Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2020
LA CULTURA
ED I MEDIA
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA CULTURA ED I MEDIA
INDICE PRIMA PARTE
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
In Montagna si invecchia prima.
I Nemici della Scienza.
Scienza e fede religiosa.
La contestazione…
E se il Big Bang non fosse mai esistito?
L’estinzione di massa.
Gli Ufo.
Fuori di…Terra.
Il Futuro nel Passato.
Il computer quantico.
Le Telecomunicazioni.
L’uso del Cellulare.
Un microchip sottopelle.
Cos'è un algoritmo.
Il concetto di Isocronismo.
Giaccio Bollente.
La Sfida della Scopa.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Mente sana in Corpo sano.
Il Cervello che invecchia.
Il Toccasana del Cervello.
L’Odio per i Geni.
L’Idiozia.
Il Pessimismo.
La cura dell’Ottimismo.
Passo Dyatlov. La teoria della “tempesta perfetta”: «Impazzirono per infrasuoni».
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ignoranti …e basta!
La Scuola dalla A alla Z.
La scuola degli strafalcioni.
La Laurea Negata.
Laurea…non c’è.
Cervelli in Fuga.
Studenti in fuga.
La scuola dirupata.
Concorso docenti, il grande business dei crediti e le ombre sul Concorsone.
Più bidelli che carabinieri.
Eccellenze e Metodi.
L'Università Telematica.
Università Private: Affari ed Inchieste.
I Compiti a Casa.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
"Dio, Patria, Famiglia" contro "Uomo, Mondo, Sesso".
Falsi sin dagli albori.
La crisi dei competenti.
Non è vero che…
La saggezza degli animali.
La Libertà dell’Occidente.
La Memoria: tra passato e futuro.
La prossima egemonia culturale.
Il Buonismo.
La Dolce Vita.
Gli anni Ottanta.
Il Grande Fratello.
Il Galateo.
Siamo egolatri. Ergo: Egoisti e Narcisisti.
Lo Snobbismo.
Il nostro Accento.
«Ma che dici?»
Chi uccide la Lingua italiana?
Oltre ogni ragionevole dubbio.
La libertà: uno Stato di Fatto che non è di questa Italia.
I Radical Chic.
I Tabù.
Emozione ed Amore.
Il Pianto.
Il Romanticismo contemporaneo.
Quell’irrefrenabile bisogno di costruire il nemico.
L'anziano tolga il disturbo.
Hikikomori, il fenomeno dei ragazzi che vivono al contrario e si isolano.
Gioventù del “Cazzo”.
Un popolo di Maleducati.
Fascista!
L’Odio, il Rancore, l'Invidia, l’Ingratitudine.
La Fiducia.
Gli Amici.
V per Vendetta.
Il perdono.
C’era una volta la vergogna.
Etica dell’onore.
La Cultura di Destra.
Le Figure Retoriche.
Data Palindroma.
Il 2020 è bisestile, la leggenda dietro al 29 febbraio.
I Collezionisti di…
Ladri di Cultura.
La caccia ai tesori delle navi perdute.
Per tutti Kalashnikov, per i tecnici AK-47.
La paura della “Rete”.
L'Era Digitale.
Quando si scriveva con la penna.
Le Scoperte utili ed inutili.
Fenomeno Panini.
Fenomeno Sneakers.
Il Pac-Man.
Gli Hot-Pants.
La “Gran Moda”.
La Peluria. Spettinati sopra e sotto.
Il Nome dei Marchi.
Le Righe diaboliche.
Il Mastercheff dell'800.
Cinema: Trucco ed Inganno.
Il Doppiaggio.
Il Fotoromanzo.
L'Arte e la Conoscenza.
La Storia da conoscere.
Musei. Colosseo, Uffizi e Pompei sul podio.
Arte: le 15 mostre da non perdere nel 2020.
L’Arte Nera.
I Pinocchio.
Il Mito di Zorro.
Buon compleanno, Pippi Calzelunghe.
James Bond.
I Simpson.
Artisti Anticonformisti.
Letteratura. Dal Figlio al Foglio. Il Figlio come ispirazione.
La Cultura Contemporanea? Il trash-pop-cult berlusconiano.
I Social. Lo spazio all'orda degli imbecilli.
Scrittori da Social.
Editoria: Roba mia…
Giangrande e Morselli. Quando gli editori non editano.
Cultura e /o Propaganda?
La Grafologia.
I premi Nobel.
Albert Einstein.
Alberto Arbasino.
Alberto Moravia.
Aldo Nove.
Alessandro Manzoni.
Alessandro Michele.
Andy Warhol.
Angelo Cruciani.
Antonio Ligabue.
Antonio Pennacchi.
Bansky.
Betony Vernon.
Boris Pasternak.
Bruno Bozzetto.
Charles Bukowski.
Carlo Levi.
Cechov.
Cecilia Mangini.
Cesare Pavese.
Dan Brown.
Dante Alighieri.
Diego Dalla Palma.
Dolce e Gabbana.
Donatella Versace.
Donatien-Alphonse-François de Sade.
Eduardo e Peppino De Filippo.
Emanuele Trevi.
Ennio Flaiano.
Erno Rubik ed il Cubo.
Eugenio Montale.
Eva Cantarella.
Federico Moccia.
Gabriel Matzneff.
Geco.
George Orwell.
Giacomo Leopardi.
Giampiero Mughini.
Gianni Rodari.
Gianni Vattimo.
Giordano Bruno.
Giordano Bruno Guerri.
Giorgio Forattini.
Giuseppe Peri.
Giuseppe Ungaretti.
Giuseppe Verdi.
Goffredo Fofi.
Hans Christian Andersen.
J. K. Rowling.
Johann Wolfgang von Goethe.
Leonardo Da Vinci.
Leonardo Pisano Bogollo, noto a tutti come Fibonacci.
Leonardo Sciascia.
Ludovica Ripa di Meana.
Luigi Mascheroni.
Luigi Pirandello.
Louis-Ferdinand Céline.
Malcom Pagani.
Marcella Pedone, vita da fotografa.
Marco Lodola.
Maurizio Cattelan.
Mauro Corona.
Natalia Aspesi.
Oliviero Toscani.
Oscar Wilde.
Patrizia Cavalli.
Patrizia Valduga.
Pier Filippo d’Acquarone.
Piero ed Alberto Angela.
Primo Levi.
Robert Schumann.
Roberto Capucci.
Roberto Cavalli.
Sergio Lepri.
Sibilla Aleramo.
Steinback e Silone, i punti in comune di due cantori diseredati.
Thomas Mann.
Totò.
Valentino.
Van Gogh, il modernissimo.
Vittorino Andreoli.
Vittorio Sgarbi.
Zadie Smith.
Mai dire Influencer.
INDICE TERZA PARTE
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Morte dell’informazione.
Siete sicuri che è informazione?
“Professione: Odio”.
La Stampa condannata.
Il quarto grado a Quarto Grado.
Il nefasto Politicamente corretto partigiano.
La Doppia Morale.
La Censura.
Ecco la Tv del nulla.
Gli Opinionisti.
Tv-Truffa: Nulla è come appare.
Sulle spalle dei contribuenti.
Le Fake News.
L’Albo della Gloria.
Le redazioni partigiane.
Emmy Awards & Company 2020. I premi dei partigiani.
La Cnn e la tv del futuro.
Dicembre 1975, così nacque Radio Radicale.
La rivoluzione mancata di TeleBiella.
Novella 2000: 100 anni.
L'Espresso, 65 anni: partigiano.
Il decimo anno di Instagram.
Il metodo Iene.
Le "signorine buonasera".
Alda D' Eusanio.
Alessandra Ghisleri.
Alessio Orsingher e Pierluigi Diaco.
Alessio Viola.
Andrea Scanzi.
Anna Billò.
Augusto Del Noce.
Barbara Palombelli.
Bernardo Valli.
Bianca Berlinguer.
Bruno Vespa.
Daria Bignardi.
Emilio Fede.
Fabio Fazio.
Fausto Biloslavo.
Federica Sciarelli.
Franca Leosini.
Francesca Baraghini.
Furio Colombo.
Gad Lerner.
Gavino Sanna.
Gianni Minà.
Giovanna Botteri.
Giovanni Floris.
Giovanni Minoli.
Giuseppe Cruciani.
Josephine Alessio.
Ilaria D'Amico.
Luca Abete.
Mario Giordano.
Maurizio Costanzo.
Michele Santoro.
Mimosa Martini.
Monica Maggioni.
Nicola Porro.
Paolo Brosio.
Paolo Del Debbio.
Paolo Guzzanti.
Roberto D’Agostino.
Rino Barillari.
Selvaggia Lucarelli.
Veronica Gentili.
LA CULTURA ED I MEDIA
SECONDA PARTE
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)
· "Dio, Patria, Famiglia" contro "Uomo, Mondo, Sesso".
"Dio, Patria, Famiglia" contro "Uomo, Mondo, Sesso": lo scontro finale. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 13 luglio 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
Nell’effervescente ambito cattolico “conservatore” sono ormai all’ordine del giorno i riferimenti ai tempi apocalittici che staremmo vivendo, in una sorta di resa dei conti tra “i figli della luce e i figli delle tenebre” come ha scritto recentemente Mons. Viganò a Donald Trump. L’approccio spirituale è destinato ai soli credenti, tuttavia, vale senz’altro la pena di affrontare il discorso laicamente, dal punto di vista culturale, storico e sociologico, constatando come nel mondo si stiano effettivamente confrontando due enormi e coerenti sistemi di pensiero che agglomerano diversi e opposti “ismi”. Sostanzialmente, da un lato sopravvive una mentalità che affonda le proprie radici nella cultura cristiana e, parzialmente, in una antichissima e affine “morale naturale” tradizionale. Dall’altro lato, una mentalità antagonista, per molti versi nuovissima e tecnologica che, invece, parte dal volontario e militante rifiuto di tutto ciò che afferisce alla prima. Possiamo quindi senz’altro individuare uno scontro titanico fra una “cultura cristica” e una “cultura anti-cristica” senza per questo entrare nell’ambito religioso, né affibbiare giudizi di merito all’una o all’altra. I due schieramenti sono evidenti solo da poco: durante il ‘900 infatti, le grandi ideologie sono state dei macro-contenitori in cui si mescolava un po’ di tutto: giustizia sociale, conservazione, rivoluzione, patriottismo, tradizione, solidarismo, insomma, una gran confusione, dove ognuno ha preso o tolto qualcosa dal Vangelo inserendolo a piacimento nel proprio costrutto ideologico. Crollati fascismi e comunismi, tutto si è separato, coagulandosi in modo spontaneo come acqua e olio. Agli antichi valori spirituali di Dio, Patria, Famiglia, si oppongono, oggi come non mai, quelli materialistici dell’Uomo, del Mondo e del Sesso. Abbiamo quindi una squadra “rossa” che lega progressismo, mondialismo, europeismo, immigrazionismo, pacifismo, antimilitarismo, disarmismo, genderismo, femminismo, omosessualismo, antifascismo, ateismo, diritti civili, aborto, eutanasia, ecologismo, animalismo … Contro una squadra “bianca” che assorbe piuttosto sovranismo, patriottismo, tradizione, religione, istanze pro-vita e pro-famiglia, e persino la difesa di una dieta onnivora e della caccia. Per certi versi, si potrebbe riprendere in esame la dicotomia fra “pensiero forte” e “pensiero debole” di vattimiana memoria, ma in questa breve disamina ci limiteremo a individuare le due posizioni in relazione alla cultura cristiana, fondativa dell’Occidente, dato che, citando la notissima frase di Croce, “non possiamo non dirci cristiani”. Il progressismo, in generale, rifiuta l’idea di un Dio che agisce nella storia umana e di un uomo che, nella sua evoluzione, deve attenersi all’esperienza storica, ai principi-base della Creazione e all’ordine naturale delle cose di cui fanno parte le società naturali della patria e della famiglia. I sostenitori del mondialismo, de facto, respingono quest’ordine soprattutto nell’”antiquato” concetto di stato-nazione che è, invece, da parte sua strettamente legato alla storia occidentale cristiana, basti pensare al diritto divino di re e imperatori, incoronati per secoli dal papa. La costruzione degli stati ha spesso comportato la guerra, concetto che il pacifismo disconosce in blocco e che invece, nella dottrina cristiana - per l’autodifesa e la protezione dei deboli - è del tutto lecita, anzi doverosa. Chi avesse dubbi può consultare il Catechismo all’art. 2264-5: “Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale. […] La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l'ingiusto aggressore in stato di non nuocere”. Dal pacifismo discende, logicamente, il rifiuto di tutto ciò che è militare, riferito alle armi e all’autodifesa e quindi anche all’idea di far rispettare con la forza i confini nazionali. La posizione “per i ponti, contro i muri” è, così, in buona parte condivisa dagli europeisti i quali, del resto, supportano una costruzione tecnico-finanziaria sovranazionale che ha esplicitamente negato qualsiasi riferimento all’eredità cristiana. Non è un caso che, caldamente europeisti, siano quasi sempre i sostenitori dell’immigrazionismo, i quali respingono il concetto di un’identità nazionale da difendere anche dal punto di vista etno-antropologico e, con essa, anche un’identità religiosa che non reputano degna di essere salvaguardata. Legate a filo doppio con l’immigrazionismo, sono diverse istanze antirazziste improntate a una continua ricerca di memoria, giustizia e risarcimento, escludendo però dal proprio orizzonte il “perdonare le offese” tipicamente cattolico. Contro il “maschio bianco, etero, cristiano e colonizzatore”, anche il femminismo che boccia senza appello la distinzione fra le diverse caratteristiche e ruoli dei sessi – nella pari dignità - che invece appartiene da sempre al Cristianesimo. Sulle innovazioni relative alla sessualità, alla vita e ai bambini, fulcro della creazione, lo scontro diventa poi incandescente. Il genderismo rigetta l’idea che l’uomo debba accettare il corpo ricevuto da Dio, (il quale sarebbe, peraltro, solo un involucro per l’anima in vista della vita eterna) e viceversa, ritiene che, grazie alla chirurgia, possa riplasmarlo decidendone perfino il genere. L’omosessualismo, dal canto suo, propone una radicale alternativa alla concezione religiosa e tradizionale di amore e matrimonio, improntata alla complementarietà biologica dei sessi, volta alla costruzione di una famiglia naturale. Significativo quanto scriveva l’ideologo gay Mario Mieli: “La lotta per il Comunismo deve manifestarsi oggi anche quale negazione della Norma eterosessuale che è funzionale alla sussistenza del dominio del capitale sulla specie umana”. Mieli aggiungeva anche che uno degli obiettivi di questa liberazione doveva essere “la realizzazione di rapporti gay in grado di generare in un nuovo modo”. Infatti, proprio sulla generazione della vita emergono due percorsi inversi: la squadra rossa ritiene, sostanzialmente, che “i genitori abbiano diritto ai bambini” mentre quella bianca, piuttosto, che “i bambini abbiano diritto ai genitori”. Non è un caso che alcune frange della sinistra politica siano possibiliste sull’“utero in affitto”, opzione respinta con orrore dalla destra. Sempre in tema, i sostenitori dell’aborto e dell’eutanasia rifiutano la sacralità della vita umana e ritengono di essere in diritto di interromperla nelle sue fasi iniziali e finali, in alcuni casi. Sul rispetto della vita animale e dell’ambiente, sono invece non di rado intransigenti gli animalisti-antispecisti, gli ambientalisti e i vegani che si oppongono al ruolo dell’uomo cristiano “amministratore del creato”, libero di servirsi (pur col dovuto rispetto per l’opera di Dio) degli animali e della natura per i propri bisogni essenziali, tra cui la nutrizione. Sostanzialmente, le due grandi squadre bianca e rossa partono da due assunti opposti: o Dio ha fatto l’uomo, o l’uomo ha fatto Dio. Nel secondo caso, l’uomo è misura di tutte le cose e quindi può legittimamente riformulare costumi, scelte, abitudini e valori in base alle contingenze e alle necessità del suo tempo. Nella squadra rossa compaiono spesso delle istanze che all’origine sarebbero anche lecite in una visione cristiana, ma che vengono estremizzate: l’amore per il prossimo diviene socialismo, quello per il creato ambientalismo, il desiderio di pace si muta in pacifismo, l’anelito alla genitorialità si spinge fino all’impiego della tecnologia per ottenere figli in “nuovi modi”, e così via secondo quello che il Catechismo definisce “perverso attaccamento a certi beni”. Ecco perché, ancora una volta, la squadra bianca e la rossa si rivelano del tutto incompatibili e avversari “finali”. Quindi, non c’è nulla di strano nel parlare laicamente di un vero scontro “apocalittico” in corso, né di istanze coerentemente “cristiche e anticristiche”. Nessuno ha motivo di offendersi. Il confronto tra questi due versanti è palese e ognuno scelga liberamente in quale riconoscersi ed eventualmente militare, facendo salve, per adesso, alcune “personalizzazioni”. E’ infatti vero che abbiamo alcuni sovranisti animalisti oppure favorevoli alle unioni civili, così come alcuni progressisti contrari all’omosessualismo o al mondialismo, ma sono commistioni “da zona di confine” con peso limitato e con un futuro reso sempre più incerto dal progressivo radicalizzarsi dello scontro. La logica interna alle due posizioni, infatti, di corollario in corollario, nel tempo diverrà sempre più stringente e richiederà agli individui una sempre più netta scelta di campo: o coi bianchi, o coi rossi. I credenti direbbero: o con Cristo, o contro Cristo, ma anche dal punto di vista laico-culturale, sarà più o meno lo stessa.
· Falsi sin dagli albori.
Ulisse, l’uomo dai mille volti. L’ambiguità di Ulisse sarebbe dovuta, secondo Omero, a una doppia eredità trasmessagli dagli antenati: l’invincibilità in guerra del padre Laerte, la fama di ladro abilissimo e di spergiuro del nonno materno Autolykos. Lauretta Colonnelli il 26 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. «Gli dei hanno voluto la guerra di Troia perché gli aedi avessero di che cantare», disse Demodoco, il poeta cieco che addolciva le serate alla corte di Alcinoo, re dei Feaci. La guerra era durata dieci anni, alla fine Troia era stata distrutta. Gli Achei avevano preso la via del ritorno. Si sapeva che alcuni erano arrivati alle loro case, che altri erano morti lungo la strada. Solo di Odisseo non si avevano più notizie. Erano trascorsi altri dieci anni dalla fine della guerra quando Nausicaa, la figlia di Alcinoo, lo vide apparire nudo e coperto di sale sulla riva del mare. Accolto dal re nel suo palazzo, la sera stessa il naufrago sentì Demodoco, accompagnato dalla cetra, cantare le imprese degli eroi sotto le mura di Troia e le avventure dei sopravvissuti durante i loro nostoi, i ritorni. Odisseo si commosse e, vergognoso di piangere davanti ai Feaci, nascose il volto tirandosi sul capo il mantello di porpora. Alla fine riprese lui stesso il racconto, dove Demodoco l’aveva interrotto perché oltre non conosceva, e narrò le disavventure incontrate nel suo lungo e difficile viaggio verso Itaca. L’episodio, narrato nell’ottavo canto dell’Odissea, fu ripreso nel 1814 dal pittore Francesco Hayez in una tela grandissima, di tre metri e mezzo per quasi sei, che gli era stata commissionata da Gioachino Murat al tempo in cui fu sovrano di Napoli. Nel quadro, conservato nel Museo nazionale di Capodimonte, si vede in primo piano Demodoco che canta e suona la cetra; Odisseo che si copre il viso con il mantello; Alcinoo che, seduto accanto a lui, sente i suoi «singhiozzi profondi» e stende la mano per chiedere al cantore una pausa. Secondo la tradizione, la fortuna che l’Odissea avrebbe avuto nella cultura occidentale rispetto all’Iliade sarebbe cominciata proprio dal racconto di Odisseo e dal suo tortuoso peregrinare per il Mediterraneo: un percorso che si annoda come un labirinto lungo le coste meridionali della penisola italica. Per secoli gli studiosi si sono impegnati a identificare i siti citati da Omero, che potrebbero essere immaginari: la terra dei ciclopi e l’isola del Sole con la Sicilia; la reggia di Eolo, che donò a Odisseo l’otre in cui erano imprigionati i venti contrari alla navigazione, con l’isola di Stromboli, i gorghi marini abitati dai mostri di Scilla e Cariddi con lo stretto di Messina; la grotta della maga Circe, che trasformò i compagni di Odisseo in maiali, con il promontorio del Circeo; l’ingresso all’Averno, il regno dei morti dove Odisseo incontrò l’indovino Tiresia, nel lago Averno vicino a Pozzuoli; l’isola delle sirene nel golfo di Salerno. La fortuna di Odisseo, che i Latini avrebbero poi chiamato col nome di Ulisse, in uso ancora oggi, si deve anche ad altri motivi. Che sono ben raccontati nella mostra «Ulisse, l’arte e il mito» (catalogo Silvana Editoriale), aperta fino al 31 ottobre nei Musei di San Domenico di Forlì, dove sono esposte ceramiche greche e dipinti e sculture, che dal tempo dei Romani ai nostri giorni illustrano le storie raccontate nell’Odissea. Uno dei motivi della fortuna di Ulisse è che il re di Itaca, al contrario degli altri eroi che andarono a combattere sotto le mura di Troia, non aveva un volto solo, ma tanti, e spesso in contraddizione tra loro. Non possedeva soltanto le virtù guerriere di Achille e Aiace, di Agamennone e Menelao e di tutti gli altri campioni achei. Ulisse, raccontava Omero già nell’Iliade, era prima di tutto polytropos, cioè versatile. Contraddittorio nel fisico e nel carattere. Aveva un corpo minuto, e tuttavia imponente, largo di spalle. Incerto e goffo nell’andare, agile però nell’eloquio «quando faceva uscire dal petto la voce profonda, e le parole come fiocchi di neve». Era forte sul campo di battaglia, dove venne ferito e soccorse guerrieri più forti di lui. Ma era ancor più abile nelle sortite notturne in campo nemico e nelle azioni che richiedevano astuzia e capacità d’inganno, come quella usata per far entrare dentro le mura di Troia il grande cavallo di legno che ne decretò la caduta. Era un aristocratico, ma pronto a trasformarsi in un convincente uomo politico, quando si trattava di dirimere questioni all’apparenza irrisolvibili. Omero sembra attribuire questa doppiezza a una doppia eredità trasmessagli dagli antenati: l’invincibilità in guerra del padre Laerte, la fama di spergiuro e di ladro abilissimo del nonno materno Autolykos. Furono soprattutto le sue imprese come signore degli inganni ad affascinare gli antichi. L’impresa più eclatante dell’Ulisse ingannatore, che scatenò la fantasia dei ceramisti arcaici tra il settimo e il quarto secolo prima di Cristo, fu l’accecamento di Polifemo, e la successiva fuga dalla grotta del ciclope con i compagni legati sotto il vello dei suoi arieti. In seguito l’attenzione degli artisti si spostò verso i racconti che costellarono le opere e i giorni di Ulisse: le sue relazioni con le donne che cercarono di trattenerlo e di fargli dimenticare il viaggio: le sirene, la maga Circe, la dea Calipso; e i rapporti con le donne che lo aiutarono, come la candida Nausicaa; e la nostalgia per la moglie Penelope. L’evolversi delle rappresentazioni di questi episodi nell’arte vanno di pari passo con le mutazioni del giudizio verso l’eroe e le sue azioni. Talvolta fosche ombre ne oscurano la fulgida figura: accadde già nel corso del V secolo avanti Cristo, quando si identificò l’Ulisse politico con il peggio della demagogia che aveva avvelenato la storia ateniese dell’età di Pericle, e la sua capacità retorica celebrata da Omero divenne marchio d’infamia. Nella schiera dei demagoghi lo collocò Euripide, per bocca di Ecuba: «demagoghi, razza d’ingrati, in caccia solo del favore popolare». E tra i demagoghi, la regina sconfitta di Troia giudica Ulisse il peggiore: «un immondo imbroglione, un nemico della giustizia, un mostro senza legge che stravolge ogni cosa con la sua lingua biforcuta». Sofocle fa diventare l’eroe di Itaca addirittura un vigliacco, un freddo manipolatore che si approfitta dell’ingenuità del prossimo, ma è pronto a scappare di fronte all’ira dei raggirati. Per Virgilio, che lo affronta dal punto di vista del troiano Enea, è il più spregevole e pericoloso degli Achei. Questa ambiguità accompagnerà Ulisse attraverso i secoli successivi fino al Medioevo, quando gli scrittori paleocristiani vedono nella sua nave il simbolo della Chiesa, strumento della Salvezza, alla quale il capitano si fa legare per sottrarsi alla tentazione delle sirene, sintesi di ogni lussuria e adulazione: ed ecco spiegata la presenza della figura di Ulisse sui sarcofagi cristiani. A traghettare definitivamente l’eroe di Itaca nell’età moderna sarà Dante Alighieri, che lo incontra all’inferno dentro la fiamma crepitante e squassata dal vento, e inventa per lui una fine inedita: il naufragio oltre le Colonne d’Ercole, oltrepassate per conoscere il «mondo sanza gente». Nell’oceano sconosciuto e immenso la sua nave si inabissa: «Tre volte il fè girar con tutte l’acque / a la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù com’altrui piacque / infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».
Il mare che sigilla per sempre l’ultima avventura di Ulisse punisce il suo peccato di hybris, la superba volontà di conoscere. Eppure le parole che Dante fa dire a Ulisse per convincere i compagni a prendere ancora una volta la strada verso l’ignoto preannunciano i viaggi e le scoperte del successivo millennio, e porteranno gli esploratori verso nuovi mondi: Marco Polo in Cina, Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci verso le Americhe, il Capitano Cook verso l’Australia, Magellano a circumnavigare il globo terrestre per decretare la fine del terrapiattismo, gli astronauti a volare nel cosmo. Perché, avverte Ulisse, «fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza».
· La crisi dei competenti.
Non capisco chi va a dimostrare. I loro problemi li manifestano in piazza: a chi?
Alla stampa omertosa? Ai politici menefreghisti? Ai colleghi di sventura che pensano a risolvere la loro personale situazione?
Non basta una buona rete sul web per far sentire la nostra voce?
Chi ha votato, si rivolga al suo rappresentante in Parlamento, affinchè tuteli il cittadino dai poteri forti.
Chi non ha votato, partecipi con altri alla formazione di un movimento democratico e pacifista per poter fare una rivoluzione rosa e cambiare l’Italia.
"Io so di non sapere". Il problema è che, questo modo di essere, adesso è diventato: "Io so di non sapere e me ne vanto". Oggi essere ignoranti è qualcosa di cui vantarsi. Prima c’erano i sapienti, da cui si pendeva dalle loro labbra. Poi sono arrivati gli uomini e le donne iperspecializzate, a cui si affidava la propria incondizionata fiducia. Alla fine è arrivata la cultura “fai da te”, tratta a secondo delle proprie fonti: social o web che sia. A leggere i saggi? Sia mai!
Vittorio Feltri contro gli "stupidi in circolazione": " Ti portano al loro livello e poi ti battono con l'esperienza". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 17 ottobre 2020. Il luogo comune, la frase fatta, il giudizio preconfezionato. Ma anche il dilettantismo, la arroganza, la superficialità. Miscelate questi ingredienti micidiali e otterrete un ritratto attendibile della nostra società, rincretinita dai social network. A che serve oggi una laurea in medicina o in giurisprudenza? A niente. C'è internet. Siamo tutti chirurghi, avvocati e commissari tecnici della nazionale di calcio. L'analisi della realtà, da condursi con i propri neuroni e magari con i propri occhi, non va più di moda. Ci sono migliaia di opinioni a disposizione in Rete. Basta prenderne una, adattarla e via. Un esempio dalla cronaca. Ricordate, qualche settimana fa, il caso di Willy, il ragazzo di colore ucciso a botte da alcune teste vuote? Nella opinione pubblica, produsse una grande impressione il fatto che gli assassini avevano muscoli pompati in palestra e praticavano arti marziali. Libri, dischi, giornali, serie televisive e varietà promuovono la superficialità, la volgarità, l'arroganza, il consumismo, la celebrità, il culto del denaro ma il dibattito si ridusse al solito dilemma: i killer erano fascisti? Certo. Gli opinionisti decisero che essi erano "oggettivamente" fascisti anche qualora non avessero mai sentito parlare di Benito Mussolini. Per quale motivo? Perché è più facile nascondersi dietro a vecchie discussioni piuttosto di mettere in discussione sul serio il nostro stile di vita, promosso proprio dai media sui quali si esibiscono i commentatori. Di questo passo, però, non si va molto lontano. Infatti, tra le "geniali" proposte per risolvere il problema, qualcuno ha suggerito di chiudere le palestre per ridurre la violenza. Ma allora, per combattere l'obesità, che dovremmo fare, chiudere i supermercati? Il Diario della capra (Baldini+Castoldi) di Vittorio Sgarbi colleziona, giorno dopo giorno, in una utile agenda dell'anno scolastico 2020-21, le migliori battute che fanno saltare gli schemi della stupidità. Eccone qualcuna. Giosuè Carducci: «Colui che potendo esprimere un concetto in dieci parole ne usa dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni». Andrea Camilleri: «Adoro chi osa. Odio chi usa». Marcello Marchesi: «Due parallele si incontrano all'infinito, quando ormai non gliene frega più niente». Oscar Wilde: «L'amore è un malinteso tra due pazzi». Ennio Flaiano: «Si battono per l'Idea, non avendone». Cinque però non bastano, ce ne vuole almeno un'altra di quel gran poeta di Charles Bukowski: «Quando si tende a fare le cose che fanno tutti gli altri, si diventa come tutti gli altri». Il vero maestro, però, nell'arte di individuare un cretino è stato l'economista Carlo Cipolla (1922-200), autore di Leggi fondamentali della stupidità umana, un saggio fondamentale che trovate nel volume Allegro ma non troppo (Il Mulino). Cipolla aveva familiarità con la spiccata tendenza dei suoi colleghi a formulare previsioni "scientifiche" sull'andamento dei mercati. Ignorate, purtroppo, dai mercati stessi. Ne trasse alcune osservazioni importanti, che diventarono appunto leggi. Eccole, un po' rimaneggiate per motivi di spazio. senza misura Prima: sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione. Cosa gravissima: giorno dopo giorno siamo condizionati in qualunque cosa che facciamo da gente stupida che invariabilmente compaiono nei luoghi meno opportuni. Impossibile stabilire una percentuale, dato che qualsiasi numero sarà troppo piccolo. Seconda: la probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della persona stessa. C'è in giro gente brillante in un settore, e irrimediabilmente cretina in tutti gli altri. Inoltre non ci sono differenze di ceto, razza o sesso che tengano. I bidelli sono cretini come i professori. Le donne come gli uomini. I neri come i bianchi. La percentuale è sempre stata e sempre sarà altissima. Terza (ed aurea): una persona stupida è una persona che causa un danno ad un'altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita. Si capisce dunque che il tipo di deficiente più pericoloso è il politico, che dispone degli strumenti necessari per colare a picco una intera nazione. Quarta: le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. Non si rendono conto, stupidamente, che associarsi a un cretino ha sempre conseguenze disastrose e anche costose. Pensano di risolvere il problema con l'intelligenza. Non funziona così. La stupidità crea danni immediati e irrimediabili. Quinta: la persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista. In aggiunta, è anche il più imprevedibile. Lo stupido ti coglie sempre di sorpresa e questo gli conferisce un grande vantaggio. Inoltre ti porta al suo livello e poi ti batte con l'esperienza, come già sostenuto da Oscar Wilde. Provate ad applicare queste leggi con regolarità e vedrete che spiegano il mondo.
La crisi dei competenti: «Fin qui tutto male, ma può peggiorare. Lo dice la Storia». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2020. Per non venire spiazzati dal tatticismo del titolo, che potrebbe far pensare a un tardo racconto della disfatta degli intellettuali di sinistra, il nuovo libro di Raffaele Alberto Ventura, Radical choc (Einaudi) va letto da destra verso sinistra: «choc radicale». Perché è uno choc ed è radicale lo stravolgimento che sta investendo i competenti, ossia i dispensatori di quelle risposte pertinenti che generano sicurezza, favorendo lo sviluppo. Ascesa e caduta dei competenti sono inserite in un quadro agilmente vasto: dal filosofo arabo del 1300 Ibn Khaldun, con le sue intuizioni sul rapporto tra centro e periferia e la guerra simbolica per il prestigio sociale, fino al nazismo come apoteosi della macchina-Stato omicida, animata da un populismo che ha realizzato la modernità azzerando la democrazia. In mezzo, il Medioevo, l’Umanesimo e gli Stati moderni, la cui Bibbia è Il Leviatano poiché lo Stato nasce come patto postbellico.
I riferimenti pop e la fine di Hubert. Il libro, già al centro di La guerra di tutti (saggio che ha seguito l’esordio di Ventura nel 2017, Teoria della classe disagiata ), qui dialoga con il famigerato La burocratizzazione del mondo, del trozkista Bruno Rizzi: il libro già nel 1939 svelava le similitudini tra nazismo e stalinismo e, benché clandestino, ispirò Guy Debord (e indirettamente George Orwell) per La società dello spettacolo (1967): lo statalismo con la burocrazia e il capitalismo con la divisione del lavoro sono al servizio di una stessa ideologia economica che, con la maschera dello Spettacolo, domina la società con scopi razionali (sviluppo) ed effetti irrazionali (alienazione). I riferimenti pop di Ventura, funzionali a storicizzare il presente, vanno da Voltron, cartone animato Anni 80 che ricorda il Leviatano, al film L’odio (1995), con la frase «fin qui tutto bene» di Hubert che sta cadendo da un palazzo: finché non si sfracella può dirlo. Ventura invece sostiene: fin qui tutto male, ma può peggiorare, lo dice la Storia.
I costi di manager, burocrati e intellettuali. Il popolo che abita le periferie e la campagna si ribella alle élite del centro e della città quando i costi dei competenti superano i benefici (avviene non solo per la crisi economica, ma per la concorrenza interna e per la complessità delle macchine che manager, burocrati, intellettuali e impiegati devono oliare). Le rivolte, che porteranno ad altri paradigmi, spingono su leader che parlano in nome del popolo. Trump, Brexit, 5Stelle, Lega... Ecco il primo choc. Ma — secondo choc — il popolo tanto sovrano non è se la politica si fa commissariare dai tecnici, per debolezza cognitiva o alibi, mentre i tecnici stressati dall’urgenza e dalla paura di sbagliare nella propria sfera di competenza esasperano il principio di precauzione, invadendo altre sfere. La perdita di sovranità avviene anche dove non c’è dittatura: basta il regime di urgenza, com’è avvenuto in Italia.
Tecnopopulismo o il capitalismo di Stato. Gli scenari sono due: il tecnopopulismo o il capitalismo di Stato. In entrambi, la modernizzazione vuole risposte accelerate (ansia da vaccino) e meno democrazia (insofferenza per i partiti). Cosa fare? Servono competenti con un migliore equilibrio tra costi e benefici, tra centro e periferia: meno polarizzazione. Altrimenti i populisti dilagheranno, sostiene Ventura, che abbiamo intervistato.
