di liberazione che andava a scavare nelle zone di confine tra inconscio e coscienza, si sapeva che il cammino sarebbe stato lungo e che qualcuna si sarebbe accontentata, come diceva già Virginia Woolf, di “oscure carriere”, altre – come si legge in un articolo di Rossana Rossanda sulla rivista “Lapis” (n.8, giugno 1990) – forse avrebbero passato la vita «senza percepire altro che quel tessuto di immagini ricevute, stratificate, intrecciate a percezioni dirette ma oscure (…) Uno specchio l’accompagna sempre: è lo sguardo dell’uomo sul suo corpo, per cui è prima di tutto bella o brutta, bionda o bruna, gambe e seni e fianchi. Lei non può non vedersi vista. Il canone per lei è obbligatorio, per l’uomo no».
Giovanna Botteri, body shaming in tv: "Modelli stupidi e anacronistici che non hanno più ragione di esistere". Protagonista dell'ironia di Striscia la notizia che ha chiamato in causa il web, risponde: "Non si può dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non le meritano". La Repubblica il 02 maggio 2020. Poche righe, piene di intelligenza e dignità, pubblicate da Giovanna Botteri sul sito del sindacato dei giornalisti della Rai per rispondere alla tempesta di tweet di cui suo malgrado è stata protagonista. Non per un suo servizio giornalistico, ma perché vittima dell'ironia del tg satirico Striscia la notizia, ispirato, così hanno detto, proprio da quel che circolava sul social. L'abbigliamento, l'acconciatura, il trucco. Un cortocircuito di "frecciate velenose" al look della corrispondente da Pechino, per usare le parole di Michelle Hunziker. Che per essersi prestata al tiro al bersaglio contro un'altra donna, è lei stessa accusata di body shaming dalla Rete. Laurea con il massimo dei voti in filosofia, dottorato alla Sorbonne. Inviata speciale per importati eventi internazionali: crollo URSS e guerra di indipendenza croata (1991), guerra in Bosnia e assedio a Sarajevo (92-96) "Mi piacerebbe che l'intera vicenda - la riflessione della giornalista - prescindendo completamente da me, potesse essere un momento di discussione vera, permettimi, anche aggressiva, sul rapporto con l'immagine che le giornaliste, quelle televisive soprattutto, hanno o dovrebbero avere secondo non si sa bene chi. Qui a Pechino sono sintonizzata sulla Bbc, considerata una delle migliori e più affidabili televisioni del mondo. Le sue giornaliste sono giovani e vecchie, bianche, marroni, gialle e nere. Belle e brutte, magre o ciccione. Con le rughe, culi, nasi orecchie grossi. Ce n'è una che fa le previsioni senza una parte del braccio. E nessuno fiata, nessuno dice niente, a casa ascoltano semplicemente quello che dicono". "Perché è l'unica cosa che conta, importa - sottolinea - e ci si aspetta da una giornalista. A me piacerebbe che noi tutte spingessimo verso un obiettivo, minimo, come questo. Per scardinare modelli stupidi, anacronistici, che non hanno più ragione di esistere. Non vorrei che un intervento sulla mia vicenda finisse per dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non la meritano. Invece sarei felice se fosse una scusa per discutere e far discutere su cose important i per noi, e soprattutto per le generazioni future di donne". Botteri ha avuto la solidarietà delle Commissioni Pari Opportunità di Fnsi, Usigrai e Odg nazionale, oltre che di 'Giulia Giornaliste'. "In inglese si chiama body shaming - ha scritto Monica Pietrangeli della Cpo dell'Usigrai - ma la potenza negativa di questa pratica si esprime bene anche usando l'italiano. Derisione, fino ad arrivare a vere e proprie offese, per come si appare, per come è il corpo, per come ci si veste. [...] Giovanna Botteri non ha voluto, non vuole farne un caso personale. Ma ci invita tutte e tutti ad una sacrosanta battaglia culturale. Cogliamo questa sollecitazione. Facciamone motivo di confronto". A telespettatori e utenti non è sfuggito che a ironizzare sia stata anche Michelle Hunziker, criticata aspramente per le parole pronunciate nel servizio. La showgirl è nota per il suo impegno contro le violenze sulle donne con la onlus Doppia Difesa, ed è stata lei a pubblicare su Twitter la difesa di tutta la redazione: "Body shaming contro Giovanna Botteri? Una fake news". Molti, compresi colleghi della giornalista ed esponenti della politica, hanno stigmatizzato l'atteggiamento del tg satirico. "Noi siamo orgogliosi di Giovanna Botteri. Il body shaming contro di lei è indegno e inaccettabile. Rai è al suo fianco mentre continuerà a raccontarci il mondo con la sua bravura. Anche presidente e a.d prendano netta posizione contro questo odioso fenomeno, a tutela dei dipendenti", scrive su Twitter il consigliere Rai, Riccardo Laganà. Non solo. Il caso è diventato uno dei più commentati dei social e in tanti si sono espressi per dare sostegno alla giornalista. Tra gli altri, Laura Boldrini, Gianrico Carofiglio, Monica Cirinnà, Rula Jebreal, il Pd.
Giovanna Botteri umiliata, Striscia la Notizia contro Fatto quotidiano: "Ascoltate cosa dice Gerry Scotti". Libero Quotidiano il 02 maggio 2020. Il Fatto quotidiano si indigna con Striscia la Notizia per un servizio giudicato offensivo su Giovanna Botteri, storica corrispondente dei tg Rai criticata per il look "trasandato" e sempre uguale e Antonio Ricci decide di rispondere direttamente, scrivendo una lettera piuttosto piccata a Dagospia: "Ecco un esempio di fake news - si parte in quarta -. Striscia fa un servizio a favore di Giovanna Botteri, ma molti commentatori che esprimono opinioni per sentito dire, nonché Ilfattoquotidiano.it, scrivono che ce la siamo presa con lei". "Per non cadere nell’errore - si legge ancora - sarebbe bastato ascoltare il rientro in studio di Gerry Scotti: “Brava, brava Giovanna, vai avanti così nel tuo importante lavoro e non badare a chi sta a guardare il capello...”. Tra, l'altro, aggiunge Striscia, nel servizio del 28 aprile "si dava conto della fresca messa in piega dell’ottima Giovanna Botteri", eppure "siamo stati accusati di aver fatto volgare ironia sul suo aspetto fisico".
Lettera di “Striscia la Notizia” a Dagospia il 2 maggio 2020. Caro Dago, ecco un esempio di fake news. Striscia fa un servizio a favore di Giovanna Botteri, ma molti commentatori che esprimono opinioni per sentito dire, nonché Ilfattoquotidiano.it, scrivono che ce la siamo presa con lei. Diciamo subito che per non cadere nell’errore sarebbe bastato ascoltare il rientro in studio di Gerry Scotti: “Brava, brava Giovanna, vai avanti così nel tuo importante lavoro e non badare a chi sta a guardare il capello...”. Dopo il servizio andato in onda nella puntata di Striscia il 28 aprile scorso, dove si dava conto della fresca messa in piega dell’ottima Giovanna Botteri, siamo stati accusati di aver fatto volgare ironia sul suo aspetto fisico. In realtà è da tempo che su alcuni media e nei social Giovanna Botteri viene presa di mira per il suo look, a detta di molti non particolarmente curato. E il servizio di Striscia, partiva proprio da questo per mostrare come Giovanna nell’ultimo collegamento da Pechino avesse sfoggiato una nuova pettinatura, quasi a smentire le critiche malevole piovutele addosso. Insomma, parliamo di cose serie e certamente il bodyshaming lo è e va combattuto con ogni mezzo, ma non confondiamolo con una messa in piega. L’ufficio stampa di Striscia la notizia
Da ilfattoquotidiano.it il 2 maggio 2020. LA CORRISPONDENTE DEL TG1 ‘PRESA DI MIRA” PER L’ASPETTO – “A ogni collegamento dalla Cina, la corrispondente sfoggiava il medesimo abito nero”. Questo dice la voce narrante di Michelle Hunziker durante un servizio “dedicato” da Striscia la Notizia alla giornalista Giovanna Botteri andato in onda lo scorso 24 aprile. La corrispondente Rai da Pechino, sostiene il Tg satirico di Antonio Ricci (che intanto non si tira indietro dal raccontarlo), è “stata presa di mira” per avere sempre lo stesso look. Il servizio continua con la Hunziker che fa notare come la Botteri, in uno degli ultimi collegamenti, si sia presentata con i “capelli splendenti”: “Ad un tratto la sua chioma vaporosa in risposta a tante frecciate”. E le immagini mostrano la corrispondente immersa in una vasca da bagno cartoon. Le “frecciate” di cui con disinvoltura parla la Hunziker si trovano facilmente sui social, sotto forma di gruppi nati su Facebook o di tweet.
LA SOLIDARIETA’ DI CPO CNOG, FNSI, USIGRAI E GIULIA GIORNALISTE – Un numero considerevole di commenti, tanto che Cpo Cnog, Fnsi e Usigraqi e Giulia Giornaliste hanno deciso di esprimere solidarietà alla collega Botteri: “In inglese si chiama body shaming, ma la potenza negativa di questa pratica si esprime bene anche usando l’italiano. Derisione, fino ad arrivare a vere e proprie offese, per come si appare, per come è il corpo, per come ci si veste. Nemmeno a dirlo è una pratica ormai diffusissima nei social network – si legge nel comunicato – Colpite sono soprattutto le donne, che sono il gruppo sociale più odiato in rete. Una forma di attacco subdolo perché attraverso la risata che vorrebbe suscitare, ridicolizza, ferisce. In questo ultimo periodo ne è stata oggetto la collega Giovanna Botteri, corrispondente Rai da Pechino. La si giudica, deride, offende per come si veste. Per i suoi capelli. L’abbiamo contattata per esprimerle la nostra solidarietà. Lei non ha voluto, non vuole farne un caso personale. Ma ci invita tutte e tutti ad una sacrosanta battaglia culturale. Lo fa con queste parole, usate nella nostra corrispondenza dì questi giorni”.
LA LETTERA DI GIOVANNA BOTTERI – Una risposta, quella della Botteri, che è un manifesto: “Mi piacerebbe che l’intera vicenda, prescindendo completamente da me, potesse essere un momento di discussione vera, permettimi, anche aggressiva, sul rapporto con l’immagine che le giornaliste, quelle televisive soprattutto, hanno. O dovrebbero avere secondo non si sa bene chi…Qui a Pechino sono sintonizzata sulla Bbc, considerata una delle migliori e più affidabili televisioni del mondo. Le sue giornaliste sono giovani e vecchie, bianche, marroni, gialle e nere. Belle e brutte, magre o ciccione. Con le rughe, culi, nasi orecchie grossi. Ce n’è una che fa le previsioni senza una parte del braccio. E nessuno fiata, nessuno dice niente, a casa ascoltano semplicemente quello che dicono. Perché è l’unica cosa che conta, importa, e ci si aspetta da una giornalista. A me piacerebbe che noi tutte spingessimo verso un obiettivo, minimo, come questo. Per scardinare modelli stupidi, anacronistici, che non hanno più ragione di esistere. Non vorrei che un intervento sulla mia vicenda finisse per dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non la meritano. Invece sarei felice se fosse una scusa per discutere e far discutere su cose importanti per noi, e soprattutto per le generazioni future di donne.”
I TWEET DEI COLLEGHI – E insieme alle sue parole sono tanti i tweet scritti da colleghi: “Giovanna Botteri è una delle migliori giornaliste italiane (dovrei usare il maschile). Passione, profondità, intelligenza, capacità sottile di racconto, dedizione totale. Poveretti coloro che parlano di parrucco, golfini o altre inezie”, scrive Costanza Crescimbeni, giornalista del TG1. “Giovanna Botteri ha raccontato negli anni pezzi di storia. Dal Kosovo all’Iraq, prima giornalista al mondo a documentare le bombe su Baghdad, poi gli Usa fino alla Cina e alla pandemia. Giornalista si, ma soprattutto una donna speciale, ironica, iconica, vera. E assai cool!”, scrive Alberto Matano.
LA SOLIDARIETA’ DELLA MINISTRA BELLANOVA – A schierarsi con la cronista, anche la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova che, nel giorno dell’insediamento del governo, era stata attaccata in rete per il suo abbigliamento: “Autorevolezza delle donne, qualità, rigore umano e professionale, impegno, non sono una questione d’immagine”, ha scritto su Twitter. “Ha ragione Giovanna Botteri quando invita ad aprire una discussione seria su come ribaltare codici e aspettative”.
Luca Bottura per “la Repubblica” il 3 maggio 2020. Ho fatto battute sull' altezza di Brunetta, sulle labbra della Marini, sul peso di Giuliano Ferrara. E forse ho sbagliato. Poi spiego il forse. Ho sbagliato, perché il bodyshaming è una scorciatoia facile e quasi sempre immotivata. E anche perché, per fortuna, ci si evolve. In tutti i campi. Vent' anni fa, parlo a nome della parte del mondo che normalmente ragiona con la fascia pelvica, la battuta sessista sul luogo di lavoro pareva inevitabile. Oggi ti becchi una denuncia. Giustamente. E, giustamente, Giovanna Botteri, corrispondente Rai da Pechino, ha fatto presente di essersi un filo stancata di essere derisa (peraltro a torto) sul suo apparire. Poi, certo, esistono le gradazioni. Anche a me è capitato di celiare sulle sue pettinature da galleria del vento. Però, come ha notato giustamente Botteri, a un uomo non sarebbe successo. E alla Bbc, non TeleTuscolo, mandano in onda quelli bravi. L'aspetto viene dopo. Infine, il "forse". Forse, l'unica eccezione resta la constatazione estetica qualora il personaggio ne faccia uno stigma. Se Trump si acconcia con l'antiruggine, arzigogolando l' unico capello, declina un disagio più politico che estetico. E, altrettanto forse, si può dire. Forse si deve. Dibattito.
Giovanna Botteri la spara grossissima: "Mai stata pro o contro qualcuno". Libero Quotidiano il 04 giugno 2020. È tra le donne del momento, Giovanna Botteri, inviata Rai in Cina. Lo è stata per le polemiche nate dopo un servizio di Striscia la Notizia sul suo look, lo è ora per le voci che la danno di ritorno in Europa, a Bruxelles, e perché sarà la presidente di Giuria del Premio Luchetta 2020, e in qualità di tale carica è stata intervistata dal Corriere della Sera. La Botteri spiega come prevenire le fake-news, spiegando che non sono certo una novità degli ultimi anni. Parla del suo passato di inviata di guerra, degli episodi più duri che ha vissuto. Parla ovviamente di Striscia: quando lei stessa è diventata notizia, che effetto le ha fatto? "Un effetto supernegativo - rivela la Botteri -. In generale il problema è quando si confondono i piani, quando la tua immagine diventa notizia. Noi raccontiamo, non siamo quelli che devono essere raccontati: se la donna da soggetto diventa oggetto del racconto c'è qualcosa di sbagliato", sottolinea. Ma il passaggio che più sorprende nell'intervista è la risposta che dà quando le ricordano che "la hanno accusata di essere anti-Trump". Più che un'accusa, una certezza: ogni sua corrispondenza relativa a Donald Trump era ed è un cannoneggiamento contro il presidente degli Stati Uniti. Eppure, almeno di primo acchito, lei nega: "Non sono mai stata anti o pro qualcuno: ho pensato che Trump fosse portatore di valori che potevano essere pericolosi o tossici per la società americana. Non fa parte del nostro mestiere fare i militanza, ma è legittimo avere dei valori: credo nella necessità della pace e non della guerra, credo nei ponti e non nei muri", conclude la Botteri. Insomma, "mai stata anti o pro qualcuno" ma fieramente "anti-Trump".
Michelle Hunziker e il caso Botteri Striscia, rivolta sui social: "C'è chi il culo". La insultano: "Carriera a picco". Libero Quotidiano il 03 maggio 2020. "C'è chi s'è fatto un culo per arrivare dov'è e chi l'ha mostrato... il culo!". La faida tra Giovanna Botteri, Michelle Hunziker e Striscia la Notizia monopolizza i social più della Fase 2 in arrivo. Il 28 aprile scorso il tg satirico di Antonio Ricci manda un onda un servizio (voce narrante della Hunziker) in cui si riferiscono le critiche alla corrispondente Rai, accusata di essere trasandata e poco attenta al look. Accuse che si riversano subito su Striscia, tacciata di "bodyshaming" contro la Giornalista., Ricci e la Hunziker rispondono a tono, sottolineando di aver fatto l'esatto opposto: di aver, cioè, riportato le critiche contestandole. "Abbiamo preso atto che si è fatta un’ottima e bellissima messa in piega", si è difesa Michelle. Apriti cielo. Decine di commenti in replica, vip e meno vip, contro la svizzera, raccolti sapientemente da Dagospia. "I flop di Vuoi Scommettere?, All Togerher Now, Amici Celebrities, il ridicolo attacco ad Amadeus e ora il caso Botteri: la carriera della Hunziker dopo il Sanremo con Baglioni è un crollo costante. Non mi stupisco", è il velenosissimo giudizio di Giuseppe Candela, giornalista specializzato in tv. C'è chi poi tira in ballo l'impegno della Hunziker con la onlus Doppia Difesa contro le discriminazioni contro le donne, chi come vari esponenti Rai difende a spada tratta la Botteri ("Giovanna l’ho conosciuta nella zone di guerra 20 anni fa - scrive Salvo Sottile -. Alcune sue colleghe rimanevano in albergo a sorseggiare cocktail e a fare collegamenti, lei preferiva uscire struccata e sporcarsi le mani.Non ricordo se avesse la messa in piega ma ricordo due palle così"), chi da telespettatrice come Rita Dalla Chiesa la ringrazia ("Questa Signora Giornalista (ce ne fossero!) è sempre in prima linea per informarci su quanto succede. Si collega dalla Cina, non da Ibiza. Vive anche lei il ns stesso dramma. Rispetto", e chi da politica come Laura Boldrini ("Una giornalista non deve rispondere a nessun cliché ma cercare notizie, saperle raccontare e fare corretta informazione". Pochi, invece, si schierano con la Hunziker, definendo quella di Striscia solo una battuta e dando la colpa di questa valanga a "un certo modello inculcato dalla Sinistra, secondo il quale non si possono più prendere in giro bonariamente le donne, su nulla. Body shaming, sessismo, per qualunque stronzata venga detta o fatta. Assurdo".
Caso Botteri, la Hunziker minacciata di morte. Interviene Tomaso Trussardi. Con l'eleganza che lo contraddistingue, Tomaso Trussardi ha reagito all'odio social contro Michelle Hunziker e l'ha difesa in un lungo post dopo che la famiglia ha ricevuto minacce di morte. Francesca Galici, Lunedì 04/05/2020 su Il Giornale. Imperversa la bufera su Michelle Hunziker e Striscia la notizia dopo il servizio dedicato ai commenti al vetriolo contro Giovanna Botteri. Nonostante il comunicato ufficiale del telegiornale satirico e i diversi video di spiegazione della conduttrice svizzera, non accenna a placarsi l'ira social su questa vicenda. Sono numerosi i volti noti che hanno duramente attaccato le parole di Michelle Hunziker nello speakeraggio del servizio mandato in onda lo scorso venerdì. Un fiume di rabbia contro la conduttrice che, se da un lato voleva stigmatizzare un comportamento ritenuto fuori luogo, dall'altro non ha fatto altro che alimentare il già vivido e vivace odio social, che non aspetta altro che trovare un nuovo capro espiatorio sul quale riversarsi. L'obiettivo di queste ore è proprio Michelle Hunziker, vittima di un corto circuito logico e mediatico. In questo turbinio impazzito, chi la accusa di body shaming, indignandosi per quanto detto durante la trasmissione, utilizza lo stesso metodo contro la svizzera, rincarando la dose. Per un'intera giornata sono stati tantissimi i messaggi contro la Hunziker, che per cercare di calmare le acque ha da prima condiviso un video un video nel quale ha spiegato le sue intenzioni e l'intento di quel servizio, poi ha condiviso il comunicato ufficiale di Striscia la notizia per appellarsi, infine, direttamente a Giovanna Botteri. Il delirio social contro la conduttrice svizzera è durato un'intera giornata. Tantissimi i tweet e i commenti contro di lei che sono rimbalzati di volta in volta sui social. Tantissimi quelli che hanno scritto direttamente alla Hunziker, probabilmente anche in privato dove, protetti dall'anonimato, in tantissimi hanno presumibilmente rincarato la dose, arrivando a muovere vere e proprie minacce contro di lei. Una vera domenica bestiale per Michelle Hunziker, che ha fortunatamente trovato sostegno nella sua grande famiglia allargata, che ieri le si è stretta attorno con ancora più forza e affetto. La situazione a un certo punto dev'essere diventata insostenibile se anche Tomaso Trussardi, noto per la sua pacatezza, si è sentito in dovere di esporsi pubblicamente in difesa della moglie. "L'entità delle minacce (molte di morte) che ci sono state rivolte e il bullismo, anche femminile, è stato esponenzialmente superiore a ciò di cui è stata ingiustamente accusata mia moglie", esordisce Trussardi nel suo lungo post. Il rampollo di una delle famiglie più importanti della moda italiana, poi, prosegue il suo sfogo: "L'amarezza sta nel constatare che queste accuse nascono da una stampa il cui ruolo dovrebbe imporre di riportare e spiegare i fatti, non fomentare odio e distanze. Nella falsa convinzione di difendere una donna ne state brutalmente ferendo e bullizzando altre non colpevoli." Seppure con l'eleganza che da sempre lo contraddistingue, Tomaso Trussardi ha concluso con un richiamo alla difficile fase che l'Italia sta attraversando: "Distanti ma vicini? Io ci credevo."
Giovanna Botteri e Striscia la Notizia, Frate Bucci contro la giornalista: "Sciatta, senza rispetto degli altri, radical chic fuori dalla realtà". Libero Quotidiano il 7 maggio 2020. La polemica tra Giovanna Botteri e Striscia la Notizia sembra essere stata chiusa dalla telefonata tra la corrispondente Rai da Pechino e Michelle Hunziker, ma nel frattempo si accende un altro focolaio: su Facebook, Frate Luca Bucci, per inciso fratello del sindaco di Genova Marco Bucci, ha risposto in maniera sorprendente a un medico che difendeva la Botteri. "Dice cose a suo uso e consumo senza rispetto degli altri, esattamente come si presenta, senza rispetto. Non vedo come si possa scindere le due cose. È proprio una radical chic fuori dalla realtà! Si appare esattamente quel che si è, senza sconti!". E per chiarire, ancora: "Sobrietà e sciatteria sono cose diverse". Altro che bodyshaming, insomma. Per il frate è un problema di forma, ma pure di sostanza: "A me interessa di più quello che dice e questo fa problema per la società, come si presenta è lo specchio di quello che è. Non potrebbe presentarsi diversamente da così. Io non slego le due cose, quello che uno è, mostra". La critica alla Botteri riguarda il lato professionale della giornalista: "Le sue colpe oggettive sono quelle di giudicare il mondo con gli occhi accecati della ideologia falso-sociale, che non guarda o non sa o non vuole guardare alla economia reale". Ovviamente, come riporta Repubblica, in soccorso della Botteri è arrivato il segretario metropolitano del Pd genovese, Alberto Pandolfo: "Chi dovrebbe proteggere le persone, oltre tutto nei momenti in cui sono più esposte e fragili, le attacca sui social: è gravissimo. Come può mancare il rispetto per il prossimo da parte di chi, come frate Bucci, per missione della propria vita, ha scelto il prossimo?".
È VIETATO FARE SATIRA SULLA BOTTERI (TRANNE CHE AI COMICI DI SINISTRA). Giorgio Gandola per “la Verità” il 6 maggio 2020. «Una tragedia di connotati. Con i lineamenti che ricordano il groviglio dei cavi delle cuffiette uscito dalla tasca». Siamo al puro dadaismo, alla descrizione di un Picasso ritrovato, alla pubblicità rifiutata da Tim Cook per il lancio degli AirPods. Soprattutto siamo a novembre 2019 quando Maurizio Crozza travestito da Vittorio Feltri descrive così Giovanna Botteri, la corrispondente Rai da Pechino trasformata dall' isteria del politicamente corretto progressista in madonna pellegrina da issare in processione contro i presunti odiatori di Striscia. Allora non accadde nulla, risatine a denti stretti sul divano dopo un sashimi e prima di una birra artigianale con il Pagante come colonna sonora. L' intellettuale radical chic non si scompose e neppure alzò il sopracciglio allorché Crozza, calcando la mano, aggiunse: «Quando era negli Stati Uniti spalava sterco su Trump, ora che è in Cina non dice una parola sulla dittatura cinese. Forse spera che tra 1,5 miliardi di cinesi ce ne sia uno che abbia il coraggio di darle una bottarella». Oppure, con l' imbarazzo della scelta: «New York è la città che non dorme mai perché lì hanno gli incubi dopo avere visto la Botteri». Ancora niente, nessun sussulto a sinistra di Paperino. La corrispondente piace alla sinistra con le coscienze inquiete e lo stipendio fisso (copyright di Carlo Emilio Gadda). Quando Enrico Letta, Luigi Zanda e gli ex giovani turchi vedono i suoi collegamenti ne rimangono tranquillizzati. La sintesi crozziana è tutt' altro che ironica, il regime cinese è descritto come l' impero del bene esattamente come l' America trumpiana era il male assoluto. Il groviglio dei cavi delle cuffiette. Allora i giornali non ripresero, il Web non s' indignò, il bodyshaming (definizione da depravati anglofili) se ne stette a cuccia perché Crozza non si tocca, quella è satira. E poi La Nove è una tv fricchettona, inventata da Laura Carafoli, pupilla di Carlo Freccero, quindi antropologicamente incapace di odiare. Ci lavorano Daria Bignardi e Chef Rubio, Andrea Scanzi e Roberto Saviano; tutte le sfumature di rosso possibili in natura. Che fai, interrompi un' emozione? Neppure Botteri medesima aprì bocca, non si sa se inorgoglita per la citazione (basta che ne parlino) o impegnata non infastidire i compagni che sbagliano. Per contro Michelle Hunziker conta gli insulti di ritorno e il servizio Mediaset sul look trasandato viene stigmatizzato da autori, giornalisti, sindacalisti (l' Usigrai ha dissotterrato l' ascia di guerra). Si chiede l' intervento dell'azienda, si pretende che l'amministratore delegato Fabrizio Salini prenda cappello. La libertà di stampa, la democrazia in pericolo, la meritocrazia calpestata. Eppure. Eppure basta perdere cinque minuti su YouTube per trovare un' altra chicca. Sempre Crozza, sempre La Nove. Questa volta il comico imita Maurizio Mannoni, infastidito perché una finta Botteri con una parrucca simile a quella di Bruce Willis in Jackal spiega notizie rafferme. «Giovannona, tu avevi senso negli anni Novanta quando non c' era ancora il wifi, cosa ci fai ancora a New York?». Risposta: «Ho casa, mi sono iscritta anche a judo». Nessun fremito sindacale. Nessuna sollevazione contro l' eroica e complessa figura del corrispondente estero. Si sono svegliati tutti quando hanno visto la sagoma di Antonio Ricci nel mirino. Gli stessi che si sono divertiti per 20 anni a massacrare Daniela Santanché e Mara Carfagna oggi ci insegnano che la pettinatura di Giovanna Botteri non va criticata. Karl Lagerfeld direbbe: «La sciatteria iconica più che eleganza è sofferenza». La polemica è ovviamente degna di visagisti in disarmo e diventa virale nei bar del Web, ma tralascia un dettaglio mandato in onda da Striscia: perfino il sacrestano Fabio Fazio ha dato l' ok dal suo pulpito al bodyshaming della giornalista. È l' 8 marzo, Festa della donna, quando Luciana Littizzetto a Che tempo che fa entra a piedi uniti: «Mi piacerebbe che si facesse qualcosa per i capelli di Giovanna Botteri. Sono sempre più verdi, come le madonne con dentro l' acqua benedetta». Ieri Gerry Scotti ha fatto notare: «Strano, nessuno si è scandalizzato, neppure ai vertici della Rai. L' ad Salini non vede Che tempo che fa?». Stando all' indignazione a comando neppure l' Usigrai ha dimestichezza con i programmi mandati in onda sulle reti, a meno che in nome della non belligeranza politica preferisca azzannare quelli di Mediaset. Il cerchio dell' ipocrisia si chiude sempre da Fazio. Dimentico delle stilettate della Littizzetto, domenica il presentatore che piace al Quirinale si collega con lady Botteri, notando che sfoggia una giacca al posto del pullover nero d' ordinanza. Allora, più mellifluo che mai, flauta: «Sei tu che fai elegante la giacca». Una tragedia di connotati, e anche di spine dorsali.
Giovanna Botteri, Striscia la Notizia e il precedente di Luciana Littizzetto: “La Rai non doveva sanzionare Fazio?” Libero Quotidiano il 3 maggio 2020. La faida tra Giovanna Botteri, Michelle Hunziker e Striscia la Notizia ha monopolizzato l’attenzione dei social. Tutto è partito lo scorso 28 aprile, quando il tg satirico di Antonio Ricci ha mandato in onda un servizio in cui si riferiscono le critiche che la corrispondente Rai riceve con l’accusa di essere trasandata e poco attenta al look. Apriti cielo, Striscia viene tacciata di “body shaming” e si difende incredula: “Abbiamo riportato critiche contestandole, era un servizio a favore della Botteri”, è la versione del tg satirico. Che adesso è passato all’attacco tirando fuori un video in cui Luciana Littizzetto a Che tempo che fa scherzava sui capelli della Botteri: “Puntata del 9 marzo. La Rai non doveva sanzionare Fabio?”, si chiedono quelli di Striscia. L’impressione che è questa faida è destinata ad andare avanti ancora per un po’.
Marco Leardi per davidemaggio.it il 3 maggio 2020. “Povera Veronica Gentili sembra isterica, sembra balorda o forse lo è, smetta di bere“. Parola offensive, spiacevoli da leggere. Tanto più perché scritte da un giornalista di assoluto calibro come Vittorio Feltri. Ieri sera, il direttore editoriale di Libero si è accanito contro la conduttrice di Rete4 con una serie di tweet pubblicati durante la messa in onda di Stasera Italia Weekend, il programma da lei presentato. La raffica di commenti sparata da Feltri non necessita di interpretazioni. Queste le parole del direttorissimo:
“Povera Veronica Gentili sembra isterica, sembra balorda o forse lo è, smetta di bere”.
“Povera Veronica Gentili, mi fa pena, mi sembra balorda: si vede che beve per darsi coraggio”.
“Veronica Gentili che mestiere fa a Rete 4, la valletta? Non ha il fisico”.
Tra il giornalista e la conduttrice i rapporti si erano irreparabilmente incrinati dopo che, quest’ultima, in un discusso fuori onda trasmesso da Striscia La Notizia, aveva dato dell’ubriaco al direttore editoriale di Libero. Da parte sua, Feltri, nonostante le scuse della collega, se l’era legata al dito e le esternazioni aggressive di ieri ne sono la riprova. Nei giorni scorsi, Veronica Gentili aveva criticato le recenti affermazioni del giornalista bergamasco sui meridionali ed aveva escluso la possibilità di ospitarlo nuovamente a Stasera Italia Weekend. “Dopo il nostro scazzo epico, dopo il fuorionda, dopo che lui si è comportato molto male con me, direi che stiamo bene ognuno per la sua strada. Io non sono abituata a parlare di lui, lui spesso parla di me, ma va bene così“ aveva detto la Gentili nel corso di una diretta Instagram. Ieri, la nuove e ineleganti bordate a distanza di Feltri.
Striscia la Notizia bombarda ancora Giovanna Botteri: "Una serie di cazzate", quel pesantissimo fuorionda della Gruber. Libero Quotidiano il 06 maggio 2020. Toh, a Striscia la Notizia ci si occupa ancora di Giovanna Botteri. Già, si continua a parlare delle accuse contro il tg satirico di Canale 5, che avrebbe "maltrattato" l'inviata della Rai (tesi smentita dalla stessa Striscia, e con buoni argomenti, ma tant'è). E come nel dna della trasmissione e di Antonio Ricci, non si arretra di un millimetro. Infatti nell'edizione di martedì 5 maggio, come detto, la Botteri è tornata al centro delle attenzioni di Valerio Staffelli. Ma da un differente punto di vista: si è infatti parlato della risaputa e stagionatissima rivalità con Lilli Gruber, la conduttrice di Otto e Mezzo su La7 che ha alle spalle però un lungo passato in Rai, la stessa Rai di Giovanna Botteri. E così Striscia la Notizia, dalle schermaglie ai fuorionda e fino alle differenti versioni di medesimi fatti, ripercorre la rivalità tra le due (ovviamente, con un occhio anche alle scelte di stile, al look insomma). E Striscia rispolvera anche un durissimo fuorionda della Gruber: "Sì, ma dice una serie di cazzate... tra lei e la Botteri che dice da giorni che ci sono migliaia di feriti negli ospedali...". Già, una rivalità di vecchissima data.
Striscia la Notizia, l'inviato al fronte con la Botteri e Lilli Gruber? Rivelazioni pesantissime su lady Otto e Mezzo. Libero Quotidiano l'8 maggio 2020. Pace fatta tra Striscia la Notizia e Giovanna Botteri. Eppure il tg satirico di Canale 5 continua ad occuparsi dell'inviata Rai. O meglio, della storica e ferocissima rivalità con Lilli Gruber, due giornaliste agli antipodi, che in carriera si sono incontrate diverse volte e - ammettiamolo - non si sono mai sopportate. Così, nella puntata trasmessa su Canale 5 giovedì 7 maggio, ecco che l'inviato di Striscia la Notizia Moreno Morello intervista Maurizio Crovato, giornalista e inviato di guerra, che nel corso della sua carriera si è torvato negli stessi scenari in cui lavoravano, appunto la Gruber e la Botteri. E Crovato offre una testimonianza interessante circa la rivalità tra le due colleghe e, soprattutto, sul diverso approccio al lavoro delle due. E ad uscirne peggio è proprio Lilli Gruber, lady Otto e Mezzo, "arroccata" nell'hotel a sei stelle...
Giada Oricchio per iltempo.it il 7 maggio 2020. Il caso Botteri-Striscia la Notizia si chiude con la risposta ecumenica della giornalista Rai al tg satirico: "Non dobbiamo fare pace perché non abbiamo mai litigato". Dopo il servizio del 28 aprile in cui Striscia prendeva in giro il look di Giovanna Botteri per difenderla dalle critiche sui social, gli haters si sono scatenati contro Michelle Hunziker con commenti osceni e minacce. Il tg di Antonio Ricci ha rispedito al mittente l'accusa di bodyshaming verso la Botteri parlando di vicenda paradossale, mentre la conduttrice svizzera ha lanciato un appello via Instagram alla stessa inviata Rai: "Guarda il servizio e dimmi cosa ne pensi. Hanno detto che ti volevamo offendere, ma è falso, ti volevamo difendere". Oggi, Giovanna Botteri ha risposto con un videomessaggio che archivia una volta per tutte la querelle: "Cara Michelle, io non sono sui social, né su Facebook, né su Instagram, poi qui in Cina è molto difficile collegarsi, così c’è voluto del tempo prima che vedessi il tuo video e ti rispondo solo adesso: per fortuna non dobbiamo fare la pace, perché non abbiamo mai fatto baruffa, non abbiamo mai litigato, neanche con Striscia la Notizia e Gerry Scotti. Perché la satira è libertà ci aiuta a ridere, a discutere, a confrontarsi e a volte mette modelli differenti di donne e uomini a confronto, per esempio nei modi diversi di approcciarsi alla vita. Quindi io vi ringrazio, di cuore e non posso che abbracciarvi e augurare a Michelle tutto il bene possibile". Felice per la testimonianza che li "scagiona", Michelle Hunziker e Gerry Scotti si sono levati un ultimo sassolino dalla scarpa: "Prima di andare avanti, vediamo cosa pensa un esperto di quello che hanno detto e scritto giornalisti, opinionisti e leoni da tastiera" e hanno mandato in onda l'intramontabile "Che figura di merda storica" di Emilio Fede.
Riceviamo e pubblichiamo da “Striscia la notizia” il 30 maggio 2020. Caro Dago, antefatto: sul Venerdì di Repubblica del 15 maggio scorso Filippo Ceccarelli ha scritto un commento sulla vicenda Striscia/Hunziker/Botteri. Noi di Striscia, volendo chiarire come sono andati i fatti, smentire le bufale circolate e mettere la parola fine a una vicenda a dir poco grottesca, decidiamo di mandare una replica. Oggi, venerdì 29, la nostra lettera viene pubblicata. Peccato però che sia stata rimaneggiata da una furba manina: un taglietto qui, una sforbiciatina là e zac, il gioco è fatto! La replica di Striscia che va in stampa diventa praticamente incomprensibile, rendendo così vano il nostro tentativo di fare chiarezza ai lettori del settimanale di Repubblica. E questa non è solo che l’ultima di una lunga serie di mistificazioni e manipolazioni che da sempre il gruppo Repubblica Espresso attua nei confronti di Striscia. Noi però non ci arrendiamo, eccovi quindi la lettera originale integrale e quella che è stata pubblicata da Il Venerdì. Giudicate voi.
La versione originale di “Striscia la notizia”: Gentile Filippo Ceccarelli, “lo spensieratino servizio di Striscia”, come scrive lei su Il Venerdì, purtroppo è stato trasformato nella bufala del cosiddetto “vergognoso attacco di Striscia a Giovanna Botteri”. E questo per colpa dei tanti che, invece di guardare il servizio andato in onda, si sono dati da fare nel commentarlo “per sentito dire”. Sulla bufala è partita una indegna gazzarra nei confronti della povera Michelle Hunziker. Migliaia di insulti, auguri di morte compresi, a Michelle e alla sua famiglia, postati sui social dai cosiddetti “leoni da tastiera”, con l’aggravante che molti dei più volgari arrivassero proprio da donne che, paradossalmente, accusavano la Hunziker di offendere una donna. Ed è questo il motivo per il quale noi, “apprezzati professionisti della punzecchiatura” - come scrive lei - abbiamo condiviso il video in cui Michelle chiedeva direttamente a Giovanna Botteri una parola per fermare il massacro di cui era vittima. Non una bella storia, c’è da dire, ma che per fortuna ha avuto un lieto fine con il video messaggio di Giovanna Botteri”.
La versione pubblicata su Il Venerdì: Gentile Filippo Ceccarelli, «lo spensieratino servizio di Striscia», (Venerdì 15 maggio) è stato trasformato nella bufala del «vergognoso attacco di Striscia a Giovanna Botteri». Ed è questo il motivo per il quale noi, «apprezzati professionisti della punzecchiatura» abbiamo condiviso il video in cui Michelle, attaccata pesantemente sui social, chiedeva direttamente a Giovanna Botteri una parola per fermare il massacro. L’ufficio stampa di Striscia la notizia
Striscia e il caso-Botteri, attacco a Salini. Striscia la Notizia, caso-Botteri: "Figuraccia di Salini", la bomba di Gerry Scotti sull'ad della Rai. Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. Continua la guerra, freddissima e piuttosto feroce, tra Striscia la Notizia e Giovanna Botteri, con il tg satirico di Canale 5 accusato di "body shaming" per un servizio sul look dell'inviata della Rai in Cina. Servizio che in verità sembrava piuttosto innocuo. Eppure, ha sollevato un polverone. E la battaglia continua con le parole di Gerry Scotti e un ulteriore servizio, in cui si ricorda come lo scorso 8 marzo, dunque pochissime settimane fa, a Che tempo che fa su Rai 2, il programma di Fabio Fazio, la comica Luciana Littizzetto nel corso di un suo monologo avesse parlato in termini "poco lusinghieri" dei capelli proprio della Botteri. Un po' come ha fatto Striscia. Satira: per Striscia e per la Littizzetto. Eppure, sottolinea il tg di Antonio Ricci in un servizio trasmesso lunedì 4 maggio, per le parole della Littizzetto non si era scandalizzato nessuno, "neppure l'ad della Rai, Fabrizio Salini". E non a caso, il titolo del servizio proposto da Striscia mira proprio ai vertici di Viale Mazzini: "La figuraccia dell'Ad Rai Salini". E la battaglia continua.
Striscia la Notizia, Staffelli e il servizio-bomba su Giovanna Botteri: "Per chi lavora sua figlia", conflitto di interessi? Libero Quotidiano il 04 maggio 2020. Se Gerry Scotti elogia Giovanna Botteri, a Striscia la Notizia arrivano colpi duri ai sostenitori della giornalista corrispondente Rai: "Ieri hai passato momenti terribili con la tua famiglia. Sei stata tirata in ballo tu, tua figlia", ha ricordato Gerry rivolto a Michelle Hunziker, cheha confermato: "Una bella violenza". Insomma, le accuse di bodyshaming contro la Botteri per un servizio sul suo look trasandato dello scorso 28 aprile si sono clamorosamente ribaltate. La vittima sarebbe Michelle. Ma non finisce qui. Oltre al Gabibbo (che ha stigmatizzato il "clima d'odio" contro Striscia), Antonio Ricci ha schierato anche il suo inviato Valerio Staffelli, che riprende il senso di una lettera inviata qualche ora prima a Dagospia e poi messa offline dallo stesso sito di Roberto D'Agostino. Il contenuto è pesante: si insinua un possibile conflitto d'interessi della Botteri, corrispondente da Pechino, e sua figlia che lavora per un'azienda di Stato cinese. E Mister Tapiro non ha risparmiato critiche alla qualità delle corrispondenze della giornalista, per così dire un po' "telefonate". La guerra continua, e anzi sembra entrata nel vivo.
La vita in diretta, Giovanna Botteri: "Credo sia il nostro dovere". Striscia la Notizia? Non proprio, grossa sorpresa. Libero Quotidiano il 05 maggio 2020. Prosegue la querelle che vede contrapposti Striscia la Notizia e Giovanna Botteri per il servizio del tg satirico critico circa il look dell'inviata Rai in Cina. E in questa querelle, a sorpresa, si inserisce anche La Vita in Diretta, il programma di Lorella Cuccarini e Alberto Matano del pomeriggio su Rai 1. Infatti nella puntata trasmessa lunedì 4 maggio la trasmissione ha dedicato alla Botteri una copertina celebrativa: "Oggi abbiamo deciso di dedicarla a una giornalista che da anni ci racconta il mondo, ma negli ultimi tempi ci ha raccontato la Cina. E’ un’amica nostra e di tutti noi qui a La Vita in Diretta, anche perché ogni giorno ci regala una cartolina da Pechino, simbolo di rinascita e di speranza. E lo vogliamo fare oggi perché oggi per noi è un po’ una ripartenza. Lei è Giovanna Botteri", spiegavano su Rai 1. Il punto è che la Botteri, come ogni giorno, era in collegamento proprio con la trasmissione. Così, quando ha preso parola, ha spiegato: "Credo che in questo momento così difficile, questo sia il nostro dovere, il nostro lavoro. Noi siamo sempre servizio pubblico, la gente questo si aspetta da noi, non che ci mettiamo a dormire e a lamentarci (…) Tutti quanti noi in Rai stiamo cercando di fare proprio questo, cercare di dare il possibile perché tutti quanti a casa in questi momenti difficili sappiano e abbiano accesso a tutte le informazioni", ha concluso. Insomma, nessun riferimento esplicito a Striscia la Notizia.
Giovanna Botteri. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giovanna Botteri (Trieste, 14 giugno 1957) è una giornalista italiana. Figlia del giornalista Guido Botteri, ex direttore della sede Rai Friuli-Venezia Giulia, e di madre montenegrina, si laurea in Filosofia con il massimo dei voti all'Università degli Studi di Trieste, ottenendo poi un dottorato in Storia del cinema alla Sorbonne di Parigi.
Carriera. Dopo aver collaborato nel 1983 con i giornali Il Piccolo e l'Alto Adige, nel 1985 inizia a lavorare per la Rai di Trieste, prima alla radio e poi alla televisione. Nel maggio 1986 fa uno speciale con Margherita Hack per Rai 3, poi diventa collaboratrice di Michele Santoro per il programma Samarcanda e nel dicembre 1988 entra nella redazione esteri del TG3. Dal 25 gennaio 1990 è iscritta come professionista all'Albo dei Giornalisti del Friuli-Venezia Giulia. Come inviata speciale ha seguito numerosi e importanti avvenimenti internazionali: nel 1991 il crollo dell'Unione Sovietica e l'inizio della guerra d'indipendenza in Croazia, dal 1992 al 1996 la guerra in Bosnia e l'assedio a Sarajevo dove, assieme a Miran Hrovatin, ha filmato l'incendio della Biblioteca Nazionale, la strage del pane, il massacro di Markale e il massacro di Srebrenica. È stata in Algeria, Sudafrica, Iran e Albania, dove ha seguito la ribellione a Valona nel 1997, per poi documentare la guerra in Kosovo ed entrare a Peć assieme all'esercito italiano nel 1999. Nello stesso anno torna a lavorare con Santoro per Circus e nel 2000 per Sciuscià. Dopo aver seguito il G8 di Genova nel 2001, è stata in Afghanistan fino al rovesciamento del regime talebano e, come inviata di TG2 e TG3, in Iraq prima e durante la seconda guerra del golfo. Nell'ottobre 2002 ha seguito le ispezioni ONU alle prigioni e, assieme a Guido Cravero, ha filmato in esclusiva mondiale sia l'inizio dei bombardamenti su Baghdad il 20 marzo 2003, sia l'arrivo dei carri armati statunitensi il 9 aprile. Dal 2004 al 2006 ha condotto l'edizione delle 19 del TG3 e dal 2007 al 2019 è stata corrispondente dagli Stati Uniti. Dal primo agosto 2019 è corrispondente Rai in Cina. Da fine dicembre 2019 si occupa, sempre come inviata dalla Cina, della pandemia nota come COVID-19, causata dal virus SARS-CoV-2.
Vita privata. Ha una figlia, nata dalla relazione con Lanfranco Pace, dal quale si è poi separata.
Chi è Giovanna Botteri: carriera, marito e figli. Giovanna Botteri è una fra le giornaliste più amate e apprezzate, scopriamo la sua vita privata e carriera. Dilei.it il 4 maggio 2020. Giornalista di successo e grande firma, Giovanna Botteri è un nome molto noto del giornalismo. Classe 1957 ed è la figlia di Guido Botteri, ex direttore della Rai a Trieste. Da lui ha ereditato la grande passione per la scrittura e la voglia di viaggiare e raccontare il mondo. Dopo la laurea in Filosofia è volata a Parigi, dove ha conseguito un dottorato in Storia del cinema alla Sorbonne. Nella prima metà degli anni Ottanta ha iniziato a conquistare il mondo del giornalismo, lavorando presso alcune testate locali italiane. La sua vita è cambiata per sempre nel 1985 quando Michele Santoro ha notato il suo grande talento, in seguito Giovanna Botteri è approdata in Rai dove ha iniziato a lavorare nella redazione Esteri. Con il tempo, grazie alla sua bravura e alla passione, è diventata uno dei volti principali della Rai. La sua lunga carriera l’ha portata a lavorare in diverse zone del mondo, raccontando crisi e guerre. Giovanna Botteri è stata in Kosovo, in Afghanistan e in Iraq, dove ha dimostrato sempre la sua grande professionalità. Nel 2006 si è trasferita a New York come corrispondente dagli Stati Uniti, mentre nel 2019 è volata in Cina, dove si trova ancora oggi. “Non sono nata con il pallino del giornalismo e volevo far altro rispetto a mio padre – ha raccontato a Sorrisi e Canzoni Tv -. Mi sono laureata in Filosofia, ho preso un dottorato alla Sorbona di Parigi. L’unica cosa che ho fatto sempre è stata scrivere. In Francia ho iniziato a mandare articoli ai giornali locali e i primi programmi da precaria”. “Poi sono arrivata a Roma, nella Raitre di Sandro Curzi e Angelo Guglielmi, quando si sperimentava una tv diversa – ha aggiunto -. Essendo di Trieste, Curzi mi ha mandato a seguire la guerra in Jugoslavia. Mi ha detto: “Vai e racconta quello che vedi”. Così ho iniziato e poi ho continuato: Iraq, Afghanistan, Algeria, Kosovo. Per fortuna ho riportato sempre a casa la pelle!”. Nonostante sia un volto pubblico, della vita privata di Giovanna Botteri non si sa molto. L’unica certezza è che è stata legata a Lanfranco Pace, giornalista inglese da cui ha avuto la figlia Sarah Ginevra Paci. “Mia figlia Sara è venuta con me a New York e a trovarmi in Cina a ottobre, quando mi sono trasferita – ha svelato -. Sarebbe dovuta tornare a marzo. Per ora non ho molta vita sociale. Lavoro come una matta e quando finisco ne approfitto per dormire e recuperare. La solitudine è abbastanza forte. Lavoro tanto e cerco di non pensarci, anche se pesa”.
Giovanna Botteri, chi è la giornalista Rai finita nel mirino delle critiche di Striscia la Notizia. Clarissa Valia Pubblicato il 4 Maggio 2020 su TPI. Giovanna Botteri, protagonista di una delle tavole del Calendesercito 2006. Il calendario dedicato ai protagonisti del nuovo esercito è articolato con una prefazione del Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, generale di Corpo d'Armata Filiberto Cecchi, e in 12 tavole che riportano fotografie e testimonianze di giornalisti professionisti, corrispondenti delle reti televisive nazionali.
Giovanna Botteri chi è la giornalista Rai finita nel mirino delle critiche. Giovanna Botteri (62 anni) è salita agli onori della cronaca degli ultimi giorni per il servizio di Striscia la Notizia andato in onda il 28 aprile in cui si dava conto degli attacchi ricevuti sui social dalla giornalista Rai dalla Cina per il look con cui si presenta in video, a detta di alcuni “trascurato”. L’episodio è stato considerato da molti un caso di body shaming.
La risposta di Giovanna Botteri. Giovanna Botteri da Pechino ha risposto alle critiche ricevute con una lettera aperta: “Mi piacerebbe che l’intera vicenda prescindendo completamente da me, potesse essere un momento di discussione vera, permettetemi, anche aggressiva, sul rapporto con l’immagine che le giornaliste, quelle televisive soprattutto, hanno o dovrebbero avere secondo non si sa bene chi. Qui a Pechino sono sintonizzata sulla Bbc, considerata una delle migliori e più affidabili televisioni del mondo. Le sue giornaliste sono giovani e vecchie, bianche, marroni, gialle e nere. Belle e brutte, magre o ciccione. Con le rughe, culi, nasi orecchie grossi. Ce n’è una che fa le previsioni senza una parte del braccio. E nessuno fiata, nessuno dice niente, a casa ascoltano semplicemente quello che dicono. Perché è l’unica cosa che conta, importa e ci si aspetta da una giornalista”. “A me piacerebbe che noi tutte spingessimo verso un obiettivo, minimo, come questo. – continua Giovanna Botteri – Per scardinare modelli stupidi, anacronistici, che non hanno più ragione di esistere. Non vorrei che un intervento sulla mia vicenda finisse per dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non la meritano. Invece sarei felice se fosse una scusa per discutere e far discutere su cose importanti per noi, e soprattutto per le generazioni future di donne”. Dopo la lettera di replica, la già pluripremiata giornalista ha ricevuto moltissime attestazioni di stima. Ma vediamo nel dettaglio chi è Giovanna Botteri. Nata il 14 giugno 1957 a Trieste, la giornalista è figlia dell’ex direttore della sede Rai a Trieste, Guido Botteri. Ed è proprio dal papà che Giovanna Botteri ha ereditato la passione per questo mestiere. Dopo il diploma, si laurea in Filosofia con il massimo dei voti all’Università degli Studi di Trieste, ottenendo poi un dottorato in Storia del cinema alla Sorbonne di Parigi.
Giovanna Botteri carriera giornalistica. Durante la prima metà degli anni Ottanta Giovanna Botteri ha iniziato a collaborare con i giornali locali Il Piccolo e l’Alto Adige. Alla Rai approda nel 1985 quando inizia a lavorare per la sede di Trieste, prima alla radio e poi alla televisione. Nel maggio 1986 fa uno speciale con l’astrofisica e divulgatrice scientifica italiana Margherita Hack per Rai 3, poi diventa collaboratrice di Michele Santoro per il programma Samarcanda e nel dicembre 1988 entra nella redazione esteri del TG3. Dal 25 gennaio 1990 è iscritta come professionista all’Albo dei Giornalisti del Friuli-Venezia Giulia.
Giovanna Botteri inviata. Come inviata speciale Giovanna Botteri ha seguito numerosi e importanti avvenimenti internazionali: nel 1991 il crollo dell’Unione Sovietica e l’inizio della guerra d’indipendenza in Croazia, dal 1992 al 1996 la guerra in Bosnia e l’assedio a Sarajevo dove, assieme a Miran Hrovatin, ha filmato l’incendio della Biblioteca Nazionale, la strage del pane, il massacro di Markale e il massacro di Srebrenica.
Giovanna Botteri. Botteri è stata in Algeria, Sudafrica, Iran e Albania, dove ha seguito la ribellione a Valona nel 1997, per poi documentare la guerra in Kosovo ed entrare a Peć assieme all’esercito italiano nel 1999. Sempre nel 1999 è tornata a lavorare con Michele Santoro per Circus e nel 2000 per Sciuscià. Dopo aver seguito il G8 di Genova nel 2001, è stata in Afghanistan fino al rovesciamento del regime talebano e, come inviata di TG2 e TG3, in Iraq prima e durante la seconda Guerra del Golfo. Nell’ottobre 2002 ha seguito le ispezioni ONU alle prigioni e, assieme a Guido Cravero, ha filmato in esclusiva mondiale sia l’inizio dei bombardamenti su Baghdad il 20 marzo 2003, sia l’arrivo dei carri armati statunitensi il 9 aprile. Dal 2004 al 2006 ha condotto l’edizione delle 19 del TG3 e dal 2007 al 2019 è stata corrispondente dagli Stati Uniti. Dal primo agosto 2019 è corrispondente Rai in Cina. Da fine dicembre 2019 si occupa, sempre come inviata dalla Cina, della pandemia del Coronavirus.
Giovanna Botteri vita privata: marito e figli. La giornalista Giovanna Botteri è da sempre una persona molto riservata. L’ex marito è il giornalista britannico naturalizzato italiano Lanfranco Pace, con il quale ha avuto una figlia Sarah Ginevra Paci, manager per un’importante azienda italiana.
La risposta di Michelle Hunziker agli attacchi. “Dicono che noi abbiamo offeso pesantemente una giornalista che si chiama Giovanna Botteri – ha detto Michelle Hunziker in un video -. Cosa assolutamente non vera perché noi di Striscia abbiamo mandato in onda un servizio a favore di questa giornalista, dicendo che tanti media e molti social l’hanno presa in giro per il suo look e invece noi prendiamo atto del fatto che si è fatta un’ottima messa in piega. Questo non è attaccare una persona, ma rimanere nei toni di Striscia come sempre e soprattutto non è body shaming. Cerchiamo di andare a vederle bene le cose prima di accusare”.
La risposta di Striscia la Notizia. La redazione di Striscia la Notizia ha scritto una lettera di risposta per difendersi dall’accusa di aver fatto body shaming nei confronti della corrispondente Rai dalla Cina. Questa la lettera di Striscia la notizia sul caso Giovanna Botteri, pubblicata in anteprima da Dagospia: Caro Dago, ecco un esempio di fake news. Striscia fa un servizio a favore di Giovanna Botteri, ma molti commentatori che esprimono opinioni per sentito dire, nonché Ilfattoquotidiano.it, scrivono che ce la siamo presa con lei. Diciamo subito che per non cadere nell’errore sarebbe bastato ascoltare il rientro in studio di Gerry Scotti: “Brava, brava Giovanna, vai avanti così nel tuo importante lavoro e non badare a chi sta a guardare il capello…”. Dopo il servizio andato in onda nella puntata di Striscia il 28 aprile scorso, dove si dava conto della fresca messa in piega dell’ottima Giovanna Botteri, siamo stati accusati di aver fatto volgare ironia sul suo aspetto fisico. In realtà è da tempo che su alcuni media e nei social Giovanna Botteri viene presa di mira per il suo look, a detta di molti non particolarmente curato. E il servizio di Striscia, partiva proprio da questo per mostrare come Giovanna nell’ultimo collegamento da Pechino avesse sfoggiato una nuova pettinatura, quasi a smentire le critiche malevole piovutele addosso. Insomma, parliamo di cose serie e certamente il bodyshaming lo è e va combattuto con ogni mezzo, ma non confondiamolo con una messa in piega.
Dal ''Corriere della Sera'' il 24 giugno 2020. Siamo costrette a intervenire a proposito dell' intervista di Aldo Cazzullo a Antonio Ricci ( Corriere , 21 giugno), poiché di nuovo tirate in causa sul caso-Botteri. «Pompati da Fnsi, Usigrai e GiULiA Giornaliste - dichiara Ricci -, centinaia di sinceri democratici si sono lanciati in insulti e minacce di morte verso Michelle Hunziker e sua figlia». Smentiamo questa ricostruzione, oltretutto offensiva. È grave che Ricci ci addossi una qualche responsabilità per gli attacchi a Michelle Hunziker (alla quale va il nostro sostegno). Nella nota di solidarietà a Giovanna Botteri vittima di body shaming - a cui Ricci si riferisce - firmata dalle Commissioni pari opportunità di Fnsi, Usigrai, Ordine dei giornalisti insieme all' associazione GiULiA giornaliste, non viene fatto cenno alcuno a «Striscia la notizia» (né ad altri), nascendo la nostra preoccupazione dal linguaggio d' odio scatenato in rete. E nonostante lo avessimo già ribadito direttamente a Ricci, «Striscia» ha continuato per alcune sere a indicarci come sobillatrici e propalatrici di fake news. Abbiamo fatto male a non cercare ulteriore replica, magari di fronte a una telecamera? Forse. Non volevamo alimentare una polemica che non ci interessa, poiché siamo al contrario impegnate contro il linguaggio d' odio della rete e contro le fake news che colpiscono l' informazione e in particolare le giornaliste, con un progetto insieme a «Vox - Osservatorio sui diritti», così come con la «Rete nazionale per il contrasto ai linguaggi e ai fenomeni d' odio». Mimma Caligaris, presidente Cpo Fnsi, Monica Pietrangeli, coordinatrice Cpo Usigrai, Paola Dalle Molle, coordinatrice Cpo CnOG, Silvia Garambois, presidente ass. GiULiA giornaliste.
Dal ''Corriere della Sera'' il 24 giugno 2020. Caro Direttore, siamo costretti a intervenire a proposito della replica di Mimma Caligaris, presidente Cpo Fnsi, Monica Pietrangeli, coordinatrice Cpo Usigrai, Paola Dalle Molle, coordinatrice Cpo CnOG, Silvia Garambois, presidente ass. GiULiA giornaliste all'intervista di Aldo Cazzullo ad Antonio Ricci (Corriere della Sera, 21 giugno). Loro smentiscono la ricostruzione dei fatti ritenendola oltretutto offensiva, noi la ribadiamo, ritenendoci oltremodo offesi dalla loro smentita. Sin dai primi giorni delle polemiche abbiamo contestato a Fnsi, Usigrai e GiULiA giornaliste il fatto che avendo dato credito (senza peritarsi di verificare la cosa) alla fake news dell'attacco di Strisci a Giovanna Botteri, e grazie alla loro riconosciuta autorevolezza, avessero in qualche modo legittimato l'indegna gazzarra scatenata da giornalisti, commentatori e cosiddetti «leoni da tastiera» contro Michelle Hunziker. Per fare immediatamente chiarezza, senza equivoci, sarebbe bastato che le solerti paladine del politicamente corretto avessero chiarito pubblicamente che tutta la vicenda era stata costruita su una bufala. Invece, a rompere l'assordante silenzio, arrivò il tweet di Tiziana Ferrario, una delle fondatrici dell'associazione GiULiA giornaliste, che «cinguettò» così: «Hunziker hai 43 anni sei una donna matura e ti comporti come un'oca. Non si pigliano in giro gli altri. Si chiama bullismo. Pensa, prima di leggere quello che gli autori ti scrivono. Chiedi scusa a Giovanna Botteri e cresci. È ora!». Davvero un bel modo di «non alimentare una polemica» e rispettare il punto 10 del Manifesto di Venezia delle GiULiA giornaliste, sottoscritto dalla Ferrario stessa nel 2017 che, lo ricordiamo, recita «obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitare: espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell'identità e della dignità femminili». Insomma, invece che prendersela con Striscia , che però ha le spalle ben larghe dopo oltre 30 anni di battaglie contro le fake news e le omertose omissioni della categoria, e numerosi Tapiri Giganti consegnati già imbavagliati alla Fnsi, una tra le più autorevoli Giovanne d'Arco «...da sempre impegnate contro il linguaggio d'odio...» pensò bene di dare della decerebrata a Michelle Hunziker. Ma non è tutto. Sempre nello stesso periodo venne fuori che da un gruppo di giornaliste autrici del libro. Ai tempi del virus, cento voci tra sentimenti e realtà (Edizioni All Round), era partita la richiesta di eliminare il contributo che l'editore aveva chiesto a Michelle Hunziker in virtù del suo impegno con l'associazione Doppia Difesa. Alla nostra richiesta di chiarimenti all'Usigrai, noi contrariamente a loro le notizie le verifichiamo, seguì un imbarazzato e imbarazzante silenzio. Ma, evidentemente, qualcuna si deve essere preoccupata, visto che pur non smentendo la notizia dell'odiosa proscrizione, la Hunziker è stata poi riassunta nel paradiso dei giusti e il libro è andato in stampa con anche il suo contributo. Per concludere, ci fa piacere che almeno oggi, a quasi due mesi dall'accaduto, venga espressa solidarietà a Michelle, ma restiamo fortemente convinti che una strumentale intempestività abbia favorito lo squallido spettacolo andato in scena.
Faziosa (a spese degli italiani) La Botteri leader anti Trump. Ogni giorno le cronache distorte della realtà Usa sulla tv di Stato. La giornalista non nasconde le sue simpatie. Redazione de Il Giornale Mercoledì 01/02/2017. M a perché i cittadini italiani sono obbligati a pagare il canone Rai, e quindi lo stipendio della corrispondente da New Yo\rk Giovanna Botteri (200mila euro all'anno più benefit), per sentire ogni giorno la cronaca politica distorta dalla faziosità? Una bella domanda. Ma questo è il new deal della giornalista triestina, che da sette anni dispensa la sua verità dagli Stati Uniti. La 59enne a capo della redazione Rai della metropoli americana è sbarcata negli Usa nel 2007, giusto in tempo per seguire la campagna elettorale per la Casa Bianca e incensare il primo presidente afroamericano Barack Obama. Nulla da eccepire sulla carriera e le capacità della giornalista, ma di sicuro è discutibile la sua sfacciata parzialità, con cui ha illuminato i telespettattori con suoi servizi, spargendo veleno su ogni iniziativa del partito repubblicano, in particolare sul nuovo inquilino della Casa Bianca Donald Trump, e spalmando invece miele e salamelecchi sulla politica di Obama e sulla candidata trombata alla Casa Bianca Hillary Clinton. Povera Giovanna, quanto ha sofferto nella lunga notte americana quando dalle urne è emerso che Trump era il nuovo presidente. Lei che per mesi ci aveva descritto il nuovo leader come un buzzurro, razzista e xenofobo. Lei che aveva sostenuto che la Clinton avrebbe vinto a mani basse la corsa, affermando che gli americani non avrebbero mai eletto uno come Trump. Ma ha preso un buco gigantesco, il suo livore non ha influenzato il voto degli americani, ma solo il pensiero dei poveri italiani che pagano il canone. Essì, perché il magnate americano ha vinto contro ogni aspettativa e la Botteri, con tutta la Rai, hanno puntato sul candidato sbagliato, accecati dalla propria intolleranza e sviati dai sondaggi e dalle campagne dei media americani che ripetevano: «Uno come Trump non potrà mai diventare presidente». E la nostra Giovanna che cosa ha fatto? Non potendo fare finta di niente, ha deciso di proseguire col suo tormentone sul Trump razzista e sessista, condendo il tutto con le sue menate sulla democrazia. «Nella New York democratica non doveva succedere», ha declamato in diretta. La linea non cambia. Il fatto che Trump abbia vinto democraticamente è un dettaglio insignificante. Per la Botteri, come per molti esponenti illuminati della sinistra nostrana, se un avversario inviso vince, la democrazia non funziona. E dopo la disfatta di Hillary la corrispondente ha addirittura volato alto: «Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta e unita contro un candidato... che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana?». E brava Giovanna, non solo si è vantata che i media debbano influenzare il voto ma si è pure rammaricata che non riescano a farlo. Ma la Botteri non si è arresa e da tre mesi continua a condire la cronaca americana con le sue bugie. Il culmine l'ha raggiunto un paio di settimane fa, quando ha infilato tre balle in un solo servizio. La prima, quando ha detto che Trump, durante la sua prima conferenza stampa ufficiale ha attaccato personalmente un giornalista. Falso, ha solo detto a un reporter della Cnn che non voleva rispondere alle sue domande. La seconda, quando ha affermato che Rex Tillerson, nuovo segretario di Stato, «è notoriamente amico della Russia». Falso. Tillerson, durante l'audizione al Congresso, ha chiarito che essendo imprenditore ha fatto affari con imprese russe. La terza, sempre su Tillerson, ha stravolto a suo uso e consumo la risposta del segretario di Stato al Congresso. Alla domanda se considerasse Putin un criminale di guerra, secondo la Botteri Tillerson avrebbe risposto «No». Falso, Tillerson ha detto (basta verificare il video in lingua originale): «Non userei quel termine» e «dovrò raccogliere più informazioni per consigliare il presidente». Nessuno sia tratto in inganno, non è uno scivolone ma pura volontà di mentire agli ascoltatori. Che la pagano pure.
Margherita Conte per il Giornale il 3 gennaio 2018. Giovanna Botteri è finita al centro delle polemiche per una frase contro Donald Trump pronunciata in diretta a Linea Notte al Tg3. La corrispondente della Rai da New York è intervenuta nella trasmissione televisiva Linea Notte. Interpellata dal conduttore Maurizio Mannoni sulle proteste che in questi giorni stanno sconvolgendo l'Iran, una frase della giornalista ha colpito i telespettatori più di altre. "La reazione negli Stati Uniti - inizia la Botteri - che in qualche modo, anche se indirettamente, sono protagonisti della crisi perché è l'America di Trump che ha deciso di togliere le ultime speranze a quei giovani iraniani dicendo che quell'accordo di pace, quella prospettiva di pace, di togliere le sanzioni era finita". L'affermazione della giornalista, che getta parte della responsabilità sulla politica di Trump, ha fatto infuriare molti telespettatori che, su Twitter, hanno sfogato la loro rabbia. "Mi consenta, si consulti con uno psicologo. Lei è ossessionata da Donald Trump - scrive Paolo - E se piove è colpa di Trump, se non piove è colpa di Trump, se fa caldo è colpa di Trump, se fa freddo è colpa di Trump. Lei non sta bene, sul serio". "Anche oggi Giovanna Botteri si è guadagnata la giornata come ambasciatrice di #Kim #Jong-Un a viale Mazzini", continua Massimiliano. "Ma una raccolta di firme per buttare fuori la Botteri dalla Rai è possibile?", chiude perentorio Andrea.