Nel libro gli intellettuali di oggi hanno uno spazio marginale. Cita il filosofo Giorgio Agamben, che sul blog ha scritto della «supposta epidemia» sfiorando il negazionismo. Aggiungo: l’opinionista tv Andrea Scanzi prima sbeffeggia chi considera il Covid una malattia mortale e poi scrive un best-seller contro I cazzari del virus ; infine Sgarbi, critico d’arte, leader no-mask. La competenza è un optional?
«Sono esempi diversi. Il problema nel caso di Agamben, di cui rispetto l’allarme sui rischi della democrazia legati allo stato di emergenza, è la facilità di accesso a mezzi digitali che gli hanno permesso di intervenire subito su un tema in evoluzione. La macchina, la possibilità di comunicazione istantanea favorisce errori».
Il prestigio dei competenti oggi deve fare i conti con gli influencer, la cui legittimità non viene tanto da titoli, ma dalla capacità di farsi seguire. Alcuni virologi e scienziati sui social sembrano aspiranti influencer.
«Gli influencer hanno il pro di far emergere outsider, rappresentanti di minoranze prima escluse, senza dover passare da accademie o istituzioni. Io stesso arrivo dal web, non dall’università. Sono autocritico allora se dico che i social network e media hanno un meccanismo disfunzionale, il like cresce anche se causi un litigio, infiammi un dibattito violento, riporti un contenuto negativo. Gli incentivi funzionali portano a effetti positivi sulla società, quelli negativi no, sono perversi. E penso al ruolo di reclutamento politico via web, che ha ottenuto anche risultati qualitativi inferiori persino al sorteggio».
Nel libro scrive di società iatrogena, dove le cure producono effetti collaterali negativi, a volte persino patologie. Cita l’ospedalizzazione che accelera la diffusione del virus, ma pure la radicalizzazione di islamici dovuta a infiltrati dell’antiterrorismo. Come evitare di cadere nella dietrologia complottista?
«Mi interessa mostrare com’è realmente possibile diventare cospirazionisti, anche per evitarlo: la società è ossessionata dal controllo ma non riuscendo a controllare tutto crea disfunzioni. Io le analizzo per togliere moralismo, alibi, non c’è alcun cattivo che sta controllando tutto, ma ci sono strutture e burocrazie così complesse che producono pasticci che forniscono dati reali a chi crede alla dietrologia. Capire le ragioni di chi pensiamo abbia torto, populisti o complottisti, è importante, non dobbiamo avere paura, sennò abbiamo già perso».
Raffaele Alberto Ventura, nato nel 1983 a Milano, vive a Parigi, dove collabora con il Groupe d’études géopolitiques e la rivista Esprit. Sul web si è imposto con il nome di Eschaton. Il nuovo saggio Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, conclude la «trilogia del collasso» iniziata con la Teoria della classe disagiata (2017) e La guerra di tutti (2019), entrambi editi da minimumfax.
· Non è vero che…
Da buzzfeed.com il 18 settembre 2020.
1. Rasarsi i peli non li fa ricrescere più duri. I peli rasati sembrano più spessi perché non hanno più la punta affusolata. Sono le loro estremità affilate e spuntate a dare quella sensazione “tozza”.
2. I capelli e le unghie non continuano a crescere quando moriamo. Molte persone credono che accada perché quando si muore la pelle si restringe, così da far sembrare le unghie e i capelli più lunghi di quanto realmente sono.
3. Tingersi i capelli non li fa ingrigire più rapidamente. I capelli grigi arrivano quando il pigmento della melanina, che conferisce il colore ai capelli, si deteriora. Le tinte non influenzano affatto questo processo biologico, ma lo stile di vita, lo stress e altri fattori invece possono farlo.
4. Se toccate un cucciolo di uccello, la madre non lo abbandonerà. Gli uccelli non hanno molto olfatto a causa delle loro piccole narici, per cui il vostro odore non farà abbandonare alla madre i suoi piccoli.
5. I ragni gambalunga sono effettivamente velenosi. Questo ragnetto apparentemente innocuo è velenoso ma con i suoi morsi non può attraversare la pelle umana.
6. Le rane o i rospi non fanno venire le verruche. Nonostante la loro pelle verrucosa, entrambi questi animali non vi provocheranno nulla. Le verruche in effetti sono causate dal papilloma virus o dall’HPV.
7. La vagina “sformata”. Non è vero che una vagina "larga" sia andata per forza a letto con molte persone. Per loro natura, i muscoli vaginali si rilassano espandendosi quando vengono eccitati, per poi tornare a restringersi. Per quanto sesso si possa fare non sarà mai abbastanza da farle allargare in maniera permanente.
8. E già che ci siamo… quella che chiamate “vagina” non è affatto una vagina. La vulva comprende la parte pubica, il clitoride e il suo cappuccio; le labbra, l’uretra e infine l’apertura vaginale. La vagina è perciò solo quella parte che collega la parte esterna dei genitali a quella interna: la cervice e l’utero.
9. Dormire con I capelli bagnati non vi farà venire il raffreddore. Detto in poche parole, i raffreddori sono causati dai virus. Ad goni modo, non va fatto.
10. La Grande muraglia cinese non si può vedere dallo spazio. L’occhio nudo non può vedere la Grande muraglia, nemmeno a bassa orbita, per via di come è stata progettata e per il suo colore. Le uniche immagini in cui si può scorgere qualcosa, sono state fatte grazie a uno zoom, ed è ancora difficile da vedere.
11. I fulmini possono colpire due volte lo stesso posto. Il vecchio detto “i fulmini non colpiscono mai lo stesso posto” è un falso mito, anzi è molto probabile che lo facciano, che passino dieci minuti o un milione di anni.
12. I defribillatori non possono rianimare un cuore morto. I defribillatori non possono riattivare gli elettrocardiogrammi piatti. Perché un cuore possa battere e dare la vita, dev’esserci un giusto equilibrio chimico tra gli elettroliti, I defribillatori vengono usati per resettare e correggere i battiti irregolari, come la fibrillazione ventricolare, nella speranza di ristabilire un battito regolare.
13. E nemmeno la respirazione bocca a bocca può rianimare un cuore fermo. Mentre la credenza comune è che le rianimazioni bocca a bocca servano a far tornare in vita le persone, il loro scopo reale è quello di impedire che il cervello subisca danni pompando ossigeno nei polmoni. Per la maggior parte delle persone, senza uno shock elettrico, il cuore non tornerà al suo normale battito.
14. Se chiedete a un agente sotto copertura se è un poliziotto, in generale non vi diranno di esserlo. Gli agenti in borghese possono aiutarvi a compiere un crimine, perché la legge glielo permette, ma non possono convincervi o costringervi a commetterne uno.
15. Non bisogna essere ricchi per adottare un bambino. A seconda di dove vivete, i processi di adozione possono essere costosi, ma non bisogna per forza essere ricchi per poterlo fare, una buona stabilità finanziaria può essere sufficiente.
16. Se ingoiate una gomma, resterà incollata allo stomaco per sette anni. Mentre è vero che non vengono digerite come gli altri cibi, la gomma tuttavia verrà eventualmente digerita dal corpo, ma è difficile che resti per più di sette giorni, figurarsi per sette anni!
17. Il consumo di zucchero non rende I bambini iperattivi. L’idea comune è che sia lo zucchero a eccitare i bambini, ma in realtà è solo il pensiero del dolce a eccitarli. Non è stato scoperto alcun collegamento tra il suo consumo e iperattività.
18. Lavarsi le mani col sapone non uccide i germi, li fa solo scivolare via. Il sapone rimuove i batteri che restano attaccati a degli olii sulle nostre mani e sciaquandole questi vengono rimossi insieme ai batteri.
19. Stare troppo vicini al microonde non fa venire il cancro. Il tipo di radiazioni utilizzate dai microonde non sono ionizzanti, ciò comporta che non può realmente modificare le strutture molecolari nei nostri corpi.
Il microonde, lo zucchero e i peli: tutte le bugie che vi hanno raccontato. Dalla rasatura dei peli, ai capelli bagnati fino all'età dei cani. Dieci miti che negli anni ci hanno fatto credere essere veri ma che in realtà non lo sono. Novella Toloni, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. Diciamoci la verità: quante volte i nostri genitori o i nostri nonni ci hanno spacciato per verità cose di comodo. Falsi miti con i quali siamo cresciuti, ma che in realtà non corrispondono affatto a verità. E che, ammettiamolo, a volte ci hanno messo anche in difficoltà. È ora di accettare che i peli non ricrescono più duri dopo il primo taglio e che l'ananas e il caffè non fanno dimagrire. Ecco le 10 idee sbagliate che tutti crediamo essere vere.
1. Dormire con i capelli bagnati fa venire il raffreddore. Prendere freddo non è mai una buona abitudine, ma in fatto di raffreddore si può stare tranquilli. Il raffreddore e l'influenza sono causati da virus. Coricarsi con i capelli umidi, quindi, non vi farà ammalare.
2. Il consumo di zucchero rende i bambini iperattivi. Non esiste alcun collegamento tra l'assunzione di zuccheri e la sovreccitazione dei bambini. Nessuno studio, infatti, ha mai dimostrato che lo zucchero provochi iperattività nei più piccoli. Semmai questi potrebbero eccitarsi solo per il semplice fatto di potersi gustare l'agognato dolcetto o gelato.
3. Lavarsi le mani uccide i batteri. Mai come ora occorre sfatare questo mito. Lavarsi le mani con il sapone non uccide i batteri ma semplicemente li fa scivolare via. Il detergente rimuove i batteri che restano attaccati agli olii che naturalmente si trovano sulla pelle. Sciacquando le mani questi vengono rimossi insieme ai batteri.
4. Stare vicini al microonde fa venire il cancro. Le radiazioni che si generano dall'utilizzo del microonde non sono nocive né per l'uomo né per gli animali. Le emissioni dell'elettrodomestico, infatti, non essendo ionizzanti non sono in grado di modificare il dna dei corpi. Per questo sono sicuri e innocui.
5. Rasarsi i peli li fa ricrescere più duri. I peli rasati non sono più spessi dopo la rasatura. Essi vengono percepiti più duri perché perdono la punta affusolata (cioè la parte più morbida del pelo), lasciando affiorare la radice più grossa e spessa. Allo stesso modo rasarsi i peli non li fa crescere più folti e neanche numerosi.
6. Un anno canino equivale a sette anni umani. Il "mito" potrebbe essere verosimile ma non corretto. L'età di un cane per essere convertita in anni umani deve tenere in considerazione la razza canina e le dimensioni dell'animale. Ad esempio a parità di anni canini, un bassotto potrebbe essere più vecchio di un cane lupo.
7. L'ananas fa dimagrire. L'ananas, come altri alimenti definiti "brucia-grassi", non ha alcun effetto sugli accumuli di grasso. Essendo però un frutto composto per l80% di acqua ha un bassissimo apporto calorico quindi mangiarlo fa bene in un regime dietetico.
8. Toccare un uccellino lo farà "rifiutare" dalla madre. Si dice che toccare un uccellino porti la madre ad abbandonarlo per colpa dell'odore. Niente di più sbagliato. Gli uccelli non hanno un olfatto sviluppato a causa delle loro piccole narici. Per questo l'odore dell'uomo non viene percepito dai volatili. La madre riconoscerà sempre il suo piccolo.
9. La respirazione bocca a bocca può rianimare un cuore fermo. La respirazione bocca a bocca non fa tornare le persone in vita. Questo è un dato di fatto. La pratica consiste - in realtà - nel mantenere ossigenati i polmoni affinché il cervello non subisca danni irreparabili dalla momentanea assenza di battito. Per questo la respirazione bocca a bocca viene associata al massaggio cardio-toracico nel caso di arresto cardiaco.
10. Gli esseri umani hanno cinque sensi. Tatto, vista, udito, gusto e olfatto non sono i soli sensi che l'essere umano può sfruttare, anche se sono i più utilizzati. Secondo gli scienziati le capacità sensoriali a cui l'uomo può ricorrere sono almeno dieci tra le quali la propriocezione (capacità di essere consapevoli del proprio corpo) e la termocezione (la distinzione delle variazioni di temperatura da parte del corpo).
· La saggezza degli animali.
Il leone e il topo. Giulia Carcasi il 9 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Se dice sempre che il leone è er re della foresta, pure si nun è l’animale più temibile: ce so’ ragni che te fanno secco co’n pizzico. Nun è manco er più bello o er più elegante: i pappagalli indossano certi colori da fa’ invidia agli stilisti d’alta moda e le giraffe c’hanno i colli più lunghi dei ritratti de Modigliani. Abusivamente il leone s’era appropriato de quer titolo come quelli che se credono d’esse gran signori in virtù dei soldi. “Che ve piaccia o no, io so’ nato co’ la corona in testa” argomentava, mostrando la criniera come prova provata. E, sentendo il suo discorso da politico de lungo corso, pareva che er potere je spettasse de diritto. Un giorno però, muovendosi nella foresta, se ritrovò la zampa incastrata dentro a ‘n legaccio fatto de corda. Era ‘na trappola piazzata là da quarche cacciatore. Più s’agitava pe’ liberasse, più il laccio je se strigneva attorno. “Aiutateme” ruggiva tremando, “Aiutateme. So’ er vostro re!”, ma nessuno c’aveva coraggio né vojia d’avvicinasse. Sortanto ‘n topo s’affacciò e non perché quello ‘ntrappolato era er re della foresta, ma perché era n’animale come tutti l’altri: come se fa a vede’ quarcuno sofferente e nun fa’ niente? “Te supplico” promise il leone ar topo pe’ invojiallo “Si me liberi, te farò principe, smetterai de vive’ rintanato e ordinerò ai gatti de fa’ l’inchino quanno passi”.
A quell’esserino della ricompensa nun je fregava niente. C’aveva ‘n dubbio solamente: “Nun è che me magni appena te libero?”.
“Ma te pare?” quasi s’offese il leone d’un pensiero tanto ignobile. “Nun te magno, t’assicuro! E poi sei tarmente piccolino che nun me basteresti manco p’aperitivo…”.
Quanno la canna der fucile apparve all’orizzonte, d’istinto er topo s’affrettò a rosicchia’ coi suoi dentini la corda, filo dopo filo, fino a spezzalla. Giusto in tempo schivarono la pallottola, fuggendo uno da ‘na parte e uno dall’artra.
L’indomani nella foresta era tutto ‘n brusio tra le foglie. “Chi l’avrebbe mai detto? ‘n topo che salva ‘n leone!” raccontava quarche animale che da lontano aveva osservato la scena “Si nun l’avessi visto co’ l’occhi miei, nun ce crederei”. Ce s’era accorti che l’animali piccoli, a torto ritenuti inutili, possono esse’ preziosi perché riescono a fa’ cose di cui quelli grossi nun so’ capaci. Ce s’era accorti, soprattutto, che esse’ ‘n signore nun è ‘n titolo acquisito, ma va conquistato. La natura non ha creato nessun re, so’ re tutti quelli che se comportano bene.
Più i commenti giungevano alle orecchie del leone, più quello se sentiva sminuito. “Chiamateme quer topo” ordinò all’animali della foresta, dandosi arie magnanime, “Vojio ricompensallo”.
Al roditore pareva brutto presentasse a zampette vuote e je portò in dono ‘n fiore. ‘Sto secondo gesto de nobiltà montò ancora de più l’ira del leone: doveva mette’ fine a quer confronto da cui usciva perdente. Co’n unghiata afferrò er topo pe’ la codina e se lo pappò.
Davanti a ‘na simile ingiustizia, tutti fecero ‘n passo indietro: “Vergogna!” se sentì tra la folla.
Da sempre l’animali nun portano vestiti, ma pe’ la prima vorta il leone se senti’ nudo e, ner tentativo de salva’ la faccia, improvvisò: “Ecco che fine fanno i traditori! Davero ve credevate che quer sorcio era tanto bono e tanto coraggioso d’avemme salvato? Quello ar cacciatore s’era venduto la pelle mia in cambio de ‘n pezzo de formaggio! Purtroppo pe’ lui, me so’ riuscito a libera’ e oggi pensava de scusasse portandome ‘n fiorellino…”.
Più che de ‘na criniera, la natura aveva dotato il leone de ‘na lingua capace d’ignobili menzogne.
Così i re abusivi mantengono il proprio scettro: da falsi, confondono la verità; da peggiori, eliminano i migliori; da sporchi, sporcano i puliti. Finché il regno diventa ‘na giungla.
La cicala e la formica. Giulia Carcasi il 26 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud.
Trenta gradi all’ombra. Sbracata sotto la tettoia de ‘na foglia, ‘na cicala cantava a voce alta. Quer canto, monotono e continuo, infastidiva ‘na formica che s’affannava a fa provviste pe’ l’inverno e, barcollando, trasportava sulla schina ‘na briciola grossa quanto ‘na collina.
«Pe’ cortesia. Puoi sta un minuto zitta?» chiese alla cicala.
Ma quella de canta’ nun smise affatto: «Si nun canto mo che è estate, quanno lo faccio?».
«C’ho mal de testa» la pregò la formica. «Solo un minuto, damme tregua. Smettila co’ ‘sto fri fri».
«Fri fri?!?» sbottò a ride’ la cicala, sfottendo la formica «Come sei antica! Sei rimasta alla preistoria. ‘Na volta noi cicale facevamo fri fri, ma ormai semo internazionali, parlamo inglese come lingua madre, l’avemo imparato dai turisti al camping» e sottolineando la differenza de pronuncia disse «Io non dico mica “fri fri”, ma “free free”, che vor di’ “libera, libera”…».
«A me me pare uguale…» commentò la formica tra sé e sé.
«Ma che ne voi capi’ te che nun fai manco ‘n verso…» l’offese la cicala «Raccatta le molliche, va’, ch’é mejo…».
Fino a quer punto s’era spinta l’ingratitudine! Da che mondo è mondo, le cicale, a furia de canta n’intera estate, se ritrovano d’inverno a mani vote e, si nun morono de fame, è proprio grazie alle fatiche costanti e silenziose delle formiche, che generosamente condividono er cibo della loro dispensa. Ner tempo nun solo la riconoscenza era scomparsa, ma le frivolette ce battevano pure de cassa e l’aiuto pareva dovuto.
Mentre la formica s’allontanava risentita, la cicala sapeva d’esse stata indelicata, ma nun voleva abbassa’ le antenne e, anziché chiede scusa, rincarò la dose: «Cara mia, lo sai perché te la piji a male? Perché te piacerebbe esse’ come me. La tua se chiama invidia. Te nun lo sai cos’è la vita. Sai solo sgobba tutto er giorno. Nun c’hai da fa altro. D’altronde la natura mica t’ha dato le qualità ch’ha dato a me. Canta’ nun sai canta, le ali nun ce l’hai…».
«Vedi de falla finita» l’avvertì la formica. «E st’inverno nun veni’ a frignare alla mia porta. Anzi, pardon, a freegnare. I tempi so’ cambiati, nun te ne sei accorta? Quest’anno nun se trovano più tante molliche a terra. Esse generosi è diventato un mestieraccio e, a forza d’offese, pure su un cuore morbido se fa er callo.»
La cicala capì d’avella detta grossa: «Ascolta. Poggia ‘nattimo sta briciola». La formica se tolse quer carico dalle spalle e se fermò a sentilla. «Io nun so vive come te,» le spiegò la cicala «ma nun te crede che so felice de canta tutto er giorno. Certe vorte ce s’annoia pure. Tu ce sai sta ar buio, io devo anna’ sempre a sbatte’ contro la luce. È tarmente breve la vita nostra che, si me fermo a pensa’, m’assale l’angoscia…»
Allora anche la formica se rabbuiò. «E a me chi m’assicura che nun me capita un colpo secco de ‘na scarpa in testa o ‘na spruzzata d’insetticida? E che me so’ goduta? La vita è pe’ tutti n’incognita.»
C’hai ragione pure te» ammise la cicala. «Si tu me dai ‘na mano a porta’ sta mollica, si famo mezzo e mezzo de fatica come famo mezzo e mezzo de raccolto, tu forse nun t’annoieresti tanto, c’avresti meno angoscia, e io c’avrei er tempo d’assaporà la vita. È vero, nun so canta’ e nun c’ho l’ali, ma nun sai quanto me piacerebbe sta ‘na settimana in ferie a nun fa niente, a riposa’ la schina, a fa ‘na camminata a vanvera, a fa du’ chiacchiere co quarche amica» disse la formica. «Pe’ ‘na settima vorrei falla pure io la cicala».
A buon intenditor poche parole. E pe’ la prima volta ne la storia, ‘na cicala e ‘na formica se caricarono, una da un lato e una dall’altro, ‘na briciola.
La lepre e la tartaruga. Giulia Carcasi il 2 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud.
Te puoi sforza’ quanto te pare, ma certe doti o ce l’hai o nun ce l’hai: nun se imparano.
La lepre c’era nata veloce e s’era meritata er titolo de scheggia der bosco. A vedella pareva ‘n conijo un po’ più grosso, ma mentre quello c’aveva l’espressione domestica de chi s’acquatta dentro a ‘n nascondiglio, la lepre nell’occhi selvatici c’aveva ‘n guizzo. Faceva certi salti che pure i grilli je facevano i complimenti.
Un giorno nacque ‘na tartaruga col complesso de superiorità: a tutte quelle della sua specie spettava ‘na vita lunga e lenta, ma a lei nun je bastava. “Mamma, papà, guardate come so’ svelta!” se metteva ar centro dell’attenzioni, muovendo a più non posso le sue zampe a rallentatore. Era più rapida la terra a gira’ attorno al sole.
“Ammappa!” fingevano de stupisse i genitori pe’ falla contenta, “se continui de ‘sto passo a te la lepre te fa ‘n baffo”.
Dall’apprezzamenti familiari era passata a pretende’ pure quelli dell’altri animali. E un po’ pe’ compassione un po’ perché ai matti je se dà ragione, “Come sei brava!” je ripetevano in coro “Sei ‘n siluro!”. A forza de bucie era diventata così viziata da nun accetta’ più critiche: si quarcuno s’azzardava a faje nota’ che in un giorno faceva a stento mezzo metro e nun se po’ certo definì un record, la tartaruga dava in escandescenze. “Nun t’avvelenà, nun ne vale la pena” la consolavano allora i genitori credendo de fa’ er suo bene “Pe’ un meschino che te dice ‘na cattiveria, nun puoi mette’ in dubbio un talento che tutti te riconoscono…”.
La presunzione si spinse ar punto che la tartaruga un giorno se presentò alla lepre. “Te sfido a chi arriva prima a quell’albero. Scommetti che te batto?”
“È ‘no scherzo?” je rispose quella.
“Nun te crede” l’avvertì la tartaruga “Parto piano, ma so’ un diesel”. E in uno stato di esaltazione aggiunse “Si nun te la senti, lo capisco… C’hai paura de fa ‘na figuraccia e rovinatte la piazza?”
A ‘na simile provocazione la lepre pensò che era troppo: “Paura io de te?!?” e accettò la gara.
Stabilirono un orario, un punto de partenza e un punto d’arrivo.
Al “Via!” la tartaruga scattò subito, ma, pur affannandosi, pareva ferma.
Incontrastata la lepre avanzava, ma sentiva che stava svendendo quer talento che j’aveva dato la natura: se corre pe’ scappa’ da li cani o dalle schioppettate dei cacciatori, se corre pe’ senti’ sul muso la libertà der vento, la carezza dei fili der prato, ma corre pe’ ‘na sfida nun ha senso. Se la vita è ‘na sfida, è solo co’ se stessi e no coll’altri, figurarsi co ‘na tartaruga. Vincere sarebbe stata ‘na sconfitta. Così, arrivata a ‘n passo dar traguardo, se fermò e, senza tajiarlo, se mise lì ad aspettare per ore e ore.
La tartaruga, quanno finalmente la raggiunse, esclamò “T’ho ripreso!” e pe’ l’emozione nun stava più ner carapace. Ma se sgonfiò ben presto, vedendo che la lepre, scansandosi, la faceva passare avanti e je diceva “Prego!”.
La corazzata tajò comunque er traguardo, ma fu ‘na misera conquista, che nun la rese soddisfatta.
A chi je chiede come quer giorno annarono le cose, la tartaruga, vantandosi, racconta ‘na menzogna: “Er segreto è la costanza! Chi va piano va sano e va lontano”. Alle lepre je scappa da ride ogni vorta che la voce arriva alle sue lunghe orecchie. Si je chiedessero de rifa’ la sfida, farebbe vince la tartaruga n’artra vorta, che tanto sempre e comunque ‘na tartaruga resta.
· La Libertà dell’Occidente.
Dall'anima alla cultura pop. I faraoni sono sempre con noi. Il numero di settembre di "Studi Cattolici" dedica uno speciale agli influssi della civiltà egizia sull'Occidente. Matteo Sacchi, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. L'influsso culturale della civiltà dell'Antico Egitto su tutte quelle successive è difficilmente calcolabile. Dalla religione alla geometria, passando dal fascino enorme dell'architettura o dai precoci sviluppi della scienza medica il contributo di questa civiltà trimillenaria al presente è semplicemente non quantificabile. Ci sono ambiti in cui questo influsso è molto evidente e persino pop - potete trovare persino una piramide sulla copertina di uno degli album (Powerslave) della band metal degli Iron Maiden - e altri in cui è più sottile ma non per questo meno pervasivo. Per rendersene conto basta leggere il nuovo numero di «Studi cattolici» (rivista edita da Ares) che dedica uno speciale, molto colto, alla Terra dei faraoni. Si parte con un intervento di Alessandro Roccati, già ordinario di Egittologia all'università di Torino, che mette in luce come la concezione platonica dell'anima sia da considerarsi fortemente debitrice dai modelli culturali propri della religione degli egizi. Come esemplificato nel famoso mito del carro alato, per Platone l'anima umana è essenzialmente tripartita. Per il filosofo ateniese c'è l'anima «concupiscibile», desiderosa di esperienze materiali, che persegue solamente gli istinti. C'è poi un'anima «irascibile», che si sdegna per le ingiustizie e persegue la giustizia. Nonostante ciò, anche questa parte non è del tutto razionale. E infine l'anima razionale, che vede il prevalere della ragione sul resto e dovrebbe indirizzare le altre due parti. E va da sé che questa idea platonica ha fatto molta strada se alcuni la considerano antesignana della partizione della psiche (e lo stesso etimo della parola alla Grecia ci riporta...) umana in Es, Io e Super-Io di Freud. Roccati, sulla traccia delle riflesioni dello studioso francese François Daumas (1915-1984), ricostruisce il filo rosso che porta dalla concezione egizia delle anime umane sino a Platone. Tra le nove partizioni dell'anima umana della religione egizia tradizionale ce ne sono tre che vengono descritte in termini accostabili a quelli platonici. E non sono i soli influssi riscontrabili in Platone. Il filosofo che probabilmente svolse un viaggio di formazione in Egitto, ellenizzato dopo le conquiste di Alessandro Magno, nel Cratilo propone importanti interpretazioni del linguaggio e del suo sviluppo. Secondo Roccati: «Le sue riflessioni poterono solo adattare una compiuta tradizione linguistica come quella proposta specialmente dalla millenaria civiltà egizia». Anche il filosofo Matteo Andolfo, in un altro articolo dello speciale - L'idea dell'uomo nell'antico Egitto - riflette in maniera più ampia sull'influsso egizio sulla cultura greca a partire da Omero. Una influenza che avviene in più fasi e che porta ad una evoluzione. Sia per Omero sia per la cultura egizia più antica l'uomo è una somma di parti, una «molteplicità irrelata». Dopo, la concezione diventa più complessa e si riflette in tutta la filosofia classica sino a Plotino. Federico Contardi, ricercatore di egittologia dell'università di Firenze, invece riflette sui rituali dell'antica religione egiziana. Il rito per gli egizi era fondamentale per mantenere l'ordine universale, quell'equilibrio rappresentato dalla dea Maat, personificazione del concetto di ordine. Questo messaggio di ordine, imperniato sul mantenimento di antiche tradizioni e su determinate pratiche rituali, codificate nei papiri -come la vestizione del dio nei templi- ha costituito un patrimonio allegorico e simbolico che ha attraversato i millenni. Per certi versi quindi la stessa idea di liturgia è un debito che abbiamo verso gli antichi egizi: «Ogni atto, infatti, su un piano metaforico era identificato con avvenimenti del mito». Chiudendo lo speciale invece Emanuele M. Ciampini, egittologo di Ca' Foscari, racconta i rapporti dell'Egitto antico con il resto dell'Africa. Perché l'influenza della civiltà delle piramidi non si è diramata solo verso il Mediterraneo ma ha plasmato anche le civiltà sviluppatesi più a Sud, direzione verso cui gli egiziani avevano una particolare attenzione geopolitica, e religiosa. La geopolitica dei Faraoni è chiara: «L'interesse economico è quello che muove queste spedizioni: l'accesso alle ricchezze minerarie di queste terre, prima fra tutti l'oro, si combina con la possibilità di sfruttare, anche manu militari, regioni dove le formazioni statali non hanno ancora raggiunto una maturità tale da renderle interlocutori efficaci dello Stato egiziano». Per altri versi queste terre a Sud, da cui origina il Nilo che con le sue piene benefiche condiziona tutta la vita degli egiziani, assunsero presto anche un rilevante significato religioso. Del resto i popoli che entravano in contatto con gli egiziani, come i nubiani del regno di Kush, incorporarono modalità culturali egiziane e al contempo influenzarono a loro volta il regno dei Faraoni (non sono nemmeno mancati momenti in cui i due Stati hanno dato origine ad un'unica compagine politica). Ecco che quindi l'Egitto si pone come crocevia originale tra il bacino del Mediterraneo e l'Africa più profonda, un precursore della globalizzazione, quanto meno a livello di miti. Come spiega in chiusura del suo saggio Ciampini: «Le terre a sud dell'Egitto rappresentarono uno scenario fondamentale per la costruzione del reale non solo presso i Faraoni, ma anche per la cultura occidentale: la dizione hic sunt leones, segno di un confine tra mondo umano e l'ignoto e il fantastico, può diventare l'ultimo anello di una catena la cui origine risale agli inizi della Storia sulle rive del Nilo».
Ecco le idee ghigliottinate dalla rivoluzione giacobina. Da De Maistre a Burke, un saggio ripercorre le opere degli autori che condannarono la presa della Bastiglia. Luigi Iannone, Martedì 01/09/2020 su Il Giornale. Nella rappresentazione postuma del 1789 e di tutti i fenomeni ideologici e politici ad esso legati si è prodotta una linea analitica inattendibile perché, sin da subito, combinata ad una manipolazione culturale e ad una distorsione storiografica senza pari. In un simile trambusto, astutamente alimentato, finirono anche le insorgenze anti-giacobine che, almeno nella prima fase, rappresentarono sul piano pratico la più arcigna difesa dei valori della tradizione e il primo fronte di opposizione alla mitologia rivoluzionaria che, oramai, si riverberava su un piano assoluto e universale. Contro quel mondo che mai accettò i dettami della Rivoluzione non poteva che scagliarsi, e in tutta la sua virulenza, la civilizzazione illuminista, scortata in taluni casi anche da azioni militari risolutrici, come nel caso della Vandea. Una campagna mistificatoria che simultaneamente produceva la negazione sistematica del fronte controrivoluzionario e la celebrazione agiografica delle tesi rivoluzionarie. Uno scontro a tappe forzate all'interno delle quali ogni interpretazione doveva essere ricompresa in canoni prestabiliti. Clemenceau parlò di «blocco inscindibile», cioè di una rivoluzione «da accettare o respingere in blocco». Nel tempo si sostituì la teoria di «più rivoluzioni consecutive»; vale a dire, di un'età dell'oro corrispondente al 1789, a fronte di periodi come quelli del Terrore, da intendersi come naturali incidenti di percorso. Tragitto teorico molto battuto grazie al quale si collocarono gli episodi sanguinari e le fasi più cruente al di fuori della originaria matrice rivoluzionaria. Fu Burke ad intuirne l'astuzia quando, nelle Riflessioni, focalizzò l'attenzione su questa divisione strumentale tra una rivoluzione «buona» e una «cattiva» e sul fatto che non vi potessero essere dubbi su una continuità logica tra il 1789 e i decenni successivi. Se ad alimentare questo fronte si è utilizzata la distorsione storiografica, per la controrivoluzione si è adottata la menzogna e l'irrisione. Eppure non fu un fermento momentaneo, tanto meno un'azione di pochi scellerati con motivazioni indistinte. A sostenerla un grumo esaltante e fascinoso di pensatori cattolici che decisero di opporvisi, denunciando le aporie rivoluzionarie. Una scuola di pensiero che ha attraversato gli ultimi due secoli della storia d'Occidente e che, per forza di cose, mai poteva confinarsi nel dozzinale campo di una contrapposta teoria sociale e politica perché, come spiegò de Maistre, «la controrivoluzione non è una rivoluzione contraria, ma è il contrario della rivoluzione». Se la rivoluzione non è infatti assimilabile ad una ordinaria rivolta, anche la controrivoluzione non va intesa come una formulazione ribellistica legata al contingente e, in qualche modo, al folklore. E non si definisce ed esaurisce nella contrapposizione perché non è riducibile ad un tempo. Adottando il criterio della «trasmissibilità» che gli consente di perpetuare nel secoli valori di riferimento e quello della «selettività» che gli permette di defalcare dal presente i deficit del passato, «va interpretata e vissuta - come nota De Benoist - innanzitutto come luogo a-storico dove essa non è solo il passato, ma si pone al di là del tempo». L'ultimo lavoro di Diego Benedetto Panetta, Il pensiero controrivoluzionario (Giubilei-Regnani, pagg. 275, euro 20), attinge esclusivamente da questo versante metafisico. Se Augusto Del Noce parlò di «Rivoluzione come parola chiave della nostra epoca» in quanto non elemento di ordine fisico ma modello metastorico che investe il piano spirituale, allora Panetta, da contraltare, dedica intense pagine al quadro teorico e ripercorre i punti nevralgici del pensiero controrivoluzionario. Quindi incrocia Joseph De Maistre, Juan Donoso Cortés, Antonio Capece Minutolo, Monaldo Leopardi, Gustave Thibon, Francisco Elìas de Tejada e Plinio Corrêa de Oliveira, non disdegnando in apertura del volume un capitolo su Edmund Burke (che, però, non è da considerarsi un controrivoluzionario) e, in chiusura, uno sull'indefinibile Nicolás Gómez Dávila, che fu controrivoluzionario, forse reazionario, magari tradizionalista o più semplicemente un conservatore. Autori consapevoli di una modernità che abbandonando le proprie radici ha assunto forma e sostanza del tutto divergente da quella propugnata per secoli dalla civiltà cristiana. Eppure... ed è qui l'affondo di Panetta, se le generazioni vengono ancora educate all'inesistenza di una verità cui fare riferimento e di una autorità trascendente - in una condizione che Heidegger condensò poi negli stati d'animo del disorientamento, dello sradicamento e della spaesatezza - non tutto può essere ascritto al 1789. La responsabilità dello stato attuale delle cose e del processo di scristianizzazione in atto sarebbe «da ascrivere anche al cedimento di coloro i quali avrebbero dovuto fungere da Katechon; vale a dire, a buona parte delle gerarchie ecclesiastiche, le quali, hanno anticipato o addirittura avallano tale opera».
Ecco le lettere (inedite) di Maria Antonietta dal "carcere" di Versailles. Le missive della regina, prigioniera di se stessa e della corte, svelano le debolezze della monarchia. Stenio Solinas, Mercoledì 16/09/2020 su Il Giornale. La parabola, storica e umana, di Maria Antonietta, di cui escono ora, curate da Catriona Seth, le "Lettere inedite" (edizioni Clichy, traduzione di Alessandra Aricò, 302 pagine, 19 euro), è racchiusa in tre folgoranti annotazioni. La prima è di Mirabeau, il geniale di testa quanto mostruoso di fattezze Mirabeau, il politico che cerca di salvare la dinastia dei Borboni dopo averne picconato la legittimità: «C'è un solo uomo al fianco del re, ed è sua moglie». La seconda è di Rivaorl, il bastardo di un'aristocrazia che lo ha rifiutato proprio perché ne ha svelato i privilegi più vani e più vacui: «Più presa dal suo sesso che dal suo rango, dimenticò di essere fatta per vivere e morire su un trono reale. Volle godere troppo a lungo di quell'impero fittizio che la bellezza regala alle donne comuni e che ne fa le regine di un momento». La terza è della diretta interessata: «Annienterei il re se accettassi di agire, se montassi a cavallo, qualora ce ne fosse bisogno. Una regina che non ha poteri decisionali, nei momenti di crisi deve restare inattiva e prepararsi a morire». A quel 1789 che segna l'inizio della rivoluzione in Francia, Maria Antonietta e il suo augusto consorte, Luigi XVI, arrivarono, è il meno che si possa dire, impreparati: erano stati allevati per gestire la normalità di un trono senza scossoni, l'eternità di un'istituzione mai messa, in quanto tale, in discussione. La raccolta di queste lettere, inviate al conte di Mercy, diplomatico austriaco e suo amico, mai apparse sino ad oggi e per la prima volta tradotte in italiano, raccontano di lei proprio questo, una specie di pappagallino imperiale, grazioso e variopinto, utilizzato per un matrimonio di convenienza politica, l'alleanza fra Austria e Francia, che non si sa bene come utilizzare, proprio perché nessuno si è preoccupato di educarla a pensare: «Ella ascolta a malapena ciò che le si dice e lo comprende ancora meno». Mercy, che da ambasciatore in Francia, è la longa manus di Maria Teresa che vorrebbe governare Parigi da Vienna, si dispera che, sposa di un re senza amanti in carica, Maria Antonietta non usi le carte giuste per avere sul marito un ascendente certo, ossia un ascendente che favorisce lAustria. Lascia tuttavia perplessi che un diplomatico di carriera non si renda conto di quanto nella persona di una regina straniera, «l'autrichienne» incarnazione proprio di quell'Austria che è stata fino ad allora il nemico tradizionale, si concentrino le fantasie popolari, e non solo, tutte convergenti a disegnare una donna manipolatrice all'ombra del grand'uomo. Che il «grand'uomo» sia Luigi XVI, ovvero il suo esatto contrario, i francesi prerivoluzionari, siano nobili o terzo Stato, sembrano non accorgersene: gode di un prestigio non suo, ci si può ancora illudere che si riveli un altro Luigi XIV. Almeno su questo, è proprio Maria Antonietta a non essersi mai fatta illusioni. Il «pover'uomo» l'ha definito in una lettera alla madre nel 1775, quando entrambi hanno vent'anni e da cinque sono marito e moglie. Quella definizione lascia esterrefatta Maria Teresa: «Dov'è il rispetto, dov'è la riconoscenza? La vostra felicità potrebbe mutare di colpo e farvi precipitare, per colpa vostra, nelle più grandi disgrazie. Un giorno lo capirete ma sarà troppo tardi». Cassandra non avrebbe potuto dirlo meglio. Quindici anni dopo, il «pover'uomo» è meglio tratteggiato, ma Maria Antonietta per quanto fosse stata allora irrispettosa o incapace di pensare, aveva comunque colto nel segno: «Il re non è un poltrone, ha un grandissimo coraggio, ma passivo, è schiacciato da un cattivo sentimento di vergogna, una diffidenza verso sé stesso che gli viene dalla sua educazione e dal suo carattere. Ha paura di comandare e più di tutto ha il timore di parlare in pubblico. Ha vissuto sino ai ventun' anni, sempre in tensione, sotto lo sguardo di Ligi XV: questa oppressione ha influito sulla sua timidezza». In quell'arco di tempo, il pappagallino imperiale ha imparato a volare e solo allora ha realizzato di essere stato sempre e comunque in una gabbia. Ce l'hanno messa i maneggi imperiali di Vienna, che non vogliono vederla come moglie del re di Francia, ma come appendice degli Absburgo: «Cercate di capire la mia posizione e il ruolo che sono obbligata a recitare ogni giorno -scriverà a Mercy- A volte non mi capisco e sono obbligata a riflettere per vedere se sono proprio io che parlo». Ce l'ha messa la corte di Versailles, che critica ogni infrazione, che maligna sulle troppe trasgressioni, che alimenta polemiche e insinuazioni. Ci si è messa da sola, le spese pazze, gli inutili lussi, le passioni improvvise, la mancanza di contegno e l'irritazione se qualcuno glielo fa notare. Ha pensato di poter dettare la moda del tempo, ma non sa che le mode sono capricciose e il tempo non lo è di meno: «Non mi uccideranno con il veleno. Oggi è la calunnia che regna ed è di calunnia che mi faranno morire». Lungo tutte le lettere si assiste al progressivo venir meno della fatuità, dell'incostanza, del badinage, lo spettegolare senza pensarci, lo sparlare senza crederci, come simbolo di massima frivolezza, della seduzione come arma di distrazione di massa, dell'insofferenza alle regole, ai principi, alle istituzioni. Rispetto a Luigi XVI, che rimane l'onesta, dignitosa e alla fine eroica nullità che è sempre stata, Maria Antonietta si ritrova nelle vesti di chi cerca di salvare il marito e i figli, fantastica alleanze, pretende chiarimenti, non ci sta a essere trattata come una pedina, per giunta sacrificabile, sulla scacchiera della storia, si rifiuta di salvarsi da sola, preferisce morire che tradire. Il genio di Alexandre Dumas le regala una battuta delle sue in quel La contessa di Cherny che racconta la fine del regno di Luigi XVI: «Per il momento, signore, rispose la regina, il re, sono io». Il genio di David, il pittore della Rivoluzione, è più crudele, ma non per questo meno veritiero. Il giorno dell'esecuzione di Maria Antonietta ne disegna il profilo mentre la carretta la porta al patibolo, il fisico rinsecchito, il volto divenuto aguzzo di una povera vecchia che non ha ancora compiuto quarant'anni.
Saint-Just, la Rivoluzione con l'orecchino. Marco Cicala su La Repubblica il 25 ottobre 2020. Lo portava o no? Era bello come lo dipinsero? Idealista o fanatico? Un libro indaga sul più misterioso dei giacobini. Decapitato a 26 anni, morì con eleganza da dandy. Del terrore. Il 28 luglio 1794 il giacobino Louis Antoine de Saint-Just viene decapitato nella Parigi del Terrore poche settimane prima di compiere ventisette anni. Nel settembre 1792 era stato eletto alla Convenzione divenendone il più giovane tra i deputati. La sua impressionante traiettoria rivoluzionaria si consuma dunque in meno di 23 mesi. E, compressa dentro un arco temporale tanto angusto, finisce per attorcigliarsi fatalmente in un enigma. Una matassa che lo scrittore Stenio Solinas cerca ora di sbrogliare in Saint-Just. La vertigine della Rivoluzione (Neri Pozza), raffinato profilo biografico-politico e impresa valorosa. Perché sulla figura dell'Arcangelo della ghigliottina si è incrostata nel tempo una dura scorza di leggende - agiografiche o denigratorie - in mezzo alle quali è difficile raccapezzarsi. Perfino il suo aspetto fisico è avvolto in un'aura di mistero. Ammesso che la famosa bellezza del ventenne Saint-Just non sia anch'essa un'invenzione romantica, che tipo di bellezza era? Ieratica? Tenebrosa? Femminea? Virile? Portava l'orecchino oppure no? Interrogarsi sulla controversa beauté del personaggio - come fa Solinas analizzandone le effigi - non è un esercizio voyeuristico. Giacché rimanda alla dimensione nella quale sta sepolta la chiave del rebus Saint-Just, che è quella della sua giovinezza. Una giovinezza che, sebbene presto troncata dalla mannaia, gli lasciò comunque il tempo di vivere parecchie vite: da poetastro a tribuno incendiario e terrorista di grido, ideologo ma anche instancabile organizzatore di eserciti rivoluzionari e infine utopista disilluso che si consegnerà ai suoi carnefici con stoica flemma. Insomma, un proteo che in nemmeno due anni di militanza ipercinetica salda pensiero e azione, teorie e passioni, orgoglio individuale e febbrile dedizione alla causa. In Francia l'hanno incastonato nel firmamento dei maudits alla Villon, De Sade, Rimbaud, Genet... Invece Solinas vi riconosce una sorta di prototipo dell'esteta armato, figura di poeta-combattente cara a certa intellighenzia inquieta nella prima metà del Novecento. E tuttavia, l'ineffabile Antoine sfugge ancora a un'immagine univoca, alla presa di quella che oggi - con termine sfibrato dall'abuso - chiameremmo "un'icona". Della sua vita pre-rivoluzionaria non sappiamo molto. Di sicuro Saint-Just nasce nel 1767 a Decize, Francia centrale. Con famiglia si trasferiranno quasi subito in Piccardia. Il padre, che muore quando il ragazzino ha dieci anni, è un ex militare assurto allo status di notabile. La madre viene da una famiglia di commercianti. Rampollo della media borghesia rurale, Antoine è mandato in collegio dagli Oratoriani dove si imbeve di letture classiche dalle quali pescherà esempi e linee di condotta nel furore rivoluzionario. A 18 anni si innamora della coetanea Thérèse con cui vorrebbe convolare a nozze se la di lei famiglia non si mettesse di traverso dandola in moglie al figlio d'un notaio. Ferito, Saint-Just si ribella a un ambiente provinciale che gli va stretto: depreda l'argenteria di famiglia e fugge a Parigi. Nella capitale si piazza in zona Palais-Royal, che all'epoca è una specie di distretto del sesso mercenario. Legittimo il sospetto che l'Arcangelo ne assapori tutte le voluttà libertine. Ma la pacchia dura poco. Perché la madre derubata ha fatto spiccare un mandato di cattura contro il ragazzo, ancora minorenne. Saint-Just finisce in gattabuia. Durante la breve detenzione germoglia in lui l'idea di Organt, poema acerbo e prolisso (quasi 8 mila versi), confusamente licenzioso, antiaristocratico e anticlericale, dato alle stampe nell'89. In quell'anno spartiacque Antoine avrebbe assistito alla presa della Bastiglia, ma non ce n'è prova. Nel frattempo ha ottenuto una laurea in legge, o forse se l'è comprata. Ambizioso, nelle prime fasi rivoluzionarie si muove da agit-prop marginale. Non è ancora repubblicano, ma moderato fautore d'una monarchia costituzionale. Poi il salto: raggiunta l'età che gli consente di accedere all'assemblea, irrompe sulla tribuna della Convention con un discorso d'esordio che lascerà il segno. Il momento è grave: c'è in ballo la testa di Luigi XVI. Tra quanti chiedono che il sovrano venga processato e quelli che invocano una punizione senza giudizio, Saint-Just sembra allinearsi ai secondi - con il motto celeberrimo di: "Nessuno può governare innocentemente". In realtà, leggendo bene il testo dell'intervento, il giovane deputato propone una terza soluzione: il re va condannato a morte, ma previo processo speciale. Siamo ai primi vagiti di una "giustizia popolare" fatta di tribunali-farsa che nei secoli a venire conoscerà spettacolare fortuna. A ragione, Solinas invita a diffidare delle letture deformanti che nella posterità hanno trasformato Saint-Just, animato da antica religio civile, in un antesignano del rivoluzionario moderno - di cinismo leninista, per intenderci. Eppure è lampante come nella sua teoria del tirannicidio si produca uno scatto concettuale decisivo. In sostanza, secondo Saint-Just, il monarca non può essere giudicato come un qualsiasi cittadino per il semplice motivo che "metafisicamente" non è un uomo pari agli altri. Forse nemmeno un uomo tout court. Ponendosi fuori dal contratto sociale, il re non rientra nell'ambito della Legge: è per essenza "un ribelle" da abbattere. Il problema non è l'individuo Luigi XVI, bensì la sua funzione, l'istituto monarchico che egli incarna e dal quale non può essere scorporato. Ergo: per sopprimere la funzione va soppresso l'uomo. Con logica a suo modo inesorabile, si comincia a razionalizzare l'identikit di un "nemico" disumanizzato che nella modernità rivoluzionaria porterà dritto alla paranoia di Stato e all'eliminazionismo su scala industriale. Se è vero l'adagio secondo cui la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni, Saint-Just contribuisce a pavimentarla. Anche attraverso una comunicazione politica che superando i verbosi schemi dell'oratoria tradizionale, inventa una nuova retorica: svelta, nervosa, assertiva, imperniata su frasi brevi, apodittiche, ipnotiche. Il laconismo di Saint-Just - supremo fabbricante di slogan - è anche "un modello di vita" dice Solinas. Sì, ma che genere di vita? Spazzate sotto il tappeto le tentazioni libertine, Antoine si converte in emblema del puritanesimo rivoluzionario. A spaventare è meno il suo fanatismo della virtù che la sua concezione della felicità. Un bonheur che - in rottura con l'eudemonismo Ancien Régime e i suoi "decadenti" sollazzi - Saint-Just scinde severamente dalla sfera del "piacere": "Chi ha un'idea orrenda della felicità, la confonde con il piacere" tuona. Non è un paleo-comunista, difende la proprietà, vagheggia una società spartana che la redistribuisca tra "piccoli produttori indipendenti, ciascuno dei quali possiede il proprio campo o la propria bottega e vive del frutto del suo lavoro, ad uguale distanza dal bisogno come dal superfluo". Ha accantonato le velleità letterarie e deciso che cercherà il successo in politica. Ma non quella dei politicanti, "sanguinoso gioco delle parti, alleanze, intrighi, compromessi, tattiche" chiosa Solinas. Contro la mediocrità dei politicards, Saint-Just si infervora nel ruolo del "legislatore" messianico. Si batte per la creazione di istituzioni forti che stabilizzando la Révolution siano in grado di depurarla dalle cruente lotte fratricide. E dire che senza la politica, l'antipolitico Antoine de Saint-Just sarebbe rimasto un Carneade. Per quanto eccentrico, è venuto su sotto l'ala del dominus Robespierre e del suo partito egemone. Non è, scrive Solinas, "un macellaio del Terrore". Vero. Ma, da membro del sinistro Comitato di Salute pubblica, ne sarà tra i maggiori pupari. Con la sua ghenga liquida gli oppositori hébertisti e dantonisti. Esige il castigo perfino per chi, nel turbine dell'esaltazione palingenetica, si mostri semplicemente "indifferente" o "passivo". Dopo l'orgia di sangue che ha banalizzato la ghigliottina a routine, Antoine commenta amaro: "L'esercizio del terrore ha reso insensibili al delitto, come i liquori forti rendono insensibile il palato". Ma a disgustarlo non è la carneficina in sé quanto il fatto che non sia riuscita a far piazza pulita di partigianerie e fazioni: a salvare l'unità rivoluzionaria. Per Saint-Just la Révolution aveva scardinato l'asse della Storia inclinandolo irresistibilmente verso il "Bene". Senonché in quell'accelerazione, in quella vertigine, la macchina purificatrice del Terrore l'ha tramutata in una creatura autofaga che divorerà i suoi figli. Però la violenza generalizzata non rappresenta una degenerazione, un deragliamento della locomotiva insurrezionale: la rivoluzione è ab ovo guerra. Da subito chiamata ad attaccare, a difendersi contro aggressori intestini ed esterni. Il citoyen è immediatamente sinonimo di soldato. Allontanandosi dalle cabale parigine, l'ultimo Saint-Just si spende come un matto per ristrutturare e motivare gli sciancati eserciti rivoluzionari che alle frontiere faticano a respingere l'assalto delle potenze monarchiche coalizzate. Da missionnaire de la République (traduci: commissario politico), risolleva il morale delle truppe trascinandole verso la vittoria. Quella di Fleurus rimarrà incisa nelle memorie. Agli occhi di Saint-Just, del suo "ethos militare" spiega Solinas "la guerra può per la formazione di una nazione ciò che la politica non è in grado di produrre con la stessa rapidità: unità, fraternità, emulazione, spirito di servizio". Peccato che Antoine non sia praticamente mai stato visto lanciarsi in battaglia. Di davvero "armato", nell'esteta armato sembra dunque esserci pochino. Stando al bel ritratto che nel 1939 ne tracciò il "fascista" Pierre Drieu La Rochelle, Saint-Just "avrebbe potuto essere un grande scrittore". Ma il debutto poetico non fu granché promettente. Sarebbero state quindi le sue intemerate tribunizie a proiettarlo nell'orbita della "letteratura"? Discutibile. Antoine brucia la propria giovinezza nella rivoluzione. E constatandone l'impazzimento ne rivendica l'innocente "purezza" originaria fino all'autoimmolazione, al "sacrificio di sé" - ricorda Solinas. Però il sacrificio di sé non è un valore in sé. Come quella di tanti utopisti morti giovani e belli, anche la tragedia di Saint-Just non ci parla solo degli slanci d'una gioventù eternamente tradita, ma anche delle sue miserie, idolatrie, accecamenti. Prima di diventare un mito, Antoine fu un vorace consumatore di miti. Cultore di una romanità da peplum che in cima ai suoi divi colloca Bruto, il "cesaricida": "Se Bruto non uccide gli altri, ucciderà se stesso" promette Saint-Just. Non si farà fuori, ma la sua morte ha il sapore di un suicidio per interposta ghigliottina. Nel gran repulisti del Termidoro, che lo annienterà assieme a Robespierre e associati, Saint-Just sale sul patibolo con "siderale distacco" da dandy, indossando uno squisito "abito color camoscio, gilet bianco, culotte grigio-perla, un alto colletto su cui è annodata la larga cravatta che è sempre stata un suo segno distintivo". Un ultimo messaggio di "romano" stoicismo o di vanità? Impossibile deciderlo. Leggenda vuole che, appena mozzata, la testa di Charlotte Corday - l'assassina di Marat - fu schiaffeggiata dal boia e la sua guancia arrossì. Forse, subendo il medesimo sfregio, quella dell'algido Saint-Just non avrebbe cambiato colorito. Sul Venerdì del 23 ottobre 2020.
L'imperatrice e il filosofo. Così fallì il sogno illuminato. Il saggio di Robert Zaretsky racconta l'incontro scontro tra la pragmatica Caterina II e il sognatore Diderot. Matteo Sacchi, Lunedì 28/09/2020 su Il Giornale. Lui geniale ed enciclopedico. Convinto della natura benigna dell'uomo, capace di affascinare chiunque con la sua parlantina e potenza oratoria. Eppure propenso al dramma e all'ipocondria. Convinto della necessità del predominio della legge e del popolo, ma attratto dal potere dei sovrani e dall'idea di sedurli alle sue idee. Lei coltissima e sagace, attenta a tutti gli spunti delle nuove idee illuministiche. Capace di prendere il controllo di un Paese immenso e di contribuire a modernizzarlo, comprendendo la necessità di eliminare quelle vestigia medievali che ne frenavano lo sviluppo. Eppure non disposta a privarsi di parte del potere e disposta ad ascoltare le critiche solo sino ad un certo punto: meglio gli elogi sperticati di Voltaire.
Stiamo parlando del filosofo illuminista Denis Diderot (1713-1784) e dell'Imperatrice Caterina II (1729-1796). Dopo un lunghissimo rapporto epistolare l'illuminista francese e la sovrana si incontrarono, nel 1773 a San Pietroburgo, dove Diderot, piuttosto malaticcio, giunse dopo un viaggio estenuante. Il suo arrivo avrebbe dovuto trasformarsi in un trionfo di modernità, nella consacrazione intellettuale di una sovrana capace di portare il regno degli Zar nel futuro, completando la grande opera di Pietro il Grande (1672-1725). Ma la liaison (tutta intellettuale sia chiaro) tra i due l'anno seguente era già interrotta e uno stanchissimo Diderot tornava in carrozza verso l'Europa. A guastare questa corrispondenza di illuministici sensi ci si era messa una cafonissima terza incomoda: la Russia. Questa vicenda poco studiata è in realtà un'ottima cartina di tornasole delle contraddizioni della filosofia dei Lumi in particolare e, più in generale, di come si impantanino, nella realtà, la maggior parte dei sogni di riforma sempre così facili da realizzare nell'empireo della teoria. Ora su quell'incontro-scontro ha focalizzato l'attenzione uno dei maggiori specialisti di storia del Settecento, Robert Zaretsky dell'università d Houston. Nel suo Caterina e Diderot. L'imperatrice, il filosofo e il destino dell'Illuminismo (Hoepli, pagg. 230, euro 22,90) traccia il percorso di due vite parallele, giocate sul sottile crinale che separa la cultura e la politica. Nel mondo degli illuministi di Francia sempre desiderosi di indicare un modello per il cambiamento Caterina si era trasformata nel monarca, lontano ma non troppo, da indicare al pubblico per biasimare i Borbone di Francia. Voltaire era diventato persino sperticato nell'elogio: è la stessa sovrana a scrivergli che non ha piacere ad essere paragonata a Giunone e nemmeno a Minerva. Caterina, data in sposa a 16 anni al futuro Pietro III di Russia, aveva con pazienza e fatica trovato il modo di inserirsi in una corte che all'inizio non l'amava. E mentre tollerava le stramberie di un marito insicuro e inadeguato, studiava, giorno e notte, i filosofi illuministi per prepararsi al suo ruolo. Nel 1762 con audacia e coraggio detronizzò il coniuge che finì strangolato (non sapremo mai se per sua volontà). Iniziò una stagione di riforme guidate dall'alto. La corrispondenza con i maggiori intellettuali di Francia. Tra cui Diderot di cui Caterina acquistò anche la biblioteca. Poi in quel fatidico 1773 l'incontro. Diderot nell'inverno di San Pietroburgo congela. La città non gli sembra più una nuova piccola Atene. In lunghissimi colloqui, di cui Caterina è sempre meno estasiata, lui parla sempre e poco ascolta. È convintissimo che la sovrana debba passare subito alla monarchia costituzionale: «Se leggendo quello quanto ho appena scritto e ascoltando la sua coscienza, il cuore le sussulta di gioia, ella non vuole più schiavi, se frem, se il sangue le gela nelle vene, se impallidisce, si è creduta migliore di quello che era». Caterina non tremò, liquidò la faccenda con un «queste non sono altro che ciance». La zarina stava affrontando la feroce insurrezione polacca capeggiata da Pugacev, doveva gestire una corte piena di intrighi e sapeva che tutte le riforme erano in bilico. E Caterina glielo spiegò con chiarezza: «I vostri alti princìpi, che comprendo benissimo, sono buoni per i libri e pessimi per la pratica. Voi lavorate sulla carta che accetta ogni cosa... Ma io una povera imperatrice, lavoro sulla pelle umana, che è molto sensibile e irritabile». Questa risposta segnò la loro separazione. Caterina aveva scelto la linea di Montesquieu nello Spirito delle leggi che vedeva per popoli diversi la necessità di istituzioni diverse. Proprio l'opposto dell'universalismo ottimista di Diderot. Il dibattito è ancora oggi aperto. Caterina da parte sua continuò comunque ad aiutare il filosofo per tutta la di lui vita. Non portava troppo rancore. Ma vedendo la Rivoluzione Francese chiosò che gli scritti di molti suoi amici filosofi avevano aperto la strada «a calamità senza fine e innumerevoli individui abbietti». Diderot non fece in tempo a dire la sua, morì con largo anticipo sul trionfo della ghigliottina, ma c'è da dubitare che gli sarebbe piaciuto, forse sarebbe stato di nuovo, per una volta, d'accordo con la sua «tirannica» eterna protettrice.
Trafalgar, la battaglia nell'oceano che segnò il destino d'Europa. Il 21 ottobre del 1805 la battaglia di Trafalgar segnò la fine dei piani di Napoleone di conquistare l'Inghilterra. E consegnà a Londra il dominio sui mari. Lorenzo Vita, Giovedì 22/10/2020 su Il Giornale. Quando a Capo Trafalgar era l'alba del 21 ottobre 1805, le forze francesi dominavano l'Europa continentale, mentre il Regno Unito controllava ancora i mari. La flotta di Londra aveva ingaggiato una lunga guerra contro l'Impero francese per riuscire a colpire i traffici commerciali di Parigi e resistere alle ipotesi di invasione da parte dell'Armata napoleonica. Napoleone voleva l'Europa, ma per farlo doveva passare per Londra, ultima vera fortezza - insieme alla fatale Russia - che poteva contrapporsi alle mire francesi. La Royal Navy si era dimostrata in quegli anni uno dei peggiori nemici dell'Impero napoleonico. Praticamente invincibile sulla terra, l'Armata non era riuscita a creare nel Mediterraneo e nell'Atlantico una forza di pari valore. Un ostacolo che aveva dato non pochi problemi all'imperatore dei francesi, tanto da pensare a un piano per sconfiggere il Regno Unito portando direttamente le sue temibili forze di terra sul suolo britannico. Un'invasione che doveva avvenire con 160mila uomini fatti convergere su Boulogne da ogni parte dell'impero.
Il piano di Napoleone. Il piano aveva però bisogno di una condizione senza la quale sarebbe stato impossibile invadere il territorio della Corona: l'annientamento della flotta britannica. Napoleone conosceva perfettamente le sue forze e i suoi nemici. Sapeva che gli inglesi si potevano sconfiggere, ma per farlo gli occorreva tempo e soprattutto fiaccarne le forze. Uno scontro frontale con la Marina di Sua Maestà sarebbe stato rischioso, specialmente con un impero che ancora era in grado di rifornire di materie prima e oro la madrepatria. La svolta arrivò dalla Spagna. Nel 1804, Madrid decise di allearsi con Parigi offrendo all'imperatore le sue navi e i suoi porti. Una mossa che serviva agli spagnoli per cercare di colpire quell'impero che tanto aveva colpito il loro nelle Indie. Con la Spagna alleata ì, Napoleone pensò che fosse giunto il momento di sbarcare definitivamente in Inghilterra e diede ordine alle due flotte, quella a Brest e quella Tolone, di convergere nell'Atlantico prima per assaltare la Royal Navy negli oceani e poi per liberare i vari porti dell'impero tenuti sotto scacco dalla marina britannica. Solo dopo aver raccolto una flotta che ricordava l'Invincibile Armada, i suoi uomini avrebbero avuto il campo libero per partire da Calais alla volta delle bianche scogliere di Dover.
Inizia la sfida. Il 30 marzo del 1805 scattò il piano di Napoleone. L'imperatore, che già aveva avuto grossi problemi con la flotta sia in Egitto che in Irlanda, ordinò all'ammiraglio Pierre de Villeneuve di salpare da Tolone e dirigersi verso le Antille. Dopo 34 giorni di navigazione, Villeneuve raggiunse i Caraibi, ma nel frattempo, la flotta inglese comandata da Horatio Nelson aveva iniziato una terrificante caccia per riuscire a colpire i francesi nell'Atlantico. In soli 24 giorni, Nelson raggiunse le Antille con le sue navi ma non riuscì mai davvero a prendere i francesi. La flotta napoleonica fece così rotta verso le coste spagnole mentre Nelson prese la via di Gibilterra. Villeneuve si formò a Vigo dopo un primo scontro gli inglesi, poi, non ricevendo alcuna notizia sui movimenti di Londra, decise di fare rotta verso Cadice. Passato poco più di un mese, Villenevue ricevette l'ordine di muovere verso Napoli. La sua fanteria di marina serviva per l'Europa. L'ammiraglio francese prese il largo ma Nelson, che nel frattempo aveva ripreso la caccia del nemico, era in agguato nell'Atlantico. I francesi lo sapevano benissimo: più volte avevano avvistato o avuto notizia della Royal Navy che incrociava Cadice, ma nessuno l'aveva ancora sfidato. Villeneueve decise che era giunto il momento. Alcuni storici dicono perché voleva rifarsi delle accuse di codardia o di incapacità mosse dagli alti piani di Parigi, altri per le capacità di Nelson di ingolosire il nemico mostrandogli una flotta più piccola di quella che era in realtà. Quello che è certo è che Villeneuve e Nelson iniziarono lo scontro. E il luogo prescelto fu Capo Trafalgar, a metà strada tra Cadice e Gibilterra.
La battaglia di Trafalgar. Il 21 ottobre del 1805 le due flotte arrivarono a portata di vista. La Marina inglese si presentò con 27 vascelli, quattro fregate e due corvette, per un totale di circa 17mila uomini e 2.164 cannoni. I francesi (con gli spagnoli) avevano 33 vascelli, cinque fregate e due corvette, per un totale di 21mila uomini e 1326 cannoni. Alle 11:45, Nelson diede l'ordine di impartire un segnale a tutta la flotta. I marinai guardarono verso le bandiere della Victory e lessero tutti un unico messaggio: "England expects that every man will do his duty". "L'Inghilterra si aspetta che ogni uomo faccia il suo dovere". La battaglia ebbe ufficialmente inizio. Nelson aveva previsto ogni mossa e fece partire un piano temerario ma diabolico, che prese di sorpresa l'intera flotta francese al largo di Trafalgar. L'ammiraglio ordinò di schierare la flotta in due colonne: una con 12 vascelli e la "Victory"; l'altra con 15 navi e la "Royal Sovereign" dell'ammiraglio Collingwood. L'obiettivo era quello di sfondare la linea nemica al centro, affondare le ammiraglie e fare in modo che le navi inglesi fossero coinvolte in duelli singoli con i vascelli che rientravano. Collingwood si diresse verso il vascello spagnolo "Santa Ana" colpendo il fianco sinistra della flotta franco-spagnola. Un'ora dopo arrivò la squadra di Nelson, che non solo isolò l'ammiraglia nemica, ma spaccò in due tronconi la flotta avversaria. La mossa fu decisiva e iniziarono gli scontri tra le singole navi. La "Victory" evitò di essere speronata dalla francese "Redoutable" grazie a una virata impartita dallo stesso Nelson, Villeneuve, invece, si arrese consegnandosi alla fregata britannica "Conqueror". Una a una, le navi francesi e spagnole caddero sotto i colpi dei cannoni inglesi e dei suoi uomini. Alle 16 e 40 del 21 ottobre 1805 la battaglia di Trafalgar era finita.
I caduti e le conseguenze. Le perdite tra i franco-spagnoli furono di settemila uomini, tra morti e feriti. Gli inglesi contarono 400 morti e circa 1200 feriti. Tra i caduti, c'era colui che rese possibile il trionfo a Trafalgar, Horatio Nelson. Colpito alla schiena da un tiratore scelto a bordo della "Redoutable", l'ammiraglio inglese resistette agonizzante fino alla fine della battaglia, per poi spirare solo alla fine dello scontro. Un'immagine eroica che gli valse gli onori di tutta la flotta e del Regno che riconobbe in lui l'uomo che schiantò definitivamente ogni sogno di conquista di Napoleone, consegnando al Regno Unito la supremazia sui mari per almeno un secolo.
Dopo il Nilo e il Mediterraneo, Nelson morì coronando in maniera tragica la sua vita al servizio della Corona e della guerra a Napoleone. La Francia rivoluzionaria imparò invece una lezione tremenda: per vincere in mare non basta una flotta, serve una Marina. Napoleone, anche a causa di errori molto grossolani nella gestione delle sue navi, lo comprese troppo tardi.
Così brucia la società occidentale. Il virus dell'odio, ma anche il conformismo e il politicamente corretto. Ecco i mali della società americana che ancora oggi si scopre vittima di divisioni che non ha mai saputo superare. Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Domenica 06/09/2020 su Il Giornale. Lo scontro, negli Stati Uniti, è razziale, non è politico. O meglio: è uno scontro atavico, tanto antico da essere intriso nelle viscere di ogni cittadino, da condizionare la politica e a tracimare nello scontro tra repubblicani e democratici. In Questa strana e incontenibile stagione (Sur), scritto e pubblicato in piena pandemia, Zadie Smith centra appieno il problema puntando il dito contro il virus che sta appestando gli Stati Uniti, ovvero quello del disprezzo che spinge "chi guarda la siepe del proprio giardino" a vedere "un popolo di appestati: appestati dalla povertà, prima e più di ogni altra cosa". Un virus che "si annida saldamente sia nei cuori dei repubblicani che dei democratici". La differenza è che questi ultimi stanno usando politicamente questo problema per avvelenare la campagna elettorale per le presidenziali di novembre. "Se il virus e le disuguaglianze che crea dovessero mai lasciarci, negli Stati Uniti certi eccessi si attenuerebbero - spiega la scrittrice inglese - non scomparirebbe del tutto (nessun paese sulla faccia della terra può sostenere di non averne) ma certe cose non verrebbero più considerate normali".
Un male che nasce da lontano. "I cant't breath". L'urlo strozzato in gola, gli occhi fuori dalle orbite e quelle immagine rimandate in loop come un disco incantato. È morto così George Floyd, all'incrocio tra la 38ª e la Chicago Avenue a Minneapolis. È morto soffocato, sotto il peso di un poliziotto. "Non riesco a respirare, per favore - urlava - il ginocchio al collo, non riesco a respirare". Era il 25 maggio e il presidente Donald Trump si trovava invischiato nella peggiore emergenza sanitaria dell'ultimo secolo. Non poteva sapere che da lì a poco avrebbe dovuto gestire un'altra emergenza, ben più lacerante. Non appena l'Hennepin County Medical Center, l'ospedale dove l'afroamericano venne trasportato d'urgenza dopo aver perso conoscenza, ne decretò il decesso e le immagini dell'arresto iniziarono a essere condivise sui social e a fare il giro del mondo, proteste e tumulti dilagarono in tutto il Paese. Adesso è una guerra fratricida. In strada i militanti dei Black lives matter e degli Antifa si confondono tra i manifestanti anti Trump così come la destra più estrema e radicale rimpolpa i cortei a sostegno del tycoon. E il sangue non smette di scorrere. Lo scorso 29 luglio, a Portland, un supporter del presidente, il 39enne Aaron J. Danielson, è stato ammazzato con un colpo sparato a bruciapelo. È l'odio di un popolo che sembra non conoscere requie e che, con l'effetto ciclico di un'onda, si trova ad esserne nuovamente invischiato. È lo stesso odio di cui parla, per esempio, James Ellroy nel suo ultimo, bellissimo romanzo, Questa tempesta (Einaudi). Forte della convizione che, come ebbe a dire Benito Mussolini, "solo il sangue muove le ruote della storia" (parole riportate dall'autore stesso in testa al libro), l'opera, che dopo Perfidia (Einaudi) è il secondo capitolo della nuova tetralogia di Los Angeles, getta il lettore in un girone buio quando, all'indomani dell'attacco a Pearl Harbor, gli Stati Uniti si sono scoperti più deboli e hanno dato il via ai violentissimi rastrellamenti contro i cittadini giapponesi (da lì alla fine del conflitto ne verranno arrestati ben 100mila). Sono settimane incandescenti dove l'odio dilaga nelle strade e colpisce qualsiasi etnia. È una guerra per bande che non risparmia nessuno. Ellroy è bravissimo a descriverle, senza fare sconti a nessuno, una giungla d'odio e violenza in cui si muovo sanguinari simpatizzanti del führer, incendiari comunisti che sognano il trionfo di Stalin, sinarquisti messicani che brigano contro il presidente Roosvelt. E ancora: il rancore dei bianchi contro gli afro, gli scontri tra la comunità cinese e quella giapponese, il traffico dei clandestini dal Centro America. Con sfumature molto diverse, certe scene raccontate dall'autore di American Tabloid e LA Confidential riecheggiano le violenze che vediamo sui media in questi mesi.