Rai, Giovanna Botteri mastica amarissimo: non solo l'addio a New York, ecco chi prende il suo posto. Davide Locano su Libero Quotidiano il 07 aprile 2019. Dell'addio di Giovanna Botteri a New York ce ne siamo già ampiamente occupati. In sintesi, la nuova Rai sovranista ha deciso di sollevarla dall'incarico e di mandarla a Pechino, in Cina. Basta servizi tagliatissimi contro Donald Trump, insomma. Per lei una nuova avventura nella terra del Dragone. Ma ora, sull'avvicendamento, emergono ulteriori dettagli riportati da Italia Oggi. Il quotidiano per prima cosa conferma che la decisione dell'ad, Fabrizio Salini, non è stata dettata dal semplice principio della rotazione dei corrispondenti ma in primis dal lavoro troppo "schierato" della Botteri. Dunque, aggiunge anche il nome di quello che potrebbe essere il probabile sostituto della Botteri, il giornalista che potrebbe prendere il posto nella Grande Mela che lei lascerà vacante: si tratta di Claudio Pagliara, che gode del sostegno bipartisan di Lega e M5s. Leggi anche: Giovanna Botteri se la caverà: ecco le cifre del suo stipendio
Caso Botteri: davvero pensate che passare da New York a Pechino sia una punizione? Andrea Amato il 5/04/2019 su tvzoom.it. L’inviata negli Usa per la Rai è stata trasferita nella capitale cinese e centinaia di colleghi giornalisti hanno urlato al demansionamento, per la sua linea anti-Trump. Il caso di Giovanna Botteri è emblematico per capire il livello, ormai bassissimo, della nostra categoria. Nonostante sia passato un uragano nel 2008 che ha di fatto stravolto il mondo dell’editoria e dell’informazione, noi giornalisti non perdiamo mai occasione per dimostrare chi veramente siamo: una categoria di pigri ignoranti, arroccati su rendite di posizione anacronistiche. Nonostante il mondo sia radicalmente cambiato, continuiamo a fare battaglie inutili, su principi che già nei decenni passati erano sbagliati. E la storia l’ha dimostrato ampiamente. La bravissima collega Giovanna Botteri, corrispondente per 12 anni da New York per la Rai, è stata trasferita a Pechino, la capitale economica mondiale del futuro. Nella città dove si giocheranno le partite cruciali della finanza e dell’industria del prossimo secolo. E dopo 12 anni, forse, giusto cambiare aria per trovare nuovi stimoli. Soprattutto in un lavoro dove la curiosità è la motrice principale.
Giornalisti miopi. La maggior parte dei colleghi, invece di vedere l’opportunità, ha gridato allo scandalo, parlando di allontanamento a causa della linea anti-Trump, seguita con pervicacia negli ultimi anni da Giovanna Botteri. Si è parlato di un complotto sovranista globale, ma evidentemente mal riuscito, perché la giornalista è stata mandata nella capitale più strategica del momento, tra l’altro nella nazione acerrima nemica di Donald Trump. Quindi, qualcosa in questo famigerato complotto non torna. Ma vabbè, la miopia e l’ignoranza non hanno limiti. E poi, in un momento in cui giornali, siti e telegiornali chiudono per colpa di una crisi di sistema inarrestabile, mentre migliaia di colleghi sono rimasti a spasso, senza avere alternative, forse un po’ più di buon gusto non farebbe male. Poi, certo, New York è più figa di Pechino, ma qui si dovrebbe parlare di giornalismo e non di lifestyle.
Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 4 giugno 2020. Giovanna Botteri è la presidente di Giuria del Premio Luchetta 2020, istituito dalla Fondazione Luchetta con la Rai. In gara tv news, reportage tv, stampa italiana e straniera, fotografia.
Dalla Bosnia all' Iraq lei ha attraversato 25 anni di conflitti sparsi nel globo. Ci si abitua all' orrore della guerra?
«Bisogna sempre guardare la guerra con gli occhi degli innocenti, delle persone più deboli ed esposte, dei disarmati. Ogni conflitto, ogni bombardamento, si porta dietro una generazione perduta, una generazione cresciuta con il sentore della paura. Il prezzo della guerra è sempre terribile. Se ti abitui alla morte, se non distingui più la linea rossa che fa di te una persona che racconta l' orrore, se non senti più il dolore significa che hai perso la speranza. Io credo sia qualcosa a cui non ci si abitua mai, per fortuna e per sfortuna. E per farlo devi continuare a provare rabbia per l' ingiustizia che racconti».
La volta più dura?
«La strage di 6 bambini a Sarajevo. Erano andati a giocare con le slitte e sono morti sotto due colpi di mortaio. Con Miran Hrovatin andammo alla morgue , lui uscì in lacrime perché gli sembrava di aver visto suo figlio. A Baghdad le mamme avevano paura di quando i bambini uscivano a giocare, gli davano valium e tranquillanti per farli dormire di più perché stare all' aperto vuol dire schegge, bombe, morte. Ecco la guerra è anche questo: vedi in controluce le persone a cui vuoi bene e pensi: se capitasse a me?».
Tanti anni da inviata, poi corrispondente. Sembrano due lavori molto diversi...
«Sono meno diversi di quel che si possa pensare. Si tratta di raccontare le persone, di fotografare quello che succede. Raccontare le cose è anche capire perché avvengono: può essere una guerra o l' ascesa di Trump, ma devi comunque spiegare come questo sia possibile, analizzare il perché. Il dovere dei giornalisti è mettere in guardia, il problema è che siamo sempre inascoltati, il risultato è che ti senti una Sibilla Cumana fallita».
L' hanno accusata di essere anti Trump...
«Non sono mai stata anti o pro qualcuno: ho pensato che Trump fosse portatore di valori che potevano essere pericolosi o tossici per la società americana. Non fa parte del nostro mestiere fare i militanti, il giornalista del servizio pubblico deve essere imparziale, ma è legittimo avere dei valori: credo nella necessità della pace e non della guerra, credo nei ponti e non nei muri».
Dopo 12 anni a New York, ora è a Pechino. Lei la sente la censura cinese?
«È evidente che il governo ti fa sapere se hai detto delle cose non gradite, ma quel che più conta è la tua appartenenza nazionale: la tua libertà va di pari passo con i rapporti che la Cina intrattiene con ogni singola nazione».
Dopo il servizio di «Striscia» lei per una volta è diventata notizia: che effetto le ha fatto?
«Un effetto supernegativo. In generale il problema è quando si confondono i piani, quando la tua immagine diventa notizia. Noi raccontiamo, non siamo quelli che devono essere raccontati: se la donna da soggetto diventa oggetto del racconto c' è qualcosa di sbagliato. I problemi sono sempre legati all' immagine: la giornalista che fa tv non dovrebbe mai rispondere a una serie di canoni legati al suo essere donna piuttosto che giornalista».
Oggi si parla tanto di fake news...
«Una volta si chiamava propaganda, il termine fake news è più nebuloso, ma la sostanza è identica: notizie false che si mettono in giro perché fa comodo a chi lo fa. Sono meccanismi antichi. Le fake news sono la trovata recente di una propaganda vecchia».
Giovanna Botteri e i suoi problemi con Trump. La Botteri ora ce l'ha con l'eredità di Trump. Giuseppe Vatinno su Affari Italiani Giovedì, 4 ottobre 2018. Giovanna Botteri è la corrispondente Rai da New York da moltissimi anni. Lauto stipendio, sede prestigiosa, il fiume Hudson sullo sfondo dei collegamenti (mica Tor Bella Monaca come i suoi meno fortunati colleghi). Segni particolari: ce l’ha con Donald Trump, Presidente eletto degli Stati Uniti d’America. Ieri sera, sempre da Maurizio Mannoni a Linea Notte su Rai3, gongolava e sprizzava gioia da tutti i pori, con sorrisetti ironici e compiaciuti: finalmente il mondo sapeva la verità. Trump aveva ereditato tantissimi milioni di dollari dal padre che li aveva nascosti al fisco. La fonte della terribile accusa? Ma naturalmente il New York Times, che è il perno della rete internazionale di potere mediatico dei radical chic. Un giornale che pensa di potere fare politica estera al posto del Dipartimento di Stato e che negli anni è stato il vessillifero del (falso) politically correct. Ma torniamo alla Botteri. La sua particolare crociata data addirittura prima che il tycoon americano fosse eletto. Già da allora la Botteri ne paventava l’arrivo. Lei, sacerdotessa del politically correct, non tollerava e non tollera quell’omone burbero che dice le cose come stanno e senza mezzi termini, rifuggendo decenni di melassa. Certo Trump è spesso scortese, brusco, sopra le righe e un po’ di moderazione non gli starebbe certo male, tuttavia è peggio appunto chi, facendosi scudo dell’ipocrisia, non vuole vedere la realtà come è e la indora e la avvolge di marmellata melensa. Oltretutto proprio il politically correct ha rovinato la sinistra mondiale dopo anni di presa in giro proprio di quella classe sociale, la medio - bassa, che a parole diceva di proteggere e nei fatti ha sconquassato.
· Giovanni Floris.
Giovanni Floris, il volto perbene del tecno populismo. Angela Azzaro su Il Riformista il 23 Maggio 2020. Ripensando all’ultima puntata di Dimartedì su La7, c’è da chiedersi se venga prima Piercamillo Davigo o prima Giovanni Floris. È un po’ la storia dell’uovo e della gallina proiettata in generale sulla giustizia spettacolo, in particolare su questa coppia di magistrato e presentatore che, senza contraddittorio, può dire qualsiasi cosa. La questione, tornando quindi all’uovo e alla gallina, è quanto e come il giornalismo, televisivo e non, abbia fatto dei magistrati dei padri eterni, della parola dei pm una verità assoluta, delle loro teorie, trasformate in dogmi, una maniera per cercare di fare audience. Perché è vero che Davigo continuerebbe a proporre le sue idee e ad applicarle anche senza Floris, ma senza Floris e i suoi colleghi non esisterebbe quello che nel 1994 Daniele Soulez Lariviere ha definito in maniera esemplare il circo mediatico giudiziario. Cioè quella sarabanda messa in scena in nome della giustizia che tutto ha a cuore fuorché proprio la giustizia e lo Stato di diritto. Stiamo parlando, andiamo un po’ ad occhio, ma sbagliandoci di molto poco, del 70, forse 80 per cento dei programmi televisivi che in nome del popolo sovrano hanno instillato a quello stesso popolo il virus, senza vaccino, dell’antipolitica e dell’amore per le manette. Ma se qui ci soffermiamo su Floris è per la sua particolare figura. Forse per le sue origini sarde (il papà Bachisio era nato a Nuoro, nel cuore della Barbagia) ha sempre un aspetto ieratico, quasi distaccato, come se le miserie umane non lo toccassero. E così che se confrontato con i suoi colleghi, che ne so un Massimo Giletti o un Corrado Formigli, viene quasi da levarlo dal gruppo dei populisti ad honorem. Non urla, non si agita, non fa appelli come Massimo, né manda i suoi in giro con le telecamere nascoste come Corrado, spacciando questo metodo per giornalismo di inchiesta. No, lui, non lo fa. È sempre pacato, quasi imperscrutabile, misterioso, come gli Shardana, l’antichissimo popolo che secondo la storiografia recente diede vita in Sardegna alla civiltà dei nuraghi e a cui il giornalista ha dedicato uno dei suoi quattro romanzi. Invece, a ben guardare, dietro quel sorriso appena accennato, dietro lo sguardo di chi non si scompone mai, Floris fa parte a pieno titolo del gruppo dei conduttori populisti. Basta rivedere la puntata di martedì scorso. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiede ai magistrati di non andare in tv? Floris fa finta di nulla e non solo continua a invitare il (vero) capo della magistratura italiana ma lo fa senza consentire che gli venga posta qualche domanda. Intendendo qui per domanda non una frase con il punto interrogativo finale, ma una frase che ponga delle questioni, che faccia da contraltare, che quando Davigo dice che in carcere sono tutti colpevoli, risponda per le rime, con le cifre, con la giusta indignazione. Martedì tutto questo non c’era. Però è così, a Giovanni Floris si perdona tutto. Agli altri viene più difficile, sono antipatici, sguaiati, a tal punto presi dalla parte in commedia da non differire minimamente dal personaggio indignato che interpretano. Lui no. È così moderato, così perbene. E anche quando nel 2002 alla Rai prese di fatto il posto di Michele Santoro, cacciato insieme a Enzo Biagi e Daniele Luttazzi, in poco tempo tutti si dimenticarono e dopo qualche anno lo avevano già perdonato attribuendogli il patentino di presentatore super partes. E guai a ricordagli che anche lui arrivava da un’area politica, quella dell’allora Ds, perché se glielo dicevi, te la giurava e non ti invitava più in trasmissione. Effettivamente se leggi il suo curriculum: università alla Luiss, decine e decine di premi, decine e decine di libri, tra cui i quattro romanzi, tutto ti viene da pensare eccetto che una persona di tale statura possa essere un tramite, anzi un artefice del populismo. Eppure in questi anni è stato tra i principali sponsor del Movimento Cinque stelle e con il suo pubblico in sala ha creato uno stile fatto di applausi a chi sostiene la tesi più banale, a chi parla meglio alla pancia delle persone, a chi spara meglio contro chi fa politica. Poi ogni tanto il cerchio si chiude e se un personaggio cade in disgrazia come il povero Dibba sarà lui a lamentarsi del mancato applauso che, poco tempo prima, aveva fatto la sua fortuna. Floris non è solo, è vero. Meno di tanti altri può essere l’emblema delle urla e della caccia alle streghe. Sicuramente non è Savonarola o Torquemada. Forse anche senza saperlo, è però il perfetto testimonial di quella cultura, di recente maggioritaria, che su questo giornale abbiamo chiamato tecnopopulismo. È il populismo non urlato, meno cafone, meno di pancia. Un populismo in cui la tecnica, gli esperti, i magistrati prendono il posto della politica. Ma il risultato non cambia: più manette per tutti.
Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 5 febbraio 2020.
Quanto fa ingrassare la scarpetta?
«Molto, lo sperimento su di me».
Qual è il rimedio casalingo contro le punture di vespa?
«La moneta da cento lire?».
Come si debellano per sempre gli acari?
«Tanta aria e sole?».
Non sia così sorpreso: sono alcuni dei temi che avete trattato a «DiMartedì».
«Ah, ma è roba vecchia! Fummo molto presi in giro... Ma noi cambiamo sempre, è il nostro tratto. Ci adattiamo. Oggi il programma è molto diverso da allora».
E oggi cosa funziona di più?
«Le interviste e i confronti con i giornalisti».
Giovanni Floris indossa scomodamente i panni dell' intervistato, nella sua casa romana del quartiere Nomentano. Ma non si sottrae alle domande. E la persona che svela aderisce al personaggio che esibisce ogni martedì sera in tv da diciotto anni: un professionista serio, educatissimo e con un grande pudore per il suo privato (di cui comunque parlerà).
Il nome «Ballarò» non fu scelto da lei. «DiMartedì», invece?
« Ballarò fu suggerito dalla moglie di Paolo Ruffini, dava l' idea del confronto delle idee.
DiMartedì l' ho scelto io. Serviva un nome facile per ripartire».
Aldo Grasso la chiama «Giovanni Alé Floris»: da dove arriva «alé»?
«Dalla seconda puntata di Ballarò: è il modo in cui ci salutavamo io e mia moglie appena conosciuti. La prima sera non lo dissi e non andò bene. Lo introdussi la seconda e da allora è rimasto».
«DiMartedì» oggi è il talk politico più seguito. Ma è anche il più lungo: come si prepara alla sua maratona in tv?
«Aggiunga che è anche quello con più pubblicità! Il rituale del martedì è questo: mi sveglio alle 7-7.30 e ascolto il Gr Rai. Poi mi alzo e leggo tutti i quotidiani. Faccio colazione. Rivedo con la mia squadra i blocchi perché di sicuro tre o quattro ospiti danno forfait e bisogna rimpiazzarli.
Rivedo la scaletta e aggiungo domande qua e là. Pranzo intorno a mezzogiorno e mezzo. Poi dormo fino alle 15. Doccia, barba e vado in redazione. Alle quattro e mezzo cominciamo con le parti registrate, alle 21.15 siamo in diretta».
Con Elsa Fornero operazione simpatia?
«No, semmai operazione serietà. Ho grande stima del modo in cui ha interpretato il ruolo di politico, rimanendo in circolazione, dopo, per prendersi la responsabilità delle sue iniziative. È anche molto spiritosa, dimostra che non bisogna mai fidarsi dell' apparenza».
Come nel suo ultimo romanzo, L' invisibile.
«Stavo pensando a quello, in effetti. Alla base del libro c' è il principio che l' apparenza è solo un elemento su cui valutare le persone, non deve essere l' unico».
A «DiMartedì» il pubblico applaude sempre, qualunque cosa dica l' interlocutore.
«Per me era un cruccio. Ora invece penso che sia un bene: tanti applausi, nessun applauso. Il pubblico è fatto di 300 persone, alcuni sono figuranti. Basta che cominci uno».
In 18 anni ha saltato solo una puntata.
«A Ballarò , nel 2009. Avevo l' influenza A/H1N1, c' era ospite la ministra Mariastella Gelmini che era incinta. L' allora ministro della Salute mi dissuase dall' andare in onda per il rischio contagio».
In diretta con la febbre?
«Anche con 40!».
Ha intervistato il Dalai Lama, Condoleeza Rice segretario di Stato americano, politici, economisti. Per chi era più emozionato?
«La mia paura più grande è risultare impreparato, ma è anche la mia fortuna, perché mi costringe a studiare tantissimo. Però non arrivo mai a confondermi con chi intervisto».
L' hanno chiamata il Vespa di sinistra. Come lui, scrive libri. Intende produrre vino?
«No, ma consumarlo sì, mi piace rosso! Quanto al soprannome, era l' inizio. I modelli erano Vespa e Santoro. Se sostituire Santoro sembrava impossibile, per la stampa più critica io sarei diventato come Vespa».
Con Santoro come sono i rapporti?
«Molto buoni. Ho la fortuna di avere i suoi suggerimenti per DiMartedì. Credo che conosca la tv come pochi».
Quando era al Giornale Radio Rai ha girato il mondo. Quale Paese le è rimasto impresso?
«Il Cile mi colpì molto, parliamo della metà degli anni 90. Ero in taxi, faceva caldo e avevo il finestrino abbassato, ma gli altri automobilisti li tenevano chiusi. Chiesi al tassista come fosse possibile e lui rispose che fingevano di avere l' aria condizionata: erano poveri, ma non volevano darlo a vedere».
Il suo «11 Settembre».
«Ero a casa del vicedirettore del Giornale Radio Rai, Fernando Masullo, che ce l' aveva prestata, a me e a mia moglie, per il periodo della mia sostituzione estiva: agosto e settembre 2001. Non appena vedemmo le immagini dei telegiornali feci il primo collegamento, poi corsi a piedi verso le Torri Gemelle, ma non facevano passare nessuno. Allora salii su un taxi e andai in redazione, a Central Park».
Ha avuto paura?
«Lavoravo tantissimo e non potevo avere paura. Credo di avere imparato in quei mesi a non farmi trascinare dall' emozione».
In sala ci sono due foto bellissime affiancate, nella stessa cornice: in una Giovanni Floris è con la moglie Beatrice Mariani, autrice per Sperling, e i due figli Valerio e Fabio. Sono serissimi. Nell' altra saltano e ridono tutti insieme. È un regalo della sorella, lo scatto è di una sua amica fotografa.
I suoi figli giocano a calcio?
«Sì, entrambi».
E lei fa il papà-allenatore contro l' arbitro?
«Non posso, perché sono riconoscibile: a me tocca sempre calmare le acque... Però fare l' allenatore mi piacerebbe: vorrei tanto seguire il corso a Coverciano, ma temo che sia impossibile, pare serva il tesseramento».
Magari la Figc ora fa un' eccezione.
«Il mio sogno, quando smetterò di fare questo lavoro, è diventare allenatore di una squadra di dilettanti e aprire una trattoria».
Il 1° marzo c' è Cagliari-Roma. Per chi tiferà?
«Sono romanista sfegatato, ma la mia seconda squadra è il Cagliari. Speriamo che per quella data il pareggio convenga a tutte e due».
Al suo matrimonio diede ai tavoli i nomi del giocatori della Roma: gli sposi con Totti. Non mi sorprende troppo che lei lo abbia fatto, quanto che sua moglie glielo abbia permesso!
«Ma lei è tifosa quanto me! Guardi (prende una foto che immortala un bacio di coppia davanti al Roma Club Testaccio, ndr ): era il 2001, l' anno dello scudetto, indossavamo entrambi la maglia numero 11 di Emerson che ci eravamo regalati per i nostri undici anni insieme».
Ha scritto un libro con sua moglie e uno con sua madre. Le dispiace non aver fatto in tempo a scriverne uno con suo padre Bachisio?
«È limitativo pensare di non aver scritto un libro con lui... Mio padre era un uomo di un' intelligenza superiore. Era un bancario che lavorava moltissimo, ma si creava uno spazio di libertà e di arte come autore di cabaret. Ha lavorato con Gastone Pescucci, Sergio Leonardi, I Brutos».
Cosa ha ereditato dai suoi genitori?
«Da mia madre il rigore, la disciplina. Da mio padre la capacità di vedere le cose in maniera distaccata e con ironia».
Quanto è stato importante nella sua carriera l' incontro con l' agente Beppe Caschetto?
«Era il 2008, ma la mia carriera era già decollata. Non lo definirei mai un agente: lui è un intellettuale prestato al lavoro di agente. Sa interpretare i contesti, ha una profonda chiave di lettura della vita».
È nato il 27 dicembre 1967. Doppio regalo o uno solo?
«Due, ma immagino fossero "splittati"».
È vero che da quando aveva 16 anni lo festeggia allo stesso modo?
«Sì, in pizzeria con i miei amici di sempre».
Tra questi c' è il regista Paolo Genovese. Cosa può dire del fatto di cronaca che ha coinvolto il figlio Pietro?
«Una vicenda così tragica è l' incubo di ogni genitore. Un dolore intollerabile, infinito per le famiglie che hanno perso le figlie. Una prova durissima per la famiglia di Paolo, cui voglio bene. Non riesco ad aggiungere altro».
Ha vinto tantissimi premi, tra i quali un Telegatto. A quale è più affezionato?
«Sono tutti belli. Ma tengo molto alla cittadinanza di Nuoro, la città di mio padre».
Quando era ragazzino chi erano i suoi miti?
«Costanzo, Minoli, Santoro, Lerner».
Il governo mangerà la colomba?
«Penso di sì. Gli italiani tornano a ragionare in termini di centrodestra e centrosinistra, e questo impone a leader e partiti di riorganizzarsi, di ragionare a loro volta».
È tornato il bipolarismo?
«Le categorie di destra e sinistra esisteranno sempre per chi fa politica».
E le Sardine diventeranno un partito?
«Non credo. Magari qualcuno di loro verrà candidato, ma sono un fenomeno originale, difficile da incasellare».
Ultima domanda: la leggenda narra di una vacanza all' Elba a fine anni 80 pagata con le offerte dei turisti ai quali, con gli amici, leggeva la mano. Vuole dare un' occhiata alla mia?
«Vediamo... Questa dovrebbe essere la linea della vita: mi pare lunga, sembra di una nata a Perdasdefogu. Quest' altra è la linea dell' amore, non è il massimo... Però forse è il contrario: in quel caso è meglio se va dal medico!».
· Giovanni Minoli.
Minoli, il conduttore che ha cambiato faccia alla Tv. Guzzanti racconta l’uomo che ha inventato il faccia a faccia. Da Agnelli a Gheddafi e Cossiga: interviste memorabili. Paolo Guzzanti il 27 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Detto in termini modesti, se è ancora dubitabile che Dio creò il mondo, fu invece certo che fu Giovanni Minoli a creare la televisione italiana. Quella di “Mixer” (“Idea di mia moglie Matilde”, dice lui) fu una rivoluzione di idee e di tecnologia. Con un solo genio padrone, lui, ma con lui una meteora gassosa, una costellazione di autori, attori, giornalisti, musicisti, tecnici in quel brodo primordiale da cui poi tutto venne fuori, da Geo e Geo a Reporter, da “Quelli della Notte” a tutti i figli di Mixer. Io conosco Giovanni Minoli dai primi anni Ottanta e con lui ho anche lavorato e fatto programmi. Il suo laboratorio era un mondo separato e geloso. Lui è un uomo consapevole della sua genialità non meno di Oscar Wilde che quando gli chiesero che cosa avesse da dichiarare alla dogana, disse null’altro che il mio genio e Giovanni è così. Poi, proprio con il direttore di questo giornale, ha reinventato anche la Radio, ed è un’altra storia. Personalmente ho sperimentato la sua amicizia e anche la sua inaspettata e (per me, allora) gelosia di leader, inventore e re della sua terra televisiva. Minoli ha inventato la grande televisione che, per ora e lo dico con estrema tristezza, ha perso, anche se non è ancora detto: quella dell’invenzione, della crudezza e sfrontatezza ma subito anche del rispetto e della comprensione. Hanno dato in televisione una rievocazione di Mixer su RaiDue e peccato che era mezzanotte, anche se ormai siamo tutti svegli. Ma è stata una grande pagina di testimonianza perché la televisione di Mixer e di Minoli, che poi ha prodotto Arbore e la sua grande famiglia e tutta la tv nuova, buona, coraggiosa e anche commovente, è stata superata dalla televisione del conformismo trash, quella cosiddetta “sporca” che ha avuto il sopravvento. La più grande invenzione di Minoli è stata quella dei suoi “Faccia a faccia”. Non è stato l’unico al mondo, ma fra i migliori e forse il migliore anche di fronte al mercato americano. Era un format a sorpresa e chi ci stava – e ci stettero quasi tutti i grandi della Terra – accettava di entrare nella trappola carnivora di Minoli: “Avvocato Agnelli lei è amato dalle donne”. Agnelli si paralizza: “Se fosse vero ne sarei orgoglioso”. Che cosa pensa delle donne? Agnelli per poco non sviene: nessuno aveva mai osato, ma è anche un tennista da smash e risponde che gli uomini si dividono in due, chi parla con le donne e chi parla di donne, io non parlo mai delle donne. Merguerite Yourcenar mentre gli risponde in un italiano inventato, intanto prende appunti di aramaico sulla coscia per un libro che sta scrivendo, il giovane Netanyahu si scontra a cornate con Minoli sostenendo che si può avere un solo popolo palestinese, la Giordania, ma non due. Il capo della Cia Turner s’incazza: lei sta sprecando il mio tempo e sii soldi del collegamento, i patti erano altri e lei mi sta parlando di Gladio. Ma io devo parlare di Gladio perché è l’argomento del giorno. Quello si alza e se ne va. Prende di petto Kissinger e gli dice che ha intimidito Aldo Moro alla festa nell’ambasciata italiana diffidandolo dal fare il compromesso storico e Kissinger dice chi? io? Ma se Moro neanche sapeva l’inglese. Sì, dice Minoli, ma io ho parlato col suo interprete di quel giorno. Un torrente. Craxi appare limpido e micidiale, pacato e diritto, ma viene ripreso nel giorno delle monetine all’hotel Raphael, Berlusconi è giovane e Minoli non riesce a piazzare la sua domanda, sicché si impone, ma commenta testimoniando che Berlusconi è un uomo buono e che ha pagato per questo. Acciuffa i due mostri sacri della letteratura latina americana: Garcia Marquez dei Cento anni di solitudine e poi il cieco Borges al quale fa confessare di aver chiesto il divorzio da una moglie che non sognava mai di notte: “Non era l’unico dei suoi difetti”, dice il vate cieco ma non troppo. Minoli era giovanissimo, eravamo tutti giovani in quell’epoca in cui da casa sua e con la sua partecipazione lanciavamo del teatro-satira: il fratello di Matilde, l’austero professor Roberto accettava di fingersi centralinista del Quirinale, Ezio Mauro con la sua folta agendina, io che faccio Pertini e svegliamo tutta la nomenklatura politica e usiamo come test Gianni Minà, inconsapevole che ci casca. Vecchie glorie. Ecco Bianca Berlinguer e la ragazza Silvia Tortora, belle e giovani, che facevano parte della famiglia che era anche la mia famiglia con Isabella Rossellini che parla romano americano e che confonde san Giorgio a Cremano con Cremona, deliziosa tentennante e giovane come quando cenavamo tutti insieme con Gianni Bisiach a casa di Elena Doni con Dacia Maraini. Che dire? È un tale museo, una tale galleria che si resta sbalorditi: voilà Minoli nella tenda di Gheddafi che gli chiede perché non vuole la Turchia in Europa e il dittatore dice che la Turchia è il cavallo di Troia del radicalismo islamico. Oggi Gheddafi è morto, assassinato e stuprato dai suoi carnefici, e le truppe di Erdogan sono in Libia insieme a un battaglione dei mercenari russi. Proseguiamo: Federico Zeri con babbucce e caffettano che si scaglia contro il falso Trono Ludovisi, che ferita acuta nella memoria e che nostalgia, e poi, più che altro, il grande smascheramento. Minoli ha voluto dimostrare con un suo falso molto verosimile e che probabilmente ci azzecca, che la televisione usando il vero manipolato e la tecnica, può creare il verosimile. Lui fece lo scoop (che rivelò poi fabbricato in casa) di come fosse falso che la Repubblica avesse vinto al referendum, visto che le schede furono prontamente bruciate e nessuno poté controllarle. E Minoli crea una finta riunione di cospiratori, tutta sfarfallante e antichizzata e poi mostra che il documento è un falso perché c’è la sua troupe. L’Italia perbenista di sinistra vorrebbe linciarlo, ammazzarlo, mandarlo in galera. Racconta di quando sua madre con cui no era in buona, per una sola volta gli impose un raccomandato nipote dei una sua amica molto pressante: era Massimo Giletti che tanto fece e tanto si impose che alla fine entrò nel circo di Giovanni e ancora oggi parla e imposta la sua fonetica alla maniera del Minoli d’antan, che è sempre un gesto d’omaggio. Giovanni è stato un dirigente televisivo che avrebbe meritato la direzione generale e poi la Presidenza e invece l’hanno tagliato fuori perché ha sempre dato troppo fastidio. Ingombrante, è ingombrante. Ma tutte le persone di genio lo sono, tutti i vincenti lo sono, ma quando uno è di genio ed è vincente, deve stare molto attento perché i bravi ragazzi del potere lo aspettano per strada per farlo fuori e infatti Giovanni Minoli ha sempre sfiorato l’apice senza mai conquistarlo e forse questa insoddisfazione, ma diciamo meglio questa palese ingiustizia lo ha reso ancor oggi un fighter, un lottatore, uno che non molla. Un giorno a casa sua mi mostrò con le lacrime agli occhi un mobile con tutti i dvd di tutte le sue interviste, era un regalo di sua moglie e degli amici più stretti ed era commosso. La storia siamo lui, in buona parte, a prescindere dalle differenti opinioni che del resto sono state tutte figlie dei loro tempi, e quei tempi lui li ha solcati a motoscafo, giù a manetta. Ed ecco Cossiga, di cui sono stato per anni il partner mediatico perché così decise lui (ed era molto divertente) che tiene testa a Minoli con gagliardia sarda, come quasi tutti i grandi della Terra o almeno della Prima Repubblica, gente di levatura e fibra ritorta solida. Ciriaco De Mita, indispettito contro Agnelli che lo aveva definito “un intellettuale della Magna Grecia”, risponde stizzito che Agnelli era solo un mercante. Quanto a Minoli, così come l’abbiamo rivisto nel suo momento alla lunga memoria, e visto quanto sa sorridere ancora e divertirsi, adrenalinico e nello spirito giusto, viene da dirgli soltanto: provaci ancora, Giovanni e, caso mai, fai un fischio.
Minoli: «Per “Un posto al sole” mi fece i complimenti persino Umberto Agnelli. E rifarei lo spot con Craxi». Pubblicato sabato, 15 febbraio 2020 su Corriere.it da Stefano Lorenzetto. Per la cruda legge secondo cui un padre mantiene dieci figli ma dieci figli non riescono a mantenere un padre, la Rai utilizza Giovanni Minoli, il più prolifico autore televisivo, solo su Radio 1, dove il lunedì e il venerdì, dalle 17.05 alle 18, conduce «Il mix delle cinque», versione dimezzata (solo sillabicamente) di «Mixer», uno dei suoi programmi tv più popolari. L’ex direttore di Rai 2, Rai 3, Rai Educational, Rai Storia e Rai Scuola ha un affaccio innovativo sul canale satellitare del National Geographic, il lunedì alle 20.40 con «Green leader»: «Mi aiutano Alessandra Cravetto e Ludovica Siani, nipote di Giancarlo, il cronista del Mattino ucciso dalla camorra». Altrimenti sarebbe scomparso dal video. Un paradosso per il conduttore di «La Storia siamo noi» e l’autore di «Un posto al sole», la prima e più longeva soap opera italiana, che dal 1996 a oggi ha totalizzato ben 5.440 puntate. E anche per il maggior dispensatore di posti al sole a sconosciuti esordienti: Milena Gabanelli, Massimo Giletti, Bianca Berlinguer, Gianfranco Funari, Myrta Merlino, Sveva Sagramola. In Vite da funamboli (Sandro Teti editore), Antonio Alizzi lo accosta a Eduard Limonov, Andrei Konchalovsky e Paolo Sorrentino.
Mi sembra in ottima compagnia.
«Non so se me la merito. Però mi riconosco nel titolo. La mia vita è un esercizio sul filo, anche se non improvvisato».
Il critico Sergio Saviane sosteneva che «la tv è la grande meretrice».
Esagerava?
«No, diceva la verità. È seduttiva, dà piacere, ma illude moltissimo, perché poi ti molla e passa ad altro. È lei forte, non tu. Invece tutti quelli che la fanno pensano di essere forti loro. Quando li tolgono dal video, svengono, si ammalano, muoiono. Mi salvò da questa sorte il regista Carlo Vanzina, che sul lago di Como fu prodigo di consigli su come gestire il successo e l’insuccesso. Con “Mixer” ero al settimo piano: mi ritrovai spiaccicato al suolo. Andai nove mesi in Africa a sciacquarmi il cervello. Lì, in mezzo a gente che non mi conosceva, scoprii che Giovanni era più importante di Minoli. Ricucii i due pezzi della mia vita. Tornai a essere Giovanni Minoli».
Suo suocero Ettore Bernabei era direttore generale della Rai. La aiutò?
«Fu un’immensa fortuna conoscerlo: era un gigante della televisione. Ma anche un freno per la mia carriera».
Nel senso che non l’hanno promossa dg della Rai o almeno direttore della rete ammiraglia? Come se lo spiega?
«Forse sono troppo libero. Mi sono convinto che sia una buona ragione. Non ho mai avuto tessere di partito, solo una forte simpatia per Bettino Craxi, un riformatore. Ma quando dopo 16 anni uscì di scena ero ancora capostruttura di Rai 2, come al momento in cui lo conobbi».
Le rimproverano lo spot elettorale in forma d’intervista che gli fece nel 1987.
«Mi viene da ridere. Lo rifarei. Vada a rivederselo e faccia i confronti con l’oggi. Certo che era uno spot, però ci misi la mia faccia, non finsi che non lo fosse».
A Craxi la legava il culto di Giuseppe Garibaldi: suo bisnonno Ottavio Minoli finanziò l’Eroe dei Due Mondi.
«Aiutò anche Giuseppe Mazzini, se è per quello. Ma io amo di più Cavour».
«Solo mille partirono da Quarto. Non ci sarebbe neanche l’Italia se fosse stato per gli italiani», mi disse Craxi ad Hammamet un anno prima di morire.
«Quando si farà l’Italia, sarà molto bello. Per ora non mi pare che ci sia».
Ha capito perché Teresa De Santis, direttore di Rai 1, è stata silurata?
«No, e lo ritengo irrilevante. La Rai sta perdendo totalmente la sua identità. Buona parte della prima serata è prodotta in outsourcing, uno sfregio agli 11.000 dipendenti interni e ai 1.770 giornalisti. Vuol dire che la burocrazia ha stravinto su uomini e prodotti. Ebbi delle furibonde litigate con il dg Pier Luigi Celli su questo. Lui sosteneva che la Rai è un’azienda di processo, non di prodotto. Gli risposi: manda in onda le tue circolari e i tuoi fogli Excel, se fanno il 30 per cento di share hai ragione tu e torto io. E me ne andai a Stream, poi diventata Sky».
Che differenza c’è fra lei e Carlo Freccero, altro genio della tv?
«Non l’ho mai considerato tale. È bravo nell’orale, ma nello scritto non mi ricordo di suoi programmi memorabili nei sette anni da direttore di Rai 2».
Immagino che lei abbia studiato un metodo per sottrarre la Rai ai politici.
«Non è possibile. È la legge a dire che gli azionisti sono i partiti. Matteo Renzi ha provato a dare più potere all’amministratore delegato. In teoria Fabrizio Salini, dirigente bravo e perbene che ho conosciuto a La7, potrebbe decidere tutto. In pratica lo fa con troppa lentezza».
Lord John Reith, il fondatore, fece scolpire all’ingresso della Bbc un motto: «Voi entrate in un tempio delle arti e delle scienze, dedicato alla gloria di Dio e alla diffusione della conoscenza».
«Lo vorrei anche in viale Mazzini».
Sui campanelli di casa sua ho letto «parroco», «viceparroco», «sacrestia». La fanno sentire vicino al Padreterno?
«Né vicino né lontano. Mi stimolano alla preghiera».
So che da questo salotto si diparte un cunicolo che porta all’abside della chiesa di San Salvatore in Lauro.
«Me l’hanno chiuso, purtroppo. Nel 1400 lo usava una principessa per raggiungere l’amante, un cardinale. Però sento ancora messe, canti, orazioni e musiche. Un sottofondo soave».
«Ho scommesso tutto sul rosso, sull’esistenza di Dio», le confessò suo padre Eugenio, ormai prossimo alla fine. Lei su quale colore ha puntato?
«Lo stesso. Era un massone. Si convertì a quasi 30 anni. Paolo VI lo scelse come uno dei pochi uditori laici che nel Concilio Vaticano II misero a punto il cosiddetto Schema XIII, da cui uscì la Gaudium et spes, la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo».
Quando nel 1994 in «Faccia a faccia» gli chiese conto dei suoi valori cristiani, Silvio Berlusconi s’impappinò.
(Ride). «Sì, non aveva le idee chiarissime. Ma se penso a quanto ebbe ragione in politica estera, mi verrebbe da sparare in testa agli altri. L’unico ad aver capito Gheddafi. Il quale sotto la tenda mi disse: “Volete far entrare la Turchia in Europa? Allora ricordatevi del cavallo di Troia”».
Sarà contento che un giovanotto che vendeva bibite allo stadio di Napoli oggi sia il nostro ministro degli Esteri.
«No. Quello è un punto di arrivo, non di partenza. Ma, almeno fino alle dimissioni da capo del M5S, Luigi Di Maio ha mostrato una ferrea tenuta psicologica».
Nell’occupare un posto al sole. È orgoglioso della sua fiction partenopea?
«La rivendico come un’idea vincente. Capii che la Rai avrebbe perso l’esclusiva di calcio e cinema, quindi doveva puntare su cultura popolare e fiction seriale, come oggi si fa con “Don Matteo” e “Il commissario Montalbano”. Umberto Agnelli si congratulò: “La Fiat ha costruito a Pomigliano d’Arco la più moderna fabbrica di auto che esista al mondo, ma il modello di sviluppo per il Sud è il tuo, non il nostro”. E dove la trovava la Rai una macchina da soldi che dopo 24 anni tutte le sere sfiora ancora il 10 per cento di ascolti in prime time?».
Però «Agrodolce», la soap opera da lei ideata in Sicilia, durò solo due stagioni.
«L’avevo promessa a Elvira Sellerio, la consigliera della Rai alla quale ho voluto più bene. I produttori esecutivi si rivelarono incapaci, ahimè. Con 8 minuti di esterni a puntata, in un anno avremmo venduto tutto il bello dell’isola».
Una fiction a Venezia sarebbe troppo?
«La proposi a Luca Zaia e Luciano Benetton. Mi parvero allettati. Non hanno capito che i soldi ce li dava l’Europa».
Lo chiedo al collega: le piacciono i tg?
«Non li vedo, dico la verità. Se proprio devo, seguo quello di Enrico Mentana, almeno mi confronto con un’opinione».
La tv di Fabio Fazio le garba?
«Il buonismo politicamente corretto mi fa orrore, ma gli ha portato fortuna».
E quella di Bruno Vespa?
«Non la guardo. Però nel genere old fashion resta un signor professionista».
Dell’«Isola dei famosi» e del «Grande fratello» che cosa pensa?
«Il primo reality non m’interessa. Il secondo fu una brillante intuizione dell’olandese John De Mol. Un’occasione sprecata. Aiutai Giorgio Gori a trovare i 5 miliardi di lire che gli mancavano per lanciarlo su Canale 5, raccogliendo mezzo milione di abbonati a Stream in tre mesi. Selezionammo Pietro Taricone e Rocco Casalino, oggi portavoce del premier Giuseppe Conte. Era un format esportabile anche in convento. Non è indispensabile farlo con gli imbecilli».
Non le rimorde la coscienza aver sdoganato «Aboccaperta» con Funari?
«La tv parla all’alto e al basso, tiene insieme tutto: è il Paese. Bernabei faceva reclutare le ballerine al Crazy Horse».
Suo suocero mi spiegò che la tv è più distruttiva della bomba atomica.
«Le riferì il giudizio che mi diede Dan Rather, l’anchorman della Cbs. Nei cervelli la tv ha l’effetto della droga assunta a piccole dosi. La trasformazione dei cittadini in consumatori è avvenuta così».
Si sente più torinese o più romano?
«Vivo nella Capitale da 40 anni, ma rimango legatissimo a Torino. Là ho avuto i pilastri spirituali, a cominciare da mio padre e dal futuro cardinale Carlo Maria Martini, che era il prefetto dell’Istituto Sociale dei gesuiti dove ho studiato».
L’infarto nel 2018 l’ha cambiata?
«È avvenuto a mia insaputa. M’impressiona il non essermi impressionato».
Lasciando la direzione del «Foglio», Giuliano Ferrara scrisse che «a 63 anni bisogna imparare a morire». Lei va per i 75. Si sente un sopravvissuto?
«Sono morto. E rinato con tre bypass. Per cui ho davanti altri 63 anni, forse 75».
· Giuseppe Cruciani.
Cosimo Curatola per mowmag.com il 14 novembre 2020. Giuseppe Cruciani non è solo re della radio, un irregolare che con La Zanzara su Radio24 ha fatto l’equivalente di chi porta giornaletti porno in Vaticano. Ha inventato un genere, interamente basato sulla mescolanza di odio e amore suscitato in chiunque lo ascolti. Si spinge dove gli altri non arrivano, ma il suo successo è dovuto al fatto che non lo fa per esibizionismo. Le spara grosse, ma col tempo ha finito per crederci. La grande forza di Giuseppe Cruciani è che non puoi evitare di provare sentimenti per lui, odio o amore che sia: l’indifferenza è irraggiungibile. Moreno Pisto l’ha intervistato per il MotoFestival, e lo ha fatto anche se “Le moto non mi piacciono, non sono appassionato. Se una fa la barista o la motociclista non me ne frega un cazzo, stessa cosa”. Il suo libro “Nudi - il Sesso degli Italiani” (La Nave di Teseo, 476p.) è una raccolta di interviste, racconti e riflessioni con il fine ultimo di sdoganare gli appetiti sessuali più nascosti del nostro paese: “La fedeltà nel mondo moderno è costruita su di un rapporto monogamico e fedele, che va però contro la natura umana, questa è la prima cosa: la fedeltà non è naturale - racconta Cruciani- Poi la società ha cambiato le cose. Il mio obiettivo non è quello di normalizzare il sesso, se non c’è del proibito non ci piace, per carità. Ma perché uno non può raccontare quello che gli pare senza scatenare un putiferio?” Tra le oltre quattrocento pagine che vanno a comporre il libro, il “Crux” è convinto che il tabù maggiormente radicato nella cultura di oggi sia lo scambismo, mentre fino a dieci anni fa era la prostituzione. Anche per questo La Zanzara ha contattato più volte Carlo Pernat, che le sue vicende le ha raccontate più volte in radio, giungendo alla conclusione che “con quello che ho speso a donne avrei potuto comprare una villetta al mare”. Secondo Cruciani la gelosia è pericolosissima, ed è per questo che lo scambismo funziona nei rapporti duraturi: “Se uno dei due nella coppia fa sesso con qualcun altro bisogna esorcizzare, vivere sempre meno il senso del possesso - ha raccontato in diretta al MotoFestival - Il senso del possesso porta a brutte cose, perché la nostra cultura (non solo cattolica) ti fa pensare che il corpo del partner è tuo, ma la verità è che ognuno ha il suo. Questa cosa del possesso porta a scompensi pazzeschi: io non dico che questo porti agli omicidi, per carità, ma certi crimini arrivano proprio da questo”. Il tutto viene raccontato sempre con un tono analitico, quasi distaccato, stessa linea che si ritrova nel libro. Ed è lì che il conduttore riesce nel suo scopo ultimo, quello di raccontare cose inconcepibili per la maggior parte di noi con la leggerezza di una ballerina. Su Selvaggia Lucarelli, con cui ha avuto una relazione, Cruciani è semplicemente irremovibile: “di quella persona non parlo, non dirò mai nulla. Al contrario di quanto ha fatto lei.” Poi racconta delle sue storie, “tre o quattro al massimo, ma sono stato sposato per nove anni”, di come ha scoperto le sue perversioni “prima dei quarant’anni non ero così fantasioso, poi col tempo mi sono incuriosito” e della nascita della Zanzara. Infine, chiude parlando del futuro del suo programma radiofonico: “Intanto vorrei che sulla lapide ci fosse scritto ‘condusse, costruì e ideò la trasmissione più folle d’Italia.’ - e poi prosegue - “lo spirito della Zanzara spero non finirà mai. Si può cambiare il luogo fisico in cui uno fa le cose, ma lo spirito no. Poi si può cambiare network, oppure media. Lo spirito nostro, mio, di David e delle altre persone che lavorano con noi spero che non cambi. L’importante è che ci sia la libertà. Ho avuto sempre paura di trovare persone che non mi avrebbero dato libertà di espressione. Da me non c’è musica, c’è sporcizia. Non voglio rispondere a degli ordini di scuderia, invece Confindustria paradossalmente è un posto anarchico, l’unico posto anarchico.” In tutto questo l’unica verità è che non si può condannare un uomo che vive in quello che crede, ma soprattutto che vive in direzione ostinata e contraria, perché è una gran fatica. Cruciani è un personaggio perfetto per La Città Vecchia di Fabrizio de André.
“Nei quartieri dove il sole del buon Dio
Non da i suoi raggi
Ha già troppi impegni per scaldar la gente
D'altri paraggi
Una bimba canta la canzone antica
Della donnaccia
Quel che ancor non sai tu lo imparerai
Solo qui fra le mie braccia”
Barbara Costa per Dagospia il 6 ottobre 2020. Chi mi ha detto “Ti amo”, mi ha reso la vita un inferno: meglio andare a troie, perché la fedeltà non esiste, mai è esistita, e chi ci crede se la racconta, è un noioso, o è scemo, se non è scemo è un illuso, vabbè, è un romantico, forse è un David Parenzo. La figa governa il mondo, la figa è al primo posto, prima della famiglia, e per Vittorio Feltri la famiglia è la cosa peggiore che l’umanità abbia inventato, e però in Italia, la famiglia, guai a chi la tocca! La famiglia si regge sui soldi dei mariti e sulla figa, se poco su quella delle mogli tanto su quella delle puttane, e la Gioconda è la più grande puttana della Storia, la più grande mai dipinta: ti guarda così, guarda così tutti noi, essendo pronta per ognuno di noi. Lo dice Vittorio Sgarbi, e Sgarbi scopa, lui è pieno di donne, nel suo smartphone, tra i contatti, solo le Francesca sono 450, e Sgarbi ha scopato alla Camera, dei Deputati, e anche con 2 parlamentari, una molto importante, una alle prime armi. Sgarbi ha fatto sesso con Malena, Malena gli ha tenuto il pene in bocca per 3 ore, durata smentita su Dagospia ma confessata da Sgarbi a Giuseppe Cruciani, che era lì, con Sgarbi e Malena, che però alla "festa" non l’hanno fatto partecipare. Poco male, sai che gli frega, a Cruciani, lui è innamorato, devoto, delle pozzanghere, di squirting, e la sua prima doccia sublime è stata una sera, in spiaggia, a Formentera: da quella volta di quelle gocce acidule lui ci fa restare segno in ogni dove, dal divano, al pavimento di casa sua, ai sedili dell’auto. Lo squirting non è pipì, lo squirting è incolore, in parte vischioso simile a sperma, lo squirting Sgarbi dice che l’ha inventato lui (?), Efe Bal non squirta, però ha clienti politici, d’ogni partito, e alcuni se li ritrova accanto nei salotti tv. Per quel che mi riguarda, sono d’accordo con Michela, un’amica di Cruciani: ci sono donne randagie puttane che vogliono orgasmi anali, eccessivi, laceranti, senza lubrificanti. Siamo cagne, e sia inteso a lode, e plauso: godiamo, sguaiate, quando non sappiamo “cosa voglio, so soltanto che non mi basti più tu adesso: scendi per strada, ferma qualcuno e portalo su a farmi scopare”. E sono pure con Silvia, conosciuta da Cruciani via FB, che adora farsela leccare, e un uomo che non te la lecca va buttato via in 3 secondi, perché un uomo che vale deve essere un porco divoratore di figa (“è un orgasmo diverso, senza un cazzo. Le scosse, i brividi… non c’è paragone”). C’ha ragione Cruciani, con Feltri, quando dicono che andare a cena prima della scopata è una cosa orribile, io aggiungo disonesta, perché è lì che la donna si vende, detta il suo prezzo, quello che Gianfranco Vissani paga strisciando la sua carta di credito, e nel suo caso passino le cene, ma le colazioni in camera, il mattino dopo, no! Quanto c’ha ragione Cruciani a dire che, tra due che si piacciono, aperitivi, cene, sono nient’altro che rotture di coglioni quando si sa che, se non ci annusiamo fino allo sfintere, non ci conosciamo abbastanza per mandarci a quel paese o amarci per qualche mese, e a Cruciani piacciono mature, non magrissime, e mi raccomando il piede, senza interruzioni dall’alluce al mignolo, né irregolarità nelle dita, tutte alla stessa distanza l’una dall’altra, e niente segnali di futuro alluce valgo: giusto, ne va delle sua erezione, e ogni erezione ha i suoi diritti. Se poi tali piedi sorreggono un sedere che in privato scoreggia, tanto meglio! Sono feticismi, sacri, legittimi. Ancora ti chiedi se un uomo è etero se va a trans, se è passivo, se lo succhia, e se è padre e accompagna a scuola i figli truccato e vestito da donna? Sono personalità, sessualità scisse e fuse, è la realtà, è la nuova normalità: è una famiglia una coppia che si regala gang bang, è una famiglia un marito che apre gambe e sesso della moglie a un altro, e gode a infilarglielo lui, il pene dell’altro, è una famiglia una mamma che manda il suo capo dalla figlia escort. È una famiglia un uomo che una volta al mese lascia la moglie (e madre dei suoi figli) a un branco di uomini che – col consenso di lei e di lui e degli altri – ne fanno strage, di sperma e scopate. La visione di tali monte va forte, specialmente se in diretta, col marito fiero e arrapato che aspetta fuori, in macchina. Se non si mandano video e foto è nei patti raccontarsi tutto, ma non tutto e non sempre, dacché non per tutte le mogli è facile dire al marito che quel pomeriggio un gigolò gli ha sfondato il culo, culi sfondati coi soldi dei mariti, mariti che 6 chilometri dopo Tarvisio cambiano, tornano single, nei bordelli legali dove è prassi farsene non meno di due. Eppure ci sono mariti e mogli diversi, a cui piace di notte girare, per i parcheggi, e lì darsi a chiunque, è il loro segreto, da non rivelare a nessuno, parenti, colleghi, amici: chi capirebbe, che finalmente si sono parlati, che non sono mai stati più felici, perché questo è ora il loro equilibrio, scopare in contemporanea con altri, o solo la moglie sopra un altro accanto al consorte col pene ingabbiato? Altrimenti come rimediare a un desiderio spento, a un marito che s’è infrocito, e vuole un puttano trans in mezzo? Ecco, le puttane, loro lo sanno, che le famiglie si reggono sui pompini che loro fanno a mariti stressati, e infatti ci sono mariti che durante un pompino cadono a terra stecchiti. Le puttane lo sanno, che troppe mogli non danno il culo (non lo dà nemmeno la moglie a Siffredi), lo sanno che “se uno non vuole rovinarsi il matrimonio e il conto in banca e vuole farsi una bella scopata, va a mignotte”. Perché non scopa più con sua moglie? Perché dopo un po’ si rompe i coglioni. Chiaro? La prostituzione etero, gay, trans, è un lavoro normale che la morale considera anormale, ma puttani e puttane salvano unioni, quelle coi mariti che non li tieni, mariti che si travestono da Hello Kitty per farsi sodomizzare, farsi prendere a calci le palle, fare da WC in sedute sadomaso scat, o da posaceneri umani, godendo a farsi spegnere sigarette sulla lingua. Chi sei tu per vietare a tua moglie di andare a girare un porno amatorial, con Alex Magni? La vita è questa. È così che si fa. Stare insieme, in monogamia, è una tra le libertà e, a parere di Cruciani, ma pure del mio, la forma più maniaca di perversione. L’unica cosa che fa male è reprimersi. O usare con troppa foga lo strap-on: a chi lo indossa e spinge, può far venire l’ernia.
Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 7 ottobre 2020. (La lettura di questa intervista a Giuseppe Cruciani è sconsigliata a un pubblico sensibile).
Ciao Giusé.
«Ciao Fabbrì».
Ti dico la verità, non ho ancora letto il libro (Nudi, 480 pgg., Ed. La nave di Teseo).
«Te credo, sono 500 pagine...».
Facciamo che parti tu.
«Ok. Diciamo che questo libro è la summa del crucianesimo e della Zanzara degli ultimi 10 anni, il crucianesimo sul sesso e le relazioni umane e...».
Ho capito. Facciamo così, apro una pagina a caso e mi racconti. ("Spezzo" il tomo poco oltre la metà). Eccomi. C' è scritto "W la figa pelosa".
«Sì, la figa pelosa. Ne abbiamo parlato a lungo in radio, è un tormentone. Io sono per la vagina pelosa, il mondo del porno ormai te la propina liscia, alla brasiliana, persino bianca».
Francamente non mi sembra un tema così importante.
«Lo dici tu. Tutti noi - chi più, chi meno - ci siamo trovati di fronte a una figa. La donna ce l'ha e la gestisce, l' uomo se la ritrova davanti. Beh, io dico "meglio pelosa"».
Beh, le femministe ti direbbero «allora parliamo del pene peloso!».
«Hai ragione. È una lacuna che colmerò nel prossimo libro. Comunque, dammi retta, viva la vagina pelosa, quella che trasuda sesso, abbasso la vagina rasata per agevolare presunte necessità di carattere igienico».
Beh, presunte...
«Presunte».
Tu hai sempre sbandierato questa cosa dell' igiene che non è così importante, ma "questa cosa" ti avrà certamente precluso delle belle avventure...
«Non è così, nessuna si è mai lamentata, anzi...».
Anzi cosa.
«Qualcuna mi ha detto "dici che non ti lavi, ma io non sento puzza". Toh, magari è capitato dopo tre giorni che non cambiavo i calzini, ma nulla di eccessivo. Evidentemente sono uno che non puzza».
Ognuno ha i pori che si merita. Senti, dicevamo del porno. L'eccessiva facilità con cui si accede alle porcherie online ha rovinato la sessualità?
«Il porno ci fa pensare che tutto sia possibile: prestazioni incredibili, acrobazie... Questo è fuorviante, ma i siti hot hanno anche permesso a tantissime persone di soddisfare il proprio bisogno sessuale».
I ragazzini così pensano che sia tutto "facile" e a portata di mano.
«In effetti un regista di film amatoriali mi ha detto che i ragazzini sono disturbati perché ormai, per dire, pensano che sia normale sculacciare le donne».
E le coppie come si devono comportare rispetto ai film sporcaccioni?
«Devono assolutamente guardarli insieme! Quando la fantasia viene a mancare per ovvi motivi, il porno è un toccasana. Ti dirò di più, anche scopare con altri aiuta la coppia».
E come?
«Bisogna superare il concetto di tradimento, solo in questo modo si possono garantire i rapporti a lungo termine. Se il Vaticano - e la Chiesa in generale - fossero più pragmatici, farebbero una campagna a favore dello scambismo. L' obiettivo è garantire l' amore a lungo termine? Allora bisogna offrire alla gente i mezzi per sfogare i propri istinti e far sopravvivere l' amore».
...Magari con te che guardi la tua compagna mentre fa zum-zum con un altro.
«Certo! Che meraviglia!».
Vorrei vedere se capitasse a te. Anzi, ti è mai capitato?
«No, ma non avrei problemi».
"Ciao Giuseppe, vado a trombare con un altro, se vuoi puoi guardare". Ti aspetto al varco, guarda...
«Ovviamente dovremmo parlarne, ma gli istinti non vanno repressi. Per evitare che il rapporto finisca in vacca bisogna assecondare le esigenze altrui. Mettiamo che la tua compagna abbia delle voglie che non riesce a confessarti: quello sì può diventare un problema. Meglio sdoganarle».
Hai fatto molto sesso in vita tua?
«Ho 54 anni e sono sempre stato un traditore. Diciamo che non mi sono fatto mancare niente».
Quante? Un centinaio? Mille?
«Non lo so, dovrei fare una ricostruzione storica. Diciamo che non sono alle settecento dichiarate da Cassano, ma sicuramente molto più di cento».
Beh, da quando sei ricco e famoso...
«Mai avuto problemi anche prima. E comunque non sono ricco».
Uomini?
«No, ma non per un pregiudizio, semplicemente non mi attirano. Ne ho visti diversi "in azione" dal vivo, ma era come guardare un porno. Magari prima o poi proverò un trans perché mi affascina, ma l'uccello del maschio no, non mi interessa».
Con tutto il tempo che passate insieme, una fantasia su Parenzo te la sarai fatta, dai.
«Parenzo? È la persona che mi accende meno fantasie erotiche al mondo. Ha avuto 4 figli da 2 donne diverse, quindi almeno due persone le ha convinte, ma non ha convinto me».
Magari anche lui ha superato quota cento...
«Può darsi, ma è monogamo. Per avere notizie di un Parenzo "vivace" bisogna risalire ai tempi di Telelombardia...».
Senti Giusé, in Italia si scopa molto?
«Moltissimo».
Ma c' è il virus, è un problema.
«Mah, per un periodo è stato un problema, ma ora sono ripresi anche i rapporti occasionali. La prudenza c' è, ma non batte l' istinto. Per capirci: di fronte a una trombata non c' è Coronavirus che tenga».
A me sembra che siano tutti rincoglioniti a guardare i telefoni, altro che trombatori...
«Ma va, il telefono ha aumentato le possibilità. Oggi, se vuoi, in 10 minuti ti organizzi una scopata. Non so se sia una cosa buona o no, ma è un dato di fatto».
Di sicuro l' invasione di "politicamente corretto" non andrà d' accordo con questo libro.
«Il sesso ormai è sdoganato. Anche il mio culo in copertina, per dire».
Ti piace?
«Sì, mi piace, e la foto non è ritoccata. Ti dicevo, il sesso è sdoganato e la maggior parte delle donne se le definisce "troie" sono contente».
Ma mica tanto!
«Ma non in senso offensivo! Nell' intimità è certamente così, ma anche dire "quella è una bella troia" non è un' offesa, ma un complimento, è come dire "è libera sessualmente". Basta con questa cosa del maschio che può trombarle tutte e la donna invece non può. Comunque, sai qual è il vero tabù oggi?».
L'omosessualità? Non credo...
«Ma va, ormai dire "io sono gay" non è un problema, anzi si monetizza pure. Il nuovo tabù è lo scambismo. Se dici "mi piace vedere" ti guardano male. Da me in radio è venuta una coppia di scambisti, ma con la faccia coperta, come i pentiti di mafia».
Ti faccio qualche inutile domanda finale e tanti saluti. C'è una politica che ti intriga sessualmente?
«Mah... Una che tutti trovano arrapante è la Azzolina, io la trovo normale, non mi attira. Ho i miei gusti, diciamo che preferisco la Prestigiacomo alla Taverna. Mentre tra le presunte bòne di eredità berlusconiana non trovo nessuna con cui farei una storia».
Posizione preferita?
«Quella che preferisce la donna. Comanda lei. Del resto l' obiettivo è farla venire, altrimenti sei una bestia. Durante il rapporto bisogna "ragionare", per questo non sono amante delle "doppiette"».
E se non riesci a farle raggiungere l'orgasmo?
«È un fallimento».
Preferisci un rapporto sessuale o una bella partita della Lazio?
«Una grande partita della Lazio è qualcosa di non replicabile, la grande trombata la puoi fare il giorno dopo e comunque rimane un' ipotesi. Meglio godere 90 minuti che 20».
Della Murgia cosa mi dici?
«È una che ha trasformato la lotta al sessismo nella lotta al buonsenso. È l' esponente di un femminismo radicale che vuole negare la realtà dei fatti. Una donna quando si trucca lo fa per essere guardata, quindi un uomo che la guarda di sicuro non la vuole sminuire».
Ma, in definitiva... Cosa c'è dentro 'sto libro?
«È un inno alla libertà di utilizzare il proprio corpo come si vuole. Per godere, certo, ma anche per fare carriera. Non c'è niente di male».
Non mi hai raccontato la tua prima volta!
«Fu con una compagna di mio fratello di un anno più giovane: io 17, lei 16 alla Casa del Pellegrino di Siracusa, una specie di ostello gestito dai preti. Eravamo in gita con il liceo classico Virgilio di Roma. Stavamo andando in pullman a vedere le tragedie greche. Eravamo in questo stanzone...».
E come andò?
«Una tragedia, appunto».
E il tuo rapporto migliore?
«Sempre quello che deve venire».
Massimo Murianni per "Novella 2000" il 3 ottobre 2020. Com’è il sesso degli italiani? Lo chiediamo a Giuseppe Cruciani, irriverente giornalista de La Zanzara (su Radio24), che nel suo libro Nudi (in libreria dall’8 ottobre per La nave di Teseo) ha raccolto anni di interviste e incontri sul tema sesso.
Cruciani, com’è il sesso degli italiani?
«Il sesso degli italiani che ho conosciuto io, alla radio, di persona, via mail, è più avanti rispetto ai tanti tabù che ancora abbiamo».
Le storie che hai raccolto sono forti, alcuni potrebbero dire estreme.
«Le prime quattro storie del libro sono quelle più significative. Storie di uomini e donne che vivono il sesso in maniera anche travolgente, sofferente. C’è dentro tutto: tradimento, scambismo, doppie vite, anche un po’ di dipendenza dal sesso».
Come hai raccolto le storie che hai messo nel libro?
«Sono storie di persone che mi hanno chiamato in radio, oppure mi hanno scritto, perché non volevano rischiare di essere riconosciute. C’è reticenza a raccontare che vai a trans, o che ti piace guardare tua moglie che va con altri, o che sei così drogato di sesso che non riesci a vivere senza fartene quattro o cinque alla settimana».
Però in molti lo fanno. Perché raccontare in radio la propria intimità?
«Alcuni lo fanno per esibizionismo, altri per sfogarsi, altri per liberarsi, altri ancora per vendicarsi o mandare un messaggio a qualcuno... La radio per come la intendo io è un naturale sfogatoio di qualsiasi sentimento, anche il più perverso o inconcepibile per noi».
Sono tutte vere le storie che hai riportato nel libro?
«Penso di sì, ma bisogna tenere conto che quando uno racconta un fatto personale, intimo, è difficile verificarlo».
Se anche fossero inventate, sarebbero comunque fantasie che appartengono alla sfera sessuale di chi ti chiama.
«È vero, se anche fossero fantasie sarebbero reali. Il sesso degli italiani è anche fatto di fantasie».
Se tutte le fantasie diventano reali, non si rischia di perdere il gusto del proibito? Di arrivare a un punto dove non si può più andare oltre?
«Può succedere. Il ventaglio delle perversioni finisce, e si può finire col trovare tutto noioso. Per chi ha provato il sesso di gruppo, o lo scambismo, il rapporto di coppia uno a uno rischia di diventare poco interessante. Ma questo fa parte della natura delle cose. Tutto finisce, anche l’attrazione sessuale col partner finisce».
Le geometrie possibili nel sesso sono limitate, gli incastri possibili non sono infiniti. A chi ha bisogno di continue novità non resta che cambiare partner.
«Ho scoperto che le coppie che restano più unite sono quelle che riescono a superare la gelosia, il possesso esclusivo dei corpi. La coppia può sopravvivere tradendosi. In questa esplorazione che ho fatto del sesso, ho visto che sempre più persone ritengono che sia più consono della natura umana avere rapporti poligami. Non è un’idea nuova separare l’affetto dal sesso, ma prima era tenuto nascosto, e si accettava che fosse soprattutto un istinto maschile. Ora invece sono sempre più le donne che cercano una sessualità aperta».
Sono tante donne che ti contattano per raccontare la loro intimità?
«Moltissime. Raccontano, e vogliono impostare un rapporto più libero rispetto al passato. Anche per volontà della donna, sempre più coppie vogliono superare la monogamia dei corpi. Superare il senso di colpa per aver fatto sesso al di fuori della coppia. Un elemento che è stato spesso motivo di separazioni e divorzi. Quando questo sarà superato, forse ci saranno meno divorzi. Con una provocazione paradossale possiamo dire che la Chiesa dovrebbe fare una colossale campagna per lo scambismo. Perché lo scambismo salva il matrimonio».
Nella tua vita riesci a essere così libero, a superare il senso di fedeltà corporale con le tue compagne?
«Ci sono riuscito poco, ma è una mia ambizione».
Sei fidanzato?
«Negli ultimi anni sono sempre stato fidanzato, ma miro a un rapporto sessualmente più aperto, che non ho mai avuto».
C’è qualcosa che ti stupisce ancora in tema di sesso?
«Mi stupiscono i tabu che ancora abbiamo».
Per esempio?
«Se oggi dici di essere omosessuale, finalmente non fa più scandalo. Se invece racconti avere un rapporto di coppia aperto, hai un problema sociale e vieni emarginato».
Il coming out è di grande attualità (vedi il caso Garko). È davvero necessario raccontare a tutti con chi vai a letto o come ti piace fare sesso?
«Alle volte uno ha bisogno di condividere con naturalezza quello che è un aspetto fondamentale della propria vita, senza sentirsi un clandestino. Ricordo di un uomo che mi ha scritto tempo fa e proponeva di realizzare un movimento di liberazione cuck».
Spieghiamo.
«I cuckold, o cuck, sono uomini che amano guardare la loro compagna mentre fa sesso con altri. Quest’uomo mi raccontava che se gli altri sapessero che lui è un cuck, lo prenderebbero come un malato di mente, un perverso. Esattamente come nel passato erano considerati malati i gay».
Ma gli italiani sono tutti così lanciati in tema di sesso?
«Il mondo che ho descritto è un mondo di scambismo, porno attori, trans, dominatrici... ma esiste anche un mondo di persone che vivono il sesso in modo molto più tradizionale, senza farne un elemento fondamentale del loro rapporto. Sto anche pensando di fare un libro dedicato a chi ha con il sesso un rapporto più distaccato. C’è anche chi proprio non fa sesso, per vari motivi: religiosi, umorali, fisici...».
Perché la copertina con te nudo?
«Il libro ha a che fare con l’intimità delle persone, ho deciso di mettermi a nudo anche io. Nei racconti ci sono anche tratti autobiografici, alcuni espliciti altri impliciti che non voglio rivelare. Comunque mi sono ritrovato in diverse storie che ho raccontato».
Tua figlia ha 15 anni, pensi che leggerà il tuo libro?
«Penso di no. Le consiglierei di non farlo».
Ti imbarazzerebbe se lo facesse?