Un'America profondamente divisa. In una intervista rilasciata a Vice nel 2010, quando aveva appena dato alle stampe Caccia alle donne (Bompiani), Ellroy aveva fatto un'analisi disincantata di se stesso e di quello che, visto nello specchio del politicamente corretto, non deve esistere. "Sono un americano religioso, eterosessuale di destra, sembra quasi che sia nato in un'altra epoca. (...) Sono un cristiano nazionalista, militarista e capitalista", ha ammesso sapendo che tutto questo gli ha spesso creato problemi. "La gente pensa che queste mie posizioni siano choccanti - ha tagliato corto - non sento il bisogno di giustificare le mie opinioni". Non per tutti è così. Perché se da una parte, come sottolineato da Zadie Smith, l'America è dilaniata dal virus del disprezzo, dall'altra rischia di essere fagocitata da un altro virus: quello della censura imposta dal politically correct. E qui veniamo a un altro romanzo Tanti piccoli fuochi di Celeste Ng (Bollati Boringhieri). Pubblicato nel 2017 torna ora negli scaffali delle librerie grazie alla fortunata serie televisiva interpretata dalle bravissime Reese Witherspoon e Kerry Washington e distribuita dai primi di giugno da Amazon. Facciamo un salto alla fine degli anni Novanta, quando il mito dell'America riplende ancora (a torto o a ragione) in tutto il mondo. Siamo alle porte di Cleveland. Shaker Heights è un quartiere chiuso dove vive l'upper class democratica. Famiglie da cartolina, buoniste, impegnate nel sociale, devote alle regole che si sono date per mandare avanti la propria comunità e proteggerla dai propri mali. Elena Richardson ne è l'emblema: bianca, ricca, redattrice del quotidiano locale, moglie di uno stimato avvocato, madre di quattro figli (due maschi e due femmine, of course) e vittima nonché artefice di quelle stesse diaboliche correzioni stigmatizzate da Jonathan Franzen vent'anni fa. Sull'altro lato della strada c'è la sua antitesi: Mia Warren è una madre single, nera, artista a tempo perso che si mantiene facendo lavori saltuari e soprattutto senza fissa dimora. Quando i due mondi si incontrano, la Richardson non può che dimostrarsi caritatevole perché lei, da giovane, ha "marciato con il dottor King" e ha difeso i diritti delle donne. Così, prima le offre un contratto d'affitto stracciato, poi le dà un lavoro. Ed è qui che si infrange il conformismo dem facendo divampare tanti piccoli fuochi che finiranno per dare alle fiamme l'intera dimora dei Richardson.
Il rischio americano. Shaker Heights è un topos. Il paradigma di un'America dilaniata che continua a lottare contro se stessa. Gli effetti sono "drogati" da una visione di parte: una lettura buonista che non fa sconti alla borghesia bianca ma che la condanna a prescindere. Così, sebbene Mia Worren abbia cresciuto la figlia per strada, Pearl è l'unica responsabile e fa impallidire i quattro figli di Elena. Allo stesso modo gli errori di Mia vengono, in un certo qual modo, scusati dalle circostanze mentre quelli di Elena costantemente condannati. Non che quest'ultima non sia da biasimare (in primis l'incapacità di accogliere le scelte della quarta figlia). Eppure... per tutto il romanzo si fa portatrice di alcuni valori che la società occidentale dovrebbe continuare a difendere e che, invece, i sensi di colpa dei democratici continuano a cedere in uno scontro che, anno dopo anno, non sta portando da nessuna parte se non a indebolire tutti quanti. Per la Smith, per esempio, la domanda che gli Stati Uniti dovrebbero porsi è la seguente: "Esiste un desiderio abbastanza forte di un'America diversa?". Perché questo avvenga, a suo dire, la classe dirigente deve prendere coscienza del fatto che "il virus non infetta solo gli individui di intere strutture di potere", ma piega "tutte le persone economicamente sfruttate, a prescindere dalla razza". In realtà, quello che manca agli Stati Uniti (e di riflesso a Shaker Heights) è la capacità di unire i cittadini, indipendentemente dal colore della pelle, in vista di un obiettivo comune e condiviso. È quello che hanno fatto tutti gli imperi, da quello romano a quello britannico, e che ha ben descritto Rutilio Namaziano nel suo Ritorno: "Desti una patria ai popoli / dispersi in cento luoghi: / furon ventura ai barbari / le tue vittorie e i gioghi: / ché del tuo dritto ai sudditi / mentre il consorzio appresti, / di tutto il mondo una città facesti". Questo vulnus, questa ferita, si riaffaccia non appena appaiono nuove difficoltà. Le strade distrutte ed incendiate degli ultimi mesi lo rappresentano plasticamente. Tanti piccoli fuochi, che da decenni bruciano un impero dimezzato.
Progresso, i dubbi e le contraddizioni di un’ideologia raccontati da Aldo Schiavone. Corrado Ocone su Il Riformista il 3 Settembre 2020. È veramente strano che non esista una letteratura scientifica ampia sul progresso, che, come è noto, fu una idea portante dell’illuminismo francese. Così come è strano che, contestata radicalmente da Giacomo Leopardi e Friedrich Nietzsche e dalla più parte dei filosofi e degli uomini di lettere successivi, essa continui a costituire comunque la struttura mentale portante dell’uomo moderno, giustificandone tic, aspettative, automatismi mentali. Da questo punto di vista si può dire che l’illuminismo ha scavato nel profondo, come una vecchia “talpa” per usare l’espressione di quel Marx che su questo punto rimase sempre fedele al “secolo dei lumi”. Ma il progresso esiste effettivamente o è una delle tante illusioni di cui è costellata l’autocoscienza umana? E se esiste in che modo lo si può definire? Come può ancora parlarsi di progresso dopo un secolo di ferro e fuoco quale è stato il Novecento e dopo i tanti genocidi di cui la Shoah ha rappresentato il momento più estremo e paradigmatico? Sono le domande che si pone Aldo Schiavone in un agile volume intitolato semplicemente Progresso, da poco pubblicato per Il Mulino. L’autore che, progressista resta nonostante tutto, si vede però quasi costretto a motivare questa sua opzione in modo non banale, cioè attraverso un itinerario di pensiero non scontato e che svolge in tre tappe. Proprio per questo il libretto stimola molte riflessione anche in chi, come il sottoscritto, è scettico sulla consistenza di questa idea. Diciamo che lo sforzo di Schiavone è quello di legare in un’unica visione natura e cultura, da una parte, e progresso tecnico e progresso morale, dall’altra. Nella prima tappa, l’autore ci mette di fronte allo svilupparsi, per accumulazione, di sempre nuovi ritrovati e artifici tecnici che hanno portato l’uomo ad aumentare nel tempo le sue potenzialità. Siamo però qui nel campo degli utensili o delle protesi, cioè di quello che serve all’uomo ordinariamente inteso per i suoi scopi di vita. Quello che si può constatare è, da una parte, l’accelerazione che il procedere accumulativo dell’acquisizione di certe tecniche ha ricevuto in età moderna, e soprattutto negli ultimi decenni; dall’altra, la difficoltà della razionalità politica e morale di tener dietro a queste trasformazioni. Se il discorso regge tuttavia per la politica, e in questo contesto inserirei l’attuale crisi della democrazia rappresentativa classica; più complicato diventa per la morale, la quale è un sentimento che accompagna l’umano e che è, nonostante i vari scientismi, concepibile solo nella sua autonomia, cioè indipendentemente dalle condizioni di fatto in cui l’uomo opera. Non convince perciò l’idea che anche la morale progredisca, così come l’idea che la storia occidentale abbia prima progredito sul suo terreno e poi sull’altro della tecnica: semplicemente, ad un certo punto, come una valanga, gli effetti cumulativi della tecnica hanno preso a correre ma c’entra poco, secondo me, il fatto che precedentemente l’uomo era rivolto a comprendere soprattutto se stesso. Il fatto è che oggi il negativo del sentire morale, il male, è rappresentato proprio, sempre a mio avviso, dall’eccesso di razionalità strumentale che domina le nostre vite, che ci porta a perdere contatto con l’essenza strutturale finita e imperfetta dell’umanità. Il progressismo come ideologia, non necessariamente politica, da questo punto di vista ha non poche responsabilità. Quanto poi alla storia naturale non dell’uomo, ma dell’universo intero, che è la seconda tappa del percorso, Schiavone ne dà un’interpretazione a sua volta “naturale”, e quindi evolutiva nel senso della teoria darwiniana dell’evoluzione: adattamento e sopravvivenza del più forte in condizioni diverse e mutevoli, assoluta casualità. Facendo per principio a meno di ogni spiegazione trascendente, e anche antropocentrica, Schiavone spiega la comparsa dell’uomo intelligente e immerso in una storia evolutiva, cioè dell’homo sapiens, come la realizzazione di un caso fra gli infiniti possibili. Il problema è che questo uomo intelligente e capace di usare le tecniche si è messo ora in grado di agire sulla sua stessa natura, che può plasmare e adattare secondo i suoi desideri con le tecniche dell’ingegneria genetica e affini. Nella terza tappa, si ricongiungono quindi natura e cultura aprendo scenari affascinanti, e inquietanti al tempo stesso, sul futuro stesso dell’umanità. L’impressione è che una lettura naturalistica anche della storia umana, come è quella che ci propone Schiavone, non tenga conto di quell’elemento di tragicità che fa da sottofondo alle nostre vite e che non tollera la troppa ed accecante luce che promana dalla razionalità scientifica col suo ottimismo e la sua fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive”. Credere ancora nel progresso e nella ragione, a prescindere, sembra paradossalmente sempre più un atto di fede.
Vittorio Macioce per ''il Giornale'' l'1 settembre 2020. Maledetto Occidente. Così vecchio, così fragile, così imperfetto, così ingiusto, che in troppi si affannano a sputargli addosso. L' Occidente raccontato con i suoi vizi e senza virtù. Non è più questo, dicono, il migliore dei mondi possibili. Sembra di stare alla fine di un tempo, con la civiltà dove sei nato e cresciuto che giorno dopo giorno si sfarina, rinnegata e messa alla gogna. La sicurezza, sostengono, vale più della libertà. Le stesse élites democratiche rinnegano la democrazia: non si può lasciare spazio a chi vota con le viscere e senza ragione. Quelli che invece non credono nella democrazia rivendicano la dittatura della maggioranza. Il numero cancella i diritti inalienabili dell' umanità. Tutto il discorso politico finisce in piazze virtuali e contrapposte, dove ogni parola è bianco o nero, nel gioco binario dell' uno e dello zero, senza possibilità di incontro, perché il gioco è a chi grida più forte e il Parlamento è uno spazio vuoto e senza voce. La promessa di un mondo più giusto, dicono puntando l' indice, è stata tradita. L' Occidente è diseguaglianza. Abbattere tutto. È il punto di rottura di un modello, quello Occidentale, quell' anomalia della storia che poggia su tre pilastri: libertà individuale, mercato, democrazia. E ti chiedi, in questi giorni di fine estate, davanti a un autunno incerto, se questo odore di disfacimento che senti sia davvero reale o è solo disillusione, paura o la malinconia di chi si sente invecchiare. Non lo fai da solo, ma chiacchierando con un vecchio amico, uno che di mestiere fa lo storico, docente alla Luiss, la stessa università dove tutti e due avete studiato. Si chiama Giovanni Orsina: «La libertà e la democrazia sono due maniere straordinarie di organizzare la vita umana e sono infinitamente più civili della non libertà e della non democrazia, ma restano delle soluzioni umane che in quanto tali sono altamente imperfette».
E fragili.
«Molto. Si reggono su un equilibrio instabile. Sono in conflitto l' una con l' altra».
Perché?
«Il massimo di autodeterminazione degli individui porta necessariamente a una comunità molto debole. Più gli individui si fanno gli affari loro meno la comunità riesce a funzionare».
Libertà e democrazia sono quindi in contraddizione l' una con l' altra, Come si trova l' equilibrio?
«Sono due valori entrambi buoni, ma non li puoi massimizzare entrambi. La liberal-democrazia può funzionare se la prendi come una soluzione parziale, provvisoria e se sei in grado di tollerarne le imperfezioni. Questo concetto i padri della democrazia liberale ce l' avevano chiaro. Basta leggere Tocqueville. Aveva capito tutto 180 anni fa».
E adesso?
«Vedo un sacco di gente rancorosa e incazzata. La trovi ovunque, perfino in chiesa. Si è perso anche il concetto di tolleranza cristiana. Nessuno è più disposto a perdonare. Una volta essere adulti significava riconoscere l' imperfezione dell' universo. Ora tutti pretendono giustizia assoluta».
È, risponderebbero i malmostosi, una pretesa umana.
«È disumana. L' idea di giustizia può essere riassunta in un fatto: la necessità di migliorare questo mondo. Se il mondo ha una giustizia pari a 5, io spero che quando morirò, lascerò una giustizia pari a 5,00001. Se sono sempre incacchiato perché pretendo giustizia 100 e invece c' è giustizia 5, allora sono un cretino».
La liberal-democrazia si sta ammalando di assoluto.
«Se nella democrazia liberale inietti il perfettismo, cioè l' idea che siccome Dio è morto bisogna costruire il paradiso in Terra, tu la sfasci. Perché tu la forzi, la metti in contraddizione con se stessa, la rendi non umana e rischi di far saltare il giocattolo. È quello che sta succedendo e non è la prima volta».
Come è saltato l' equilibrio?
«Per contenere la democrazia ci siamo inventati una serie di istituzioni per evitare che il popolo prendesse decisioni avventate o senza senso: la Corte Costituzionale, costituzioni rigide, indipendenza del potere giudiziario, indipendenza della banca centrale, le authority, il Fondo monetario internazionale, l' integrazione europea. Una serie di limiti per evitare che il popolo si lasciasse tentare da scelte sciagurate».
Invece a deragliare sono stati i «saggi».
«Purtroppo sì. Questa roba è andata troppo avanti. Tutti questi elementi di controbilanciamento al potere degli elettori si sono moltiplicati fino a diventare una malattia. La democrazia è stata svuotata. Il paradosso è che ora non si crede nel Parlamento, ma si ritiene che sia legittimato a parlare solo chi occupa uno straccio di carica elettiva. Cosa dicono Salvini e Di Maio a Ignazio Visco, governatore della Banca d' Italia? Stai zitto. Se vuoi parlare fatti votare».
Ed è sbagliato?
«Il rischio è che si arrivi a una dittatura della maggioranza. Se ho il 50 più uno dei consensi posso rinnegare i principi liberali e calpestare perfino i diritti individuali».
Fa bene allora il sistema a difendersi dal populismo.
«No, se rinnega la democrazia. Il populismo è la reazione a un eccesso di vincoli. È il frutto di un tradimento. Diciamoci la verità: quanto è contato il voto degli italiani in questi anni? Poco. Se sono un elettore frustrato e le decisioni vitali per me le prendono istituzioni che non ho eletto mi incacchio parecchio. Ho ragione o non ho ragione? L' elettore che pensa di non contare nulla sceglie Salvini, o chi per lui, come incarnazione dei senza voce».
Tutto questo fa pensare a una vecchia storia della democrazia americana. Siamo all' inizio dell' Ottocento e si sfidano due mondi contrapposti per la presidenza. C' è John Quincy Adams, figlio d' arte, che è il campione delle élites e il generale Andrew Jackson incarnazione dell' americano medio. D' istinto viene da stare con l' uomo del popolo, solo che è stato un presidente disastroso: ha sterminato gli indiani e lasciato gli Stati Uniti sul lastrico.
«C' è però anche il rischio contrario».
Cioè?
«La democrazia temperata dall' aristocrazia è un modello che funziona. Ma a una condizione».
Le élites non devono essere marce.
«È quello che spiega nel 1929 José Ortega y Gasset in La ribellione delle masse. È l' aristocrazia cieca che genera il desiderio di populismo. Come liberali qui dobbiamo fare un grandissimo mea culpa. Siamo di fronte a classi dirigenti economiche, politiche e sociali sempre più arroganti, sempre più autoreferenziali, sempre più chiuse. C' è un' élites che non capisce più il popolo. Mi capita sempre più spesso di ritrovarmi a cena con persone del mio mondo, intellettuali, professori, politici, giornalisti, che sembrano vivere sulla luna. Non hanno più alcun contatto con la realtà. Come quando dicono che l' immigrazione non è un problema. Lo sai come mi sento? Non si fatica a immaginarlo.
«È come sedersi a tavola con Maria Antonietta poco prima del 14 luglio del 1789».
Quanto la globalizzazione ha cambiato il canone?
«Ha accelerato molto dei processi. Ha reso infondato quel canone. Con la globalizzazione metti a confronto tutte le culture e quel punto ti accorgi che tutto è terribilmente relativo. Se parti dall' assunto che non esistono valori eterni e tutto è relativo, tu cadi dentro un relativismo radicale al termine del quale c' è il nichilismo».
Cosa verrà dopo?
«Ci possono essere tante cose. Un modello autoritario alla cinese o le tentazioni di democrazia illiberale di Putin e affini. Mi viene in mente l' ascesa di un autoritarismo tecnocratico, gestito da oligarchie sempre più politicamente corrette».
E noi?
«Tu ed io? Resteremo in silenzio».
La civiltà occidentale è superiore. Parola del gran filosofo Husserl. Nuove edizioni per i libri in cui l'Europa è posta all'apice del progresso grazie alla filosofia e al pensiero scientifico. Giampietro Berti, Martedì 01/09/2020 su Il Giornale. Fra le voci più alte che esprimono e riflettono la crisi della civiltà europea fra le due guerre, quella di Edmund Husserl (1859-1938) è la più drammatica, la più significativa, la più profonda. La riflessione filosofica di Husserl è centrale per capire le cause del crollo della società liberale di fronte alla barbarie totalitaria, dato che questa si configura innanzitutto quale risposta gnostica alla insignificanza del mondo generata dalla prosaicità dello spirito borghese. Per Husserl, la crisi europea ha due sbocchi: o il tramonto dell'Europa, nell'estraneazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nella ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la sua rinascita attraverso lo spirito della filosofia. Per Husserl solo la stessa la civiltà occidentale è in grado di superare, con un eroismo della ragione, il relativismo che alberga nel suo seno vanificandone gli effetti nichilistici. Questo superamento può avvenire sulla base di una filosofia universale, ovvero di una concezione del mondo fondata sulla libertà che, nelle sue strutture fondamentali, risulti capace di valere per tutti i popoli e per tutti gli individui. Husserl intreccia così la dimensione della libertà con la dimensione della filosofia; un intreccio concepito come la vera e originaria identità spirituale europea, la sola che può autodeterminarsi nel senso di una vera razionalità e di una vera universalità. La libertà si incrocia con la filosofia esprimendosi come facoltà critica motivata dalla domanda del dubbio permanente. In tal modo la coscienza europea si legittima nell'autocritica perché solo la filosofia è in grado di delineare un atteggiamento teoretico disinteressato e dunque, per l'appunto, universale. Va detto che l'Europa non è una mera entità geografica perché la sua intima natura è spirituale, la quale è scaturita dall'unità di una vita sedimentatasi nel corso dei secoli, con tutti i fini, gli interessi, gli sforzi, le conformità, gli istituti che ciò ha comportato. La sua evoluzione culturale è stata costituita da tre fondamentali fasi storiche: la greca, la medievale e la moderna che, nella loro specificità, hanno svolto un ruolo preciso: la greca ha rappresentato la riflessione della filosofia, il medioevo il momento religioso del cristianesimo, l'età moderna l'affermazione scientifica della ragione con il Rinascimento e l'Illuminismo. Determinarne la complessiva identità vuol dire però soprattutto risalire alla sua fondazione originaria; il che significa individuare quel peculiare movimento della ragione proprio della filosofia e della scienza nate dalla cultura ellenica. Husserl afferma la superiorità dell'Europa su ogni altra civiltà proprio perché solo essa è originariamente filosofica e solo essa reca in sé l'universalismo, che consiste nella volontà di essere un'umanità fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così. Si deve pertanto attribuire alla cultura europea «la posizione relativamente più elevata fra tutte le culture storiche, considerandola quale prima realizzazione di una norma assoluta di sviluppo, destinata a rivoluzionare ogni altra cultura in fieri». Se l'Occidente viene meno è la civiltà umana che muore. «Il maggior pericolo dell'Europa è la stanchezza. Per la missione dell'Occidente, dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell'umanità: perché soltanto lo spirito è immortale». Tra le novità di Edmond Husserl: Le conferenze di Parigi. Meditazioni cartesiane (Bompiani, pagg. 480, euro 35; a cura di Diego D'Angelo) e La fenomenologia trascendentale (Mimesis, pagg. 368, euro 24; a cura di Alfredo Marini).
Atlante per un viaggio (coraggioso) contro la decadenza dell'Occidente. Nel suo Atlante ideologico sentimentale (Gog) Stenio Solinas parla di un mondo che sembra sparito. Ma che esiste e resiste ancora. Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Domenica 30/08/2020 su Il Giornale. La nostra è la generazione dello zapping, quella che compulsa in maniera ossessiva qualsiasi canale - della televisione o della vita - per cercare qualcosa che la soddisfi. In questa attività, la velocità è tutto. 1, 2, 6, 7. E poi: 9, 5, 3. Amazon Prime, Netflix e Disney+. YouTube e Spotify. Il pollice sfreccia continuamente, come se avesse delle convulsioni. Si salta di piattaforma in piattaforma tra uno sbadiglio e l'altro. Muta l'ordine degli addendi, ma il risultato è sempre lo stesso: la noia. Una noia che forse non sarebbe tale se avessimo la pazienza - e la voglia - di andare più in profondità, di scavare un po' di più. E questo in tutti gli aspetti della vita. Nel cinema, nella lettura (ma sono sempre i giovani che leggono) e perfino negli affetti (ma sono sempre meno i giovani che amano). Si inizia, ma non si arriva mai a una fine. Eterni vagabondi di un fast food chiamato mondo. A volte, però, capita di fermarsi e di tirare un po' il fiato. Recentemente ci è successo con l'Atlante ideologico sentimentale (Gog) di Stenio Solinas. Un libro che non si compulsa, ma con cui ci si confronta e attraverso il quale si creano strade da percorre con calma - quasi fossero sentieri di montagna - con disordinata disciplina. Diviso in cinque parti (Italia, Francia, Donne (fatali), Vite (esemplari), Orientalismi, Esotismi, Snobismi) lo abbiamo approcciato secondo le richieste dell'autore: abbiamo cercato e creato un percorso che fosse il nostro. Siamo partiti da Alexandre Dumas e dai suoi Tre moschettieri. Che poi erano quattro - Athos, Porthos, Aramis e D'Artagnan - ed erano veri almeno quanto noi e voi: "Il vero Athos, Armand de Silègue d'Athos d'Auteville, è sepolto nella chiesa di Saint Sulpice. Ebbe vita breve, meno di trent'anni, morì probabilmente in duello: il corpo venne ritrovato lì dove di solito si andava per incrociare le lame delle spade, il parigino Pré aux Clercs. Il vero Portos si chiamava Isaac de Portau: non è certo che fosse moschettiere, di sicuro militò nella compagnia des Essart, quella in cui Dumas fa debuttare D'Artagnan. La sua fine è ignota, a differenza di quella del vero Aramis, Henri d'Aramitz, che rimase moschettiere fino alla fine, si sposò, ebbe quattro figli, morì cinquantenne nel proprio letto". E il protagonista D'Artagnan? "Si chiamava Charles Ogier de Batz, da moschettiere prese il nome della madre, Françoise Montesquiou d'Artagnan, e vi aggiunse un titolo di conte che non gli appartenteva, vi percorse tutti i gradi sino al comando, fu uomo di fiducia di Luigi XIV e suo braccio armato, morì ceramente nell'assedio di Maastricht, non maresciallo di Francia, come lo promosse Dumas, ma più semplicemente maresciallo di campo. Dei tre moschettieri, il più moschettiere fu lui, il quarto appunto: più che fondersi negli altri fece da vaso di fusione". La storia, quella vera, aveva già pensato a tutto, dunque. Dumas si prese la briga di raccontarla in modo avvincente. Del resto, era stato lo stesso autore ad affermare che la storia era una bella donna da violentare "a patto di farle fare dei bei figli". Senso dell'onore, guasconeria, ricerca continua del beau gest: sono questi i tratti distintivi delle opere di Dumas. Che sono il nostro punto di partenza (e di passaggio) in questo viaggio attraverso l'Atlante ideologico sentimentale. "Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto", ha scritto Ariosto ne L'Orlando furioso. Audaci imprese e cavalieri. Ora è il momento delle donne. "Madamina, il catalogo è questo": Bardot, Birkin, Coco (Chanel), Mata Hari, (Kate) Moss e (Edith) Piaf, solo per citarne alcuni nomi delle donne presenti nel libro di Solinas. Noi - lo abbiamo scritto più volte - siamo "bardolatri". Dovremmo dunque parlare di quella innocente malizia dell'eros che, negli anni Sessanta, compì la vera rivoluzione sessuale che anticipò il 68. Non questa volta. Oggi, BB può aspettare. Oggi parliamo di Kate Moss che, a suo modo, rappresentò un momento di rottura, proprio come la bella attrice francese: "Come top-model è bassa, sotto l'uno e settanta, e quando alla fine degli anni Ottanta cominciò la sua carriera andavano di moda super-modelle amazzoni, Cindy Crawford, Christy Turlington, Linda Evangelista, Claudia Schiffer, che l'avrebbero potuta sbranare in un boccone. Era smilza, aveva un modo di muoversi reticente e incurante, un volto di cui gli zigomi orientali accentuavano l'innocenza provocante, i denti un po' storti. Vent'anni dopo, non è cambiato niente, è sempre al top, è sempre la stessa, dentatura compresa". Kate Moss è dunque se stessa. Come BB. Come ce ne sono poche in giro, dato che tutte le ragazze (e le donne) sono impegnate a somigliare all'influencer di turno. Le audaci imprese: Ernst Jünger. Visse oltre un secolo e oltre il secolo. Fece della trincea il suo mondo. A 18 anni si arruola nella Legione straniera e viene spedito in Algeria, nel campo di Sidi Bel Abbès. Ma ci resta poco. Insieme ad un compagno cerca di fuggire, ma viene dermato in Marocco. Congedato, viene spedito in Germania. Non ha nemmeno il tempo di tornare sui banchi di scuola che scoppia la Prima guerra mondiale. È il suo momento. La sua vocazione - essere un guerriero - fiorisce nel fango delle trincee. Nazionalista, non appoggiò mai Adolf Hitler e il nazionalismo ("Gli facemmo ponti d'oro che lui sempre si rifiutò di attaversare", scrisse Joseph Goebbels nei suoi Diari), ma si macchiò di antisemitismo. Amava il caos della battaglia e l'ordinata anarchia della guerra. Visse in un tempo che non era il suo "senza però pretendere il diritto di essere escluso di questo soffrire".
Questo Occidente che disprezza la sua libertà. Ecco perché dietro la "cancel culture" si nasconde una nuova intolleranza ancor più aggressiva. E pericolosa. Carlo Lottieri, Domenica 19/07/2020 su Il Giornale. Se tra i firmatari dell'ormai celebre manifesto apparso su Harper's Magazine figurano alcuni dei nomi più noti e prestigiosi dell'intellighenzia progressista (da Noam Chomsky a Margaret Atwood, solo per fare due nomi) è perché ormai in molti, anche a sinistra, stanno iniziando ad avvertire quanto il clima si stia facendo pesante e quanto il politicamente corretto stia un po' alla volta chiudendo ogni possibilità di libera espressione nel momento in cui si fa pure «cancel culture», così da costruire una nuova intolleranza e un conformismo ancor più aggressivo di quelli che si conoscevano in passato. In fondo, tutti sappiamo bene perché nei decenni scorsi il «politically correct» è venuto alla luce e s'è imposto. Sotto certi aspetti, anche se poi è spesso degenerato in ridicolaggini e norme illiberali, esso prendeva luce dalla constatazione ragionevole che il nostro linguaggio deve essere rispettoso. All'origine vi è quella buona educazione che ogni civiltà deve coltivare, perché ognuno ha diritto alle proprie idee, ma non è bene che si usino formule offensive verso chi ha differenti origini etniche, preferenze sessuali, idee politiche...Come sottolinea lo psicologo Jordan Peterson, all'origine della nuova aggressività della cultura di Sinistra che oggi sta contestando la stessa libertà di parola c'è una forma di tribalismo che vuole opporre gruppo a gruppo. Entro questa visione della società non abbiamo più individui liberi con proprie opinioni che si confrontano, ma solo collettività forti determinate a imporsi sulla scena pubblica ai danni di altre collettività più deboli. Ed ecco che questo spirito rivoluzionario nutrito di post-modernismo sposa taluni gruppi per avversarne altri: i neri contro i bianchi, gli omosessuali contro gli eterosessuali, e via dicendo. Il manifesto di Harper's Magazine ha sottolineato soprattutto come oggi ci siano intellettuali che stanno subendo gravi conseguenze per il semplice fatto di avere citato alcuni testi o per avere sostenuto tesi minoritarie, e «il risultato è che si sta restringendo l'ambito di ciò che può essere detto senza subire la minaccia di una rappresaglia». La reazione di Chomsky&co. è comprensibile, ma non coglie il punto cruciale, perché per replicare alla «cancel culture» bisogna interrogarsi su ciò che sta alla base della crisi della nostra società. Sotto vari punti di vista, c'è davvero qualcosa di profondamente occidentale nelle ragioni che sono all'origine di questo movimento che non soltanto abbatte statue e vuole riscrivere la Storia, ma pratica l'intolleranza e l'intimidazione. In particolare, se è vero che questa rivolta muove dal rigetto di ogni razzismo o intolleranza, beh, poche cose sono più occidentali della volontà di superare i recinti, etnici o di altro tipo, per vedere in ogni persona un essere umano e nient'altro. Se oggi proviamo orrore dinanzi al fatto che alcuni dei Padri Fondatori degli Stati Uniti avessero schiavi e se ci scandalizzano talune affermazioni di Abraham Lincoln o Churchill, è perché nel corso dei secoli da noi si è affermata una certa idea della dignità umana, anche grazie all'eredità cristiana. D'altra parte, è la civiltà di tradizione europea che negli ultimi secoli ha progressivamente dissolto ogni legittimità della schiavitù (che in precedenza era praticata in tutti i continenti), dell'intolleranza religiosa, del maschilismo... Nel XVI secolo il domenicano Bartolomé de Las Casas sposa le ragioni e i diritti degli indios contro il colonialismo criminale della sua patria, la Spagna, e quello è solo il primo di una lunga serie di episodi che vedono britannici come William Wilberforce e Herbert Spencer combattere la schiavitù e l'imperialismo di Londra, francesi come Frédéric Bastiat criticare l'occupazione dell'Algeria, e via dicendo. La storia del liberalismo è al cuore della nostra tradizione proprio per questa valorizzazione di ogni essere umano. L'Occidente, però, è anche altro. Quando Peterson si sofferma sulle radici della nuova intolleranza totalitaria non a caso egli evoca il post-modernismo ed evidenzia, al tempo stesso, come in esso sia cruciale una certa riformulazione di temi marxisti. C'è infatti un Occidente che si odia, che detesta la libertà di mercato e il pluralismo, che ha orrore per i diritti dei singoli e la coesistenza di orizzonti di vita differenti. In fondo, il relativismo radicale dei pensatori postmoderni persuasi che non vi sia alcuna verità è qualcosa che viene dalla nostra Storia: anche se è una Storia che, per tante ragioni, non ci deve piacere. Le ricadute di tutto ciò sono tremende e le vediamo anche da noi. In Italia si sta discutendo una legge sulla discriminazione di gay e omosessuali che rischia di impedirci di disporre di noi come vorremmo. Non a caso questa iniziativa va a modificare la «legge Mancino»: ossia un testo che già minava la libertà di espressione, focalizzando l'attenzione su quanti hanno idee politiche estremiste. Quello fu un autentico passo indietro per l'Europa che aveva creduto nella tolleranza, e il risultato è che non solo si va restringendo la libertà di parola, ma anche la possibilità di disporre come si vuole della propria vita: assumendo un maschio invece che una femmina, un arabo invece che un ebreo, un cinese invece che un nero. Sembra sfuggire a molti che una cosa è aggredire il prossimo e altra cosa è preferirgli un'altra persona. Ma proprio perché nessuno può essere aggredito, per lo stesso motivo nessuno ha diritto a disporre dei beni e della libertà di altri. E vivere è scegliere, decidere, prendere una strada al posto di un'altra. Nella logica di questo nuovo spirito autoritario, moralistico e tribale, ogni cosa alla fine risulta collettivizzata da normative onnipresenti: così che tutto deve essere gestito secondo criteri fissati per legge. L'Occidente che si odia e che disprezza le proprie radici liberali finisce per prevalere, così, su quanto abbiamo di nobile e di grande alle nostre spalle.
Distruggere le statue sarebbe il requiem dell'Occidente. C'è chi vorrebbe autoassolversi dal passato cancellandolo, ma la questione è più complessa. Dino Cofrancesco, Mercoledì 08/07/2020 su Il Giornale. Le sommosse sociali che sono dilagate negli Usa e di lì si sono riversate nell'Europa occidentale, in particolare in Inghilterra, rappresentano un fenomeno nuovo e inquietante che invano alcuni sociologi - a esempio Peppino Ortoleva - hanno tentato di comprendere riportandolo a vecchie categorie : il disagio sociale degli afro americani, il fallimento dell'economia di mercato, il braccio violento della legge...In modo assai diverso e meno convenzionale, la furia iconoclastica è stata interpretata dal pensiero della destra conservatrice e liberale - da Marcello Veneziani a Eugenio Capozzi - come vera e propria rivolta contro la civiltà europea e occidentale. In particolare, con toni spengleriani, ha scritto Alessandro Campi in un articolo sul Messaggero, «Sconfitti dal presente distruggono il passato» (12 giugno 2020), alle origini della barbarie che si abbatte, con furia distruttrice, sui simboli della tradizione, sta il «rifiuto in sé della storia come forma di conoscenza». «Rifiuto che si accompagna, nel mondo cosiddetto occidentale, alla stanchezza della storia, tipica di tutte le civiltà decadenti che sentono di aver esaurito la loro spinta propulsiva, e a un odio di sé penitenziale che nasce da non da un'assunzione si responsabilità, che per essere seria richiederebbe un vaglio critico del passato... ma dal desiderio di liberarsi da ogni peso chiedendo scusa». Sono analisi suggestive che a mio avviso toccano solo un aspetto cruciale dello tsunami nichilistico che segna irrimediabilmente questi primi decenni del XXI secolo. Come ho cercato di dimostrare (e mi scuso per l'autocitazione) in saggi come Requiem per l'Occidente? (Libro aperto gennaio-marzo 2020) e Il pensiero egemone è la Trinità universalista che ricaccia negli Inferi la Trimurti comunitaria (in uscita su Ircocervo) assistiamo al trionfo spettrale e definitivo dell'Illuminismo universalista (versione francese). Esso può definirsi una rivolta ontologica contro la natura intesa come destino in quanto generatrice di violenza, di discriminazione, di ineguaglianza. «Sta scritto ma io vi dico» il carisma del fondatore delle religione universale che ha nutrito spiritualmente l'Europa e le sue proiezioni atlantiche, dal piano religioso si è trasferito sul piano sociale e politico: non è il fato che ha decretato l'inferiorità di alcuni membri del genere umano e la superiorità di altri ma un'ingiusta divisione del potere e della proprietà. Non esiste il destino ma solo la passività degli individui. A scanso di equivoci, anch'io credo che l'illuminismo abbia segnato, col suo Sapere aude, l'alba di un giorno radioso nella storia della nostra specie, con il suo irrinunciabile catalogo dei diritti dell'uomo e del cittadino. E tuttavia la passione egualitaria che lo divorava, facendo tabula rasa del passato, delle tradizioni, delle consuetudini, ha finito a poco a poco per erodere efficacemente la legittimità di tutti i sistemi politici e gli assetti sociali che non mantenevano le promesse di emancipazione universale. Solo lo stato moderno (nazionale) europeo riuscì, in parte, a tenere in equilibrio precario passato e presente, tradizione e avvenire, politica e morale, religione e scienza ma il secondo conflitto mondiale lo ha, per così dire, sconsacrato. Da tempo, la forza del destino, di quel destino che ci fa nascere diversi e ineguali, si è indebolita: la malattia mortale che lo ha colpito si tramuta in aggressione contro quanto ne rimane in piedi e contro i cimeli, i simboli e i monumenti di un'era in cui esistevano ricchi e poveri, aristocratici e plebei, borghesi e proletari, signori e contadini. Molti si meravigliano del fatto che la violenza della polizia di Los Angeles riempia di orrore migliaia di volte in più della repressione sanguinosa dei dissidenti in Cina. Ma perché accada lo ha spiegato chiaramente Michele Serra nella sua amaca del 24 settembre 2019: « Il comunismo fu totalitario per imporre l'uguaglianza tra tutti gli uomini e l'internazionalismo. Il nazismo fu totalitario per imporre la superiorità di una nazione e di una razza e sancire l'inferiorità delle altre. Questa gigantesca differenza basta a sconsigliare ogni equiparazione tra le due ideologie e soprattutto tra le persone che ne presero le parti». Al di fuori dell'eguaglianza - in nome della quale si possono ammazzare più persone di quante non ne abbiano ucciso i regimi totalitari di destra - non ci sono valori (sia pure distorti come quelli in cui credevano i nazisti che stravolsero la comunità nazionale in tribù sanguinaria) ma solo i tentacoli del Male. Socialisme ou barbarie, per ricordare il movimento politico-culturale francese degli anni sessanta. Dire che la storia è opera dell'uomo e in quanto tale è impastata di bene e di male, ricordare con il geniale libertario Alexander Herzen che nessuna grande opera è stata costruita senza sacrificare esseri umani innocenti è inutile. La dilatatio di cui parla Marcello Veneziani nell'articolo «Sanificare tutto, pure la storia» (La Verità del 13 giugno), consistente nell'«estendere la morale del presente al passato, giudicare parole, atti e giudizi di altre epoche con gli occhi, le parole e i pregiudizi del nostro momento», la dilatatio, dicevo, può colpire chi rimane legato alle misure intellettuali e morali del mondo di ieri. Per chi ha fatto dell'eguaglianza un'arma distruttiva di massa e dell'etica del destino il codice di Satana, i richiami al buon senso lasciano il tempo che trovano. O forse servono a quanti intendono cavalcare l'onda dell'immarcescibile antiamericanismo per fare opera di mediazione tra il nuovo che avanza e il vecchio che sta ancora lì, lanciando agli sconfitti della storia un messaggio inequivocabile: affidatevi a noi, giacché solo noi riusciremo a salvare il salvabile! Quello italiano è «un popolo di santi, di poeti, di navigatori» diceva quel tale, avrebbe dovuto aggiungere: «e di mediatori».
CHI FOMENTA DI CONTINUO IL DISCORSO SUL “RAZZISMO”? Da sowingchaos.wordpress.com, il blog di Paolo Sensini, il 10 giugno 2020. Chi fomenta in continuazione il “razzismo”? Proviamo a vedere: se un bianco viene ucciso da un nero la responsabilità, ci spiegano con fermezza i signori del politicamente corretto, è strettamente personale. Vedi i casi della povera Pamela Mastropietro fatta a pezzi e abbandonata in due trolley sul ciglio di una strada a Macerata dal nigeriano Oseghale, ma le responsabilità sono state circoscritte alla sua sola persona – ed eventuali collaboratori – senza coinvolgere nessun’altro. E guai a chiunque avesse osato estendere le responsabilità a “nigeriani” o agli africani in generale, poiché ciò sarebbe stato immediatamente bollato in quanto “razzismo” dalla gogna televisiva e poi, come cigliegina sulla torta, preso in carico dagli integerrimi tutori della “giustizia” italiana. Stesso discorso per il sanguinario ghanese Adam Kabobo, che ha sfracellato la testa a tre milanesi che camminavano per strada a colpi di piccone, o per la povera Desirée Mariottini straziata come un cane da 4 delinquenti africani a Roma. O, ancora, per le centinaia e centinaia di altri casi di cui pullulano le cronache giornalistiche italiane o straniere. Se invece in Europa e Stati Uniti accade qualcosa a un nero, a un ebreo, a uno zingaro o anche a una donna, ecco che magicamente sono responsabile tutti i bianchi occidentali. In questo caso la colpa non è più individuale, come sarebbe naturale secondo ragione, ma coinvolge automaticamente tutta la razza “bianca” in quanto tale. Una colpa collettiva. Anzi, per essere ancora più precisi, responsabile di ogni crimine è il maschio bianco ed eterosessuale. Che porta indistintamente sulle spalle il peso della colpa per ogni crimine commesso. È così che funziona e viene continuamente rinfocolato il discorso sul razzismo da parte della “potenza di fuoco” mediatica gestita dalla sinistra. Come sempre due pesi e due misure. Oppure, se preferite, vi pisciano in faccia e dicono che sta piovendo!
Per i Cristiani uccisi in Africa non c’è nessun Black Lives Matter. Di Federico Cenci il 22 Luglio 2020 su culturaidentita.it. Fonte ilgiornale.it. L’ipocrisia dell’Occidente nel silenzio del massacro da parte dei jihadisti. Mentre l’Occidente progressista si strugge per l’uccisione di un nero negli Stati Uniti, decine di migliaia di neri sono vittime di persecuzioni anti-cristiane in Africa. Per loro, tuttavia, non viene inscenata alcuna mobilitazione di massa. Non si registrano cortei, campagne social, solidarietà delle multinazionali o atleti in ginocchio per i seguaci di Cristo vessati, incarcerati, torturati, massacrati. Sarà che forse i loro persecutori hanno la pelle nera o che la loro causa non genera profitti né si presta a strumentalizzazioni ideologiche e politiche, sta di fatto che il calvario dei cristiani d’Africa è avvolto nell’oblio. Eppure, i numeri della persecuzione sono spaventosi. Li svela nel suo periodico rapporto la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre. L’ultimo, che risale all’ottobre scorso e raccoglie fatti avvenuti nel biennio 2017-2019, rivela che tra i 20 Paesi al mondo in cui desta più preoccupazione la condizione dei cristiani, 8 si trovano nel Continente Nero: Egitto, Eritrea, Sudan, Repubblica Centrafricana, Camerun, Nigeria, Niger, Burkina Faso. Sotto la linea del Sahara il jihadismo islamico è penetrato come una calamità: dei 18 sacerdoti e una suora uccisi nel 2019, ben 15 sono stati assassinati in Africa. In Paesi come la Nigeria, dove imperversano i terroristi di Boko Haram e i nomadi Fulani, si svolge un vero e proprio circo degli orrori. Nelle prime settimane del 2020 sono stati diffusi in Rete video raccapriccianti: undici cristiani bendati e poi decapitati dai miliziani, stessa sorte per una donna in abito da sposa e per le sue damigelle poco prima di entrare in chiesa per il matrimonio a Maiduguri, nello Stato di Borno. E poi, ancora, un giovane ucciso con un colpo di pistola alla testa sparato da un bambino soldato. La Nigeria si conferma – rivela l’organizzazione Open Doors – il luogo al mondo in cui vengono uccisi più cristiani. Secondo il rapporto dell’intergruppo parlamentare per la libertà religiosa di Westminster, dal 2015 ne sono stati ammazzati oltre 6mila, 600 soltanto nei primi mesi del 2020. Nell’introduzione al testo, il presidente dell’intergruppo, Jim Shannon, parla dell’islamismo come di una “ideologia distruttiva e divisiva che porta a crimini contro l’umanità e che può spianare la strada verso il genocidio. Non dobbiamo esitare a dirlo”. Ma il termometro della persecuzione non si misura soltanto con il sangue, che pure sgorga a fiotti. L’oppressione che insidia la sequela di Cristo stringe pure le catene sui polsi. Centinaia di persone sono in prigione in Eritrea con la sola “colpa” di essere cristiani. Per lo più si tratta di appartenenti a gruppi evangelici, ma non è affatto serena la condizione cui soggiacciono i cattolici. Tra giugno e luglio dello scorso anno il feroce regime di Asmara ha confiscato 22 strutture sanitarie cattoliche e, nei mesi successivi, ha messo le mani anche su delle scuole affidate ai gesuiti. “Il tutto – denuncia una fonte locale ad Aiuto alla Chiesa che Soffre – avviene nell’indifferenza. Ma il mondo ci vede? Oppure si accorge dell’Eritrea soltanto quando si parla dei nuovi migranti che giungono sulle coste italiane?”. Questo è un punto nevralgico della questione. L’instabilità dell’Africa provoca emorragie che premono sulle coste settentrionali del Mediterraneo. Un’Europa che assiste indifferente alla persecuzione dei cristiani africani non soltanto compie un’opera di omissione morale, condanna anche sé stessa a subirne gli effetti in termini di ondate migratorie.
Tutti i “vizietti” dei maestri degli antirazzisti. Marco Gervasoni, 20 giugno 2020 su Nicolaporro.it. Difficile dire guardandoli in volto, ma i primati che abbattono le statue in Usa e in Uk, e quelli che le imbrattano in Italia, una cultura l’hanno. Certo, nel senso in cui gli antropologi ne parlano quando studiano gli aborigeni o le popolazioni della foresta amazzonica. Anche se, più che una cultura, la definirei una ideologia. Essendo movimenti a pulsione nichilistica, l’ideologia vi assume un carattere fondamentale – come ha insegnato Dostojevski, meno credi e più diventi fanatico di una religione terrena e secolarizzata, appunto l’ideologia. E allora andiamo a cercare da dove essa provenga Diversamente da quella comunista, nata dalle lotte operaie e contadine, questa dei vari movimenti ispirati a Black lives matter è un puro prodotto delle università e non ha alcun nesso con il mondo reale – neppure quello delle comunità afroamericane. In Europa è una semplice imitazione degli Usa – uno dei tanti fenomeni di americanizzazione – ma l’ideologia dei campus americani a sua volta proviene dall’Europa, e precisamente dalla Francia. È quella che viene chiamata French Theory e che entrò nelle Università americane a partire dagli anni Settanta. I suoi autori erano in larga parte francesi – Michel Foucault, Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Jacques Lacan – e vennero a rinnovare un marxismo universitario esangue. L’estrema sinistra se ne cibò subito anche se per somma ironia i maestri filosofici della French Theory erano Nietzsche e Heidegger, due pensatori solidamente di «destra». I campus americani hanno trasformato questa French theory in una ideologia anti-occidentale: secondo loro tutta o quasi la cultura europea e nord americane è da condannare in quanto figlia della dominazione patriarcale, sessista, colonialista e razzista. La teoria francese è poi ritornata in Europa, e anche nella stessa Francia, dove ha preso il nome di «indigenismo» e «razzialismo», e gli atenei sono diventati luoghi di diffusione di questo nuovo terrorismo «intellettuale». Anche se a ben vedere questi movimenti non perseguono una politica ma solo moralismo ed è per questo che sfrogolano nella vita privata dei personaggi storici di cui vogliono cancellare la memoria: nella loro visione primitiva (da primate) il privato è politica. Ebbene, adottiamo per un momento lo stesso schema e scorriamo in una serie di flash gli eroi dell’indigenismo e del razzialismo «anti razzista» per vedere se essi rispettano i rigidi canoni anti-patriarcali, anti-sessisti, anti-colonialisti, anti occidentali. Cominciando da Marx. Anche se i BLM non sono marxisti perché Marx è troppo difficile da leggere per loro, resta comunque una figurina del loro album. E qui cominciamo male. Marx trattava più o meno da schiava la moglie, che pur adorava, esercitava un controllo ferreo sulle figlie, possedeva insomma una mentalità vittoriana, tranne che nei confronti della cameriera, ingravidata senza riconoscere i figli. Mmmm, proviamo allora sul versante anti razzista e anti colonialista. Anche qui non va bene. Marx era un grande sostenitore del colonialismo e, come quasi tutti i marxisti dei decenni successivi, pensava che il compito dei paesi europei fosse di civilizzare gli africani e gli asiatici. Nelle sue cronache sulla guerra civile americana usò parole di fuoco contro l’ipocrisia dei Nordisti. Teoria, si dirà. Ma quando la figlia portò a casa il fidanzato, Paul Lafargue, poi uno dei più importanti marxisti francesi di quel periodo, nato da famiglia creola a Cuba, quindi non certamente «nero», lo trattò freddamente e la sera scrisse una lettera al suo amico e sodale e finanziatore Engels in cui fece capire di non apprezzare l’etnia del giovane; anche se poi vi si affezionò – e comunque anche la coppia di sposini fu mantenuta, come Marx, dal solito generoso Engels. Insomma, ci sarebbe materia per una bella sverniciatura, di rosso ovvio, sulla tomba di Marx a Hyde Park. Ma si dirà, l’Ottocento. Va bene e allora veniamo in tempi già recenti. Il teorico della negritudine, Jean Paul Sartre, era stato vagamente neutrale nella Parigi occupata dai nazisti, dove si rappresentavano regolarmente le sue opere teatrali, tradiva ripetutamente la compagna, Simone De Beauvoir, anche con la sorella di lei. Non risparmiava di raccontare a Simone le sue diverse conquiste, che lei riportava sarcasticamente nel lettere agli amici: «siate fiero di Sartre. Ha deciso che una Algerina neretta , una vera bionda e due false non gli bastano, Cosa gli mancava? Una rossa. L’ha trovata» Un Don Giovanni però un po’ freddo come amante ma soprattutto ossessionato dalla paura di essere omosessuale, anzi un «pederasta» come scriveva lui stesso. Certo, dal nostro punto di vista il dolo più grande di Sartre consiste nell’aver cercato di spacciare i gulag per una menzogna borghese, ma certo per gli «anti razzisti» non sarà un peccato, anche se nei gulag comunisti ci finirono anche gli omosessuali e gli ebrei, cosi per dire. Invece un sodale di Sartre, lo psicologo Frantz Fanon, francese martinico, diventò collaboratore del Fronte di Liberazione dell’Algeria e dei suoi sanguinari attentati terroristici; ma soprattutto, fu un grande sostenitore dell’Islam, non esattamente una religione che predica la lotta al patriarcato. Così come islamico era Malcolm X, uno degli eroi dei Blm: non era islamico invece Martin Luther King, in compenso, secondo i rapporti della Cia, era ossessionato dal sesso, partecipava ad orge e il suo tipo di approccio alle donne oggi non supererebbe la prova del Me too o, se vogliamo stare in Italia, di Non una di meno – ma neanche quella del codice penale per i reati di violenza sessuale. La stessa fascinazione per l’islam, nelle sue forme radicali, colse il massimo pensatore della French Theory, Michel Foucault, affascinato dalla rivoluzione islamica iraniana e dalla conseguente rimessa in riga delle donne, che invece nell’Iran dello Scia potevano circolare in mini gonna. Ma il vizietto del filosofo era ancora più grave, immaginiamo dal punto di vista dei nostri indigenti all’amatriciana, e questa volta anche nostro: teorizzava la pedofilia. Montanelli si è sposato con una ragazza etiope di 14 anni, secondo le leggi e gli usi locali. Foucault, invece, nel 1977, firmò una petizione rivolta al Parlamento francese in cui chiedeva di togliere il limite d’età per i rapporti sessuali, e anche il sesso con una bambina (anzi, dal suo punto di vista, con un bambino) di sei anni avrebbe dovuto essere consentito: andava riconosciuto, come scriveva la petizione «il diritto del bambino e dell’adolescente a intrattenere relazioni sessuali con persone a sua scelta». Anche perché, come disse nel 1982 il leader del sessantotto francese, a lungo eurodeputato verde, Daniel Cohn-Bendit in una trasmissione della tv francese di grande successo (il video agghiacciante si può vedere ancora in rete) «la sessualità di un bambino è fantastica». Dani il Rosso, che certo oggi starà dalle parte degli indigenisdi, non firmò quella petizione, ma lo fecero, tra gli altri, Roland Barthes, il grande teorico e critico letterario, un altro dei maestri della French theory, Gilles Deleuze e il suo amico e co-autore Felix Guattari, Jack Lang poi ministro della cultura di Mitterrand, Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, (rieccoli) il nouveau philosophe André Glucksmann. Sempre nel 1977, i medesimi pubblicarono su Le Monde una appello in difesa di tre francesi condannati per aver avuto rapporti omosessuali con una ragazza di 13 anni. A 13 anni, scrivevano Foucault, Deleuze, Barthes, Guattari e gli altri,«si è già di fatto una donna». Un anno in meno della sposa etiope di Montanelli. Ma se sei Foucault, o magari Pasolini, cacciato dal Partito comunista friulano per aver intrattenuto rapporti con i minori, almeno secondo l’accusa, te lo puoi permettere, e anzi lo puoi teorizzare. Invece se to chiami Montanelli, devi finire nella polvere. Marco Gervasoni, 20 giugno 2020
Viviana Mazza per corriere.it il 22 giugno 2020. La statua che raffigura Theodore Roosevelt a cavallo, e accanto a lui, a piedi, un nativo americano e un africano, ha troneggiato all’entrata del Museo americano di storia naturale di New York dal 1940. Ora sarà rimossa. A differenza di altre statue attaccate dai manifestanti dopo l’uccisione di George Floyd, in questo caso è stato il museo stesso a volerla rimuovere e il Comune ha dato il libera finale. Gli attivisti lo chiedevano da tempo, ma il museo aveva difeso quel «simbolo di un passato controverso dal quale possiamo imparare». Teddy Roosevelt continuerà ad essere onorato come pioniere della tutela delle risorse naturali (gli verrà dedicata anche la sala sulla Biodiversità, oltre a quelle che già portano il suo nome). Il museo spiega che però la statua equestre andava rimossa a causa della sua «composizione gerarchica» che rappresenta i neri e gli indigeni come inferiori. Lo stesso Theodore Roosevelt IV, pronipote 77enne del presidente americano (dal 1901 al 1909) e Premio Nobel per la Pace raffigurato anche sul Monte Rushmore, si è detto d’accordo: «Il mondo non ha bisogno di statue, relitti di un’atra era, che non riflettono né le virtù della persona che intendono onorare, né i valori di uguaglianza e giustizia. Questa composizione equestre non riflette l’eredità di Theodore Roosevelt. È tempo di rimuoverla e andare avanti». Ma il presidente Donald Trump ha obiettato su Twitter: «Ridicolo, non fatelo!» I critici di Roosevelt ricordano, tra le altre cose, questa sua frase: «Non arrivo al punto di dire che l’unico indiano buono è un indiano morto, ma credo che sia vero per nove su dieci». Barack Obama, tra gli altri, ha invece celebrato il leader repubblicano progressista, definendolo il promotore di «un sistema economico nel quale ogni uomo ha l’opportunità di mostrare il meglio che è in lui». Roosevelt ha creato i parchi naturali sottraendo le terre ai nativi. Era un uomo che pensava in linea con la visione della superiorità bianca del tempo: voleva assimilare i nativi-americani, rimuovendoli dalle loro terre e distruggendone la cultura, credendo che solo così potevano accedere al Sogno americano e alla «rispettabile cittadinanza».
Da corriere.it il 23 giugno 2020. Momenti di tensione durante la notte italiana in Lafayette Square a Washington, di fronte alla Casa Bianca, dove i manifestanti hanno tentato di rimuovere la statua di Andrew Jackson. Per disperdere la folla, affermano alcuni testimoni, la polizia avrebbe usato spray al peperoncino. La polizia è intervenuta dopo che, cantando «Hey, Hey, Ho, Ho, Andrew Jackson’s got to go», circa 150-200 manifestanti avevano cominciato a legare la statua del settimo presidente degli Stati Uniti, con alcune corde. Dopo alcuni scontri, durante i quali le forze dell’ordine hanno utilizzato anche spray urticanti, i poliziotti sono riusciti a creare un cordone di sicurezza attorno all’opera, che ritrae Jackson in sella a un cavallo. Jackson è finito nel mirino del movimento antirazzista perché considerato responsabile del cosiddetto «sentiero delle lacrime», la deportazione forzata dei nativi americani dalle loro terre di origine. Per protesta contro la morte di George Floyd molte sono le statue deturpate in America. «Numerose persone sono state arrestate per questo vandalismo vergognoso. Attenti! — ha ammonito su twitter il presidente Donald Trump mentre il segretario agli interni David Bernhardt che è stato presente sulla scena ha rilasciato una dichiarazione in cui diceva: «Sia chiaro: non ci inchineremo agli anarchici. La legge e l’ordine prevarranno e la giustizia sarà servita...
Da "huffingtonpost.it" il 25 giugno 2020. Rimuovere l’immagine di San Michele che schiaccia il demonio perché ricorda l’uccisione di George Floyd a Minneapolis. È la petizione lanciata dagli attivisti su Change.org che ha raggiunto 2000 firme in poche ore, come riportato dal Guardian. Gli attivisti hanno coinvolto la corona britannica perché l’Ordine di San Michele e di San Giorgio è una delle massime onorificenze diplomatiche che la regina concede ad ambasciatori e diplomatici e alti funzionari del Ministero degli Esteri che hanno prestato servizio all’estero. La petizione, avviata da Tracy Reeve, afferma: “Questa è un’immagine altamente offensiva, ricorda anche il recente omicidio di George Floyd da parte del poliziotto bianco allo stesso modo presentato qui in questa medaglia. Noi sottoscritti chiediamo che questa medaglia venga completamente ridisegnata in un modo più appropriato e che vengano fornite scuse ufficiali”.
La furia iconoclasta continua: ora vuole colpire la cristianità. Nel corso della storia i cristiani hanno dovuto combattere in numerose occasioni gli iconoclasti, i ma viviamo in uno dei periodi più bui per la nostra cultura. Francesco Giubilei, Mercoledì 24/06/2020 su Il Giornale. L’invito di Shaun King, scrittore, attivista di estrema sinistra e uno dei leader di Black Lives Matter, ai suoi seguaci di distruggere i simboli religiosi come le statue di Gesù poiché rappresentano “una forma di supremazia bianca” e di “propaganda razzista”, ci fa tornare indietro di secoli agli anni più bui del cristianesimo. Nel corso della storia i cristiani hanno dovuto combattere in numerose occasioni gli iconoclasti, già nel VIII secolo nell’impero bizantino si diffuse un movimento iconoclasta che promuoveva la distruzione delle icone accusando chi venerava le immagini sacre di sfociare nell’idolatria. Ciò generò un violento scontro tra i cristiani con gravi conseguenze materiali come la distruzione di migliaia di rappresentazioni religiose, di valore non solo spirituale ma anche artistico. In realtà, dietro la furia iconoclasta, si nascondevano ragioni politiche a causa della volontà degli imperatori bizantini di assumere il controllo di territori in mano ai monaci. Alcuni secoli dopo l’iconoclastia si ripropose con il calvinismo e il puritanesimo, figli della riforma protestante, che portò a distruggere numerose statue e immagini sacre nelle chiese del Nord Europa non più cattoliche. L’impossibilità di raffigurare le immagini sacre, è tipica della religione islamica che vieta di rappresentare Maometto ma non ha nulla a che fare con la storia cristiana, in particolare cattolica, ortodossa e armena che fa del culto delle immagini sacre una propria prerogativa. Non è un caso, come spiega Maria Bettetini nel suo libro “Distruggere il passato. L’iconoclastia dall’Islam all’Isis”, che il califfato islamico si sia reso protagonista di efferati episodi di distruzione del patrimonio artistico e culturale nei territori controllati. Chi l’avrebbe mai detto che dopo secoli di guerre ai cristiani e ai luoghi di culto, dopo essere sopravvissuti alla censura dei regimi comunisti, nell’impossibilità di professare la propria fede liberamente ancora oggi in tante aree del mondo (come in Medio oriente, Cina o in alcune parti dell’Africa), i cristiani dovessero assistere alla distruzione dei propri simboli nei luoghi che rappresentano la culla del cristianesimo come l’Italia, l’Europa e più in generale l’Occidente? Eppure è quello che sta avvenendo in questi giorni, non solo la distruzione della statua di San Junipero Serra ma un disegno di più ampio respiro: cancellare qualsivoglia simbolo o immagine che possa richiamare al cristianesimo. Gli episodi si susseguono da un lato all’altro dell’Atlantico; dall’Inghilterra arriva la richiesta di far rimuovere dalle onorificenze assegnate ai diplomatici dalla Regina, l’immagine di San Michele Arcangelo mentre schiaccia Satana poiché, secondo chi ha promosso la censura, l’immagine ricorda l’uccisione di George Floyd. Stiamo vivendo un attacco a ogni forma di identità europea e occidentale e, dopo la furia iconoclasta che nei giorni scorsi si è abbattuta su esploratori, politici e giornalisti, il movimento di protesta alza la propria asticella puntando sui simboli religiosi, ovviamente cristiani. Il punto è proprio questo: fino a che punto siamo disposti a celare, nascondere, negare la nostra identità? Cosa deve accadere affinché le istituzioni e i cittadini europei e americani mettano fine a questa pericolosa deriva censoria? Chi ci dice che il prossimo obiettivo non saranno proprio le Chiese che già in passato, proprio nella vicina Francia, sono state vandalizzate? C’è però una differenza tra l’attuale furia iconoclasta e quanto avvenuto nei secoli scorsi che la rende particolarmente pericolosa; oggi viviamo in una società sempre più secolarizzata dove il pensiero illuminista, nella sua accezione giacobina, ha permeato la mentalità comune. I cristiani sono abituati a una millenaria storia di attacchi e tentativi di cancellarne l’identità e non cederanno di fronte ai moderni iconoclasti ma viviamo in uno dei periodi più bui per la nostra cultura, sotto attacco sia da parte dell’ideologia liberal e globalista sia dalla follia del politicamente corretto assecondata con passività da tanti cittadini che non si rendono conto della strada sempre più pericolosa che abbiamo intrapreso.
Alessandra Benighetti per "ilgiornale.it" il 23 giugno 2020. "Sì, penso che le statue che raffigurano Gesù come un europeo bianco debbano essere abbattute, sono una forma di suprematismo e lo sono sempre stato, nella Bibbia quando la famiglia di Gesù voleva nascondersi indovinate dove è andata? In Egitto, non in Danimarca, buttatele giù". Fa discutere il tweet pubblicato ieri da Shaun King, scrittore americano ed attivista per i diritti civili, in prima linea nelle proteste anti-razziste che in queste settimane hanno scosso gli Stati Uniti. Nei giorni in cui a New York divampa la polemica per la rimozione della statua del presidente americano Theodor Roosevelt dall’ingresso dell'American Museum of Natural History perché colpevole di essere raffigurato a cavallo con a fianco un afroamericano e un nativo americano a piedi, King ha deciso di rilanciare proponendo l’eliminazione di tutte le statue di Gesù e Maria, come siamo stati abituati a vederle da centinaia di anni. Il motivo, spiega in un altro tweet, è che le ricostruzioni storiche più accurate descrivono Gesù con la carnagione scura. Il problema, attacca, è che "gli americani bianchi che per centinaia di anni hanno comprato, venduto, scambiato, violentato e schiavizzato a morte gli africani in questo Paese, semplicemente non possono avere quest’uomo al centro della loro religione". Per l’attivista, quindi, è giunto il momento di cambiare finalmente volto a Gesù, ripristinando la sua "vera" immagine." Se la vostra religione richiede che Gesù abbia i capelli biondi e gli occhi azzurri, allora la vostra religione non è il cristianesimo ma il suprematismo bianco", incalza l’intellettuale afro-americano. "La fede cristiana – aggiunge – e non il cristianesimo bianco è stata la prima religione di questo Paese per centinaia di anni". Una provocazione, la sua, che rischia di infiammare ulteriormente il clima dopo settimane di tensioni seguite all’uccisione, durante un arresto a Minneapolis, dell’afroamericano George Floyd. Il rischio che si passi dalle parole ai fatti, visti gli atti vandalici che si sono susseguiti in questi giorni contro i simboli "colonialisti", è concreto. Come racconta Marco Gervasoni sul Giornale venerdì scorso a San Francisco un gruppo di persone ha tirato giù il monumento dedicato al francescano spagnolo San Junípero Serra, accusato di "genocidio nei confronti dei nativi". Papa Francesco, invece, l'ha fatto santo proprio per il merito di aver difeso la "dignità della comunità indigena", proteggendola "da coloro che l'hanno maltrattata e abusata". Con la statua del frate è venuta giù anche la croce. L'assalto ai simboli cristiani è già iniziato anche in Europa, sull'onda delle proteste americane: durante le manifestazioni antirazziste a Firenze una teca contenente un affresco dedicato alla Vergine è stato sfregiato con lo slogan Black Lives Matter impresso con la bomboletta. A replicare a King in un tweet è la consulente legale del presidente Trump, Jenna Ellis. "Se provassero a cancellare il cristianesimo, se mi costringessero a scusarmi o abiurare la mia religione, io non mi piegherò, non esiterò", scrive l’avvocato in un tweet. "Sta solo difendendo il suo essere bianca", replica King. "Il cristianesimo bianco ha bisogno di un Gesù bianco – attacca ancora l’intellettuale – non si tratta di generosità o gentilezza, né di proteggere i deboli, ma del suprematismo bianco, attaccate "Gesù bianco" e attaccherete la sua religione".
Mario Niola per “il Venerdì - la Repubblica” il 26 giugno 2020. È l'ultimo grido del politicamente corretto. O non è che la versione aggiornata di una antichissima demonizzazione del simulacro? All'abbattimento del monumento allo schiavista Edward Colston, gettato nelle acque del porto Bristol dagli attivisti del movimento Black Lives Matter, ha fatto seguito un ampio dibattito che l'imbrattamento del monumento a Indro Montanelli ha reso ancor più vivace. Peccato che fra i tanti argomenti spesi a favore o contro il gesto, sia passata sotto silenzio la questione fondamentale. Cioè quella paura ancestrale delle statue che attraversa la storia, l'arte, la letteratura, il mito e la religione dell'Occidente. Dai kolossoi greci, arcani e temibili ricettacoli di potenza, all'antica Roma, dove era vietato erigere statue a persone ancora in vita, fino al cristianesimo che per molti secoli le guarda con sospetto, come dei doppi, dei sosia inquietanti della persona, umana e divina. In realtà è la tridimensionalità delle sculture a farne, molto più che delle opere d'arte, dei quasi-esseri. Tant' è vero che nel nostro immaginario basta poco a risvegliarle dalla loro fissità e a trasformarle in temibili ritornanti. Dal Convitato di pietra che uccide il don Giovanni di Mozart alle statue assassine, magiche, diaboliche protagoniste dei racconti fantastici di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, di Prosper Mérimée, di Henry James, di Stephen King, a loro volta simili a quelle che in molte religioni improvvisamente riprendono vita. Perché in realtà alle statue manca un soffio per essere vive. Non sono semplici rappresentazioni come i quadri. Evidentemente non lo sono nemmeno per coloro che giudicano le immagini del passato con i valori del presente. Facendo del politicamente corretto una forma di integralismo laico. Una nuova idolatria del simulacro. Negativa sì, ma pur sempre idolatria.
Vito Punzi per "Libero" il 26 giugno 2020. Il vento iconoclasta che si sta abbattendo furioso ad ogni latitudine a Berlino è stato anticipato di qualche settimana da un duro dibattito nel quale s' intrecciano religione, passato nazista e nostalgia comunista. Prima di citare i fatti è bene ricordare che il Land della capitale tedesca è in mano ad una coalizione rosso-rosso-verde (socialdemocratici, sinistra e verdi) nostalgica delle forme adottate dal regime comunista in versione tedesco-orientale tra il 1949 e il 1990: da ultimo, a mo' d'esempio, la festa della liberazione dal nazismo, l'8 maggio, festa di Stato per la DDR, ma mai riconosciuta come tale dalla Germania Federale, perché per milioni di tedeschi significò la sottomissione alla dittatura filo-sovietica. Recupero di una certa memoria utile alla causa da un lato e volontà di rimozione di ciò che è ritenuto memoria scomoda dall'altro. Come tutto ciò che, finora riconosciuto come patrimonio culturale, si trova nel contesto dello stadio olimpico berlinese. Progettato e realizzato l'intero complesso per le olimpiadi del 1936 dal regime nazista, a dare fastidio, perché eredità del Terzo Reich, sono in particolare le grandi sculture (come Il pugile di Josef Thorak e Il decatleta e La vittoriosa di Arno Breker), perché testimonianze del "culto nazista del corpo". Così secondo Peter Strieder, socialdemocratico, che con un appello pubblicato il 16 maggio scorso da Zeit ha chiesto la loro rimozione. Un appello nel quale Strieder, che pure è figlio di Peter senior, storico dell'arte noto anche in Italia per una monografia su Dürer, si scaglia pure contro le pitture murali, della stessa epoca e recentemente restaurate, che si trovano nella Casa dello Sport Tedesco, lamentando in sostanza che «l'intero complesso sportivo sia tuttora così come fu costruito dai nazionalsocialisti perché definito edificio protetto». Le statue e le pitture sono ancora lì. Un appello per ora inascoltato, dunque. Anche perché immediata è stata la replica dell'architetto Hans Kollhof, che ha ricordato a Strieder che, tenendo conto delle vicende degli artisti coinvolti e dello stile delle opere lì realizzate, se quelle venissero soppresse «semplicemente verrebbe distrutta anche l'arte creata prima dell'avvento della dittatura nazista».