«Non è per bigottismo, lei sa che il padre si occupa anche di queste cose, ma non credo che sia una lettura che avrebbe senso per una ragazzina di 15 anni».
· Josephine Alessio.
Da "liberoquotidiano.it" l'1 marzo 2020. Uno strepitoso fuorionda, scodellato da Striscia la Notizia nella puntata in onda su Canale 5 sabato 28 febbraio. Immagini che sono andate in onda durante il meteo di Rai News 24. Sullo schermo campeggia la conduttrice, la quale però non sa di essere inquadrata. E così si microfona da sé infilandosi le mani all'interno della camicia, si riassesta l'acconciatura. Si fa i fatti suoi. Poi scrive a computer, guarda i fogli in basso. E soltanto poco prima di controllarsi il trucco si accorge di essere inquadrata: lo sguardo in quel preciso istante tradisce con assoluta evidenza il panico della conduttrice. E la regia, quasi beffarda, soltanto in quel momento scatta dalla conduttrice ripresa a sua insaputa per mostrare al pubblico a casa la mappa delle previsioni del tempo.
Alfonso Sarno per “il Mattino – ed. Salerno” il 21 gennaio 2019. Le fotografie del caldo Natale dell’anchorwoman di Rainews24 Josephine Alessio in spiaggia alle Bahamas sono diventate virali su Instagram grazie all’inciucioso sito di Dagospia; ingolosito la tiene costantemente nel mirino definendola, di volta in volta, «bombastica», «icona gay delle notti milanesi», «amica della famiglia reale del Marocco». Lei confessa: «Spesso è pungente ma sorrido per tanta attenzione. Mi sento cittadina del mondo, piena di curiosità e stimoli, la valigia sempre pronta. Sono nata in Canada, cresciuta in quel meraviglioso paese che è Bellosguardo, studiato a Salerno ed ora, per lavoro, vivo a Roma dove dagli Studi di Saxa Rubra conduco ogni mattina, dalle 5,15 alle 6,30 il telegiornale che, a reti unificate, va in onda su Rainews24, su Rai1 e Rai3». Da stakanovista, alle 4 del mattino (o della notte?) è già alla guida dell’edizione trasmessa in tutto il mondo. Una vita dal fuso orario stravolto che - assicura – non le pesa: «Come ogni cilentano ho una tempra d’acciaio e, poi, il giornalismo mi regala entusiasmo e adrenalina da non farmi avvertire la stanchezza». Josephine ha due motti: «Barcollo ma non mollo» e il preferito della nonna «Acina, acina si fa la macina». Cenerentola all’incontrario, a mezzanotte è in redazione e scende immediatamente in campo. Con i colleghi impagina il telegiornale, controlla i lanci dell’agenzia di stampa, riscrive le notizie, scarica i quotidiani online, aggiorna il rullo e via dicendo. Infine, trucco e parrucco: «Un bel lavoro di squadra che mi impegna da quasi quattro anni senza impedirmi di avere una vita normale dove trovano posto piscina, palestra, lunghe passeggiate per scaricare l’inevitabile tensione, musica, lettura. Niente è impossibile o difficile. Credo nel potere della mente, è lei a comandare». Ottimi diversivi ma non bastano, la beauty farm del cuore è Bellosguardo: «Non riesco a stare lontana dalle mie radici, dai miei “giovanotti” cioè papà Angelo e mamma Rosa e dalla casalinga cucina. Al massimo ogni due mesi devo ritornarvi per farmi coccolare e gustare i piatti della tradizione. A Natale, golosa qual sono, ho messo su qualche chilo già smaltito in palestra. Si può dire di no alla pasta tirata a mano, al ragù, agli struffoli, agli scauratielli?». Valore aggiunto l’affetto dei compaesani: «Mi vogliono un bene dell’anima, fieri di me. Sono una donna semplice, non mi sento un personaggio dello spettacolo, ho scelto il giornalismo perché offre la possibilità di stabilire un rapporto empatico con la gente. Mi considero non una semplice lettrice di notizie ma un’amica che accompagna i telespettatori nella scoperta del mondo». Un lavoro nato per caso. Maturità al «Cristo Re» e studentessa in lingue e letteratura straniera, desiderava essere economicamente indipendente, tra i vari lavoretti quello di hostess del Palinuro Express, il treno che portava i turisti nel Cilento: «All’improvviso diede forfait la giornalista incaricata di intervistare i viaggiatori e gli organizzatori scelsero me per sostituirla». Tanta gavetta, laurea, tesserino di giornalista professionista, approdo alla Rai di Roma dove si è occupata per otto anni del sociale, milioni di fans che la seguono assiduamente sui social: «Fu uno di loro ad inviarmi la striscia dove mi trovai trasformata, la scorsa estate, con gioiosa sorpresa in un personaggio di Dylan Dog». Nel cuore regnano, vividi, i ricordi: «Un giorno mi sono messa alla ricerca di Suor Graziella, la mia madre spirituale ai “Sacri Cuori” di Salerno dove ero a pensione. A lei devo tutto, mi ha insegnato a vivere i principi cristiani nel quotidiano. Volevo ringraziarla ma non l’ho trovata, l’istituto chiuso e le suore andate via. Roma è meravigliosa, ma non riesco a fare a meno del luccichio del mare. Sono terrona nel sangue».
· Ilaria D'Amico.
Striscia la Notizia, Gianluca Vialli e la domanda agghiacciante a Ilaria D'Amico: "Dì la verità, quanti calciatori te l'hanno...?" Libero Quotidiano il 13 novembre 2020. Che imbarazzo, che gelo. Il tutto rivelato da Striscia la Notizia, in un servizio trasmesso nell'edizione del tg satirico in onda su Canale 5 giovedì 12 novembre. Il punto è che durante una diretta Facebook, Gianluca Vialli ha rivolto una domanda un poco "scomoda" ad Ilaria D'Amico, i due erano infatti ospiti in collegamento. "Dì la verità... quanti calciatori te l'hanno battuta in tutti questi anni? Sarai stata inondata di richieste, telefonate...", chiedeva Vialli, sornione. E con "battuta" intende quanti calciatori ci hanno provato. Evidente l'imbarazzo della D'Amico, che risponde tranchant: "Neanche uno". E Striscia, a quel punto, fa notare come "a detta della D'Amico, Gigi Buffon è stato l'unico a capitolare".
Da corriere.it il 21 ottobre 2020. «Catia aveva 12 anni più di me. Abbiamo saputo che era malata a gennaio 2019, un tumore brutto nell’area dell’intestino». Così racconta Ilaria D’Amico nell’intervista di copertina al settimanale F, da domani in edicola, un’intervista che è anche una testimonianza di dolore e nuova consapevolezza. La diagnosi, ricorda la giornalista è stata «un fulmine a ciel sereno perché lei era la persona più sana del mondo . Abbiamo gestito la malattia insieme, scegliendo tutto il percorso. Poi a maggio scorso, la notizia che stava di nuovo male. Se ne è andata in pochi mesi, il 5 settembre scorso. Io ero con lei». Un lutto che, racconta D’Amico, l’ha cambiata interiormente: «Sono più fragile. Sento che lei è diventata una parte di me». Che ha modificato anche la definizione delle priorità; «Oggi dò meno importanza a come mi vesto, mi commuovo a pensare alla sua dignità e riservatezza. Questa perdita mi ha fatto ridefinire le priorità: il lavoro lo è, ma è più forte il bisogno di accudire la mia famiglia». E che ha inevitabilmente influito anche nella scelta di lasciare il mondo del calcio: «Era già da un po’ che volevo cambiare, Catia mi ha dato la spinta per farlo davvero. Quando giravo con lei per ospedali ho sentito l‘urgenza di occuparmi di temi di servizio, di tornare a raccontare cosa siamo oggi. Così quando è arrivata la proposta di Sky per una prima serata di attualità tutto ha preso forma». Nella scelta di tornare ai temi di attualità, che sono quelli con cui, ricordiamo, D’Amico ha iniziato la sua carriera televisiva, ha influito anche il fatto di essere la compagna di Gigi Buffon, portiere della Juventus: «In effetti sembrava che la nostra coppia desse fastidio, fosse troppo ingombrante. Eppure noi non abbiamo mai ostentato nulla. Ci siamo innamorati e abbiamo cercato di vivere tutto privatamente».
Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” il 12 agosto 2020. Come per tutte le decisioni importanti, c'è voluto tempo. «Il lockdown ha avuto un ruolo», ammette Ilaria D'Amico nel raccontare una scelta che, per lei, significa cambiare tutto, cambiare pelle. «Mi sono chiesta dove volessi andare e ho sentito che dovevo raccogliere nuove sfide. Con lo sport mi sono tolta ogni sfizio: ho fatto un percorso bellissimo e netto».
Quindi è così: Ilaria D'Amico lascia lo sport?
«Sì, dopo 23 anni che me ne occupo, quasi 18 a Sky. Finita la Champions volterò pagina: avrei potuto continuare per sempre, è una macchina che conosco benissimo. Ma voglio rodarne una nuova».
Non avrebbero potuto viaggiare in parallelo?
«L'ho fatto per anni ma non potrei ora, con la mia vita che è piena di cose belle, tra cui una famiglia abbastanza complessa, allargata. Voglio puntare su un solo obiettivo. Oggi, dopo molte sfide vinte, le mie nuove sono anche l'essere mamma, compagna e un riferimento per altri piccoli. Avrò un solo nuovo figlio professionale».
Ha già delle idee?
«Una prima serata che parli di attualità e diventi appuntamento fisso. Quando ne abbiamo parlato a Sky, ho sentito il richiamo della foresta».
Parlava di sfide vinte in questi anni. Una su tutte?
«La soddisfazione per essere andata oltre i cliché. Sento il rispetto di un mondo quasi tutto maschile: non conta io sia donna o uomo. Sono una giornalista che mette in campo la sua professionalità. Penso di aver contribuito a sdoganare la presenza femminile in certi ambiti».
Momenti da ricordare?
«La prima diretta con Sky Calcio Show : mi ero preparata una valanga di appunti, in studio avevo una specie di tesi di laurea. In seguito mi vietarono di consultare l'archivio».
E poi c'è stato l'incontro della vita, con Gigi Buffon.
«Quello fatale è arrivato dopo, a un evento benefico. L'idea che mi ero fatta negli anni, durante le dirette era diversa: lo reputavo un campione gigantesco, ma non lo avevo capito umanamente...».
Che idea aveva?
«Non pensavo potessero unirci così tante cose. Gigi si informa moltissimo, ha una grande passione per l'informazione... da giorni si addormenta con le cuffie: riascolta i processi di Mani Pulite».
Approva la sua decisione?
«È il mio supporter: ha sostenuto la mia scelta».
Quale sarà la sua firma nel fare informazione?
«Per me è ascoltare per poi fare emergere un'opinione. Non tollero l'urlo becero ma non mi piace neanche la tv dei carini, quelli che stanno nel mezzo. Tra i temi che mi interessano ci sono le realtà social, sarà che sono a contatto con dei preadolescenti...».
Nonostante i preadolescenti, lì non è molto attiva...
«Lo sarò se servirà al mio programma. Finora mi sembrava di aggiungere voyeurismo su una famiglia che già ha il suo cotè di gossip».
Le mancherà il calcio?
«La passione resta e non escludo qualche incursione... non c'è posto dove vada senza che mi facciano domande sul calcio, panettiere compreso».
Le ha già chiesto cosa pensa di Pirlo alla Juve?
«Mi piacciono le sfide e Pirlo è una scommessa totale».
Un'ultima foto dall'album dei ricordi di questi 18 anni?
«Il ritorno dopo la nascita del mio primo figlio: lo allattavo in camerino. In studio, a un certo punto Vialli mi lancia occhiate al seno, non capivo... Poi ho visto le chiazze sul vestito per la montata lattea... da allora vesto di nero».
Riecco la famiglia...
«Questi anni sono stati anche questo. Quando ho capito che con Gigi era una cosa seria sono andata dal mio editore, pronta a lasciare tutto. Mi ha risposto: noi ti abbiamo sposata prima».
Ilaria D'Amico dice addio al calcio e Buffon la sostiene: "Dopo 23 anni volto pagina". Alla fine della Champions League, Ilaria D'Amico lascerà il mondo del calcio per iniziare una nuova sfida, con sempre al suo fianco Gigi Buffon. Francesca Galici, Mercoledì 12/08/2020 su Il Giornale. Ilaria D'Amico ha deciso: stop al calcio. Le parole rilasciate al Corriere della Sera per annunciare il ritiro sembrano quelle di un calciatore quando appende gli scarpini al chiodo. La giornalista sportiva più bella della televisione ha scelto di non occuparsi più di sport e di calcio per affrontare nuove sfide professionali. Una decisione non semplice ma ponderata, frutto di lunghi mesi di riflessione fatti insieme a Gigi Buffon. "Con la fine della Champions volterò pagina: con lo sport avrei potuto continuare per sempre, è una macchina che conosco alla perfezione. E il punto è proprio questo: sento il desiderio di rodarne una nuova, farle fare dei giri e lanciarla", annuncia Ilaria D'Amico, da 23 anni cronista sportiva di successo. Sente il bisogno di cambiare, forse di crescere. Di sicuro vuole esplorare nuovi ambiti e rimettersi in gioco. Potrebbe muoversi su due strade parallele ma ha scelto di fermarsi con lo sport, come fa un treno quando arriva al capolinea. Il suo percorso in quel settore sente di averlo concluso, di aver dato quanto poteva e di aver ricevuto in cambio tutto quello che doveva. Ha avuto il coraggio di lasciare la strada conosciuta per iniziarne una tutta nuova, senza tenere un piede in due scarpe.
Ilaria D'Amico: "Contagi alla Juve. Con Gigi in letti separati..." ]L'ha fatto anche per la sua famiglia allargata, per gli impegni come madre, compagna e protagonista di una famiglia allargata: "Voglio puntare su un solo obiettivo e andare fino in fondo. Sento che oggi, dopo aver vinto molte sfide, le mie nuove sono anche l’essere mamma, compagna e un riferimento per altri piccoli. Così ho deciso di dedicare la mia energia a un solo progetto, a un nuovo figlio professionale". L'idea della sua rete è quella di affidarle un programma in prima serata che col tempo diventi un appuntamento fisso dedicato all'attualità. In questi anni di sport, Ilaria D'Amico ha abbattuto i cliché ed è diventata parte integrante di un universo prettamente maschile, dove viene riconosciuta come esperta del settore e non solo per le sue qualità estetiche, anche se non sempre è stato facile. "Non ho mai voluto rinunciare alla mia femminilità. Ma volevo sentire anche la giusta considerazione e credo che grazie al lavoro fatto a Sky questo sia stato presto possibile: lì è irrilevante che tu sia uomo o donna, devi fare bene il tuo lavoro", ha affermato la D'Amico.
Ilaria D'Amico su Gigi Buffon: "Pensavo fosse un fascista". Di momenti belli e da ricordare ce ne sono tantissimi nella sua lunga carriera ma quello che lei ha nel cuore è soprattutto uno: "La prima diretta di Sky, con Sky Calcio Show: era il giorno del mio compleanno, il 30 agosto del 2003. Mi ero preparata una valanga di appunti, ero entrata in studio con una specie di tesi di laurea, tanto che in seguito mi vietarono di consultare l’archivio". Grazie al suo lavoro ha conosciuto Gigi Buffon, l'uomo della sua vita. Per tanti anni i due si sono incontrati senza mai andare oltre i convenevoli ma poi è scoppiato qualcosa tra loro: "Non pensavo che potessero unirci così tante cose. Gigi si informa moltissimo, ha una grande passione per l’informazione, specie per il giornalismo del passato... in questi giorni si addormenta con le cuffie: sta riascoltando tutti i processi di Mani Pulite". Pare che proprio Gigi Buffon sia il suo primo supporter in questo processo di cambiamento: "Sa ascoltare i miei bisogni e sostiene le nuove scelte". Per lui, già anni fa, Ilaria D'Amico era pronta a lasciare il suo lavoro: "Quando ho capito che con Gigi era una cosa seria, ad esempio, sono andata a parlare al mio editore, dicendomi disponibile a lasciare tutto se per lui ci fosse stato un conflitto d’interessi, perché mi ero davvero innamorata. Lui mi ha risposto: noi ti abbiamo sposata prima. Sono cose che non si dimenticano".
Gigi Buffon, Ilaria D'Amico: "Si addormenta ascoltando i processi di Mani pulite". Dagospia: "Poi Calcipoli?" Libero Quotidiano il 12 agosto 2020. La testa nel pallone? Gigi Buffon, nonostante l'ossessione per i record ( e la Champions League, mai vinta) è molto di più e a confermalo è la sua compagna Ilaria D'Amico. Nell'intervista al Corriere della Sera in cui annuncia l'addio ai programmi sportivi per un talk dedicato all'attualità, la giornalista di Sky ricorda l'incontro con il portierone della Juventus eroe del Mondiale 2006: "Quello fatale è arrivato dopo, a un evento benefico. L'idea che mi ero fatta negli anni, durante le dirette era diversa: lo reputavo un campione gigantesco, ma non lo avevo capito umanamente...". E invece continua a stupirla: "Non pensavo potessero unirci così tante cose. Gigi si informa moltissimo, ha una grande passione per l'informazione... da giorni si addormenta con le cuffie: riascolta i processi di Mani Pulite". E Dagospia, riprendendo l'intervista, infierisce: "Poi passerà a quelli di Calciopoli?".
· Luca Abete.
Luca Abete: "Tra pestaggi e violenza me la sono vista brutta". Nel giorno in cui Striscia la notizia è il programma più visto dagli italiani, abbiamo incontrato uno degli inviati più amati del programma, Luca Abete. Roberta Damiata, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. Da anni e con grandi inchieste Luca Abete si è scontrato con mafia e camorra e spesso è anche finito in ospedale. Un personaggio che con grazia e gentilezza è diventato un vero e proprio paladino della giustizia, un piccolo “Davide” contro Golia che passo dopo passo è diventato uno dei punti di riferimento per la legalità nel Sud. Il suo ultimo format “4 Parcheggianti” ha portato alla denuncia di 17 parcheggiatori abusivi. Solo l’ultimo di una serie di operazione di parte di Carabinieri e Polizia scattati dopo le segnalazioni dei suoi servizi. “Questa è la forza di Striscia -racconta- e dell’immenso circo costruito da Antonio Ricci” (a cui Luca fa gli auguri di pronta guarigione). E proprio di Striscia la notizia, nel giorno in cui è il programma più visto dagli italiani e ha segnato il record stagionale con oltre 5 milioni e mezzo di telespettatori (con punte che sono arrivate a sei milioni con il 24% di share) abbiamo parlato con lui, di come vengono creati questi servizi e del suo impegno a favore della legalità.
Come è nato il format dei “4 parcheggianti”?
“Questo era uno degli esperimenti che volevamo mettere in campo a Striscia la Notizia, che è in perfetta sintonia con lo stile del programma che affronta tematiche e situazioni gravi andando in fondo senza puntare il dito. Striscia da sempre sperimenta alcuni “linguaggi” televisivi come quello della telecamerina nascosta. In questo “laboratorio”, questo servizio sembrava comunque una formula simpatica e leggera. Quando sperimenti ovviamente puoi rischiare anche di fare flop, invece in questo caso ha funzionato, perché è piaciuto al pubblico dal punto di vista dello spettacolo e ci sono state anche delle conseguenze, con controlli e denunce da parte delle forze dell’ordine”.
L’autorevolezza di Striscia la notizia e dei suoi servizi è qualcosa di unico, spesso si sente dire: “Se lo ha detto Striscia allora è vero”...
“E’ vero è qualcosa di sorprendente. Sono stati scritti fiumi di parole, anche in sedi prestigiose per studiare il miracolo legato a questo programma. Mi viene in mente un aneddoto: certe volte incontro persone che mi dicono: “Grazie Luca mi hai risolto il problema" ed io chiedo "Quale problema? Io non ho fatto nulla". “E’ bastato ‘minacciare’ di chiamare te e Striscia e sono riuscito ad ottenere quello che mi aspettava e che non mi volevano dare". Questo è clamoroso, perché se riusciamo a risolvere i problemi, senza neanche andare sul posto, vuol dire che questa autorevolezza è dirompente. Io ho un filo diretto con gli enti, le associazioni, i comitati, le persone sole e tanta gente che si rivolge a me per cercare di affrontare una dinamica e ho anche la libertà di farlo nel miglior modo possibile".
Come dicevamo prima spesso sono intervenute le autorità. L’hanno mai ringraziata, piuttosto che chiamata, per farsi aiutare in qualche operazione?
“Abbiamo un ottimo rapporto con le forze dell'ordine con loro c'è una collaborazione abbastanza visibile. I nostri lavori danno molto spesso il via a inchieste. Io dico sempre che Striscia è la trasmissione dei record perché ha la redazione più grande del mondo, quella formata da tutti gli italiani che ogni giorno ci scrivono e collaborano alla realizzazione del programma”.
Tenete particolarmente alle segnalazioni dei telespettatori?
“Sono molto attento a quello che mi succede attorno, perché all’inizio per molti anni, arrivando in una Regione dove Striscia non aveva un inviato, non c'era questo scambio. Molti pensavano che fosse l'omertà dei campani, invece da subito ho capito che c'era bisogno di stabilire un rapporto di fiducia con il territorio. La cosa ha funzionato e oggi abbiamo molte segnalazioni che portano ad un costante monitoraggio del territorio attraverso le persone che ci scrivono. Nonostante questo però conservo ancora l'attenzione molto alta”.
Da cosa nasce il suo desiderio di giustizia e legalità?
“Dai miei genitori che mi hanno insegnato i valori della giustizia come stile di vita a partire dalle piccole azioni quotidiane. Questa cosa me la sono portata dietro con un impegno che è poi passato nel mondo della solidarietà. Ho lavorato per molti anni con i bambini. Il desiderio di regalare un sorriso mi ha fatto abbandonare l'idea di diventare architetto e mi ha fatto diventare un clown. Poi la cosa si è ulteriormente evoluta con lo strumento televisivo che mi ha fatto diventare l'inviato di Striscia che tutti conoscono. Molta gente che lavora in televisione perde un po' di vista il contatto con la realtà di tutti i giorni e si chiude nel ruolo di personaggio".
Ci sono state mai critiche per i suoi servizi?
Come inviato di Striscia posso dire di avere un legame costante con tutto quello che mi circonda e il poter rappresentare la voce di gente che soffre che vede un'ingiustizia vorrebbe combatterla e si affida a me è un momento di grande soddisfazione che vivo con slancio e responsabilità. Da questo punto di vista spesso l'accusa che mi viene rivolta è quella di parlare solo di problemi o di porre l’accento sulle cose negative di Napoli, ma non è così. Io ascolto tutti i giorni la gente che vive in situazioni brutte o denuncia qualcosa che non va e per questo cerco di non sprecare quella ‘cartuccia’ che ho, per spararla nella direzione giusta. Sarebbe un peccato mortale sprecare questa occasione per raccontare uno dei tantissimi pregi di una città meravigliosa, come Napoli dove c'è tantissima gente che odia le ingiustizie. Dall’altra parte però, c'è un numero di persone che sono nate e sono cresciute con una mentalità e un modo di agire difficile da sradicare. C’è chi dice che la camorra non esiste perché pensa che convivenze di un certo tipo siano normali perché le hanno vissute fin da quando erano ragazzini, invece questa si chiama malavita organizzata”.
Come è arrivato a “Striscia la Notizia”?
“Con un concorso per i nuovi inviati nel 2005. Lavoravo in una piccola rete di Avellino facendo un programma quotidiano per bambini che mi ha dato la possibilità di diventare disinvolto anche davanti alla telecamera. Quando ho saputo che cercavano un inviato mi sono subito catapultato e i miei video hanno vinto. Per i primi due anni, però, sono andato in onda pochissimo perché ero un po' acerbo. Cercavano di capire se ero veramente adatto a fare questo lavoro. Questa ‘gavetta’ mi è servita tanto, perché mentre qualcun altro forse avrebbe detto “è ingiusto che io venga utilizzato per due, tre servizi all'anno lavorando tutti i giorni”, io ho invece pensato che quel tempo potevano essere sfruttato per diventare più bravo. E oggi lo benedico”.
Tra i tanti servizi che ha realizzato, c’è qualcuno a cui è particolarmente affezionato?
“Sicuramente quelli sulle questioni ambientali, della Terra dei Fuochi ai depuratori che sversavano sulle spiagge le fogne senza depurarle, nel silenzio assordante di tutti. Le mie denunce sono state all'inizio prese male perché erano viste sia come strumentalizzazioni a volte anche come invenzioni di problemi che non esistevano. Poi il tempo, purtroppo, mi ha dato ragione e sono emerse. Mi ricordo di un servizio in un centro dove curavano la riabilitazione di persone disabili, quando mi raccontarono che i pazienti all’interno erano in condizioni disumane io non volevo crederci. Poi ho visto i video e mi sono reso conto che questi pazienti vivevano come nei lager e che erano abbandonati a loro stessi. Quando sono entrato ho potuto constatare con i miei occhi le lenzuola sporche mai lavate e i pazienti in situazioni terribili. Molti di loro poi si scoprì che erano stati anche picchiati. Quella è stata una battaglia dura".
Spesso ha messo il naso in situazioni pericolose si è scontrato con mafia e camorra che cosa è per lei la paura?
“Quando giro un servizio so che può succedere di tutto da un momento all'altro. In anni e anni di lavoro mi hanno picchiato, sono finito in ospedale, abbiamo trovato la macchina rotta. A volte andiamo a Scampia e con la squadra ci ritroviamo accerchiati da gente che ci vuole bene, giusto per smontare un luogo comune e poi in un altro paese sono finito in ospedale con dieci giorni di prognosi. La paura alla fine è un sentimento che è pur sempre relativo, spesso mi dicono che sono coraggioso, ma io penso che lo sia chi va a farsi le analisi del sangue e non sviene. Quando io ci vado e vedo un ago, mi tremano le gambe!”.
Quando voi andate, siete sempre certi di trovare qualcuno che ha commesso un reato?
“Quando andiamo a parlare con qualcuno, lo facciamo per poter dare comunque la possibilità di spiegarsi. E’ successo di incontrare gente che non si rendeva conto di quanto fosse grave quello che aveva fatto e ha chiesto scusa o ha posto rimedio ai danni che ha fatto. Ovviamente ci sono situazioni che possono degenerare e quando succede tu non sai mai a che punto si arriva. In quei frangenti speri solo che tutto finisca presto.
C'è stato qualche momento che hai pensato: "Questa volta non ce la faccio"?
"Quando capiamo che la situazione si fa pericolosa, cerchiamo di allontanarci e in molti casi la cosa finisce lì. Altre volte invece ci siamo trovati in situazioni di persone che volevano veramente farci del male e lasciarci a terra. Mi ricordo di un servizio fatto a Caserta quando documentammo il mercatino del falso gestito da ragazzi extracomunitari che ovviamente venivano gestiti dalla malavita organizzata. Tutta merce contraffatta venduta all'interno di un giardino dove c’erano le giostre per dei bambini. Lanciai questa denuncia dicendo che era assurdo che dei bambini avessero fin da piccoli un rapporto così stretto con l'illegalità. Quando andammo lì per la seconda volta ci aspettavano con i bastoni e ci hanno distrutto le telecamere e inseguito con l'intento di farci veramente male. Sono stato salvato da alcune persone che erano in piazza e mi hanno fatto rifugiare in un negozio di kebab. Devo dire che quello è stato il kebab più buono della mia vita, nonostante avessi preso una grande botta in testa e mi fosse quasi saltato un dente con un calcio in bocca”.
In passato ha ricevuto minacce molto pesanti, in quei caso non pensa mai alla sua famiglia o agli affetti più cari?
“Essere un volto noto un po' ti tutela perché quando sono successi dei fatti incresciosi, come un'aggressione o delle minacce, tante persone mi hanno difeso. Ora faccio una vita molto riservata, ho cambiato le mie abitudini rispetto ad anni fa, tengo private le mie cose personali e cerco di vivere in una maniera un po' più tutelata. Anche se devo dire che negli ultimi anni ho registrato un atteggiamento diverso anche da parte delle peggiori persone. Magari sui social network sono particolarmente aggressivi, ma poi quando li incontri dal vivo, bastano due parole per fargli chiedere scusa".
Il mondo in cui viviamo sta diventando sempre più pericoloso...
"Oggi viviamo in un clima di grande esasperazione, proprio dei giudizi, delle attenzioni, delle analisi, sono tutti diventati molto violenti e questa cosa qui non è che fa stare tranquilli. Io però vivo con la consapevolezza che non ho mai mancato di rispetto a nessuno, che ho sempre cercato di portare avanti il giusto. Se durante un’inchiesta mi rendo conto che qualcosa è sbagliato la archiviamo e andiamo avanti con il prossimo lavoro. Anni fa c'è stata anche una manomissione sulla mia pagina Wikipedia, dove aggiunsero la data della mia morte. Avevano cambiato tutti i verbi mettendoli al passato e raccontando anche come sarei stato ucciso da lì a poco. Tutto questo è stato inquietante perché è successo il giorno stesso che io andai a fare un servizio sui beni sequestrati ai Casalesi. Però oggi sono vivo e abbiamo vinto anche questa volta”.
Parlando di social lei è preso particolarmente di mira...
“C’è, come dicevo, una forte esasperazione che sfocia in commenti e accuse smodate che danneggiano più chi le pronuncia piuttosto che chi le riceve. Nel caso specifico sono da sempre bombardato da messaggi di odio e sono talmente abituato che negli ultimi tempi mi diverto a trasformarli in momenti di divertimento per chi legge. Rispondo cercando di ironizzare sulla cosa. Mi rendo conto che c'è gente che vive di questo, ma tutte le persone e anche quelle importanti come i nostri politici, dovrebbero cominciare a dare il buon esempio”.
A proposito di politici, si è mai scontrato con qualcuno di loro?
“Ho fatto servizi su tutto dai politici alle forze dell'ordine fino ai parroci di alcune chiese. La cosa più importante è che mi trovo circondato dall'affetto di tanta gente comune che mi non mi ha mai fatto sentire solo”.
Oltre ai servizi su Striscia, lei è anche molto impegnato socialmente...
“Con ‘Non ci ferma nessuno’, siamo ormai al lavoro per la settima stagione. La campagna è nata nel 2014 con l’intento di girare i luoghi di aggregazione dei ragazzi per parlare con loro di coraggio e di come le difficoltà, se gestite bene, possono diventare un qualcosa di utile e di determinante per la nostra crescita. Questa compagna è nata con una grandissima dedizione all'ascolto dei giovani. Abbiamo redatto tre ricerche scientifiche realizzate con professori dell’università “La Sapienza” di Roma proprio nel tentativo di creare questa analisi e questo studio".
Un format che ha ottenuto molti consensi...
"Oggi il format è vincente, io parlo ai ragazzi non come un professore che indica la strada ma come un amico che racconta un percorso nel quale la maggior parte del ragazzi si riscontra. Con ‘Non ci ferma nessuno’ parliamo di esempi concreti, di scelte e di situazioni comuni di tutti i giorni che poi diventano fondamentali per la loro crescita. Abbiamo avuto anche un grande apprezzamenti come la medaglia del Presidente della Repubblica o i patrocini di alcuni ministeri del governo italiano. Papa Francesco ha voluto fare un incontro a Città del Vaticano dove abbiamo parlato a 7000 ragazzi proprio di queste cose”.
Si parla tanto di una generazione senza un indirizzo preciso. Lei che conosce bene i giovani cosa ne pensa?
“Vedo tanti ragazzi veramente in gamba capaci di portare avanti il loro talento nel miglior modo possibile. Questa non è una cosa nuova che dico, perché è ovvio che ci siano. La cosa che preoccupa invece sono quelli che in questo momento sono un po' indecisi e si lasciano un po' rallentare dalle questioni circostanti. E’ su loro che bisogna puntare. Penso bisognerebbe lavorare ad iniziare dai bambini, quelli che oggi vengono sedotti da display luminosi con touch screen che rischiano di trovarsi così giovani in un mondo parallelo che un po’ li dissocia dalla realtà. Allora un po' di concretezza in più può riportare questi ragazzi ad essere più vicini ad una realtà sana. Se fossi nato in questo periodo, se avessi vissuto l'adolescenza oggi, avrei avuto anche io qualche difficoltà. Il messaggio quindi è quello di non demonizzare i ragazzi, non demonizzare il loro mondo e i loro linguaggi ma capire tutto quello che c'è attorno, per cercare comunque di trovare una strada che possa essere utile per valorizzare i nostri adulti di domani”.
· Mario Giordano.
Mario Giordano, il giornalista comodissimo della (vecchia) Rete 4. Le inutili parodie sul tono di voce fanno distrarre dal punto: che il suo essere "Fuori dal coro" è solo un modo dire. Beatrice Dondi l'11 marzo 2019 su L'Espresso. C’è almeno un motivo per essere dalla parte di Mario Giordano, classe 1966 cresciuto a brasato e Barbera in quel di Alessandria: il fatto che negli anni si siano susseguite una serie innumerevole di sgradevoli imitazioni sulla sua voce. Come se una caratteristica fisica, che sia l’altezza, la taglia, o in questo caso le corde vocali, possa essere preso per contenuto. Perché poi quando Giordano lo si ascolta davvero appare evidente che quello che dice è decisamente meno acuto del suo tono. Passato con facilità da Grillo parlante a Lucignolo, e che Collodi lo perdoni, ha al suo attivo diciassette libri, molti dei quali con titoli che ricordano alla lontana gli acchiappa click dei gattini su Facebook conditi di veemenza. Da “Sanguisughe” a “Pescecani”, da “Vampiri” ad “Avvoltoi”. E mentre come dice il nostro nel suo ultimo scritto “L’Italia non è più italiana”, dalla televisione si affaccia con la stessa aria pacata per smuovere le acque placide dei talk. Fiero del suo Tapiro conquistato sul campo per un fuori onda di Vittorio Sgarbi, Giordano, con le sue frasi dal lieve sentore apodittico, ha il vezzo dell’inciso incompiuto. «Ma cosa stai dicen..., eccet eccet... ma scu’..., chi decid..., quello che fa fed...» fanno ormai parte del suo movimento narrativo con cui, tra una sfuriata e l’altra, riempie studi variegati di ogni genere e numero. Candidato in pectore alla striscia quotidiana del Tg1 al posto della signora Maglie, per il momento occupa quella più sfacciata della nuova Rete 4 che è tornata vecchia in un attimo. E dal suo studio dispensa perle di cattivo senso in faccia alla telecamera come una citazione di Funari, “Fuori dal coro”, appunto, anche se a ben guardare sembra perfettamente allineato all’arietta di questi giorni. Così dice la sua, da giornalista fintamente scomodo ma perfettamente a suo agio. E saltellando da un “Fabio Fazio come un pelouche” a “Meno zenzero più polenta” infarcisce i suoi monologhi di analisi in bianco e nero su ruspe, illegalità e rom che rubano, con quel tocco delicato di chi ha fatto dell’allarme meteo il suo piatto forte di Studio Aperto nei bei tempi andati. Giordano ogni giorno esercita sullo spettatore l’effetto annuncio, con cui, prima di dire la frase studiata ad arte fa pregustare la bomba in arrivo. Lo sto per dire, ora lo dico, ecco l’ho detto. Dal salotto vip del televoto sanremese che ha premiato il Marocco pop alla perdibile analisi secondo la quale l’Italia non ha bisogno di ponti ma di muri, Mario Giordano continua imperterrito a cantare “tutto d’un tratto il coro”, come Dapporto nel Carosello della Pasta del Capitano. Per il fuori ci stiamo lavorando.
Ma quanti anni ha Mario Giordano? Imbuti, ruspe, palette, diminutivi, il giornalista di Fuori dal coro ha un giocattolo per ogni trasmissione. O è infantile lui o prende per scemi noi. Beatrice Dondi l'8 giugno 2020 su L'Espresso. Uno strano cambio di prospettiva aleggia sulla nuova, vecchissima Rete 4: nel talk show di Mario Giordano, che in assenza di manca racimola ascolti a destra e destra, lo spettatore è trattato come un bimbo a cui vanno spiegate le cose dei grandi. Per questo si insiste nell’utilizzo di linguaggio semplice e infantile, dedicato appunto a un pubblico secondo lui incapace di comprendere la complessità seppur minima. Ma Giordano non si limita all’utilizzo continuo del diminutivo, del lamento da cucciolo col ginocchio sbucciato, lacrimuccia compresa, ma ha bisogno, per comunicare, di utilizzare gli oggetti come fossero giocattoli. Esempi tangibili di quanto tenta a fatica di esprimere, giudicando inverosimile che i concetti articolati possano arrivare direttamente attraverso l’esercizio del pensiero, il giornalista di Rete 4 indossa, brandisce, agita e manipola un qualcosa di grande e colorato per aiutare quello che considera il suo spettatore tipo. Durante l’imbarazzante serial su Bibbiano stringeva a sé la bambola di stoffa e armato di ago scoppiava palloncini colorati. Poi c’è stata la strenua battaglia contro i festeggiamenti di Halloween, affrontata con baldanza armato di una mazza da baseball tricolore con cui frantumava le zucche (una scena ai limiti dello splatter c’è da dire ma di sicuro effetto onomatopeico). Per sbeffeggiare gli ecobonus del governo si è aggirato garrulo nello studio a bordo di un monopattino, quando affronta tagli e stipendi stringe banconote e monetine come fossero paghette settimanali, mentre per parlare a suo modo delle Sardine ovviamente è servito il ritaglio del pesce azzurro in cartoncino. A Matteo Salvini ha offerto un generoso barattolo di pop corn e una bottiglia di spuma, prodotto italiano con marchio sicuro. Il momento anti rom si è esplicitato con una piccola ruspa di plastica tra le mani e una lettura di psicologia spicciola probabilmente farebbe risalire il tutto a una sorta di invidia originale come il peccato nei confronti dei plastici che tanto lustro regalarono allo sfarzoso studio di Bruno Vespa. La differenza però è che Giordano, rivolgendosi direttamente al pubblico bambino, pensa che il giocattolo in fondo sia suo, come il pallone, e non gli basta mostrare, ma tocca e afferra e indossa, soffia nel fischietto, agita la paletta, sfoggia la pettorina gialla e versa sabbia nell’imbuto gigante citando con eleganza la ministra «azzo azzo Azzolina» neanche fosse un Bombolo dei tempi d’oro. Così nel villaggio vacanze di “Fuori dal coro” si gioca alla baby dance. E tutti cantano la nenia da mimare del Gioca Jouer: “Dormire, salutare, autostop!”.
· Maurizio Costanzo.
Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 6 aprile 2020.
Dica la verità: il 19 marzo ha mangiato il bignè di San Giuseppe?
«Ah, ma lei vuole girare il coltello nella piaga! Ho fatto cercare ovunque sperando in un crumiro, ma tutte le pasticcerie erano chiuse. Quindi no, quest' anno niente bignè fritto alla crema».
Maurizio Costanzo scherza per telefono dal suo ufficio nel rione Prati di Roma. Il coronavirus non ha sconvolto (troppo) le sue abitudini. Continua ad andare nello studio ogni giorno, tre volte alla settimana registra con Carlotta Quadri (a distanza) la puntata quotidiana di Strada facendo , che va in onda su Isoradio dal lunedì al venerdì dalle 11 alle 12, scrive le sue rubriche per Il Tempo e Libero , pensa a quando tutto questo finirà e potrà, oltreché mangiare un bignè alla crema, ricominciare a realizzare le puntate delle sue interviste.
Lei indossa la mascherina?
«Certo, nel tragitto in auto. Ma la indossano soprattutto le persone che lavorano con me, dai due uomini della scorta alle segretarie».
Esce sempre con la scorta?
«La mafia non si mette in malattia».
Come è cambiata la sua vita a causa del virus?
«Devo ammettere che non sono mai stato un tipo mondano. Da piccolo c' era la guerra e non uscivo... Poi ho sposato Maria, un' altra casalinga... Io e lei siamo marito e moglie da quasi venticinque anni e prima siamo stati insieme altri tre. In tutto questo tempo non abbiamo mai frequentato salotti o fatto cene a lume di candela fuori di casa. Può anche pensare che siamo parenti stretti del coronavirus!».
Sempre in isolamento?
«Ma no, è che torniamo tardi. Mi piace aspettarla la sera per mangiare».
Certe abitudini, però, sono dovute cambiare. Ora non può più pranzare con i suoi figli il giovedì.
«Eh, quello mi dispiace molto. È una delle cose che mi dispiace di più. Aspetto che si allentino le misure di sicurezza per ripristinare un po' di vecchie abitudini. Ormai temo ai primi di maggio».
Però li sente i suoi figli, no?
«Certo, spessissimo».
E i nipoti? Vi videochiamate?
«Eh no, ci sentiamo all' orecchio, ma questo per colpa mia che sono antico. Il nonno, del resto, lo hanno visto tante volte in tv».
Cos' altro non riesce più a fare?
«Prima due volte alla settimana vedevo un mio carissimo amico, l' avvocato Giorgio Assumma. Ora possiamo solo telefonarci».
Non ha potuto fare il «Maurizio Costanzo Show».
«Eh no, per via del pubblico. Ma dopo Pasqua ripiglierò con L' Intervista il giovedì sera».
Cosa guarda in tv adesso?
«Interi speciali sul coronavirus. Poi guardo Dritto e rovescio perché mi piace Del Debbio. Floris con diMartedì e talvolta Bianca Berlinguer».
Ho letto che vede anche il Grande Fratello Vip, ne ha scritto pochi giorni fa.
«Ah sì. Quelli piangono quando vengono eliminati perché sanno che fuori li aspetta il coronavirus».
Non le è venuta voglia di riprendere in mano il sassofono?
«No, confesso di no. Non so perché ho smesso. Quando ho fatto Buona domenica c' era un clima caciarone e lo suonavo. Poi non essendo un grande artista forse è stato meglio che abbia smesso».
E a un nuovo libro sta pensando?
«Quello sì, ho cominciato qualche giorno fa. Ho già il titolo: Questo l' ho detto al gatto».
Cosa gli ha detto?
«Parlo di tante cose, compreso il coronavirus. Ma non mi chieda altro».
È successo che persone a lei vicine siano scomparse per il Covid-19?
«No, però sono amico di Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo. Poveraccio, sta passando un momento durissimo».
Guarda ogni sera la conferenza stampa della Protezione civile?
«Sì e faccio i conti dei contagi. Seguo sempre Borrelli. Per la verità mi piaceva molto anche Bertolaso ai tempi dell' Aquila. Certo, in Lombardia è stato sfortunato ad ammalarsi subito».
Avrebbe mai immaginato uno scenario simile per l' Italia e per il mondo?
«No. Ricordavo una influenza asiatica del 1969, dove morirono cinquemila italiani.
Ma sa, io sono di una generazione che non aveva il vaccino del morbillo e della rosolia e quando facevi una di queste malattie raccomandavi l' anima a Dio».
Mentre va nel suo studio vedrà una Roma inedita.
«Sa cosa mi dà tristezza? I negozi tutti chiusi. Penso con preoccupazione alla botta economica che avremo. Spero che il governo sia all' altezza».
Lei crede che alla fine andrà tutto bene?
«Sì. Mi sono emozionato a vedere i nostri connazionali che cantavano alle finestre.
Stupendo. Ho visto un senso di appartenenza che ci farà bene».
· Michele Santoro.
Michele Santoro per tpi.it il 26 novembre 2020. Cari amici, ci tengo molto a ringraziare l’Huffinghton Post, Micromega e TPI che, a partire dal 2 dicembre alle 22:00 e per una settimana, diffonderanno in rete “I Fili dell’Odio”, una produzione indipendente di un gruppo di giovani autori che ho collaborato a realizzare. Le manipolazioni e l’inquinamento dei Social oggi sono un tema fondamentale perché producono una grave deformazione della democrazia. È un merito averlo voluto affrontare anche con pochi mezzi a disposizione. Ho provato a proporre il documentario a varie Strutture della Rai. Non hanno voluto prenderlo in considerazione. Non è la prima volta che mi trovo di fronte a una dimostrazione così grave di ottusità. Sei mesi fa ho proposto all’Amministratore Delegato del Servizio Pubblico, Fabrizio Salini di acquisire a titolo gratuito quasi un decennio di programmi nati sulla spinta di centomila sottoscrittori di cui detengo i diritti. Tra essi ci sono film, documentari e trasmissioni come quella a cui partecipò Silvio Berlusconi nel 2013 e che realizzò un record di ascolti difficilmente ripetibile. Ho posto come unica condizione che RaiPlay ne organizzasse la fruizione con tutti gli altri programmi da me realizzati in Rai. Ancora oggi sulla piattaforma online del Servizio Pubblico non è possibile rivedere le puntate di Annozero che hanno segnato un pezzo di storia del nostro Paese. Vi lascio immaginare il perché. È inconcepibile che la situazione sia ancora questa dopo che Beppe Grillo, autore di clamorose denunce contro la censura, ha portato il suo Movimento al governo e i Cinque Stelle hanno addirittura potuto decidere il nome dell’Amministratore Delegato della Rai e dei Direttori di reti e telegiornali. C’era da aspettarsi un Rinascimento della principale azienda culturale del Paese. Ci troviamo invece di fronte a un conformismo che non ha uguali perfino nella stagione monopolistica del Cavaliere. Ad eccezione di Report, mai le trasmissioni di approfondimento giornalistiche della Rai sono state così insignificanti e con ascolti così bassi, mai la satira così assente, mai i telegiornali così omologati. Dopo che, considerata la mia non più giovane età, ho deciso di smettere l’attività di produttore, senza lasciare debiti e senza buchi di bilancio, avendo consentito per quasi dieci anni a centinaia di persone di lavorare e a tanti giovani di formarsi, c’è chi ha titolato “Nessuno vuole Santoro”. Un titolo depistante visto che ho ricevuto inviti a partecipare come ospite praticamente da tutte le reti televisive esistenti e li ho rifiutati. Se ne potrebbe ricavare che anche il pubblico non sia così d’accordo con la mia assenza dal palinsesto. Sarebbe stato più corretto scrivere “Nessun Partito vuole Santoro” dato che con due governi diversi l’atteggiamento della Rai nei miei confronti non è cambiato. Non la vivo come una tragedia e la considero un’ennesima prova dell’indipendenza che ho sempre dimostrato. Resto in attesa di conoscere i vostri commenti a “I Fili dell’Odio”. Buona visione.
· Mimosa Martini.
Giovanna Casadio per repubblica.it il 29 ottobre 2020. I fatti parlano da soli. Una giornalista, Mimosa Martini, da trent'anni inviata di politica internazionale soprattutto per Mediaset, con un trasferimento deciso dal gruppo a Cologno Monzese, pubblica sui social il suo curriculum. Scrive: "#cerco lavoro", e a seguire le competenze acquisite in tanti anni di mestiere. Massima trasparenza. Una domanda altrettanto semplice: "Qualcuno può avere bisogno delle mie competenze? Mi date una mano?". E le risposte non si fanno attendere. Sono del tipo: "Vai a fare la nonna", "Non ingolfare il mercato del lavoro". "Fatti da parte". Già, Mimosa ha un doppio svantaggio: è donna ed ha 59 anni. Lo premette lei stessa nel curriculum sul suo profilo Twitter, dove è scritto "giornalista italiana prigioniera delle sabbie mobili". Non si perde in piagnistei, figuriamoci, in un momento come questo con le piazze che scoppiano per la rabbia di chi ha perso lavoro e di chi soffia sul fuoco apposta. "Ricominciare a 59 anni in piena pandemia, non è facile...". Ma elenca profilo professionale, i libri scritti e pubblicati, le lingue che conosce, le esperienze fatte in giro per il mondo, le capacità dall'editing alle tecnologie, la carriera giornalistica. Possono servire? Magari, potrebbero. I fatti parlano da soli. Una giornalista, Mimosa Martini, da trent'anni inviata di politica internazionale soprattutto per Mediaset, con un trasferimento deciso dal gruppo a Cologno Monzese, pubblica sui social il suo curriculum. Scrive: "#cerco lavoro", e a seguire le competenze acquisite in tanti anni di mestiere. Massima trasparenza. Una domanda altrettanto semplice: "Qualcuno può avere bisogno delle mie competenze? Mi date una mano?". E le risposte non si fanno attendere. Sono del tipo: "Vai a fare la nonna", "Non ingolfare il mercato del lavoro". "Fatti da parte". Già, Mimosa ha un doppio svantaggio: è donna ed ha 59 anni. Lo premette lei stessa nel curriculum sul suo profilo Twitter, dove è scritto "giornalista italiana prigioniera delle sabbie mobili". Non si perde in piagnistei, figuriamoci, in un momento come questo con le piazze che scoppiano per la rabbia di chi ha perso lavoro e di chi soffia sul fuoco apposta. "Ricominciare a 59 anni in piena pandemia, non è facile...". Ma elenca profilo professionale, i libri scritti e pubblicati, le lingue che conosce, le esperienze fatte in giro per il mondo, le capacità dall'editing alle tecnologie, la carriera giornalistica. Possono servire? Magari, potrebbero. Invece si ritrova i "vaffa" che accompagnano le donne quando resistono fino all'ostinazione, quando non si rassegnano a farsi mancare di rispetto e a mancare di rispetto alla propria intelligenza. Lei reagisce "on twitter": "A tutti quelli che mi dicono di fare la nonna, farmi da parte, che ingolfo il mercato del lavoro (quale mercato, poi) avreste detto lo stesso a un uomo di 59 anni?". Fa esempi. "Massimo Giannini, Maurizio Molinari o anche un Cruciani sono miei coetanei, per dire...". Qualcuno li inviterebbe a fare il nonno, il padre, insomma a starsene a casa? Chi metterebbe in dubbio il loro valore e il loro diritto a dare un contributo di idee, di attività, di creatività, di impegno civile? Invece disparità e pregiudizio risorgono, o meglio non sono mai tramontati. Così difficili a morire che consentono, ad esempio, a un collega giornalista in tv di chiamare una collega per nome di battesimo non per familiarità (che non c'è) ma per sminuirne il discorso. Martini ricorda il botta e risposta televisivo tra Alessandro Sallusti e Concita De Gregorio, da cui sono nate polemiche e critiche. "Ma noi donne e professioniste veniamo trattate come delle ragazzine. Ti chiamo per nome, non sei il direttore, la professionista, sei una donna...", commenta allargando la riflessione. E quindi, "anche a questo occorre ribellarsi, ma non fare passare tante cose significa pagarla duramente". Nessuna solidarietà? "Incoraggiamenti tanti ora anche sui social, solidarietà nell'ambiente Mediaset no".
· Monica Maggioni.
"Sono tornata al giornalismo. E ora, scusate, non sloggio". L'ex presidente Rai è ripartita con il programma "Sette Storie". E risponde all'attacco di Costanzo. Laura Rio, Lunedì 12/10/2020 su Il Giornale. Non ha fatto in tempo a tornare in video che subito uno dei padri del giornalismo televisivo italiano l'ha duramente rimproverata e le ha chiesto addirittura di sloggiare. Monica Maggioni, che sulla sua strada (carriera fulminante, da precaria a inviata Rai, e poi ai vertici aziendali) di nemici ne ha incontrati tanti, mai si sarebbe aspettata lo sfogo di Maurizio Costanzo. L'inventore del talk show che conduce su Raiuno il lunedì a tarda ora S'è fatta notte, in onda in coda a Sette Storie, il nuovo programma della giornalista, ha sbuffato: «La Maggioni dura troppo, finisce tardi e mi lascia pochissimo pubblico. Cerchi di essere più breve o meglio cambi rete e giorno». Apriti cielo. Interventi ai massimi livelli e dopo qualche ora scuse di Costanzo.
Immaginava un'accoglienza del genere al suo ritorno al giornalismo attivo dopo anni da dirigente (presidente Rai e poi ad di RaiCom)?
«Devo dire che ci sono rimasta male. Soprattutto perché Costanzo ha detto cose inesatte: il programma non finisce tardi e non ha avuto bassi risultati di ascolto. Chiarito questo, accetto le scuse. Non sono un'integralista delle punizioni, per cui va bene così».
Ma Lei è contenta di come ha debuttato Sette Storie?
«Molto. Mi spaventava l'idea di proporre qualcosa di diverso rispetto al menù solito della tv. Una sfida che poteva non trovare un immediato riscontro da parte del pubblico. Invece abbiamo avuto subito dei buoni dati: la prima parte con la conversazione itinerante con il premier Giuseppe Conte ha superato il 13% di share con due milioni di spettatori».
Però la media è stata del 9,2%, non un risultato da record per Raiuno.
«Ho sempre detto, anche da dirigente, che bisogna dare ai programmi il tempo per crescere e conquistare la fiducia del pubblico. La nostra base di partenza è più che buona. Abbiamo fatto scelte difficili come mostrare il duro reportage di Gianfranco Rosi sull'Irak».
Il talk finale, invece, segue i canoni tradizionali del dibattito tra due esponenti di opposte visioni.
«Però offre la possibilità di approfondire un tema e di farlo in maniera seria e garbata. Col tempo metteremo a punto la formula».
Ma c'era bisogno di scomodare un format francese (La conversation secrète) per inventare la passeggiata notturna per Roma?
«È un programma che ho visto in Francia, che è piaciuto molto a me e al direttore di rete Stefano Coletta. Ci permette di mostrare personaggi noti della politica, delle istituzioni, dello spettacolo in luoghi diversi da quelli loro consueti, un modo per trasportarli in una condizione normale che consente di scoprirli meglio. Stasera avremo Alessandro Gassmann. Mentre nella seconda parte, dedicata al racconto per immagini, alterneremo storie singole italiane con reportage dal mondo: oggi andremo a Catania».
Come si sente di nuovo nei panni della giornalista?
«Mi sento a casa, finalmente. Mi mancava molto la militanza sul campo. Per me è stato come riconnettermi con me stessa. Mi sono rimessa a fare quello che amo. Ho cominciato in Rai nel '95 proprio a Tv7, di cui Sette Storie è l'erede, e sono stata felice di tornarci. Peccato che, per colpa del Covid, non posso andare in giro per il mondo come ho sempre fatto da inviata».
È stato difficile stare lontani dalla prima linea in questi mesi di pandemia.
«Nella tristezza del dolore che ha colpito tante persone, ho provato la gioia di restare vicino ai miei anziani genitori in Brianza. Comunque, ce ne occuperemo anche noi a Sette Storie, quando troveremo una chiave un po' diversa dagli altri programmi».
Costanzo a parte, negli anni si è fatta parecchi nemici. Appena in onda quest'estate (in fase sperimentale), il nuovo programma è stato messo sotto torchio. Le critiche: troppi soldi, inserimenti di collaboratori esterni.
«Quando una persona è esposta pubblicamente come me è normale che venga attaccata, se uno accetta di essere visibile deve sapere affrontare le conseguenze. Questo non significa che non ci resti male, ma certo non mi metto a fare le guerricciole. Tra l'altro certe critiche possono anche rivelarsi utili».
Maggioni e quell'intervista ad Assad che la Rai non sa come usare. L'amministratore delegato di Rai Com è volata a Damasco per parlare con il presidente siriano ma ora lo scoop non va in onda. Goffredo De Marchis il 04 dicembre 2019 su La Repubblica. Un colpo giornalistico (anche se è un bis). Un’intervista dalla probabile eco internazionale. Ma la Rai non sa dove mandarla in onda, su quale canale, in quale contenitore, a quale ora. Potrebbe trasmetterla su Raiplay che con Fiorello ha inaugurato la stagione dei contenuti esclusivi: è un’idea. Ma per il momento giace in qualche saletta di montaggio a Saxa Rubra. Abbandonata così. Una foglia morta. Monica Maggioni è volata a Damasco per intervistare il presidente siriano Bashar al Assad. Lo aveva già fatto per il Tg1, da presidente della Rai, nel novembre del 2015 in un momento caldo del conflitto tra il regime e i ribelli. Il colloquio infatti scatenò polemiche politiche. Non si capiva neanche bene perché fosse lì, non nel suo ruolo di inviata di punta ma di numero uno del Cda. Stavolta la situazione appare se possibile ancora più surreale. La Maggioni, che occupa la poltrona di amministratore delegato di Rai Com (una partecipata del servizio pubblico) è partita, pare con il consenso di Salini, ha realizzato l’intervista, è tornata ma ora c’è un problema: dove e come mandare in onda il tutto? Evidentemente, non aveva concordato il viaggio né con i tg, né con le reti. È scattato un imbarazzante scaricabarile. Mia, tua, sua. E lo scoop non va in onda. Si cerca in queste ore una soluzione che dia un senso alla trasferta.
(AGI l'8 dicembre 2019) Da Damasco arriva un "ultimatum" alla Rai sull'intervista fatta dall'amministratore delegato di RaiCom, Monica Maggioni, al presidente siriano, Bashar al ASSAD, e non ancora mandata in onda, rinviando più volte la programmazione prevista per il 2 dicembre scorso. Se la Rai non la trasmetterà entro lunedì 9 dicembre, il colloquio andrà in onda comunque sui media siriani senza la contemporaneità prevista dagli accordi. "Il 26 novembre 2019, il presidente al-ASSAD ha rilasciato un'intervista alla Ceo di Rai, Monica Maggioni. Si è convenuto che l'intervista sarebbe andata in onda il 2 dicembre su Rai News 24 e sui media nazionali siriani", si legge in una nota dell'ufficio stampa della presidenza siriana pubblicata su Facebook. "La mattina presto del 2 dicembre, abbiamo ricevuto una richiesta, per conto di Rai News 24, di ritardare la trasmissione senza una chiara spiegazione. A ciò seguirono altre due richieste di rinvio, senza che fosse fissata una data per l'intervista e senza nessun'altra spiegazione", protestano ancora da Damasco. "Questo e' un ulteriore esempio dei tentativi occidentali di nascondere la verità sulla situazione in Siria e sulle sue conseguenze sull'Europa e nell'arena internazionale", si afferma nel comunicato. Poi l'ultimatum: "Se Rai News 24 continuerà a rifiutare di trasmettere l'intervista, l'Ufficio politico e dei media della presidenza siriana la trasmetterà integralmente lunedì 9 dicembre 2019 alle 21, ora di Damasco" (le 20 in Italia).
(Adnkronos l'8 dicembre 2019) - "L'intervista al presidente siriano Bashar al Assad, realizzata dall'Ad di Rai Com, Monica Maggioni, non è stata effettuata su commissione di alcuna testata Rai. Pertanto non poteva venire concordata a priori una data di messa in onda". Lo afferma in una nota l'Ad Rai, Fabrizio Salini. "Chiarito che né Rainews24 né alcuna altra testata della Rai ha commissionato l'intervista al presidente della Siria Assad, né quindi ha preso impegni a trasmetterla, chi ha assunto accordi con la Presidenza della Siria per conto della Rai? E perché? Fermo restando che non si può cedere ad alcun ultimatum da parte di nessuno, men che meno da parte del capo dello Stato di un Paese straniero, siamo di fronte a una vicenda imbarazzante. La Rai deve fare chiarezza con urgenza e individuare le responsabilità. Senza alcun tentennamento. Questa volta è in gioco l'autorevolezza della Rai, la credibilità internazionale sua e dell'Italia". Lo sottolinea in una nota l'esecutivo Usigrai in merito all'intervista al presidente della Siria Assad.
Rai, bufera sull’intervista a Assad della Maggioni. L’ultimatum della Siria: «La mandiamo in onda noi». Pubblicato domenica, 08 dicembre 2019 da Corriere.it. Scoppia in Rai il caso di un’intervista al presidente siriano Bashar al Assad, fatta dall’ad di RaiCom, Monica Maggioni, e mai messa in onda dalla tv pubblica. E finisce direttamente nel consiglio di amministrazione di martedì. Ieri l’ufficio stampa della presidenza siriana ha inviato un ultimatum alla Rai: se l’intervista realizzata il 26 novembre dalla Maggioni che, secondo accordi, avrebbe dovuto andare in onda il 2 dicembre su RaiNews24 e sui media siriani, non andrà in onda entro domani, sarà comunque trasmessa dalle tv nazionali di Damasco domani alle 9. Ma cosa è successo? Perché quella che oggi è la manager di un’azienda pubblica, già giornalista, direttrice di RaiNews24 e presidente della Rai, fa un’intervista al presidente siriano? Chi l’ha autorizzata? A queste domande non ci sono risposte ufficiali, tranne il comunicato diramato questa mattina dall’ad della Rai, Fabrizio Salini, che precisa che l’intervista «non è stata effettuata su commissione di alcuna testata Rai. Pertanto non poteva venire concordata a priori una data di messa in onda». Il che esclude l’iniziativa delle testate ma non chiarisce se Salini fosse al corrente o meno dell’intervista. Nè scioglie il dubbio sul fatto se domani andrà in onda. Secondo indiscrezioni, l’intervista avrebbe trovato in un primo momento collocazione in uno speciale di Checkpoint, il 2 dicembre, su RaiNews24, al cui direttore Antonio Di Bella, Maggioni avrebbe chiesto ospitalità. Sarebbe stato previsto un collegamento con la corrispondente da Istanbul, Lucia Goracci, e la presenza in studio del professor Francesco Strazzari, professore associato di Relazioni Internazionali alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Lunedì pomeriggio però l’intervista al presidente siriano viene annullata. Sul punto, fonti di RaiNews24 fanno sapere che l’intervista non era stata concordata preventivamente con la testata e che alla richiesta di ospitalità della Maggioni, era stato chiesto di visionare l’intervista prima della sua messa in onda. Ma l’intervista sarebbe stata inviata alla testata solo il giorno dopo. Altri due programmi sarebbero stati interessati all’ipotesi di ospitare l’intervista: il Tg1 e la trasmissione di Lucia Annunziata “Mezz’ora in più”. Intanto però la levata di scudi del sindacato Usigrai, secondo cui è inaccettabile mandare in un’onda un’intervista non concordata preventivamente con alcuna testata, blocca tutto. Fino a ieri e all’ultimatum della Siria che nel comunicato alza i toni: «Sarebbe stato meglio per un operatore europeo aderire ai principi proclamati dall’Occidente, specialmente alla luce del fatto che opera in un Paese che è parte dell’Unione Europea, che dovrebbe tutelare la libertà di stampa e il rispetto della diversità di opinioni come parte essenziale dei propri “valori”». Intanto trapela la forte irritazione di Marcello Foa, presidente della Ra con delega alle Relazioni internazionali, per non essere stato informato dell’intenzione di intervistare il presidente siriano Assad e tanto meno dei successivi sviluppi e delle decisioni assunte in azienda riguardo alla gestione dell’intervista. Segue una richiesta di spiegazioni che viene avanzata anche dal Pd per bocca del sottosegretario allo Sviluppo economico, Gian Paolo Manzella e dall’Usigrai. A difendere Maggioni, Daniela Santanché (Fdi): «Monica Maggioni è una giornalista brava e competente. Che una sua intervista non vada in onda non ha senso soprattutto se ad essere intervistato è una figura internazionale controversa. Cosa siamo? Alla censura ? La Rai dovrebbe essere servizio pubblico. È dovrebbe dare le notizie, non preoccuparsi di non mandarle».
Siria, Rai nella bufera per il ritardo dell'intervista di Maggioni ad Assad: lunedì, la messa in onda. La messa in onda sarà domani sera. La decisione è arrivata dopo le polemiche tra Damasco e la Rai, con il governo siriano che aveva messo un ultimatum: "Lunedì la trasmettiamo noi". La Repubblica l'8 dicembre 2019. E’ polemica furiosa sull’intervista di Monica Maggioni a Bashar al Assad: l’amministratore delegato di Rai.com ha avuto l’opportunità di parlare con il presidente siriano ma finora la Rai non aveva ancora proposto né programmato alcuna trasmissione. Questo ha suscitato irritazione a Damasco: Marwa Osman, portavoce della presidenza siriana, ha sottolineato in una nota che la data prevista per la messa in onda era il due dicembre scorso, ma la Maggioni ha chiesto un rinvio “per motivi incomprensibili”. "Dalla Presidenza della Repubblica siriana annunciano che l'intervista al presidente siriano Assad rilasciata per la Rai sarà trasmessa per intero, su tutti gli account dei social media, domani alle 21.00 ora di Damasco", ha detto su Twitter il giornalista siriano Naman Tarcha. Prima della conferma Damasco aveva annunciato che “se l'intera intervista non verrà trasmessa dall'italiana RaiNews24 nei prossimi due giorni, la trasmetteremo noi sugli account presidenziali social e sui media nazionali siriani lunedì 9 dicembre alle 9, ora di Damasco”. “Sarebbe stato meglio per un operatore europeo aderire ai principi proclamati dall'Occidente, specialmente alla luce del fatto che opera in un Paese che è parte dell'Unione Europea, che dovrebbe tutelare la libertà di stampa e il rispetto della diversità di opinioni come parte essenziale dei propri valori”, conclude la nota della presidenza siriana. La replica della Rai è arrivata con una nota dell’amministratore delegato Fabrizio Salini, che ha addirittura preso le distanze dall’operazione, sottolineando che: “L'intervista al presidente siriano Bashar al Assad, realizzata dall'Ad di Rai Com, Monica Maggioni, non è stata effettuata su commissione di alcuna testata Rai. Pertanto non poteva venire concordata a priori una data di messa in onda”.
Il giallo dell'intervista a Assad: perché la Rai non la mette in onda? L'ex presidente della Rai, Monica Maggioni, ha intervistato il presidente siriano Bashar al Assad. Ora però la tivù di Stato pare non trovare spazio per metterla in onda. Damasco: "Un tentativo di nascondere la verità". Matteo Carnieletto, Domenica 08/12/2019, su Il Giornale. Un vero e proprio giallo unisce Damasco a viale Mazzini. Tutto inizia il 26 scorso, quando l'ex presidente della Rai, Monica Maggioni, vola nella capitale siriana per intervistare il presidente Bashar al Assad. Un'intervista lunga, che va a completare quella fatta nel 2013, quando il governo sembrava vacillare sotto i colpi dei ribelli e la minaccia jihadista. Un vero e proprio colpo giornalistico, quello dell'allora numero uno della tivù pubblica, che ora però pare non esser stato replicato. Già, perché l'intervista - molto lunga nella sua versione integrale, secondo quanto appreso da ilGiornale.it - pare esser stata messa da parte. L'amministratore delegato dell'emittente di Stato, Fabrizio Salini, ha commentato così i rumor apparsi nei giorni scorsi: "L'intervista al presidente siriano Bashar al Assad, realizzata dall’Ad di RaiCom, Monica Maggioni, non è stata effettuata su commissione di alcuna testata Rai . Pertanto non poteva venire concordata a priori una data di messa in onda". Parole che, però, non trovano conferma nella realtà, secondo quanto appreso da ilGiornale.it: "Non sappiamo ciò che sta accadendo, ma continuano a rimandare la messa in onda dell'intervista senza alcuna spiegazione chiara. (La Maggioni, Ndr) era ansiosa di pubblicare l'intervista ed era stata già concordata una data: il 2 dicembre". Il presidente della Rai, Marcello Foa, secondo quanto riporta un'indiscrezione dell'Agi, si sarebbe detto irritato per l'accaduto, anche perché non sarebbe stato mai informato dalla presidente di RaiCom. Nella serata di ieri, è intervenuta ufficialmente la presidenza siriana, con un comunicato diffuso sulla propria pagina Facebook: "Il 26 novembre 2019, il presidente Al Assad ha rilasciato un'intervista alla Ceo della Rai, Monica Maggioni. Si era stabilito che l'intervista sarebbe andata in onda il 2 dicembre su Rai News 24 e sui media nazionali siriani. La mattina presto del 2 dicembre, abbiamo ricevuto una richiesta, per conto di RaiNews24, di ritardare la trasmissione senza una chiara spiegazione". Secondo quanto fanno sapere i siriani, ci sarebbero state due richieste di delucidazioni da parte di Damasco per comprendere i reali motivi di questo ritardo. Domande rimaste senza alcuna risposta, però: "È un altro esempio dei tentativi occidentali di nascondere la verità sulla situazione in Siria". E poi: "Se Rai News 24 continuerà a rifiutare di trasmettere l'intervista, l'Ufficio politico e dei media della presidenza siriana trasmetterà per intero l'intervista, lunedì 9 dicembre 2019 alle 21:00, ora di Damasco". Secondo una ricostruzione fornita dall'Agi, confermata anche da fonti in Rai de ilGiornale.it, tutto sarebbe sarebbe saltato in 24 ore, tra l'1 e il 2 dicembre scorso, quando la Maggioni propone l'intervista al direttore di RaiNews24, Antonio Di Bella, che la reputa interessante e attiva la redazione Esteri del canale all news per allestire uno speciale. Vengono coinvolti anche la corrispondente da Istanbul Lucia Goracci e Francesco Strazzari, professore associato di Relazioni Internazionali alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. In poche ore però salta tutto e l'intervista non viene messa in onda. Ed è a questo punto che ci troviamo davanti a quello che è il vero e proprio mistero che ruota attorno a questa intervista. Ovvero: chi l'ha bloccata? Fonti interne alla Rai, contattate da ilGiornale.it, spiegano infatti che a far saltare defintivamente l'intervista della Maggioni sarebbe stato l'Usigrai, il potente sindacato dei giornalisti Rai, che avrebbe posto il veto in quanto l'amministratore delegato di RaiCom non avrebbe alcun ruolo all'interno delle redazioni della tivù di Stato. In quest'ottica andrebbe allora letto il duro comunicato rilasciato dall'Usigrai in cui si chiede alla Rai di fare chiarezza con urgenza: "Chiarito che nè Rainews24 nè alcuna altra testata della Rai ha commissionato l'intervista al presidente della Siria Assad, nè quindi ha preso impegni a trasmetterla, chi ha assunto accordi con la Presidenza della Siria per conto della Rai? E perchè? Fermo restando che non si può cedere ad alcun ultimatum da parte di nessuno, men che meno da parte del capo dello Stato di un Paese straniero, siamo di fronte a una vicenda imbarazzante". Una versione confermata anche da altre fonti della Rai, secondo cui la Maggioni avrebbe incassato l'ok da Salini per l'intervista ad Assad, senza però condividere l'iniziativa con i colleghi della tivù di Stato. Anche chi scrive, nel 2016, ha concordato con l'ufficio della presidenza siriana le tempistiche per l'uscita dell'intervista, fatta in esclusiva per Gli Occhi della Guerra (oggi InsideOver) ad Assad. Una formalità pensata dagli uffici di Damasco per non "bruciare" le testate che intervistano il presidente. Che ora forse dovrà esser disattesa...