L'edificio danneggiato L'altro fronte iconoclasta apertosi di recente nella capitale tedesca è quello religioso-colonialista. È stata una lunga battaglia (dal 2017) ma alla fine sul ricostruendo castello degli Hohenzollern il 29 maggio scorso è stata collocata la croce che si trovava sull'edificio originale voluto dall'ultimo imperatore tedesco. Gravemente danneggiato dalle bombe, ma non raso al suolo, alla fine della guerra, il castello lo si sarebbe potuto restaurare. Secondo i sovietici però, gli occupanti di quella zona berlinese, si trattava di una testimonianza della Germania nazista, dunque nel 1951 fecero saltare in aria quel che ne restava. La decisione di ricostruire lo Schloß nel cuore di Berlino ha suscitato polemiche. Al suo posto venne edificato il Palast der Republik, considerato un simbolo della DDR comunista, a sua volta demolito nel 2008, nonostante le proteste dei cittadini. Valeva la pena ricostruire il castello, che sarebbe sempre stato un falso storico, una sorta di Disneyland prussiana? Il concorso internazionale venne vinto dall'architetto vicentino Franco Stella, 76 anni, autore di un progetto vincente perché conciliante il passato (la facciata è stata rifatta fedelmente) con le moderne esigenze. Secondo le previsioni il castello verrà inaugurato nel suo insieme entro il 2021, ma nel frattempo la polemica si è riaccesa in ragione della collocazione o meno della croce originaria sulla sua cupola. Se ne discuteva dal 2017: essere fedeli alla storia o al politically correct? La citata coalizione rosso-rosso-verde sosteneva che sarebbe stato meglio dimenticarsi della croce: «Perché mai volere imporre quel simbolo nel XXI secolo come cento anni fa?», chiedeva il senatore alla cultura Klaus Lederer, della Linke, la sinistra estrema. E si cercava anche una motivazione logica: nella cupola del vecchio castello si trovava la cappella e quindi la croce aveva una giustificazione, ma nel rifacimento di Stella la cappella non c'è. C'era poi chi, come lo storico dell'arte Horst Bredekamp, uno dei curatori della ricostruzione, sosteneva essere da una parte vero che «si è deciso di ricostruire il castello il più fedelmente possibile, ma d'altra parte si deve tener conto del dibattito in corso e la croce può essere interpretata come un simbolo del vecchio colonialismo». Sulla stessa lunghezza d'onda la storica dell'arte Mahret Kukpa, attivista di Initiative Black People in Germania: «Il cristianesimo è stato un canale attraverso il quale anche il colonialismo ha funzionato ed è stato rafforzato. Fu nel nome del cristianesimo che le cose furono rubate o distrutte».
Il finanziamento Va detto che cupola e croce nel progetto originario di ricostruzione non erano previste. È stato nel 2017 che l'ipotesi è stata avanzata a fronte di un finanziamento privato che le avrebbe rese possibili senza interventi statali. Così i quasi 15 milioni di euro necessari per entrambe provengono da donatori, alcuni dei quali anonimi. Memoria coloniale e simbolo di intolleranza religiosa, perché riproposta in una città che conta oltre 250.000 musulmani, senza contare i tanti non religiosi e i cattolici ed evangelici, considerati per lo più molto tiepidi? A difesa dell'operazione la cristiano-democratica Monika Grütters, cattolica: «La croce come simbolo del cristianesimo è sinonimo di carità, libertà, apertura mentale e tolleranza». Ciò che più sorprende è che questa posizione sia stata supportata da Aiman Mazyek, il presidente del Consiglio centrale dei musulmani in Germania: «La croce sulla cupola», dichiarò già nel 2017, «è in Germania un'eredità culturale e storica, appartiene al nostro paese, religiosamente e culturalmente, dunque non provo alcun disturbo». Mazyek dixit. E così fu. A proposito di simboli ed "eroi" che ritornano a Gelsenkirchen è stata eretta una statua a Lenin, l'inventore dei gulag. riproduzione riservata.
Lasciate in pace le statue. Lorenzo Vita il 27 giugno 2020 si Inside Over. “Colpire uno per educarne cento”. I motti tornano. Come la storia che, tanto per rimanere nel solco della tradizione di sinistra, “si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. Difficile credere che quella che viviamo oggi sia la tragedia, visto che di furie iconoclaste l’Occidente ne ha vissute parecchie e di ben più profonda rabbia. Più semplice pensare che ci ritroviamo nella farsa. Perché quello cui assistiamo oggi non è soltanto il rovesciamento della realtà storica, ma una vera e propria follia che pervade gruppi di manifestanti più prede di un delirio distruttivo che di volontà di costruire qualcosa di nuovo. Il problema è che in questa farsa va di mezzo il mondo, o quantomeno l’Occidente. E forse è il caso di iniziare a capire quale sia il senso di questa farsa. Perché all’assalto delle statue e dei simboli della cultura occidentale non si è contrapposto un vero e proprio rifiuto da parte di molti. La cosiddetta maggioranza silenziosa non si è opposta davvero con la stessa forza a quelli che possono essere considerati dei veri e propri attentati alla nostra storia. E i gesti eclatanti lasciano un segno più o meno indelebile fino a diventare qualcosa di normale. Ma che normale non è ed è bene ricordarlo. Specialmente perché questa società, che fin troppo spesso si considera superiore alle precedenti, non si rende conto che, se non è peggiore dei suoi antenati, sicuramente non è migliore di chi l’ha preceduta. E probabilmente ne è anche la perfetta erede, visto che commette esattamente gli stessi errori. Ora, a distanza di secoli dall’iconoclastia, ne assistiamo ad un’altra che ha dei caratteri particolari. Non se la prende con simboli di una oppressione attuale. Non se la prende con tiranni che vivono nel presente. Non colpisce i simboli della società che effettivamente la sfrutta. Colpisce la storia, personaggi a volte anche più o meno sconosciuti, che hanno avuto la “sfortuna” di avere una statua a loro dedicata in qualche giardino o piazza e che adesso si vedono decapitati o dipinti di rosso con accuse infamanti o prive di senso. Frutto non solo di un’errata interpretazione storica che revisiona i fatti con gli occhi del presente ma che dimentica che quei simboli non rappresentano la persona, ma cosa ha fatto quella persona. E qui c’è il vero problema. Nessuna statua è eretta per celebrare un uomo che è stato un buon padre di famiglia. Nessuna piazza viene intitolata a una persona che ha vissuto esclusivamente nell’onestà. E di certo nessuna statua è stata costruita per valutare se la persona raffigurata fosse simpatica, gentile, giusta o priva di difetti. Anche scabrosi. Non è il compito di una statua equestre dirci se quel condottiero abbia commesso qualche crimine né di un quadro o di una targa rivelarci se la persona a cui è legato si sia macchiato di qualche colpa. La statua di Winston Churchill non serve per dirci che fosse maschilista o alcolista, ma per aver salvato l’Europa dal nazismo. La statua di Cristoforo Colombo non serve a ricordarci che il navigatore genovese fosse un fiero cattolico che scoprì per caso le “Indie” ponendole sotto la corona di Spagna, ma ci ricorda che sfidò miti, leggende e tecnica dell’epoca scoprendo una rotta che ha cambiato per sempre la storia dell’uomo. Così come il re del Belgio non è lì raffigurato a Bruxelles per ricordarci delle sue azioni nelle colonie, ma per aver ricostruito la capitale. E questi nomi sono solo la punta dell’iceberg. Sono centinaia le persone finite su questa lista nera – se ancora si può chiamare così per il politicamente corretto – per avere avuto la “colpa” di comportarsi come qualsiasi persona del proprio tempo. Conquistadores, re, primi ministri, soldati, benefattori con un passato poco onorevole, filosofi, imperatori Tutto nello stesso calderone. Tutto frutto di un errore, che è quello di pensare che il simbolo esalti la persona e non la sua importanza. No: la statua non è un certificato di eccellenza sull’essere umano. È semplicemente il frutto del ricordo di chi – con quei fatti – ha plasmato una comunità. Ed è lì per quello. È un “curriculum”, non una medaglia per essere stati buoni, giusti o più che onesti. Non merita rispetto? Possibile. Di certo non merita la gogna. Forse qualcuno vorrà mettere un bollino come nei film per ricordarci che quella statua rappresenta il passato. Forse qualcuno vorrà abbatterla perché la considera retrograda. Ma a questo punto la domanda è un’altra: cosa vogliono lasciare in piedi? Di sicuro poco. Perfettamente in linea con i peggiori secoli dell’essere umano.
Simone Sabbatini per "corrriere.it" il 5 luglio 2020. L’analogia è già stata segnalata ovunque, in altre occasioni, ma questa volta l’immagine sembra davvero la stessa: cambiano solo lo sfondo e la forma della statua. Anche le persone, poche e festanti, sono in numero simile. Il Saddam Hussein di 17 anni fa a Bagdad, il Cristoforo Colombo di oggi a Baltimora. L’abbattimento del simulacro del navigatore italiano, questa volta poi buttato nel porto della città del Maryland, è solo l’ultimo di una serie: nelle scorse settimane ne sono avvenuti a Minneapolis e Richmond, in Virginia, mentre altrove, come a Boston, le sculture sono state decapitate o vandalizzate. La foto e i video di Baltimora arrivano all’indomani della contestata celebrazione orchestrata da Donald Trump al Mount Rushmore, e nel Giorno dell’Indipendenza più complicato della storia americana recente. Com’è noto, Colombo è finito nel calderone dei personaggi di cui si chiede la rimozione, non solo fisica, dalla memoria collettiva americana, in ragione delle violenze perpetrate ai danni delle popolazioni indigene (un genocidio, secondo alcuni storici) incontrate durante le esplorazioni negli ultimi anni del 1400, in particolare quella dei Taìno a Hispaniola, l’isola dove oggi ci sono Haiti e la Repubblica Dominicana. Ma a ennesima testimonianza di come i cambiamenti di scenario storico ribaltino il significato di alcune figure anche di 180 gradi, a fine Ottocento il mito di Colombo era celebrato come elemento identitario di chi all’epoca si sentiva oggetto — come oggi, e da decenni, la popolazione afroamericana — di discriminazioni razziste: gli immigrati italiani. Quarant’anni dopo, l’esploratore diventò l’oggetto di una festa nazionale, il Columbus Day, che negli anni Trenta divenne anche un’occasione per celebrare l’orgoglio italiano incarnato in quel momento, per molti italo-americani, da Benito Mussolini, un dittatore come lo era Saddam. Altro giro della Storia. Da giorni il fenomeno di assalto alle statue contestate perché razziste si è allargato ad altri Paesi, come la Francia e la Gran Bretagna (qui lo speciale del Corriere), allungandosi blandamente persino in Italia (il caso Montanelli, a Milano). Ma è in America – dove il presidente ha scelto proprio in occasione del 4 luglio di contro-combattere la battaglia della Storia, invece che minimizzarla o ignorarla – che viene da chiedersi fino a dove si spingerà e quanto segnerà il futuro prossimo del Paese, in primis quello elettorale. La distruzione delle statue e la paura di un attacco ai simboli della Nazione (o solo della sua parte bianca, secondo chi protesta) compatta molti conservatori e spaventa alcuni moderati. Può essere un elemento di riscossa trumpiana, come i suoi strateghi sembrano credere? Metterà in difficoltà Joe Biden, una volta che la campagna entrerà nel vivo, come successe a Obama con le parole del suo pastore e amico Jeremiah Wright nel marzo nel 2008 («Dio maledica l’America che uccide persone innocenti»)? E l’attacco a Colombo avrà qualche presa sugli italo-americani? La distruzione nelle strade scaturite dalle rivolte in seguito all’uccisione di George Floyd approderà anche a una parte costruttiva di recupero di una cultura, quella nera (o nativa o latina o asiatica), ampiamente rimossa o tenuta nascosta. Accanto alle vecchie statue, o a quelle che rimarranno in piedi, ne sorgeranno di nuove? Nel frattempo le parole e le immagini prendono peso man mano che si fissano nella memoria, in questo caso quella recentissima, come le pietre acquistano forza d’urto mentre rotolano. E l’immagine di Colombo trattato come Saddam incarna (anche) i rischi dei paragoni storici che scattano in automatico, appiattendo sulla superficie fotografica di uno schermo distanze lunghe secoli: con effetti imprevedibili. È difficile figurarsi cosa possa pensarne un 19enne neo-maturato, che ha studiato qualche anno fa l’uno (Colombo) e, forse, qualche settimana fa l’altro (Saddam). Bisognerebbe chiederglielo. Cosa vince, tra una faticosa prospettiva e una sovrapposizione fulminante?
Giù le mani da Colombo. Appello anti iconoclasti. L'appello di intellettuali e giornalisti per celebrare l'esploratore genovese finito nel mirino del movimento Black lives matter. Il 12 ottobre festa contro ogni revisionismo. IlGiornale, Venerdì 03/07/2020. Dal 2004 è stata introdotta la Giornata nazionale di Cristoforo Colombo (Dir. PCM 20/2/2004) «da svolgersi annualmente il giorno 12 ottobre, ricorrenza dello storico sbarco dell'esploratore genovese nel continente americano», purtroppo ignorata da molti italiani. Una dimenticanza che può diventare una rimozione o una censura di fronte all'ondata iconoclasta che sta travolgendo l'Occidente e che ha nel navigatore italiano uno dei suoi principali bersagli. Oggi Colombo, dopo aver affrontato e sconfitto i giudizi e i pregiudizi della sua epoca, è costretto a subire quelli del nostro tempo. A giudicarlo non ci sono più la «junta dos mathematicos» - cioè la commissione dei saggi di re Joao II del Portogallo - o i Dotti di Salamanca che lo avevano considerato un marinaio ignorante e visionario bocciando senza appello la sua idea di «buscar el Levante por el Ponente». A oltre 500 anni dalla morte, Don Cristobal Colòn, come lo chiamano in Spagna, deve subire nuove ingiurie. Con una semplificazione senza senso, l'ondata di sdegno per l'ingiusta morte di George Floyd a Minneapolis, si è trasformata nella damnatio memoriae del grande marinaio, considerato non colui che scoprendo l'America ha modificato il corso della storia del mondo dando inizio all'era moderna, ma solo uno sterminatore di popoli nativi. «A Portorico, da dove vengo, si sta discutendo del fatto che non dovrebbero esistere monumenti a Cristoforo Colombo, considerando cosa significa per la popolazione nativa l'oppressione e tutto quello che ha portato con sé» aveva spiegato un paio di anni fa Melissa Mark-Viverito, allora speaker del consiglio comunale di New York City, istituendo una commissione municipale per decidere se rimuovere la famosa statua di Columbus Circle donata alla città dagli italo-americani nel 1892 in occasione del quattrocentesimo anniversario della scoperta dell'America. Per fortuna Bill de Blasio, sindaco italoamericano e ultra liberal della Grande Mela, ha ribadito in questi giorni che lascerà la statua dov'è, ma in altre città la follia anti Colombo non si placa. Nonostante le proteste civili e misurate della National Italian American Foundation, a Los Angeles, Seattle, San Francisco, Albuquerque, Denver e Washington DC, hanno addirittura abolito il Columbus Day. L'intolleranza politicamente corretta, in realtà, ha preso di mira Cristoforo Colombo da tempo e addebitare le tensioni razziali della società americana all'esploratore genovese, illudendosi che basti distruggerne le statue e cancellarne la memoria per risolvere problemi del genere, è ipocrita e sbagliato. Oltretutto le campagne censorie si sa dove iniziano ma non dove finiscono e possono colpire chiunque con una pericolosa riscrittura della storia: Gandhi, ad esempio, la cui statua è stata rimossa da un campus universitario in Ghana dove è considerato un razzista; l'ammiraglio Horatio Nelson che andrebbe sloggiato dalla sua colonna di Trafalgar Square in quanto sostenitore dell'imperialismo; il capitano James Cook, considerato da alcuni fanatici che ne hanno rovinato la statua non lo scopritore dell'Australia ma il suo invasore; Cecil Rhodes sfrattato brutalmente, in quanto colonialista, dall'Università di Oxford che però da più di un secolo beneficia in esclusiva delle generose borse di studio della «Rhodes Scholarship», erede della immensa fortuna di Rhodes e istituita per finanziare gli studi dei giovani meritevoli di tutti i paesi del Commonwealth. Persino Martin Luther King, descritto in alcune recenti inchieste basate su rapporti dell'FBI di Hoover come maschilista e predatore, Winston Churchill e Giulio Cesare le cui statue, a Londra e in Belgio, sono state imbrattate con insulti, per non parlare di Indro Montanelli in Italia. Una grottesca escalation che sta trasformando in realtà le distopie di George Orwell («l'ignoranza è forza», 1984) e Aldous Huxley («La storia è tutta una sciocchezza», Il Mondo Nuovo). Stiamo assistendo alla pretesa di voler negare, modificare, manipolare la storia scaraventando gli eventi in un frullatore che li tritura e impasta decontestualizzandoli, semplificandoli, banalizzandoli, trasformandoli per poi restituirceli sotto forma di una riscrittura nella quale i fatti vengono sviliti e degradati a una banale ed elementare narrazione che contrappone i buoni ai presunti cattivi che vanno cancellati dalla memoria storica. Così fanatici ed esaltati diventano paladini della giustizia e atti come distruggere statue e profanare cimiteri, azioni encomiabili anziché gesti da condannare. Una deriva di fronte alla quale non si può restare indifferenti, incominciando con la difesa del primo della lista: Cristoforo Colombo, grande navigatore genovese e grande Italiano. Per questo riteniamo la Giornata nazionale di Cristoforo Colombo debba essere ricordata con eventi e iniziative nelle scuole, nelle università italiane e in tutte le istituzioni e il prossimo 12 ottobre ci incontreremo a Genova per ricordare e celebrare Colombo lanciando un manifesto in difesa della memoria, della storia e della libertà. Al tempo stesso, per contrastare la deriva iconoclasta, riteniamo sia necessario promuovere una legge con pene adeguate nei confronti di chi vandalizza le statue e il patrimonio storico e artistico a partire da una riforma dell'articolo 733 del Codice penale. Promotori: Francesco Giubilei e Marco Valle.
Primi firmatari: Airoma Domenica, Alfatti Appetiti Roberto, Andriola Fabio, Ballario Giorgio, Barberis Vignola Gabriele, Bartolini Simonetta, Beatrice Luca, Becchi Paolo, Biloslavo Fausto, Bozzi Sentieri Mario, Breschi Danilo, Cannella Giampiero, Capezzone Daniele, Capozzi Eugenio, Carlesi Francesco, Carnieletto Matteo, Cimmino Marco, Cofrancesco Dino, Corsaro Massimo, De Angelis Marcello, De Benedictis Ferrante, De Leo Pietro, Del Vigo Francesco Maria, Dell'Orco Daniele, Della Frattina Giannino, Di Lello Aldo, Di Rienzo Eugenio, Epidendio Tomaso, Fonte Fabrizio, Galietti Francesco, Gallesi Luca, Gervasoni Marco, Grandi Augusto, Griffo Maurizio, Iannone Luigi, Indini Andrea, Introvigne Massimo, Lucarini Luciano, Magliaro Massimo, Malgieri Gennaro, Mantica Alfredo, Mantovano Alfredo, Marconi Gabriele, Marotta Francesco, Marsonet Michele, Mascia Donatella, Mazza Mauro, Meotti Giulio, Micalessin Gian, Mola Aldo, Musarra Antonio, Ocone Corrado, Pacifici Vincenzo, Parlato Giuseppe, Pedrizzi Riccardo, Pelliccetti Riccardo, Predolin Roberto, Ricci Aldo, Rico Alessandro, Romano Tommaso, Rondoni Davide, Sallusti Alessandro, Sallusti Giovanni, Sfrecola Salvatore, Scalea Daniele, Scarabelli Andrea, Segatori Adriano, Siniscalco Luca, Specchia Francesco, Tatarella Fabrizio, Terranova Annalisa, Tricoli Fabio, Veneziani Gianluca, Vignoli Russo Giulio, Vivaldi Forti Carlo, Weilbacher Massimo, Giuseppe Valditara, Zecchi Stefano.
Giulio Busi per ''Il Sole 24 Ore'' il 12 luglio 2020. Solitario, scontroso, testardo. Un eroe romantico, capace di superare, quasi senza aiuti, ogni avversità. Un bell' uomo, volitivo, dotato di grande fascino personale, amato dalle donne e ammirato dai maschi per la sua coraggiosa virilità. Un genio intrattabile, un grande parlatore e un cavaliere senza paura e, spesso, senza pietà. Cristoforo Colombo fu probabilmente anche tutto questo. Ma se fosse stato solo questo, la sua impresa sarebbe rimasta, al massimo, un romanzo di gesta, sullo sfondo di mari esotici. La verità è più complessa della trama di un romanzo. E meno rassicurante. Dietro l' eroe solitario, si stende la rete fitta delle amicizie, dei protettori e, perché no, degli investitori che puntano su di lui. Alla passione e al coraggio, s' uniscono violenza, sopraffazione, tradimento. Una biografia di Colombo, oggi, non può che essere un libro corale, con tanti personaggi, che manovrano la storia come i marinai portano una nave. Ciascuno al suo posto, quelli che si vedono in coperta e quanti non si fanno notare. Solo il capitano ne conosce i nomi, sa impiegarli al meglio, li controlla e si fida di loro. E quale capitano è mai stato migliore di Cristoforo, nato lanaiolo e morto ammiraglio del mare oceano? Se la si guarda dall' alto della fama di cui godrà dopo il 1493, la prima fase ligure dell' esistenza di Cristoforo, artigiana e popolare, sembra davvero fuori scala, come se appartenesse a un altro personaggio, con un diverso destino. La distorsione biografica ha fatto scorrere fiumi d' inchiostro. E ha alimentato un' inesauribile sequela di «Colombo» esotici. Nella fantasia di dilettanti, complottisti e novellatori d' ogni genere, il «vero» Colombo è sempre qualcun altro, venuto da un mondo impossibile e stralunato. Dalla Galizia alla Catalogna, dal Portogallo alla Polonia, gli sono state attribuite infinite patrie, una più improbabile dell' altra. Lo si è immaginato ebreo, fedele alla propria tradizione o convertito al cristianesimo, a forza o per convenienza. Un dissimulatore nascosto sotto una seconda, terza identità - sfuggente, tormentato e tormentatore, dedito agli intrighi. Proprio perché lui, l' uomo in carne e ossa, di cui ci parlano i documenti, ha avuto una vita così strana, contraddittoria, segretamente fuori luogo. Ma è di sproporzioni che vive la realtà. L' avventura di Cristoforo è tutta qui. Una dura risalita sociale, il riscatto dell' ennesimo parvenu che si trasforma - per genio, per fortuna, per avventura - in un capitolo, nuovo e travagliato, della storia mondiale. Una volta divenuto celebre e potente, Cristoforo cerca di annacquare le sue origini modeste. Un compito, questo della nobilitazione a posteriori, in cui s' impegneranno con ancora maggior determinazione i suoi discendenti, ormai entrati a far parte dell' altezzosa aristocrazia spagnola. Qualcuno però, anche in Spagna, sa. E chi sa, prima o poi parla. Decisiva, per sciogliere il mistero di Colombo, è una lingua tagliata. È la lingua di una povera donna. Ines de Malaver è il suo nome. Il suo torto? Quello di aver detto la verità. La lingua l' ha persa nel nuovo mondo, dove ha seguito Colombo e le sue ciurme riottose, in cerca di denaro e di mirabolanti ricchezze. Anziché trovare l' oro, Ines è incappata nel coltello del carnefice. Ha sparlato, come tanti altri, alle spalle di Cristoforo e dei suoi fratelli. Altro che ammiraglio, spiffera Ines, lui e i suoi fratelli sono stati garzoni, e il padre loro è un povero tessitore. Nobili? Avete mai visto un grande di Spagna con la spola in mano? Non fosse stato per l' inchiesta istituita contro Cristoforo nel 1500, a causa dei suoi abusi, probabilmente non avremmo mai saputo di questa brutta vicenda dell' amputazione della lingua. Detto fatto, Bartolomeo Colombo, il fratello incaricato di amministrare la giustizia nei nuovi possedimenti, fa punire la pettegola in modo orribile. «Delitto» e pena sono a verbale, riferiti da testimoni oculari durante il procedimento a carico di Cristoforo. Il fascicolo degli interrogatori, che per secoli si era creduto perso, è stato ritrovato in Spagna una quindicina d' anni fa. Ed ecco che, grazie a Ines de Malaver, e alla sua tragica mutilazione, le teorie fantastiche sulle origini principesche dei Colombo vengono a cadere di colpo. Speriamo che se ne accorgano i molti che ancora ricamano, in lungo e in largo, su pseudo-genealogie colombiane. Nessun documento d' archivio, per quanto autentico, può valere quanto una punizione così crudele. L'origine genovese e la nascita di Cristoforo da un padre lanaiolo non è stata inventata a tavolino da storici manipolatori. Serpeggiava tra qualche bene informato, anzi, bene informata, già nell' anno di grazia 1500. Volete la storia vera? Attenti però a come parlate, perché potreste pentirvene. Accanto alle luci, ci sono naturalmente le molte ombre, gli episodi di chiusura, di violenza, di durezza. Quello di Cristoforo è un mondo smisurato e aperto come il mare. E, come il mare, può essere minaccioso, estraneo, mortale. Il dramma degli indigeni, incontrati al di là dell' Atlantico e subito traditi, ridotti in servitù, sterminati, è lì a mostrarcelo, questo lato tenebroso del sommo scopritore. Negli ultimi decenni, e più che mai in queste settimane, l' immagine di Colombo è stata rivisitata, criticata, attaccata. Via il suo nome da strade e piazze. Le statue di Colombo cadono come birilli. In Minnesota, a Boston, a Richmond, a Baltimora, e chissà ancora dove, i monumenti, a quello che un tempo era considerato un grande della storia, perdono letteralmente la testa, vengono bruciati, buttati tra le onde. Dobbiamo mettere Cristoforo tra i più efferati criminali di ogni epoca? Prima di condannarlo senz'appello, il lanaiolo-ammiraglio, facciamolo almeno cominciare. Lasciamo che prenda il mare, cerchiamo di avere pazienza, almeno quanto ha pazientato lui, per i lunghissimi anni in cui tutti lo schernivano, dicevano che era un illuso, gli davano del matto e del presuntuoso. Godiamo con lui l' ebbrezza della partenza. Speriamo ogni giorno di vederla, questa benedetta terra. Guardiamo negli occhi l' equipaggio, sempre più impaurito e rancoroso. Ve la sentite di cercare il nuovo mondo, senza sapere cosa sia e a cosa serva? Se la risposta è sì, allora vale la pena di partire. Per le disillusioni, le accuse, le recriminazioni, le condanne, le sopraffazioni, avremo tutto il tempo che vorremo.
Alessandro Della Guglia per ilprimatonazionale.it il 17 luglio 2020. La statua di Roberto Benigni eretta nel 1999 a Manciano, frazione di Castiglion Fiorentino (Arezzo), è stata imbrattata con della vernice rossa. La scultura in bronzo fu realizzata dallo scultore Andrea Roggi e collocata nel parchetto del paese natale di Benigni. Spesso è stata al centro di polemiche, perché secondo molti residenti l’attore da tempo snobba il paese dove è nato. In ogni caso, al momento non c’è stata nessuna rivendicazione del gesto compiuto nella notte e che non sembrerebbe proprio collegabile al moto iconoclasta Black lives matter. Nel frattempo, su Twitter, Vittorio Sgarbi ha commentato così la notizia della statua vandalizzata: “Chi l’ha imbrattata con la vernice è un coglione. Andava semplicemente abbattuta”.
Sgarbi da anni chiede di rimuoverla. Anche in questo caso il critico d’arte non strizza certo l’occhio agli antirazzisti, anzi. Difatti da anni Sgarbi chiede la rimozione del monumento dedicato a Benigni e già nel 2016 avanzò la sua proposta al sindaco di Castiglion Fiorentino, Mario Agnelli, di cui il critico d’arte è molto amico. “Se c’è una cosa che porta male ed è contro ogni logica è fare un monumento a uno vivo – disse Sgarbi – se poi quello non gradisce, non è mai venuto e ti snobba pure allora devi fare un favore a lui e a te, quel monumento lo devi togliere. Agnelli lo doveva fare d’imperio come primo atto da sindaco. Quindi gli consiglio di metterlo in un deposito, non come gesto polemico ma affettuoso visto che a lui non piace ed è iettatorio, e magari ritirarlo fuori quando sarà morto”. Il sindaco toscano replicò senza indugio, ponendo l’attenzione sull’atteggiamento snobistico di Benigni: “E’ innaturale non tornare mai più dove si è nati e a questo punto vedremo il da farsi, lo dovrei togliere? Non lo escludo”. La statua rimase comunque al suo posto, ignorata dai più fino all’imbrattamento odierno.
L'America abbatte Colombo per fare posto a una trans. Via la statua dell'eroe italiano per quella di Marsha P. Johnson: "Siamo in debito con lei". Riccardo Pelliccetti, Mercoledì 02/09/2020 su Il Giornale. Dopo la furia iconoclasta, che ha visto demolire, decapitare e abbattere le statue di Cristoforo Colombo negli Stati Uniti, arrivano le petizioni per sostituire i monumenti del navigatore italiano che scoprì l'America nel 1492. Sull'onda delle proteste «black lives matter», negli ultimi due mesi abbiamo assistito agli sfregi di Baltimora, Chicago, Boston, Richmond e altre città degli Usa. Con una semplificazione insensata, lo sdegno per l'ingiusta morte di George Floyd a Minneapolis è stato trasformato nella damnatio memoriae di Colombo, considerato non colui che scoprendo l'America ha modificato il corso della storia dando inizio all'era moderna, ma solo un colonizzatore e uno sterminatore di nativi americani. Quindi il grande marinaio oggi viene considerato da una frangia di cittadini statunitensi indegno di troneggiare in parchi o piazze del loro Paese e a Los Angeles, Seattle, San Francisco, Denver e Washington hanno addirittura abolito il Columbus Day. La grottesca escalation ha ora spinto alcune amministrazioni locali a sostituire i monumenti del grande italiano, com'è accaduto a Elizabeth, nel New Jersey. Con una petizione sul web firmata da 166mila persone, infatti, verrà eretta per la prima volta negli Stati Uniti una statua in onore della transgender Marsha P. Johnson, che sorgerà vicino al municipio al posto di quella di Cristoforo Colombo, il quale secondo i firmatari «non è una figura da celebrare». L'annuncio è stato dato la scorsa settimana, poco dopo quello del governatore di New York Andrew Cuomo che il 24 agosto, in quello che sarebbe stato il 75esimo compleanno di Johnson, le ha dedicato un parco a Brooklyn: «Sono fiero di fare questo annuncio. New York è in debito con lei». «Dovremmo commemorare Marsha P. Johnson per le cose incredibili che ha fatto nella sua vita e per l'ispirazione che è stata ed è per i membri della comunità Lgbtq in tutto il mondo, in particolare le donne trans nere», si legge nella petizione online. E così le viene dedicata una statua mentre i monumenti di figure storiche venivano deturpati, abbattuti o rimossi durante o in seguito alle proteste. «Questo è un momento davvero eccezionale per esaminare perché l'America celebra un passato pieno di colonizzatori, assassini e persone che hanno oppresso altre persone per decenni», ha spiegato in un'intervista alla Nbc Steven G. Fullwood, storico e co-fondatore del Nomadic Archivists Project. «E poi abbiamo qualcuno come Marsha; abbiamo l'opportunità di resettare e ripensare quello che pensiamo della libertà in questo paese». Ognuno è libero di celebrare le icone che preferisce, ma demolire e rinnegare la storia è tutt'altra faccenda. Con la sostituzione della statua di Colombo a Elizabeth, come l'abbattimento di altri monumenti dedicati al grande navigatore o ad altri personaggi storici, stiamo assistendo a una manipolazione del passato, in cui gli eventi vengono semplificati, banalizzati e poi trasformati in una narrazione bislacca, in cui devono regnare i buoni mentre i presunti cattivi vanno cancellati dalla memoria. E così, seppure inizialmente spinta da desiderio di giustizia, questa massa di fanatici e finti buonisti si è lanciata nella profanazione di stature e cimiteri e ha trovato, purtroppo anche a casa nostra, solidarietà e sostegno per delle azioni che sono soltanto da condannare.
Chi è senza peccato, eriga la prima statua. Se dovessimo eliminare ogni monumento in onore di un personaggio storicamente significativo per un errore commesso nella vita privata, cadrebbero i memoriali di Caravaggio, di Neruda e di De André. Elvira Fratto il 21 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. “Chi è senza peccato, eriga la prima statua”: sembra il leitmotiv degli ultimi giorni nella gara a chi ha fatto peggio nella propria vita e a chi meno merita che gli venga intitolato un monumento. Un polverone spesso latente ma di fatto mai sopito, quello che ruota attorno ad alcune vicende personali di Indro Montanelli, Magister del giornalismo italiano, fondatore de “Il Giornale” e indimenticato narratore dell’Italia del Novecento: nello specifico parliamo della sua più che nota visita in Abissinia nel 1936 come sottotenente dell’esercito fascista dove, per 500 lire, comprò un cavallo, un fucile e una sposa-bambina eritrea di dodici anni, che egli stesso definì “un animalino docile” che lo seguiva ovunque andasse. Nel 1969 abbiamo assistito al confronto tra Montanelli e la giornalista Elvira Banotti davanti alla quale ammise che il suo “matrimonio” con la bambina eritrea sarebbe stato considerato uno stupro in Europa, ma che non aveva la medesima valenza in Africa. Il fermo immagine si blocca qui per tutta Italia, tenendo aperto il dibattito nonostante gli anni e i colori della tv, che non trasmette più in bianco e nero; una discussione così fortuitamente attuale da tornare indietro come un boomerang nei giorni delle rivolte negli Stati Uniti successive all’assassinio di George Floyd. Proprio in nome di quella lotta, altre nazioni hanno reagito ad effetto domino, come dimostra l’abbattimento a Bristol, in Inghilterra, della statua eretta in ricordo di Edward Colston, mercante e commerciante di schiavi africani. Una protesta di questa portata e forza motrice di una tale ondata reazionaria non poteva non investire anche l’Italia: da qui la richiesta di rimuovere la statua di bronzo che ritrae Indro Montanelli, collocata negli stessi giardini di Milano a lui intitolati in cui venne gambizzato dalle Brigate Rosse, il 2 giugno del 1977. In questi stessi giorni, a Milano, è stato eretto un “contro-monumento” alla sposa-bambina con la dicitura “in Montanelli”, un omaggio dello street artist Ozmo che la raffigura col pugno alzato e un sorriso che s’intravede da sotto il velo che le copre la bocca; un modo per dare voce a una bambina venduta che dice semplicemente: “c’ero anch’io”, con il loquace silenzio che solo le statue possono vantare. La parsimonia nell’erigere statue commemorative, però, è una dote che non ci appartiene. Pensiamo che intitolare una via, un parco o una statua sia il modo migliore per rendere giustizia all’operato di qualcuno, eppure la memoria non la fa il ferro e neppure il marmo, ma l’esempio perpetrato, le orme seguite, la strada tracciata. La formalità dei monumenti ha il grosso limite di dare adito alle più disparate forme di vilipendio e danneggiamenti, quasi che il gesto di buttar giù una statua possa cancellare i torti commessi, restituire giustizia e dignità o, nel più acerbo dei pensieri, fare un dispetto degno di nota. Se dovessimo eliminare ogni monumento in onore di un personaggio storicamente significativo per un errore commesso nella vita privata, cadrebbero i memoriali di Caravaggio che era un assassino, di Neruda che disprezzava sua figlia disabile e di De André che è stato un alcolista. Quando personaggi di così ampio spessore storico, politico e professionale si macchiano di violenze come quella commessa da Montanelli, scindere l’uomo dal professionista diventa vischioso. Ci si deve aspettare la diatriba morale di sempre: essere delle eccellenze o dei punti di riferimento deve necessariamente comportare, escludere o integrare l’essere una persona umanamente ineccepibile? Che a Montanelli potesse essere eretta o meno una statua, è ininfluente: neppure lui l’aveva mai amata particolarmente; chiedersi perché un uomo di profonda cultura come lui si fosse limitato a giustificare lo stupro perpetrato in Africa come un qualcosa di geograficamente delimitato, che rappresentava per lui un pericolo solo a livello legislativo e solo in Europa, senza mai appellarsi alla propria coscienza e realizzare d’aver avuto davanti una bambina, quale che fosse la sua nazionalità, è una riflessione legittima. Persino chi volesse far pendere l’ago della colpevolezza in favore delle vicende personali di Montanelli sfavorendo il suo indiscusso contributo giornalistico potrebbe avere le proprie ragioni e motivazioni. Contestualizzare un atto deplorevole commesso in un dato tempo storico per giustificare l’atto stesso ha un po’ il retrogusto dell’arrampicata sugli specchi e della deresponsabilizzazione: siamo tutti mossi dal libero arbitrio e ciascuno è perfettamente in grado di rispondere delle proprie azioni, non di quelle del tempo che corre nel mentre le compie. Montanelli stesso lo era: quella di prendere in moglie una bambina eritrea non è stato un frutto del contesto da lui vissuto, ma di una sua libera scelta, checché se ne dica. Se vivessimo in un momento storico caratterizzato dagli omicidi a cielo aperto, nessuno di noi sarebbe comunque autorizzato a commetterne uno, in nome del sempreverde motto Cartesiano “cogito ergo sum”. Quello che non pare per nulla legittimo è, invece, la decontestualizzazione dell’attacco a un monumento, l’oggettiva inutilità di accanirsi contro una statua che non chiuderà il dibattito Montanelli sulle spose bambine, né lo risolverà condannando definitivamente quest’ultimo. Se è vero che gli italiani fanno poca economia sulla costruzione di monumenti in memoriam, è anche vero però che ciascuno di loro ha un proprio valore intrinseco e qualunque atto di rimozione o danneggiamento degli stessi costituisce un vandalismo che prontamente rifuggiamo, soprattutto quando a danneggiare la Barcaccia del Bernini sono i tifosi olandesi di turno. “Chi è senza peccato, eriga la prima statua”, dunque, anche se sarebbe bello poter dire di vivere in un mondo fatto di meno corpi immobili e più teste elastiche.