Aggiornamento delle 12.24 dell'8 dicembre 2019: una prima versione dell'articolo faceva riferimento a un'intervista della Maggioni ad Assad del 2015. In realtà era stata realizzata due anni prima, nel 2013. Ci scusiamo con i lettori per l'errore.
Rai, polemiche nel cda. Non votato il codice sui social network. Continua il giallo sul viaggio di Maggioni in Siria. Tutto da rifare per il testo predisposto dall'amministratore delegato Fabrizio Salini in materia di policy aziendale sui social. La Repubblica il 10 dicembre 2019. Tutto da rifare. Il cda della Rai non ha votato oggi il testo che era stato predisposto dall'amministratore delegato Fabrizio Salini in materia di policy aziendale sui social. Documento che sarà da rielaborare e riproporre nella prossima seduta, fissata già per giovedì 19 dicembre. Secondo fonti interne, il testo ha registrato critiche dalla gran parte, se non da tutti, i consiglieri Rai. Il tema è estremamente delicato, esiste un atto di indirizzo della commissione di Vigilanza ed era anche fissato un limite temporale entro cui l'azienda di viale Mazzini avrebbe dovuta dotarsi di questo strumento. Nel corso del cda è stata anche richiesta una ricostruzione scritta, una sorta di relazione o memoria, all'amministratore delegato Fabrizio Salini in merito allavicenda dell'intervista di Monica Maggioni al presidente siriano Assad. A sollecitarla sono stati alcuni consiglieri che ritengono ancora non del tutto lineare quanto successo. Più sfumato l'intervento di altri consiglieri. Ieri intanto Salini aveva fornito spiegazioni al presidente della Rai, Marcello Foa, che già domenica mattina le aveva subito sollecitate considerando anche il fatto che a lui è affidata, nell'ambito del cda, la delega per le relazioni internazionali, e l'intervista al presidente siriano è tema di caratura internazionale. In merito Salini avrebbe spiegato ai consiglieri che la capogruppo Rai non ha sostenuto alcuna spesa relativa al viaggio di Maggioni in Siria, né ha pagato le troupe per l'intervista al presidente siriano. L'ad ha di fatto confermato la versione già emersa nei giorni scorsi e cioè che lui era stato informato dall'amministratrice delegata di Rai Com del suo viaggio in Siria e della eventualità che tale viaggio potesse portare in dote l'intervista al presidente Assad. Salini ha anche spiegato che al ritorno si è limitato a rispettare l'autonomia editoriale dei direttori delle testate Rai.
Mario Ajello per il Messaggero il 10 dicembre 2019. Che giornata alla Rai. Che putiferio ha scatenato il caso dell'intervista ad Assad. A un certo punto, mentre si accavallavano ieri riunioni su riunioni tra cui il faccia a faccia tra l'ad Salini e il presidente Foa (che non era stato informato del viaggio a Damasco di Monica Maggioni per il colloquio con il presidente siriano), a qualcuno è venuto lo scrupolo: «Non è che, vista la delicatezza del tema e del personaggio, cioè Assad, anche la Farnesina ce l'ha con noi per quello che stiamo combinando?». Cioè per l'intervista commissionata chissà da chi (Salini?) per RaiNews senza che RaiNews sapesse e che non è andata in onda facendo arrabbiare i siriani che infatti ieri sera da soli l'hanno trasmessa sulle reti. No, tranquilli, fonti della Farnesina hanno detto che di questo caso se ne infischiano e almeno un problema si è evitato. Ma altri problemi ci sono stati. Mandare in onda o no, dopo che i siriani l'hanno fatto, questa intervista? Alla fine si decide di metterla su RaiPlay, a disposizione degli utenti. Ma intanto la Maggioni - narrano in Rai - aveva cercato di piazzarla a tutti e invano al Tg1, al Tg2, e via così. Realizzata il 26 novembre dall'ad di RaiCom, cioè appunto la Maggioni, l'intervista ad Assad era rimasta nel cassetto e finita al centro di un caso internazionale. La mediazione alla fine - ma prima c'è stata una riunione assai turbolenta tra il direttore di RaiNews, la Maggioni e Salini e le grida di quest'ultimo si sentivano dal corridoio - si è trovata, si va su RaiPlay dopo l'ultimatum di qualche giorno fa di Damasco che aveva parlato di mancato rispetto degli accordi sulla trasmissione in contemporanea. La scelta della piattaforma streaming consente di rispettare la volontà dei direttori interpellati di non mandare in onda il colloquio (Di Bella lamenta che non era stato informato della missione Maggioni) e insieme di diffondere un documento destinato in poche ore a fare il giro del web. Ma la polemica continua: l'agenzia di stato siriana Sana ribadisce che la trasmissione da parte di RaiNews 24 era attesa per il 2 dicembre ma che poi l'intervista «non è stata messa in onda dalla tv italiana per ragioni incomprensibili». Ovvero, anche se non lo dicono esplicitamente, censura e antipatia politica verso il regime di Damasco. Quanto ai contenuti, nell'intervista Assad dice tra l'altro: «Gli europei sostengono il terrorismo in Siria e per questo devono fare i conti con i rifugiati». E ancora: «Perché avete i rifugiati in Europa? È una domanda semplice: per il terrorismo sostenuto dall'Europa - e ovviamente da Usa e Turchia - ma l'Europa è stato il protagonista principale nel creare il caos in Siria». Il presidente siriano ha poi ribadito di non avere nulla a che fare con le armi chimiche, che le sue truppe non le hanno mai usate e che il rapporto dell'Opac in cui si accusa Damasco «è stato fabbricato solo ed esclusivamente perché lo chiedevano gli americani». A Viale Mazzini la bufera non sembra placarsi e oggi il caso sarà esaminato in Cda. Pur informato dalla Maggioni del viaggio in Medio Oriente e della possibilità di realizzare un'intervista ad Assad, Salini ha precisato ieri che l'intervista non era stata commissionata da alcuna testata e quindi non era stata concordata a priori una data di messa in onda. Al di là delle tensioni internazionali, resta lo sconcerto del presidente Foa. E seguono naturalmente le polemiche politiche. Ma il pasticcio è stato fatto e Salini esce indebolito da questa vicenda.
Brahim Maarad per agi.it il 10 dicembre 2019. Il caos in Siria è colpa dell'Europa che "dal primo momento ha sostenuto i terroristi contro il governo di Damasco" e le preoccupazioni di Papa Francesco sui civili siriani sono dovute "al quadro incompleto che ha il Vaticano sulla situazione siriana". È l'accusa che lancia il presidente siriano, Bashar al Assad, nell'intervista rilasciata a Monica Maggioni, Ad di RaiCom, e che inizialmente era stata trasmessa solo dai media siriani dopo il rifiuto dei canali Rai. La tv pubblica ha optato poi per rendere il colloquio di 24 minuti disponibile su RaiPlay. "I rifugiati sono in Europa perché il terrorismo è stato sostenuto dall'Europa, ovviamente anche da Stati Uniti e Turchia e altri, ma l'Europa è stata l'attore principale nel creare questo caos in Siria e di conseguenza si raccoglie ciò che si semina", ha affermato Assad nel suo faccia a faccia nel Palazzo presidenziale con l'ex inviata della Rai. È poi passato all'attacco della Francia: "L'Unione europea ha pubblicamente sostenuto i terroristi dal primo giorno, dalla prima settimana. Hanno incolpato il governo siriano e alcuni regimi, come quello francese, hanno armato i terroristi. È stato uno dei loro funzionari a dichiararlo, credo sia stato l'allora ministro degli Esteri, Fabius, 'mandiamo le armi' aveva dichiarato", ha sottolineato il capo di Stato. Assad, che più volte pone l'accento "sull'integrità e sovranita' della Siria" giudicando l'intervento russo a "tutela del diritto internazionale" e dichiarando la Turchia "un invasore", è convinto che l'Occidente "non ha un quadro completo della situazione", compreso il Vaticano. "Speriamo che il Vaticano, come Stato, convinca tanti Stati a smettere di interferire nella questione siriana e a smettere di violare il diritto internazionale. Questo è tutto ciò che vogliamo. In questo modo i civili saranno al sicuro e tornerà l'ordine e tutto andrà bene", ha dichiarato. Nella sua risposta a una lettera di Papa Francesco dello giugno scorso in cui chiedeva di proteggere i civili, Assad ha raccontato di "aver spiegato la verità sulla Siria perché il Vaticano come il resto dell'Occidente ha una narrazione distorta. Siamo quelli che hanno più a cuore l'incolumità dei civili". Il capo di Stato, che si definisce "un sopravvissuto come il resto dei siriani", ha ancora una volta negato di aver usato armi chimiche durante la guerra. "Per noi è impossibile, e lo è anche per motivi logistici. Ad esempio perché usare le armi chimiche quando stai avanzando? Noi eravamo in una buona situazione, specie nel 2018, e quindi perché usarle?", ha affermato. "Inoltre - ha aggiunto - queste sono armi di distruzione di massa e parliamo di migliaia di vittime, o almeno centinaia, e questo non è mai successo assolutamente. Ci sono sempre stati solo questi video di messinscena degli attacchi". Assad ha inoltre precisato che "il cloro non è arma di distruzione di massa e la quantità che gli ispettori hanno trovato è la stessa che si puo' trovare in ogni casa". Assad attacca infine l'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) accusandola di "aver fabbricato e falsificato il rapporto solo perché gli americani hanno voluto che lo facessero. I rapporti trafugati hanno dimostrato che l'Organizzazione è politicizzata, immorale e che tutte le organizzazioni parallele all'Onu che dovrebbero lavorare per la pace, sono un braccio degli Usa per creare caos".
· Nicola Porro.
Coronavirus, Nicola Porro: "Attraverso il terrore, è stato realizzato un esperimento sociale per il controllo". Libero Quotidiano il 05 luglio 2020.
Allora, Nicola Porro, quest'anno niente vacanze? La tua Quarta Repubblica andrà in onda fino alla fine di luglio. Cos'è? Voglia di sfidare il politicamente corretto quando la concorrenza stacca?
«Non c'è nulla di eroico. È stata una decisione dell'azienda, che ha scelto di tenere aperta l'informazione fino al 27 luglio e ha deciso di farlo con me. Una scelta strategica».
Addio vacanze.
«Ne farò poche. La stagione televisiva, complici le elezioni regionali a settembre, ripartirà molto presto. Certo non potrò fare come lo scorso anno, quando ho fatto praticamente il giro del mondo».
Tu sei stato uno dei primi ad ammettere pubblicamente di aver contratto il Coronavirus: hai avuto paura durante la malattia?
«Zero. Anche perché ho avuto la fortuna di essere seguito da due bravissimi professionisti, Di Perri e Antinori, che mi hanno subito tranquillizzato spiegandomi, da medici clinici, quale fosse la situazione».
"Ceccardi al guinzaglio? Se fosse di sinistra...". Porro, il silenzio assordante della Murgia: adesso è tutto chiaro.
E la situazione qual era?
«Per un uomo della mia età, senza patologie pregresse, le possibilità che finisse maluccio erano ridottissime. Mi hanno spiegato, e mi sono tranquillizzato. Il contrario di quello che è stato fatto nei confronti degli italiani. Per questo ho deciso di apparire e raccontare della malattia».
Ti hanno dato del negazionista.
«Cretini. Il mio è stato realismo, non negazionismo. Nel 90% dei casi, chi era in buona salute non ha avuto complicazioni». L'informazione durante l'epidemia: promossa e bocciata? «Bocciata. Sono state pochissime le voci a porsi qualche domanda sulla gestione dell'emergenza».
In effetti il palcoscenico era, ed è ancora, tutto per quelli che tu hai definito i "chiusuristi", ovvero i catastrofisti. Quelli della "seconda ondata" a oltranza, per intenderci. Perché?
«I grandi giornali, anzi il "giornale unico del virus", come lo chiamo io, sono scollegati dalla realtà e se ne renderanno conto. Comunque in questo atteggiamento a senso unico hanno pesato una serie di fattori».
Elencane qualcuno.
«Il primo fattore è genetico: il sangue e il terrore fanno vendere».
E poi?
«Gli editori ci hanno messo del loro. Molti sono anziani e hanno avuto paura. Fisica. Hanno capito che stavano rischiando. Peccato che abbiano messo in secondo piano le conseguenze economiche per il Paese».
Finito?
«No, poi c'è stato il "partito dei virologi". È accaduto un po' come per il "partito di mani pulite". Se gli scienziati avessero reso meno grave la battaglia, non sarebbero stati seguiti. Così sono diventati intolleranti. Ad esempio: per me Roberto Burioni e Francesco Saverio Borrelli sono le due facce del talebanismo oltranzista e intransigente».
Risultato: una cappa di conformismo sull'informazione come forse non c'è mai stata in questo Paese.
«Attraverso la paura e il messaggio martellante a suon di terrore su seconda ondata e nuovo virus in arrivo, è stato realizzato un esperimento sociale finalizzato al controllo. Il virus di fatto ha sostituto l'ambientalismo, visto che la narrativa sulla fine del mondo e il riscaldamento globale non ha funzionato».
"Neppure una riga". Berlusconi incastrato, Nicola Porro svela la vergogna di "Repubblica".
C'è un momento chiave che rappresenta al meglio quello che abbiamo passato?
«Il caos sulle mascherine. Ancora oggi se non la indossi qualcuno ti guarda male, eppure durante una delle inutili conferenze stampa quotidiane il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, diceva che non serviva perché sarebbe stato sufficiente il distanziamento sociale. Siamo impazziti. E i protocolli attuali per bar, ristoranti, attività commerciali e sportive sono peggio della malattia».
Chi esce peggio dalla crisi da Covid: maggioranza o opposizione?
«La sinistra. O meglio, la sinistra libertaria: che fine ha fatto? Dove sono finiti quelli che gridavano contro i "pieni poteri" di Salvini? Dove sono finiti quelli pronti a battersi per la libertà di parola, di circolazione, contro il Tso?».
La destra tuttavia anziché battersi per le libertà ha pressato il governo per chiedere più chiusure.
«Ma in un certo tipo di destra il dna securitario c'è sempre stato. Da questo punto di vista è stata più coerente della sinistra. Il cittadino si aspetta che la destra proponga la militarizzazione delle città».
Tu hai piazzato un colpo anche con l'audio che ha svelato l'esistenza del complotto delle toghe ai danni di Silvio Berlusconi sulla sentenza del 2013 sui diritti tv di Mediaset. Sorpreso dalle reazioni così blande? Cosa sarebbe accaduto se al posto del Cav ci fosse stato, ad esempio, Romano Prodi?
«Semplice: il centrosinistra avrebbe cavalcato la vicenda attraverso i media».
Invece qui pare normale che un magistrato confessi una "porcheria" ai danni del fondatore del centrodestra.
«Logico: in trent' anni è passata l'idea che non sia sbagliato delegittimare Berlusconi per via giudiziaria. L'opinione pubblica si è assuefatta all'immagine del plotone di esecuzione. I giornali sono complici, erano nella camera di consiglio che ha condannato il Cavaliere. Hanno goduto per la sua condanna, hanno alimentato la caccia alle streghe pubblicando intercettazioni e foto. Per loro è normale quanto rivelato dal giudice Amedeo Franco. Ma lo strabismo dei media non riguarda solo l'Italia».
A cosa ti riferisci?
«Al fatto che da oltre un mese si parla, giustamente, del brutale assassinio di George Floyd - per il quale l'autore è stato comunque individuato, incriminato ed estromesso dalla polizia - e del movimento dei Black Lives Matter, mentre poco o nulla si fa e si dice sulla Cina che sta negando ad Hong Kong diritti conquistati 23 anni fa».
· Paolo Brosio.
"Il mio compleanno tra i contagiati Covid. E accanto a noi c'era anche sorella morte". Il giornalista: "Salvo grazie alla preghiera, ma in tanti non ce l'hanno fatta". Nino Materi, Mercoledì 30/09/2020 su Il Giornale. La voce di Paolo Brosio è un flusso di speranza. Il tono, a volte, si incrina; subentrano i silenzi, che però dicono più delle parole. Paolo ha visto la morte in faccia, ha sentito il suo odore. Ma dopo giorni di lotta nel centro anticovid dell'Istituto clinico Casalpalocco Roma 10, ha sconfitto la «brutta bestia» che voleva ucciderlo: «Mi sono salvato con la forza della preghiera e della fede - racconta al Giornale dal letto dell'ospedale che abbandonerà a breve -. Io ce l'ho fatta, purtroppo il paziente che era ricoverato nella stanza a fianco se l'è portato via il Coronavirus. Per giorni ho sentito i suoi lamenti. Io facevo toc toc sul muro per farlo sentire meno solo, lui mi rispondeva con lo stesso toc toc per farmi sentire meno solo. Ma un brutto giorno ho atteso invano. Solo silenzio. Il silenzio della morte». Il Covid è un killer spietato: colpisce senza darti la possibilità di abbracciare, per l'ultima volta, gli affetti più cari. È una strage impietosa che dura da mesi. Impossibile abituarsi. L'addio senza un addio dilania cuore e anima. Sia di chi «parte», sia di chi resta. Tormentandoci coi rimorsi, i rimpianti su «cosa potevamo fare di diverso» e «non abbiamo fatto». E quell'accusa infame, che più tenti di scacciare e più di perseguita (ti perseguiterà per il resto dei tuoi giorni): «Era vecchio e indifeso. E tu l'hai abbandonato!». Paolo Brosio è ancora giovane e dal Covid è riuscito a difendersi da solo: «Il mio fisico ha reagito alla grande, l'aver praticato sempre sport è stato importante. Quando mi sono accorto che nei miei polmoni c'era qualcosa che non andava stavo per entrare nella casa del Grande Fratello Vip. Per fortuna ho fatto l'ennesimo tampone (tutti gli altri erano risultati negativi) ed è venuto fuori che avevo il Covid. Immediato il ricovero. Oggi, dopo 13 giorni di isolamento, sono guarito. La carica virale si è esaurita. Spero presto di tornare a lavorare». Eppure le cicatrici restano: «È stata un'esperienza di enorme valore umano e spirituale. Se non avessi avuto la preghiera come valvola di sfogo sarei impazzito. Durante la sofferenza, con me, sempre un'ostia consacrata e la corona del Rosario. Quando intorno a te vedi solo medici e infermieri vestiti come extraterrestri, non cedere allo sconforto è impresa ardua. Mi metto nei panni di un anziano che improvvisamente si ritrova solo con se stesso. Come unica compagna, lei: la malattia. Deve essere terribile. A loro dico: pregate la Madonna, lei vi tenderà quella mano che figli e nipoti non possono più allungarvi». Brosio ha festeggiato ieri, qui nel letto dell'Istituto clinico Casalpalocco - il suo 64° compleanno che è stato, al tempo stesso, il più bello e il più brutto della sua vita: «Ho vissuto in questi giorni sensazioni contrastanti, dall'angoscia del contagio alla gioia per il pericolo scampato. Ma ho potuto toccare con mano anche l'incredibile abnegazione con cui medici e infermieri sono a fianco di chi è vittima della disavventura-Covid». Paolo sarà dimesso tra pochi giorni, il suo desiderio più grande è riabbracciare la mamma, la mitica signora Anna, 100 anni: «Improvvisamente non ha avuto più mie notizie. Forse ha pensato che fossi morto». Infine una richiesta «da collega a collega»: «Appena puoi accendi nella tua chiesa una candelina per me a per la mia mamma». Sarà fatto. E auguri a entrambi.
· Paolo Del Debbio.
Paolo Del Debbio: «Non sono malato, ho solo perso 27 chili e sto meglio». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 18/10/2020. Il conduttore Mediaset tornato in tv dimagritissimo: «Il mio stile di vita non andava più bene, ho mangiato meno e sono passato dalla taglia 62 alla 52. Dieta iniziata a Pasqua, all’inizio è stata una tortura coreana». Dieta o malattia? Problemi di salute o nuovo amore? Il 10 settembre, dopo la pausa estiva, Paolo Del Debbio, 62 anni, è tornato su Rete Quattro per condurre Diritto e Rovescio ed era così dimagrito che su giornali e siti si è scatenato un giallo. Titoli a caso dell’ultimo mese: Paolo Del Debbio shock, è dimagritissimo; è irriconoscibile; il dimagrimento preoccupa gli spettatori: è malattia?; non è malato, ha un nuovo amore; approfondite le voci su Del Debbio malato, ha solo fatto la dieta; paura per la sua salute... Decine e decine di titoli così.
Del Debbio, si aspettava questo clamore?
«No e non ci sono tanto abituato. Ho una vita riservatissima. Se non lavoro, sto a casa a studiare e scrivere. Non che sia un monaco certosino, ma non essendo uno che guarda cosa fanno gli altri, non mi aspettavo che tanti guardassero cosa faccio io».
In definitiva, che cos’ha fatto?
«Ho mangiato meno, mi sono affidato a un medico e ho perso 27 chili. Ho un’età in cui lo stile di vita non andava più bene per la salute e mi sono piano piano sistemato. Tutto qui».
Nessuna malattia grave, quindi?
«Facendo corna, toccando ferro all’italiana e legno alla francese, non sono mai stato meglio. Mi sento meno affaticato, più sciolto, cammino più leggero e il cervello è più veloce. Poi, di sicuro, la dieta non è partita da una considerazione estetica, ma di salute. Dopodiché, sentirsi anche meglio con se stesso non è una cosa brutta».
Si è trasformato in tempi record: nell’ultima puntata estiva, il 25 giugno, era un’altra persona.
«Ho cominciato il mercoledì dopo Pasqua: quando fai queste cose ci vogliono molti mesi, altrimenti non è salutare, solo che i primi chili che perdi non li vedi. Perciò, all’inizio, può subentrare lo scoraggiamento: il primo mese e mezzo è stato una tortura coreana».
Una «tortura» perché?
«Perché devi cambiare la testa. Hai fame, ma il problema non è il cibo, quanto evitare di ritenere il cibo una via di fuga, una copertina di Linus. Magari arrivi a casa dopo una giornata di lavoro e mangi o bevi più del dovuto».
Passato il primo mese e mezzo da tortura, che è successo?
«Ho iniziato a vedere i risultati e a sentirmi incoraggiato. Prima, facevo sempre due cose che amavo: stavo fermo in poltrona a leggere e mangiavo e bevevo con gusto. Ora, mi muovo molto e mangio poco. È una banalità, ma per me non lo è stata».
Muoversi molto che significa?
«Non che faccio incontri di box o mi scontro con Tyson fra poco. Mi muovo. E non è che ho trovato una dieta miracolosa. Ne ho fatto una di buon senso: ho tolto le cose che fanno ingrassare e sono andato di verdure, carne, pesce. Con la dieta non esiste il miracolo, esiste solo un clic nel cervello e l’umana voluntas».
Come è scattato il clic?
«Vengo da una famiglia semplice di un quartiere popolare di Lucca. Per noi, il pranzo della domenica era una festa. Si andava in campagna per il pic nic, con babbo, mamma, zii, cugini. Mi ricordo i tavolini pieghevoli, la stesa di salumi, sottaceti, sottoli. Era una gioia fatta di nulla. A un certo punto, adesso, mi sono reso conto che quella festa, piano piano, nella mia mente, si era trasformata in un rifugio, che in realtà era una galera. Fa tutto il nostro cervello e, quando lo capisci, devi spezzare quella spirale di cose e di pensieri che, di fatto, è una dipendenza».
Alla fine, associamo sempre il cibo all’affetto?
«È una dipendenza affettiva, esistenziale, una dipendenza dalla tradizione. Nelle famiglie modeste, la bistecca, la tavola imbandita, il ristorante quella volta che si poteva, erano momenti di felicità. A casa mia, non c’erano tavole pazzesche, ma ricordo i fiaschi di vino e io bambino con babbo che me ne metteva due gocce nell’idrolitina».
Dunque, nessun nuovo amore?
«No, ma se ci fosse, non lo direi neanche sotto tortura. Poi, se uno fa la dieta e ha un amore, questo aiuta, ma lo dico immaginandolo».
Come si sente adesso?
«Come uno a cui hanno tolto dalla schiena uno zaino con dentro 18 bottiglie d’acqua da un litro e mezzo. Non mi sentivo così da molti anni».
Non era così neanche nel ’94 quando dirigeva l’ufficio studi di Forza Italia, né quando conduceva Mattino 5 dieci anni fa.
«Per ritrovarmi così magro dovrei tornare al liceo. Quando facevo Mattino 5, seguivo la dieta con l’idea che dopo avrei ripreso a mangiare come prima. Ora, non ho voglia di ricominciare».
Negli anni, che rapporto ha avuto col peso?
«Remissivo. Mi dicevo: ormai, sono così; sono ingrassato troppo, non ce la farò. Se oggi parlo di una vicenda così personale, è per dire a chi soffre dello stesso problema che non c’è un livello da cui non si torna indietro, basta farsi aiutare da un buon medico, anche di base. Io ho due dottori amici, Giulio e Marco, e sono amico del nutrizionista Nicola Sorrentino, che anche mi ha dato una mano. Pensavo di non potercela fare, ma ce l’ho fatta. È un messaggio che voglio dare, anche se mi vergogno molto: c’è una pandemia che sembra la seconda guerra mondiale e mi sento come uno che spiega che si è rifatto le ciglia».
Però, proprio in momenti di ansia e paura, rifugiarsi nel cibo è un classico.
«Spero che parlarne serva. Io, durante il Covid, sono andato in giro tutte le settimane a registrare la copertina della trasmissione ed ero caricato del dolore e della disperazione di tutti quelli che incontravo. Mi sono reso conto che, essendo un uomo fortunato, non dovevo rovinare con le mie mani quello che la vita mi ha regalato. Quello che posso dire a chi oggi vive tanta disperazione è che, anche sei hai problemi che sembrano più pressanti, se affronti quello del peso, riesci ad affrontare meglio anche tutti gli altri. E c’è una cosa che vorrei a dire anche a questo governo».
Quale?
«In Italia, molti anziani poveri vivono di pane e pasta, che è veleno per il diabete senile. Me lo raccontano le centinaia di persone che incontro nei mercati, nelle piazze. Qualcuno dovrebbe preoccuparsi dell’alimentazione degli anziani».
Il filosofo che in origine c’è in lei a che libri ha ripensato durante la dieta?
«Alle Metamorfosi di Ovidio, perché, nel caos generale della vita disordinata in cui mi ero infilato, mangiare bene è stato un tentativo di metamorfosi personale. Dal caos al cosmos. E mi sono immedesimato in Antoine Roquentin della Nausea di Jean-Paul Sartre per come si sente a disagio nella sua vita».
Ha cambiato anche look: ciuffo al vento, barba rasa, occhiali vistosi. Opera di un image maker?
«Ma le pare? Ho da pensare alla mia personality, dell’immagine m’importa poco. Ho il look uguale a tanti anni fa, quando portavo i capelli all’indietro. La barba in tv non era tanto gradita, ma a me piace perché piaceva a mia mamma che non c’è più. Anche questi occhiali le piacevano molto, li avevo persi, li ho ritrovati e me li sono messi pensando a lei».
E la tinta argento ai capelli?
«Ma no, li ho sempre avuti così».
Deve perdere ancora chili?
«Sono passato dalla 62 alla 52, devo rimanere così e, per ora, è facile».
Il settimanale Chi ha scritto che, a Mediaset, la chiamano il Richard Gere dell’informazione. Le risulta?
«Mi pare una roba che, se Gere lo scopre, gli fa causa e io vado pure a difenderlo».
· Paolo Guzzanti.
"Con Berlinguer parlavo di calze. con Cossiga di Usa e giustizia". Il notista politico racconta vita e carriera da Repubblica al Giornale: "La verità? Non esiste: dipende dalla testata per cui lavori. E vale per tutti i quotidiani". Massimiliano Scafi, Sabato 01/08/2020 su Il Giornale.
Dica.
«Come dica? Dimmi tu piuttosto, fammi qualche domanda, se no che razza di intervista è? E poi scusa, perché mi dai del lei?».
Ma no, dica, anzi dicaaa, è una citazione. È l'attacco di un tuo articolo sulla Stampa degli anni 90 sulla burocrazia, è «quella parola magica che, con tono strascicato. l'impiegato romano usa da duecento anni per darsi importanza e per evitare di risolvere i problemi».
«Dica è un alibi, serve per fingere di affrontare una situazione. Una volta l'ho usato arditamente con il mio editore, che era Gianni Agnelli quando lavoravo alla Stampa. Gli chiesi candidamente: dica avvocato, perché la cultura del suo giornale è una riserva per i comunisti».
E lui?
«Fu rapido e cinico, molto sincero: vede, mi disse, io devo avere dei sindacati felici per le mie aziende, e la cultura aiuta tantissimo. Era nata un'amicizia, mi invitava nel suo studio e parlavamo per ore di America Latina e di scrittori. Ovviamente sapevi dove scrivevi e ti davi una regolata. Come su tutti i giornali italiani».
Una scelta imprenditoriale. Non fa una piega.
«In questo il giornalismo non è cambiato un granché. Fin dai tempi del fascismo e della guerra fredda il concetto semplice di verità è stato sostituito con quello a testata multipla di linea editoriale del tuo padrone o del tuo partito».
Paolo Guzzanti, ottant'anni oggi, festeggerà in una trattoria vicino al Pantheon con mezza famiglia, cioè la compagna Antonella e le figlie Caterina e Liv: l'altra metà è rimasta in America, bloccata dal Covid. Sessanta di questi anni li ha passati a scrivere. Quotidiani, tv, libri, saggi, romanzi. Poi è entrato in politica. «Un po' per inerzia naturale. Un socialista liberale come me non poteva che avvicinarsi a Forza Italia. Un po' per sbaglio: quando decisero di istituire la commissione Mitrokhin, chi altro avrebbe potuto presiederla se non io, che avevo creato il caso con la mia inchiesta, proprio da voi sul Giornale?». Spirito inquieto, mai fermo. Psi, Fi, Polo della Libertà, Pli, ancora Fi, un continuo tira e molla con il Cav. «Ma non sono un voltagabbana, ho seguito il mio istinto». Due mogli, sei figli, tre dei quali noti attori, la passione per gli Stati Uniti, una recente cotta per il teatro. Alla fine è tornato al vecchio amore, e scrive per Il Giornale e Il Riformista.
Da Pertini a Conte, da Craxi a Berlusconi. Li hai conosciuti tutti, molti li hai intervistati.
«Tutti tranne uno, Enrico Berlinguer. Avevamo un buon rapporto, ci stavamo simpatici e ci incontravamo spesso sull'aereo per Bruxelles. Però lui evitava i temi politici, parlava di altro. Di storia, di letteratura. Una volta di calzini».
Di pedalini?
«Si, abbiamo discusso a lungo se andavano abbinati al colore dei pantaloni o delle scarpe, se era meglio accordare le tinte o cercare il contrasto. Era davvero un tipo elegante. Mi incuriosiva, apprezzavo il suo tentativo di sganciarsi definitivamente dall'Urss, ma il caso Moro ha ammazzato tutto. È rimasto il rimpianto di non averlo mai intervistato».
Hai cominciato all'Avanti.
«Sì, come tipografo e correttore di bozze. Erano gli anni sessanta, c'era il piombo. Ho fatto la gavetta prima di poter scrivere, mi occupavo di tutto».
La svolta con Repubblica.
«Quella è stata la mia università. Avevo conosciuto la moglie di Scalfari, Serena Rossetti, proprio nei giorni in cui lui preparava l'uscita del quotidiano. All'epoca dirigevo Il Giornale di Calabria, un foglio legato al segretario del Psi Giacomo Mancini, e pure quella fu una grande avventura. Una sera venne a chiamarmi il centralinista, trafelato. Dutturi, dutturi, c'e lu dutturi Scalfari al telefono. Viaggiai di notte, in macchina, con pochi vestiti raccolti in fretta. E firmai. È stata una bellissima stagione professionale. Tantissima politica italiana, e poi Cile, Polonia, Beirut, Medio Oriente, ho girato il mondo. D'estate Eugenio mi commissionava dei reportage fantastici. Il viaggio di Ulisse, le origini della borghesia in Europa, i fasti della Repubblica Serenissima di Venezia».
A proposito delle vocine. Ancora si parla dei tuoi scherzi telefonici, di quando hai chiamato Quelli della notte di Arbore in diretta spacciandoti per Pertini.
«Per la verità non erano proprio scherzi, io facevo satira politica dal vivo: convocavo i leader al Quirinale, suscitavo reazioni surreali e Pertini è stato per un po' il mio ventriloquo. E lui, l'ho saputo dalla moglie Carla Voltolina, era pazzo di queste scorribande. Diceva che gli ricordavo Le Canarde Enchaine, il foglio satirico di quando era esule a Parigi. Con la voce di Eugenio Scalfari invece ho licenziato qualche caporedattore centrale. L'umorismo è la vera arma rivoluzionaria degli uomini liberi, ma solo se rischi».
E Scalfari non si seccava?
«Macché. Un giorno mi chiese di sentire se lo imitavo bene. Beh, commentò alla fine della prova, oggi è facile perché ho la raucedine. Si arrabbiò solo quando seppe che Piero Ostellino mi voleva al Corriere della Sera: si sdraiò davanti all'ascensore dicendo che sarei dovuto passare sul suo cadavere. Io lo applaudii e restai. Ma poi nel 1990 Paolo Mieli mi chiamò alla Stampa e quella volta ci salutammo compostamente: del resto da due anni ero stato riposto nell'armadio delle scope. Ero socialista, quindi politicamente scomodo, ingombrante».
Con Scalfari avete fatto pace?
«Certo, tanti anni più tardi ci siamo incontrati in una libreria e, saputo che cercavo testi sul 43, esclamò: ah, il 43! Io allora non ero fascista, ma fascistissimo. È molto onesto che uomini come lui, Biagi e Bocca abbiano raccontato se stessi come fascisti entusiasti».
La Stampa ti ha messo sul Quirinale. Cossiga per un lungo periodo parlava soltanto con te, davi buchi a tutti.
«La cosa è nata per caso. Mi avevano mandato a Gela per l'inaugurazione dell'anno giudiziario e lui mi venne incontro facendosi largo tra la scorta. Mi aveva visto la sera prima in tv e gli ero piaciuto, mi trascinò con sé e scrissi che non era da camicia di forza come tutti sostenevano. Cominciai a frequentare le colazioni delle sette al Quirinale dove trovavo caffè, cappuccino e la crema dell'intellighentsia di sinistra, da Andrea Barbato a Sandro Curzi a Valentino Parlato».
L'hai definito lepre marzolina, poi hai scritto un libro per spiegare che non era matto.
«Veramente l'espressione fu usata da Tana de Zulueta dell'Economist. Nel mio libro spiegavo che era solo e lucidissimo. Sapeva che il sistema politico, legato alla guerra fredda, era malato e che i partiti tradizionali sarebbero stati travolti da un nuovo ordine gradito agli Usa, che avrebbe imbarcato l'ex Pci al governo, così decise di intervenire picconando - il termine l'ha inventato lui - per guidare l'inevitabile cambiamento in una direzione democratica. Era un uomo solo, che volevano far passare per pazzo per costringerlo alle dimissioni. Alla fine è successo tutto quello che aveva previsto: Mani Pulite, lo sputtanamento della politica, i partiti alla gogna. E nella tomba credo che si sia portato diversi segreti d'Italia».
Ti hanno accusato di essere il suo megafono: parlava più con te che con i figli.
«Non mi bevevo mica tutto, anzi cercavo di arginarlo. Ad esempio, quando definì Occhetto uno zombie coi baffi, io mi rifiutai di scriverlo. Mi pareva eccessivo, era pur sempre il leader del principale partito di opposizione, un capo dello Stato non poteva apostrofarlo cosi. Ebbene, il giorno dopo lo trovai stampato sul Messaggero».
Con Craxi invece sempre d'amore e d'accordo.
«No, ci volevamo molto bene ma non lasciava tanto margine all'autonomia. Come a Repubblica mi consideravano troppo socialista, i socialisti mi ritenevano troppo di Repubblica. Finché un bel giorno mi chiamò Giampaolo Sodano, il capo di Raidue: Guzza', brutte notizie, Bettino ha detto che te devo da chiude' la trasmissione. Conducevo Rosso di sera, che faceva cinque milioni di ascolti. Nessuno obiettò sulla censura».
E tu?
«Niente, era così. Mi risuccesse anni dopo con Bar Condicio, ma per motivi diversi. Ottimo share, però dopo la vittoria di Romano Prodi la Rai sospese il programma che dovevo fare. Ero sempre alla Stampa, che mi mandò a vivere a New York, e fu la svolta, perché mi innamorai degli Stati Uniti e sposai una ragazza da cui ho avuto i miei secondi tre figli. Infine, divenni vicedirettore del Giornale».
Pure con il Cavaliere non sono state rose e fiori. Hai addirittura pubblicato un libro dal titolo Guzzanti vs Berlusconi.
«Che in realtà era un'intervista onesta e non ostile. Guarda, io sono l'unico che sono saltato nel suo carro perdente, nel 1999 quando al governo c'era Massimo D'Alema, e sono uscito quando era alle stelle, nel 2002. E nel 2008 ho abbandonato Forza Italia perché Berlusconi appoggiava Putin che aveva attaccato la Georgia. Oggi è l'unico che porta la bandiera con i valori liberali. Lo danno sempre per finito, tuttavia si rialza ogni volta. È l'unico vero leader rimasto in campo, dopo che Renzi si è suicidato».
Parliamo di Giuseppe Conte?
«E che vuoi dire? È il governo di Scherzi a parte. Un tizio sconosciuto diventa prima presidente del Consiglio con una maggioranza di estrema destra e poi, sempre lui, sempre la stessa persona, con una maggioranza di estrema sinistra. E dopo chiede i pieni poteri per bypassare in Parlamento, roba che nemmeno Mussolini. Non intendo sostenere che sia un fascista, ma ti pare normale? La verità è che stiamo pagando il prezzo della stagione di Mani Pulite. L'antipolitica è arrivata al potere, presto i Cinque Stelle si sbricioleranno e si andrà avanti così, con un altro giro di giostra, peccato che la base della giostra stia crollando».
Si stava meglio quando si stava peggio?
«Prima c'erano le ideologie cretine e assassine. Doveva crescere un albero liberale, invece siamo ai fili d'erba».
Come va in famiglia? Ti sei riavvicinato a Corrado e Sabina?
«E che palle! Sono quarant'anni che la menano con questa leggenda della rottura, i rapporti sono solo nostri, intimi, personali e non pubblici. L'unico problema che abbiamo è che per venire da me in centro ci vuole il permesso Ztl».
· Roberto D’Agostino.
Stefano Balassone per “la Repubblica” il 23 luglio 2020. The Dago Show su RaiPlay mostra un Roberto D'Agostino che non posa a stravagante, ma spiega in modo piano la tv, in base all'esperienza fatta con Arbore e Boncompagni. A dirla in sintesi, la tv è un linguaggio che gioca fra le luci e la regia. Le luci modulano i colori lungo l'intera gamma che passa dal più freddo al più pastello. Se immergi la scena in morbide sfumature, lo spettatore s' ammorbidisce in parallelo e lasciandosi rapire da quel Video delle Fate dove ogni cosa può accadere, anche la più improbabile. Chi non ci crede dia uno sguardo alle scene di Barbara, Mara e compagnia. Se invece illividisci i colori in video, chi sta in poltrona pur con gli occhi semichiusi entra al volo nell'idea del dramma, dell'impettirsi, dell'agonismo dei pareri attorno a materie con le quali c'è poco da scherzare. Puoi ovviamente mischiare queste chiavi giocandole a contrasto, come fa lo chef con l'agro e il dolce dentro il piatto. Potresti titillare emozioni più complesse, ma se ti va male, avrai soltanto creato confusione e scatenato lo zapping giustiziere. Gli stacchi di regia sono il movimento televisivo in senso proprio perché il regista sceglie i dettagli in scena e li dispone nella sequenza che costruisce il senso dell'insieme. Lo spettatore invece resta immobile a contemplare il filo del racconto, a differenza del turista che gira attorno a un David per farsene la descrizione nel ricordo. Anche le parole, ovviamente, contano in tv, purché sappiano che giocano fuori casa essendo forgiate per l'udito, la radio, il filo del telefono e non per farsi scorgere dall'occhio. Per questo nei talk show mentre uno parla risulta più efficace l'avversario che scuote il capo in segno di diniego. Questo spiega D'Agostino in modo sobrio, tanto che dimentichi la guru-barba, l'affresco dei tatuaggi e il saperlo fondatore e anima di Dagospia, la buca delle lettere del gossip di regime. Non è del resto il primo che, a pro' della bottega, nasconde il meglio di se stesso.
DAGOSPIA RISPOSTA: Caro Balassone, anzitutto, grazie per la valutazione del ‘’Dago Show’’ su RaiPlay. Avendo iniziato ad occuparmi di televisione dal lontano 1978, montando le musiche per “Odeon” di Brando Giordani ed Emilio Ravel per proseguire come autore di tre edizioni di “Sotto le stelle”, show del sabato estivo di Raiuno fino alle esperienze straordinarie con Arbore e Boncompagni e le recenti 30 puntate di “Dago in the Sky”, in questo campo, come si dice tra i radical chic dei Parioli, "anche le breccole maturano". Ovviamente mi dispiace – anzi, non capisco - il tuo giudizio: “Dagospia, la buca delle lettere del gossip di regime’’. "Cose da serve", avrebbe sbrigativamente sentenziato un umanista ferito nel cuore. "La finestra sul porcile", avrebbe titolato un moralista indispettito. Come gli alcolisti, come i drogati, sappiamo benissimo che la cosa ci fa male. Che dovremmo occupare il nostro (poco) tempo libero a leggere "Alla ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust, anziché inseguire Ta-Rocco Casalino e le badanti di Berlusconi e le peripezie di Conte. Dagospia ha il suo nume tutelare, guida spirituale, sostegno esistenziale nel duo Fruttero & Lucentini. La sublime coppia della letteratura italiana, ne “Il cretino in sintesi”, osserva: “Noi dunque non scartiamo l’ipotesi che nella maldicenza si debba vedere l’estremo rifugio dell’individuo indipendente, il privato territorio dove ognuno può ancora ragionare con la propria testa, esercitare e affinare le proprie capacità di giudizio, di osservazione, di confronto, di critica, di satira. Tagliare i panni addosso agli altri è forse l’ultima trincea del libero pensiero…”. Né va dimenticato, sottolinea Camilla Cederna, compianta regina del gossip alto, che "gran parte della letteratura, da Omero in poi, ha le sue radici nei fertili terreni del pettegolezzo. Litigano gli dei? Moltissimo! E come si tradiscono, si camuffano, quante ne fanno. E Svetonio non si basa forse sulla malalingua?". E i grandi scrittori venuti dopo? "Ciò che vediamo in Tolstoi, Flaubert, Dickens o Proust", ha scritto Mary Mac Carthy, "è la voce di un vicino che racconta l'ultimo pettegolezzo". "Narrant" dicevano i latini: e giù un mare di maldicenze, genialmente reinventate e messe in forma, contro imperatori e imperatrici. Bisogna dunque riconoscere che l'arte della diceria non è un genere letterario, ma la letteratura un settore molto fortunato del gossip. Da mille portinaie nasce un Proust, non viceversa. Dunque, per vivere senza pettegolezzi, non bisogna essere eccessivamente contemporanei. Mentre persino la maldicenza più trucibalda può essere una forma di partecipazione, di attenzione a ciò che capita, di coinvolgimento, ricostruisce il vuoto, il rapporto sospeso sulla percezione dei fatti. Ecco: il gossip è una bugia che dice la verità. Infatti, lo spettegolamento non coincide mai con la verità; o è una mezza verità o una verità e mezzo. Come disegnare i baffi alla Gioconda o infilare i jeans al David di Donatello. Quando la verità ci abbandona, è il pettegolezzo che ci resta accanto, come una filippina fedele. E come una colf, gira intorno alla verità senza potersi mai fermare. E quando si ferma, si avvia lentamente a diventare un aforisma di Lec: "I pettegolezzi quando invecchiano diventano miti". A tutto ciò, va ad aggiungersi il ruolo nevralgico e fondamentale di “spia”. Nel mondo politico e in gran parte del giornalismo italiano si assiste da tempo a un fenomeno: la "scomparsa dei fatti" – ad esempio, oggi la notizia della perquisizioni nelle sedi di FCA da parte della Finanza per emissioni diesel inquinanti su richiesta dei pm di Francoforte occupava una pagina sui tutti quotidiani, eccetto “Repubblica” cui basta un trafiletto a fondo pagina per non intristire la vita disagiata di John Elkann (vedi foto). L'informazione in Italia, salvo rarissime eccezioni, è programmaticamente svuotata di contenuti, smarrendo del tutto la sua funzione originaria. Era successo quello che ben sappiamo: tutta la stampa italiana non era più in mano a editori puri ma a imprenditori che avevano acquisito quotidiani soprattutto per esaltare i loro interessi e per far scomparire le notizie scomode che li riguardavano. La principale tecnica della disinformazione operata dai media in Italia era, ed è tuttora, l'arte del parlar d'altro o nel concentrarsi su aspetti marginali e fuorvianti della notizia stessa, così da oscurarne il ben più importante contenuto: titoli “pettinati”, interviste senza domande, articoli da prima pagina che finiscono con taglio basso e senza foto a pagina 18. Amorale della fava: caro Balassone, preferisco essere “la buca delle lettere del gossip di regime’’ anziché il cagnolino al guinzaglio del padrone.
Luca Beatrice per mowmag.com il 7 luglio 2020. Roberto D’Agostino compie 72 anni, poche settimane dopo il ventennale della sua creatura Dagospia, il magazine on line che ha cambiato la storia del giornalismo italiano e a cui tutti dobbiamo qualcosa, a cominciare dallo stile di scrittura veloce, trasversale, pungente, caustico. Oggi però festeggiamo l’autore, non la sua creatura, celebriamo il dottor Frankenstein dell’informazione in rete e non il mostro (anzi i mostri) inconsapevolmente prodotto. All’inizio è un nome e non ancora un volto che comincia a girare per radio e sulle riviste in qualità di critico musicale. È questo un dato non trascurabile, perché tanti della generazione precedente la mia hanno suonato da dj e hanno scritto di pop e rock, portandosi dietro la passione e la competenza per un linguaggio che, negli anni 70, ti permetteva di capire tante sfumature del mondo. Leggevo i suoi articoli su “Popster”, una rivista che sarà anche stata mainstream ma intanto ci scriveva Pier Vittorio Tondelli, e seguivo i suoi primi servizi tv su Mister Fantasy dell’indispensabile Carlo Massarini. Il grande pubblico della tv ha conosciuto Dago tra gli ospiti fissi dell’allegra compagnia di Renzo Arbore. Un ragazzo altissimo e magro, vestito di abiti colorati - gli anni 80 ci liberarono dalla tirannia del grigio e del blu così come spazzarono via il minimalismo dal design dando spazio al kitsch più estremo e alla creatività senza limiti- che si autodefiniva tuttologo, ovvero uno che ha (o si costruisce) un’opinione su qualsiasi argomento, la espone con presunta competenza e altrettanto bluff e gli altri ci credono. Anche questa tendenza va interpretata sulla scia dell’estetica nel decennio più meraviglioso del secondo novecento: la specializzazione non è più un valore, molto meglio improvvisare, cambiare l’ordine delle cose e allora un critico d’arte parli pure di politica e un politico scriva un libro sulle discoteche, uno psichiatra può intrattenersi sulla vita di coppia e un filosofo indossare i panni meno impegnativi del divulgatore. Gli anni 80 mettono alla berlina gli intellettualismi che ci avevano ammorbati nel post Sessantotto. Nel salotto di Quelli della notte, Dago cita insistentemente L’insostenibile leggerezza dell’essere, il romanzo di Milan Kundera numero uno del catalogo Adelphi nel 1985. Roberto sceglie uno scrittore poco popolare e lo eleva a simbolo del postmoderno, in anticipo rispetto alla fine delle ideologie, così come postmoderne saranno le operazioni editoriali - più o meno incisive - che seguono agli anni del successo in tv: Come vivere bene e senza i comunisti (1986, definitiva spaccatura a sinistra, dopo la morte di Enrico Berlinguer, il nuovo è rappresentato dal PSI di Bettino Craxi e sappiamo quanto l’abbiamo pagata la mancata terza via), Il meglio di Novella 2000 (ovvero l’archetipo del rotocalco scandalistico), Sbucciando piselli scritto nel 1990 con Federico Zeri, in antitesi all’antipatia per Vittorio Sgarbi dopo gli storici ceffoni in tv. Quando, trentenne, negli anni 90 vado a vivere a Roma spesso incontro Roberto D’Agostino alle inaugurazioni delle mostre, in giro per il centro, seduto al Caffè della Pace. Dagospia non è ancora nato e lui sta compiendo un’ulteriore mutazione genetica che invade di tatuaggi il suo corpo sempre più magro, decorato di anelli, monili, orecchini, il pizzetto si allunga, i capelli seppur radi raccolti in un codino. Il postmoderno ha lasciato spazio al dark, al new gothic, veste sempre di nero accompagnato talora da giacchette animalier, ci vuole un fisico bestiale e tanto, troppo, coraggio. Come un consumato performer, Roberto D’Agostino porta in giro sé stesso in qualità di opera d’arte dinamica e mutevole. Non ricordo quando di preciso Roberto e io cominciamo a frequentarci con una certa irregolarità, anche se non vivo più a Roma. Entrare a casa sua, una delle più belle della Capitale, in cui dai terrazzi c’è una vista mozzafiato che non esiste in natura, significa entrare nell’universo di Dago, il collezionista di opere d’arte e il raccoglitore di paccottiglia kitsch mescolate le une alle altre senza gerarchia né ordine di importanza, in fondo un Damien Hirst vale una statua di Mao da mercatino cinese, una foto di La Chapelle un manifesto pubblicitario e un Helmut Newton un sex toy di modesto design: siamo noi a stabilirne l’importanza attraverso il nostro grado di affettività. Dago dice di rompersi le scatole ad andare alle feste - sostiene lo invitino poco per colpa di Dagospia, ma non ci credo - però quando le organizzano loro, lui e la moglie Anna, la contraddizione viene elevata a principio di natura poetica. Quando Brian Eno esordì a Roma da artista visivo, Dago diede in suo onore un gran party con gente da tutta Italia e il guru del minimalismo, felice e meravigliato, sembrava persino fuori posto tra tanto eccesso visivo e sonoro, culminato con le canzoni napoletane di Maria Nazionale, che è un po’ come proporre Gigi D’Alessio a Bob Dylan. Dago mi ha invitato spesso nei suoi programmi, soprattutto la recente serie Dago in the Sky su Sky Arte. Si è sempre preoccupato di anticipare il presente, intuire i cambiamenti, sperimentare i linguaggi prima che diventino merce comune. Personalmente evito di incontrare e conoscere i miei miti con la certezza che ne rimarrei deluso. Ho scritto la biografia di Renato Zero senza scambiare mai due parole con lui, non mi interessa andare a cena con i calciatori della Juventus anche se (a stadio aperto) impazzisco per loro. Roberto, invece, l’ho inseguito pensando, e mi auguro che ciò non suoni presuntuoso da parte mia, di far parte bene o male della stessa tribù, ex ragazzi degli anni 80 mai usciti di là eppure protagonisti dell’ultima rivoluzione culturale del Paese. Senza nostalgia, si prende ciò che serve, lo si rielabora e si affronta un’altra sfida. Per oggi Dagospia la lasciamo in disparte e festeggiamo Roberto, cui auguro un mondo di bene.
Aldo Grasso per “Oggi” il 6 luglio 2020. Vent’anni fa nasceva Dagospia, il «sito più irriverente d’Italia». Lanciato nel 2000 con un investimento di 10 milioni di lire e la diffusione di tre notizie al giorno: tre pettegolezzi, come si diceva allora. Roberto D’Agostino aveva una rubrica sull’Espresso, si chiamava Spia e viveva di indiscrezioni mondane, di «si dice» del mondo della comunicazione, di perfidie varie. Poi l’infortunio: una malignità su Gianni Agnelli e il rapporto con l’Espresso finisce seduta stante. Di qui lo sbarco sulla Rete, in un periodo in cui la diffidenza nei confronti di internet era molto alta e nessuno osava prevederne i successivi sviluppi. Finire sulla Garzantina era già un grande titolo di merito: «Sito internet fondato nel 2000 dal giornalista Roberto D’Agostino. Ha innovato le cronache mondane privilegiando indiscrezioni e curiosità su personaggi del mondo dell’economia, dell’informazione e della politica, rispetto alle tradizionali spigolature rosa su jet set blasonato e spettacolo». Non era facile allora capire la filosofia del pettegolezzo. In inglese si dice gossip, che qualcuno fa derivare da «gospel», Vangelo, altri, più propriamente, da god-sip, cioè madrina (comare, vicina di casa). In italiano «pettegolo», secondo il linguista Giacomo Devoto, deriva dal veneto petégola, ovvero «piccolo peto». Un tempo, il pettegolezzo volava di bocca in bocca: nei salotti francesi di Madame du Deffand, il potin era una prova di smagliante intelligenza, all’epoca in cui il ridicolo poteva ancora uccidere una persona. Virginia Woolf aveva una sua curiosa teoria: amava mettere in difficoltà gli amici con torbidi pettegolezzi perché, diceva, «si amano molto di più le persone quando sono affrante, di quando trionfano nella buona fortuna» (una formula che credo piaccia molto a D’Agostino). Oggi è una forma di comunicazione fra le più praticate che ha trovato in Dagospia il suo santuario mondano. Negli anni, Dagospia ha saputo svicolarsi dal puro pettegolezzo, divenendo un aggregatore di notizie e spazio d’informazione, tra i più letti del web. D’Agostino lo descrive come una grande «portineria elettronica che muore ogni sera e rinasce ogni mattina». Chi scrive finisce sovente sul sito. In buona parte, per la pubblicazione dei suoi pezzi apparsi sul Corriere della Sera e, per la restante parte, come oggetto di malumori. Ormai gli informatori di Dagospia sono dappertutto: nelle industrie come nei giornali, nei ministeri come in Vaticano, nelle sedi dei partiti come nelle tv. «Voi credete di esistere, e invece esiste soltanto la vostra immagine riflessa nel pianeta artificiale di D’Agostino», scriveva Edmondo Berselli.
Roberto D’Agostino per “Vanity Fair” il 7 luglio 2020. Orgoglioso del mio diploma di ragioniere, e in virtù dei primi vent'anni di Dagospia, sono stato invitato lo scorso 19 giugno dall'Università Luiss di Roma a tenere una cosiddetta lectio. Ho pensato bene di gonfiare la loro sapienza con il seguente tema: perché oggi gli anni dell'università non servono a un cazzo...Ho iniziato pompando vaselina: «Il web è diventato il nuovo sistema nervoso del mondo». Finita la vaselina, è partita la rivincita del ragioniere: «Cari ragazzi, non perdete tempo a domandarvi che tipo di sapienza universitaria ha partorito le utopie di Steve Jobs (Apple), le visioni di Bill Gates (Microsoft), il marketing di Jeff Bezos (Amazon), le idee di Mark Zuckerberg (Facebook), gli algoritmi di Larry Page e Sergey Brin (Google), chiedetevi piuttosto che tipo di mente ha generato uno strumento come Facebook e Google. Nessuno degli attuali padroni del mondo ha conseguito una laurea a Stanford o un master ad Harvard e atenei limitrofi». Come siamo passati dai Rockefeller di ieri ai Jeff Bezos di oggi, un tipino che vendeva cheeseburger nei McDonald's? Come sono arrivati 'sti «strafattoni», senza titoli scolastici e senza titoli in Borsa, al potere globale? Gli attuali miliardari della Silicon Valley devono solo ringraziare gli hippy, i freak, i beat della California degli anni '70. Che, tra una «canna» e un «acido», avevano un proposito ben chiaro: «fuck the system», prendere le distanze dall' American dream. E lo hanno fatto. Ma senza appoggiarsi al «pensiero forte» dell'ideologia, alla politica, al terrorismo, come in Europa. Come Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac, Ken Kesey, l'hippismo di San Francisco aveva messo radici profonde nel buddismo zen del Vicino Oriente. Joni Mitchell e Neil Young, Jobs e company avevano capito che l'energia dell'essere umano non andava sprecata in modalità distruttiva ma creativa. Anziché assediare la Casa Bianca, mejo rinchiudersi in un garage e inventarsi un computer, come appunto fece Steve Jobs. Non è un caso che Stewart Brand, padre spirituale della controcultura californiana degli anni 70, teorizzò la rivoluzione digitale con un testo che aveva per titolo un videogioco, Spacewars: «Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo». Brand non aveva in mente un progetto preciso se non questo, affascinante e molto hippie: niente più confini, niente più élite, niente più caste mediatiche, politiche, intellettuali. Questo è l'unico principio ideologico del Web. Basta un computer su ogni scrivania per avere un «potere personale» che liquidava con un clic il '900. Ecco: il vero atto geniale fu di trasformare il computer, fino allora in dotazione solo all'esercito e alle grandi aziende, in uno strumento personale. Non c'era più una casta di colti che sapeva dove si trovava la conoscenza: a saperlo era un algoritmo che ti conduceva direttamente a quello che cercavi. Via tutte le mediazioni. Niente esperti. Niente più confini. Niente flussi ideologici. La loro scelta di stare fuori dal sistema è stata fatta con tanta determinazione che scatenò l'intellighenzia europea, messa fuori gioco dalla Rete, con violente accuse di qualunquismo. E si ritorna alla domanda di Stewart Brand: perché sprecare energia contro il vecchio mondo? Per ricevere un manganello in testa e finire in galera? Non è più eccitante creare un nuovo mondo. E per farlo basta solo inventare uno strumento. II 19 gennaio 2007, a San Francisco, Jobs fece felice Brand presentando al mondo il primo modello di iPhone, un computer da tasca mascherato da telefonino detto smartphone. E nulla fu come prima.