Roberto D’Agostino per VanityFair.it il 22 giugno 2020. L’orrendo assassinio di George Floyd ha innescato, tra tumulti e sommosse, la corsa all’abbattimento di statue di schiavisti e mascalzoni (compreso Winston Churchill), il ritiro del film “Via col vento” dove la domestica Mamie dice “si, badrone”, il processo post-mortem a Indro Montanelli per pedofilia e stupro avendo sposato agli inizi del ‘900 durante la guerra una eritrea dodicenne, fino a toccare il climax con il ritiro dai negozi svizzeri dei cioccolatini “Moretti”. Cronache che stanno facendo versare fiumi di inchiostro ai sapientoni dell’orbe, indice che si sta tornando all’anormalità cerebrale del passato pre-Covid, ma per nulla sorprendenti per chi non confonde la cronaca con la Storia. Da Adamo ed Eva in poi, nel corso della Storia, la cancellazione del passato è sempre esistita. Il motivo è semplice: noi pensiamo quello che vediamo. I nostri maestri sono gli occhi. Ecco perché il trionfo dell’immagine è il “pensiero” che mette più paura. Non solo quando figure, disegni e illustrazioni erano il principale mezzo di comunicazione in un’epoca in cui l’analfabetismo dominava e si insegnava la tradizione cristiana come sinonimo di verità attraverso la raffigurazione. Nell'Antico Egitto non era affatto raro che le statue dei faraoni elevati al rango di divinità venissero distrutte dai loro successori al trono. I romani la chiamavano “damnatio memoriae”, cioè cancellare qualcuno dal ricordo della storia. Gli ebrei distruggevano gli idoli delle popolazioni pagane (i Lari e i Penati); anche i cristiani hanno abbattuto statue ed edifici greci e romani, talvolta riutilizzandoli come è avvenuto nel duomo di Siracusa che incorpora un tempio di Minerva del 480 a.C...Ogni religione ha sempre distrutto gli idoli e i templi delle religioni precedenti: la Cappella Sistina fu realizzata quando spuntarono dal sottosuolo le rovine del più grande tempio pagano dedicato a Mitra. Nella Bibbia c'è scritto poi chiaramente: “Non farai immagine né idolo a somiglianza di uomo”. E visto che il destino dell'essere umano è alla fine quello di riconoscersi nell'immagine, contro tale culto/idolatria, si oppose l’iconoclastia, dal greco “rompo l’immagine”, un movimento religioso che nell’Impero bizantino avversò, nei secoli VIII e IX, il culto e l’uso delle sacre immagini distruggendo quelle che già c’erano o vietandone delle nuove. Fateci caso: sola la cultura occidentale ha una storia dell’arte. Le altre culture, dall’ebraismo all’islamismo, sono invece aniconiche, cioè fanno a meno dell’immagine: è calligrafia, usa in forma artistica la scrittura o i simboli astratti, facendo a meno delle raffigurazioni: non usano mai rappresentare Allah e Maometto come una figura umana. Perché le immagini sono rappresentazioni e in quanto tali possono essere ingannevoli, pericolose, distorte, fake si direbbe oggi. Dio, poi, che è tutto, non può essere ridotto a una figura, e inizialmente anche i cristiani evitavano di farlo. Cristo veniva rappresentato con un segno, poi con un pesce stilizzato, poi diventa l'agnello, quindi spunta la croce e alla fine diventa una figura vera e propria perché Gesù è Dio incarnato, e solo allora diventa possibile rappresentarlo. La Riforma protestante di Martin Lutero ha subito contrapposto, all'immagine, il valore della parola dalle Sacre Scritture. Dio non si insegna con dei simulacri. Il grande sacco di Roma del 1527 non fu soltanto una terrificante sequenza di ruberie e stupri. Fu anche, per le milizie luterane, l’occasione di sfogare il loro odio su reliquie, paramenti sacri, oggetti del culto cattolico. L’iconoclastia è il fenomeno caratterizza anche le grandi ideologie totalitarie del XX secolo. Dalla Rivoluzione d'Ottobre del 1917 che portò alla distruzione di statue raffiguranti gli zar e di moltissime chiese della Chiesa ortodossa, giudicata ricca e corrotta al nazismo che organizzò un simbolico falò di libri proibiti in una piazza di Berlino e la messa al bando di pitture e sculture che Hitler definiva “arte degenerata”. Ma è il politicamente corretto (“questo profilattico contro la cultura” scherzava a suo modo Baudrillard), che oggi ci riporta all’iconoclastia. E tutto dipende dal fatto che le immagini sono decisive nel definire la nostra identità sociale, e non solo quella religiosa. Sulla tastiera dei nostri computer c’è un tasto che ci piace tanto: delete. Il piacere del cancellare. Che anche quello è un modo per cancellare l’immagine, magari di un qualcuno che ci sta sul cazzo. Con internet e la rivoluzione digitale siamo così passati da iconoclastia religiosa, politica, a quella privata. Questa è la novità: l’iconoclastia privata. Abbiamo la possibilità di "assassinare" qualsiasi cosa. Dal ristorante esoso attraverso TripAdvisor all’ex fidanzata che ci ha mollato, dal capo ufficio che ci tiranneggia all’avversario politico. Possiamo abbattere anche la statua di noi stessi, se si pensa a tutte le applicazioni che ti cambiano gli occhi, la bocca, l’ovale del viso, i capelli… cioè, si distrugge ciò che non ci piace. Ecco perché non bisogna alzare il sopracciglio davanti a ciò che sta accadendo oggi sulle piazze: l’iconoclastia è dentro di noi.
Pierluigi Panza per fattoadarte.corriere.it il 23 giugno 2020. “Da Adamo ed Eva in poi, nel corso della Storia, la cancellazione del passato è sempre esistita. Il motivo è semplice: noi pensiamo quello che vediamo. I nostri maestri sono gli occhi. Ecco perché il trionfo dell’immagine è il “pensiero” che mette più paura”. Non concordo punto con quello che scrive Roberto D’Agostino su VanityFair.it sull’attuale comica iconoclastia 2 o 3 punto zero (un po’ come le fasi di Conte), sull’iconoclastia smart, agile (si legge agiail, all’inglese, altrimenti non è figo) dove non ci sono né morti né feriti, ma solo statue abbattute. Anzi, ho suggerito a Vittorio Sgarbi, e lui mi ha dato ragione, di proporre in Parlamento una legge che mandi dritto in galera chi abbatte o rimuove le statue. Vietata anche la deliberazione consigliare dei comuni, vietato anche il Dpcm di Conte, vietato tutto per una regola semplice: il passato NON CI APPARTIENE. Noi siamo tenuti a conoscerlo e trasmetterlo, ma non siamo autorizzati a cancellare la roba d’altri. Se c’è stato il razzismo ci saranno statue razziste e se c’è stato il Comunismo, statue comuniste. Come diceva “quello” (il Papa): chi siamo noi per giudicare? Chi sono questi quattro sfaccendati indottrinati dai cattivi maestri dei Post Colonial studies che con gli occhi a malapena alzati dal telefonino osservano statue di personaggi che conoscono da Wikipedia e chiedono di abbatterle? Se le cancelliamo, i bambini del 2500 come faranno a sapere che c’è stato il razzismo? Certo, l’analisi di Dago è corretta: ogni religione ha sempre distrutto gli idoli e i templi delle religioni precedenti, ci sono stati l’iconoclastia, la costruzione delle chiese cristiane sulle rovine pagane, la guerra (dei Trent’anni) innescata dalla Riforma… ma, intanto, pian piano, sono nati anche Cartesio e poi Voltaire, l’Illuminismo e, infine, John Ruskin e le sue “Sette lampade dell’architettura”: i monumenti del passato non ci appartengono, non sono nostri e pure il restauro è una forma di distruzione con la falsa ricostruzione dell’originale distrutto. Costa così tanto aggiungere il segno dei nostri tempi e lasciare a chi è passato la responsabilità del segno loro? Qualcuno crede che sia giunta l’ora di combattere ancora il razzismo? Bene, proponga una statua di George Floyd e così, i bambini del 2500 sapranno cosa ne pensava sull’argomento una parte di noi. E vedranno, osservando le altre statue, che qualcosa è cambiato. Nessuno deve avere ha tra le dita la gomma per cancellare la storia; per questo va arrestato chi se la prende. Fermate quella mano il cui vile disegno si approfitta di poveri morti che non possono difendersi.
Lettera di Mirella Sarri a Dagospia il 23 giugno 2020. Gentile direttore, ho letto l’interessante e approfondito excursus che lei dedica su “Vanity Fair” alla furia iconoclasta dei popoli, spiegando che “la cancellazione del passato è sempre esistita”. Giustissimo, anche se questo, a mio parere, non vuol dire sposarne il principio proprio oggi. Al contrario. Riconoscerà che non possiamo buttar giù tutto né passare una pennellata di vernice nera sulla violenza, la misoginia, il razzismo e l’antisemitismo che dominano le culture di altri tempi. Non possiamo buttar giù il Colosseo dove combattevano gli schiavi ma nemmeno possiamo depennare le più recenti annotazioni di un grandissimo scrittore come Carlo Emilio Gadda il quale sosteneva che gli “ebrei mi sono poco simpatici” perché “sono banchieri, democratici, framassoni, filantropi e soprattutto israeliti. Banchieri per istinto, filantropi per convenienza (nel senso largo e buono della parola), democratici per necessità”. Per non parlare delle pagine misogine di Gadda in “Eros e Priapo” in cui io in quanto donna fatico a riconoscermi. Non possiamo cestinare il pensiero di Gaetano Salvemini che identificava ebreo con “mentitore e bugiardo”, né possiamo cancellare, ancora un altro esempio letterario, il ritratto per nulla gratificante di un ricco commerciante ebreo ne “Il treno per Istanbul” di uno scrittore del calibro di Graham Green, né le riflessioni di Proust, di madre ebrea sugli ebrei, o di un poeta come Umberto Saba nei confronti dei correligionari… L’elenco è sterminato e comprende i racconti razzisti dei viaggi in Africa o in India di celebri scrittori alla ricerca di giovanissime vittime. Cancella, cancella, rimuovi, imbratta: qualcosa sempre resterà… Magari in un volume dimenticato della nostra libreria….E allora? Non eliminiamo nulla ma formiamo generazioni di insegnanti e di allievi che studino le malefatte monumentali, pittoriche e libresche di altri secoli, che sappiano riconoscere e capire le contraddizioni di un’epoca (da conservare come reliquie delle vergogne di altri tempi, un altro esempio, le parole di Mussolini alla Petacci in cui spiega che “le donne francesi sono viziose e puttane…. La donna francese ama il negro. Perché non hanno l’uccello ben solido e piantato come i nostri, ma sembra sia lungo e sottile, sottile. Questo pare che le diverta di più. Si, sono folli degli uomini negri tutti”). La rimozione del passato che sia letteratura o che siano monumenti genera i mostri del presente.
Maria Giovanna Maglie per Dagospia il 22 giugno 2020. Scrive quello storico preclaro che si chiama Giordano Bruno Guerri: "Noi condanniamo - giustamente - lo schiavismo perché abbiamo acquisito il concetto dell'uguaglianza fra gli uomini. Ma non possiamo per questo condannare gli uomini di tutte le epoche che quel concetto non lo avevano ancora acquisito. E un giorno verremo giudicati anche noi". Vaglielo a spiegare a questi animali che piegano un ginocchio a tentare di dissimulare la loro belluina aggressività. Sono squadristi. Il loro ultimo bersaglio è uno dei più grandi presidenti degli Stati Uniti d'America, Theodore Roosevelt, quello che disse "speak softly and carry a big stick" , e contro di loro, i talebani dell'antirazzismo, ci vogliono molti grossi bastoni e non serve parlare un linguaggio conciliante. È sempre stata sulla scalinata dell'ingresso principale del museo di storia naturale a New York, un posto amatissimo da locali e turisti. Eppure la statua equestre del presidente Theodore Roosevelt sarà rimossa su richiesta del direttore del museo, una qualche fighetta liberal di cui non ricordo il nome e non mi interessa, e su decisione di quel coglione patentato che è il sindaco di New York, Bill de Blasio. È solo l'ultimo di una serie ormai enorme di casi di rimozione di statue di grandi personaggi, eroi, politici, fino allo scopritore dell'America Cristoforo Colombo, la cui statua a Filadelfia viene presidiata da un picchetto di italo-americani, naturalmente accusati di essere pericolosi reazionari da abbattere insieme alle statue in nome del Progresso. Dice il comunicato ufficiale che "The American Museum of Natural History has asked to remove the Theodore Roosevelt statue because it explicitly depicts Black and Indigenous people as subjugated and racially inferior. The city supports the museum's request. It is the right decision and the right time to remove this problematic statue.". Ai lati di Roosevelt ci sono un nero, come si diceva una volta, e un pellerossa, sempre come si diceva una volta, un afroamericano e un nativo americano, come si dice, secondo le regole di quella che Clint Eastwood chiama con termine fulminante la "Pussy Generation". La statua, pur avendo avuto l'intenzione, quando è stata costruita e innalzata,tra il 1925 e il 1940, di "celebrare il presidente come un devoto seguace del naturalismo e un autore di opere sulla storia naturale", comunica una "gerarchia razziale che da tempo i membri del museo trovano disturbante". Non fai in tempo a dispiacerti per lo stato dello stomaco disturbato dei membri del museo, che il comunicato stampa precisa ancora che "per comprendere la statua noi dobbiamo riconoscere l'eredità mai finita della discriminazione razziale nel nostro Paese e dobbiamo anche riconoscere la storia imperfetta del museo. Questo sforzo non scusa per il passato ma può creare la base per un dialogo onesto rispettoso e aperto". Chissà se i membri del board del museo sono pronti a richiedere che per non sentirsi più disturbati sia il caso di rimuovere dalla roccia del Monte Rushmore il profilo scolpito di Teddy Roosevelt. Per il momento il misfatto è pronto per essere compiuto nella sua natia New York, dove, giovane commissario di una corrotta Polizia, se c'è un gran repulisti, si fece la fama di uomo forte e onesto, e il presidente McKinley lo nominò vice ministro alla Marina militare. Nel 1898, nella breve guerra alla Spagna, per Cuba, il Colonnello Rooselt diventò eroe popolare e fu eletto Governatore dello Stato di New York. Un anno dopo, la sua popolarità era tale che i Repubblicani lo candidarono alla vicepresidenza per favorire la rielezione di McKinley, ma anche perché le sue battaglie contro la corruzione a New York davano fastidio. Andò bene, da vice si mise a lavorare sperando che nel 1904 sarebbe toccato a lui, ma l’assassinio di McKinley bruciò i tempi. Così nel settembre del 1901 Theodore Roosevelt diventò, a 42 anni, il più giovane Presidente della Storia. Otto anni di mandato, con una trionfale rielezione, dovuta anche alla sua energica mediazione fra i minatori e i proprietari delle miniere di carbone nel grande sciopero della fine del 1902. Fu il primo caso di intervento del governo federale in una disputa sindacale. Fece la guerra ai grandi monopoli delle ferrovie e del petrolio, e un intenso impegno internazionale, con la mediazione tra Russia e Giappone, gli valse il Nobel per la Pace. Con il Partito Repubblicano il rapporto fu burrascoso, era ritenuto troppo progressista, e alcune sue riforme furono bloccate dal Partito e dal Congresso. Fu un grande amico dei giornalisti, gli piacevano, dava interviste a tutti e aprì la prima Sala stampa alla Casa Bianca. A fine presidenza partì per un lungo safari in Africa, e al ritorno scrisse un saggio, la natura e l'ambiente erano una sua grande passione, e da presidente aveva salvato inaugurato molte aree protette. Nel 1912 provò a fondare un partito progressista ma senza successo, e subì anche un grave attentato, un proiettile dritto nel petto, per fortuna passando attraverso le 50 pagine del testo del discorso che stava leggendo e che gli salvò la vita. Resta famoso il fatto che, prima di accasciarsi e finire in ospedale, pretese di finire il discorso. In Europa, pur non venendo meno al tradizionale principio di neutralità, appoggiò diplomaticamente le potenze occidentali contro la Germania, di cui temeva la potenza navale e le tendenze aggressive. . Allo scoppio della prima guerra mondiale, caldeggiò l'intervento degli USA a fianco dell'Intesa, battendosi più tardi contro l'idea di W. Wilson della Società delle Nazioni. Morì, ancora giovane, nel 1919, probabilmente per i postumi di quell'attentato. Forse l'ho fatta un po' lunga, mi spiace, ma tengo a spiegare chi sia l'uomo la cui statua oggi viene rimossa dalla sua città bollandolo come pericoloso razzista fascista oscurantista da cancellare dalla storia. Uno che, quando Bill Clinton fu eletto presidente, e già durante la campagna elettorale, spiegava che la sua via mediana tra il conservatorismo e il liberalismo progressista stava proprio nella lezione e nell'esempio di Roosevelt, e tutti a pensare che si riferisse al democratico Franklin Delano, e invece lui spiegò che il suo mito era Theodore Roosevelt, il repubblicano progressista. Dietro le statue imbrattate o abbattute in nome del Progresso, ci sono i saccheggi e le ruberie nei negozi delle grandi marche, c'è il risentimento sociale spacciato per battaglia di dignità, consentito dal senso di colpa inoculato nell'Occidente, e niente può essere peggio. L’isteria iconoclastica del politicamente corretto ha fatto da base e da giustificazione, da esaltazione ideologica, alle azioni degli Antifa e dei Black Lives Matter. Non conosce confini, ci ammazza tutti . Luigi Mascheroni, nel pamphlet “Come sopravvivere al politicamente corretto”, racconta delle traduzioni politicamente corrette che hanno eliminato la parola “negro” nei vecchi romanzi, della Oxford University Press – importante editore di libri scolastici – che chiede ai suoi autori di astenersi dal disegnare o citare suini e loro derivati (come le salsicce) per non offendere musulmani ed ebrei. Sapevate che i 5 Stelle nel 2014 hanno lanciato una petizione per chiudere il museo di Torino intitolato a Cesare Lombroso? Che nella spocchiosissima Austria nel 2015 allo zoologo ed etologo Konrad Lorenz, premio Nobel per la medicina nel 1973, l’Università di Salisburgo ha revocato la laurea honoris causa, per via del suo passato da nazionalsocialista?. Vado avanti, prendo alcuni esempi da un articolo straordinario di Federico Punzi su Atlantico Quotidiano. New York, la Columbia University ha messo in discussione Ovidio perché nelle sue Metamorfosi presenta dei contenuti troppo violenti e le scene erotiche provocherebbero dei traumi nei giovani lettori. Mi viene male solo a dirlo, ma sotto inchiesta è finito nelle università americane più prestigiose Dante Alighieri, che ha osato mettere omosessuali e Maometto all’inferno. Subito dopo condannata l'icona della lingua inglese, William Shakespeare, giudicato razzista per “Otello”, e antisemita per il “Mercante di Venezia”. L' università di Yale ha di recente, senza che nessuno le desse fuoco, eliminato un corso sul Rinascimento perché “bianco, maschilista ed eurocentrico”. Potrei continuare con una serie Netflix in cui il Pelide Achille è nero, così Enea e anche Zeus, ma anche in una serie della BBC c'è un nero di troppo, Niccolò Machiavelli, vai a capire tu perché. A che cosa serve questo bagno di sangue che pretende di giudicare il passato con categorie del presente che anche oggi sono suscettibili di critica feroce, perché il nome della Libertà conculca la libertà dell'individuo di dissentire in opinioni e azioni ostentando una aggressività culturale insopportabile? Qualcuno si rende conto che così consentendo, così disinteressandosi, o così compiacendo, semplicemente per guadagnare consensi, così annullando storia, cultura, semplice elementare istruzione, finirà che ci vergogneremo a definirci europei, che il Colosseo dovrà essere abbattuto perché simbolo di schiavitù esaltata, che il Vaticano sarà schiacciato sotto il peso dell'Inquisizione che fu? La distrazione su una rilettura assolutista della storia è colpevole. Non c'è niente da purificare delle abitudini, delle opinioni, del linguaggio del pensiero del passato. Chi lo teorizza vuole ammazzarci oggi, nel presente, intende distruggere qualsiasi riferimento storico e culturale di matrice moderata e borghese, impedire opinioni diverse dalle loro, mortificare l'economia di mercato. Black Lives Matter e Antifa sono squadristi, in ginocchio bisogna farli mettere per lasciarceli.
Sfregio a statua Montanelli, ma colonialismo e fascismo coinvolsero tutta l’Italia. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 18 Giugno 2020. La statua di Indro Montanelli, collocata in un giardino pubblico di Milano, è stata imbrattata di vernice rossa perché durante la Guerra in Etiopia aveva contrattato con il padre il “noleggio” – a scopo sessuale – di una ragazza di 12 anni per 350 lire, protestando con la famiglia perché era infibulata, fino a quando la madre non intervenne ad aprire il varco del piacere. Di questa vicenda Montanelli scrisse e parlò liberamente, lamentandosi solo per l’olezzo che emanava dal corpo della sua “faccetta” nera. Si vede che da quella volta aveva imparato a “turarsi il naso”: una prassi che decenni dopo lo rese ancora più famoso (quando dalle colonne del suo giornale invitò a votare per la Dc, col naso ben turato). Indro Montanelli è stato indubbiamente una personalità molto versatile: giornalista di vaglia, inviato speciale nei teatri di guerra, scrittore, storico (insieme al collega e amico Mario Cervi pubblicò in molti volumi una storia d’Italia), fondatore e direttore di quotidiani, lo si può definire un “figlio del secolo”. Sarebbe ingeneroso imputargli l’adesione al fascismo, come tanti della sua generazione e di quelle seguenti, nate nei primi decenni del XX secolo, dopo la Grande Guerra, magari in pieno regime totalitario, quando la vita delle persone era amministrata fin dalla nascita dai riti del fascismo. In proposito ho un piccolo ricordo di carattere personale. Sono nato nel 1941, ma nella mia infanzia mi trovai in possesso di un moschetto da “balilla” che suscitava una grande invidia tra i miei compagni di gioco. Qualcuno aveva pensato di regalarmelo quando ero ancora in fasce (come usava allora). L’ho conservato per tanto tempo, ma ora non so dove sia finito. Mi dispiace perché sono convinto che il moschetto piacerebbe anche ai miei nipoti che ora sono costretti a giocare con pistole spaziali, come quelle che vedono nei cartoni animati (noi, per fortuna, avevamo Topolino). La Seconda guerra mondiale (in questi giorni si ricorda l’anniversario della dichiarazione scandita dal Duce dal balcone di Piazza Venezia, tra il tripudio della folla, che due anni prima aveva applaudito Hitler durante la sua visita in Italia) fu un evento che non cambiò solo la storia del Paese, ma anche quella delle persone, le quali si resero conto di essere cresciuti nella menzogna, di aver subito una violenza morale. Ciò consentiva loro di non sentirsi responsabili della vita vissuta fino a quel momento e di poter legittimamente passare dall’altra parte della barricata. Sono tanti gli intellettuali e dirigenti comunisti che parteciparono ai Littoriali universitari, distinguendosi nelle premiazioni. Come molti furono gli attori, divenuti famosi nei decenni successivi, che combatterono nelle milizie di Salò. È troppo facile rimproverarglielo. Mettiamoci nei panni di un giovane di leva residente nelle regioni occupate dai tedeschi, con appresso lo Stato fantoccio della Rsi. Quando veniva chiamato sotto le armi non aveva molte alternative: o si nascondeva rischiando la galera e la fucilazione o andava in montagna (ma per farlo occorreva una convinzione che non tutti avevano avuto il tempo di maturare). Io ho conosciuto due fratelli che si sono trovati in fronti opposti per la banale circostanza di dove si trovavano l’8 settembre del 1943: uno venne intruppato con i tedeschi in Jugoslavia; l’altro era in marina e fu arruolato nei battaglioni San Marco del governo Badoglio. Ma è tempo di tornare al caso Montanelli. Nella vita di una persona contano sempre gli ultimi gesti. La sua fortuna fu quella di rompere con il suo editore Silvio Berlusconi e di mettersi a criticarlo, quando ciò costituiva un merito nell’establishment italiano, non solo di sinistra (per decenni Montanelli era stato oggetto della satira di Fortebraccio sull’Unità). Probabilmente senza quella “virata” – per motivi personali? – sarebbe stato dimenticato al pari di tanti bravi giornalisti come lui. Ma è troppo comodo riscattarsi da un colonialismo di infima categoria (perché noi italiani arrivammo dopo che il bottino se lo erano spartite le grandi potenze europee), ricoprendo di vernice la statua di uno stupratore non pentito. Andiamo a leggere le imprese patriottiche nelle guerre coloniali. Durante l’aggressione all’Etiopia i “liberatori italiani” usarono i gas asfissianti contro le popolazioni civili in violazione delle Convenzioni internazionali, sottoscritte anche dall’Italia, che avevano bandito quell’arma di sterminio dopo gli orrori della Prima guerra mondiale. Le truppe italiane riuscirono in breve tempo ad avere ragione dell’esercito del Negus, ma non riuscirono mai a fiaccare la resistenza, nonostante le feroci repressioni, la più grave delle quali avvenne dopo un attentato in cui nel febbraio del 1937, rimase ferito il viceré Rodolfo Graziani (il generale che aveva “normalizzato” la Libia con le stragi e le deportazioni). Alle truppe fu impartito l’ordine di ammazzare, per rappresaglia, tutti quelli che trovavano in giro per le strade di Addis Abeba. Vi furono migliaia di morti. Una mattanza che non risparmiò nessuno. E che culminò, a maggio, nell’assalto al monastero copto di Debrà Libanòs, dove vennero massacrati circa 2mila persone, inclusi i monaci accusati di proteggere i ribelli. Un’altra misura presa da Graziani fu quella di far fucilare, nel 1937, ben 1877 etiopi, tra cantastorie, indovini e stregoni per evitare che, andando in giro per il Paese, diffondessero le notizie e incoraggiassero la resistenza. Eppure, come scrive Miguel Gotor nel saggio L’Italia del Novecento, per i tipi di Einaudi, dopo la vittoria sull’Etiopia «il regime toccò il picco del suo consenso interno perché un’ondata di orgoglio nazionalista percorse gli italiani, coinvolgendo gli ambienti militari e industriali, il mondo culturale imbevuto di miti dannunziani e bellicisti, ma anche milioni di contadini cui il governo promise le terre appena conquistate. Grazie al fascismo l’Italia era riuscita a rivendicare il suo “posto al sole” contro la prepotenza delle democrazie “plutocratiche” che avevano imposto le “inique sanzioni”. Un’ultima chiosa. A scuola abbiamo studiato le poesie di Giovanni Pascoli e compreso il dramma di un bambino al quale hanno ammazzato il padre. Eppure questa persona mite, infelice, morbosamente legato alle sorelle, quando nel 1912 l’Italia invase la Libia, scrisse un articolo dal titolo “La grande proletaria si è mossa”. Non parliamo poi degli intellettuali che si compiacevano di scrivere sulla La difesa della razza e che divennero poi strenui antifascisti. È difficile prendere a calci la propria storia. Almeno Angela Merkel ha avuto l’onestà intellettuale di riconoscere: «Abbiamo una responsabilità permanente per i crimini del nazionalsocialismo, per le vittime della seconda guerra mondiale e, anzitutto, anche per l’Olocausto. Dobbiamo dire chiaramente, generazione dopo generazione, e dobbiamo dirlo ancora una volta – ha proseguito Merkel – con coraggio, il coraggio civile: ognuno, individualmente, può impedire che il razzismo e l’antisemitismo abbiano altre possibilità. Noi affrontiamo la nostra storia, non occultiamo niente, non respingiamo niente – ha concluso -. Dobbiamo confrontarci con questo per assicurarci di essere in futuro un partner buono e degno di fede». Ecco. Da noi ci si libera del sangue sparso nella storia dipingendo di rosso la statua di Montanelli.
Il leone di El Alamein: "Quale razzismo, vi racconto come eravamo noi italiani in Africa". Luigi Tosti, parà della Folgore classe 1920, è partito come volontario per combattere ad El Alamein. A chi oggi lo accusa di razzismo replica: "Ma quale razzismo, non siamo mica andati in Africa a portare la schiavitù, con noi c'era libertà". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Domenica 21/06/2020 su Il Giornale. “Non eravamo né fascisti né comunisti, eravamo italiani ed eravamo lì per difendere gli interessi della nostra patria”. Luigi Tosti sta per spegnere cento candeline ma ha ancora l’entusiasmo dei suoi vent’anni. Lo stesso di quando si presentò volontario per arruolarsi nella Folgore. Il comandante della compagnia lo prese per un braccio, lo guardò dritto negli occhi e gli chiese: “Sei sicuro che vuoi fare il paracadutista?”. “E che sono venuto a fare altrimenti?”, rispose lui senza esitazione. È la primavera del 1942. Luigi ancora non lo sa, ma presto il suo destino incrocerà la storia. Tempo qualche mese e sarebbe iniziata la prima battaglia di El Alamein. “Si era formato un nuovo battaglione, eravamo tutti orgogliosi di essere paracadutisti e ci siamo subito fatti avanti per la missione”, ci racconta il reduce. Lo incontriamo in provincia di Latina, dove è nato nel 1920 e vive con la moglie di 96 anni. Ci mostra il brevetto: “Ero il numero 18, sono stato uno dei primi in Italia a entrare nella divisione”. È stupito quando gli spieghiamo che qualcuno oggi lo considera un “criminale”. Sono le voci di chi ha imbrattato la statua di Montanelli a Milano sull’onda delle proteste innescate dall’omicidio di George Floyd. Gli stessi che anche a Roma vorrebbero cambiare nome a via dell’Amba Aradam e si sfogano sulle statue degli intellettuali del periodo fascista e dei protagonisti della campagna d’Africa. “Ma quale razzismo, non siamo mica andati in Africa a portare la schiavitù, anzi, facevamo del bene a quella gente, il governo italiano assegnava i poderi e costruiva le strade, tanti si sposavano e rimanevano a vivere lì, se uno ti assegna una proprietà è schiavitù? Per me è libertà”, spiega Tosti. “Noi sapevamo che l’Italia era entrata in guerra, andavamo a difendere la nostra patria, gli interessi italiani e il benessere della nostra gente, con tutto il rispetto per gli inglesi, ma noi non abbiamo mai depredato nessuno come invece hanno fatto loro”, va avanti il reduce. “Il nostro – riassume – era un colonialismo umano”. Ripercorre quei giorni vissuti al fronte: “Di giorno restavamo nascosti mentre la notte uscivamo allo scoperto per sminare il terreno e preparare l’avanzata”. “Eravamo in una terra di nessuno: alle nostre spalle, distante un’ora circa in auto, c’era Tobruk in fiamme”. È l’ultima roccaforte inglese in Libia. “Man mano che avanzavamo trovavamo la popolazione ridotta alla fame, gli offrivamo le nostre razioni togliendocele di bocca, ecco chi erano gli italiani”. L’avventura finisce dopo qualche settimana, quando la divisione italiana viene scoperta dalle truppe neozelandesi. Parte l’assalto. Tosti viene colpito ad una gamba. “Il dolore neppure lo sentivo tanta era l’adrenalina – va avanti – poi ho visto un fiume di sangue che stava uscendo”. Cosa ha pensato? “Giotto, come mi chiamavano a scuola, sei finito”. “E invece alla fine invece ce l’ho fatta ma non potevo più avanzare e così sono stato costretto a ritornare in Italia”. Poi si fa più cupo: “Assieme a me c’era un ragazzo, lui invece si toccava il ventre, non credo ce l’abbia fatta”. “La guerra è brutta, ma la rifarei se si trattasse, come allora, di difendere il mio Paese”, commenta. “Quando ero ricoverato al Celio sentivo che la Folgore avanzava e non vedevo l’ora di tornare”, prosegue Luigi. Alla fine però viene dirottato in Sardegna, a presidiare l’aeroporto di Alghero. Nel frattempo l’Italia firma l’armistizio e lui decide di schierarsi al fianco degli angloamericani. “Non ero un fascista, ma rivendico tutto quello che ho fatto, in Africa abbiamo difeso la nostra gente, combattendo spalla a spalla con i neri”, rivendica. “Combattere non è facile, ma io per la mia Italia metterei ancora a disposizione la vita”, assicura. Poi torna all’inizio del discorso: “Criminale? Criminali sono quelli che imbrattano le statue e vogliono cancellare la storia, mi fanno pena, non sanno di cosa parlano e soprattutto non hanno rispetto per chi ha dato tutto per difendere gli interessi del proprio popolo”. “Sono rimasto zoppo – continua – e lo Stato mi passa 126 euro al mese come indennità”. A chi accusa gli italiani di aver depredato l’Africa ribatte: “Perché non parlano delle foibe o dei crimini commessi dai marocchini in Ciociaria”. Dopo l’8 settembre Tosti ha combattuto anche lì, a Cassino, con il battaglione Nembo. “Facevano carne di porco, uccidevano, torturavano e stupravano, anche i bambini, i generali gli avevano dato il via libera perché la Francia si sentiva tradita”, accusa. “C’era una casa di persone perbene, che spesso offrivano da mangiare ai tedeschi, un bel giorno – ricorda – li avevano trucidati tutti”. La guerra Luigi la sogna ancora la notte. “È stata una guerra sbagliata, in Sardegna – ci rivela – un comandante un giorno mi confessò che Mussolini non voleva un conflitto e che l’ha fatto solo per salvare l’Italia dalla prospettiva di un’occupazione nazista”. Luigi ricorda volti, sguardi, uniformi: “Una volta eravamo sotto attacco di una mitragliatrice tedesca, toccava a me fermarla, mi sono preparato a sparare, poi nel mirino vidi un ragazzino, non ebbi il coraggio di premere il grilletto”. “Nel nostro passato ci sono delle ferite ancora aperte, il problema non si risolve di certo imbrattando le statue”, interviene Ludovico Bersani, presidente della sezione di Latina dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia. “Mio padre – aggiunge – ha fatto la leva in Libia, non mi ha mai parlato di razzismo, di schiavismo o di qualunque altra cosa che potesse umiliare un altro essere umano”. “Tra l’altro – osserva – il primo gruppo di fanti dell’aria, era composto proprio da libici”. “Tra i nostri popoli c’era amicizia e ancora oggi in quelle terre c’è amore per gli italiani”, assicura il parà. “Ai giovanotti che si divertono a vandalizzare i monumenti – conclude – dico di studiare la storia, perché non parlano delle marocchinate, delle foibe o degli eccidi consumati sulla pelle dei civili a guerra conclusa?”.