Il testo integrale della lectio di Dago al Master in Comunicazione Politica diretto da Francesco Giorgino alla Luiss: "Molte sono le rivoluzioni che cambiano il mondo, ma sono poche quelle che cambiano gli uomini e lo fanno radicalmente perché capaci di generare nuovi modi pensare. Il Web è diventato il nuovo sistema nervoso del mondo poiché, grazie in particolar modo a Internet, esso diventa in qualche modo un ampliamento della nostra intelligenza e della nostra memoria. Qui non si sta cambiando qualcosa, ma tutto. Non è il mondo che si fa globale ma noi. Un trauma culturale. La tecnologia è una sfida rivoluzionaria destinata a cambiare la nostra vita esattamente come è avvenuto nell’’800 e nel ‘900. L’invenzione del treno fu un grande sovvertimento, l’arrivo della macchina fu una grande rivoluzione, adesso siamo alla vigilia di innovazioni superiori a quelle che la nostra immaginazione può tentare di descrivere. Nei prossimi vent'anni il mondo cambierà più di quanto sia cambiato negli ultimi 300. Ma il mondo digitale non è la causa di tutto bensì l’effetto: la conseguenza di qualche rovesciamento mentale. Quindi, non perdete tempo a domandarvi che tipo di potere oscuro può generare l’uso di Facebook e di Google, chiedetevi piuttosto che tipo di mente ha generato uno strumento come Facebook e Google. Perché l’uomo nuovo non è quello che ha prodotto quel computer camuffato da telefono chiamato smartphone: l’uomo nuovo è quello che lo ha inventato. La tecnologia, attraverso delle macchine, ha sciolto il mondo in un clic. Come dice Yoda in “Star Wars”: “Impossibile da vedere, il futuro è”. All’inizio fu un gioco. Anzi, un videogioco. Non si capisce molto della rivoluzione digitale se non si ricorda che i vari “PacMan”, “Space Invaders”, “SuperMario”, erano la reincarnazione della mitologia al tempo della tecnologia. Perché ogni volta che si impugna la console, diventiamo come Teseo che si inoltra nel labirinto per dare la caccia al Minotauro. E proprio come gli eroi del mito antico viviamo una esperienza multitasking. Fatta di azione e visione, narrazione e invenzione, partecipazione ed emozione. Affrontiamo una sfida in prima persona che è al tempo stesso eroica e ludica. Entriamo cioè in un'avventura vera anche se virtuale. Lì, attraverso una macchina, generiamo e abitiamo un ampliamento di realtà, una moltiplicazione del mondo, la possibilità di poter vivere in un altrove un'esistenza alternativa. Il segreto del successo dei videogames è l’interattività, la stessa che sta all’origine della rivoluzione del Web. Mentre la letteratura isola, la televisione esclude, il cinema rende passivo lo spettatore, la rivoluzione digitale, al pari dei videogiochi, include. Mi attiva perché, scrive Marshall McLuhan, “recupera la modalità di Narciso”; la moltiplicazione dell’Io come protagonista del gioco. Ognuno di noi si mette lì davanti, prende la pistola, guida la macchina o fa comunque azioni guidate dal gioco e diventa protagonista di quella azione, di quella storia. Dalla platea al palcoscenico. Non siamo più semplici spettatori. Ma piuttosto spettatori di noi stessi. Spingendo fino al cortocircuito tecnologico i ruoli tradizionali della società dello spettacolo. Con un'identificazione totale tra chi vede, chi è visto e chi agisce. Questo coincide perfettamente con l'avvento dei social network – Facebook, Instagram, Twitter etc. - dove il tema centrale è proprio questo narcisismo impazzito, dove ognuno in qualche modo si sente protagonista di una storia, è al centro di qualche cosa, che sia reale o meno, che sia vero o falso. Il videogame ti dà questa sensazione, il Web ti dà questa emozione di generare un ampliamento di realtà, una moltiplicazione del mondo. Definire un computer una mediazione è magari una cosa ragionevole per un uomo del ‘900, ma uno sciocchezza per un ragazzo di oggi: che considera le macchine una estensione di se stesso, non un qualcosa che media il suo rapporto con le cose. Uno smartphone è un’estensione del suo Io. Sono articolazioni del suo stare al mondo destinate a cambiare l’idea stessa di cosa debba essere l’esistenza. Non è un caso che Stewart Brand, padre spirituale della controcultura californiana degli anni ’70 (a cui Steve Jobs rubò la frase “Stay hungry, stay foolish”), teorizzò la rivoluzione digitale con un testo che aveva per titolo un videogioco, “Spacewars”, che metteva il dito nel nuovo orizzonte mentale da cui tutto proviene. Scrive Stewart Brand (a lui si deve l’espressione ‘’personal computer’’): “Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo”. Non aveva in mente un progetto preciso se non questo, affascinante e molto hippie: niente più confini, niente più élite, niente più caste mediatiche, politiche, intellettuali. Questo è l’unico principio ideologico del Web. Basta un computer su ogni scrivania per avere un “potere personale” che liquidava con un click il ‘900. Ecco: il vero atto geniale fu di trasformare il computer, fino allora in dotazione solo all’esercito e alle grandi aziende, in uno strumento personale, individuale, da mettere sulla tua scrivania. Covava, in quell’idea, la singolare volontà di concedere a qualsiasi individuo un potere che era stato creato per pochi. Non c’era più una casta di colti che sapeva dove si trovava la conoscenza: a saperlo era un algoritmo che scattava invisibile e ti conduceva direttamente a quello che cercavi. Via tutte le mediazioni. Niente esperti. Niente più confini. Niente più caste. Niente flussi ideologici. Addio élite a cui si era soliti riconoscere una particolare competenza, un’autorità e alla fine un certo potere. La storia della civiltà umana sulla Terra si può benissimo ripercorrere attraverso gli oggetti che l’hanno trasformata e manipolata: dall’invenzione della ruota e del coltello di pietra che duecentomila anni fa hanno consentito all'uomo di diventare più forte mangiando carne, alla ideazione delle armi da fuoco. A seguire, l’invenzione della macchina fotografica, della lampadina, della catena di montaggio, dell’automobile, della ferrovia, della radio, della televisione, della carta di credito, della lavatrice, della pillola anticoncezionale, del computer, fino allo smartphone. Cose, non idee. Meccanismi, non ideologie. Oggetti, non filosofie. Soluzioni, non chiacchiere. Certo, il pensiero è azione, è la prima e fondamentale delle forme del nostro fare. Bisogna però riconoscerlo: più ancora che dai grandi movimenti artistici, dalle ideologie, dalla letteratura, sono gli oggetti che trasformano la storia del mondo e il nostro modo di vivere. Scrive Alessandro Baricco nel suo saggio “The Game”: “Con la rivoluzione digitale non c’è bisogno di un’idea del mondo: occorre uno strumento per fare il mondo”. Come siamo arrivati a questo? Grazie agli hippies, ai freaks, ai beatnick della california degli Anni 70. Che avevano un proposito ben chiaro, prendere le distanze dal sistema, dall’American Dream, dal maledetto Secolo Breve delle guerre mondiali e dell’Atomica. E lo hanno fatto. Ma senza appoggiarsi all’ideologia, alla politica politicante, come in Europa. Dove l’obiettivo finale è abbattere il potere, la rivoluzione, il sole dell’avvenire. No, come Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac, Ken Kesey, l’hippismo, tra una canna e un acido, aveva messo radici profonde nel buddismo del vicino oriente. E fra Zen e Budda, l’hippismo aveva capito che l’energia dell’essere umano, non essendo illimitata, non andava sprecata in modalità distruttiva ma creativa. Anziché assediare la Casa Bianca, intrupparsi in qualche partito da combattimento, o mettersi in fila per un posto all’IBM, mejo rinchiudersi in un garage a inventarsi un computer, come appunto fece Steve Jobs. Non a caso nessuno degli attuali padroni del mondo, da Bezos a Zuckerberg, da Jobs al duo di Google fino a Bill Gates, ha conseguito una laurea a Stanford o ad Harvard. Non a caso nei social c’è un termine fondamentale per la sottocultura hippie: comunity. Non a caso facebook segue i dettami del Peace & Love e ha solo il “mi piace”. La scelta di stare fuori dal sistema è stata fatta con determinazione e spirito pratico, magari senza avere un’idea precisa di quello che sarebbe poi avvenuto. Da una parte. Dall’altra il Sistema, il Potere era ben felice e tranquillo, visto le insurrezioni e il terrorismo che stava dinamitando l’Europa, del fatto che le comunità freak e hippie si trastullavano inventando videogiochi e computer, senza dar fastidio al manovratore, fuori da ogni contestazione politica. Una miopia che poi hanno pagato in termini pesantissimi: Microsoft si è mangiata l’IBM, Netflix ha oscurato Hollywood, Spotify ha conquistato l’industria musicale. Avete mai letto dichiarazioni politiche dei vari pionieri del web Zucherberg, Bezos, Jobs? No, perché sprecare energia contro il vecchio mondo? Più facile creare un Nuovo Mondo. Anzi, un Ultramondo partendo da Space Invaders che ha portato via il calciobalilla dai bar e che per la prima volta ci ha fatto interagire con uno schermo, maturata venti anni dopo ed esplosa con la presentazione del primo modello di Iphone (9 gennaio 2007, San Francisco). Che cosa lega l'invenzione della stampa nel 1450 a Google e Facebook? È possibile paragonare il tipografo tedesco Gutenberg all’informatico britannico Tim Berners-Lee, padre del Web? Che distanza c'è tra quella Età del Caos che chiamiamo Rinascimento, i suoi Savonarola, e quel primo esperimento di globalizzazione che furono le grandi esplorazioni navali iniziate con la scoperta dell'America e i populismi di oggi? L’invenzione di Gutenberg fu una mossa che ebbe colossali conseguenze: permetteva il passaggio della conoscenza dalla élite di papi, principi e monaci alle nuove classi emergenti. Mentre lasciava sul campo, stecchita, buona parte della cultura orale (ai tempi dominatrice indiscussa di un mondo di analfabeti), apriva orizzonti sconfinati al pensiero umano, alla sua libertà e alla sua forza. Di fatto scardinava un privilegio che per secoli aveva inchiodato la diffusione delle idee e delle informazioni al controllo dei potenti di turno. Per far circolare le proprie idee non era più necessario disporre di una rete di monaci amanuensi. Una smagliante accelerazione tecnologica che ha terremotato la postura mentale degli umani, dando vita al Rinascimento, alla modernità, all’Illuminismo. Io credo che quello a cui noi stiamo assistendo con la rivoluzione digitale sia un procedimento tutto sommato simile, anche se in scala enormemente più vasta, al Rinascimento. In tutto il mondo, dal deserto del Sahara sotto le tende dei beduini ai villaggi del Bangladesh o in un’isola sperduta della Polinesia, chiunque con una connessione e un computer può accedere alla biblioteca di Babele, alla biblioteca totale. C’è la totale disponibilità della cultura, dei libri, della lettura a tutti. Questo non può non produrre che un Rinascimento Digitale, una mutazione che noi adesso non possiamo neanche immaginare. L’urgenza di mandare in soffitta il passato e di inventare il presente avvenne nel 1989. Venne giù il Muro di Berlino, carico di tutte le disastrose ideologie del ‘900, da una parte. Dall’altra, l’informatico britannico Tim Berners-Lee, lavorando su un computer americano chiamato NEXT prodotto da Steve Jobs, inventò e regalò al mondo il World Wide Web, una ragnatela percorribile da tutti, in cui tutti i documenti del mondo, che siano testi, foto, suoni video, saranno a portata di mano. Berners-Lee definisce il Web con appena 21 parole. Una frase chiave è: “Non c’è un top nel Web. Puoi guardarlo da molti punti di vista”. Ad una civiltà che da secoli era stata abituata a cercare la struttura del mondo mettendolo in fila dall’alto in basso, dal più grande al più piccolo, quell’informatico stava dicendo che il Web era un mondo senza un inizio o una fine, senza prima e dopo, senza sopra e sotto: ci potevi entrare da qualsiasi lato, e sarebbe stata sempre la porta principale, e mai l’unica porta principale. La Rete è il riconoscimento che la cultura è circolare o meglio, labirintica, mischia elementi di epoche diverse, non ha il senso moderno dell’andare avanti su un’unica strada giusta e implacabile, ma gira intorno alle incertezze in un continuo scambio di alto e basso, sopra e sotto. Non era solo una questione tecnica, di ordinamento del materiale: era una questione di struttura mentale. E’ un modo di muovere la mente, e sta a te la scelta di come muovere la mente. Nel 1989, finisce un’epoca, ne inizia un’altra. Fantastica e sconcertante. L'adozione di nuove tecnologie è sempre più rapida. Ce lo insegna la storia: ci sono voluti 45 anni dalla sua invenzione perché l'elettricità raggiungesse il 25% delle persone, 35 anni per il microonde, 28 per la tv, 15 per il computer, 7 per il telefono cellulare, 5 per Internet. Oggi tutto sta accadendo simultaneamente. Non solo. I computer non sono più macchine da programmare: sono diventati macchine che possono imparare cose. Sanno trasformare i dati in conoscenza: sono ormai dei veri e propri sistemi cognitivi. È per questo che le cose diventano sempre più intelligenti: ormai tutti quegli oggetti che una volta erano disconnessi sono collegati a Internet, continuamente aggiornati. E con il "deep learning" sono sempre più in grado di elaborare norme e strategie che noi non saremmo in grado di pensare. Uno degli aspetti che distinguono la rivoluzione tecnologica è la realtà digitale. Ovvero il trasferimento della conoscenza e della vita degli individui dalla realtà reale al mondo di internet. I social network sono la più importante e vitale forma di aggregazione. Del resto l’umanità moltiplicata attraverso la connessione è l’antitesi della solitudine. Le piattaforme digitali hanno infatti dispositivi che incitano gli utenti a dare la stura alle proprie emozioni e a svelare le loro preferenze e i loro gusti intimi. Sotto questo profilo, il modello è Facebook. Sono passati 16 anni da quando l’allora ventenne Mark Zuckerberg, da un dormitorio della Harvard University, ebbe l’idea di creare una rete sociale online capace di connettere i suoi colleghi universitari. “Mi resi conto che in rete si poteva trovare qualsiasi cosa: musica, libri, informazioni: eccetto la cosa più importante: le persone. Così ho creato Facebook”. Era il 4 febbraio 2004, il successo fu immediato. A differenza di Google, dove gli internauti cercano informazioni “oggettive”, Facebook vuole connettere la gente e, per farla sentire viva e attiva, fa leva su pratiche cariche di dimensioni affettive: conversare con nuovi amici, condividere dati personali, ritrovare vecchi amori, conoscere gente, colmare il sentimento di solitudine o di noia, esprimere emozioni soggettive. Il suo successo è inseparabile dalla possibilità di esprimere stati affettivi, sentimenti e passioni della sfera delle relazioni private. Tre miliardi di persone nel mondo si mettono in scena quotidianamente cercando di affascinare i loro amici, proiettare un’immagine favorevole di se stessi, attirare l’attenzione su di sé in vista di like che lusingano il loro ego. Una ricerca generalizzata di seduzione, non più orientata verso la conquista dell’altro, ma centrata sui bisogni emotivi del Sé. Il principio della forza d’attrazione di Facebook è il suo uso di ordine emotivo. Esprimo quello che mi piace e i miei amici fanno lo stesso pigiando il pulsante “mi piace!” e altre emoji o emoticon evocanti il riso, la gioia, lo stupore, la tristezza, la collera. Ciò che conta è ricevere like di approvazione ed esprimere le proprie emozioni. “Mi piace”, ed è tutto. I messaggi negativi, naturalmente, sono possibili (vedi i cosiddetti “haters”, i le jene da tastiera) ma non sono “istituzionalizzati”: non esiste il pulsante “non mi piace” nel social. Proprio per questa assenza volontaria, la piattaforma è organizzata per favorire l’espressione dell’empatia, delle reazioni affettive positive, degli slanci di seduzione. Si è potuto affermare che Facebook fosse una “utopia sociale” perché è basata sulla “negazione del nemico”. Tuttavia, non sembra affatto uno spazio privo di ferite soggettive, da rischi emotivi e perfino da una forma di competizione simbolica legata alla ricerca di riconoscimento. Giacché su Facebook gli internauti cercano di uscire dall’anonimato, rivaleggiano in originalità o in humour e danno un’immagine lusinghiera di se stessi per ottenere un gran numero di like, suscitare attenzione e interesse, essere popolari, diventare “minicelebrità”. Il rischio non è lo scontro con gli altri ma quello di avere pochi amici, di essere irrilevanti, di non ricevere like e commenti positivi. In compenso, questi permettono di rafforzare la stima di sé, lusingare l’ego, rassicurare il soggetto sul suo potere di seduzione. L’espressione delle emozioni è diventata centrale sul web non in ragione delle incitazioni a interagire per rivelare dei dati, ma in risposta alla destabilizzazione della personalità, alla incertezza crescente dell’identità, al desiderio di essere integrati in una comunità, al bisogno di gratificazione rapide e di guadagni narcisistici degli individui. Ma è Instagram, lanciata il 6 ottobre 2010, il social più nuovo e interessante perché ha instaurato un nuovo linguaggio globale che ha preso il sopravvento sulla parola scritta. Grazie a Instagram, “io scrivo foto”. Perché la velocità della tecnologia deride la lentezza di un sms, di un tweet, di un testo. Instagram ci fornisce una filosofia di salvezza. La realtà come volontà e rappresentazione fotografica. Avere diciotto anni, almeno sul fronte del digitale, significa ragionare con lo sguardo e non più per vocaboli. Niente risulta più insopportabile di una persona anonima, neutra, priva del suo codice di immagine. Perché la qualità della vita si misura sulla qualità dell'immagine. E pubblicare una propria foto privata diventa un “pensiero visivo” per catturare l’attenzione degli altri. “Mi vedo vedermi. Siamo degli essere guardati nello spettacolo del mondo” (sentenziava lungimirante Lacan). Fatta fuori l’ingombrante macchina fotografica, la foto - prima arte democratica della storia - si è reinventata come semplice applicazione di quel supermedium tascabile che è lo smartphone. McLuhan è stato il primo a sostenere che la macchina fotografica rende obsoleta la privacy. Aveva perfettamente ragione: ora tutto è visibile, le persone, le case, gli oggetti, le azioni. I selfie da questo punto di vista non aggiungono niente di nuovo. O meglio: uniscono lo specchio e la macchina fotografica. Partendo da questa tesi (lo smartphone è il mio terzo occhio), entra in ballo l’aspetto più disturbante e seduttivo: la nostra identità digitale. In un mondo globalizzato che non dà lavoro né assicura benessere - i Millenials ieri, la Generazione Z oggi - devono fare affidamento sul proprio “marchio”. Si tratta di un'esperienza interiore di sé, piuttosto che uno stato oggettivo di essere famoso. Se l’invenzione della fotografia è stata il preludio dell’arte moderna, la smaterializzazione dell'immagine – la trasmigrazione dalla carta al display - è diventata l’arte di costruire il proprio “brand”, il proprio marchio personale. Io sono di fatto il presidente, amministratore delegato e responsabile marketing dell’azienda chiamata “Io Spa”. Benvenuti alla “Società dello spettacolo” preconizzata nel 1967 da Guy Debord. Io sono la mia fiction, perché la rivoluzione digitale ci dà la possibilità di creare una vita parallela attraverso i social. Ecco un essere umano multitasking che non è cpiù ostretto a essere lineare. A essere inchiodato in un luogo mentale. A farsi dettare dal mondo la struttura dei suoi pensieri e i movimenti della sua mente. La nostra rappresentazione sociale non può più, ormai, non passare per la rete in modalità immagine. Infatti la vita, grazie ai social network, è diventata una battaglia per inventare se stessi. Una battaglia tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Pubblicare una propria foto privata e un modo per catturare l’attenzione degli altri. Come scriveva George Bernard Shaw: ‘’La vita non consiste nel trovare te stesso. La vita consiste nel creare te stesso’’. Foto dopo foto, post dopo post, arriviamo al punto più centrale. Nessuno è soddisfatto di se stesso. Perfino i nostri antenati greci, che hanno inventato la civiltà, dalla politica alla letteratura, dall’arte allo sport, hanno sentito la necessità di inventarsi e nutrirsi di un mitologico mondo parallelo, un Olimpo affollato di Marte e Giove, Venere e Mercurio, per lenire la propria insoddisfazione. Lo sappiamo bene di essere fatti male: la felicità dipende dalle nostre aspettative e non dalle effettive condizioni in cui viviamo. Quindi, nonostante i miglioramenti enormi di quest'ultime, l'insoddisfazione è sempre la stessa. La normale reazione umana al piacere non è soddisfazione, ma ulteriore ricerca del piacere. Nel 1991 c’era un solo sito Web: quello di Berners-Lee. L’anno dopo diventano 9. Nel ’93 erano 130. Nel ’94, 2 mila 738. Nel ’95, 23.500. Nel ’96, 257 mila. Il 23 maggio del 2000 appare in rete Dagospia.com: avevo 52 anni, avevo lavorato in tutti i grandi giornali e settimanali e, tra la diffidenza di moltissimi, avevo capito che quell’era cartacea apparteneva al secolo scorso.Iniziai da solo, postando tre articoli al giorno. Dopo appena una settimana mi girarono una notizia clamorosa che riguardava l’acquisizione da parte dell’Enel di una rete televisiva: uno scoop che, per motivi pubblicitari, nessun giornale poteva permettersi di pubblicare. Ebbi allora la conferma che c’era gente che aveva bisogno di Dagospia, di un mezzo ibero dalla ragnatela del potere economico e finanziario. Google era ancora agli inizi, i social e le App erano di là a venire, in libreria esistevano enormi libri con gli indirizzi dei siti, una specie di Pagine Gialle di Internet: mi ricordo bene di quando consegnavo alle persone dei biglietti con su scritto dagospia.com. Dagospia vide la luce con l’idea di creare un boutique dell’informazione, una portineria elettronica capace, davanti al ciclone di fatti e opinioni di cui cominciavamo ad essere sommersi, di sintetizzare per il lettore ciò che contava davvero sapere, dalla politica al pettegolezzo, dall’economia ai retroscena della finanza. A tutto ciò, va ad aggiungersi il ruolo nevralgico e fondamentale di “spia”. Nel mondo politico e in gran parte del giornalismo italiano assistevo da tempo a un fenomeno: la "scomparsa dei fatti". Come l'informazione in Italia, salvo rarissime eccezioni, era programmaticamente svuotata di contenuti, smarrendo del tutto la sua funzione originaria. Era successo che tutta la stampa italiana non era più in mano a editori puri ma a imprenditori che avevano acquisito quotidiani soprattutto per esaltare i loro interessi e per far scomparire le notizie scomode che li riguardavano. La principale tecnica della disinformazione operata dai media in Italia era, ed è tuttora, l'arte del parlar d'altro o nel concentrarsi su aspetti marginali e fuorvianti della notizia stessa, così da oscurarne il ben più importante contenuto: titoli “pettinati”, interviste senza domande, articoli da prima pagina che finiscono con taglio basso e senza foto a pagina 15. Un'altra importante tecnica di disinformazione: la trasformazione delle opinioni in fatti. Ossia, per evitare di raccontare dei fatti, molte volte scomodi al potere, si lascia la cronaca dei fatti agli opinionisti, in modo da sostituire i fatti con le loro opinioni. In un paese dove lo scontro ideologico è diventato la prassi, gli esempi di questa manipolazione abbondano ovunque. C’è chi li nasconde perché non li conosce e non ha voglia di informarsi, perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti, perché contraddicono la linea del giornale, perché è meglio non scontentare nessuno e magari ci scappa una consulenza con il governo o con la regione. Il vecchio motto del giornalismo - “I fatti separati dalle opinioni” - è stato soppiantato da uno molto più pratico: “Niente fatti, solo opinioni”. Nietzsche dice che esistono le interpretazioni, ed è vero, ciascuno di noi interpreta le informazioni che riceve. Ma quelle informazioni devono pur esistere. Possiamo avere interpretazioni diverse sul significato di una cifra, ma devo almeno avere una cifra, e deve essere corretta. Diceva Aldous Huxley: ‘’I fatti non smettono di esistere solo perché li nascondiamo’’. Dagospia mira ad agire come un agente segreto tra le pieghe e le piaghe di una informazione istituzionalizzata: insomma quella che negli anni Sessanta si chiamava “controinformazione” e funzionava con il ciclostile sfornando volantini. Questo è stato il talento di Dagospia in 20 anni di esistenza e lo dimostra ogni giorno con 3,5 milioni di pagine viste: dar vita a un ciclostile digitale.
Massimo Cutò per "il Giorno" il 17 giugno 2020. Da vent’anni è il portinaio elettronico dell’Italia che sta nell’ombra e di quella che s’ingozza alle feste vip. L’inventore di un genere studiato dal New York Times e dallo Spiegel, osannato dall’ Herald Tribune - "È un mix tra Tom Wolfe e Andy Warhol" - e celebrato a Oxford con una lectio magistralis. Perché Roberto D’Agostino, romano di quasi 72 anni, e la sua creatura Dagospia sono una cosa dannatamente seria.
Lei è nato in una famiglia lower class ed è diventato il grimaldello della comunicazione 4.0. Si sente il prototipo di un Paese che ha cambiato pelle in mezzo secolo?
"La mia generazione ha visto mutamenti epocali. Se penso che da bambino mi vestivano come un ometto e mi vedo allo specchio ora...".
Un ribaltone. Com’è avvenuto?
"Molto velocemente. A 17 anni ero disk jockey in radio e suonavo in un gruppo. Ho vissuto la rivoluzione che arrivava dall’America con un decennio di ritardo: musica, vestiti, letture che hanno rivoltato il mondo. Mi sono formato sul rock di Elvis e i libri di Kerouac e Ginsberg. Ero un alieno in via dei Volsci".
Partecipò al ‘68?
"Ero già troppo vecchio per manifestare".
Forse perché a 18 anni fu assunto come ragioniere alla Breda? O perché subito dopo entrò con una raccomandazione di sua madre alla Cassa di Risparmio?
"Sono stato felice di lavorare in banca, ci sono rimasto dodici anni. È grazie a quello stipendio se il frigo si riempiva. Mi sfottevano: sei un borghese. A me? I miei genitori si arrabattavano per portare due soldi a casa".
Che cosa furono gli anni ‘60?
"Cito due episodi. Era il 1965, i Beatles all’Adriano: entrai accompagnato dai mia zia, o così o niente. Due anni dopo, i Rolling Stones al palasport: dentro solo noi ragazzi a fare casino, vestiti come Mick Jagger. Era cambiato tutto in un amen".
Cambiava vorticosamente anche la sua vita...
"Appena potevo mi mescolavo agli studenti della Sapienza: seguivo i seminari di Giorgio Melchiori, anglista raffinato e spirito libero. E crescevo con le lezioni di Beniamino Placido. Lui era un professorone che non si vergognava di lavorare come funzionario alla Camera, bisognava sbarcare il lunario".
Che cosa imparò?
"Capii il post moderno, la cultura interdisciplinare: una torta millefoglie. Placido prendeva Via col vento e ne faceva un film, un romanzo, un fumetto. Ogni fascia di pubblico poteva captare il messaggio. Anticipava l’era del telecomando e del mouse per tutti, una realtà che ha fatto impazzire gli intellettuali".
E il sesso?
"La rivoluzione partita dalla farmacia. Ho avuto il primo rapporto a 17 anni con una prostituta, grazie a un profilattico spesso come un battistrada. Poi è arrivata la pillola. E finalmente il Viagra che ha aiutato gli uomini a rimanere tali".
Niente porno?
"A pacchi. Il porno ha salvato molte vite. Penso al lockdown : che sarebbe successo se non ci fossero stati i siti hard?".
Arriviamo al 2000, la nascita di Dagospia. Come andò?
"Venivo dalla tv. Avevo fatto l’inviato musicale di Carlo Massarini a Mister Fantasy. Poi, nell’85, divenni l’esperto di look a Quelli della notte, un’invenzione di Renzo Arbore. Il grande pubblico imparò a conoscermi".
E così?
"Barbara Palombelli mi fece scuola e aprii il portale. Un’alternanza di vaccate e cose serie, alto e basso.
È accaduto che per un giorno intero la notizia più cliccata fosse: le uova vanno o no in frigo? La gente vuole leggere qualcosa di intelligente e un minuto dopo sapere chi è andato a letto con chi. Dagospia racconta affari e trash, la politica e la scopata. E un’altra cosa".
Che cosa?
"Il segreto del potere. Me l’ha spiegato Cossiga, il mio maestro. Il potere è quello che c’è dietro, quello che non si vede".
Come vi incontraste?
"A casa sua, volle conoscermi perché facevo informazione. Scriveva e nessuna agenzia di stampa lo pubblicava, tantomeno i giornaloni. Cominciò a telefonarmi la mattina presto dettandomi gli articoli. Per me politica, finanza, economia erano materia oscura. Cuccia, chi era costui? Mi facevo tradurre tutto da un amico che ne sapeva, poi postavo il pezzo sulle ragazze a tette nude e il gossip sui soliti noti. Un successo clamoroso".
Qual è lo scoop che vorrebbe fare oggi?
"Annunciare che il Paese è in mani sicure. Ma non posso, non ci credo. E la paura si è mangiata gran parte dell’anima della gente".
Si è mai sentito usato dagli informatori?
"Non sono una buca delle lettere. Mi consegnano una chiavetta? Apro, guardo e valuto. È un lavoro delicato, a volte ho fatto danni e mi sono pentito di aver rovinato delle famiglie. Ma tante altre ne ho salvate, sotterrando certe cose nel cassetto".
Chi fa i titoli sul sito? Alcuni fanno invidia.
"I ragazzi della redazione, poi passo io e magari dò un’aggiustata, faccio qualche correzione. Ma non è mica difficile: a Roma siamo abituati a scherzare su tutto e tutti da secoli, figuriamoci".
E i soprannomi ai vip? Chi ha creato quei nick passati alla storia?
"Quella è tutta roba mia, è un gioco che mi diverte moltissimo. Daniela Santadeché e WalterEgo Veltroni, Luca di Monteprezzemolo e Fausto Berti-Nights sono nati così, in un lampo. Alcuni sono delle genialate, devo ammetterlo. Mi piace molto Celentano il Molle agiato. E non sono male neppure Michele Sant’Euro e Colao Meravigliao".
Che direbbero di lei i suoi genitori?
"Mio padre veniva da Trani, era saldatore. La domenica si vestiva di tutto punto e usciva nel quartiere San Lorenzo per lo struscio. In fondo recitava. Proprio come i protagonisti dell’Italia Cafona. Il loro motto è: io sono la mia fiction, si sono inventati un avatar e inseguono una seconda vita. Sognando gli Agnelli e i Tronchetti Provera".
E sua madre?
"Faceva un mestiere oggi ignoto a mio figlio: la bustaia. L’eco di un’altra Italia, quella ingenua dei film in bianco e nero".
Suo figlio ha 25 anni: è la nuova generazione che diventerà classe dirigente.
"Sono giovani connessi con il mondo, sanno come muoversi: ho un alto concetto di loro. Mio figlio studia Scienze dei materiali, si è trasferito all’estero, è già nel futuro".
E lei come si sente a 71 anni, quasi 72?
"Se faccio tardi la sera mi sveglio con il cerchio alla testa. Vanno bene i tatuaggi, il codino, le camicie colorate... ma il passare dell’età si sente eccome. Non puoi farci niente".
Ma alla fine com’è la storia delle uova?
"Vanno in frigo solo se la temperatura ambiente supera i 25 gradi".
Massimiliano Lenzi per ''il Tempo'' il 22 maggio 2020. Il 23 maggio Dagospia, il sito di Roberto D'Agostino, compirà vent' anni. Una giovinezza nel suo pieno che ha già consumato una vita intera. Quella dell' Italia dell' edonismo con i suoi ultimi sussulti. Quella del gusto famelico della mondanità, immortalato dentro gli scatti di bocche aperte per mangiare. Quella dei retroscena del sesso come preludio del Potere e di un sussurro che sta or di scena, per comandare meglio. Quella del funerale della lira femmina, fottuta dall' euro maschio. E poi le notizie, di economia, di politica, che altri non pubblicano e lui sì, magari beccandosi dei vaffa o addirittura delle querele. In tempi di coronavirus, la libertà è un ossigeno ancor più prezioso di sempre. Per questo Dagospia è la commedia umana del nostro essere italiani. Perché, come ha scritto Balzac, «la potenza non consiste nel colpire forte o spesso, ma nel colpire giusto».
Dagospia il 18 giugno 2020. COMUNICATO LUISS - LOGO LUISS Ore 12, su piattaforma Cisco Web. L’appuntamento è di quelli da non perdere. Che Dagospia sia diventato un caso di studio in molte università italiane e straniere non è una novità, ma mai prima d’ora era accaduto che i criteri di selezione, gerarchizzazione e trattamento dei contenuti notiziabili adottati da Roberto D’Agostino e dal suo staff fossero elevati a vero e proprio paradigma scientifico. Criteri da studiare con spirito critico certo, ma anche con una abbondante dose di consapevolezza della loro presenza ormai stabile nella sfera pubblica mediata. Dago inventore della parola sussurrata a fini non solo di gossip, ma anche edificatore incessante di esperienze di “politainment” e di “politelling”. E’ anche per questo motivo che Roberto D’Agostino è stato invitato a tenere domani una lectio alla Luiss nel Master in Comunicazione e Marketing politico ed istituzionale diretto da Francesco Giorgino, volto noto del Tg1 e da diversi anni docente di Comunicazione e Content Marketing nell’ateneo della Confindustria. Giorgino presenta così l’appuntamento di domani all’interno del modulo straordinario di content advertising e che vedrà la partecipazione dei più importanti creativi e pubblicitari italiani e dei massimi studiosi del settore: “Ho voluto che gli studenti del Master acquisissero direttamente dalla viva voce di Roberto D’Agostino conoscenza del ruolo svolto negli ultimi vent’anni da questo portale capace di richiamare l’attenzione ogni giorno di milioni di italiani proprio per il forte impatto che esso ha avuto, ha e continuerà ad avere sul costume, sulla politica, sull’economia e sulla finanza del nostro Paese in un contesto sempre più globalizzato e all’interno di una società sempre più connessa e complessa”. “L’ibridazione tra i codici della politica e quelli del light entertainment, così come il tentativo di sovrapporre dinamiche di costruzione di contenuti politici e tecniche di storytelling – spiega Giorgino - sono esperienze che popolano molti degli spazi rappresentativi messi in scena da Dagospia, a cui va riconosciuto il merito di aver trasformato la logica del “buco della serratura” nel pretesto quotidiano per mettere a nudo il potere, renderlo più vero ed autentico proprio mentre a diverse latitudini si sviluppava una chiara e forte domanda di open government. Una sorveglianza temuta e temibile, insomma, che con il tempo si è estesa dalla politica a tutti gli ambiti in cui era ed è possibile scorgere la presenza di forme asimmetriche tra emittenti e riceventi del processo comunicativo, come del resto prova lo sguardo ironico e pungente sulle azioni e i comportamenti di quanti fanno parte dello star system, qui inteso in senso lato”. Giorgino aggiunge: “La dissacrazione garbata e rispettosa del potere insieme alla creatività ravvisabile in molti testi (Dago è insuperabile nei titoli!) sono le maggiori evidenze empiriche di una strategia di successo capace di rappresentare l’amalgama perfetta di processi di comunicazione, giornalismo, content marketing. Processi intenti a fondersi e confondersi all’interno di un racconto della quotidianità fatto senza filtri e senza gli obblighi del politicamente corretto”.
Sebastiano Caputo su lintellettualedissidente.it il 24 giugno 2020. Tutte le strade di Roma portano sul Lungotevere. E di notte, in una città che si tinge di giallo ocra (e guai se il comune sostituisce quei lampioni antiquati con le luci a led, manco fossimo a Time Square) le palme fosforescenti della casa museo di Roberto D’Agostino ormai sono diventate parte integrante del paesaggio urbano. Un nuovo, e unico, esemplare di pianta, patrimonio dell’urbe, puttana e santa. Quello non è soltanto un terrazzo di un edificio qualsiasi, bensì trasposizione cinematografica del barad-dûr di Tolkien, una sorta di torre nemmeno troppo oscura, di controllo, di comando, di spionaggio e contro-spionaggio. Lì nasce Dagospia, quella è la sua inespugnabile fortezza. Ormai da 20 anni. Un caravanserraglio collocato sulla riva sinistra del fiume dove si incrociano persone, circolano informazioni, si parla del più e del meno, e ogni tanto, nemmeno troppo raramente, escono fuori grandi retroscena. Dagospia non è una preghiera laica del mattino, ma un manuale romanzato di guerriglia per chi vuole imparare a muovere i passi tra i luoghi della mondanità (anche se “non ce so’ più le feste de ‘na volta” come disse al Bestiario il mitico Luciano Bacco) e i palazzi del potere, quelli veri. Molti, per anni, hanno considerato i contenuti pubblicati su un sito apparentemente trash (ma non kitsch bensì camp) “stupidi pettegolezzi”, ignari della filosofia profonda di questo girone dantesco di articoli e racconti fotografici in cui esistono tantissimi e psichedelici livelli di lettura che molte volte si sovrappongono fino a svelare storie di letto, di potere, o tutte e due insieme. In barba a qualsiasi “classifica di segretezza”. Su Dagospia, niente è segreto, segretissimo, riservatissimo, riservato. E se Filippo Ceccarelli ci ha scritto un libro, raccontando la storia d’Italia attraverso il sesso, nella sua dimensione pubblica e privata, da Mussolini a Vallettopoli bis, Roberto D’Agostino invece ci ha fatto un sito internet, con milioni di visitatori al giorno, e la capacità incredibile di coniare neologismi e nomignoli per tutti i suoi protagonisti, dai più ai meno noti. È un arte tutta italiana, ormai dimenticata dai super mega direttori, quella di riuscire a inventare parole, definizioni, espressioni, e che oggi, morti Gianni Brera e Tommaso Labranca, eredi dei Longanesi, dei Maccari e dei Papini, non si vede quasi più. Chi è, chi non è, chi si crede di essere Roberto D’Agostino. Definirlo ribelle o incarnazione dello spirito decadente del nostro tempo è profondamente sbagliato, “Rda” non è altro che un artista che oltre ad essersi inventato un genere giornalistico-letterario, è riuscito a fabbricare uno star system italiano composto da intellettuali, soubrette, personaggi dello spettacolo affermati, emergenti o tramontati, finanzieri, politici di ogni Repubblica, e a dissacrarlo a suo piacimento. “Avendo io vissuto quel periodo negli anni Sessanta mi sono ritrovato in questa filosofia della Silicon Valley”, ci confessa al telefono. Dagospia infatti è un social network –“de noantri”, nella sua accezione positiva e italianissima – della mondanità in cui invece di raccogliere dati, raccoglie i segreti, svelati per narcisismo, vanità o protagonismo dai suoi stessi protagonisti, “morti di fama” li chiama, anche a costo di farsi tenere sotto ricatto per sempre. Del resto era l’Italia quel Paese dove non potrà mai esserci nessuna rivoluzione perché gira e rigira ci si conosce tutti. Chissà allora se in quel “tempio della magnificenza e della decadenza del mondo occidentale” (Massimiliano Parente) non si nascondano cellule dormienti. Solo i ferventi professanti della “taqiyya” potranno salvarci. Se non sarà quello stesso tempio di “mezzi divi” e starlette a dissimulare loro.
Sono passati vent’anni, non pochi. Quando hai capito di aver fatto il botto?
«Il botto con Dagospia non si può fare perché non è in formato analogico. Nel digitale non abbassiamo quasi mai la saracinesca, è un flusso continuo. I click sono tanti, ma la verità è che il mondo di carta è un mondo lontano e contrario al nostro. Dagospia è un “pensiero debole”, una tavola da surf che cavalca le onde in tempo reale della realtà. Non diciamo al lettore come deve vivere, pensare, votare. Col mondo digitale, quello che era considerato il popolo bue, una volta che ha preso in mano il mouse è diventato un popolo toro».
E quindi tu non hai mai pensato a un supporto cartaceo in questi 20 anni?
«In vent’anni non ho mai scritto un editoriale, perché è proprio il contrario della filosofia del web. Che ha origine dall’hippismo californiano, teorizzato da Stewart Brand, padre spirituale della controcultura degli anni ’70 (a cui Steve Jobs rubò la frase “Stay hungry, stay foolish”), che teorizzò la rivoluzione digitale con un testo che aveva per titolo un videogioco, “Spacewars”, che metteva il dito nel nuovo orizzonte mentale da cui tutto proviene. Il vero atto geniale fu di trasformare il computer, fino allora in dotazione solo all’esercito e alle grandi aziende, in uno strumento personale, individuale, da mettere sulla tua scrivania. A Brand si deve anche la geniale espressione "personal computer": “Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo”. Il segreto del successo della rivoluzione del Web è l’interattività: mentre la letteratura isola, la televisione esclude, il cinema rende passivo lo spettatore, la rivoluzione digitale, al pari dei videogiochi, include. Dalla platea al palcoscenico. Non siamo più semplici spettatori ma protagonisti. Con i social, il narcisismo ognuno di noi ha trovato la maniera di dire quello che gli frullava nella testa».
Ovviamente, le polemiche quali sono state?
«Fake news, leoni da tastiera, volgarità a gogò… ma siamo 7 miliardi e 700 milioni di abitanti, di cui 3 milioni e mezzo sono connessi. Ora, su questi numeri, è ovvio che devi prevedere una quantità di idioti, di cretini, di maleducati. Del resto, l’essere umano non è mai stato perfetto… Quando Umberto Eco disse che Internet dà la facoltà a qualsiasi imbecille di dire la sua stronzata, io gli risposi: “Scusi, esimio professore, quando Lei è in aula al DAMS di Bologna, i suoi studenti hanno tutti la stessa capacità? Hanno tutti la stessa qualità? Hanno tutti la stessa educazione e cultura?”. È chiaro che gran parte di queste polemiche sono un gigantesco rosicamento con versamento di bile che ha avuto il mondo analogico della carta stampata. Prima, imperanti le ideologie, ogni mattina l’editoriale dava la linea al popolo-bue, alle 20 poi toccava al telegiornale condizionare il consenso dei cittadini. Poi, con Internet, nulla è stato come prima: nessuno sta più alle 8 di sera ad aspettare il bollettino di Saxa Rubra, nessuno sta più ad aspettare che la mattina si apra un’edicola per avere notizie. Oggi hai in tasca un computer chiamato smartphone. E tutto questo ha spazzato il loro potere. È quella famosa battaglia, duello, sfida, tra popolo “armato” di connessione ed élite appesa alla biblioteca. E costantemente dobbiamo leggere articoli di tipini col ditino alzato che sentenziano che siamo trash e cafoni, ignoranti e teste di cazzo se ci sollazziamo con Maria De Filippi anziché con Corrado Augias. E nessuno di tali sapientoni si chiede per quale motivo la gente dovrebbe scapicollarsi all’edicola e sborsare due euro per comprare un giornale che gli dice, nero su bianco, che è un coglione politicamente diplomato se non legge Carofiglio, una testa di cazzo se mandi a quel paese il Mee-to di Asia Argento, un decerebrato senza speranza se trovi Fabio Fazio utile per cambiare canale. Con il sito, dato che non sto scrivendo i dieci comandamenti, considerando la verità solo un punto di vista, tra un dagoreport e un cafonal, scodello una selezione di notizie che credo che valga la pena di leggere presa dai giornali. Poi sarà il lettore a farsi un’idea di dove siamo finiti e a farsi il proprio editoriale. Io non voglio dare nessuna indicazione, io sto qui a prospettare quello che è lo spirito del tempo. Il principio culturale che ho sempre avuto nel mio lavoro è questo: ognuno vede quello che sa. Dato che, come dicevano i pizzicaroli e i baristi, “il cliente ha sempre ragione”, ho fatto anche una mossa anti Dagospia: ho tolto il sommario, lasciando l’occhiello e ampliando il titolo. Perché, sparando oltre 100 pezzi ogni giorno, molti lettori non hanno il tempo per poter leggere tutti gli articoli. In modo tale che leggendo solamente i titoloni, possa farsi un’idea di ciò che sta succedendo intorno a lui».
Dagospia è un unicum del giornalismo mondiale anche perché è profondamente italiano. Però volevo sapere se vent’anni fa, quando ti è venuta l’idea, ti sei ispirato ad un progetto preesistente.
«Avevo un amico che mi ha introdotto in questo mondo, che aveva vissuto come me gli anni del Flower Power, del Peace & Love, delle canne e degli acidi. Perché siamo arrivati alla rivoluzione digitale grazie agli hippies, ai freaks, ai beatnick della California degli Anni 70. Che avevano un proposito ben chiaro, prendere le distanze dal sistema, dall’American Dream, dal maledetto Secolo Breve delle guerre mondiali e dell’Atomica. E lo hanno fatto. Ma senza appoggiarsi all’ideologia, alla politica politicante, come in Europa. Dove l’obiettivo finale è abbattere il Palazzo, la rivoluzione, il sole dell’avvenire, etc. No, come Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac, Ken Kesey, l’hippismo aveva messo radici profonde nel buddismo del vicino oriente. E fra Zen e Budda, il freak aveva capito che l’energia dell’essere umano, non essendo illimitata, non andava sprecata in modalità distruttiva ma creativa. Anziché assediare la Casa Bianca, intrupparsi in qualche partito da combattimento, o mettersi in fila per un posto all’IBM, mejo rinchiudersi in un garage e inventarsi con quattro pezzi di metallo un computer, come appunto fece Steve Jobs. Non a caso nessuno degli attuali padroni del mondo, da Bezos a Zuckerberg, da Jobs al duo di Google fino a Bill Gates, ha conseguito una laurea a Stanford o ad Harvard. Non a caso nei social c’è un termine fondamentale per la sottocultura hippie: comunity. Non a caso Facebook segue i vecchi dettami del Peace & Love e ha solo il “mi piace”. La scelta di stare fuori dal sistema è stata fatta con determinazione e spirito pratico, magari senza avere un’idea precisa di quello che sarebbe poi avvenuto. Da una parte. Dall’altra il Sistema, il Potere era ben felice e tranquillo, visto le insurrezioni e il terrorismo che stava sconvolgendo l’Europa. Il Sistema americano era ben felice che le comunità freak e hippie, anziché gettare molotov e ammazzare la gente per strada, si trastullassero inventando videogiochi e computer, senza dar fastidio al manovratore, fuori da ogni contestazione politica. Una miopia che poi hanno pagato in termini pesantissimi: Microsoft si è mangiata l’IBM, Netflix ha oscurato Hollywood, Amazon dove va non fa prigionieri, Spotify ha conquistato l’industria musicale. Avete mai letto dichiarazioni politiche dei vari pionieri del web Gates, Bezos, Jobs? No, perché sprecare energia e retorica contro il vecchio mondo? Più facile creare un Nuovo Mondo. Anzi, un mondo parallelo partendo da Space Invaders che ha portato via il calciobalilla dai bar e che per la prima volta ci ha fatto interagire con uno schermo. E dopo venti anni Jobs presenterà il primo modello di Iphone (9 gennaio 2007, San Francisco). Quello che Jobs e compagni avevano capito è questo: se tu vuoi cambiare la testa di una persona non riuscirai mai a farlo con le parole. Se tu vuoi cambiare una persona gli devi dare in mano uno strumento, un utensile, un oggetto. L’essere umano nel corso della sua millenaria vita non è cambiato per una ideologia, per una religione, per un partito, per il comunismo, per il liberalismo, per il femminismo. L’uomo nel corso del tempo è cambiato perché un giorno ha scoperto il fuoco, il coltello, la ruota, il fucile, il treno a vapore, la lampadina, la pillola anticoncezionale, il telefonino, etc.. Sono gli oggetti che cambiano il mondo, non le ideologie».
Si è molto americana come cosa, tutta l’ideologia della prassi, della realtà…
«Ma la stessa cosa che successe quando arrivò il Rinascimento. Che noi italiani lo identifichiamo con i capolavori di Michelangelo, Leonardo, Caravaggio. Invece il grande passaggio dal Medioevo al Rinascimento è soprattutto merito dell’invenzione dei caratteri mobili di stampa ad opera di un tipografo tedesco di nome Gutenberg. Strumento che permetteva il passaggio della conoscenza dalla élite di papi, principi e monaci alle nuove classi emergenti. Mentre lasciava sul campo, stecchita, buona parte della cultura orale (ai tempi dominatrice indiscussa di un mondo di analfabeti), apriva orizzonti sconfinati al pensiero umano, alla sua libertà e alla sua forza. Di fatto scardinava un privilegio che per secoli aveva inchiodato la diffusione delle idee e delle informazioni al controllo dei potenti di turno. Per far circolare le proprie idee non era più necessario disporre di una rete di monaci amanuensi. Una smagliante accelerazione tecnologica che ha terremotato la postura mentale degli umani, dando vita al Rinascimento, alla modernità, all’Illuminismo. Io credo che quello a cui noi stiamo assistendo con la rivoluzione digitale sia un procedimento tutto sommato simile, anche se in scala enormemente più vasta, al Rinascimento. In tutto il mondo, dal deserto del Sahara sotto le tende dei beduini ai villaggi del Bangladesh o in un’isola sperduta della Polinesia, chiunque con una connessione e un computer può accedere alla biblioteca di Babele, alla biblioteca totale. C’è la totale disponibilità della cultura, dei libri, della lettura a tutti. Questo non può non produrre che un Rinascimento Digitale, una mutazione che noi adesso non possiamo neanche immaginare».
Vista questa consapevolezza della rivoluzione digitale in cui siamo, ti manca lavorare in TV?
«La TV l’ho fatta per tantissimi anni, in Rai. Ho cominciato nel ’76 mettendo le musiche per “Odeon”, poi ho partecipato alla scrittura del varietà di Rai1 ‘’Sotto le Stelle’’, poi “Mister Fantasy” come autore, però in video ci sono andato solamente con Arbore a ‘’Quelli della notte’’, nel 1985, ma sempre come partecipante. Poi due anni di ‘’Domenica in’’ con Boncompagni. Non ho mai avuto nessuna intenzione di fare un programma televisivo, perché implica un lavoro collettivo: non è che vai lì e quello che fai tu è quello che poi alla fine la gente vede, ed è un aspetto che non mi è mai piaciuto. Quindi ho sempre preferito il ruolo di ospite. A un certo punto hanno detto: «Ah è facile stare sul divano a fare il criticone». E allora horealizzato un programma solo per soddisfazione personale, per far vedere cosa può essere la televisione contemporanea. Ed ecco 30 puntate di "Dago in the Sky". La TV di oggi è radiofonica, si chiacchiera da un talk all’altro; io posso seguire la Gruber o Vespa anche lavorando, non c’è quasi mai bisogno di alzare gli occhi. La televisione è immagine in movimento e oggi la fanno Netflix, Amazon Prime…»
Dagospia chiaramente ha uno dei punti di forza nel fare leva sull’ego delle persone. Tu ti aspettavi un’élite italiana, cultural-mondana e intellettuale, così vanitosa come l’hai scoperta in questi vent’anni di Dagospia?
«Hanno ripubblicato da poco un formidabile libro degli anni Ottanta, si intitola "La cultura del narcisismo" ed è stato scritto dal sociologo Christopher Lasch. Se lo riprendi in mano già si intravede, a partire da quel decennio, il protagonismo della gente, insieme all’idea che la politica sarebbe poi diventata solo una questione di leadership. Lo abbiamo visto con Silvio Berlusconi. Prima c’era il partito, poi il segretario, alla fine è emerso il leader. Oggi la politica è dei leader, o emerge il leader oppure il partito non esiste. Quindi la cultura del narcisismo nasce in quegli anni Ottanta, l’epoca dell’edonismo reaganiano, del godimento di breve durata. Stasera è l’ultima sera. Il narcisismo e l’effervescenza culturale degli anni Ottanta nel mondo è stata raccontato in maniera mirabile, mentre in Italia a causa della presenza di politici come Craxi e De Michelis, è stato schiantati dalla sinistra come gli “anni peggiori”. Ma, al di là di Chiasso, Ottanta vuol dire postmoderno nell’architettura, transavanguardia nell’arte, il successo letterario de “Il nome della rosa”, il trionfo del made in Italy nella moda, etc. Gli anni Ottanta sono anche quelli della caduta del muro di Berlino. E la cosa fantastica è che nel 1989 mentre si sbriciola la Cortina di Ferro, un grande informatico britannico come Tim Berners Lee, a Ginevra, inventa la Rete, il web, la e-mail. Un passaggio di consegne fra due epoche E la Rete non ha ideologia. Internet è amato e desiderato in tutto il mondo, non c’è un Paese che detesti internet, anche i regimi più autoritari ne hanno bisogno».
Con Dagospia ti sei fatto più amici o più nemici in questi anni?
«Abbiamo tanti conoscenti, ma pochi amici. Saranno, quando va bene, tre o quattro che senti tutti i giorni, a cui confidi i tuoi problemi, i tuoi disagi, mentre gli altri, i conoscenti, li incontri, ci parli, ci bevi un drink, e basta. L’amicizia è tutta un’altra cosa. Il fatto che poi tanti mi abbiano querelato, o insultato, fa parte delle regole del gioco».
Lo Star System italiano che avete raccontato in questi anni su Dagospia esiste oppure ve lo siete inventato?
«E’ da un pezzo che lo Star System è senza star, sostituite ormai dal narcisismo social che ha prodotto le micro-celebrità. Poi con questa maledetta quarantena è emerso che la celebrità, la popolarità, ha senso solo nelle momenti di benessere collettivo. Quando i tempi sono bui i post e i video su Instagram dei cosiddetti famosi fanno cagare».
VENT’ANNI DI DAGOSPIA. Marco Molendini per Dagospia il 23 maggio 2020. Ricordo bene quando Roberto decise di lanciare Dagospia. Per caso, per ripicca (la rottura con l'Espresso dove aveva una rubrica, titolo Spia, dove osò l'inosabile: avanzare il sospetto che l'avvocato Agnelli portasse sfiga), per intuizione. Vent'anni fa: lancio e brindisi a casa sua, allora a via Condotti. Una scommessa in tempi in cui google era ancora in fasce e i giornali non fiutavano l'aria di crisi che li avrebbe stravolti. L'informazione, era ingessata. Come oggi mediata, legata a logiche di appartenenza, di scuderia, di amicizie e rapporti. Il progetto era chiaro: dire quello che i giornali non dicono. Lo spazio era tanto. All'inizio Dagospia ascoltava e riportava soprattutto il dietro le quinte, i sussurri di salotto di un mondo edonista, animato da un presenzialismo sfrenato (i leggendari morti di fama), raccontava quello che ci si poteva raccontare al telefono ma che nessun giornale avrebbe scritto. Il non detto Dago lo strillava. Ma si occupava più di società che di politica o economia. Era più il Dagospia delle bocche sguaiatamente spalancate, rifatte, esagerate di Cafonal, invenzione folgorante resa visivamente esplicita con l'occhio di una trottola che girava la città come Umberto Pizzi, addobbato di macchine fotografiche come un albero di Natale. Dagospia è diventato come la conosciamo oggi, per naturale evoluzione: risorsa informativa pret a porter, dove la notizia si confonde con la non notizia, la politica con la non politica, il non schierarsi con lo schierarsi, il chiaro con l'oscuro. Caso unico nel panorama mondiale, velocissimo nello stare sul pezzo, nel raccogliere sussurri e grida, informazioni e suggestioni, pronto a bruciare o quotidiani e siti, attento a leggere i giornali, a scegliere le spigolature, riportarle con una titolazione accattivante, spesso molto più dei giornali stessi. Passati al setaccio di Dagospia gli articoli vengono rivitalizzati dall'uso di un linguaggio esplicito, giocando su invenzioni, slogan che sono entrati nel vocabolario quotidiano: come sogno o sondaggio?, l'ovvio dei popoli, Giletti di baccalà eccetera, eccetera. Calembour usati per alleggerire, prendere le distanze, suggerire. Soprattutto per contribuire a dipingere un mondo colori che ne fa di tutti i colori e raccontare una commedia disumana che esercita su Roberto un'attrazione irresistibile. Impudente, famelico, temerario, cinico romano. incapace di resistere a una notizia, esplicito fino al rossore (dei lettori), spregiudicato fino all'esorcismo della volgarità, senza compromessi, strumentalizzato (c'è chi ci prova) e instrumentalizzabile se non dal desiderio smodato di raccontare l'irraccontabile e dannatamente attuale, fatto su misura dell'Italia («in un paese decente non esisterebbe Dagospia», l'autodefinizione), dove si passa agilmente da Efe Bal a Di Maio, a Balotelli. Così attuale da raggiungere dimensioni inimmaginabili per un bollettino fatto in casa, che non ha gerarchie di titoli, se non quello della collocazione, diventato a sua insaputa lettura obbligata per le élite e per il mondo dell'informazione, fino a mettere insieme cinque milioni di visualizzazioni al giorno. Roberto lo conosco da una vita. La prima volta che l'ho visto aveva in testa un cesto di capelli alla sor Pampurio. Lavorava in banca, scriveva di musica, si vestiva come un pazzo. A unirci la passione per la musica, tanti amici in comune, la simpatia naturale, la stessa età. Quando ho lasciato il Messaggero mi è venuto spontaneo inviare a lui il mio racconto del perché lasciavo il giornale dopo tanti anni. Adesso ogni volta che mi viene voglia di scrivere qualcosa gli telefono. Sono sicuro che Roberto capisce al volo e soprattutto che titolerà al meglio: nella mia vita professionale non ho mai avuto nessuno che mi titolasse bene i pezzi come lui, nemmeno io che me li sono titolati per tanti anni.
Pierluigi Panza per fattoadarte.corriere.it il 23 maggio 2020. Il 22 maggio di vent’anni fa nasceva il sito di retroscena “Dagospia”, fondato e curato da Roberto D’Agostino. “Dagospia”, che si definisce “risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena”, è diventato un sito molto popolare, specialmente nell’ambito dell’informazione, ma è qualcosa di più: è il diritto a un desiderio, è la testimonianza di essere oggi presenti a se stessi. L’origine del modo d’essere di sito e fondatore va cercata negli anni Sessanta, anche prima del ‘68. “L’anno cruciale per me è stato il ’64 – raccontò Dagostino in una intervista -; Bandiera Gialla, Arbore, Boncompagni… Andavamo a via Asiago, nella sede Rai. Stavamo seduti lì, in studio, accanto a Lucio Battisti, Loredana Bertè, Renato Zero… E la sera andavamo al Piper”. Poi va cercato nel ’68 e nella passione per la letteratura americana: “Ricordo il nostro incontro con Fernanda Pivano. Ci presentammo io e Paolo Zaccagnini all’Hassler vestiti da Kerouac e Ginsberg de’ noantri, gilet da mercatino dell’usato, jeans stracciati, capelli lunghissimi, proprio on the road”. Quindi nell’Arbasino di “Fratelli d’Italia”, un grande romanzo di gossip…All’inizio, “Dagospia” era un sito di gossip. Ma poiché ogni “merce” deve diventare comunicazione spettacolarizzata, come scrisse Debord, per essere visibile e vendibile progressivamente anche economia, finanza, società, media, cultura e arte entrarono docilmente in scena sul sito facendo di Dagostino un taumaturgo del copyright (Pierfurby Casini, Daniela Santadeché, WalterEgo Veltroni, Marpionne…), l’ideatore del più godibile e intelligente programma di arte contemporanea (“Dago in the Sky”), l’inventore di un genere, “Il cafonal”, ovvero “la cafoneria trasformata nel massimo rito sociale della comunicazione, l’esibizionismo pacchiano che travolge tutti”, una specie di antieorico Proust. E così, nell’età dell’ipercomunicazione social, Dagospia è diventata una testimonianza dell’apertura di senso gadameriana e del pragmatismo di Richard Rorty, un mondo dove non esiste più una specularità tra reale e razionale, tra reale e sua descrizione, ma dove “è vero ciò che è vero nel senso della credenza” (Rorty). Non dandoci più limiti all’interpretazione, Dagospia ha favorito l’affermarsi della creazione del consenso attraverso la costruzione di discorsi aperti che non necessitano di un sistema di verifica. Nell’età della finanziarizzazione i significati che emergono da un sito così sono quelli di uno storytelling che crea quel Capitale di visibilità (quel Potere di visibilità di cui parlava Bourdieu) su fatti e persone che vengono coinvolti e triturati. Si attua quanto descritto da Gianni Vattimo in “La società trasparente”: “Invece che procedere verso l’autotrasparenza, la società della comunicazione generalizzata ha proceduto verso quella della fabulazione del mondo”. Il ricorso allo choc e alla spettacolarizzazione, al cafonal sono gli storytelling messi in atto per amplificare il valore della merce comunicativa: l’individuo spettacolarizzato, ridotto a macchietta, amplifica il suo Capitale di visibilità che diventa Capitale economico. Vanni Codeluppi ha ben descritto nei suoi testi questo aspetto di costante “messa in scena”: è il fenomeno della “vetrinizzazione del mondo” e riguarda sia la comunicazione che le arti contemporanee, che i comportamenti sociali… Nella società dei consumatori, nessuno può diventare soggetto senza prima trasformarsi in merce. La Rivoluzione consumistica ha trasformato i desideri nell’esperienza centrale della vita e la loro sguaiata esibizione in una pratica. Per l’individuo, la celebrità è diventata il corrispettivo della gloria rinascimentale. Una fama che si consuma nel massimo falò delle vanità sotto l’arcobaleno di un non dissimilato nichilismo. Se fama e celebrità non legate al reale successo di un’opera e di breve durata sono tanto ricercate è perché essere conosciuti fa sentire co-essenziali al mondo (tema caro a Sartre) e la riconoscibilità genera economia, denaro. Inoltre, l’essere ri-conosciuti è la condizione psicologica ideale per lo “stare in società”. Oggi le celebrità, ovvero le persone dotate di riconoscibilità, diventano eroi quotidiani perché consegnano tessuti di discussione agli altri. E oggi, le persone riconosciute, le celebrities, sono spendibili dalla finanza come dei bond umani, dei legami sostitutivi capaci di generare capitale.
Luigi Mascheroni per “il Giornale" il 23 maggio 2020. L' insostenibile leggerezza di Dagospia. Tratta tutto, a partire dai contenuti hard - finanza, politica estera, nuove tecnologie, dalla blockchain al Gruppo Blackstone - nel modo più soft possibile: gossip, pissi-pissi, bau bau. Facendo il cane da guardia contro i poteri. Ecco perché è un bestseller. Roberto D' Agostino, professione lookologo, in Quelli della notte - trasmissione cult, diventa popolarissima - trasformò un romanzo pesantissimo, di uno scrittore ceco, pubblicato da Adelphi (un concentrato di élitarismo ai limiti della leggibilità!), nel libro del decennio. Il capolavoro fu di D' Agostino, non di Kundera. E poi, vent' anni fa, s' inventò una pubblicazione web di informazione generalista, un aggregatore - cioè che saccheggia gli articoli più interessanti dei maggiori quotidiani - trasformandolo nel sito giornalistico più specialistico e insieme più popolare che esista. Dagospia non è per tutti, ma tutti gli addetti ai lavori, e molti di più, lo leggono. È la nuova stampa, bellezza. Bello, non è bello. L' impaginazione alla Drudge Report è inguardabile, le foto rubate dal web sono quelle che sono, i fotomontaggi terribili, la titolazione graficamente monocorde, le pubblicità spesso grattano il fondo... Eppure Dagospia resta in cima. E non è soltanto una questione di costi (minimi) e ricavi (dicono ottimi). È che Dagospia è l' unico modello giornalistico innovativo e vincente che si è visto in Italia negli ultimi vent' anni, a parte il Foglio di Ferrara, e per ragioni opposte. I quotidiani generalisti, sia le corazzate sia i vascelli «da battaglia», a partire dal Fatto quotidiano, che spentasi l' onda antiberlusconiana si è arenato sulla battigia, sono tutti in crisi nera, oltre che vecchi. Per tacere del web. Non sarà stato innovativo il Post di Sofri... E Open di Mentana? Sembrava dovesse cambiare il mondo delle news... Chi l' ha visto? La verità è che Dagospia lo vedono tutti. Né di destra né di sinistra, basta che sia contro il Potere (chi altri in Italia?), è la formula vincente di Quelli della notte declinata nel giornalismo: una banda di disperati che ha cambiato la televisione. Allo stesso modo D' Agostino e la sua banda - a molti piace, a molti no, non importa - hanno rivoluzionato l' informazione. Leggerezza, velocità, gossip, riflessione alta e Cafonal basso, retroscena e lati B, artigianalità e un certo genio. Ci vuole del genio a rubare i pezzi a tutte le più grandi testate senza che nessuno dica «beh» (anzi: per i giornalisti essere ripresi da Dagospia è l' unico modo per essere letti da tutti), rititolare ogni cosa «à la D' Agostin», persino a pubblicare un pezzo per l' importanza di ciò che NON dice, e a metterci del proprio. Tra le specialità della casa: le indiscrezioni finanziarie, i retroscena politici, gli scoop nel mondo dei media, il cinema di Marco Giusti, l' arte contemporanea, il battitore libero Mughini... E tutto gratis, purtroppo per noi giornalisti. Dagospia nel 2000 partì con 12mila visite quotidiane in media. Oggi sono 3,5 milioni di pagine consultate al giorno. Il lato popolare dell' informazione di nicchia. A proposito, clic clic: «Auguri».
Massimiliano Panarari per formiche.net il 28 maggio 2020. Dai pettegolezzi della cultura dell’oralità (di cui aveva scritto il gesuita padre Walter Ong, uno dei pionieri delle scienze comunicative) fino alla loro diffusione virale, via web, nel Villaggio globale dei nostri decenni. Il gossip, che rappresenta una “pratica comunicativa” a tutti gli effetti, è di fatto un’”opera aperta” che si nutre delle rielaborazioni e delle integrazioni dei tanti che lo alimentano, e che ha scoperto nel Web e nella comunicazione reticolare dei social network un canale di propagazione che le allegre comari di Windsor e quelle delle goldoniane Baruffe chiozzotte, inchiodate al tam tam e al sussurro all’orecchio altrui, non avrebbero potuto immaginare neppure nel più roseo dei sogni. Per di più, se la società della Rete ha imposto una sorta di dittatura della disintermediazione in ogni campo, al tempo stesso ha paradossalmente innescato un processo di rimediazione in quello dei mass media (e dei rumors): nell’orizzonte tecnologico digitale i vecchi e i nuovi media si contaminano (e “commentano”) reciprocamente e senza sosta. E dal momento che i social network possiedono una natura conversazionale hanno bisogno di narrazioni rapide, coinvolgenti sotto il profilo emotivo, e in grado di attrarre utenti con caratteristiche diverse: di qui il dilagare sfrenato dei rumors nell’epoca liquida e internettiana. Nondimeno c’è, per l’appunto, anche un altro approccio al gossip, come ci dice il ventennale dell’”alta portineria” di Dagospia, divenuto per la sua longevità e la capacità di ritagliarsi uno spazio altamente originale oggetto anche di letteratura accademica e scientifica. Pur avendo documentato in anticipo la riconfigurazione dell’informazione determinata dalla rivoluzione digitale, Dagospia procede e si rivela organizzato in maniera per vari aspetti simile a quella di un old medium. Un quotidiano elettronico con una regia e una direzione che definisce l’agenda e costruisce la narrazione che vuole proporre ai lettori. E, chiaramente, sono quelle di Roberto D’Agostino che, dall’”edonismo reaganiano” inventato a Quelli della notte sino ai giorni attuali, ha inanellato parecchie intuizioni preveggenti, e ha palesato una costante sensibilità da attento rabdomante dello spirito dei (differenti) tempi. Nel Paese dove ha a lungo imperato il “politichese”, e che si è poi postmodernizzato alla velocità della luce, l’idea di una insight view risponde alla richiesta di leggere la politica bypassando quell’ufficialità che nasconderebbe le vere dinamiche, attingendo ai fatti senza alcun intermediario. E a ciò si sposa la generale ricerca di notizie di gossip riguardanti ogni campo della vita pubblica, compresa quella politica, che asseconda la voglia di gettare uno sguardo dentro la stanza dei bottoni dal buco della serratura. Ecco, Dagospia costituisce l’incarnazione internettiana dell’efficacia di ciò che possiamo etichettare come “gossipower”. Una testata online che rappresenta un’esperienza singolare e ineguagliata, e si traduce in un mix di politainment e pettegolezzo per conoscitori e “intenditori” intorno al potere politico e finanziario (sovente suggerito o alimentato dagli stessi beneinformati che lo esercitano e si tramutano in gole profonde degli establishment). Poi, naturalmente, ci sono anche la volgarità, una lingua che a volte si fa da trivio, il sesso e la pornografia. Ed è una certa media logic, una pattuglia di catalizzatori per aumentare il traffico dei contatti di quello che è un riuscitissimo media outlet commerciale e a-ideologico, e che sa essere pluralista e “liberale” (certo, in un’accezione diversa da quella di Croce ed Einaudi) come pochi altri.
Lettera di Alberto Mattioli a Dagospia il 23 maggio 2020. Caro Dago, arrivo cattivo ultimo dopo tanti illustri colleghi a celebrare il genetliaco di Dagospia. Meglio così. Gli anniversari sono generalmente jettatori e poi Dagospia è gggiovane, ha appena vent'anni. Poco da aggiungere a quello che è già stato celebrato. Gli italiani un minimo interessati a quel che succede nel loro disgraziato Paese si dividono in due categorie: quelli che ammettono di leggere Dagospia e quelli che mentono. Non starò a fare l'elogio degli scoop, della titolazione irresistibile, delle invenzioni lessicali, in una parola dello stile, del pettegolezzo che diventa notizia quando spesso poi la notizia è pettegolezzo, di un'alta portineria dove passa tutto, l'alto e il basso, il sublime e il ridicolo, il bello e il brutto, frullati insieme in una commedia umana la cui autentica dimensione, esattamente come nella vita, è il grottesco. Siamo fra Victor Hugo e Almodovar. Una boccata d'ossigeno fra un'informazione sempre più avvitata nel circuito autoreferenziale dell'intervista a Zingaretti che risponde a Renzi che risponde a Delrio o dei retroscena su quel che pensa, diciamo così, Di Maio, e una cultura avvilita nel mainstream del solito noto, del politicamente corretto e dell'obbligatoriamente bello (da qui, fra parentesi, l'attenzione daghesca per i pochi spazi ancora stimolanti e paradossalmente davvero contemporanei, tipo il cinema porno o l'opera lirica). Su tutto, il saggio cinismo antico e italianissimo di chi sa che il mondo cambia ma gli uomini no, e che questo perpetuo agitarsi non produrrà che l'eterno ritorno del sempre uguale. Plus ça change, plus c'est la même chose: e allora tanto vale divertirsi. Chi racconterà l'Italia di questi ultimi vent'anni non potrà fare a meno di andare a smanettare Dagospia, esattamente come gli archeologi vanno a studiare gli affreschi di Pompei, a proposito di porno. A noi aficionados non resta che sperare in altri vent'anni (almeno...).
Massimiliano Parente per “il Giornale” il 23 maggio 2020. Tanti auguri a te, tanti auguri Roberto D' Agostino, ovvero tanti auguri a Dagospia, la sua fantastica creatura, che compie venti anni. L' ultima volta che l' ho incontrato era a un aperitivo a Roma, a Piazza di Pietra, lui aveva uno dei suoi cani, gli ho chiesto «Cos' è, un labrador?» e lui mi fa: «E che te sembra Parente, un chihuahua?», e avrebbe risposto così anche al Presidente della Repubblica, è questo il bello di D' Agostino. Altre volte l'ho visto a casa sua, una casa della madonna, madonna la Madonna e pure Madonna la cantante, i personaggi e i simboli da D' Agostino si mischiano sempre, un sincretismo di sacro e profano, ammesso esistano davvero un sacro e un profano: un crocifisso da una parte, un vibratore dall' altra, tra opere d' arte meravigliose, un Batman di Adrian Tranquilli in terrazza, bibelots di ogni tipo, scritte al neon, non sai dove guardare, un luna park del pensiero che si morde la coda rigirandoti il cervello, come Dagospia del resto. E pensare che partì come impiegato di banca, ve lo immaginate D' Agostino in banca? Io con D' Agostino ci sono cresciuto, lo guardavo e leggevo da quando ero ragazzo, ma non sto a farvi la sua biografia, quella la trovate su Wikipedia: dalla carriera come deejay al giornalismo fino alla televisione, anche lì un precursore, già negli anni Ottanta era capace di ridurre tutto a uno stereotipo culturale, un Arbasino della cultura pop. Me lo ricordo quando mollò uno schiaffo a Vittorio Sgarbi (chi non lo ricorda? fu l' evento fondante del trash televisivo, che però rispetto al trash di oggi era l' Accademia dei Lincei), ma anche quando, al Maurizio Costanzo Show, lasciò senza parole perfino Carmelo Bene che continuava a ripetere di non esistere, a Roberto bastò una domanda fulminante: «Se lei non esiste, perché si tinge i capelli?». È un pesce fantasmagorico che sa muoversi in ogni acqua e all' occorrenza anche uscire e inerpicarsi su vette improbabili, un computer con le gambe, come si definisce lui, che tra una cosa e l' altra organizza serate di musica sfrenata che fanno impazzire i giovani ma non manca mai a un concerto di opera lirica o all' inaugurazione di una mostra d' arte importante. Nelle sue feste ci trovi di tutto, intellettuali, soubrette, personaggi dello spettacolo affermati, emergenti o tramontati, finanzieri, politici di ogni Repubblica, pornostar, al confronto la Factory di Andy Warhol era una roba limitata, da dilettanti. Trump non sarebbe mai andato a un party di Warhol, da D' Agostino ci andrebbe di corsa, magari trovandosi seduto vicino a Sasha Grey. Se dovessi definirlo in qualche modo, lo definirei uno dei più importanti artisti contemporanei, perché D' Agostino ha seguito più o meno consapevolmente (ma dubito sia inconsapevole di qualcosa) il precetto di Marcel Duchamp: fare di se stesso un' opera d' arte. Ma come Duchamp non voleva essere stupido come un pittore, D' Agostino non ha mai voluto essere stupido come un artista, per questo ha un pensiero su tutto senza per questo essere un tuttologo. È un' opera d' arte il corpo di D' Agostino, ricoperto di tatuaggi, il codino, il lungo pizzetto bianco, gli occhiali scuri sfumati, dal nero all' azzurrino, scarpe e giacche tra le più estrose e ricercate, un meraviglioso guru della commistione tra alto e basso. È un' opera d' arte vederlo discutere con politici a Porta a porta, temuto dagli altri ospiti più di qualsiasi giornalista o intellettuale. È un' opera d' arte quando si mette a fare libri, dal rarissimo Libidine, la guida sintetica a una vera degenerazione fisica e morale, con copertina gonfiabile, uscito per Mondadori nel 1987, ai più recenti volumi di Cafonal e Ultra Cafonal con il fotografo Umberto Pizzi che hanno mostrato la dissoluzione fisica e morale del vip. È un' opera d' arte la sua trasmissione su Sky, Dago in the Sky. È un' opera d' arte infine, ovviamente, Dagospia, che riprende duchampianamente, come fossero dei readymade, articoli di giornale che nessuno ha voglia di leggere sui giornali e te li trasforma con i suoi formidabili titoli in stampatello in qualcosa di imperdibile. C' è chi critica Dagospia quando sembra dire cose di destra e chi lo critica quando sembra dire cose di sinistra non avendo capito che non è né di destra né di sinistra, D' Agostino dà spazio a tutto e lo dagostinizza, Dagospia è un tempio della magnificenza e della decadenza del mondo occidentale, e in questo è indecifrabile perché ogni dritto può renderlo un rovescio. C' è chi lo critica perché dentro ci sono troppe tette e culi.Come se la vita non girasse intorno al sesso e il sesso non fosse tutt' uno col potere. Insomma, cento di questi anni a Dagospia e a te, Roberto, sperando che tu nel frattempo non prenda dei chihuahua perché non vorrei sbagliarmi di nuovo.
Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 23 maggio 2020. Dagospia ha compiuto vent' anni (ieri) e lo scrivente è amico personale del suo creatore Roberto D' Agostino, che è simpatico a Vittorio Feltri, è adorato da Melania Rizzoli, in redazione piace a un sacco di gente (oltreché essere utile) e quindi poche balle, questo non è un articolo, è una celebrazione, un peana, una marchetta, un soffietto, in gergo un clamoroso pompino. Mi piace D' Agostino, mi piace sua moglie Anna Federici, mi piace il loro figlio Rocco (con cui ho giocato a pallone, a casa loro, quando era ancora uno gnomo) e quindi girate al largo se invece non gradite il personaggio o il suo sito, o manco sapete che cosa sia: l' articolo non fa per voi. Girate al largo anche se credete che il suo sia meramente «un sito di gossip» (ciò che anche è, beninteso) perché qui non troverete neppure i classici «sì ma però» che s' infilano sempre negli articoli che fingono di guardare le due facce della medaglia: qui la medaglia è una sola, e la affiggiamo volentieri al petto di D' Agostino sperando pure di pungerlo, che tanto lui non fa altro con l' universo mondo. La parentesi personale la apro e chiudo in un secondo. Mi fido di lui, punto. Aggiungo che in genere mi concedo due sole uscite mondane all' anno, peraltro ravvicinate: una è la Prima della Scala a Milano, la seconda è la festicciola di Capodanno di Roberto D' Agostino a Roma. Non mi serve altro, per capire che aria tira nelle quote alte o altissime di questo Paese. Per il resto, per comprendere e indagare le quote medio basse, in strada o al supermercato, ho tutto il resto dell' anno. Non potrei certo capire leggendo i giornali, che non bastano. Figurati dai giornalisti figurati, che vivono nella loro bolla (come altre categorie) e delle altre bolle apprendono da internet, ma quale internet? Quale sito mescola incomparabilmente alto e basso, anzi bassissimo e altissimo? Domanda retorica. Anche perché frattanto tra altissimo e bassissimo, più o meno in tutto il Pianeta, hanno abolito la medietà: non solo la classe cosiddetta media, ma anche quei corpi intermedi che in due decenni hanno avvicinato inesorabilmente e orribilmente (secondo me) potere e popolo, e questo a discapito delle istituzioni, delle competenze, degli esperti, di chi ha studiato e sudato. L' internet popolare, inteso come web, è nato giusto vent' anni fa (come Dagospia) e da allora la percezione, anzi il percepito, ha avuto la meglio sulla realtà: tutto è a disposizione di tutti, e però - per dirla con una mia collega a cui Dagospia non piace per niente - se tutta la conoscenza del mondo è gratis, beh, non frega più niente a nessuno di imparare qualcosa. E allora, per farla breve, la selezione è tutto. E su Dagospia c' è una selezione che mi è preziosissima, non so come farei senza, c' è un sacco di robaccia che non m' interessa e che salto salto (come su ogni giornale, come in tv) ma il cosiddetto - perdonatemi - spirito del tempo aleggia tutto lì, su Dagospia. Non sui costosissimi siti dei giornaloni, non sui quotidiani online che vorrebbero «spiegare bene» le cose agli analfabeti funzionali in un Paese dove il sito di cucina «Giallo Zafferano» ha più utenti del Sole 24 ore. Quindi, da vent' anni, piaccia o no, Dagospia fa questo: selezione, un bollettino di informazioni su qualsiasi cosa, e il suo valore aggiunto incomparabile è dato dalla qualità di chi lo frequenta e legge. Poi, se volete, chiamatelo «aggregatore» di notizie: se non fosse che Dagospia ha anche una vocazione all' informazione indipendente (i dagoreport) e fa un sacco di scoop che spesso i giornaloni riprendono senza citare la fonte. E, a proposito di fonti, Roberto D' Agostino ne ha di incredibili per numero e qualità: uno dei primi fu il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, e via via a scendere. Poi nel tempo il sito è anche cambiato, come tutte le cose: il divorzio tra D' Agostino e il mitico fotografo Umberto Pizzi ha segnato il passaggio dalla qualità professionale all' epoca in cui ogni pirla può scattare con un cellulare, ennesimo esempio di dis-intermediazione. La celebre rubrica «Cafonal» era questo: il vero rito sociale della comunicazione trasformato in travolgente e pacchiano esibizionismo, lo sforzo sovrumano di cercare di comunicare che cosa vorrebbero essere (sembrare) ma che ormai è stato sostituito dall' autoritratto riveduto e corretto, il selfie, i finti e finte «influencer» intesi come proiezione dell' immaginario altrui, speranza di come ci possano percepire. Troppi paroloni. Resta che, nel tempo, è cresciuta l' importanza di Dagospia e quindi anche le querele, i i nemici, i finti snobbatori col demenziale atteggiamento «Dagospia non esiste». Dopodiché, detto questo, l' articolo è finito. Tra altri diec' anni vi racconteremo di quando D' Agostino scoprì che l' economia e la finanza avevano preso il sopravvento sulla politica, quando scoprì l' importanza delle cene romane di potere, la sua malcelata antipatia per le inamidate sciure milanesi, la differenza tra look e bellezza, il superficiale come unico essenziale (copyright Leo Longanesi) e il suo amore per Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Barbara Palombelli, le sue straordinarie qualità di titolista, il «fenomeno Dagospia» diventato oggetto di dibattiti dove non si capisce un cazzo (è essenziale) e la passione per l' arte moderna, la casa museo, i crocefissi, i tatuaggi, il suo «noi siamo la nostra fiction» che un giorno mi folgorò, il perché per fare Dagospia - e spesso anche per leggerlo - occorre essere un po' vecchi. Poi basta. Perché D' Agostino è anche un po' stronzo, se serve. È irascibile. Ed è pure vendicativo, se le segna per anni, ed è forse la sua cosa che mi piace di più. Non ci crederete, ma D' Agostino è un uomo d' onore.
Maurizio Caverzan per “la Verità” il 26 maggio 2020. Vent' anni on the road, auguri Dagospia. Auguri e grazie per il divertimento e il lavoro, lo sberleffo e il servizio, lo spirito sulfureo e l' archivio. Il sito diretto da Roberto D' Agostino compie due decenni di vita e stappa lo champagne di una giovinezza sempre promettente. Un ventennio vissuto pericolosamente, ma con un grande avvenire davanti. Man mano che passano gli anni si fortifica si allarga, irrobustisce la corteccia e ramifica su nuovi territori, lo sport, il food, tutto lo scibile. Vitale e vitalista, collettore senza tabù preclusioni e pregiudizi, se non appena quella sacrosanta diffidenza verso i piedistalli dei moralisti e le cattedre dei pedagoghi. Assemblatore, catalizzatore, girone infernale di vizi e stravizi, devozione e pornosoft, sociologia e tifo ultrà, rock babilonia e diatribe teologiche, Rocco Siffredi e risiko di nomine. Da qualche tempo meno cafonal e più pensiero sottile. Soprattutto, più anticipazioni, quasi sempre confermate «come Dago anticipato». Sulle nomine alla Rai e nelle altre aziende partecipate, sui voti di sfiducia annunciati e non confermati, sulle richieste di prestiti dei colossi industriali controllati all' estero. Anche senza la gola profonda Francesco Cossiga, D' Agostino e la sua redazione (Giorgio Rutelli, Francesco Persili, Federica Macagnone, Riccardo Panzetta, Alessandro Berrettoni) se la cavano alla grande. Notizie e opinioni insieme. Come La versione di Mughini e L' America fatta a Maglie by Maria Giovanna. Gossip meno di un tempo, e sagaci rubriche di servizio (La quarantena dei Giusti: Guida tv per reclusi). Fu Barbara Palombelli a fine anni Novanta a suggerire a D' Agostino in cerca dell' idea la strada del Web. Negli anni il portale è divenuto sismografo del palazzo, cannocchiale di scenari, sonda sociale, vetrina estetica, portineria del villaggio globale. Formule e linguaggi confluiti nello spin off televisivo Dago in the Sky. Se ne sono accorti anche all' estero se, giusto un anno fa, la University Italia Society ha chiamato il mefistofelico fondatore a sdottoreggiare a Oxford, e il prestigioso Politico.eu, la testata online più letta a Washington e a Bruxelles, ha dedicato un servizio a questo «disgraziato sito» definendolo «una lettura obbligata per le élite». Blog ruspante con refusi incorporati e senza le leccature da new web design, se D' Agostino sbaglia qualcosa lo fa per eccesso mai per difetto. Come nel caso dell' estenuante tormentone sul matrimonio di Pamela Prati. Ma in politica niente innamoramenti: né per Matteo Renzi, né per Matteo Salvini e nemmeno per lo statista Giuseppe Conte che solo sei mesi fa qualcuno pronosticava a vele spiegate sul Quirinale. Ne ha viste troppe Dago dalla terrazza dell' attico con vista su Castel sant' Angelo da una parte e su Piazza Navona dall' altra. Laboratorio, atelier, museo d' arte, factory postmoderna: chi ci è stato e ha visto il trionfo del kitsch e il bazar del trash, le bambole gonfiabili vicino ai simboli religiosi, capisce questo calderone dove si rifinisce l' opinione degli opinionisti che lo usano come cassetta degli attrezzi, bussola nel palazzo, concentrato di fluidi e umori, retrobottega del potere, bettola postribolare dove pescare il calembour illuminante. Insomma, Dagospia è insieme outlet delle firme, centro commerciale e mercato per intenditori. Ci puoi trovare l' analisi sofisticata, lo spiffero vaticano, il tweet malandrino. Avanguardia dello spirito italiano: più vicino al cinismo antimoralista di Alberto Sordi e al gusto del paradosso di Alberto Arbasino che al bontonismo ideologizzato di Fabio Fazio e Roberto Saviano. Cento di questi giorni, Dago.
“La Notte dei Gufi”. Dagospia il 24 maggio 2020. Dago è la Trinità. Tutto quello di cui hai bisogno. Presente, passato e futuro. Quello che non sai, che ti nascondono e quello che stai per sapere. Dago è lo show che must go on, e tu, giornale o fotografia, non hai scampo. Dago è un killer, non ti serve più altro. Miss Rassegna Stampa, sgambata ma casta, sexy e stronza. Lo shake del mondo servito fresco. Flusso da bere o da contemplare, o da lasciar così per le zanzare, sempre comunque la luce più moderna che abbia mai visto. Dago è l’essenziale vestito da cazzata, perché Dago è invisibile agli occhi. Ma Dago è soprattutto ciò che ti rende libero. La mia scuola di libertà. Dago è New Mexico, California relax, ha in programma di ricevere, mettiti comodo, tra Agnelli e Kissinger si sta da Dio. Ma Dago è anche puttana, l’unica attitudine che ti può salvare. È turbo notizia. È la leva dell’iperspazio di Chewbecca. Sì, Dago è futuro liquido, mischiato con sputo, arte, luce giusta e proiettili come qualcuna di quelle notizie che avresti fatto meglio a schivare. Dago è oltre, ma al tempo stesso è dentro, è dietro, è trattore. Motore del cosmo feticista internettiano. È il rosso del tacco dodici. Non è lo specchio, lui rompe lo specchio. È il codice, la Sorgente. È il pensiero che avevi e che ti chiedevi, ed è già là online, chissà da quanti minuti. Dago è la scuola fiera della rinascita, di una possibilità. È la prova dell’intimo. È l’immagine mossa, il torbido nitido, la cavalcata sognata. Dago è la malinconia, la vita che va via, al cambio di stagione. È il superfluo che resta intrappolato nel necessario, una piuma sospesa, un tocco di lingua sul frenulo. Dago è arte che esplode, che vive, non capisci ma senti, ti arriva dentro. Dago creampie rock: notizie e tutto ciò che conta.
Giuliano Malatesta per rivistastudio.com il 24 maggio 2020. Solamente due anni fa, quando il sito di gossip (espressione in realtà assai riduttiva) più chiacchierato d’Italia raggiunse i suoi primi diciott’anni, commentò l’avvenuta maturità con poche ma esaurienti parole: «È maggiorenne, può cominciare a fottere». Ora che Dagospia si appresta a raggiungere il traguardo dei primi 20 anni di vita (23 maggio), il suo fondatore, Roberto D’Agostino, per molti pochi più di un pettegolo “lookologo” (definizione risalente ai tempi di Quelli della Notte), per altri un genio del marketing applicato al cafonal, abilissimo a sfruttare italiche debolezze, si lascia inavvertitamente sfuggire note malinconiche: «La triste realtà è che in un paese decente Dagospia non esisterebbe». Sfortunatamente abbiamo il Paese che ci meritiamo e Dagospia sembra godere di ottima salute, come evidenziano i numeri durante il lockdown: ben cinque milioni di pagine visitate e oltre cento news giornaliere sapientemente suddivise tra hard gossip, declinato in tutte le sfumature possibili, e racconti sul sottobosco e le magagne del nostro meraviglioso piccolo universo politico-economico-finanziario, due mondi che, solo apparentemente, non potrebbero essere più diversi. Ma siamo pur sempre a Roma, un luogo dove, aveva sentenziato sconsolato il buon Alberto Arbasino dopo il suo primo soggiorno capitolino, «non esiste mai una via di mezzo immaginabile tra l’abbacchio al cartoccio e il renard argenté». Nella sua casa museo in pieno centro, talmente kitsch da oscurare in quanto a stravaganze anche la celeberrima Jungle room di Elvis, il momento più alto dello stile Presley, D’Agostino rinuncia ai bilanci, «li lasciamo agli altri», ma accetta di ripercorrere la sua avventura da un mondo analogico ad uno digitale, senza però mai distogliere del tutto la visuale da un computer portatile dove, silenzioso, lavora il suo sacro algoritmo, una sorta di cuore pulsante che in tempo reale monitora i movimenti sul sito da parte degli utenti, indicandone le pruderie quotidiane. «Avevo una rubrica sull’Espresso, si chiamava Spia, una specie di zibaldone di cinque pagine di mondanità e cattiverie vare. Dopo una visita di Agnelli a Luna Rossa durante l’America’s Cup ad Aukland ebbi la sventura di scrivere, su suggerimento di quel maledetto toscano di Bertelli, che l’avvocato portava sfiga. Fu un attimo. Alain Elkann, per guadagnare punti, avvertì Agnelli, che a sua volta chiamò Caracciolo, suo cognato, che si precipitò a telefonare all’allora direttore Giulio Anselmi. Di fatto la mia storia con la carta stampata terminò quel giorno». Fu Barbara Palombelli, durante una di quelle cene romane in cui tutti i commensali pensavano di poter risolvere i destini del mondo, a consigliargli di lanciare un sito tutto suo. «Stiamo parlando del 1999, un’era pre-google, c’era molta diffidenza verso il digitale, quasi nessuno ne intuiva il potenziale. Mi ricordo ancora quello che mi disse Paolo Mieli: “internet e’ come il borsello, una moda stagionale”». Non esattamente la più lucida delle previsioni. Dopo qualche piccola disavventura, «andavo in giro con il mio bigliettino di carta e l’unica riposta che che ricevevo erano porte in faccia», il sito fu lanciato nel 2000 con un investimento di dieci milioni di lire e la diffusione di tre notizie al giorno, storie più o meno di costume che erano il risultato delle sue frequentazioni notturne, quando a Roma valeva ancora la pena bazzicare i cosiddetti salotti buoni, su tutti quello di Maria Angiolillo, allora noto come la “Quarta Camera”. Poi, dopo appena una settimana, arrivò senza preavviso il coup de théâtre a sparigliare le carte: «Un’amica mi raccontò che l’allora AD Enel, Franco Tatò, voleva acquisire Telemontecarlo, in realtà per piazzarci la sua compagnia e futura moglie». La notizia uscì con un titolo in perfetto stile Dagospia: “Sonia Raule, dal materasso alla rete”. «Alla fine l’assemblea bocciò quella proposta, con la notizia avevo bruciato l’operazione. Ma capii le potenzialità che un sito del genere poteva avere non per me ma per tutti gli altri». La definitiva simbolica consacrazione arrivò qualche anno più tardi, con la pubblicazione di alcuni report scomodi provenienti dal Vaticano. «Dopo una settimana», ricorda divertito D’Agostino, «il sacerdote che mi forniva le notizie fu trasferito. Era la dimostrazione che perfino la Curia leggeva Dagospia». Nel variegato universo degli informatori che hanno contribuito, quasi sempre per invidia o vendetta, al successo del sito, definito dal suo fondatore come una grande «portineria elettronica che muore ogni sera e rinasce ogni mattina», merita un posto d’onore l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. «Per me è stato molto più di un semplice informatore, ma una guida spirituale. Bussò alla mia porta che era già considerato pazzo, nemmeno l’Ansa gli passava più i comunicati, ma grazie a lui ho compiuto un apprendistato politico, imparai a convivere con un certo tipo di mondo e a conoscere il significato della parola potere, prima di incontrarlo non sapevo neanche chi fosse Enrico Cuccia». Ecco, il potere, parola misteriosa ma sempre evocata, soprattutto quando non ce ne sarebbe bisogno. «Non è quello che vedi, ma quello che sta dietro, il famoso “deep state”. Tutti mi chiedono sempre quali siano le mie fonti, ma io ho sempre preferito avere un rapporto stretto con un capo di Gabinetto piuttosto che con un ministro. La macchina è quella che conta, il pilota lo puoi sempre sostituire». Sarebbe interessante capire come siano cambiati, in questi venti anni, i gusti degli utenti e quindi, di riflesso, anche gli italiani. Ma la risposta di Dago è giustamente tranchant: «E che so’ De Rita?». Resta allora la curiosità di chiedergli un commento sull’attuale politica nostrana e sopratutto sull’iniziale infatuazione per Beppe Grillo, ai tempi molto sbandierata, anche con toni non propriamente leggeri. «Per chi come me ha sulle spalle ideologie giovanili fallimentari, Grillo ha rappresentato una speranza. Ma quella fiducia si è persa. Non basta essere onesto se sei incapace, e purtroppo la classe dirigente pentastellata è totalmente inadeguata, altro che cinque stelle, non ne valgono mezza. Guardo Toninelli o l’Azzolina, il ministro dell’Istruzione che parla di imbuti da riempire, e mi domando in che mani siamo finiti. Oramai sogno Giuliano Amato e rimpiango Fanfani. Quando vedo Di Maio, un ministro degli esteri che non sa neanche l’inglese, mi vengono in mente le chiacchierate sulla politica estera che facevo con Gianni De Michelis. Lo consideravano una specie di avanzo di galera, ma era competente e aveva due palle cosi, oggi davanti a questi inetti sarebbe un gigante».
Giuseppe Fantasia per huffingtonpost.it il 23 maggio 2020. 23 Maggio 2000-23 Maggio 2020. Vent’anni fa, dieci prima di Instagram e quattro di Facebook, Roberto D’Agostino fondava il sito Dagospia dando vita ad una maniera nuova - mai vista e nemmeno immaginata - di cambiare le carte e il gioco senza il pudore e la vergogna, voltando le spalle a etichette come cultura, storia e memoria collettiva, patrimoni ideologici, splendori e miserie. Iniziò così la “cafonalizzazione” delle nostre vite, “una exit strategy” – come la definisce nel suo libro Ultracafonal (Mondadori), “un tema monumentale che tutti, Destra, Sinistra e Centro Storico, riconoscono come inevitabile riflesso incondizionato, come una pulsione primaria da prendere sempre sul serio, magari in quel posto”. Irriverente, sfacciato e rock quanto attendibile, ci ha reso partecipi di un susseguirsi bulimico di scandali politici, segreti dei palazzi, nudità e gossip su celebrità, economia, finanza e di vari scoop, dal #MeToo al Prati-Gate fino alle ultime nomine Rai. Dietro c’è sempre stato lui, l’ex bambino balbuziente del quartiere San Lorenzo, l’ex impiegato alla Cassa di Risparmio di Roma, l’ex deejay di Bandiera Gialla, uno dei protagonisti di ‘Quelli della notte’ con Renzo Arbore, il giornalista esperto di musica e di costume con una parentesi da attore (in “Faccione”), regista (“Mutande Pazze”) e, recentemente, anche conduttore (“Dago in the Sky”). Insomma, colui che oggi è diventato un “not ordinary” 71enne, tatuato in ogni dove con ancora tanta voglia di fare. “Penso e dico sempre che Dagospia muoia ogni sera e rinasca ogni mattina”, ci spiega a telefono dal suo ufficio sul Lungotevere. “Il mondo analogico è una cosa, diverso è quello digitale. In venti anni non ho mai scritto un editoriale e non perché non ne sia capace, ma perché l’opinionista è l’utente. Io propongo le storie: chi mi legge si fa la sua”. “Non sono più il direttore del sito – precisa - perché cinque anni fa ho lasciato il potere a un algoritmo che si chiama Link Pulse. I pezzi vanno su e giù perché c’è lui che mi dice ciò che la gente legge. Un giorno – racconta - ho letto sul Daily Mail che mettere in frigorifero le uova ne rovina la qualità, una cosa che io ho sempre fatto sbagliando, perché secondo gli esperti ci vanno solo se la temperatura ambientale supera i 24 gradi. Misi questa notizia e fu la più cliccata. Ha presente? Le uova in prima. Questo per farle capire che una cazzata del genere era per i lettori superiore ai problemi del Governo, la conferma della regola che il cliente ha sempre ragione”. Dalle tre notizie iniziali a tantissime come i lettori, compresa una Lectio Magistralis a Oxford: venti anni fa si sarebbe mai aspettato tutto questo successo? “Assolutamente no. Quando partì tutta la faccenda, fu una storia alla Nanni Moretti. Ad un certo punto della mia vita – avevo già compiuto 50 anni - ho voluto in qualche modo essere autarchico. Nel campo dell’informazione c’era la possibilità di entrare nell’epoca digitale, di poter fare un blog, un sito senza avere enormi capitali - ci misi dieci milioni di lire - finanziatori o poteri forti alle spalle. Ho approfittato di questo come Moretti che, dopo varie vicissitudini con i produttori, ad un certo punto si comprò la pellicola, la macchina da presa, affittò quello che è oggi il Nuovo Sacher a Trastevere e iniziò a produrre tutto sotto il suo controllo senza avere nessuno sopra di sé. La stessa cosa è capitata a me. Ad un certo punto capii che potevo essere io il padrone di me stesso”.
All’epoca si ritrovò senza lavoro: come andò?
“Durante tutta la mia avventura giornalistica – all’epoca ero dipendente dell’Espresso - ho sempre dovuto mediare, fare un compromesso, accettare le disposizioni del capo servizio, del vice direttore e del direttore stesso. Oggi è molto più difficile entrare nel contesto di quell’anno, il 2000, perché era appena esplosa la bolla di Internet, era l’epoca pre-Google, non c’era un motore di ricerca e si aveva molta sfiducia nei confronti del digitale. La famosa battuta che ripeto sempre è quella di Paolo Mieli che mi disse: “Internet è come il borsello, una moda stagionale”. Fu Barbara Palombelli durante una cena a consigliarmi di aprire un sito e così feci senza saperne nulla e caricando tre notizie al giorno”.
Perché decise di farlo?
“Partii con questa avventura per curare me stesso, per avere di nuovo una sorta di entusiasmo per il mio lavoro. Ho provato a fare questo sito che nella mia intenzione – pensi quanto ero fuori dal futuro – doveva essere solo un sito di costume, che era poi il mio lavoro. Ho sempre fatto quello che gli americani chiamano il social critic, qui in Italia il gossipparo.
Ero anche esperto di musica, ma nel campo dello spettacolo e del costume facevo i miei articoli mettendoci il botox e tutto quello che era nell’aria dello scrivere di quel tempo. Dopo una settimana, la cosa che mi lasciò basito fu il fatto che non ero io che avevo bisogno di Dagospia per riprendermi la mia autostima, ma tanta altra gente che aveva bisogno di un sito per veicolare notizie e indiscrezioni che non avevano ospitalità sui giornali”.
Tutto questo cosa scatenò all’epoca?
“Molte di quelle storie riguardavano un mondo a me ignoto. Il mondo finanziario ed economico, ad esempio. Non sapevo chi fosse Cuccia, anche perché di lui neanche si parlava sui giornali. Così, ho cominciato questo tipo di rapporto che era lontano da mutande e dal botox. Mi è toccato leggere, studiare, ho cominciato a fare un altro lavoro, considerando l’alto e il basso che è poi la mia cifra. Non c’è stato mai il sopra o il sotto, ma tutto, perché la nostra vita è fatta di alti e bassi, di sopra e di sotto. Avevo studiato la nascita del mondo di internet, rimasi colpito che tutti lo amassero come la connessione, perché dava all’utente la possibilità di crearsi un’altra vita parallela, un’opinione, di poter essere lui il protagonista. Il nostro ruolo è stato sempre quello passivo, ma con Internet, con un colpo di mouse, scoprii che potevo andare dove volevo”.
La forza di internet e dei social è stata proprio questa: dare un ruolo di protagonista a coloro che erano sempre stati passivi ma anche agli “imbecilli”, per citare una nota considerazione che fece Umberto Eco.
“Siamo sette miliardi di abitanti sulla terra, forse quattro sono quelli che hanno uno smartphone e la connessione. È chiaro che in questo mare di gente, ci sarà il maleducato, lo stupido, l’intelligente e così via. L’umanità è questa. Non si può pensare che tutti quelli che usino internet dicano cose sensate o siano capaci di controllare o essere controllati. Anche al Dams uno come Eco avrà trovato uno studente più intelligente, l’altro più insopportabile, l’altro drogato eccetera così come gli stessi professori. Tutto il mondo analogico della carta stampata ha avuto un problema fondamentalmente pesante di tutti gli intellettuali”.
Quale è stato?
“Una volta erano loro che davano la linea, ma poi ad un certo punto, la linea se la sono presa gli utenti, il famoso popolo bue, che non è per niente bue, ma c’ha proprio le corna. È un popolo un po’ toro. Gli altri avevano sempre comandato e deciso quello che dovevano ricevere i lettori. Ad un certo punto i lettori sono andati per cazzi loro. Io però non sto qui a fare i Dieci Comandamenti, anche perché non li fa nessuno. Le smentite, le toppate, gli sbagli li fa pure il New York Times. Chi fa il pane fa le briciole. Non creda che il mio sia un mondo in cui si dice: ‘questo è Vangelo’”.
Cos’è per lei la verità?
“È un punto di vista. Ho avuto sempre in mente la storia raccontata in ‘Rashômon’ di Akira Kurosawa: cinque persone che in un bosco assistono a un delitto vengono chiamati dalla polizia per dare la loro versione e ognuna ne darà una diversa dall’altra. Questo per dire che la verità è molto soggettiva. Quando dissi, ad esempio, che il nuovo direttore del Corriere della Sera sarebbe stato Stefano Folli, all’epoca non mi credette nessuno. Poi, invece, avevo ragione io. Sono sempre dell’idea che tutto è soggettivo: abbiamo un’idea che può essere vera o infondata, sono stati scritti tantissimi libri sull’argomento. Ognuno cerca di essere onesto per non fare il gioco di qualcun altro”.
Durante questo lockdown come è andata?
“L’ho vissuto facendo il mio lavoro, Ho lavorato più di prima. abbiamo raddoppiato i visitatori. A livello del traffico è andata bene, male da quello economico”.
Aveva più paura prima durante la chiusura o adesso?
“La paura, cito il titolo di un film di Fassbinder, mangia l’anima. La gente ha paura e questo è un aspetto di sfiducia verso gli altri. Usciamo, andiamo a cena, sì, ma dobbiamo essere in quattro, perché in sei c‘è maggior rischio, vai a capire perché. La gente ha la paura nelle vene”.
Da oggi a Roma ci saranno mille agenti per evitare assembramenti e misure straordinarie in tutta Italia.
“Non è assembramento. È che la gente ha voglia di toccarsi, di far l’amore, ha voglia di dare o ricevere un bacio, è questo il problema, psicologico e affettivo. Tutta questa storia, poi, che fanno sullo spritz e la movida… In realtà, lo sappiamo, è un modo per incontrare gli altri, di sedurre, di rimorchiare, di scopare gli altri. Non ci andiamo per goderci un Campari, ma perché abbiamo bisogno di trovare qualcuno che ecciti la nostra mente”.
In questi giorni lei è uscito?
“Durante la quarantena sono andato fino a piazza Navona, ma era talmente triste e depressivo vedere tutto chiuso e senza gente che sono tornato a casa subito”.
È vittima anche lei di quella che è stata definita la sindrome del guscio?
“So solo che avevo voglia di avere un’overdose di smog, delle macchine e di tutte quelle cose tremende che Greta (Thunberg, ndr) attacca ogni minuto. Rivolevo tutto, tutta la zozzeria di questa città. Persino i gabbiani erano disperati perché non trovavano più la monnezza davanti ai ristoranti e oggi gli stessi topi sono dimagriti. Abbiamo i topi slim. Non sono voluto più uscire e dopo il lavoro mi sono sempre fatto una bella scorpacciata di Netflix, Amazon Prime, Sky e altro con serie a dir poco pazzesche”.
La tv generalista l’ha guardata?
“La televisione, quella generalista, è morta. Con l’arrivo dello streaming abbiamo capito che quello che noi abbiamo visto per tanti anni non c’è più. Oggi ci sono solo i talk, i virologi che si parlano sopra e tante chiacchiere. Avendo invece queste piattaforme con queste serie – da La fantastica signora Maisel a The Last dance su Michael Jordan, autentiche meraviglie, cosa te ne frega di stare lì a sentire la Gruber, Porro e gli altri?
Quelle piattaforme hanno la capacità di aver realizzato e offerto la televisione ‘millefoglie’: se la può godere il ceto più basso, lo sportivo, l’intellettuale… è una capacità che hanno solo loro. Tutto questo mi ha traviato a tal punto che quando lunedì scorso sono andato finalmente a una cena a quattro, mi sono rotto i coglioni e avrei voluto ucciderli tutti. Ho pensato: ma che è sta noia? La sera prima brillavo davanti a queste storie e invece lì dovevo sentirmi solo loro che avevano il problema di dove andare in vacanza. Ma che me ne frega a me?”.
La tv è cambiata, ma anche la comunicazione: in quella politica, ad esempio, si è passati da Gianni Letta a Rocco Casalino: cosa ne pensa?
“Nel 2013 mi ero eccitato quando Grillo diceva che avrebbe aperto il Parlamento come una scatoletta di tonno. L’ha aperta, è vero, peccato però che poi l’abbia riempita con Toninelli, la Azzolina, Bonafede…Ce ne fosse uno che abbia capacità di far politica. Uno non vale uno: se hai bisogno dell’elettricista, non chiami il barista, ma chiami quella persona che sa fare quel lavoro. Prendere la gente per strada perché ha avuto tot followers che l’hanno votata, è stata la cosa più sbagliata”.
Che Paese è l’Italia vista da D’Agostino?
“È un Paese parassita. L’Europa fa schifo, ma l’Italia fa più schifo dell’Europa. Gli italiani sono persone con cui a volte non vorrei avere a che fare, soprattutto nel campo del lavoro. È un Paese che metà lavorava e metà no. Adesso, anche quella metà che lavorava, grazie allo smart working, non fa un cazzo”.
Le piace il premier Conte?
“Su di lui sono bipolare. Vedo in lui il grande, eterno trasformismo dell’italiano che alla fine della guerra durante un week end riuscì a passare dalla camicia nera col fez alla camicia rossa col fazzoletto al collo. È un trasformismo totale, un politico che prima sta abbracciato a Salvini e poi contro di lui. Il trasformismo è tipico di questo Paese. Bravo come avvocato, ma fare politica è un’altra cosa. Casalino ha un potere su di lui, ma è molto più abile avendo alle spalle non solo il Grande Fratello, ma anche la conoscenza della sua generazione e dei social. Alla fine, però, tutte le volpi finiscono in pellicceria”.
E Di Maio?
“Si è dimostrato un grandissimo erede di Achille Lauro. Ha trasformato il numero dei parlamentari - quel 32% che ha ottenuto da gente miope - in un ‘poltronificio’. Ha occupato tutto e in qualsiasi apparato infila i suoi uomini: parenti, amici di Pomigliano d’Arco, ma si può? Alla fine, quel grande progetto di Grillo e Casaleggio cosa è diventato? Un banale e democristiano Aggiungi un Posto a Tavola”.
È vero che vorrebbe Vincenzo De Luca a Palazzo Chigi?
“Avessi la penna di Gay Talese, gli avrei dedicato ‘Onora tuo padre’. L’ho conosciuto e secondo me sbagliano quando dicono in maniera sprezzante che è napoletano. Che vuol dire? Sono pazzo di lui. Pensi che è l’unica persona che mia moglie (Anna Federici, ndr) mi ha chiesto di invitare a cena. Non era mai successo in venti anni”.
Cosa pensa invece di Matteo Salvini?
“È completamente incapace di fare politica. Non ha capito che la politica non è a Palazzo Chigi, non è in Parlamento, ma con l’Unione Europea: era Bruxelles, era Berlino, era Parigi. Ha commesso degli errori assoluti e, odiato dal duo franco-tedesco, è diventato la vera salvezza di Conte che sta lì perché finché c’è un Salvini sovranista che se la fa con Marie Le Pen e Afd (Alternative für Deutschland, ndr), Macron e l’Europa preferiscono Conte. Quest’ultimo deve ringraziare ogni giorno l’arrivo del Coronavirus: senza questa pandemia e senza questo disastro economico-sanitario, Conte starebbe già da un pezzo con Guido Alpa a pettinare le bambole. Il problema di questo Paese è stata la rottamazione. Il risultato è che oggi non abbiamo un Partito Democratico con una leadership. La figura di Zingaretti è un cartonato, è un ectoplasma. Non ha carisma e oggi il leader di un partito deve averlo”.
In tutto questo è tornato anche Berlusconi.
“Vabbè, ma lui appartiene a Giulio Cesare! Con quello che ha fatto Berlusconi ci abbiamo campato tutti, pensi alle copie di giornali che hanno venduto Repubblica e Il Fatto parlando di lui. Son venute fuori intercettazioni, storie, scopate e quant’altro: è stata una cosa unica, uno spettacolo unico al mondo”.
Un anno fa, l’ex terrorista dei Pac Cesare Battisti arrivò a Ciampino e lei disse che il Governo, la citiamo, “aveva messo le bancarelle come a Porta Portese”. Due settimane fa è stata liberata Silvia Romano ed è arrivata anche lei a Ciampino, accolta da decine e decine di telecamere: sono due episodi molto diversi, ma cosa ne pensa di questa spettacolarizzazione?
“La politica deve capire lo spirito del tempo. In un contesto come quello del Coronavirus con tutta la gente preoccupata perché non sa come pagare tasse e affitto, del futuro dei loro figli e della scuola, c’è una situazione tale che accogliere in quella maniera - con le trombette, con Conte, Di Maio e altri - una povera ragazza che sapevano benissimo che era diventata islamica e che sarebbe scesa dall’aereo con il suo abito islamico, è da incapaci. In tutto il mondo, quando liberano questi ostaggi, lo fanno di notte, in aeroporti militari e senza far vedere niente a nessuno. Invece questi hanno messo in scena per la loro vanità da quattro soldi quel Grande Fratello, quel reality show con la regia di Casalino. In questo momento in cui non arrivano i 600 euro, non arriva la Cassa Integrazione e non arriva il prestito, sapere che lo Stato ha dato quattro milioni per liberarla stimola quella violenza che poi purtroppo c’è stata sui social. Una reazione volgare dei social innescata dalla loro idiozia politica. Un politico deve sapere quello che accadrà, non quello che accade”.
L’invettiva in Aula del grillino Riccardo Ricciardi è l’ennesima dimostrazione di questa incompetenza?
“Nasce dalla guerra interna all’interno dei 5Stelle, oramai polverizzati tra Fico che vuole il Pd, Di Battista che vuole la Cina, Di Maio che vuole i posti… il silenzio di Grillo è una spia che questo movimento è finito peggio degli squali della Democrazia Cristiana. Ho nostalgia di De Gasperi, di Fanfani, di Cossiga, di tutta quella gente che sapeva fare politica, invece mi ritrovo in un Paese sull’orlo del baratro con gente che ha messo il suo cervello in freezer, ammesso sempre che ce l’abbia”.
Il presidente Mattarella potrà salvare l’Italia e gli italiani?
“È la persona che in questo momento sta tenendo in piedi il Paese. Senza di lui non oso pensare cosa avrebbe combinato Conte. Il presidente sa benissimo che deve tenere in piedi questo governo sbriciolato e lo sta facendo, perché sa che sarebbe una follia cambiarlo durante un’emergenza sanitaria in corso. Al contrario, diventeremmo degli zimbelli internazionali. Invece lui, ogni giorno chiama Macron e la Merkel per far avere i finanziamenti all’Italia che non si sa poi dove finiranno”.
Le interesserebbe fare politica? Dago che scende in campo. Non ci dica che non lo ha mai pensato.
“No, perché non ho mai fatto qualcosa che non conosco. A scrivere due cartelle ci riesco, a fare politica come la intendo io, no. Voglio mantenere le mie energie per godere della vita, perché come dice quel gran filosofo di Renato Zero, “la vita è un mozzico, la morte è un pizzico, giochiamo a ruzzico”. Se mi metto a fare un altro lavoro, non ne saprei capace”.
Come si definirebbe Roberto D’Agostino visto da Roberto D’Agostino?
“Beh, che non sono cattivo: sono solo stronzo”.
Cos’è per lei l’eccesso?
“È una di quelle cose di cui non ho mai avuto la misura. Sinceramente non capisco cosa sia. È come la parola oscenità: per me non ha significato. Se faccio un titolo con un certo linguaggio, spesso mi dicono che è eccessivo. Ma cos’è eccessivo? Per me è eccessivo vedere una fabbrica che chiude, vedere gente che non riesce a pagare l’affitto. Il linguaggio, invece, deve essere quello che gran parte della stampa non possiede più. Oggi, poi, tra quello della stampa e quello del lettore, c’è nel mezzo una spaccatura enorme”.
Si è mai pentito di qualcosa?
“Avoja! Se tornassi indietro, dovrei controllare lo stato delle persone prima di scriverne perché ho fatto degli errori e delle cazzate senza saperlo. Mi è capitato di raccontare la scappatella di un personaggio tv per poi scoprire che era sposato con una figlia, la cosa finì in tribunale. Troppo casino e alla fine ti chiedi: perché? Quelle due righe le avrei potute buttare via facilmente. Non è lo scoop a fare il sito”.
Di scoop, comunque, ne ha fatti tanti frequentando, tra l’altro, quei salotti romani che non esistono più, da quello di Maria Angiolillo - la cosiddetta Quarta Camera – a quello di Irene Ghergo: che mondo era?
“Un mondo fantastico. Tutti mi dicono che ho avuto un gran culo ad andarci, ma in realtà, quando ci andavo, tornavo a casa sudato, stanchissimo, perché avevi attorno a te ‘attovagliati’ gente che si chiamava Moravia, Scola, Arbasino, Giancarla Rosi, Irene Ghergo… erano delle belve. Non potevi dire ‘che bello il salotto e che divertimento!’. Se ci andavi e non avevi una cultura non sai che fine facevi”.
Tipo?
“Per farle capire, le racconto lo scherzo che si faceva al salotto della Ghergo al nuovo arrivato. Quella iena geniale che era Ettore Scola appena entrava ci vedeva e faceva: “quanta brutta gente, quanta brutta gente”. Quando arrivava uno nuovo, iniziava lo scherzo: Moravia chiedeva ai presenti se avevano letto il nuovo romanzo di un tale di nome Tubino, un altro rispondeva, magari, che era una delle cose più belle lette fino a quel momento, quasi vicino a Proust, e un altro ancora diceva invece che era più vicino a Capote. Fino ad arrivare al nuovo arrivato, a cui veniva chiesto: e tu, caro, che ne pensi? Il malcapitato finiva col parlarne anche lui e ma loro ridevano, e anche forte, perché non esisteva nessun Tubino”.
Chi era il più cattivo?
“Sicuramente Paolo Villaggio. Una volta alla Wertmüller le disse: se non mi inviti al tuo funerale, io mi offendo. Qualcuno gli fece notare che lei aspettava due gemelli. E lui: “Ma no, c’ha le perdite verdi”. Insomma, erano delle bestie. Ti uccidevano. Un’altra sera, sempre da Giancarla Rosi, arrivò Robert Altman che era reduce dal successo di Nashville. Arrivò ubriaco come tutti gli americani e tutti lo prendevano per il culo finché la grande Giancarla fece silenzio e disse: “Questo ubriaco ha fatto Nashville, voi da sobri non avete fatto un cazzo”. Il salotto era una continua battaglia dialettica di qua’ e di là. Ruggero Guarini si rompeva se sbagliavi una parola, litigava spesso con Moravia. Non c’era quell’idea del ‘vado’ a riposare al salotto come oggi. Anche quando faccio una festa da me, mi trovo deluso dalla qualità delle persone. Difficile per uno che era abituato ad avere un rapporto diverso e che quando certa gente se ne andava, dovevo prendere il Moment per riprendermi. Oggi c’è solo gente vuota. A volte gli dico di venire preparati da me, con una storia, un’idea, perché la mia non è una trattoria. Quello che ho vissuto con quella gente lì, non ce l’ho più e mi manca molto”.
Lei comunque è sopravvissuto e attingeva a quelle serate per le sue storie come fa Jep Gambardella ne ‘La grande bellezza’: Paolo Sorrentino si è ispirato a lei per quel personaggio?
“È stato lui a dirmelo. Mi chiamò e mi disse che in un salotto aveva visto il libro Cafonal e che aveva avuto l’idea per un film. Gli dissi che raccontare Roma non è poi così semplice”.
Come definirebbe i romani?
“I romani sono un’etnia che non confonde mai la cronaca con la Storia. Noi qui viviamo nella Storia. L’arte è ovunque: viviamo tra il Colosseo e San Pietro, tra un Bernini, un Canova e un Caravaggio. Tutti i nuovi arrivati appartengono alla cronaca e sappiamo che passeranno. Arriva Obama, poi Boris Johnson, poi Trump, poi altri: chi si ricorda più di quando vennero Mao o Kennedy? Tutti scomparsi. In classifica c’è solo Cristo al primo posto. È l’unico che resiste. Tutti gli altri sono stati triturati dalla Storia. Quando loro arrivano, poi, manco parliamo in inglese. Non ce ne frega un cazzo, questa è la verità”.
La bellezza salva Roma, dicono in molti, tra cui la sua arte. Lei è un grande appassionato e ha una casa e un ufficio che sembrano dei musei.
“Non sono un collezionista, ho tantissime cose, ma sono quelle che mi danno un’emozione, oggetti che hanno personalità. La casa l’ho sempre intesa come un mio biglietto da visita per gli altri. Vedi la mia casa? Quello sono io. Per conoscer bene una persona, devi vedere la sua casa. Se non la vedi, non la conosci”.
A proposito di feste: come festeggerà questi 20 anni nell’epoca del Coronavirus?
“Come vuole che festeggio? Non c’è nessuno, hanno tutti paura. Purtroppo niente. Nessuna bella ammucchiata, nessun ritual” (ride, ndr)
Sarà Dagospia a odiarci allegramente o saremo noi ad odiarci funerei?
“Sarete voi. Io amo tutti. E in proposito vorrei aggiungere che ho un grande desiderio”.
Qual è?
“Vorrei essere la pizza”.
La pizza?
“Sì, perché la amano tutti. Ecco, vorrei essere così”.
Davide Desario e Marco Esposito per leggo.it il 23 maggio 2020. Domani compie vent'anni. Ancora giovane eppure già maturo. Esperto e sfacciato allo stesso tempo. Irriverente e terribilmente sexy. Stiamo parlando di Dagospia, il sito ideato e creato da Roberto D'Agostino. Più di un figlio per lui. Quando gli chiediamo un ricordo su tutti, per un attimo - l'unico di tutta l'intervista - rimane senza parole. In silenzio, troppe storie si materializzano davanti ai suoi occhi. Poi un solo commento: «Mammamia, quante ne ho passate».
Roberto D'Agostino, intanto auguri per questi 20 anni. Siamo quasi coetanei, Leggo ne ha 19. Dunque, partiamo dalla fine: come va la Fase 2?
«L'altra sera sono andato a cena con degli amici. Dopo mezz'ora mi sono chiesto: ma che ci faccio qui? Non potevo rimanere a casa vedermi una bella serie tv?».
Il lockdown è andato meglio?
«Ci siamo massacrati di lavoro, sia il sottoscritto sia la redazione. Abbiamo raddoppiato i clic ma senza guadagnarci. Anzi mi è costato di più. Lo smartworking è una sòla (alla romana) per chi fa il mestiere del giornalista: non finisci mai di lavorare. Per quelli a cui non va di fare niente, invece, lo smartworking è una pacchia. Dice che uno vuole fare l'amorale (scandisce a voce alta L-APOSTROFO-AMORALE) della favola: ma già mezza Italia non fa un cazzo, ora pure quell'altra metà non fa niente».
Qual è stato il tema portante di questo periodo?
«La paura. Tutti hanno paura oggi».
Lei?
«Pure io, certo. Ma ho più paura di percorrere la Pontina in auto per andare a Sabaudia che di prendere il coronavirus».
Il suo sito è il più spregiudicato in Italia sul sesso, e si dice che durante il lockdown ci sia stato il pieno di clic, è vero?
«La vita dell'uomo - anzi diciamo dell'essere umano altrimenti le femministe s'incazzano - ha come centro la vita sessuale. La prigionia in qualche modo ha aumentato la nostra carica erotica, soprattutto a livello di immaginazione. È ritornato in auge il miglior sesso che uno possa fare: la masturbazione. Pensate che dramma se non ci fosse stato internet: immaginate come sarebbero stati tre mesi senza foto o video erotici. Questi hanno fatto da surrogato, da placebo in un periodo di merda».
Eppure pare che ci sia stato un aumento delle separazioni.
«Certo. Perché il virus ha amplificato tutto. Se hai sintonia con il partner magari durante il lockdown hai avuto modo anche di dedicarti a certe pratiche, ma se non hai sintonia si è rotto tutto. Prima la nostra vita era andare a lavoro, poi si tornava, si incontrava il partner a cena. E alla fine si andava a dormire. Ora per tre mesi invece siamo stati sempre in casa, sempre insieme, magari con i pupi che piangevano. Ecco, i bambini sono le vere vittime di questa situazione: chiusi tra quattro mura, senza poter giocare con gli amichetti, e insieme a due estranei. Quando li avevano mai visti i genitori?».
Tanta tv in questi mesi, come è stata?
`«Ha fatto la figura della poveraccia, come al solito. La nostra tv è fatta per i telemorenti. Questi vecchietti che non riescono neanche a spingere i tasti del telecomando».
Addirittura?
«Non è tv, è radio. È fatta senza immagini. Se uno con 10 euro al mese può abbonarsi a Netflix o Amazon Prime e vedersi una serie come The Last Dance, che non racconta solo Michael Jordan ma l'intera società americana, perché dovrebbe vedere il chiacchiericcio dei talk di Vespa e Gruber? Con Internet finalmente il potere ce l'abbiamo noi».
Si spieghi.
«Con l'analogico sei sempre passivo. Nel mondo digitale comandi tu. Puoi guardare quello che vuoi all'ora che vuoi, puoi saltare una scena, con i social può dire la tua».
C'è qualcosa che è emerso in questa tv?
«È arrivato il vero virus: i virologi. Nessuno ci ha capito nulla, ognuno diceva il contrario dell'altro. Aver chiamato su Skype tutti i Burioni del mondo non mi è sembrato un gran modo di fare informazione».
E le dirette Instagram dei vip?
«La cultura della celebrità funziona quando le cose vanno bene, non in tempo di pandemia. Si è salvato Bobo Vieri, che ha fatto dei veri e propri scoop. I suoi compagni si fidavano e gli hanno raccontato cose che non avrebbero mai detto ai giornalisti. Gli altri una noia mortale, i vari Fiorello. Quando sei vip e sono tempi bui, l'unica cosa che devi fare è mettere mano al portafogli e aiutare la gente. Come ha fatto Sean Penn».
Lo hanno fatto anche la Ferragni e Fedez.
«Sì, bravi ad aiutare molto il San Raffaele di Milano. Ma poi dovevano sparire. E, invece, sono tornati a fare il loro business, con i video del pargolo. Eddai...».
Passiamo alla politica. Come ha visto il Presidente Conte?
«Ho un sentimento bipolare nei suoi confronti. Da un parte è perfetto per questo Paese, grazie al suo trasformismo. Lui ben rappresenta quell'italiano che in un fine settimana si è tolto la camicia nera per indossare quella rossa. Per questo merita un 6. Ma poi per il resto merita 3. È uno di quelli che senza il virus sarebbe già sparito».
Luigi Di Maio?
«Lui è il perfetto democristiano. Ha trasformato il M5S in un poltronificio. C'è un suo amico di Pomigliano d'arco ovunque. Voto 2».
Nicola Zingaretti?
«Un ectoplasma, manca di carisma. Il Pd non ha una leadership. A forza di rottamare non c'è rimasto nessuno. Voto? Non pervenuto».
Matteo Salvini?
«Lui ha preso il virus. Sta in rianimazione. Non è flessibile, pensava di continuare a fare La Bestia sui social con il Paese devastato dal virus; e ha perso. Inoltre mettersi a fare la guerra all'Europa che ti sta finanziando in un momento in cui siamo sull'orlo del baratro è un grande errore. Voto: zero».
Giorgia Meloni?
«Fa la madre di famiglia. Non si è messa a sparare contro chiunque, è stata molto più moderata di Salvini. Alle spalle non ha la bestia, ma un bestione, che si chiama Guido Crosetto che di politica capisce. Ma il voto è 5».
E Renzi?
«Ha perso il biglietto della Lotteria un anno fa. In politica conta il carattere, e il suo l'ha portato alla rovina. Non si concilia con il cosiddetto rito romano di andreottiana memoria; qui c'è la torta e si fa una fetta per uno. Lui invece ha fatto il governo con i compagnucci di Firenze. Voto 2».
Non salva nessuno?
«Il Quirinale merita un 8. Se noi oggi abbiamo una situazione stabile e responsabile è merito di Mattarella. Sta tenendo in vita in qualsiasi modo il governo Conte, che non può cadere durante una crisi del genere. In silenzio ha portato avanti i rapporti con Macron e con il suo amico Frank-Walter Steinmeier, presidente della Germania. Ora la priorità è salvarci il sederino».
La Raggi?
«Ce sta ancora? È un'altra salvata dal virus».
Sala?
«Anche lui ha fatto le sue gaffes. La comunicazione politica è una cosa seria. Ma come ti viene in mente di farti lo Spritz».
Zaia?
«Ormai parla come un leader. Ha bisogno di Salvini per il voto delle regionali, ma poi insieme a Giorgetti lo farà fuori».
I tre consigli di Dago per far ripartire il Paese?
«Prima di tutto la semplificazione: bisogna eliminare la burocrazia. Poi la competenza: le persone preparate nei posti giusti. Saranno anche onesti questi nuovi politici, ma poi ti trovi un'Azzolina. Io non voglio più vedere questi che sembra che li prendano per strada. Io ho nostalgia di Fanfani, di De Gasperi... pure di De Michelis».
E la terza?
«Vincenzo De Luca a Palazzo Chigi. Con Arbore abbiamo aperto un suo fan club».
Michela Tamburrino per “la Stampa” il 27 maggio 2020. Dovrebbe essere felice Roberto d'Agostino. Invece non lo è. Perché i vent' anni del sito Dagospia se li era immaginati «stracafonal» , fatti di baci, abbracci, sudori scambiati e tanta allegria. «La paura del Covid ci ha mangiato l' anima. Sognavo il ventennale dell' allegria, invece si rinuncia a vivere. Perciò è un compleanno malinconico, come per tutti». Grazie a quell' invenzione straordinaria che è il web, il portale Dagospia ha spopolato negli anni e ora ha raddoppiato il traffico causa virus. «Perché io non alterno porno, politica e feste come dicono certi. Vent' anni fa sono partito nella pura follia. L' ho fatto per curarmi, colpito come ero da una depressione forte, era il demone dell' età. Avevo 52 anni, ero stanco dei giornali, di proposte che non andavano in porto, di ordini altrui. Serviva il colpo di reni: allora faccio l' autarchico, me la suono e me la canto per arrivare a scoprire che ad avere più bisogno della cura erano gli altri, stupiti di avere finalmente accesso ai fatti. Da giornalista di costume mi sono trovato nell' eterogenesi dei fini». E ricorda: «Nel 2000 non sapevo chi fosse Cuccia, il padrone dell' Italia, perché nessuno ne parlava. Mi hanno aiutato gli amici Palombelli e Proietti, l' arrivo di Cossiga e mi sono trovato a non parlare più di look. Dagospia è una tavola da surf e per inseguire l' onda mi dovevo tenere lontano dall' ideologia forte dell' analogico. Era il digitale a tenermi in sella. Non ho mai scritto un editoriale, io consegno la portata, il mondo di Internet forma il suo giudizio. Avevo in mano la consapevolezza che il linguaggio buono per il giornale fosse sbagliato sul web». Poco dopo quel 22 maggio 2000, di botto, Dago scopre d' essere entrato nelle stanze dei bottoni: «E' successo grazie al Vaticano. Avevo agganciato un sacerdote che mi faceva da report interno. Tempo due settimane e il poverino veniva trasferito chissà dove. Mi dissi, allora il Papa mi legge». Certo il Papa ma anche il gotha del potere non prescinde da questo collettore di indiscrezioni e scoop, pur negandolo. Oggi lui ringrazia la santa pazienza della moglie e gli amici speciali: «Ho avuto la fortuna di incontrare persone di grande intelligenza che mi hanno illuminato. Le cene con Moravia, Arbasino, Scola, da quel campo di battaglia tornavo a casa tutto sudato». E Maria Angiolillo che metteva a tavola economia e politica. «Raccontavo la stanza di compensazione che era il suo salotto. Lei mi detestava perché non ha mai scoperto chi fosse il mio informatore».
Concetto Vecchio per “Rep – la Repubblica” il 27 maggio 2020. "Io all'inizio ero partito con l'idea di fare un blog, una rubrica di costume, tipo quella che facevo per l'Espresso, poi la grande finanza ha cominciato a inondarmi di notizie riservate. Mi usavano, ma sempre notizie erano". Sabato pomeriggio. Dagospia oggi compie 20 anni e il suo padre, Roberto D'Agostino, è a Sabaudia, per una prima fuga al mare. "Sentiamoci tra qualche minuto, che non trovo le chiavi per entrare nella proprietà, mannaggia". Poi richiama lui e racconta come tutto è iniziato: la storia di un sito del costume italiano, che mescola senza sovrastrutture alto e basso, politica e sesso, scoop e pettegolezzi maligni. "Una grande portineria digitale", come l'ha definita il suo autore una volta. Dice: "La svolta è avvenuta quando un giorno Francesco Cossiga mi ha spiegato come funzionava il potere in Italia. Lì ho capito tutto". E com'è il potere? "Non è Conte che sta a palazzo Chigi, il vero potere è nelle mani di chi ce l'ha messo lì. Da allora le mie fonti sono i capi di gabinetto o i capi delle segreterie, mai i ministri: anche perché quelli passano e i burocrati restano. Del resto, diciamolo, se non ci fosse stato il virus, Conte sarebbe già a casa da un bel pezzo". Quando nasce, il 23 maggio 2000, culturalmente sono gli anni del berlusconismo trionfante. Il suo simbolo è una bomba dispettosa, pronta a deflagrare dietro le quinte del proscenio. Denuncia sin dal nome - spia - di giocare a carte scoperte, senza ipocrisie. I temi del primo numero furono lo scontro tra Carlo Rossella e Cristina Parodi, rispettivamente responsabile e conduttrice di "Verissimo". I retroscena della causa di Donatella Dini a "Striscia la notizia". Le polemiche sulla terza media di Ottaviano Del Turco. Il gossip sulle vicende matrimoniali di Umberto Veronesi. Le foto delle nozze di Claudio Martelli. In fondo, non è cambiato molto nel teatro pubblico italiano. Roberto D'Agostino, romano di via dei Volsci, nel quartiere di San Lorenzo, famoso per essere stato il quartier generale dell'Autonomia operaia, a luglio compie 72 anni. Il padre era un saldatore, la mamma bustaia. È ragioniere. Fino a 30 anni ha lavorato in banca, alla Cassa di Risparmio di Roma. Poi ha fatto il disc jockey del programma radiofonico "Bandiera Gialla", l'inviato per la trasmissione tv "Mister Fantasy", prima di iniziare a fare "lo scemo in televisione". È Renzo Arbore a lanciarlo, come lookologo a "Quelli della Notte". E' il 1985, gli anni del riflusso e della Milano da bere. D'Agostino inventa un neologismo, edonismo reaganiano, che definisce un'epoca e fa la sua fortuna. E' irriverente, spiazzante, eccessivo. Tre anni dopo è ospite fisso a "Domenica In", diretta da Gianni Boncompagni. E' il momento della notorietà. Sono anni selvaggi, in cui tutta l'architettura della cultura novecentesca italiana, fatta di ideologie pesanti e morale cattolica, viene smontata pezzo dopo pezzo. La televisione rispecchia questo smontaggio. Lo schiaffo che D'Agostino infligge a Vittorio Sgarbi durante "L'istruttoria" di Giuliano Ferrara nel 1991 segna il passaggio di una linea d'ombra. Poi D'Agostino ha scritto nove libri e diretto persino un film, nel 1992: "Mutande pazze", con Monica Guerritore, Eva Grimaldi, Raoul Bova. Dago, come lo chiamano tutti, esalta il pettegolezzo come bisogno primario. Un taglia e cuci di indiscrezioni, per un pubblico fatto di establishment e media, avido di indiscrezioni e cattiverie su politica, finanza, Vaticano, economia. La guida spirituale, agli inizi, è Francesco Cossiga, "noto spione", come disse D'Agostino. Il suo slogan è sempre stato: "In un Paese serio Dagospia non esisterebbe". E' invece diventa presto un fenomeno da studiare. Un anno fa lo hanno invitato a Oxford, a tenere una lectio magistralis, e i più grandi giornali del mondo, dal New York Times allo Spiegel, vi hanno dedicato lunghi articoli. La sua linea editoriale è presto riassunta: "Il lettore vuole leggere qualcosa di intelligente e un minuto dopo vuol sapere chi ha dormito con chi". Perciò l'Herald Tribune lo ha paragonato ad Andy Warhol e Tom Wolfe. La sua specialità, talvolta discutibile, sono i soprannomi. Monti è Rigor Mortis. Berlusconi Pompetta o Banana. Bertinotti Berti-Nights. Romano Prodi Mortadella. Alemanno Aledanno. "L'Italia in questi venti anni è cambiata in un aspetto decisivo: la finanza e l'economia hanno preso il sopravvento sulla politica. Io all'inizio confesso che non ci capivo nulla. E' stata una scoperta. E del resto siamo un paese dove Cuccia contava più di un premier. E' l'economia che finisce per rovesciare Berlusconi. Quello che non mi sarei mai aspettato che un Conte o una Azzolina avrebbero un giorno governato il Paese, ecco lì ti cadono le braccia". Come lavora Dago? "Per i primi 15 anni la mia redazione era in una stanza, io e pochi collaboratori, ma sembrava un capannone di cinesi. Poi mia moglie, stanca del fatto che quasi ogni giorno si presentassero poliziotti e finanzieri con in mano una querela o una citazione danni, ha minacciato di cacciarmi di casa. Allora me ne sono andato al piano di sotto. Ho una squadra di cinque persone. Prima del Covid avevamo una media di tre milioni di pagine viste al giorno, col lockdown sono schizzate a 5 milioni. Gli utenti unici sono 700mila. Campiamo grazie alla pubblicità. Abbiamo un record: siamo il sito dove in media un utente si sofferma più di tutti, 8 minuti. Il pezzo che ha fatto più audience di sempre è stata una ricerca, ripresa dal Daily Mail, secondo la quale le uova non bisogna metterle in frigo". D'Agostino ride. "Le uova in frigo! Capisce? Ha battuto tutte le aperture su Rocco Siffredi e Valentina Nappi". È diventato ricco? "Magari!. In America lo sarei già da un pezzo. Ho avuto un sacco di guai. Mi hanno querelato tutti, dai Savoia a Cossutta. Querele spesso temerarie, infondate, come spesso avviene col potere italiano. Se non mi aiutava mia moglie, riempiendo ogni sera il frigo, sarei finito sul lastrico". "Non so bene, perché ha avuto successo. Quando partii Paolo Mieli mi mise in guardia: "Internet è come il borsello, una moda stagionale". Ma io leggevo eccitato tutto quello che poteva trovare su questi della Silicon Valley e mi pareva che fosse un mondo che valesse la pena esplorare". Forse Dagospia ha avuto successo perché in un paese cattolico vellica l'animo pecoreccio, per cui la buona borghesia vi ritrova ogni giorno il suo lato oscuro camuffato da sito di notizie? Roberto D'Agostino ha inventato del resto un neologismo, Cafonal, per dare corpo a questo sentimento. "Cafonal non vuol dire cafone. E' invece il buffo e grottesco di un ceto che vuole imitare un modello più alto senza averne le qualità. E' un parterre che conosco benissimo, avendo frequentato per una vita le feste romane. Era l'Italia di Capital, la rivista che celebrava i condottieri. Figure che aspiravano ad essere l'avvocato Agnelli, senza averne il talento, e che correvano da Caraceni a farsi i vestiti sui misura come lui, senza averne la classe". E poi, una volta giunti ai ricevimenti, si avventavano sul buffet senza ritegno, ripresi dall'obiettivo del fotografo Umberto Pizzi. "Quando Paolo Sorrentino girò "La Grande Bellezza", venne prima da me, e mi chiese una consulenza. Gli dissi: "Roma è difficile e complicata, per il semplice fatto che i romani non confondono mai la cronaca con la storia. Roma non è mica Posillipo, comunque poi me lo portai in giro lo stesso, e lui in effetti capì che era una città molto più complessa di come l'aveva immaginata". Senza Dagosex, la sezione porno del sito, i numeri sarebbero gli stessi? "Ora, premesso che il sesso è il motore della vita, aggiungo subito che non è vero che vengono sul sito per questo, se vuoi vedere il porno vai su Youporn, che fa 3 miliardi di pagine". Resta il fatto che Dagospia vive spesso dei pezzi altrui: del copia e incolla delle fatiche dei giornalisti. Le sembra corretto? "Ma io ci metto i titoli più eccitanti e vi do un'interpretazione che fa rivivere il pezzo. Ci sono fior di giornalisti, di cui non faccio i nomi, che chiamano per farsi riprendere da Dago, del resto siamo noi una boutique, non un supermarket". E il faccendiere Luigi Bisignani è il padrone occulto, il deus ex machina di molte trame editoriali? D'Agostino si inalbera. "Ecco un'altra cazzata!". Però spesso, insistiamo, non si capiscono quali sono i confini tra una notizia e gli avvertimenti anonimi spediti al malcapitato di turno. "Ma almeno i politici li avviso dei guai che potrebbero combinare", taglia corto Dago. Insomma, pur con i suoi vizi e i suoi eccessi, Dago è pur sempre una storia di successo, un pezzo del carattere italiano, di cui amplifica vizi, provincialismi e ossessioni. "Ho un solo padrone ed è algoritmo: mi dà in tempo reale il gradimento di ogni pezzo, sul sito e sui social. Internet ha questo di rivoluzionario: il cliente ha sempre ragione, e noi dobbiamo servirlo".
Marco Travaglio attacca e Dagospia lo imbarazza: le foto compromettenti della "festa con fanciulle". Libero Quotidiano l'11 maggio 2020. Marco Travaglio derubrica Dagospia a sito "che alterna porno e politica" e Roberto D'Agostino, piccato, reagisce a modo suo: sbertucciando il direttore del Fatto quotidiano e tirando fuori alcune foto piuttosto "compromettenti" che rischiano di macchiare l'immagine tutta "legge, ordine e manette" di Travaglio, E così sul sito spunta il video di un Travaglio sorcino scatenato al concerto di Renato Zero, ma soprattutto alcune immagini privatissime di un karaoke in compagnia di amici e colleghi (tra questi, Veronica Gentili oggi conduttrice di Stasera Italia Weekend). "Per noi, meschini pornomani - ironizza Dago -, che annaspiamo nelle grevi paludi degli ardori della carne, le immagini del direttore del “Fattoquotidiano” svettano come bussola etica. E le pubblichiamo solo per cercare ispirazione e conforto alla nostra masturbatoria perdizione". E così spazio a un Travaglio "vestito da muezzin ma con vezzose orecchie da Topolino, e chiama alla preghiera torme di fanciulle che pendono dalle sue labbra, lo fa sempre con la levità di un sacerdote pre-cristiano. Orsù, cantiamo! La redenzione ci è cara, anzi karaoke...".
Dagoreport l'11 maggio 2020. Saranno gli effetti devastanti dell’epidemia o le turbolenze psicologiche imposte dalla quarantena ma a Dagospia siamo piombati in una profonda crisi di coscienza, imprevista quanto irreversibile. Questo disgraziato sito che, per anni ha gozzovigliato sulle tentazioni del porno e dell’erotismo hard, offrendo ai suoi lettori contenuti degenerati, zinne debosciate, glutei scorreggioni e partouze di tutti i gender, vede la sua anima online sprofondare tra le fiamme dell’inferno per tutti i peccati che compie quotidianamente in nome del piacere carnale. Un angelo durante il sonno ci ha suggerito che il senso demoniaco del limite era stato oltrepassato, che il Lucifero di Pornohub ci aveva infettato moralmente, che è ora di cambiare. Pentiamoci! Siamo moralmente putrescenti. Zozzoni dell’informazione. L’angelo che ci ha svelato il marcio del nostro lavoro e la sporcizia della nostra anima si chiama Marco Travaglio. Quando il “Fatto” ha sbattuto al muro tutta la nostra maialaggine - “Dagospia, il sito di Roberto D’Agostino che alterna porno e politica…filmati e foto di pornostar…” – l’ora del riscatto è scoccata. Basta! Meno glutei più glutine, meno seni e più senno, meno cotica più etica. E visto che ci avviciniamo al 23 maggio - giorno del ventennale di Dagospia - la purga purificatrice non solo è necessaria ma doverosa. Dobbiamo mondare le carni per tornare alla purezza primigenia e ai valori tradizionali del cattolicesimo praticante. Certo, non è facile. La nostra educazione è miscredente. A differenza di Travaglio, non abbiamo conseguito la maturità classica presso il Liceo salesiano Valsalice di Torino. Per poi proseguire come giornalista in piccole testate di area cattolica, come ‘’Il nostro tempo’’, dove lavorava all'epoca anche Mario-pio Giordano. Un cattolico per nulla amante della degenerazione laica della sinistra che girò i tacchi da “Repubblica” per lavorare (anche) con la rivista di destra “Il Borghese”. Oh, noi laici tapini alle prese con la vulva multiuso di Valentina Nappi e con il testosterone effervescente di Rocco Siffredi! Ci servirebbe un bagno, anzi un bidet, di integrità, per risalire dalla pozzanghera immonda in cui siamo precipitati. E principiamo l’espiazione seguendo la scia edificante della vita del Maestro, a partire dalla santa eucarestia. E per noi, meschini pornomani, che annaspiamo nelle grevi paludi degli ardori della carne, le immagini del direttore del “Fattoquotidiano” svettano come bussola etica. E le pubblichiamo solo per cercare ispirazione e conforto alla nostra masturbatoria perdizione. Anche quando Marcolino dà libero sfogo alla sua voce, vestito da muezzin ma con vezzose orecchie da Topolino, e chiama alla preghiera torme di fanciulle che pendono dalle sue labbra, lo fa sempre con la levità di un sacerdote pre-cristiano. Orsù, cantiamo! La redenzione ci è cara, anzi karaoke...
Ottavio Cappellani per lasicilia.it il 29 maggio 2020. Trovo solo adesso un momento per celebrare (con me stesso, neanche con Roberto) i venti anni di Dagospia: lettura d’obbligo dell’elite italiana, ossia l’elite più scarsa che possa esistere. Ciò non toglie che i miei articoli più belli, liberi, sfrontati, siano stati pubblicati proprio da Dago. Questo perché il pubblico di Dagospia e Roberto D’Agostino sono due entità differenti che si incontrano sull’equivoco. Ma cosa è la nostra epoca se non un equivoco? Quando qualcuno, per denigrare l’unico sito che consulto quotidianamente, sottolinea la presenza di un po’ di soft porno sul sito (la differenza tra hard e soft è che nell’hard si succhia, nel soft si softia), me ne sbalordisco: che differenza c’è tra il potere e il sesso qualcuno dovrà pure spiegarmelo. Banchieri, industriali, politici, guardateli in faccia: come farebbero a scopare senza quel pochino di potere che hanno? La genialità dei Cafonal è lì: uomini indecenti succhiati da donne sformate. L’estetica del Potere passa da un porno scadente, contro il quale Dago – a volte – schiera un porno di qualità (ma non esiste un porno di qualità, l’unico porno di qualità si chiama “amore”). Così il voto in parlamento e un pompino non hanno nessuna differenza di valore: questo ti spiattella Dagospia. Un’alleanza trasversale e una pecorina sono la stessa cosa. Gente sfigata che incontra altra gente sfigata legittimata da un voto popolare sfigato. Ultimamente Roberto sembra avere dato una svolta conservatrice al suo sito: nulla di strano, il suo modello – che ha abbondantemente superato – è Drudge Report. E poi Roberto vive bene, frequenta bene e ognuno a casa sua deve fare quello che cazzo gli pare. Il suo vero e unico interesse è l’arte contemporanea, e il suo sito è una installazione perenne tra le più magnifiche. Segue la vecchia scuola per la quale l’artista è quello che riesce a vendere la “piramide invisibile” e farsi un po’ di soldi alla faccia del parvenu. Crede nell’elite dell’arte come a una uberelite, anche se questo tipo di transavanguardia riscaldata al microonde non sposta il mondo ma al massimo qualche bonifico. Se avete voglia di verità leggete Dagospia con la stessa reverenza che dovete a una messa. Se avete voglia di realtà… scherzavo… nessuno di voi ha voglia di realtà. Auguri Maestro!
Lettera di Fulvio Abbate a Dagospia il 4 giugno 2020. Caro Robertino, il tuo sincero amico Fulvio è stato finora riluttante a partecipare al coro, meglio, al canto generale, per dirla con Neruda, di fosforescenti complimenti per l’impresa adesso ventennale; personalmente, perdona il tono da tributarista con cinto erniario, desideravo evitare che le mie parole di plauso per te e per il tuo equipaggio di straordinari collaboratori assomigliassero a un bocchino con ingoio, visto che siamo a Roma, città che non sempre rinuncia a modi curiali da reame vaticano munito di sedia gestatoria, flabelli innalzati da camerieri segreti e cavallerizzi maggiori, posto che anch’io sento di far parte della famiglia irregolare di Dagospia, come fossi un cugino già palermitano che, periodicamente, come il classico venditore di slip femminili, si presenta sotto il portone cercando di piazzare gli articoli custoditi in una valigia di cartone da corredo, nel mio caso spesso e volentieri invettive, sperando proprio di vederli finire sulle tue pagine. Ogni reticenza è sparita proprio questo pomeriggio, facendo ritorno a casa da un pranzo spietato alla Garbatella, esattamente davanti a un immenso titolo-compendio che fiammeggia proprio in questi minuti sul rullo della tua pagina continua. L’argomento del pezzo riguarda la sperimentazione sugli animali, e segnatamente sulle scimmie, quanto al titolo portentoso, che hai ordito a Mach 2, recita esattamente: “MACACO ER CAZZO”. A incoronare la foto di una povera e inerme creatura appartenente a quel genere di primati cui alcuni infami in camice bianco hanno impiantato un occhio supplementare sulla tempia. Titolo più straordinario non poteva esserci. Sia detto ora in difesa delle creature animali vilipese, umiliate, torturate, ora rispetto al conformismo linguistico e lessicale che solitamente leggiamo nei titoli di giornale ritenuti rispettabili, testate comme il faut. Quel tuo strillo giornalistico sputa in faccia a ogni ipocrisia borghese e piccolo borghese, compreso il conformismo di sinistra che ipocritamente reputa che la parola, il verbo debbano essere poliziescamente depurati da ogni carnalità, ossia ogni significante ritenuto osceno, il nome di una equivoca idea del consenso e delle buone presunte maniere. Non c’è qui bisogno di chiamare in causa Carmelo nostro per puntualizzare loro cosa sia mai davvero la grazia dell’Osceno. Un artista, e ti reputo tale, Robertino mio, non ha timore delle parole, del linguaggio, non può pensa che pronunciare ciò che risulterebbe indicibile sul “Corriere della Sera”, “Repubblica” o Radiotre, non possano essere vincenti su un’altra barricata, come è quella di Dagospia. Come diceva un leggendario manifesto del mondo in rivolta, una risata vi seppellirà! Anzi, già che ci siamo, una sborrata.
Valerio Palmieri per “Chi” il 29 maggio 2020. Dagospia ha cambiato il linguaggio dei giornali, la titolazione, l’uso degli aggettivi, ha unito alto e basso, dal Cafonal alla lectio magistralis a Oxford, dai morti di fama a La grande bellezza, ma soprattutto è stata una fucina di scoop. «Pensavo di fare solo un sito di costume. Ma, dopo una settimana, mi proposero una notizia bomba: lo smascheramento dell’operazione Enel-Telemontecarlo. Il simbolo dell’accordo era l’assunzione di Sonia Raule, moglie di Franco Tatò, come capo dei programmi di Tmc. Titolai: dal materasso alla Rete. L’operazione saltò, ma da quel momento fui sommerso da segnalazioni».
Domanda. Non voleva fare scoop, insomma. Risposta. «Non volevo che fosse il pilastro del mio sito perché lo scoop lo fai adesso ma domani è un altro giorno, Dagospia muore ogni sera e rinasce la mattina. Lo scoop ti dà visibilità, ma quello che per me è importante è che la realtà bisogna interpretarla, riporto ogni giorno i pezzi più interessanti usciti sui giornali, ma poi ci metto il titolo che chiosa, perciò lo scoop è la ciliegina, non è la torta».
D. Ha fonti insospettabili.
R. «Di solito, come ben sa, se vuoi fare il ritratto di un personaggio devi rivolgerti al suo nemico più intimo e fare una tara di quello che ti dice, serve esperienza e occorre verificare con Google, i social, incrociare i dati. E, comunque, puoi sempre sbagliare, nessuno fa i dieci comandamenti. Ricordo un bellissimo film del 1950, Rashomon, dove cinque persone assistono a un delitto in un bosco ma, quando vengono convocate dagli agenti, raccontano cinque storie diverse. La verità è soggettiva, ognuno racconta la propria versione».
D. Ha mai avuto rimorsi?
R. «A volte gli scoop mettono malinconia, anni fa svelai una scappatella di una donna della tv e mi trovai in tribunale perché il marito voleva toglierle la potestà genitoriale, e mi sono pentito perché non accertai se la signora avesse una famiglia».
D. Un anno fa ha svelato il Pratigate.
R. «Ogni decade Pamela Prati si inventata un matrimonio, quando era in astinenza da copertine partiva con la foto dell’abito bianco accanto a qualche disgraziato, ma oggi, con il web, non funziona. La storia di Mark Caltagirone era talmente appoggiata sulla sabbia che emerse un meccanismo messo in piedi dalle due ex agenti della Prati per dare in pasto storie farlocche ai vari giornali e, quando è arrivata la gallina dalle uova d’oro, hanno tentato il colpaccio. Mi è bastato chiamare l’ex fidanzato della Prati per capire che era una sorta di truffa».
D. Ha scoperto la vera identità della scrittrice di successo Elena Ferrante.
R. «Sì, il grande mistero di questa scrittrice furoreggiava in ogni angolo del mondo e scoprii che era Anita Raja, la moglie di Domenico Starnone, che faceva la traduttrice e si inventò questo nom de plume perché magari sarebbe passata inosservata con il suo».
D. Il suo pezzo forte sono le nomine dei direttori della Rai e dei quotidiani.
R. «Quando scrissi che Carlo Verdelli sarebbe diventato direttore di Repubblica il suo predecessore, Mario Calabresi, allora in carica, stava facendo la sua solita riunione di redazione mentre i giornalisti lo guardavano imbarazzati, perché era l’unico a non saperlo. A volte i direttori sono come i mariti, gli ultimo a sapere le cose».
D. Gli scoop da fare?
R. «Il mistero di Giuseppe Conte che sta con la Paladino, ma non ha ancora divorziato dalla moglie, l’amicizia della Boschi con Giulio Berruti».
D. La sua prima fonte fu Francesco Cossiga.
R. «Mi svelò che Banca Intesa, guidata da Giovanni Bazoli, voleva conquistare le Generali, l’operazione saltò solo perché la svelammo prima che si compisse».
D. Non teme le querele?
R. «La prima me la fecero Al Bano e Romina perché avevo scritto con Renzo Arbore un libro, Il peggio di Novella 2000, in cui raccontavo la storia d’Italia attraverso le loro canzoni, ripercorrendo la favola del contadino di Cellino che salva la diva di Hollywood dalla perdizione, solo che feci una delle mie solite battute stronze su Romina e lei ci querelò per diffamazione. Vincemmo, ma Arbore ci rimase male perché era pugliese come Al Bano, da allora ho chiamato la signora “Rovina Power”».
D. Ha ispirato il film premio Oscar La grande bellezza.
R. «Paolo Sorrentino vide il libro Cafonal e mi disse che voleva fare un film su questa Roma cafona e allora lo portai in giro per i salotti, dicendogli: “Ricorda che i romani sembrano disillusi, ma è solo perché conoscono bene la differenza fra la cronaca e l’eternità, sanno che la gloria passa in fretta e che molti che si atteggiano a eroi finiranno nel cestino della storia. Quindi questi personaggi che sembrano pupazzetti, caricature, in realtà conoscono il mondo meglio di chiunque altro”».
Lettera di Davide Riccardo Romano, presidente del Museo della Brigata Ebraica a "Dagospia" il 27 maggio 2020. Caro Dagospia, voglio farti i migliori auguri per i tuoi 20 anni di vita. Nel Talmud quando ci sono discussioni tra rabbini su un tema, la tradizione prevede che anche le interpretazioni delle minoranze sconfitte vengano riportate. Perché tutte le idee devono circolare insieme. Sempre. Un po’ come accade anche alla Corte Suprema statunitense (ma non nella Corte Costituzionale italiana), dove esiste l'istituto della “dissenting opinion”: laddove a fronte di una sentenza a maggioranza, viene riportata anche l’opinione dei giudici di minoranza. Anche per questo a Dagospia - così ricco di opinioni di maggioranza e minoranza insieme - riconosco il grandissimo merito di essere privo di ideologie, a parte l'unica davvero valida e rispettabile: quella della libertà di pensiero e dell’ascolto di tutti. Desidero dunque esprimerti tutta la mia simpatia, e riconoscerti anche un pizzico di saggezza talmudica. Il tuo sito va dunque protetto, difeso e anzi promosso come uno dei migliori antidoti al bigottismo di destra e di sinistra, laico e religioso. Un grandissimo Shalom a tutta la redazione. Davide Riccardo Romano, presidente del Museo della Brigata Ebraica
P.S. qualcuno ti attaccherà sulla volgarità del sito, che è indiscutibile. Ma essa fa parte della storia e della natura umana, come ampiamente riportato anche dalla Bibbia. A me fa molta più paura la volgarità e la violenza del pensiero unico, di cui sei uno dei migliori antidoti.
· Rino Barillari.
Marco Consoli per “il Venerdì di Repubblica” il 14 novembre 2020. Una volta beccai Marcello Mastroianni che ballava ingrifato con Zeudi Araya e gli scattai delle foto. Lui se ne accorse, mi fece chiamare e mi disse: "A Barillà, o tu o io". E io gli risposi: "Marcè, non ti preoccupare". Archiviai gli scatti: era sempre gentile con me e pubblicare quello scatto significava rinunciare alle oltre 50 sue foto che vendevo in un solo anno. Un'altra volta lo beccai che faceva pipì per strada, come era capitato anche a Helmut Berger. Le foto di Berger le pubblicai, per Marcello chiusi un occhio".
Rino Barillari, 75 anni, racconta di uno dei pochi divi risparmiati dal suo impietoso obiettivo, in molti anni trascorsi tra Via Veneto e gli altri luoghi della Dolce Vita al motto di "Dio ti vede, Barillari pure". A ripercorrere la sua carriera è il documentario The King of Paparazzi, in onda il 15 novembre su Sky Arte e in streaming su Now Tv, che prende il titolo dall'appellativo che gli affibiò Federico Fellini. Arrivato a 14 anni a Roma dalla Calabria per cercare un lavoro, Barillari finì a fare foto ai turisti alla Fontana di Trevi. Dopo aver capito che la vera caccia grossa erano le star del cinema, imparò il mestiere dai colleghi più esperti come Tazio Secchiaroli, dividendo il marciapiede con Giacomo Alexis, che lo immortalò in una foto diventata il simbolo della Dolce Vita: "Beccai l'attrice inglese Sonia Romanoff, che si era sposata un vecchietto per restare in Italia, insieme a un altro uomo e lei mi spiaccicò in faccia un gelato. Al momento mi incazzai, ma la mia carriera decollò. E poi un gelato era sempre meglio di un calcio nelle palle".
Chi l'ha menata di brutto?
"Quello che mi ha fatto più male è stato Peter O'Toole: era ubriaco per strada insieme alla sua collega Barbara Steele. Mi diede un cazzotto: quattro punti di sutura all'orecchio. Ero ancora minorenne e mio padre gli fece causa. L'avvocato mi offrì un milione per ritirare la querela, mio padre si prese i soldi e mi diede solo mille lire, con cui però mi feci due settimane di vacanza a Taormina. Una volta finii in una rissa coi bodyguard di Frank Sinatra: era infuriato perché era uscita una mia foto col titolo "Frank lo sfregiato". Mi salvò la pelle Domenico Modugno".
Ha collezionato tante denunce?
"Ci hanno provato in parecchi, ma mi ha sempre salvato l'articolo 21 della Costituzione sulla libertà di stampa. Con la legge sulla privacy bisogna però stare attenti: ad esempio non si possono più fotografare persone all'interno di una casa. Ma quelli che fotografavo io volevano farsi beccare, sennò non andavano in Via Veneto...".
Gli scandali erano organizzati?
"Un buon trenta per cento erano "suggeriti" dai press agent, che magari volevano lanciare un film con l'attore che baciava la protagonista".
Le qualità di un paparazzo?
"Essere paraculo: prima scatti e poi chiedi il permesso. E non diventare mai troppo amico dei divi, perché sennò devi cambiare mestiere, non farai mai uno scoop".
Quindi lei non ha amici tra le star?
"In realtà ne ho tanti, Alessandro Gassmann, Pierfrancesco Favino, Valeria Golino. Ma se becco Valeria che si bacia con Riccardo Scamarcio, che faccio non scatto? Al diavolo l'amicizia".
Servono doti fisiche particolari per fare il suo mestiere?
"Buone gambe. Devi saper scappare quando ce n'è bisogno".
La donna più bella fotografata?
"Ava Gardner. Ma anche Liz Taylor, Ann-Margret e Sophia Loren. Le più simpatiche invece erano Claudia Cardinale, Virna Lisi e Silvana Pampanini, che mi voleva bene e mi ricomprò le macchine quando i gorilla di Barbra Streisand me le fracassarono".
Qual era la giornata tipo del paparazzo in quegli anni?
"Spesso dormivo in ufficio, dopo la notte fuori. Mi alzavo verso le 9, leggevo i giornali locali, e facevo il giro tra Via Margutta, Via Sistina, Piazza del Popolo. Poi mi appostavo davanti agli hotel, perché all'epoca non c'era il telefonino per ricevere le soffiate".
Inseguimenti in moto?
"Tanti. All'epoca se non eri inseguito dai paparazzi non eri nessuno".
Cosa ha pensato quando, anni dopo, diedero la colpa ai suoi colleghi per la morte di Lady Diana?
"Siccome arrivarono sul luogo dell'incidente d'auto fu facile accusarli, anche perché la foto del bacio con Dodi Al Fayed era stata la più pagata al mondo. A me il giorno dopo hanno scritto "assassino" sotto casa. È chiaro che l'hanno voluta ammazzare e noi paparazzi non c'entravamo nulla".
Fin dove si è spinto per uno scoop?
"Ne ho fatte tante. Oggi con la tecnologia è facile, compri un paio di occhiali con fotocamera e scatti dove vuoi. All'epoca avevo un buco nella cravatta e una panciera per nascondere la macchina e non farmi vedere. Bisognava ingegnarsi, perché non potevi tornare a casa senza foto. Quando i giornali scrissero che il regista Franco Indovina voleva adottare un bimbo per la sua compagna Soraya che non poteva avere figli, scattai una foto di mio figlio Roberto, da lontano e un po' sfocata e la diedi a un settimanale, che scrisse "ecco il figlio della principessa".
Chi poteva smentire? Mia suocera riconobbe il nipotino e se la prese a morte: le dissi che al giornale avevano pubblicato quella foto per sbaglio".
Non si è pentito nemmeno quando hanno scritto che lo chef Anthony Bourdain si sarebbe suicidato dopo avere visto le sue foto di Asia Argento avvinghiata a Hugo Clément?
"Quando l'ho saputo ho pianto, una foto non può valere la vita di una persona. Poi per fortuna ho avuto conferma che il motivo non era la pubblicazione di quegli scatti e mi sono rasserenato, ma da quella volta sono più attento perché la vita è sacra".
Molti non sanno che finita la Dolce Vita lei ha fotografato i morti per droga e le vittime del terrorismo durante gli anni di piombo.
"La Dolce Vita è finita col '68. Poi mi sono dedicato alla cronaca nera. È stato un periodo tristissimo: ho dovuto fotografare anche una madre che parlava col cadavere del figlio. E ho visto i miei amici poliziotti ammazzati a Piazza Nicosia. Spesso arrivavo per primo sui luoghi del delitto, fotografavo con discrezione e poi siccome il giornale voleva l'esclusiva, facevo un po' di chiasso in modo che le autorità bloccassero l'accesso ai miei colleghi".
Come è cambiato il suo lavoro con l'arrivo del digitale?
"Ora tutti pensano di poter fare una foto, soprattutto col cellulare: è un fallimento totale. Ma le foto si fanno con la testa, bisogna capire il personaggio, catturare un'espressione, notare un dettaglio come le scarpe bucate. Invece arrivano in 50 e fanno una foto di uno che cammina per strada e mi rovinano uno scoop. E poi con 'sti cavolo di selfie ormai i personaggi hanno paura, non si fanno più vedere in giro. Però almeno adesso ci sono le mascherine".
In che senso?
"Quando i divi le indossano la gente non li riconosce. Ma io sì. Li identifico da come camminano o da un dettaglio. Mi avvicino, chiedo loro di abbassare la mascherina un attimo e clic: il gioco è fatto".
· Selvaggia Lucarelli.
Selvaggia Lucarelli, duro articolo contro Pierluigi Diaco: "Ha un'evidente difficoltà a gestire la rabbia". Libero Quotidiano il 4 luglio 2020. Selvaggia Lucarelli attacca Pierluigi Diaco, La Lucarelli definisce il collega come una persona “autoreferenziale”, “antipatica”, “opportunista”. Ha “un’evidente difficoltà a gestire la rabbia. Non si diventa personaggi a botte di antipatia, a meno che l’antipatia non sia supportata da un grande talento di cui a mio parere in Diaco non esiste una traccia riscontrabile”. La giurata di Ballando con le stelle, nel suo articolo du Tpi, narra anche un retroscena inedito capitato di recente, quando fu ospite da Mara Venier a Domenica In proprio al fianco di Diaco per parlare dell’edizione 2020 del Festival di Sanremo. Nella fattispecie racconta di non essere “riuscita ancora una volta a prendere la parola” per i continui interventi di Diaco. Poi il retroscena: “E non solo io, una nota giornalista se ne andò durante la diretta. Mi ha colpito quella fame di microfono che è tipica di chi per vincere la corsa non esiterebbe a darti una gomitata e a farti finire nel cespuglio”, conclude.
"Pensavo di farla nera, ma...". Scontro tra Selvaggia Lucarelli e la Mussolini.
E con la partecipazione di Alessandra Mussolini al reality di Rai uno, arriva la prima stoccata di Selvaggia Lucarelli, giudice di Ballando con le stelle. Carlo Lanna, Sabato 27/06/2020 su Il Giornale. Posticipato a causa della pandemia da Covid-19, ora prende forma il cast della nuova edizione di "Ballando con le stelle". Il dance show condotto da Milly Carlucci e programmato a settembre su Rai Uno, prevede una nuova stagione di balli, coreografie e, ovviamente, di aspre polemiche. Solo qualche giorno fa è arrivata la notizia della partecipazione allo show di Alessandra Mussolini come aspirante ballerina, e immancabile è stato il commento di Selvaggia Lucarelli. La celebre giornalista, famosa per le sue invettive e per il carattere fuori dagli schemi, sarà di nuovo giudice di Ballando con le stelle e, fin da ora, si intuisce come la nuova stagione dello show regalerà tante, ma proprio tante polemiche. E infatti, da una storia su Instagram che è stata pubblicata da Selvaggia Lucarelli nel corso delle ultime ore, si intuisce fin da subito che tra la giornalista e la giunonica Mussolini non sarà una convivenza facile, anzi tra le due ci saranno molte scintille. O almeno così sembra. "Ho preferito una situazione meno complessa. Sono un’abitudinaria e stare tre mesi chiusa in casa per me sarebbe stata dura – afferma –. Dopo il lockdown e la situazione che abbiamo vissuto non ho intenzione di chiudermi in un’altra casa. Voglio la liberà". Così Alessandra Mussolini ha giustificato il suo "si" a Ballando con le Stelle, rifiutando un contratto con Mediaset e una partecipazione alla prossima edizione del Grande Fratello. Ovviamente, Selvaggia Lucarelli non ha resistito a punzecchiare la ex deputata, facendo presagire cosa succederà in tv. Nessun attacco diretto, sono poche e laconiche le parole che la giornalista ha indirizzato alla Mussolini. "Ho saputo che ci sarà Alessandra tra i ballerini di “Ballando” – esordisce la Lucarelli sui social-. Pensavo di farla nera, ma direi che è già a posto così". Insomma, Selvaggia lancia una sfida alla ex deputata parlamentare che, almeno per il momento, non ha avuto nessuna risposta. Inizia quindi con il piede "giusto" la nuova stagione dello show di Rai Uno. Un’edizione al sangue in cui due pezzi da "novanta" come la Lucarelli e la Mussolini più volte saranno protagonisti di accesi scontri verbali. In attesa quindi di altri dettagli, la produzione e Milly Carlucci, fanno sapere che lo show subirà diversi cambiamenti. Il cuore pulserà allo stesso modo, ma tutto sarà costruito nel rispetto delle norme del distanziamento sociale che, sicuramente, saranno ancora in vigore nel momento in cui il reality tornerà in tv.
Il figlio della Lucarelli contesta Salvini: "Il suo governo omofobo e razzista". Il figlio di Selvaggia Lucarelli, Leon Pappalardo, presente con la madre a Milano al gazebo della Lega. Il giovane contesta il leader, poi identificato dalla polizia. Paola Francioni, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Tensione questa mattina a Milano durante un evento al centro commerciale di Portello, periferia della città. La Lega era presente sul posto con un gazebo dove è arrivato anche Matteo Salvini. Inevitabile la calca di persone accorsa per salutare il leader leghista e, tra questi, non sono mancati i contestatori. Tra loro anche Leon Pappalardo, figlio 15enne di Laerte (figlio di Adriano Pappalardo) e Selvaggia Lucarelli.
La contestazione del figlio della Lucarelli. Matteo Salvini ha improvvisato un comizio davanti alle decine di persone che si sono presentate al gazebo. Al termine del breve intervento, il leader della Lega si è fatto avvicinare da chi chiedeva un selfie o voleva scambiare una parola con lui. È a quel punto che Salvini è stato avvicinato anche da Leon Pappalardo, che ha iniziato a contestare il politico. "Volevo ringraziarla per il suo governo omofobo e razzista", ha detto il giovane quindicenne all'indirizzo di Matteo Salvini, che senza cadere nella provocazione ha risposto con ironia: "Sì, dai, anche un po' fascista". Leon Pappalardo non ha mollato la presa e ha continuato a stuzzicare il leader leghista: "Lei vuole il male delle persone che arrivano da altre Nazioni". Gli uomini della scorta di Matteo Salvini stavano intervenendo per allontanare il ragazzo ma sono stati immediatamente fermati da Salvini, che non è sembrato minimamente turbato da quelle rimostranze. Leon Pappalardo, quindi, ha invocato la libertà di opinione. Il figlio di Selvaggia Lucarelli - con la blogger lì presente che filmava il tutto - ha continuato a parlare mentre Salvini si scattava foto con i suoi sostenitori. Alcuni di questi hanno ignorato il ragazzino mentre altri hanno negato le accuse da lui mosse, senza però dargli troppa importanza.
Il riconoscimento da parte della polizia. Successivamente, vista l'insistenza del ragazzo nel rivolgere epiteti come "razzista" nei confronti di Matteo Salvini, è stato identificato dagli agenti presenti sul posto mentre la madre riprendeva le operazioni. Gli agenti hanno ricordato alla giornalista che non si potrebbero effettuare riprese durante le operazioni di identificazione, il tutto mentre Selvaggia Lucarelli, che pochi giorni prima contestava a Salvini di non indossare la mascherina, la portava senza coprire il naso, come dovrebbe essere d'obbligo fare. Il ragazzo non è apparso intimorito dall'identificazione e mentre ancora i poliziotti controllavano le sue generalità, mentre la madre si lamentava del controllo, lui dichiarava: "Non si può dire la propria opinione senza che succeda qualcosa ormai. Almeno non mi hanno arrestato, miracolo". Successivamente fermato dai giornalisti, il ragazzino ha affermato che non c'è libertà di espressione e che "la destra non ha mai avuto una grande libertà di espressione".
Lucarelli contesta Salvini sulla mascherina, ma lei la indossa nel modo sbagliato. "Poi arriva lui che se ne strafotte di tutto, dei lutti ancora giovani e dei rischi che sono ancora e soprattutto lì, in ogni abbraccio imprudente e non necessario. [...] Irresponsabile e bifolco", scriveva questa mattina la giornalista, nel contestare l'assenza di mascherina in una foto condivisa da Matteo Salvini. La Lucarelli, presente sul posto, si è poi trovata a breve distanza da Matteo Salvini e lo ha incalzato proprio sull'utilizzo della mascherina, mentre lei continuava a tenerla abbassata sul naso.
Le parole di Selvaggia Lucarelli: "Condivido il suo gesto". E mentre il video del figlio diventava virale, la Lucarelli ha spiegato il suo punto di vista all'Adnkronos. "Lui ha fatto quello che si sentiva di fare, non sapevo quello che avrebbe detto, ma lo condivido. Ho cresciuto un ragazzo libero e con il coraggio delle proprie scelte", ha dichiarato. Pare che la giornalista, il suo fidanzato e il giovane fossero lì per caso, dato che il gazebo era stato posizionato nei pressi del bar dove di solito vanno a fare colazione. Autorizzato dalla madre, Leon Pappalardo ha voluto rivendicare la sua azione: "Rifarei quello che ho fatto, non sono pentito e non cerco visibilità. Trovo ridicolo che mi abbiano identificato".
Selvaggia Lucarelli sui comizi di Salvini: “Irresponsabile e bifolco”. Notizie.it il 05/07/2020. Selvaggia Lucarelli ha criticato il leader della Lega Matteo Salvini riguardo al suo mancato rispetto delle norme anti coronavirus. Continuano le critiche a Matteo Salvini riguardo il suo mancato rispetto delle più basilari norme anti coronavirus e questa volta ad aggiungersi al coro dei biasimanti è stata Selvaggia Lucarelli, che sul proprio profilo Facebook ha pubblicato un lungo post in cui definisce “irresponsabile e bifolco” il leader della Lega mentre saluta e abbraccia decine di persone senza indossare la mascherina. Un atteggiamento che era stato già più volte criticato in passato, ad esempio in occasione della manifestazione del centrodestra organizzata lo scorso 2 giugno. Nell’introdurre il suo messaggio, la Lucarelli ci tiene a ricordare come in questi ultimi mesi abbiamo imparato a difenderci l’un l’altro dalla pandemia tramite l’utilizzo delle mascherine e come siano gli anziani coloro che dovrebbero essere maggiormente protetti dalle insidie del coronavirus: “Abbiamo rinunciato ad abbracciare persone a cui vogliamo bene e a salutare con un bacio o una stretta di mano. Sappiamo che dopo l’incubo, tutto questo è un sacrificio e un compromesso accettabile. Abbiamo imparato, forse, a pensare al bene della comunità. Ma non abbiamo dimenticato le rsa, i nostri nonni, gli anziani nelle bare, portati via dall’esercito”. Sacrifici fatti da tutta la popolazione italiana che però vengono resi vani dai comportamenti di pochi, e tra quei pochi secondo la Lucarelli rientra a pieno titolo anche Matteo Salvini, che pur di mostrarsi vicino al popolo è disposto a fare bagni di folla privo di qualsivoglia dispositivo di protezione individuale: “Poi arriva lui che se ne strafotte di tutto, dei lutti ancora giovani e dei rischi che sono ancora e soprattutto lì, in ogni abbraccio imprudente e non necessario. Il tutto a favore di telecamera, perché ovviamente sta lanciando un messaggio di anarchia imbecille”.
La contestazione del figlio della Lucarelli. Nella giornata del 5 luglio è diventato virale sui social in video in cui si può vedere il figlio adolescente di Selvaggia Lucarelli contestare il segretario della Lega a margine di un comizio a Milano. Avvicinatosi a Salvini, il ragazzo si rivolge all’ex ministro accusandolo di essere un razzista nei confronti degli stranieri presenti in Italia e venendo per questo allontanato per poi essere sottoposto a un controllo da parte delle forze dell’ordine. A riprendere la scena era presente la stessa Selvaggia Lucarelli, che ha poi chiesto agli agenti perché stessero chiedendo i documenti a un ragazzino di 15 anni. Successivamente, il ragazzo ha spiegato quello che voleva dire a dei giornalisti li presenti: “Ho detto che secondo me il suo governo è razzista, che è una persona omofoba, senza alcun tipo di insulto e di attacco personale. Ho detto la mia opinione, ho detto che purtroppo molte persone della comunità di colore non lo sopportano per il suo comportamento razzista, hanno provato a cacciarmi e ora mi ha fermato la Polizia”. […] “La destra non ha mai avuto una grande libertà di espressione, ma adesso andare li ed essere fermato dalla Polizia mi sembra ridicolo. Si lamenta tanto della dittatura e poi si fanno queste cose”.
La replica della giornalista. Alcune ore dopo l’episodio è la stessa Lucarelli a raccontarne la dinamica, prima in un breve commento sotto il suo ultimo post sul suo profilo: “Dopo che ho scritto questo post sono scesa al bar sotto casa e c’era lui a fare un comizio. Senza mascherina. L’universo mi sta parlando”, e in seguito anche con un articolo in cui spiega cosa è accaduto in quei fatidici momenti: “Stamattina facevamo colazione al bar sotto casa e c’era un gazebo della Lega a 50 metri da noi. Abbiamo sentito un applauso e capito che era arrivato Salvini, senza che nessuno lo avesse annunciato. […] Mio figlio ha espresso il suo desiderio di dirgli quello che pensa, quello di cui parla in casa, quello di cui discute con i suoi amici della scuola, alcuni dei quali vicini a famosi gruppi studenteschi di sinistra”. La giornalista pone poi l’accento sul trattamento riservato al figlio da parte delle forze dell’ordine li presenti, che lo hanno identificato subito dopo che questi aveva posto una domanda al segretario della Lega: “È stata una scena pietosa. Fermare un ragazzino di 15 anni per chiedergli i documenti dopo che civilmente aveva espresso le sue idee, costringendolo per giunta a dire nome e cognome in pubblico, visto che i documenti li aveva lasciati a casa, è un pessimo segnale”. Nel finale la Lucarelli lancia un’ultima stoccata alla Lega, rea di aver pubblicato una foto del figlio in un post sulla propria pagine Facebook: “Ringrazio la pagina ufficiale Lega-Salvini premier per aver pubblicato la foto di Leon, 15 anni, con la mascherina. Chissà che Salvini, vedendo che riesce a farlo pure un adolescente, non impari a mettersela”.
Il Giornale e il figlio di Selvaggia Lucarelli “piccolo molestatore”. Mario Neri, Mario Neri è uno pseudonimo, il 6 luglio 2020 su Next Quotidiano. Oggi Giannino della Frattina sul Giornale racconta la storia dello scontro tra il figlio di Selvaggia Lucarelli e Matteo Salvini a Milano con un taglio definendo il 15enne Leon un “piccolo molestatore”. Perché forse più che noi, dovrebbe forse essere Selvaggia Lucarelli a dire al figlio che non si va a una conferenza stampa dove Salvini sta rispondendo ai giornalisti per urlargli un po’ sguaiatamente «volevo ringraziarla per il suo governo molto omofobo e razzista». Giustificandolo con il fatto che «la comunità di colore ce l’ha tutta con lei, perché è un razzista». Provocando il garbato sorriso di Salvini, ma ovviamente la reazione stizzita dei suoi sostenitori trattenuti a stento. E quella della polizia che lo ha identificato, creandone il perfetto martire del politicamente corretto violentato nelle sue libertà dall’attitudine tirannica della destra. Un teatrino a favore di telecamere che si può sicuramente concedere al figlio, non alla madre che avrebbe il compito di spiegargli che apparire non è tutto. Che la visibilità di un attimo non vale la rispettabilità di un comportamento. Perché più forte è un’idea, meno si ha bisogno di urlarla. E ragionare è più interessante di provocare. Anche a 15 anni, figuriamoci a 46. Certo, in tema di “uso politico dei ragazzini” vale appena la pena di ricordare che il 12 aprile scorso un certo Salvini, di certo nemmeno parente del Salvini di cui parla oggi il Giornale, è riuscito nell’impresa di infilare la figlia Mirta nella polemica con Giuseppe Conte sulle bufale sul MES dette da lui e Giorgia Meloni riguardo le presunte (e mai accadute) attivazioni del Meccanismo Europeo di Stabilità di cui i due attraverso le loro pagine facebook lo hanno accusato. Già in un’altra occasione la bambina, secondo i suoi racconti, gli aveva chiesto perché quel cattivone di Conte ce l’aveva con lui. Segno che la ragazzina è sveglia e intelligente, ma soprattutto che ha un’attenzione nei confronti dei fatti politici che spesso nel papà latita. il 25 maggio, il giorno prima delle europee, Salvini ha pubblicato una foto del saggio di danza della sua principessa. Il giorno successivo una foto di Salvini con la figlia Mirta (questa volta fotografata di fronte) e la loro amica mucca. Da quel momento i figli di Salvini hanno cominciato ad entrare sempre di più nel mondo social del ministro. Un mondo fatto di insulti a ladri, immigrati, gogna nei confronti di ragazzine (magari coetanee del figlio più grande del Capitano). A queste ultime Salvini non ha riservato nemmeno la cortesia di una foto di spalle o censurata, anzi proprio come fa un suo parlamentare, le sbatte sulla sua pagina Facebook senza troppi complimenti. Di tutto questo il Giornale che oggi bacchetta Lucarelli per il figlio non si è mai accorto. Cose che capitano. E ora ci sarebbe anche da parlare dell’uso (non politico) delle minorenni, ricordando qualche caso in cui è stato coinvolto (e poi assolto, ma la cronaca dei fatti rimane) il fratello dell’editore. Ma forse è meglio non infierire.
Lo scontro tra il figlio di Selvaggia Lucarelli e Matteo Salvini a Milano (e gli insulti sulla pagina della Lega). Il ragazzo è stato identificato da un agente della polizia. Tutto è successo non appena finito il comizio improvvisato del Capitano in un centro commerciale. Poi gli insulti sulla pagina della Lega. Next Quotidiano il 5 luglio 2020. In questo video di Localteam possiamo vedere lo scontro tra il figlio di Selvaggia Lucarelli Leon, 15 anni, e il leader della Lega, Matteo Salvini, al gazebo del partito allestito questa mattina davanti a un centro commerciale di Milano. Il ragazzo è stato identificato da un agente della polizia. Tutto è successo non appena finito il comizio improvvisato del politico a cui il ragazzo, 15 anni, aveva assistito insieme alla madre, giornalista e scrittrice, che aveva domandato a Salvini perché in mezzo a tutte quelle persone non indossasse la mascherina ed era stata poi contestata dai sostenitori di Salvini. Mentre il politico ha iniziato a farsi i selfie con i supporter, il giovane lo ha incalzato: “Volevo ringraziarla per il suo governo omofobo e razzista”. “Si, dai, anche un po’ fascista”, gli ha risposto l’ex vicepremier. “Lei vuole il male delle persone che arrivano da altre nazioni”, ha aggiunto, di rimando. Dopo lo scambio di battute con Salvini, il ragazzo è tornato dalla madre ed è stato raggiunto dalla polizia, a cui ha fornito le sue generalità. “Mi hanno fermato così, senza alcun tipo di insulto personale, attacco o parolaccia, ho detto la mia opinione, ho detto che molte persone della comunità di colore non lo sopportano per il suo comportamento razzista, mi hanno provato a cacciare e adesso mi ha fermato la polizia. Non c’è libertà di espressione, sono stato fermato prima dalle guardie del corpo e poi dalla polizia, è una cosa ridicola”, ha detto poi il giovane ai giornalisti che gli hanno chiesto cosa fosse successo. “Lui ha fatto quello che si sentiva di fare, non sapevo quello che avrebbe detto, ma lo condivido. Ho cresciuto un ragazzo libero e con il coraggio delle proprie scelte”, ha spiegato all’Adnkronos Selvaggia Lucarelli, contattata a proposito dell’episodio che ha visto protagonista suo figlio questa mattina, a un gazebo della Lega. Il 15enne è stato identificato dalla polizia dopo uno scambio di battute con il leader del partito, Matteo Salvini. La giornalista e scrittrice era lì per caso e ha assistito al breve comizio perché il centro commerciale si trova sotto casa sua. “Ci tengo a precisare che non siamo andati apposta lì per Salvini. Il gazebo si trovava a due passi da casa nostra, di fronte al bar dove andiamo di solito a fare colazione”. Autorizzato dalla madre, il ragazzo ha precisato di non essere pentito di quello che ha fatto. “Rifarei quello che ho fatto, non sono pentito e non cerco visibilità. Trovo ridicolo che mi abbiano identificato”, ha concluso. Lucarelli è stata sentita anche dall’agenzia di stampa ANSA: “Mio figlio ha detto la sua, non c’è nulla di lesivo della sua reputazione nel fare il suo nome, anzi… Certo sono stupita che un ragazzino di 15 anni che esprime la sua opinione in modo civile e pacifico, e nei limiti del confronto democratico, venga identificato da due poliziotti in borghese come un delinquente”. “Non mi sembra che ci sia stato un confronto aggressivo, e neanche un diverbio, tanto che Salvini non ha neppure quasi risposto. Se decidi di scendere in piazza e di confrontarti con i cittadini lo fai con tutti, non puoi scremare”, ha detto Lucarelli. “Tengo a sottolineare – ha poi specificato la giornalista – che noi non avevamo nessuna intenzione di andare a cercare Matteo Salvini ma ci trovavamo lì per caso, perché il gazebo era allestito sotto casa nostra”. E ha aggiunto: “Penso che Salvini sia un razzista e un omofobo ma io non avevo idea di cosa mio figlio avrebbe detto a Salvini, pur condividendolo. Mio figlio è un appassionato di politica, a scuola da circa un anno è vicino a dei gruppi di orientamento di sinistra e ha espresso quello che pensava, nei termini di un quindicenne che magari dice ‘governo’ anziché ‘partito’. Inoltre conosce le dinamiche del web, si aspetta quello che ci si può aspettare dai leghisti: sicuramente ci saranno migliaia di insulti però non credo che intenda fare vittimismo. Se ha deciso di agire così è perché vola più in alto di questo”. Anche la pagina della Lega ha messo il video: in poco tempo i commenti si sono riempiti di insulti nei confronti del ragazzo.
Salvini attacca Lucarelli: "Ha dato in pasto il figlio alla stampa". Pubblicato lunedì, 06 luglio 2020 da La Repubblica.it. Salvini-Lucarelli atto secondo. All'indomani del video - pubblicato anche sui social network della Lega - in cui il figlio della giornalista attaccava l'ex ministro dell'Interno con relativa identificazione da parte della polizia e dell'intervento della madre in risposta anche anche agli insulti piovuti sul ragazzo, Matteo Salvini torna sull'episodio attaccandola: "Io non avevo riconosciuto nè lui nè lei, onestamente, quindi non mi avevano proprio sfiorato. Anzi, ricordo che ho rimproverato il ragazzino di avermi dato dell'omofobo e del razzista dimenticando di darmi del fascista... Detto questo un sorriso, una pacca sulla spalla e tanti saluti. Se la mamma ritiene di sfruttare un bimbo di quindici anni per battaglia politica io non commento. Da giornalista rispetto la Carta di Treviso che tutela i minori. E' stata lei a buttare in pasto ai giornali suo figlio che io non ho mai visto nella mia vita. Per me poteva essere un ragazzo qualsiasi". Salvini ha parlato in conferenza stampa a Milano, rispondendo così a una domanda sulla contestazione di ieri all'esterno del centro commerciale Portello del capoluogo lombardo, da parte di Leon Pappalardo. A Salvini è anche stato chiesto se lui avrebbe portato suo figlio a quella manifestazione: "Mio figlio - è stata la risposta - è geloso della sua privacy e sono contento così. Per me l'episodio non esisteva neanche, l'ha montato la signora. Le mando un bacione...". E sull'identificazione da parte della polizia "chiedete al ministro dell'Interno. Non so se è in atto una vile repressione della libertà di pensiero e di parola da parte dell'attuale ministro dell'Interno. Chiedete a lei visto che non può più essere colpa di Salvini...".
Matteo Salvini contro Selvaggia Lucarelli: "Ha gettato il figlio in pasto ai giornali. Identificazione? Chiedete a Lamorgese". Libero Quotidiano il 06 luglio 2020. Continua a tenere banco il caso di Selvaggia Lucarelli e del figlio 15enne. Entrambi erano presenti al gazebo milanese della Lega, dove Matteo Salvini stava conversando e scattando foto con i suoi sostenitori. Ad un certo punto, però, il figlio della giornalista si è avvicinato e lo ha provocato così: “Volevo ringraziarla per il suo governo omofobo e razzista”. “Sì dai, anche un po’ fascista”, ha risposto l’ex ministro che non si è affatto scomposto per l’episodio, abituato a contestazioni ben peggiori. Sui social la discussione si è però accesa per il fatto che il 15enne è stato identificato dalla polizia soltanto per aver contestato Salvini: “Non c’entro nulla con questo - ha dichiarato il leader leghista - chiedete al ministro dell’Interno, visto che non può più essere colpa mia, fortunatamente. Non so se sia in atto una vile repressione della libertà di pensiero e di parola da parte dell’attuale ministro dell’Interno”. Poi Salvini è tornato sull’episodio in sé: “Io non avevo riconosciuto né lui né lei. Se la mamma ritiene di sfruttare un bimbo di 15 anni per battaglia politica, io non commento. È stata lei a buttare in pasto ai giornali suo figlio. Non commento le scelte degli altri genitori, mio figlio è geloso della sua privacy e sono contento così. Per me l’episodio non esisteva neanche, l’ha montato la signora e le mando un bacione”.
Selvaggia Lucarelli deferita dall'Ordine dei giornalisti: il figlio da Salvini? "Ha reso possibile l'identificazione di un minore". Libero Quotidiano il 07 luglio 2020. Selvaggia Lucarelli è stata deferita dall'Ordine dei giornalisti della Lombardia al consiglio di disciplina territoriale. Tutta colpa dell'episodio risalente a domenica 5 luglio, quando la giornalista si è presentata al gazebo milanese della Lega, dove Matteo Salvini era impegnato a conversare ed a scattare foto con i suoi sostenitori. Ad un certo punto il figlio 15enne della Lucarelli si è rivolto all'ex ministro e lo avrebbe ringraziato "per il suo governo omofobo e razzista". Salvini non si è affatto scomposto, sapendo bene che le contestazioni fanno parte del gioco di piazza, ma si è innescata un'accesa polemica sui social e nell'opinione pubblica. Alla Lucarelli viene contestato di aver reso possibile l'identificazione di suo figlio minorenne a mezzo stampa. Tra l'altro proprio il 15enne era stato identificato dalla polizia dopo la contestazione pacifica: il leader leghista ha subito chiarito di non essere stato lui a richiederla e di domandarlo alla ministra Luciana Lamorgese. Fatto sta che, proprio quando ormai il caso stava per essere mediaticamente archiviato, è arrivato il deferimento dell'Ordine per la Lucarelli.
Da corriere.it il 9 luglio 2020. «Quindi: mio figlio dice la sua a Salvini, senza che nessuno sappia chi è. La polizia lo costringe a dire nome e cognome di fronte a telecamere e 100 persone. Alcun siti e la Lega pubblicano nome e video. Io solo dopo spiego cosa è successo e vengo deferita dall’Odg. Geniale». Selvaggia Lucarelli ha reagito così, su Twitter, alla notizia diffusa ieri sera dall’Agi: la giornalista è stata deferita dal consiglio dell’Ordine lombardo dei giornalisti al consiglio di disciplina territoriale. Le viene contestato di avere reso possibile l’identificazione di suo figlio minorenne a mezzo stampa, violando la Carta di Treviso, in relazione alla contestazione del ragazzo, quindicenne, nei confronti di Matteo Salvini durante l’iniziativa leghista di domenica scorsa a Milano. Lucarelli sottolinea che l’articolo da lei pubblicato sul sito Tpi , in cui conferma la presenza e le dichiarazioni del figlio al comizio, è successivo alla catena di eventi che hanno reso riconoscibile l’identità del ragazzo: il 15enne è stato invitato dalla polizia a dare le sue generalità davanti a giornalisti e telecamere dopo che si era rivolto a Matteo Salvini. Il video, con lo scambio con la polizia e le successive dichiarazioni del ragazzo, è stato pubblicato in Rete anche dalla pagina Facebook della Lega. Lo stesso leader della Lega aveva commentato: «Se la mamma ritiene di sfruttare un bimbo di quindici anni per battaglia politica, io non commento. Da giornalista rispetto la carta di Treviso e quindi la tutela dei minorenni. È stata lei a buttare in pasto ai giornali suo figlio». Mercoledì mattina Lucarelli ha ribadito su Tpi: «Non ho dato esclusive al sito per cui lavoro (Tpi, appunto, ndr), non ho diffuso io la notizia e infatti siamo arrivati per ultimi, per giunta non per dare notizie, ma per spiegarle. Non ho reso io identificabile mio figlio, che poi è la cosa di cui mi accusa l’Ordine dei giornalisti».
Polizia e Lega diffondono l’identità di mio figlio, ma l’OdG deferisce me. Con un atto politico. Di Selvaggia Lucarelli Pubblicato l'8 Luglio 2020. Scrivo sui quotidiani dal 2003. Ho esordito sulla prima pagina del Tempo con Franco Bechis, poi Italia Oggi, Libero e il Fatto. Ora anche TPI. Per 15 anni ho scritto senza sentire alcuna necessità di prendere il famoso tesserino perché trovavo l’ordine inutile e vetusto, perché chi scrive ha dei doveri che sono validi sempre, con o senza tesserino, perché il diritto di scrivere ed esprime il proprio pensiero lo garantisce l’articolo 21 della Costituzione, non un ordine. Inoltre, chi mi conosce lo sa, ho sempre detto: se lo prendo, non si perderà occasione per segnalarmi per qualsiasi scemenza. Con le profezie vado forte. Negli anni mi sono arrivate proposte lavorative per cui il tesserino serviva, l’avvocato mi ha convinta del fatto che comunque in caso di querele il fatto di appartenere all’ordine è una tutela in più, insomma, mi sono detta “facciamolo”. Dopo un’oretta buona di esame orale con il presidente dell’odg Lombardia (“brava, uno dei migliori esami sostenuti”) mi è arrivato il benedetto tesserino. Che hanno anche miei amici che non fanno e non hanno mai fatto i giornalisti in vita loro, persone che hanno scritto tot articoli su Cavalli e segugi copiati e incollati da Ansa, persone che hanno pubblicato il numero di articoli necessari per chiedere il tesserino su riviste universitarie e così via. Cosa è cambiato da quel giorno? Nulla. Continuo a fare il mio lavoro come il giorno prima, pagando però 100 euro all’anno. E il mio lavoro penso di farlo bene, difendendomi da una quantità di intimidazioni che avrebbero scoraggiato molti colleghi (ecco, perché l’Odg anziché perdere tempo in sciocchezze non conduce una battaglia seria e cazzuta per difendere i giornalisti dalle querele intimidatorie?). A proposito, nonostante tutto, sono incensurata. Perché verifico, sono pignola, non mi innamoro di tesi da portare avanti ad ogni costo. E veniamo a Salvini. Come ho già spiegato, della presenza di Salvini al Portello domenica non sapevo nulla e non doveva saperlo quasi nessuno perché c’erano 4 gatti. Io ero lì a fare colazione con figlio e fidanzato, viviamo a due passi. Il bar del Portello è di fronte al gazebo della Lega. Ci siamo accorti dell’arrivo di Salvini perché un centinaio di persone si sono accalcate in pochi minuti e abbiamo sentito un applauso. Mio figlio da un anno circa è appassionato di politica e non perché spinto o motivato da me, ma perché ha fatto amicizia con un ragazzo che milita in alcuni gruppi studenteschi vicini alla sinistra. Non starò a raccontare cosa fa, cosa pensa, per cosa manifesta, sono fatti suoi. A volte non condivido neppure le sue idee (sulla statua di Montanelli, per esempio, e ne discutiamo). Il suo scarso amore per Salvini l’avete visto (e quello lo condividiamo). Quando mi ha detto “vado a dire cosa penso a Salvini”, non ho pensato per un attimo che fosse mio diritto dirgli di no. E lo penso ancora adesso. Preferisco che impari a confrontarsi guardando negli occhi “l’avversario” piuttosto che vederlo imbastire discussioni sui social. Io e mio figlio domenica mattina non ci siamo presentati a nessuno. Avevamo la mascherina. Salvini stesso ha detto che non ci ha riconosciuto. E nessuno sapeva chi fosse Leon finchè due poliziotti in borghese, con nostro grande stupore, gli hanno chiesto i documenti. E non prendendolo da parte, badate bene, ma chiedendoglieli lì, in mezzo alla gente, con telecamere e giornalisti davanti. Mentre un adulto alle sue spalle gli urlava “zecca”. Lì ho preso il telefono e ho chiesto ai poliziotti perché lo stessero identificando. Perché era evidente che si trattava di un atto intimidatorio. Leon non aveva i documenti perché era sotto casa e non aveva pensato di portarli con sé e a quel punto è stato invitato a fornire le sue generalità davanti a tutti. Nome, cognome, indirizzo di casa (che ora ha chiunque abbia ripreso la scena o sentito). A quel punto, i giornalisti lì presenti hanno capito. Ci hanno seguito. “Selvaggia ma è tuo figlio!”. Dopo 5 minuti eravamo a casa. Era quasi mezzogiorno. A mezzogiorno e un quarto il video di Leon senza pixel sul volto era sull’agenzia stampa Agtw, poi su Local team. Era già “Leon il figlio di Selvaggia Lucarelli”. Migliaia di commenti in pochissimi minuti. Poi sulla pagina Lega Salvini premier (alle 15,00), senza pixel, con la sua identità riportata. Poi sono arrivati gli altri. Ansa mi ha chiesto se mi creava problemi che fosse uscito il nome e ho risposto che mio figlio non si doveva vergognare di nulla. Ormai era andata.
DOPO tutto questo, alle 17,30, ho spiegato come era andata su TPI, mostrando l’assurdo comportamento della polizia. Io e mio figlio non abbiamo raccontato né pubblicato un bel niente per primi. Non ho dato ESCLUSIVE al sito per cui lavoro, non ho diffuso io la notizia e infatti siamo arrivati per ultimi, per giunta non per dare notizie, ma per spiegarle. Non ho reso IO identificabile mio figlio, che poi è la cosa di cui mi accusa l’Ordine dei giornalisti. Il giorno dopo mi arriva una mail piccata di Alessandro Galimberti, presidente dell’Odg Lombardia, con cui diedi l’esame. “Mi hai deluso, i figli non sono vessilli, hai violato la carta di Treviso, non diffondere questo messaggio”. Vessilli? Sembrava più un giudizio politico. Poche ore dopo ho sentito Salvini dire “la Lucarelli ha violato la carta di Treviso”. L’ho trovata una strana coincidenza. Il messaggio l’ho tenuto per me, non ho scritto nulla.Ho risposto però via mail a Galimberti che mio figlio era stato reso riconoscibile da siti vari e dalla pagina della Lega. E che a 15 anni è libero di esprimere le sue opinioni. Poi non mi viene detto più nulla. Non mi arriva alcuna comunicazione. Nel frattempo la Lega pubblica due volte il video di mio figlio. Insulti a migliaia. Leon riceve anche un sacco di solidarietà e di affetto. Tantissimo. Ringrazia. Sipario.
La vicenda sembra chiusa e invece ieri sera Agi batte una notizia che io non avevo ricevuto da nessuno: sono stata deferita dall’Odg per aver reso riconoscibile l’identità di mio figlio (deferita vuol dire che il consiglio disciplinare deciderà se vado ammonita o decapitata in pubblica piazza o niente, quelli che festeggiano non hanno capito un granché). Quindi sono stata deferita per ciò che hanno fatto altre testate e la pagina della Lega. Il Salvini giornalista non ha violato la carta di Treviso . Gli altri neppure. Soprattutto, l’ordine dei giornalisti, l’organo che vuole proteggere mio figlio da tutta questa morbosità dei media, lo comunica non a me in privato ma a un’agenzia di stampa e dopo 4 minuti il tutto è già sulla pagina della Lega. Coincidenze? Non credo, direbbe qualcuno. Bene. Cioè, male. Male perché torno all’incipit di questo mio scritto. Io ho preso il tesserino soprattutto per sentirmi più tutelata dalle continue pressioni e intimidazioni che questo lavoro si porta dietro. E con una certa amarezza scopro che l’Odg non trova intimidatorio e irrispettoso della privacy l’identificazione pubblica di mio figlio da parte di poliziotti, ma in difetto me. Giudicandomi non come giornalista, ma come madre, e con considerazioni più politiche che professionali (i figli non sono vessilli!). E questo deferimento annunciato alla stampa per ragioni così pretestuose lo trovo non solo un atto intimidatorio, ma anche e soprattutto politico. Aggiungo che mi sarebbe piaciuto vedere la stessa solerzia dell’Odg nel riprendere pubblicamente mille schifezze viste sui giornali negli anni (e non parlo solo di Libero, che è cosa facile), ma evidentemente esistono delle priorità. Che negli ultimi mesi sono state Leon che dà del razzista a Salvini e Repubblica che scrive “cancellate Salvini” (deferito anche Verdelli). Buffo. Insomma, mi trovo a difendermi da chi doveva proteggermi. E a questo punto è probabile che nel futuro torni a scrivere da persona libera quale sono. E quale è mio figlio. Che non è un vessillo, caro Galimberti. È un ragazzo come tanti, che era preparato agli insulti e forse meno ai sensi di colpa.
Scrivo sui quotidiani dal 2003. Ho esordito sulla prima pagina del Tempo con Franco Bechis, poi Italia Oggi, Libero e il Fatto. Ora anche TPI. Per 15 anni ho scritto senza sentire alcuna necessità di prendere il famoso tesserino perché trovavo l’ordine inutile e vetusto, perché chi scrive ha dei doveri che sono validi sempre, con o senza tesserino, perché il diritto di scrivere ed esprime il proprio pensiero lo garantisce l’articolo 21 della Costituzione, non un ordine. Inoltre, chi mi conosce lo sa, ho sempre detto: se lo prendo, non si perderà occasione per segnalarmi per qualsiasi scemenza.
Con le profezie vado forte. Negli anni mi sono arrivate proposte lavorative per cui il tesserino serviva, l’avvocato mi ha convinta del fatto che comunque in caso di querele il fatto di appartenere all’ordine è una tutela in più, insomma, mi sono detta “facciamolo”. Dopo un’oretta buona di esame orale con il presidente dell’odg Lombardia (“brava, uno dei migliori esami sostenuti”) mi è arrivato il benedetto tesserino. Che hanno anche miei amici che non fanno e non hanno mai fatto i giornalisti in vita loro, persone che hanno scritto tot articoli su Cavalli e segugi copiati e incollati da Ansa, persone che hanno pubblicato il numero di articoli necessari per chiedere il tesserino su riviste universitarie e così via.
Cosa è cambiato da quel giorno? Nulla. Continuo a fare il mio lavoro come il giorno prima, pagando però 100 euro all’anno. E il mio lavoro penso di farlo bene, difendendomi da una quantità di intimidazioni che avrebbero scoraggiato molti colleghi (ecco, perché l’Odg anziché perdere tempo in sciocchezze non conduce una battaglia seria e cazzuta per difendere i giornalisti dalle querele intimidatorie?). A proposito, nonostante tutto, sono incensurata. Perché verifico, sono pignola, non mi innamoro di tesi da portare avanti ad ogni costo.
E veniamo a Salvini. Come ho già spiegato, della presenza di Salvini al Portello domenica non sapevo nulla e non doveva saperlo quasi nessuno perché c’erano 4 gatti. Io ero lì a fare colazione con figlio e fidanzato, viviamo a due passi. Il bar del Portello è di fronte al gazebo della Lega. Ci siamo accorti dell’arrivo di Salvini perché un centinaio di persone si sono accalcate in pochi minuti e abbiamo sentito un applauso. Mio figlio da un anno circa è appassionato di politica e non perché spinto o motivato da me, ma perché ha fatto amicizia con un ragazzo che milita in alcuni gruppi studenteschi vicini alla sinistra. Non starò a raccontare cosa fa, cosa pensa, per cosa manifesta, sono fatti suoi. A volte non condivido neppure le sue idee (sulla statua di Montanelli, per esempio, e ne discutiamo).
Il suo scarso amore per Salvini l’avete visto (e quello lo condividiamo). Quando mi ha detto “vado a dire cosa penso a Salvini”, non ho pensato per un attimo che fosse mio diritto dirgli di no. E lo penso ancora adesso. Preferisco che impari a confrontarsi guardando negli occhi “l’avversario” piuttosto che vederlo imbastire discussioni sui social. Io e mio figlio domenica mattina non ci siamo presentati a nessuno. Avevamo la mascherina. Salvini stesso ha detto che non ci ha riconosciuto. E nessuno sapeva chi fosse Leon finchè due poliziotti in borghese, con nostro grande stupore, gli hanno chiesto i documenti. E non prendendolo da parte, badate bene, ma chiedendoglieli lì, in mezzo alla gente, con telecamere e giornalisti davanti. Mentre un adulto alle sue spalle gli urlava “zecca”. Lì ho preso il telefono e ho chiesto ai poliziotti perché lo stessero identificando. Perché era evidente che si trattava di un atto intimidatorio. Leon non aveva i documenti perché era sotto casa e non aveva pensato di portarli con sé e a quel punto è stato invitato a fornire le sue generalità davanti a tutti. Nome, cognome, indirizzo di casa (che ora ha chiunque abbia ripreso la scena o sentito). A quel punto, i giornalisti lì presenti hanno capito. Ci hanno seguito. “Selvaggia ma è tuo figlio!”. Dopo 5 minuti eravamo a casa. Era quasi mezzogiorno. A mezzogiorno e un quarto il video di Leon senza pixel sul volto era sull’agenzia stampa Agtw, poi su Local team. Era già “Leon il figlio di Selvaggia Lucarelli”. Migliaia di commenti in pochissimi minuti. Poi sulla pagina Lega Salvini premier (alle 15,00), senza pixel, con la sua identità riportata. Poi sono arrivati gli altri. Ansa mi ha chiesto se mi creava problemi che fosse uscito il nome e ho risposto che mio figlio non si doveva vergognare di nulla. Ormai era andata.
DOPO tutto questo, alle 17,30, ho spiegato come era andata su TPI, mostrando l’assurdo comportamento della polizia. Io e mio figlio non abbiamo raccontato né pubblicato un bel niente per primi. Non ho dato ESCLUSIVE al sito per cui lavoro, non ho diffuso io la notizia e infatti siamo arrivati per ultimi, per giunta non per dare notizie, ma per spiegarle. Non ho reso IO identificabile mio figlio, che poi è la cosa di cui mi accusa l’Ordine dei giornalisti. Il giorno dopo mi arriva una mail piccata di Alessandro Galimberti, presidente dell’Odg Lombardia, con cui diedi l’esame. “Mi hai deluso, i figli non sono vessilli, hai violato la carta di Treviso, non diffondere questo messaggio”. Vessilli? Sembrava più un giudizio politico. Poche ore dopo ho sentito Salvini dire “la Lucarelli ha violato la carta di Treviso”. L’ho trovata una strana coincidenza. Il messaggio l’ho tenuto per me, non ho scritto nulla.Ho risposto però via mail a Galimberti che mio figlio era stato reso riconoscibile da siti vari e dalla pagina della Lega. E che a 15 anni è libero di esprimere le sue opinioni. Poi non mi viene detto più nulla. Non mi arriva alcuna comunicazione. Nel frattempo la Lega pubblica due volte il video di mio figlio. Insulti a migliaia. Leon riceve anche un sacco di solidarietà e di affetto. Tantissimo. Ringrazia. Sipario.
La vicenda sembra chiusa e invece ieri sera Agi batte una notizia che io non avevo ricevuto da nessuno: sono stata deferita dall’Odg per aver reso riconoscibile l’identità di mio figlio (deferita vuol dire che il consiglio disciplinare deciderà se vado ammonita o decapitata in pubblica piazza o niente, quelli che festeggiano non hanno capito un granché). Quindi sono stata deferita per ciò che hanno fatto altre testate e la pagina della Lega. Il Salvini giornalista non ha violato la carta di Treviso . Gli altri neppure. Soprattutto, l’ordine dei giornalisti, l’organo che vuole proteggere mio figlio da tutta questa morbosità dei media, lo comunica non a me in privato ma a un’agenzia di stampa e dopo 4 minuti il tutto è già sulla pagina della Lega. Coincidenze? Non credo, direbbe qualcuno. Bene. Cioè, male. Male perché torno all’incipit di questo mio scritto. Io ho preso il tesserino soprattutto per sentirmi più tutelata dalle continue pressioni e intimidazioni che questo lavoro si porta dietro. E con una certa amarezza scopro che l’Odg non trova intimidatorio e irrispettoso della privacy l’identificazione pubblica di mio figlio da parte di poliziotti, ma in difetto me. Giudicandomi non come giornalista, ma come madre, e con considerazioni più politiche che professionali (i figli non sono vessilli!). E questo deferimento annunciato alla stampa per ragioni così pretestuose lo trovo non solo un atto intimidatorio, ma anche e soprattutto politico. Aggiungo che mi sarebbe piaciuto vedere la stessa solerzia dell’Odg nel riprendere pubblicamente mille schifezze viste sui giornali negli anni (e non parlo solo di Libero, che è cosa facile), ma evidentemente esistono delle priorità. Che negli ultimi mesi sono state Leon che dà del razzista a Salvini e Repubblica che scrive “cancellate Salvini” (deferito anche Verdelli). Buffo. Insomma, mi trovo a difendermi da chi doveva proteggermi. E a questo punto è probabile che nel futuro torni a scrivere da persona libera quale sono. E quale è mio figlio. Che non è un vessillo, caro Galimberti. È un ragazzo come tanti, che era preparato agli insulti e forse meno ai sensi di colpa.
Selvaggia Lucarelli, Filippo Facci contro il M5s: "Contrari all'Ordine dei giornalisti? Ma se Casalino, nel 2018..." Filippo Facci su Libero Quotidiano il 10 luglio 2020. Domanda: a che servono i vari «consigli di disciplina» dell'Ordine dei giornalisti? Che vogliono? Che fanno? Non avrebbero di meglio da fare? Le modeste e vanitose tragedie di Selvaggia Lucarelli dell'altro giorno non impediscono di interrogarsi circa l'esistenza di questi tribunaletti dei giornalisti (anche solo pubblicisti) che s' impicciano praticamente di tutto, con esiti tra il paradossale e l'anonimo. La vicenda della Lucarelli è nota ai meno: il figlio 15enne della signora si è rivolto a Matteo Salvini, domenica, dandogli di «omofobo e razzista» mentre lui era impegnato con vari sostenitori, dopodiché - di prassi - il minorenne è stato identificato sotto gli occhi della madre, che anziché intervenire si è messa a filmare la scena col cellulare: l'instinto di creare un caso ha prevalso su quello materno. In altre parole, la Lucarelli ha lasciato che il nome di suo figlio minorenne fosse identificato, ergo divenisse pubblico e pubblicabile, e questo avrebbe violato la «Carta di Treviso» che è una leggina nella legge, così come i consigli di disciplina sono dei tribunaletti nei tribunali. Il video coi dati personali del figlio (indirizzo compreso) poi l'ha pubblicato lei, su un sito che la stipendia. Ma giudizi personali a parte (invitai il figlio della Lucarelli in barca assieme alla madre, e la mia sentenza resta inappellabile) siamo di fronte a un classico cortocircuito. Le varie carte di Treviso servono a tutelare minori e genitori, e in questo caso la violazione sarebbe della madre, perché se «il volto di mio figlio era già impasto a tutti i media nazionali» la colpa sarebbe sua che non ha interrotto l'identificazione nel suo ruolo di tutrice.
IL CASO SALLUSTI. Ma non ci frega molto di questo, il punto è la regolare frequenza con cui si apprende di incolpazioni e o deferimenti da parte del citato «consiglio di disciplina», ultimamente - non entriamo neanche nel merito - per via di una frase pronunciata da Annalisa Chirico su La7 o per una telefonata di Francesca Carollo (Mediaset) a cui ha risposto un minore. Eccetera. Ma che cosa muove il Consiglio di disciplina? In base e che cosa interviene? Soprattutto: a che serve, visto che la legge ordinaria dovrebbe bastare e avanzare? L'intervento del Consiglio si può chiedere per iscritto o invocare a parole peraltro contro altri colleghi: la stessa Lucarelli ha detto «vorrei che l'Ordine fosse stato così solerte anche quando Sallusti sul Giornale mi definiva "esperta di zoccolaggine", e Sallusti è un buon esempio ma per motivi più seri. Quando il direttore del Giornale (2012) fu accusato di «tentata evasione» perché si era recato al Giornale evadendo dagli arresti domiciliari dopo una condanna per diffamazione, l'Ordine comunicò la sospensione di Sallusti ben due settimane dopo la sua incriminazione per tentata evasione, e soprattutto due giorni prima del processo: sembrò il classico calcio dell'asino che probabilmente fu favorito non da cattiveria, ma da passaggi su passaggi burocratici in un'orgia di cartacce e consigli e delibere: una scarsa incisività dell'Ordine rispetto al dibattito e rispetto alla realtà, ciò che forse è quello di cui stiamo parlando. Sallusti, per esempio, dopo l'assoluzione, dovette affrontare anche il «tribunale» di disciplina dei colleghi lombardi: perché? Non bastava la legge ordinaria? Era un atto d'ufficio? L'aveva richiesto del il procuratore generale ai sensi dell'articolo 44 della legge professionale? Risposta a noi nota: boh. Sappiamo solo che sono sottoposti a procedimento coloro che «si rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionali». Vale per tutti i condannati per diffamazione? Non risulta. Vale per alcuni in particolare? C'è da capire. Ma c'è ben altro da capire, perché il sistema disciplinare dell'Ordine, modificato più volte, non si capisce a che cosa serva anche da altri punti di vista. I consigli sono formati da colleghi non eletti bensì nominati sia a livello nazionale che regionale; possono decidere sospensioni, censure, avvertimenti, riduzioni delle sanzioni di primo grado, annullare le decisioni regionali, ma sono tutte decisioni di cui si sa pochissimo (a meno che il giornalista sia una celebrità o un nemico politico) anche perché il codice e il garante della privacy tendono a ostacolare la pubblicazione delle sentenze. Sui siti degli Ordini appaiono comunicati che non spiegano nulla, i giornali se ne fregano, le decisioni dei Consigli non le pubblicano mai: insomma, sono interventi che non servono a niente, e questo perché un procedimento disciplinare di cui gli iscritti non abbiano notizia, prima di altro, non fa capire che norma sia stata applicata e perché: tecnicamente manca quella che viene chiamata deterrenza. In concreto, serve solo a rompere i coglioni ai singoli (e ai loro giornali) mentre tanti colleghi, e soprattutto tanto pubblico, continua a mantenere idee spesso strampalate e distorte sulla funzione del giornalista e su ciò che possa fare o non fare. E questo lo sanno bene anche all'Ordine, che negli anni scorsi ha cercato di chiedere lumi al governo circa la possibilità di pubblicizzare le sentenze: zero risposte. Io nel 2017 fui sospeso per due mesi dalla professione e dallo stipendio dal Consiglio della Lombardia (avevo scritto che odiavo l'Islam) e ne scrissero tutti. Poi in secondo grado, a Roma, la pena fu annullata, ma non lo scrisse nessuno.
L'ABOLIZIONE. Il bello è che mentre scriviamo, in teoria, c'è un partito di governo (i grillini) che a parole vorrebbe abolire l'Ordine dei Giornalisti, pensando forse che equivalga ad abolire i giornalisti. Non sanno quanti giornalisti sono stra-favorevoli all'abolizione dell'Ordine. Mentre sappiamo, noi, quanto la contrapposizione grillini-Ordine sia artificiosa perché evidenzia i torti di entrambi. I grillini, da una parte, con quell'autentico squadrismo antidemocratico che mostrano ormai da molti anni in tema di comunicazione, mentre il secondo, l'Ordine col suo consiglio disciplinare, con le sue nelle sue pretese di istruire processini contro qualsiasi giornalista che non gli vada a genio: tra questi, nel settembre 2018, ci fu anche Rocco Casalino, che - persino lui - è iscritto all'Ordine. Com' è finita? È ufficiale: boh. In attesa di saperlo, e sinché esiste, l'Ordine dei giornalisti potrebbe ricominciare, i giornalisti, a difenderli anziché a processarli.
DAGONOTA il 10 luglio 2020. Abbiamo contattato Alessandro Galimberti, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia per capire qualcosa in più della questione del deferimento di Selvaggia Lucarelli e sentire la sua versione dei fatti anche sui post Facebook che insinuano un suo legame con Salvini e la Lega. Partiamo dal libro “Sbirri Maledetti Eroi”, scritto da Stefano Piazza e Federica Bosco e pubblicato da Paese edizioni con prefazione di Matteo Salvini e postfazione di Vittorio Feltri. “Come potete verificare facilmente online, è un libro di cronaca, che non ragiona per tesi ideologiche – ci dice Galimberti. Conosco Stefano da 30 anni, dai tempi in cui mi occupavo di giudiziaria per "La provincia di Como". Federica è la mia compagna, ma non c’è nessun mistero sulla postfazione e sulla prefazione”. Come precisa anche lo stesso Piazza su Facebook, la prefazione scritta da Matteo Salvini è collegata al fatto che in quel momento era ministro dell’Interno ed essendo il libro “una testimonianza del duro lavoro delle forze dell’ordine”. E infatti era stata chiesta la disponibilità al suo predecessore Minniti e al capo della polizia Franco Gabrielli. Poi cadde il governo e al Viminale arrivò il segretario del Carroccio. “Non c’è nessun mistero come fa credere in maniera suggestiva il post di tal Yari Davoglio che avete pubblicato. Semplicemente i tempi furono lunghi e l’editore rimase fermo nell’idea di chiedere al ministro in carica. Per quanto riguarda la postfazione di Feltri (che non c’ho mai parlato) fu anch’essa un’iniziativa dell’editore, Luciano Tirinnanzi di Paese edizioni, per via di un accordo commerciale per la distribuzione del libro”. “Il rapporto con Salvini? L’ho incontrato una sola volta e in quell’occasione lo invitai alla sede dell’ordine dei giornalisti perché erano i giorni del dibattito sull’abolizione”. “Per quanto riguarda invece l’intervento dell’Ordine sul figlio di Selvaggia Lucarelli, è partito tutto dai cronisti delle agenzie, che mi hanno interpellato praticamente in diretta sulla presenza di un minorenne che stava contestando Salvini. Io ho risposto semplicemente: "C’è la Carta di Treviso". Di chiunque fosse il figlio non bisognava fare il nome, e invece l’atteggiamento della madre è stato quello di insistere. Ha registrato lei il video e non è intervenuta in alcun modo per fare in modo che il figlio non venisse identificato. Le ho scritto un messaggio e mi ha risposto il giorno dopo dicendomi che non mi dovevo permettere e che lui aveva diritto di fare militanza. Dopodiché, da quando lunedì mattina il consiglio ha deciso di proporre un’azione disciplinare al consiglio di disciplina (che è un organo indipendente) ha cominciato una ricostruzione parziale tesa a screditarmi e a farmi passare per lacchè di Salvini”. Nel frattempo – dice Galimberti – è arrivato pure lo shitstorm.
Commento di Stefano Piazza, co-autore del libro “Sbirri Maledetti Eroi” al post di Yari Davoglio: Qualche precisazione; Federica Bosco è la coautrice del libro Sbirri Maledetti Eroi, un libro nato da una mia idea e che ha venduto più di 7mila copie e che è stato tradotto in francese e tedesco (tra poco in inglese). La prefazione: Venne chiesta al precedente Ministro on.Minniti poi cadde il governo e cambiò il Ministro, così chiedemmo a lui. La postfazione di Vittorio Feltri venne dall’accordo commerciale tra l’editore Paesi Edizioni e il giornale Libero. Alessandro Galimberti ed io siamo amici da 30 anni dai tempi nei quali si occupava di giudiziaria per “ La Provincia di Como” e sono stato io a chiedergli di presentare in un paio di occasioni il libro. Il resto sono solo balle e il tentativo di screditare delle persone che non hanno nulla a che fare con queste volgari polemiche.
STEFANO PIAZZA e FEDERICA BOSCO - SBIRRI MALEDETTI EROI. LA PRECISAZIONE DELL’EDITORE. Dagospia l'11 luglio 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Luciano Tirinnanzi, editore Paesi Edizioni. Caro Dago, in merito alle polemiche tra Selvaggia Lucarelli e Alessandro Galimberti apparse sul vostro quotidiano, tengo a precisare - a parte il fatto che la casa editrice si chiama Paesi Edizioni (e non Paese) - che l'intemerata contro la compagna di Alessandro Galimberti, Federica Bosco, appare ingiusta e strumentale. Sembra che la nostra autrice, che ha scritto il libro "Sbirri maledetti eroi" insieme con Stefano Piazza, sia stata tirata dentro una polemica perché ha "osato" scrivere un libro la cui prefazione è del mefistofelico Matteo Salvini, origine e ragione di tutti i mali di questa sventurata terra. E perché è "colpevolmente" la compagna del presidente dell'Ordine dei Giornalisti, che a sua volta ha "osato" andare contro Selvaggia Lucarelli. Io non commento le simpatie politiche di nessuno, e non mi interessano le ragioni dell'una o dell'altra parte. Figuriamoci. Ma prego i protagonisti di questa vicenda, Selvaggia Lucarelli in primis, a non usare un libro come scusa per attaccare chicchessia che ha un punto di vista differente dal suo. E poi c'è la questione Matteo Salvini. Capisco che il soggetto possa essere divisivo e al centro di infiniti scontri al calor bianco. Ma anch'egli, specie se e quando investito di un'alta carica dello Stato, ha diritto di parola. Oppure no? Si scrive che è stato inserito Matteo Salvini nel libro perché l'autrice (o, peggio, la stessa casa editrice) nutrono simpatie leghiste. Per quanto riguarda Paesi Edizioni, niente di più lontano dalla verità: a noi non piacciono le etichette e tantomeno le bandierine politiche. E chi ci segue, scoprirà che abbiamo titoli di ogni genere e molteplici autori ben lontani da quella corrente politica. Spiace che, siccome abbiamo ospitato il parere di un leader politico, dobbiamo essere subito tacciati di essere filo-qualcosa. Ho fondato la casa editrice proprio per superare questi ridicoli automatismi e manicheismi sterili. Che forse Mondadori o Feltrinelli fanno diversamente? Ma non scherziamo. Come se Salvini, all'epoca in cui è uscito il libro, non fosse stato il ministro dell'Interno, e come se le sue parole non avessero diritto a essere stampate, così come quelle di qualsiasi altro rappresentante delle istituzioni. Ho personalmente voluto per quel libro-inchiesta sulle forze dell'ordine la prefazione del ministro dell'Interno. Perché? Chi meglio del titolare del Viminale ha titolo ad analizzare la realtà delle forze dell'ordine? Tra quando è iniziata la scrittura e quando è stato pubblicato al Viminale si sono succeduti due ministri, Marco Minniti e Matteo Salvini appunto. E non mi sarei meravigliato se nel frattempo che veniva dato alle stampe il ministro fosse cambiato ancora (come peraltro è accaduto dopo poco); d'altronde l'Italia è questa. Avremmo ospitato e ospiteremo sempre qualunque voce autorevole o interessante abbia qualcosa da dire, e voglio che questo si sappia e la si smetta di qualificare gli operatori della cultura secondo schemi novecenteschi, il che è ridicolo per quanto mi riguarda. E la si smetta anche di bullizzare chi la pensa diversamente dal proprio credo politico. Il confronto è sempre possibile, e noi come gli altri editori siamo qui apposta per ospitare le idee e le opinioni di tutti. Senza per questo portare la bandiera di un partito (come giornalista seguo l'esempio di Enrico Mentana, che ha smesso di votare per non farsi coinvolgere o etichettare come megafono di una qualche parte politica). Dunque, nessuna simpatia per un leader o un partito, e nessun rapporto speciale. Solo professionalità e voglia di incidere nel panorama intellettuale e politico italiano. Penso che ci sia - da parte di tutti - meno bisogno di fanghiglia gossippara da destinare ai social per gonfiare l'ego, e serva invece un'iniezione di democrazia nella cultura, di libero pensiero e di confronto intellettuale. E devo dire che a voi di Dagospia vanno i miei più sinceri complimenti e il mio plauso, perché non siete mai stati schiavi di questo meccanismo. E questo vi fa onore. Noi non vogliamo essere da meno. Siamo liberi e indipendenti, e sempre lo saremo. Grazie per voler pubblicare questa precisazione, Luciano Tirinnanzi editore Paesi Edizioni.
Selvaggia Lucarelli e il figlio Leon ossessionato da Salvini: "È comunista", passa le giornate a insultarlo. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 06 luglio 2020. Se fosse un ragazzetto qualsiasi, probabilmente non ne staremmo neppure a parlare. Ma è un "figlio di" e allora le sue frasi buttate lì contro un leader di partito diventano una notizia. E ci inducono a farci un pezzo, come la mamma in fondo avrebbe sperato. Ieri Leon Pappalardo, figlio della giornalista Selvaggia Lucarelli, si è recato davanti a un gazebo della Lega a Milano, dove Salvini aveva appena tenuto un comizio, per contestarlo. Capiamo la concitazione del momento e la tenera età, soli 15 anni. Però, come prima uscita davanti alle telecamere, non è stata proprio brillantissima. Riportiamo le frasi da lui pronunciate quando è stato intervistato: «La destra non ha mai avuto una grande libertà di espressione. Adesso andare lì e dire una propria opinione senza, cioè, dopo essere stato fermato prima dalle guardie del corpo e adesso dalla Polizia, è ridicolo. Si lamenta tanto di "Oh mio dio, una dittatura!", e poi si fanno queste cose?». Il personaggio scemo di Verdone avrebbe commentato: «In che senso?». Il giovane Leon si era avvicinato al leader della Lega mentre quello scattava un po' di selfie coi suoi sostenitori. «Volevo ringraziarla per il suo governo molto omofobo e razzista», esordiva. «Lei è una persona razzista. Utilizza qualsiasi tipo di scusa per attaccare persone degli altri Paesi. La comunità di colore ce l'ha quasi tutta con lei perché è un razzista». Martire - L'atteggiamento di Salvini era impeccabile: dopo aver invitato le sue guardie del corpo, che provavano ad allontanarlo, a lasciarlo stare, diceva al ragazzo «Ti voglio bene» e gli mostrava un sostenitore leghista di origini orientali, smontando la teoria per cui gli stranieri ce l'avrebbero con Salvini. «Sei caduto male», lo sfotteva infatti il segretario leghista, prima di allontanarsi. Fin troppo zelanti parevano invece due poliziotti in borghese che addirittura chiedevano al ragazzo le generalità per identificarlo. Un atteggiamento che dava a Pappalardo junior la possibilità di fare la vittima, ergendosi a martire della mancanza di libertà di espressione e sentenziando: «Almeno non mi hanno arrestato!». Se l'intento era quello di guadagnarsi un quarto d'ora di celebrità, proporsi come Sardina in erba o almeno ottenere la stima di mammà, Leon ci riusciva in pieno. Tanto che la stessa giornalista esprimeva il suo apprezzamento per la performance del figlio: «Lui ha fatto quello che si sentiva di fare, non sapevo quello che avrebbe detto, ma lo condivido. Ho cresciuto un ragazzo libero e con il coraggio delle proprie scelte». La Lucarelli giurava di essere capitata lì, davanti al gazebo della Lega, quasi per caso, in quanto «si trova a due passi da casa nostra, di fronte al bar dove andiamo a fare colazione». Che addirittura Salvini fosse andato apposta lì per provocare la giornalista? Magari la sua intenzione era suonare al citofono della Lucarelli e chiedere: «È lei che ha un figlio comunista?». La mascherina - Scherzi a parte, la Lucarelli non faceva nulla per ignorare la presenza del leader della Lega. Anzi andava a sua volta davanti al gazebo per domandargli «Perché non mette la mascherina?», mentre Salvini parlava a volto nudo a sostenitori e giornalisti. Quesito legittimo, se non fosse che lei stessa indossava la mascherina tenendo il naso scoperto, che è come non indossarla. Pareva la storia del bue che dà del cornuto all'asino Comunque adesso la Lucarelli potrà dirsi una mamma realizzata. Un paio di settimane fa, intervenendo a Un giorno da pecora su Radio1, aveva fatto sapere: «Ci ho il figlio comunista, è una cosa incredibile. Segue tutti i giorni Salvini sui social. Sta sempre lì a commentare, a correggerlo, a dirgli "razzista". Sto aspettando il giorno in cui qualcuno raccolga tutto quello che ha scritto e ci faccia un pezzo». Quel giorno è arrivato, Selvaggia. Per il momento ci siamo fatti bastare e avanzare le cose (sgrammaticate) che ha detto.
Leon Pappalardo vs. Matteo Salvini: Selvaggia Lucarelli e il ban facile per chi critica. Redazione su Il Riformista il 6 Luglio 2020. Selvaggia Lucarelli fa en plein di like grazie al figlio quindicenne Leon. La giornalista pubblica un video dove intervista agenti della DIGOS intervenuti nell’identificare il suo pargolo dopo che quest’ultimo ha dato del razzista a Salvini mentre il leader leghista si prestava a scattare selfie con i suoi sostenitori. Il video parla chiaro: un ragazzo pacatamente dà del razzista e dello xenofobo a Salvini, qualcuno dell’entourage cerca di mandarlo via, ma il leader della Lega dice di lasciarlo stare. Cosa divertente è che mentre Salvini viene descritto come xenofobo, l’ex ministro dell’Interno è in procinto di farsi una foto con un immigrato asiatico. Si odono molti supporters della Lega dire al ragazzo “ti vogliamo bene”. L’assalto non riesce mediaticamente, ma sbuca all’improvviso un altro video in cui mamma Selvaggia riprende la DIGOS che chiede le generalità al giovane Leon in sua presenza di responsabile per via della minore età del giovane contestatore. La Lucarelli ha protestato per la diffusione del video del figlio minorenne sui profili social della Lega, Salvini in alcune dichiarazioni ha detto che “l’episodio è stato montato dalla signora e lui non aveva riconosciuto né lei né il ragazzino che non aveva mai visto prima”. E Leon, giusto precisarlo, ha ricevuto un trattamento migliore di quelli che non sono d’accordo con le posizioni della madre sui social che vengono bannati all’istante: con questo metodo la Lucarelli ha inaugurato un modo comunicativo di tutto rispetto sui social media utile a crearsi una echo room, ossia, un luogo virtuale che fa da megafono all’unisono dei suoi pensieri senza detrattori che inquinino il messaggio da far uscire all’esterno. L’evento, come rilevato dal data journalist Livio Varriale, ha generato su Twitter in meno di 24 ore ben 13.000 tweets circa, con una mole di 126.900 like 19.419 condivisioni, 15.859 risposte e 1.669 citazioni analizzando le parole Selvaggia Lucarelli, #Selvaggialucarelli e @stanzaselvaggia. Una echo di tutto rilievo grazie anche alla parolina magica Salvini che gode di molti detrattori sui social.
TOP TWEETS. A racimolare like e preferenze figura Selvaggia Lucarelli, madre lesa a suo dire, perché il figlio è stato controllato dalla DIGOS per aver espresso le sue idee e perché la Lega ha pubblicato i suoi video per ben due volte come recita nel tweet che ad oggi ha avuto più di 13.000 like mentre sui 120.000, 30.000 sono solo per lei: Vedo che la pagina ufficiale Lega Salvini premier, non paga di averlo fatto una volta, pubblica per la seconda volta il video di mio figlio. Volevo rasserenarli: non state raccontando un quindicenne. State raccontando voi stessi. Molti commenti rappresentano quello che potremmo definire benaltrismo puro dove molti si chiedono come mai la DIGOS non controlli Salvini e tutti coloro che in questo periodo di Covid sono responsabili della formazione di assembramenti.
HASHTAG. L’argomento più indicato nei tweets è stato selvaggialucarelli, ma basta poco per capire l’impatto mediatico di questa notizia con un 20 per cento nella top20 occupato da Salvini, che è estraneo da questa vicenda se non per la contestazione ricevuta e la reazione pacata avuta nei confronti di Leon Pappalardo. Al terzo posto figura l’autore della contestazione, ed altre declinazioni semantiche di madre e figlio, per poi dare spazio agli hashtags che accompagnano polemicamente e quotidianamente il leader della Lega su twitter: #salvinivergognati, #salvinisciacallo, razzista, omofobia e salvinicialtrone.
TOP REPLY. La quantità di risposte fa comprendere anche come ha reagito il pubblico ai vari top tweets. Non è un caso che in un momento dove una buona parte della rete ha caldeggiato le posizioni di Selvaggia Lucarelli a subire maggiori pareri del pubblico siano i profili della Lega e Radio Savana vicina alle posizioni di Salvini.
TREND. Compreso che la rete sia ostica nei confrotni di Salvini e della Lega per svariati motivi, compreso che il figlio della Lucarelli sia stato indentificato con eccessivo zelo visto che né lui e nemmeno i supporters di Salvini hanno tenuto comportamenti civili, ma in questo grafico c’è tutto il successo dell’ultimo mese della Lucarelli su Twitter. Il mettere davanti il figlio minorenne in una situazione di tensione, dove ci si attendeva qualcosa di più come reazione per generare uno scoop virale, e l’aver utilizzato il brand Salvini hanno generato in meno di 24 ore un terzo di quanto nel mese di giugno la Lucarelli ha generato di traffico social.
Lorenzo Zacchetti per affaritaliani.it il 4 febbraio 2020. Selvaggia Lucarelli lascia il Fatto Quotidiano per trasferirsi a TPI - The Post Internazionale, la testata online diretta da Giulio Gambino e Stefano Mentana. Sul futuro professionale della popolare giornalista e volto televisivo c’erano stati dei rumors anticipati da Dagospia e oggi Affaritaliani.it è in grado di confermare e completare la notizia. Selvaggia Lucarelli sarà responsabile delle sezioni dedicate a cronaca e spettacoli, in una squadra che già vede Luca Telese alla guida della politica e una redazione di 20 persone sui vari temi. La collaborazione comincia con il Festival di Sanremo, per poi articolarsi meglio la prossima settimana, dando peraltro a Selvaggia Lucarelli l’occasione di esprimersi nell’habitat comunicativo che ritiene più confacente, ovvero il Web: “Rispetto a Il Fatto Quotidiano in realtà non è un vero e proprio distacco, nel senso che finché sarà possibile continuerò a collaborare con la carta come accade da ormai cinque anni”, spiega Lucarelli ad Affaritaliani.it. “In questi cinque anni però non sono mai stata utilizzata sul Web e visto che il Web è il luogo in cui sono nata professionalmente e in cui credo di sapermi muovere bene, nonché il cuore della comunicazione, non potevo rimanere in esclusiva lì. Sulle ragioni del non aver avuto alcun ruolo sul Web lì ho smesso di interrogarmi, ma evidentemente non c’era bisogno di me”.
Quali sono i temi sui quali pensi di puntare maggiormente?
“Nessuno in particolare, perché in questo lavoro si naviga a vista, mi interessa la trattazione dei temi. Ho voluto fortemente la cronaca perché credo sia il tema trattato nel modo peggiore dal giornalismo, con morbosità, approssimazione e un’educazione al populismo giudiziario spaventosa. Mi interessa la parte spettacoli perché non esiste quasi più la critica, le grandi testate non vogliono conflitti con personaggi che poi per ripicca negano interviste o esclusive. Non utilizzerò debunker, più che a smascherare fake news altrui farò attenzione a non fabbricarne o diffonderne. Forse dovremmo partire tutti qui, noi che facciamo informazione”.
Claudio Plazzotta per ''Italia Oggi'' del 5 febbraio 2020. Il sito di news The Post Internazionale-Tpi ingaggia Selvaggia Lucarelli come caporedattore cronaca e spettacoli, in una operazione di forte rilancio della testata diretta dal fondatore Giulio Gambino (ex Espresso, La Stampa, e nipote di uno dei fondatori dell' Espresso, Antonio Gambino), dove il vicedirettore è Stefano Mentana (figlio di Enrico, direttore del Tg di La7), con Luca Telese caporedattore politica e una squadra di circa 20 giornalisti. La Lucarelli, per il momento, resterà collaboratrice esterna per il Fatto quotidiano cartaceo. Ma, col tempo, è probabile che si diraderà il suo rapporto, iniziato cinque anni fa, con il giornale diretto da Marco Travaglio. L'arrivo di una web star come la Lucarelli illuminerà parecchio la testata Tpi, che in effetti aveva bisogno di una spinta dopo i deludenti risultati dell' autunno 2019: 213 mila utenti unici in ottobre, 208 mila in novembre, meno della metà rispetto ai 428 mila del novembre 2018. Certo, coi suoi 208 mila utenti unici, Tpi comunque supera in novembre una testata celebre come Dagospia (189 mila utenti unici al giorno), che tuttavia non ha una redazione così strutturata.
[NdDago: i dati citati da Plazzotta sono del consorzio Audiweb, di cui Dagospia al momento non fa parte. I dati di Google Analytics parlano di una media di 300-350mila utenti unici al giorno. Oggi, su Alexa.com, Dagospia è il 12° sito in Italia (Non lo è, ma è per farvi capire che 189mila utenti unici è un numero sballatissimo...]
La storia di Tpi è piuttosto interessante: viene fondato nel 2010 da Gambino, insieme a Francesco Saverio Bersani (nulla a che fare con l' ex segretario del Pd), Stefano Mentana (figlio di Enrico), Davide Lerner (figlio di Gad, che poi lascia per diventare collaboratore delle agenzie Ap e Afp) e Adriano Pagani. Tra le firme della testata figura, fino al 2013, anche Sofia Bettiza (figlia di Enzo). Insomma, una infornata di «figli e nipoti di» che si appoggia al sito di Repubblica, il quale, per un po' di tempo, aiuta, promuove e spinge Tpi. Poi le cose cambiano, e, di fatto, il nuovo Tpi parte nel maggio del 2017. L' esercizio 2017 si chiude con 296 mila euro di ricavi e 519 euro di utili, mentre il 2018 assicura 964 mila euro di ricavi e 205 mila euro di utili. Conti in equilibrio anche perché in quel periodo i dipendenti sono ridotti all' osso (si pensi che nel 2018 i costi per il personale ammontano ad appena 30 mila euro). Nel 2019 iniziano gli investimenti di Tpi, arriva Telese come capo del politico, la redazione si amplia e a fine settembre i dipendenti della società sono già 11. Adesso, come detto, l' ingaggio della Lucarelli, che allarga ulteriormente le ambizioni di Tpi e dei suoi soci: Giulio Gambino col 57,6%, Adriano Pagani col 35%, Stefano Mentana col 3%, per un consiglio di amministrazione presieduto da Andrea Splendore. Fa discutere anche l' avventura della Lucarelli al Fatto quotidiano: è una star del web (il suo video di dicembre 2019 in cui denunciava lo scandalo del Villaggio di Babbo Natale a Milano, per esempio, ha avuto 1,2 milioni di visualizzazioni del video completo sulla sua pagina Facebook), ha una buona notorietà televisiva (soprattutto grazie a Ballando con le stelle, su Rai Uno, prima come opinionista e poi, dal 2016, come giurata), eppure ha lavorato per cinque anni al Fatto quotidiano con un contratto in esclusiva collaborando solo all' edizione cartacea, e senza mai scrivere neppure un articolo sul sito web del Fatto (diretto da Peter Gomez), e senza essere mai coinvolta neppure una volta nelle produzioni audiovisive di Loft guidate da Luca Sommi, autore tv e giornalista che ora va in video su Nove in Accordi e disaccordi con Andrea Scanzi, e che è il compagno di Cinzia Monteverdi, a.d. della Società editoriale Il Fatto.
Lettera di Cinzia Monteverdi a ''Italia Oggi'' pubblicata ieri, 6 febbraio 2020, presidente e amministratore delegato di SEIF - Società Editoriale Il Fatto spa. Con riferimento all' articolo di Claudio Plazzotta, pubblicato a pagina 3 dell' edizione del 5 febbraio 2020 di ItaliaOggi, dal titolo «Tpi ingaggia Selvaggia Lucarelli» scrivo la presente per replicare alle diverse falsità in esso contenute. La Vicenda che riguarda Selvaggia Lucarelli e la Società Editoriale Il Fatto è stata data in pasto alla stampa forse per riuscire a fare un lancio promozionale, a scapito de Il Fatto quotidiano, della sua nuova collaborazione con Tpi. Selvaggia Lucarelli ha iniziato la sua collaborazione cinque anni fa con Il Fatto quotidiano diretto da Marco Travaglio e non scrisse per la testata online diretta da Peter Gomez in quanto quest' ultimo riteneva lei potesse scrivere solo dopo aver chiuso la sua vicenda giudiziaria dove era indagata per concorso in intercettazione abusiva, detenzione e diffusione abusiva di codici d' accesso. Solo dopo la sentenza di assoluzione, con i tempi opportuni Peter Gomez propose alla pubblicista di scrivere pezzi per la testata online. Selvaggia Lucarelli aveva però ormai altri progetti cioè quelli di avere responsabilità di intere sezioni. Lecito. Per quanto riguarda le sue collaborazioni con il ramo di produzioni televisive Loft produzioni, che ha come direttore David Perluigi e non Luca Sommi come da voi indicato erroneamente, la pubblicista Selvaggia Lucarelli ha avuto modo di esprimersi, pagata, fin da subito con format visibile su nostra piattaforma, intitolato Opinion Leader. Non trascurabile la proposta scritta fatta alla pubblicista nell' ottobre scorso per tre documentari, tre libri, pagine di costume sul quotidiano, e contributi per il web e offerta digitale. Anche questi leciti ma non dovuti. In ultimo, il pezzo a firma Plazzotta fa riferimento alla vita personale della sottoscritta quasi adducendo che la Lucarelli non ha avuto modo di lavorare per Loft in quanto l' amministratore delegato fa lavorare il suo compagno Luca Sommi. Quest' ultimo la sottoscritta precisa ottimo collaboratore come autore e conduttore e non come direttore che ha avuto modo di lavorare correttamente, con trasparenza e di conquistarsi la stima e il rispetto della nostra Società e del gruppo Discovery, gruppo che non è certo avvezzo a firmare contratti su pressioni personali. Infine, se pur mi rattrista dare in pasto ai giornali la mia vita personale, preciso che Luca Sommi non è mio compagno, che al di fuori della mia vita professionale, spendo il mio tempo con mia madre purtroppo malata gravemente di Alzheimer e mia sorella purtroppo malata di cancro. Non mi sollazzo con i nostri collaboratori né con il gossip via social. Chi mi conosce sa quanto conti per me la fedeltà solo alla vita da single, alle buone amicizie con persone corrette sempre più rare e al lavoro con rispetto dei miei 127 dipendenti, quanto sia un' offesa imputarmi un falso compagno, contrarissima alle relazioni personali sul lavoro e alle promozioni di fidanzati che sono abitudine di altri.
Lettera di Selvaggia Lucarelli a ''Italia Oggi'' di oggi, 7 febbraio 2020. Mi trovo nella surreale situazione di dover rispondere alla lettera dell' amministratore delegato del Fatto Quotidiano Cinzia Monteverdi inviata ieri al vostro giornale ma, di fatto, indirizzata a me. Dico «per ragioni oscure» perché l' articolo e i punti contestati da Cinzia Monteverdi erano, l' altro ieri, firmati del vostro valido collaboratore Claudio Plazzotta, non certo da me. La Monteverdi si è sentita in dovere di spiegare alcune mie recenti scelte lavorative (il mio passaggio sul web a Tpi) ricostruendo i miei cinque anni di collaborazione con Il Fatto a modo suo, omettendo un' infinità di passaggi fondamentali di cui non intendo scrivere pubblicamente. Mi avrebbe potuto comodamente telefonare per parlarne, io, al contrario suo, conservo quella strana abitudine di rispondere al telefono o alle mail. O di richiamare entro la stagione corrente. Mi limito dunque solo a sottolineare l' eleganza contenutistica e stilistica della lettera. Elegante, da parte della Monteverdi, ricordare i capi di imputazione del processo che mi ha vista assolta ormai anni fa (a proposito, non ero indagata, ma imputata, che poi Travaglio ci cazzia). Capisco la campagna per l' abolizione della prescrizione, ma facciamo che almeno dopo l' assoluzione il caso sia chiuso. Elegante anche il continuare a definirmi «la pubblicista» come fosse un' offesa, tipo «la scafista» e ancor di più il passaggio «sono contrarissima a promozioni di fidanzati, abitudine di altri», chiaramente riferito a Valentino Rossi, non a me. Riguardo invece la legittimità dell' antica scelta di Peter Gomez di non farmi scrivere sul sito perché imputata, ricordo che se tutti i giornalisti imputati non scrivessero sui giornali in attesa di sentenza definitiva, i giornali avrebbero la foliazione del libretto della messa. Il Fatto compreso. Non aggiungo ulteriori considerazioni, convinta che l' elegante missiva della Monteverdi spieghi i problemi al Fatto più di quanto lo possa fare qualsiasi collaboratore.
Da “il Fatto quotidiano” l'8 febbraio 2020. Caro direttore, leggo su alcuni siti online lo scambio di accuse a mezzo stampa fra l'ad del Fatto Cinzia Monteverdi e Selvaggia Lucarelli. Che succede al "Fatto Quotidiano"? Marcello Santamaria
Risposta di Marco Travaglio. Caro Marcello, càpita nelle migliori famiglie: ogni tanto qualcuno sbotta. Tantopiù nella nostra, formata da persone di carattere che - come diceva Montanelli - di solito hanno un pessimo carattere. Me compreso, s'intende. Selvaggia è con noi da cinque anni: decisi di ingaggiarla quando lessi un suo articolo su "Libero" che mi prendeva ferocemente per il culo. Mi piaceva e mi piace proprio perché scrive bene ed è stronza almeno quanto me. In più aveva un processo per aver violato dei segreti e speravo tanto che fosse vero, perché adoro i giornalisti che violano i segreti. Poi purtroppo si scoprì che era tutto falso, il che mi deluse parecchio. Ma, malgrado l'assoluzione, decisi di tenerla ugualmente. Selvaggia era già una star del web, dunque non condivisi la scelta del mio amico Peter di tenerla fuori dal sito del "Fatto" per via di quel ridicolo processo. Quel "peccato originale", da allora, innescò una catena di polemiche, tossine, tensioni e incomprensioni interne che ha coinvolto inevitabilmente anche Cinzia, nostro amministratore delegato: manager bravissima, amica geniale e paziente ma, da buona carrarina, piuttosto fumantina (come peraltro io, che carrarino non sono). Del resto solo chi sa quanto riusciamo a essere rompiballe, capricciosi e narcisi noi giornalisti (me compreso) può capire la vita d'inferno di chi amministra un giornale, soprattutto il nostro. L'altro giorno Cinzia è stata calunniata da un giornaletto con accuse personali e private tanto volgari quanto false. E non ci ha visto più: ha risposto a quell'articolo (dedicato alla nuova collaborazione della Lucarelli con un sito web) con una lettera piena di cattiverie su Selvaggia. Che le ha risposto per le rime. Al "Fatto", però, vige la separazione dei poteri: l'ad dirige la società e il direttore dirige il giornale, scegliendosi le firme migliori. Perciò sento l'obbligo di scusarmi con la nostra giornalista Selvaggia Lucarelli per quelle espressioni che non riflettono minimamente la posizione della direzione e della redazione. Finché dirigerò il "Fatto", non rinuncerò a nessuna delle firme che ho scelto perché le ritengo fondamentali al servizio dei lettori. E fra queste c'è sicuramente Selvaggia, una giornalista che in questi anni con noi è cresciuta e ci ha sempre garantito un contributo di lealtà, impegno, disponibilità, professionalità e qualità. Dunque farò di tutto perché continui a collaborare al "Fatto", ancor più frequentemente e stabilmente di quanto è avvenuto finora.
· Veronica Gentili.
Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 17 luglio 2020. «Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo? Ipocrita, rimuovi prima la trave dal tuo occhio e allora potrai togliere la pagliuzza da quello altrui», suggerì Gesù (Luca 6,41). Questo passo del Vangelo si adatta bene a Marco Travaglio, il quale qualche giorno fa ha scritto riguardo la lingua della giornalista Annalisa Chirico, la quale a suo giudizio sarebbe avvezza a leccare. Eppure il direttore de Il Fatto non si accorge che nello sport nazionale del lecchinaggio ha una campionessa in casa, Veronica Gentili. Quest' ultima si è fatta notare anni fa grazie ai suoi attacchi al leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, invettive che mandano in brodo di giuggiole i progressisti. Ad un certo punto, però, gli insulti firmati Gentili (che tanto gentile non è stata con il Cavaliere) e vomitati in tv e sulle pagine del quotidiano di Travaglio a cadenza regolare sono improvvisamente cessati e ci siamo ritrovati Veronica in diretta su Rete4 prima come ospite fissa, poi come conduttrice del programma Stasera Italia. Non abbiamo mai capito se Gentili si sia ravveduta - e succede -, cambiando dunque opinione circa Silvio, o semplicemente abbia smesso di accanirsi contro questi poiché Berlusconi è diventato il suo datore di lavoro. Certo è che Veronica si mostra mansueta adesso con Silvio. E qualche settimana fa, allorché egli era in collegamento con lo studio di Stasera Italia, la giornalista cara a Travaglio si è fatta paonazza - che tenerezza! - quando il Cavaliere con garbo le ha fatto i complimenti per la conduzione, mettendo da parte quel fiume di fiele che per anni e anni Veronica gli ha riversato addosso, rendendo felice Travaglio. Oltre agli articoli in cui Gentili inveiva quasi ogni dì contro Berlusconi e pure contro Mediaset, che ora le paga lo stipendio, componimenti di cui vi abbiamo già fornito degli stralci, vi sono post pubblicati da Veronica sui social network in cui la donna non risparmia le solite insolenze ed ingiurie alla sua vittima prediletta. Eccone alcuni, emblematici e significativi: «Il ppe (Partito Popolare Europeo) riconosce Berlusconi come unico argine possibile ai populismi. La considerazione sorge spontanea: pensate come sta messa l'Europa». (Twitter, ore 11:36 del 29 settembre del 2017). «Berlusconi si scaglia contro il mercato dei parlamentari. Con la crisi, certe spese non può più permettersele». (Twitter e Fatto, ore 8:34 del 3 novembre del 2017). «Berlusconi racconta di avere vissuto gli anni della guerra. Credo si riferisca a quella punica». (Twitter, ore 21:14 del 26 novembre del 2017). Piccolo inciso: queste pseudo-battute fanno ridere soltanto lei. «Berlusconi che chiama Grillo "vecchio comico", poi non mi venite a dire che non è simpatico». (Twitter, ore 21:28 del 26 novembre del 2017). «D'altronde che Berlusconi non vada d'accordo con gli islamici che le donne le vogliono coperte e velate è abbastanza comprensibile». (Twitter, ore 21:48 del 21 novembre del 2017). «Berlusconi: "Io sono il presente". Quello del letto accanto dice di essere Napoleone». (Twitter, ore 14:39 del 27 novembre del 2017). «Berlusconi: "Noi la difesa dei diritti delle donne ce l'abbiamo come fatto prioritario". Sto cercando "difesa dei diritti" a quale posizione corrisponda nel kamasutra». (Twitter, ore 12:54 del 6 dicembre del 2017). «Ricapitoliamo il programma di Silvio Berlusconi: un condono edilizio per le case abusive costruite sul ponte sullo stretto di Messina». (Twitter, ore 10:26 dell'8 febbraio del 2018). A distanza di qualche mese da questo suo ultimissimo cinguettio contro il fondatore di FI Veronica Gentili viene promossa co-conduttrice di Stasera Italia, Rete4. Proprio lei che disprezzava e scherniva quelle che chiamava «dipendenti di Berlusconi». Vabbè…la storia della pagliuzza e della trave…
DAGOREPORT l'8 marzo 2018. Avviso alle aspiranti tele-giornaliste: c’è una nuova, agguerritissima concorrente nel parco giochi delle opinioniste “next gen”. E’ la 35enne Veronica Gentili. Sopracciglia rigogliose alla Frida Kahlo, mascella volitiva, cipiglio rionale. Gli spettatori di La7 l’hanno già ammirata nei contenitori della rete, da “L’aria che tira” a “Coffee break”, e due giorni fa ha trovato la fama nazional-popolare grazie allo scazzo tv con Vittorio Sgarbi. Tirata su a “gauche di pollo” e spuntature di sinistra nei salotti bene della Romanella post Pci, con un padre super-dirigente Rai, la Gentili ha frequentato le aule massimaliste del Liceo Mamiani. Un passato (non glorioso) da attrice e una seconda, promettente, trasformazione in agguerrita tele-opinionista. Lanciata nel 2013 da Formigli, che ospitò un suo montante intervento (“Mi arrogo la presunzione morale di parlare per una generazione…”), è stata poi accolta da Travaglio sul sito del “Fatto quotidiano” e…a cena. Nel 2014, infatti, “Novella 2000” pizzicò i due, tete-à-tete, in un ristorante romano. Negli ultimi anni, la Gentili si è moltiplicata tra teatro, ospitate tv, radio (“I funamboli” su Radio24), una rubrica sul “Fatto quotidiano (“Facce di casta”) e seratine “hipsteriche” del circuito radical-fregnone. Alla festa del “Fatto” nel 2015 ha messo in scena le intercettazioni di “Mafia Capitale” insieme a Francesco Montanari e Claudio Santamaria. Impegno civile ma anche civettuolo se diamo un’occhiata al suo account instagram che trasuda yoga e pilates da tutti gli scatti. Gambe guizzanti, tutine strizzate e prontuario di tag da figlio dell’amore eterno in cerca di follower (“#antigravity #fitstagram #body #yogi #moodoftheday #me #girl e via taggando). E selfie, tanti selfie. A costellare un profilo smerigliato a dovere per le esigenze di tele-casting e dove nulla è lasciato all’improvvisazione. Guardare per credere, soprattutto i dettagli…
Da ilfattoquotidiano.it l'8 marzo 2018. Sono Veronica, sono romana, sono un’attrice. Mi sono diplomata all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico nel 2006 e da allora mi avventuro nella selva oscura di teatro, cinema e televisione, senza mai dimenticare un taccuino invisibile su cui annotare tutto ciò che meriti la mia attenzione. Ho scritto, diretto e recitato spettacoli teatrali nella convinzione che poche cose inducano il cervello a rilasciare endorfine come la creazione collettiva. Ho fatto della letteratura e della psicoanalisi i miei antidoti ad ogni male, terreno e non. Vivo nel mio tempo, ne sono sedotta e ne ho paura. Non credo alle interpretazioni degli eventi a compartimenti stagni, così come non credo che si possa raccontare il mondo senza prima lasciarsene permeare. Amo i collegamenti, i rimandi, le contaminazioni tra discipline. Sono convinta che l’arte abbia un andamento circolare. Intrisa di Occidente ed allopatia. Inquieta e pagliaccia. Coesistono in me Francesco Totti e Virginia Woolf. Ho recentemente aperto un blog duepuntidivista.net in cui parlo della politica che vedono i miei occhi.
Quando la Gentili definiva Berlusconi ''venditore di sogni'' per olgettine. Giuseppe Candela per Dagospia il 22 giugno 2020. Che ci facevano insieme in un bar di Roma il direttore del Tg3 Mario Orfeo e Chiara Giallonardo? Una chiacchierata intensa per il dirigente e il volto di Linea Verde e dei suoi spin off dal 2011. Dagospia pubblica la foto del loro incontro professionale, nulla di sentimentale perché i loro cuori battono in altre direzioni. Veronica Gentili quasi estasiata dalle parole di Silvio Berlusconi, lo ha lasciato monologare durante Stasera Italia News incassando anche i complimenti del leader di Forza Italia. Come si cambia per non morire di "fama"? Viene da chiederselo ripescando un video del 2013 con la bella Veronica ospite a Piazzapulita, dove veniva presentata come attrice e metteva in scena in cinque minuti un vero e proprio spettacolino contro il Cavaliere a suon di "venditore di sogni" che "ha creato una cultura basata sull'apparire" e "ha realizzato il sogno della Bonev". Così ci fa sapere che "queste ragazze sono vittime" e che "a livello processuale Berlusconi ci ha offerto tanti di quegli spunti che non sappiamo dove metterli" aggiungendo che "non si sa nemmeno più per cosa deve chiedere la grazia". Ecco il video ancora disponibile sul sito della trasmissione.
Alessandra Menzani per Libero Quotidiano il 25 giugno 2020. Come si fa ad essere amica di Marco Travaglio e contemporaneamente fan di Silvio Berlusconi? Scrivere per il Fatto Quotidiano ed essere conduttrice ormai di punta di Mediaset? Attrice e insieme giornalista? Bisognerebbe chiedere alla prode Veronica Gentili, volto di Stasera Italia prima in coppia con Giuseppe Brindisi e ora tutta sola. L'equilibrismo non le manca, sia esso una qualità o un difetto non stiamo a sindacare. Fa ancora discutere l'intervista che la conduttrice ha fatto alcune sere fa al leader di Forza Italia in collegamento su Rete 4. Dopo avergli domandato se ha avuto paura durante i giorni più acuti della pandemia (Silvio l'ha trascorsa in Costa Azzurra a casa della figlia Marina), l'argomento si è spostato sugli uomini politici e lui ha detto, senza falsa modestia: «Di leader carismatici se ne vedono ben pochi. L'ultimo che ho conosciuto ha costruito città giardino, ha creato la tv commerciale, ha vinto le elezioni e presieduto ben 3 G8». Berlusconi stava parlando di se stesso. sviolinata Il trattamento che l'anchorwoman ha riservato al fondatore del Biscione è stato molto gradito dall'ex premier, che certo non risparmia frecciate se ne sente il bisogno. Silvio l'ha ringraziata con il cuore. Lei lo guardava sognante, angelicata, e non solo per la giacca bianca che indossava. Gentili di nome e di fatto. Qualcosa di strano? Sì. Innanzitutto è noto il feeling professionale tra Veronica, penna del Fatto Quotidiano, e Marco Travaglio, che l'ha scoperta professionalmente ed uno dei nemici più accaniti di Silvio. Solo i cretini non cambiano idea: mai detto è stato così attinente, visto che i segugi di Dagospia rovistano negli archivi e scoprono gli altarini dell'ex studentessa dell'accademia di arte drammatica con la passione per lo yoga. Oggi Veronica quando vede Berlusconi è estasiata e lo lascia recitare monologhi, ma anni fa lo faceva a pezzi. In un croccante video del 2013 ripescato da Dago, nel corso della trasmissione di Corrado Formigli Piazzapulita su La7, si vede la Gentili in una recita di cinque minuti contro il Cavaliere, chiamato «venditore di sogni», uno che «ha creato una cultura basata sull'apparire» e «ha realizzato il sogno della Bonev». L'argomento erano le olgettine e lo scandalo che travolse l'ex presidente del consiglio in quei mesi, l'inchiesta Vallettopoli e compagnia cantante. Veronica ci fa sapere che «queste ragazze sono vittime» e che «a livello processuale Berlusconi ci ha offerto tanti di quegli spunti che non sappiamo dove metterli» aggiungendo che «non si sa nemmeno più per cosa deve chiedere la grazia». Probabilmente i consiglieri di Berlusconi non conoscevano l'antefatto o non lo hanno informato di quelle parole poco carine sul suo conto. Oppure lui è talmente galante che ha fatto finta di non ricordarsene. critiche sul web Ah, saperlo, direbbe Dago. Berlusconi sarà anche un venditore di sogni ma ha regalato a Veronica quello di diventare una conduttrice di primo piano, supplente ufficiale di Barbara Palombelli. Quei ringraziamenti alla giornalista hanno spiazzato non poco chi ha seguito la puntata incriminata di Stasera Italia. «Berlusconi intervistato da Veronica Gentili su Rete 4 si complimenta con lei per la conduzione», ha scritto Vittorio Feltri su Twitter, e ha concluso: «Anche Silvio ha perso la sinderesi. Siamo rovinati». A memoria, si ricordano i complimenti in diretta di Berlusconi solo a Barbara d'Urso. «Brava, brava, brava. Ancora grazie e per favore chiamatemi ancora», le disse due mesi fa. Almeno Barbara non lo aveva mai attaccato come ha fatto la collega.
Veronica Gentili su Silvio Berlusconi: il giudizio della presentatrice. Notizie.it il 26/06/2020. Nessuno sembra essere più versatile di Veronica Gentili nel suo giudizio su Silvio Berlusconi. Qualche anno fa, per la precisione il 3 agosto 2013, la giornalista scriveva ad esempio sul sito del “Fatto Quotidiano” un pezzo intitolato: “Sentenza Mediaset, irrevocabile: a prova di lupo”. Chiara era dunque l’asprezza della presentatrice di Stasera Italia su Rete4 nei confronti del suo attuale datore di lavoro. Palese inoltre il disprezzo nei confronti delle donne che lavorano per lui, le quali vennero da lei dipinte come “poco di buono” e “vendute”, come viene riportato da LiberoQuotidiano.it. Il 17 luglio 2013 l’attrice si scagliò pure contro l’ex ministro Alfano, da lei accusato di curare “gli interessi personali del cavaliere Berlusconi“. Il 22 gennaio 2014 la Gentili paragonò poi l’imprenditore milanese a Bette Davis, firmando successivamente altri articoli sarcastici come quello del 12 marzo 2015 riferito all’assolvimento del leader di Forza Italia. Oggi che appunto si trova a lavorare in Mediaset, quale sarà l’attuale giudizio di Veronica Gentili sul Cavaliere lombardo?
Giuliano Zulin per “Libero quotidiano” il 26 giugno 2020. Strano, no? In qualsiasi parte del mondo se una lavoratrice ricopre di insulti il fondatore e azionista (indirettamente) di riferimento dell'azienda per cui presta la propria professionalità, raramente rimane lì sorridente al proprio posto... Veronica Gentili, l'abbiamo raccontato in questi giorni con gli articoli di Alessandra Menzani e Azzurra Barbuto, ha speso una parte della propria vita a scrivere contumelie nei confronti di Silvio Berlusconi. Parole abbastanza definitive: «Industriale mitomane», «puzzolente», «pieno di botulino», «venditore di sogni», «insaziabile vampiro», «osceno», «cavaliere di plastilina», «lungimirante Babbo Natale che sa come comprare le donne». Eppure anche ieri sera la signora Gentili è andata in onda su Rete4 con Stasera Italia. Strano, no? Un conto sono i giudizi politici... E ci mancherebbe che un'azienda come Mediaset, la «tua scelta libera», vada a sindacare sulle opinioni dei propri giornalisti o conduttori. Sarebbe illiberale e contraria ai principi del fondatore del gruppo, nonché leader di quella Forza Italia tanto invisa al volto di Rete4. Però è singolare che la dirigenza del Biscione continui a mandare in prima serata una figura cui palesemente stava sul gozzo il Cavaliere. Se la Gentili criticasse Berlusconi per le sue opinioni sul fondo salva-Stati, sul garantismo, sulle riforme fiscali, nessuno dovrebbe permettersi di puntare il dito. Ma dire che le «gesta erotiche» dell'ex presidente del Consiglio «sono degne di un porno di serie B», è forse un boccone troppo amaro da mandare giù per la classe dirigente di Segrate, che fra l'altro è composta da persone vicinissime, se non da parenti, dello stesso Berlusconi. Ricordiamo tutti gli interventi di Marina dalle pagine del Corriere della Sera, sempre in prima fila per attaccare chi gettava fango sul padre. Contro chiunque osasse mettere il naso dentro le faccende private del leader azzurro. Ecco, una di quelle è proprio la Gentili, la quale magari avrà cambiato idea in questi anni. Può capitare. La coerenza per molti non è una virtù e comunque ognuno è libero di pensarla come vuole. Ma farsi stipendiare dall'azienda messa in piedi da un «sapiente incantatore» è quanto meno strano, no? Non è l'unica incoerente comunque. Parecchi politici e scrittori antiberlusconiani hanno pubblicato fatiche letterarie con la Mondadori. D'altronde il cuore di Silvio è grande e - come ha sempre ripetuto il Cav - «l'amore vince sempre sull'odio». Certo che ci vuole un pelo...
Veronica Gentili e Silvio Berlusconi: "Ha goduto per la condanna del Cav, ora chieda scusa". Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 30 giugno 2020. Oggi, grazie ad una intercettazione, sappiamo che Silvio Berlusconi anni fa fu condannato ingiustamente dai giudici a quattro anni di galera. E ricordo che ha scontato la pena facendo i servizi sociali. In quella occasione i giornali di sinistra, ma soprattutto Il Fatto Quotidiano esultarono: il mostro finalmente era stato punito. Le ultime rivelazioni ci fanno sapere in modo incontrovertibile che quello contro il leader di Forza Italia fu un vero e proprio complotto ordito e realizzato con la complicità delle toghe, ossia di coloro che devono applicare le leggi ed essere non solo amministratori ma anche custodi della Giustizia. Vorremmo sapere cosa ne pensa Veronica Gentili, che in quei giorni sul blog del Fatto festeggiava la condanna. Ecco uno stralcio. Titolo: “Sentenza Mediaset, irrevocabile: a prova di lupo”. Data: 3 agosto del 2013. Scriveva Gentili: “Mi torna in mente la storia dei tre porcellini che dovevano costruirsi una casa per ripararsi dal lupo: il primo la fece di paglia e quando il lupo arrivò, soffiò e la buttò giù; il secondo la fece di legno e quando il lupo arrivò, sbuffò e la buttò giù; il terzo la fece di mattoni e quando il lupo arrivò, soffiò, sbuffò, gridò ma la casa resse. Ecco, ieri, dopo vent’anni di paglia e legno, dei giudici hanno fatto quello che dice la parola stessa, hanno giudicato; e, così facendo, hanno finalmente rimesso i primi mattoni sui quali cominciare a costruire uno Stato a prova di lupo”. Gentili stasera sarà in onda, in diretta, su Rete4. Non si potrà non affrontare questo argomento di stretta attualità. Potrebbe magari cogliere l’occasione per chiedere scusa per essere stata tanto superficiale, per avere goduto di una condanna ingiusta, per avere festeggiato non la realizzazione della somma giustizia, come riteneva lei, bensì della somma ingiustizia. Più che uno “Stato a prova di lupo” fu costruito allora uno Stato a prova di avvoltoi.
Veronica Gentili, i peggiori insulti a Silvio Berlusconi: "Mitomane", "puzzolente", "osceno", "roba da porno di serie B". Libero Quotidiano il 26 giugno 2020. Nessuno è più duttile e versatile di lei, doti di cui del resto deve essere munita un'attrice, quale ella si definisce. Veronica Gentili è antiberlusconiana quando verga su Il Fatto Quotidiano e diventa berlusconiana quando si trova sotto il tetto di Mediaset, azienda contro la quale ha tuonato per anni, presa da una foga moralizzatrice degna di un giudice dell'Inquisizione, ma per la quale oggi lavora. Il 3 agosto del 2013, giusto per rinfrescarci la memoria, la paladina della giustizia scriveva sul sito del giornale di Marco Travaglio in un pezzo dal titolo "Sentenza Mediaset, irrevocabile: a prova di lupo": «Mi torna in mente la storia dei tre porcellini che dovevano costruirsi una casa per ripararsi dal lupo: il primo la fece di paglia e quando il lupo arrivò, soffiò e la buttò giù; il secondo la fece di legno e quando il lupo arrivò, soffiò e la buttò giù; il terzo la fece di mattoni e quando il lupo arrivò, soffiò, sbuffò, gridò ma la casa resse. Ecco, ieri dopo vent' anni di paglia e legno, dei giudici hanno fatto quello che dice la parola stessa, hanno giudicato; e, così facendo, hanno finalmente rimesso i primi mattoni sui quali cominciare a costruire uno Stato a prova di lupo». Non si capisce un bel niente, vero, però è palese che Veronica gongolava poiché il giorno precedente Silvio era stato condannato a 4 anni di reclusione. Gentili ricorre spesso a queste figure retoriche che non fanno altro che appesantire i suoi componimenti già tediosi. Impossibile per il lettore seguire il filo delle sue contorte elucubrazioni, costellate di parole e frasi ad minchiam, ci si smarrisce nelle pieghe di una prosa confusa, ridondante, priva del requisito minimo indispensabile allorché ci si rivolge ai lettori: la sana vecchia chiarezza. Tuttavia chiara è l'acredine di Veronica nei confronti del suo attuale datore di lavoro nonché il disprezzo verso le donne che lavorano per lui, le quali vengono dipinte quali poco di buono, vendute. Il 17 luglio 2013 l'attrice si scaglia pure contro Alfano, accusandolo di curare «gli interessi personali del cavaliere Berlusconi». Il governo Letta? È come stare «chiusi in ascensore con l'assistenza che non accenna ad arrivare. Uno dei passeggeri sprigiona dalle ascelle un afrore acre e nauseabondo, eppure non c'è modo di liberarsene. Un altro ha la nausea, ma a che pro lamentarsi delle puzze di qualcuno con cui non si può evitare di stare braccio a braccio? L'atmosfera letteralmente irrespirabile diventerebbe così anche metaforicamente irrespirabile. Tanto vale ingoiare il rospo e pazientare». Va da sé che colui che mozza il fiato sul montacarichi è Berlusconi. Certi passaggi del testo sono da premio Pulitzer.
L'OSSESSIONE. Il 12 luglio del 2013 Veronica, la quale va a dormire pensando a Berlusconi e si sveglia allo stesso modo (la sua è una autentica ossessione), è autrice dell'articolo dal titolo "Silvio e un Parlamento tutto suo". Eccone uno stralcio: «Ad un'ormai preistorica indignazione di fronte agli intrighi, ai reati, alle beghe giudiziarie e ai conflitti d'interessi di un industriale miliardario e mitomane, è rapidamente subentrata una diffusa rassegnazione all'osceno, che, quando per collusione, quando per connivenza, quando per comodità, ha trasformato in accettabile il non accettabile, fino ad arrivare all'apologia collettiva dell'indefinibile, ad opera di replicanti super partes, troppo calati nel ruolo». E di comodità che trasforma in accettabile il non accettabile Veronica se ne intende, considerato che ora che è impiegata a Rete4 ha smesso di inveire contro il "mitomane" leader di Forza Italia. Il 30 giungo del 2013 se la prende con qualche deputata forzista, di cui non inserisce neppure il nome, in segno di disprezzo assoluto: «Venerdì sera ho avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo con un'illustre esponente femminile del Pdl, eminenza grigia dell'ars oratoria della destra contemporanea. Nonostante l'ombra del processo Ruby, con la conseguente ignominiosa moralistica ipocrita condanna del suo datore di lavoro, la costringessero a quell'atteggiamento indomito e coraggioso tipico delle amazzoni berlusconiane, l'onorevole, come posseduta, ha finito per non rendersi conto di nulla. Le deve essere sfuggito che le poltroncine di legno su cui siedevano (sic!) da brave compagne di banco». E poi: «Niente, come una baccante nell'acme dell'invasamento, la mia vicina ha iniziato a rivolgere a me il rosario di insulti e anatemi che zelantemente sgranano ad ogni piè sospinto, ben attente a non fare distinzioni, le pasionarie pidielline, poco importava che io fossi un'attrice e parlassi di quanto sia ardua la resistenza ai compromessi sessuali».
LA CONFUSIONE. Il 25 giugno 2013: «Questa sembra essere la morale della favola berlusconiana: crescita, apogeo e declino di un uomo la cui vera colpa è stata la confusione tra brutto e bello». E ancora: «Con le sue gesta, erotiche e non (ma comunque mai molto diverse da un porno di serie b), con la sua astuzia luciferina ma dai contorni triviali, con il suo eterno sorriso plastificato nel lifting, con il mito del paese dei balocchi a portata di telecomando, con il suo baraccone di figuranti scolpiti nel silicone, Silvio ha per oltre un ventennio mistificato il concetto di bello e relegato nella discarica del brutto tutto ciò che non fosse furbo, patinato, paraculo e fosforescente. La cultura del vincente a tutti i costi ha infestato l'aria degli ultimi decenni di un puzzo di mediocrità che nello squallore dei festini dell'impotenza mascherata ha toccato il suo apice. Perché, anche Silvio, come il povero Macbeth, è in fondo troppo uomo, e dunque troppo mediocre». Il 3 ottobre del 2013 Silvio è «consumato tra i saloni della propria scatola cranica». Il 26 novembre dello stesso anno: «Berlusconi è stato, su ristretta e su larga scala, un venditore di sogni. L'insaziabile vampiro che ha lussuriosamente succhiato il sangue della generazione alla quale ha proposto/imposto i suoi modelli». «Ciò che avrei voluto spiegare a Biancofiore era che la disinfestazione mentale attuata dal suo datore di lavoro ai danni della mia generazione, ha bonificato il terreno delle individualità, del pensiero critico, del progetto soggettivo, e lo ha poi seminato con i mucchi di sogni ad personam, firmati dal Cavaliere in persona». Il 18 ottobre del 2013, a proposito di Michelle Bonev: «Berlusconi è un sapiente incantatore, un lungimirante Babbo Natale e sa qual è la merce di scambio per comprare qualsiasi donna: Michelle vuole il sogno. E lui le regala il sogno, il suo film. Il bisogno del suggello artistico è un cancro che può mangiare l'anima. Noi attori lo sappiamo bene Michelle ha permesso al potere di sodomizzarle l'integrità».
LA SOMIGLIANZA. Il 22 gennaio del 2014 Gentili paragona Berlusconi a Bette Davis: «Una smaccata somiglianza tra l'inquietante Bette David, eterna bambina, e il cavaliere in plastilina Berlusconi è sempre stata riscontrabile dal punto di vista somatico; le assonanze caratteriali tra la dispotica bambina prodigio e l'ostinazione pervicacemente anacronistica del leader politico si sono invece rivelate nel tempo preoccupantemente numerose». Il 26 aprile del 2014 in "Berlusconi: la mattanza del mattatore": «Eccoci al tragico epilogo del presidente operaio imprenditore cavaliere senatore Berlusconi Ingessato, contratto, stanco, il burattinaio B. è diventato troppo lento nel tirare i fili della sua stessa marionetta. Il tempo di un'interruzione pubblicitaria per cambiare idea: qualche minuto per ripassare il copione, ricevere qualche nuova imbeccata da lasciar filtrare immediatamente dall'orifizio sghembo che cerca di farsi spazio nella selva di botulino circostante, prima di avere dimenticato nuovamente qualche sia la risposta giusta». Il 12 marzo del 2015 Gentili firma un articolo sarcastico: "Berlusconi assolto, nascono nuovi ordini religiosi: carmelitane scalze, olgettine sui tacchi". Qui si interrompe la copiosa e spumeggiante produzione di Veronica contro Berlusconi. E dopo poco troviamo Gentili su Rete4, Mediaset, prima come opinionista, non molto dotata, poi come impacciata conduttrice. Ad ogni modo sostiene meglio la telecamera che la penna. E pensare che il mondo non si sarebbe accorto di questa signora aspirante tutto se non avesse denigrato Silvio nel programma Piazzapulita il 26 novembre del 2013, tacciandolo di averle spezzato i sogni. Lo stesso Silvio per cui oggi ella, "amazzone berlusconiana", lavora.
Vittorio Feltri contro Silvio Berlusconi: "Complimenti a Veronica Gentili? Ha perso la sinderesi, siamo rovinati". Libero Quotidiano il 19 giugno 2020. Siamo negli studi di Stasera Italia, il programma di Rete 4, dove nella puntata di giovedì 18 giugno l'ospite d'onore è Silvio Berlusconi, il leader di Forza Italia intervistato dalla conduttrice, Veronica Gentili. Quella Veronica Gentili che con Vittorio Feltri, eufemismo, non ha il migliore dei rapporti. E succede che al termine dell'intervista, il Cavaliere si complimenti con la Gentili per il modo in cui ha traghettato il programma. Un ringraziamento che ha fatto scattare il direttore di Libero, che ha commentato così su Twitter: "Berlusconi intervistato da Veronica Gentili su Rete 4 si complimenta con lei per la conduzione. Anche Silvio ha perso la sinderesi. Siamo rovinati", conclude Vittorio Feltri.
Perché tanto astio da parte di Libero e di Feltri?
Marco Leardi per davidemaggio.it il 3 maggio 2020. “Povera Veronica Gentili sembra isterica, sembra balorda o forse lo è, smetta di bere“. Parola offensive, spiacevoli da leggere. Tanto più perché scritte da un giornalista di assoluto calibro come Vittorio Feltri. Ieri sera, il direttore editoriale di Libero si è accanito contro la conduttrice di Rete4 con una serie di tweet pubblicati durante la messa in onda di Stasera Italia Weekend, il programma da lei presentato. La raffica di commenti sparata da Feltri non necessita di interpretazioni. Queste le parole del direttorissimo:
“Povera Veronica Gentili sembra isterica, sembra balorda o forse lo è, smetta di bere”.
“Povera Veronica Gentili, mi fa pena, mi sembra balorda: si vede che beve per darsi coraggio”.
“Veronica Gentili che mestiere fa a Rete 4, la valletta? Non ha il fisico”. Tra il giornalista e la conduttrice i rapporti si erano irreparabilmente incrinati dopo che, quest’ultima, in un discusso fuori onda trasmesso da Striscia La Notizia, aveva dato dell’ubriaco al direttore editoriale di Libero. Da parte sua, Feltri, nonostante le scuse della collega, se l’era legata al dito e le esternazioni aggressive di ieri ne sono la riprova. Nei giorni scorsi, Veronica Gentili aveva criticato le recenti affermazioni del giornalista bergamasco sui meridionali ed aveva escluso la possibilità di ospitarlo nuovamente a Stasera Italia Weekend. “Dopo il nostro scazzo epico, dopo il fuorionda, dopo che lui si è comportato molto male con me, direi che stiamo bene ognuno per la sua strada. Io non sono abituata a parlare di lui, lui spesso parla di me, ma va bene così“ aveva detto la Gentili nel corso di una diretta Instagram. Ieri, la nuove e ineleganti bordate a distanza di Feltri.
Da liberoquotidiano.it il 16 marzo 2020. Vittorio Feltri con un post pubblicato sul suo profilo Twitter critica Veronica Gentili che conduce Stasera Italia: "Cara Veronica Gentili ma sei ubriaca? Hai detto “primum vivere, deinde philosophare”, mentre si dice philosophari. Impara il latino, e dillo anche a Buttafuoco". Due anni fa Feltri e la conduttrice ebbero un accesissimo scontro dopo che la giornalista, durante il fuorionda, si era lasciata sfuggire le seguenti parole: "È talmente ubriaco che non riesce neanche a parlare: che spettacolo! Ma quanto si è ubriacato? Ma cosa c… si è bevuto?". Da lì era nato un feroce scontro tra il direttore di Libero e la Gentili.
Dagoreport il 23 febbraio 2020. Per tutta la trasmissione hanno fatto finta di non conoscersi. Si sono dati del “lei” per tutto lo speciale di “Stasera Italia weekend”, il programma di Rete 4, dedicato ieri sera al contagio in Italia del coronavirus. Lei è Veronica Gentili, conduttrice in studio, la giornalista lanciata da Marco Travaglio, nota anche per gli scontri con Sgarbi e Feltri. Lui è uno dei principali ospiti della puntata: Alessandro Vespignani, in collegamento per oltre 2 ore da Boston, professore di informatica e fisica alla Northeastern University, che disegna scenari sull’epidemia in corso. Interviene di continuo, dialogo in modo serrato con la conduttrice che lo cita a più riprese nel corso della serata (“come ci ha spiegato il professor Vespignani”, “partiamo da quello che dice il professore…” ecc). Peccato che i due siano fratelli, figli della stessa madre: Netta, già moglie del pittore Renzo Vespignani, una donna – affermava Mughini su Dagospia – “che nella cultura romana di questi anni ha avuto un ruolo non banale”.