Da cronacaoggi.com il 21 giugno 2020 – notizie dall’Italia e dal mondo scelte da Marco Benedetto. Gandhi era fascista, razzista e predatore sessuale, l’ultima dei Black lives matter. C’è una biografia del Mahatma secondo la quale quando era giovane avvocato di origine indiana in Sud Africa disprezzava i neri. Li chiamava Kaffir, termine spregiativo simile a quello con cui gli inglesi chiamavano (o chiamano ancora) gli italiani, Wog. Aveva 70 anni quando ancora dormiva con una nipote di 17. Petizione con 6 mila firme a Leicester per abbattere la sua statua. Ma il sindaco rifiuta.
IL GIORNO IN CUI GANDHI DIVENTO’ RAZZISTA. Elena Fontanella il 15 giugno 2020 su Il Giornale. Comprendere il valore del proprio passato come monito per il presente è sempre stato un paradigma della civiltà laica occidentale, quella che non si disperde nel sonno della ragione, quella che riesce a tenere a bada i mostri delle interpretazioni soggettive o dei fanatismi spirituali. Eppure, in questa nostra luminosa società ci troviamo a dover fare i conti con una rivolta globale contro i simboli della storia occidentale difficile da comprendere. Tanto più incomprensibile per noi, paese del cattolicesimo che non ha mai praticato lo schiavismo, mentre per secoli, dal medioevo alla più prossima modernità, il resto del mondo – anche quello che oggi è accusatore, africano, cinese o musulmano che sia – basava le proprie economie e la propria cultura antropologica sull’accettazione della vendita di un uomo e della sua sottomissione. In questi giorni di rivolta globale dopo l’efferato omicidio di George Floyd, quella che era una condanna giusta e sacrosanta dal presente si è spostata sul passato prendendo di mira alcune statue che sono state imbrattate, distrutte, rimosse. In preda ad uno stato d’ira collettivo, l’onda di protesta dei BLM (Black Lives Matter) si è spostata in Europa con l’intenzione di annullare a colpi di vernice spray secoli di colonialismo. Orbene, dopo l’abbattimento della statua settecentesca del mercante di schiavi Edward Colson, finita sui fondali del porto di Bristol, le autorità britanniche hanno pensato di correre ai ripari pensando di rimuovere le statue di altri personaggi simili, come Cecil Rhodes dall’Oriel College di Oxford, o Robert Milligan dalla facciata del Museo dei Docklands di Londra. Sulla spinta di un revisionismo storico e di una selva di petizioni in molte città si sta valutando un riposizionamento nei musei di quasi tutte le statue dei personaggi che abbiano avuto a che fare con la tratta di schiavi. Computo ben difficile da tenere, pensando che nell’Europa coloniale è difficile trovare un’effige immune da un seppur inconsapevole contatto con la piaga orribile, eppur storica, dello schiavismo. Anche i re. Leopoldo II re del Belgio – anche lui oggetto di destatuizzazione – ha arricchito il suo regno con il sanguinoso commercio della gomma nel Congo senza generare troppi rimorsi tra i suoi sudditi se, a ben ricordare, il paese africano ottenne l’indipendenza dal Belgio solo nel 1960. La rivolta vuole che secoli spesi dagli accademici a ‘civilizzare’ i personaggi del passato, allontanandoli la lente distorta del presente, siano buttati alle ortiche. Ma, come solitamente accade quando si vuol fare i conti con la storia, se la si vuol prendere per la coda e rendere un dogma, l’ignoranza – quella pura che Collodi avrebbe vestito con due belle orecchie d’asino – prende il sopravvento. Così nella piazza del Parlamento a Londra, la statua di Wiston Churchill, accusato di razzismo per alcune sue dichiarazioni pubbliche, è stata coperta per evitare ulteriori sfregi e sir Nicholas Soames, nipote dello statista inglese, ha dovuto sottolineare che suo nonno – che salvò l’Inghilterra e l’Europa dal nazismo – “essendo un figlio del periodo edwardiano ne parlò il linguaggio”. Ma non basta. A Leicester è partita una petizione con circa 5mila firme per rimuovere la statua di Gandhi, accusato di essere stato “un fascista, razzista e predatore sessuale”. Ebbene sì, il Mahatma, il difensore dell’indipendenza indiana e della non-violenza ha da essere oscurato per “ben documentato razzismo” con tanto di tocco di vernice. Faisal Davji, professore di Storia Indiana dell’Università di Oxford, si è sentito in dovere di dichiarare alla BBC che “anche Gandhi fu un uomo imperfetto, ma l’imperfetto Gandhi fu molto più radicale e progressista di molti contemporanei”. Non fa una piega! A questo punto, tenendo sullo sfondo per ‘completa assurdità dei fatti’, lo sfregio alla statua di Indro Montanelli a Milano che rivela tutto la sua irragionevolezza in quella Lettera 22, simbolo della libertà di stampa, o a quella di Vittorio Emanuele II al Palazzo di Città di Torino, che di colonialista aveva solo i sigari, non resta che parlare di Cristoforo Colombo. Quel truce genocida oggi divide l’America. A Boston e a Miami, le statue dell’esploratore sono state sfregiate e divelte, mentre si discutere semmai riportarle al loro posto. A New York il sindaco si è opposto ad ogni atto di violenza contro la statua in Colombus Circle affermandone il valore simbolico per la comunità italiana. Forse dovrebbe anche ricordare che Genova, patria del navigatore, dal Duecento aveva concesso ai musulmani la libertà di culto e il diritto di costruire la loro moschea davanti alla Darsena (che a proposito deriva dall’arabo e significa “casa del lavoro”). Un buon esempio di storia e di compenetrazione di popoli.
Fulvio Abbate per “il Riformista” il 21 giugno 2020. Alla fine della storia, Michele Serra potrà fissare la sua amaca nei giardini pubblici di Milano dove ha luogo la statua dorata di Indro Montanelli opera dello scultore Vito Tongiani, fino a divenirne il custode, notte e giorno lì a presidiarla, come fosse l’ideale simulacro della destra che si vorrebbe avere a propria disposizione. Leggi: Montanelli, sì, che era un vero signore, altro, che il turpe maestro di “trivio” Salvini. Dunque, si proceda con una breve riflessione sul caso Montanelli, vilipeso sia pure in effigie: la sua statua insozzata di vernice, dapprima rosa fenicottero e nei giorni scorsi rossa Anas, con l’aggiunta di un insulto sputato sul basamento: “Razzista e stupratore” (sic). Se chiamo in causa Serra, ripeto, è solo perché questi, su Repubblica, ha esattamente detto: “Io prima di morire darei non so che cosa per rivedere una destra alla Malagodi, alla Montanelli, alla Prezzolini”. Purtroppo per lui, ciò che è accaduto non sembra andare nella direzione dei suoi auspici. Stabilito che le statue, i monumenti, i cenotafi, le tombe debbano essere abbandonati a se stessi, all’incuria e soprattutto al guano dei piccioni, sebbene la storia ci abbia insegnato che purtroppo sono invece spesso oggetto di effrazione e “vilipendio” (gli anarchici insorti a Barcellona, per esempio, durante la guerra civile, era il 20 luglio 1936, incendiarono la meravigliosa Sagrada Familia di Gaudí, distruggendo parte del laboratorio dove si trovavano schizzi, appunti, mappe e modelli in scala, fondamentali per il completamento dell'opera) l'intera questione così come si sta svolgendo in questi giorni evidenzia e porta addirittura a riflettere sull’acritico entusiastico osanna operato da certa sinistra quando questi, il Montanelli, prese le distanze in termini professionali e insieme politici dal suo editore Silvio Berlusconi. Va da sé che nella tragica e paradossale semplificazione, come dire, manichea femminista e militante para-maoista, scontiamo anche quelle pagine. Sia detto senza nulla togliere alle obiezioni sul persistente maschilismo da bianco in terra d’Africa che emerge dalla vicenda della sua sposa bambina. Verissimo, come recita un proverbio d’ascendenza araba, che il nemico del mio nemico è mio amico, e ancora che al nemico che fugge vanno fatti ponti d’oro, dunque non si può non ricordare con un senso di piacevolezza quando Montanelli volle sbattere la porta del “Giornale” in faccia a Berlusconi, visto a sinistra come demone “caimano”. Altrettanto vero però che sempre la sinistra per sua natura non avrebbe ragione di rimpiangere il “reazionario” Montanelli, il giornalista che in pieno decennio rosso invitò i suoi lettori, l’Italia ben pensante, la stessa che dalle colonne del “Corriere della Sera” indicava negli anarchici e segnatamente in Pietro Valpreda il “mostro” e si scagliava perfino contro i “capelloni”, a votare Dc “turandosi il naso“, e questo proprio nei giorni in cui le conquiste di democrazia e libertà erano frutto proprio delle battaglie della sinistra stessa. Resti agli atti che, in quegli anni, parlo del 1975, i giorni del lancio di “Rimmel”. è un nitido ricordo personale, perfino il mite Francesco De Gregori, presentando la sua canzone “Informazioni di Vincent”, per agevolarne la lettura, aggiungeva: “Al posto di Vincent mettete il nome Indro, a me non piace Montanelli”. E dovremmo anche ricordare quando, sempre Montanelli, riferendosi a Tina Merlin, inviata de l’Unità nel Vajont per accertare le responsabilità della tragedia, accusava i comunisti di essere “sciacalli”. Va detto per onestà intellettuale che Indro per quelle parole infine chiese scusa. Sempre personalmente, sia detto con sincerità, ho addirittura un ricordo che me lo ha reso amabile, accadde quando, nel 1997, sempre su l’Unità scrissi un articolo per irridere il mito dell’icona di Che Guevara, e subito Montanelli si scagliò in difesa del “guerrigliero eroico” contro di me, “comunista rinnegato”. Forse, la sinistra farebbe bene a cercare i propri miti ulteriori fuori casa, o no? Sia detto ricordando che Berlinguer, da giovane dirigente comunista, indicava Santa Maria Goretti come modello per i ragazzi delle sezioni, da affiancare alla partigiana martire della Resistenza Irma bandiera. Né si può dimenticare d’avere visto in piazza, proprio nei giorni più infuocati dello scontro con Berlusconi, molte signore di sinistra che innalzavano cartelli con su scritto: “Veronica, non ti merita!”, nella convinzione che la signora Lario fosse una “compagna”; qualcosa di simile è accaduto anche con Carla Bruni, anche quest’ultima vista come una “gauchiste”, e che dolore saperla infine coniugata Sarkozy. Nessuno qui pretende che la sinistra risalga sul treno blindato del non meno mostruoso Lenin, ma almeno che provi a coltivare nella propria serra gli eventuali idoli, o è chiedere troppo? Alla fine di questa vicenda, a conti fatti, l’unico che sembra uscirne gratificato, forte di un nuovo impiego, da affiancare alla produzione della fragranza “Eau de moi” che firma insieme alla moglie Giovanna Zucconi per il brand “Serra e Fonseca”, sembrerebbe Michele Serra; sarà bello immaginarlo a guardia della statua di Montanelli, a difesa della destra immaginaria.
Quando il compagno Engels faceva il tifo per la razza ariana. Il braccio destro di Karl Marx fu un convinto sostenitore dell'imperialismo tedesco. E del colonialismo italiano. Spartaco Pupo, Venerdì 26/06/2020 su Il Giornale. Il fatto che Marx potesse trovare il principale motivo di scherno di un avversario politico in un fattore biologico come il colore della pelle e perfino il tipo di crescita dei capelli la dice lunga su quale fosse la sua reale considerazione delle razze diverse da quella bianca. Quella in cui visse Marx fu l'epoca non solo delle guerre coloniali, della tratta degli schiavi e dell'affermazione del sistema della schiavitù, ma anche della resistenza titanica dei popoli colonizzati e schiavizzati: in Africa, India e Oceania, le masse nere lottarono disperatamente contro l'invasore bianco, mentre nelle Americhe gli schiavi si sollevarono in armi più di una volta contro i dominatori. Eppure questi disperati tentativi di liberazione dall'oppressione schiavista trovarono la totale indifferenza di Marx. Egli, per esempio, ignorò completamente quello che secondo alcuni fu il più grande evento rivoluzionario del XIX secolo: la rivoluzione haitiana del 1804, condotta per la prima volta interamente da schiavi, che rovesciò il sistema della schiavitù e pose le basi per lo sviluppo del lavoro libero. Sarebbe utile capire come mai Marx non ne fa alcuna menzione nei suoi scritti. E che dire di Engels, padre indiscusso del materialismo dialettico e, per alcuni, il mentore di Marx? Si può dire che in fatto di razzismo egli si distinse per certe uscite non proprio dissimili da quelle di Marx e di altri suoi connazionali, forse anche dei nazisti del secolo successivo. Ne L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), Engels non si fece scrupoli a definire il popolo tedesco come «stirpe ariana assai dotata e in pieno sviluppo di vita». Si disse indignato dalla resistenza degli slavi alla dominazione tedesca e si scagliò contro la Boemia e la Croazia per aver cercato di emanciparsi dall'imperialismo tedesco attraverso la fusione in un movimento pan-slavista. La storia, sosteneva Engels in Rivoluzione e controrivoluzione, esigeva l'assorbimento di questi popoli più deboli in una razza «più energica», quella dei tedeschi, che da soli avevano «il potere fisico e intellettuale di sottomettere, assorbire e assimilare i loro antichi vicini orientali» e di estendere la civiltà occidentale all'Europa orientale. Di conseguenza, «il destino naturale e inevitabile di questi popoli morenti» era quello di arrendersi all'assimilazione, anziché vagheggiare «che la storia retrocedesse di mille anni per compiacere qualche corpo fisico di uomini». Insomma, mentre, da un lato, Engels sosteneva i movimenti di liberazione nazionale antizarista, dall'altro, mortificava la istanze dei cechi e degli slavi nelle rivolte del 1848. Come giustamente osservò il Boersner, quei popoli «non combattevano forse anche loro per l'indipendenza nazionale contro l'oppressione straniera?». La verità è che «Engels credeva - e in ciò riecheggiava un tipico sentimento teutonico - che gli slavi dell'Impero asburgico fossero destinati a essere germanizzati e integrati nella cultura tedesca ritenuta superiore». Ma in verità Engels fece molto di più per rimarcare il suo razzismo e la sua approvazione nei confronti del colonialismo. Nel 1830 la Francia, come è noto, invase e colonizzò l'Algeria. Per diciotto anni le truppe coloniali francesi condussero una guerra spietata contro la popolazione araba, mobilitata alla resistenza dall'emiro del Mascara Abdel Kader. Gli arabi ebbero la peggio contro la forza militare dell'emergente impero francese. Kader venne catturato e il suo esercito sbaragliato. L'Algeria si apprestava a diventare, come le altre nazioni africane, un enorme campo di concentramento, dinanzi al quale Engels, in Il governo francese in Algeria, apparso su The Northern Star il 22 gennaio 1848, proprio lo stesso anno in cui pubblicò insieme a Marx il Manifesto, ebbe a scrivere: «A nostro parere, nel complesso, è una grande fortuna che il capo arabo sia stato preso. La lotta dei beduini era senza speranza e, sebbene il modo in cui i soldati brutali, come Bugeaud, hanno portato avanti la guerra sia altamente biasimevole, la conquista dell'Algeria è un fatto importante e fortunato per il progresso della civiltà. La pirateria degli stati barbareschi, che non hanno mai interferito con il governo inglese fintanto che non hanno disturbato le loro navi, non poté essere abbattuta, ma conquistata da uno di questi stati. E la conquista dell'Algeria ha già costretto i Bey di Tunisi e Tripoli e persino l'imperatore del Marocco a imboccare la strada della civiltà. Sono stati costretti a trovare per il loro popolo un'occupazione diversa dalla pirateria... E se ci si può rammaricare del fatto che la libertà dei beduini del deserto sia stata distrutta, non dobbiamo far capire che questi stessi beduini erano una nazione di ladri, il cui principale mezzo di sostentamento consisteva nel fare escursioni nei villaggi, prendendo quello che trovavano, massacrando tutti coloro che resistevano e vendendo i prigionieri rimasti come schiavi... Dopo tutto, la moderna borghesia, con la sua civiltà, l'industria, l'ordine e il quanto meno relativo illuminismo che ne conseguì, è preferibile al signore feudale o al predone e rapinatore e allo stato barbarico della società a cui appartiene». Nel 1849, quando gli slavi meridionali dell'Impero austriaco sostennero il potere imperiale contro l'insurrezione dei rivoluzionari tedeschi e ungheresi, Engels, sulla Neue Rheinische Zeitung, affermò: «Tra tutte le razze dell'Austria, ce ne sono solo tre che sono state portatrici di progresso, che hanno avuto un ruolo attivo nella storia e che conservano ancora la loro vitalità: i tedeschi, i polacchi e i magiari. Per questo sono ora rivoluzionari. La vocazione principale di tutte le altre razze e di tutti gli altri popoli, grandi e piccoli, è quella di perire nell'olocausto rivoluzionario». Del razzismo, del filo-colonialismo di Engels come civilizzatore di popoli ritenuti inferiori, di cui queste citazioni costituiscono una prova lampante, si occupò diffusamente Hosea Jaffe, uno storico ed economista di origini sudafricane, morto nel 2014 tra l'altro in Italia, in un paesino dell'avellinese, che per il suo realismo è risultato a lungo indigesto alla sinistra europea e, in particolare, a quella italiana, benché fosse lui stesso dichiaratamente di sinistra. Un testo che ha provocato più di un mal di pancia tra i devoti all'ortodossia marxista è un breve ma intenso libro del 2007, per fortuna ancora in commercio, dal titolo emblematico Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (edito da Jaca Book). Esso si inserisce nell'enorme lavoro di Jaffe sul colonialismo, inteso non come una fase o deriva del modello di sviluppo occidentale, ma piuttosto come una «modalità costante», verificabile continuamente. Jaffe, che ha indagato a fondo la difficoltà di comprensione di questa modalità del colonialismo da parte delle élite progressiste europee e occidentali, è andato alla radice di certi «fraintendimenti» di ordine storico e ideologico e ha individuato, prove alla mano, l'ambiguo atteggiamento di Engels rispetto alla «menzogna coloniale». Quando non è cecità, quella di Engels è, per Jaffe, senz'altro una legittimazione del colonialismo, intimamente connessa al suo razzismo di fondo, che gli impedì di scorgere il legame intrinseco tra il capitalismo e l'idea evoluzionistica della razza. Ad avvalorare tale tesi è la risposta che Engels diede ai socialisti italiani guidati da Antonio Labriola in merito all'istanza concernente la distribuzione ai contadini italiani delle terre coloniali sottratte ai contadini dell'Etiopia in seguito alla prima acquisizione coloniale italiana nel mar Rosso, quella appunto dell'Etiopia nord-orientale, battezzata colonia d'Eritrea, a capodanno del 1890, sotto il governo del socialista Francesco Crispi. Il 15 marzo dello stesso anno Labriola aveva pubblicato su Il Messaggero una lettera dal titolo La terra a chi la lavora: la colonia Eritrea e la questione sociale, indirizzata al parlamentare Alfredo Baccarini, affinché si facesse promotore dell'iniziativa in questione. Engels, tradendo gli ideali dell'internazionale socialista ai danni dell'Africa e di quegli Zulu in cui egli stesso aveva intravisto «l'umanità prima della divisione in classi» (L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato), citando Marx, rispose: «Per quanto riguarda questa terra libera, non c'è dubbio che la più grande richiesta che oggi si possa fare al presente governo italiano è che nelle colonie siano assegnate proprietà terriere, per la coltivazione diretta, ai piccoli contadini e non ai monopoli, siano essi individuali o di compagnie. La piccola economia contadina è la migliore e più naturale soluzione per le colonie che stanno ora fondando i governi borghesi (se ne può trovare riferimento ne Il Capitale di Marx, libro primo, capitolo finale, La teoria moderna della colonizzazione) . Noi socialisti, senza scrupoli di coscienza, possiamo quindi appoggiare l'introduzione della piccola economia contadina nelle colonie già fondate chiedendo per esempio con insistenza al governo che nelle colonie vengano garantiti ai contadini italiani che emigrano gli stessi vantaggi che essi cercano e generalmente trovano a Buenos Aires . Se poi il collega Labriola abbia da ridire su questo - crediti di Stato per gli emigranti in Eritrea, colonizzazione da parte di società cooperative e altro - non mi riesce di capirlo dall'articolo de Il Messaggero».
I cinque giorni che cambiarono la storia. Mentre l'Europa cadeva sotto i primi colpi del nazismo, Churchill decise di opporsi a Hitler. Salvando così la civiltà occidentale. Matteo Carnieletto, Giovedì 25/06/2020 su Il Giornale. "Guerra per guerra, leggiamo Five days in London, il libro sui cinque giorni che hanno cambiato il corso della storia. È Churchill che chiama nel governo i laburisti di Attlee. Sono queste memorie e storie arcaiche?". Incuriosito dalle parole pronunciate da Giulio Tremonti mentre lo intervistavo per ilGiornale.it, ho deciso di acquistare Cinque giorni a Londra, il libro (ormai quasi introvabile nella sua versione italiana) scritto da John Lukacs nel 1999 e pubblicato in Italia da Corbaccio nel 2001. Possono cinque giorni - un "dramma in cinque atti", come lo definisce Sergio Romano nella sua premessa - cambiare la storia non solo di un Paese ma del mondo intero? Sì, se analizziamo ciò che è successo a Londra tra il 24 e il 28 maggio del 1940. Prima di iniziare, però, dobbiamo fare un passo indietro e tornare al 10 maggio, una data chiave sia per il Regno Unito sia per la Germania. Quel giorno, infatti, mentre Winston Churchill veniva nominato primo ministro (una scelta tutt'altro che scontata dato che il re preferiva Edward Wood, I conte di Halifax), Adolf Hitler dava l'ordine di iniziare l'invasione dell'Europa occidentale. "Le coincidenze sono giochi di parole dello spirito", ha scritto Gilbert Keith Chesterton. E così, per coincidenza, il 10 maggio del 1940 iniziò quello che Lukacs, in un altro fortunato libro, ha definito il "duello" tra Churchill e Hitler. Le truppe tedesche, inquadrate sotto la croce uncinata, penetrano facilmente nei Paesi Bassi e in Belgio, per poi puntare verso la Francia. La loro avanzata sembra inarrestabile, come se fosse mossa da forze ultraterrene. Nessuno riesce a fermare gli uomini di Hitler che, in poco tempo, si trovano a controllare gran parte del Vecchio continente. Uno dopo l'altro, i Paesi europei cominciano a cadere. Eppure qualcuno deve resistere. Quel qualcuno è Churchill: "Nel maggio 1940 né gli Stati Uniti né l'Unione sovietica erano in guerra con la Germania - scrive Lukacs - In quel momento c'erano ragioni perché un governo britannico decidesse perlomeno di verificare la possibilità di un compromesso temporaneo con Hitler". Ma Churchill non volle farlo. Del resto, un simile accordo era stato fatto a Monaco nel 1938 e i risultati di quel patto erano sotto gli occhi di tutti: l'Europa era in fiamme. Era arrivato il tempo di resistere: "Churchill e l'Inghilterra non avrebbero potuto vincere la Seconda guerra mondiale; lo fecero l'America e l'Unione sovietica. Ma, nel maggio del 1940, Churchill fu colui che non la perse". E non la perse per un unico motivo: perché decise di combattere. L'operato del primo ministro britannico dal 24 al 28 maggio segue due direttrici: creare consenso e unire la nazione. Per questo non solo Churchill apre ai laburisti di Attlee, ma anche (e senza successo) al "disfattista" Lloyd George che, fino a pochi mesi prima, aveva elogiato il dittatore tedesco. "Naturalmente, l'intento principale di Churchill non era rinsaldare solo la fiducia, ma anche l'unione nazionale. Ma c'era un'altra ragione dietro a questo: se il peggio fosse accaduto... E sarebbe accaduto? Churchill era abbastanza uomo di stato per pensare a questa eventualità". Mentre cercava di creare il consenso attorno alla propria figura, il primo ministro britannico si trovò ad affrontare una delle più grandi disfatte della storia militare del Paese: Dunkerque. Oltre 300mila uomini del corpo di spedizione britannico rimasero bloccati sulla spiaggia francese. Davanti a loro i soldati di Hitler. Dietro il mare. Che fare? Bisognava riportarli a casa. Iniziò così l'operazione Dynamo che, nel giro di pochi giorni, riuscì a riportare in patria gran parte dei soldati del corpo di spedizione britannico. "Per Churchill Dunkerque fu, se non una vittoria, sicuramente un sollievo".
Churchill (e il Regno Unito) avevano bisogno di quegli uomini. C'era inoltre bisogno di un'epopea in grado di unire la nazione. E Churchill riuscì in questo intento. Ma non solo. Se da una parte è vero che il primo ministro britannico agì per salvare l'impero, è altrettanto vero che Churchill salvò il mondo occidentale: "Le sue frasi su Londra custode della civiltà occidentale non erano solo retorica: c'erano, nei palazzi della città, i re e le regine dell'Europa occidentale in esilio; c'era per le strade la variopinta presenza delle uniformi dei loro soldati e marinai (compresi, a migliaia, i valorosi polacchi); c'erano i concerti di Bach nelle annerite sale vittoriane - e la sigla della Bbc che apriva le trasmissioni europee con la prima battuta della Quinta di Beethoven". Churchill salvò tutto questo. Anche la libertà di chi, oggi, vorrebbe rimuovere le sue statue.
Da Floyd a Montanelli: attenzione agli scivolamenti nella percezione spazio-temporale. Francesco Caroli de il Riformista il 15 Giugno 2020. Condivido una riflessione dell’amico e Psicologo Dario Forti, da Milano. Il dibattito globalizzato (come il Covid-19) su razzismo, colonialismo, schiavismo, ci presenta un groviglio di questioni etiche, storiografiche, politiche. Sappiamo che etica e storia sono piuttosto delicate da maneggiare e che le discussioni finiscono il più delle volte in vicoli ciechi, impattate da domande del tipo: “Esistono principi morali universali?” o “Chi è che scrive la storia?”. Mi limito ad un paio di esempi. La civiltà di un popolo la si misura sul modo in cui trattano le bambine (come quella acquistata dall’ufficiale coloniale Indro Montanelli); ma come la mettiamo con l’infibulazione praticata regolarmente in tutte le comunità islamiche, anche immigrate nei paesi di tradizione kantiana? Oppure, l’eredità fascista nell’Italia del dopoguerra: una parentesi per Il Corsera del dopo 25 luglio, redenzione ad opera della Resistenza, partita chiusa dall’amnistia togliattiana, oppure (convinzione cui sono giunti storici attenti alla lezione psicoanalitica) trasmissione transgenerazionale di un trauma non elaborato? Questioni difficili, quindi. La mia ipotesi è che tutto sommato sia più gestibile un punto di vista politico, chiaro e abbastanza immune da pretese oggettivistiche e universalistiche. In tal senso mi pare interessante chiedersi come siamo arrivati da George Floyd a Indro Montanelli, passando per l’eroe indiscusso della Seconda guerra mondiale Winston Churchill. L’ennesimo atto di discriminazione compiuto dalla polizia non solo nelle città in cui l’eredità segregazionista è ancora viva (tra infiltrazioni dei suprematisti bianchi o addirittura del KKK) ma anche in quelle a sicura guida democratica (si veda lo scontro tra Andrew Cuomo e Bill de Blasio sul comportamento dei poliziotti di NYC), evidenzia un fenomeno reale e gravissimo: quando il “soggetto” è un nero, l’atteggiamento della polizia è quello che si applica senza esitazioni a criminali pericolosi. Lo scivolamento dal razzismo della polizia all’iconoclastia anticolonialistica segnala uno scarto sociologico (da esplorare nelle sue dinamiche sotterranee) che ha spostato l’asse dalle comunità marginali afroamericane ad una sorta di patriottismo sovranista che ha avuto la sua prima espressione nella ricorrenza dei 500 anni dalla scoperta dell’America. La trasposizione delle critiche in UK, al di là di una tendenza ormai consolidata anche alla globalizzazione delle campagne di opinione (si pensi ai Fridays for future), ha investito il passato coloniale della Gran Bretagna (non a caso rivendicato da Sir Winston nel famoso discorso sulle spiagge e sulle colline). Il fatto che Churchill fosse indubitabilmente un po’ razzista (una sorta di suprematista britannico alla Rudyard Kipling) costituisce forse una chiave di collegamento più chiaro con l’imbrattamento non solo statuario ma anche biografico della figura del giornalista gambizzato dalle BR ai Giardini pubblici di Milano. Condannare Montanelli per il suo comportamento evidentemente inaccettabile (con gli occhi di oggi, naturalmente e non con quelli di un’Italia orgogliosamente imperiale e civilizzatrice degli anni del consenso di massa, cfr. Renzo De Felice), chiedendone una scomunica ufficiale, che significato politico ha nella Milano di oggi? Questa mi sembra la questione politica, tra lockdown ancora sostanzialmente in atto nella Gran Milano post-Expo, imminente crisi economica non al riparo da fenomeni di protesta sociale delle categorie più colpite (perché meno protette), e prossime elezioni amministrative…Montanelli è stato un personaggio divisivo, espressione della Milano moderata, pienamente rappresentata, nonostante il suo scarto antiberlusconiano degli ultimi anni, dai sindaci di Forza Italia. Attaccare Montanelli che significato politico-elettorale assume? Di rinsaldare una sinistra peraltro molto frastagliata? Di riprodurre in modo nuovo quel “modello Milano” che la sinistra del PD ha esibito come ragione della vittoria nel 2016? Il che spiegherebbe sia l’imbarazzo di Beppe Sala (che appoggia il suo distinguo sul principio evangelico dello “scagli la prima pietra…”, mentre avrebbe forse voluto liquidare gli imbrattatori come fastidiosi teppisti) che quello del capogruppo riformista in Consiglio Comunale che ha cercato di far rientrare la fronda movimentista. È così difficile pensare invece che Indro Montanelli sia espressione di una Milano capace (cosa rara nell’Italia delle contrade) di uno standing bypartisan (come è da sempre il Famedio e nei fatti realizzato dalle ultime quattro sindacature che hanno prodotto la Milano locomotiva d’Italia, la cui spinta propulsiva è tutt’altro che da considerarsi esaurita, purché a crisi governata e superata)? Per questo, la statua dovrebbe essere prontamente ripulita (se ciò non è stato ancora fatto) e l’episodio considerato uno sgradevole incidente di percorso. Ne abbiamo di cose su cui sostenere l’azione del nostro Sindaco e di un’amministrazione che dovrà saper far fronte ad un futuro prossimo per niente tranquillizzante. Dario Forti, Psicologo.
Persino Giulio Cesare il "democratico" vittima di chi devasta la storia e le statue. Vicino al popolo e innovatore, abbattuto come simbolo di quel che non era. Matteo Sacchi, Martedì 16/06/2020, su Il Giornale. Non bastavano una scarica di pugnalate (secondo la tradizione ventitré) a tradimento, nella Curia di Pompeo. Ora Cesare potrebbe ripetere il famoso «Tu quoque» anche contro i vandali fiamminghi. La cronaca è semplice e merita di essere riportata con quella brevitas che era così cara al conquistatore delle Gallie. Una statua di Lui, Giulio Cesare, è stata danneggiata in Belgio a latere delle manifestazioni «Black Lives Matters» che hanno portato anche alla distruzione, rimozione o imbrattamento di diverse effigi del re Leopoldo II (che in effetti colonialista lo fu alquanto) in tutto il Paese. L'attacco contro la statua del Pater Patriae romano è avvenuto a Zottegem, nelle Fiandre orientali, nella notte tra sabato e domenica, secondo quanto riportano dai media locali prontamente ripresi dalle agenzie italiane. I vandali - saranno stati di più o di meno dei congiurati delle Idi di Marzo? - hanno strappato dal bronzo una anacronistica lancia (avrebbe avuto più senso un pilum) che Giulio Cesare teneva in mano. Inoltre è stato cancellato il nome del dittatore (parola assolutamente positiva in senso romano), mentre è comparsa la scritta «krapuul» (feccia). Le autorità hanno aperto un'inchiesta per scoprire i colpevoli. Il sindaco, Jenne De Potter, ha promesso di far riparare la statua «a spese degli autori» dell'atto di vandalismo. E qui, ci perdoni Cesare, abbandoniamo la sua lezione (mai un commento nel De Bello Gallico) e andiamo un pochino al di là dei fatti. Bisogna essere cretini per valutare il comportamento di un uomo morto nel 44 a.C. con i canoni morali del XXI secolo. Ma, del resto, le persone che aggrediscono un pezzo di bronzo spesso non sono dei geni. Però, in questo caso, la questione assume toni che vanno oltre il ridicolo e sfiorano il surreale. Cesare era un combattente e viveva in un mondo in cui guerra e schiavitù erano all'ordine del giorno. Ma questo era il suo parere sui Galli Belgi: «Tra i vari popoli i più forti sono i Belgi, ed eccone i motivi: sono lontanissimi dalla finezza e dalla civiltà della nostra provincia; i mercanti, con i quali hanno scarsissimi contatti, portano ben pochi fra i prodotti che tendono a indebolire gli animi». Quasi antiglobalista. Evidentemente aveva affrontato Belgi capaci di battersi coi vivi e non solo con le statue dei morti. Li vinse ma stipulando anche una serie di trattati che contribuirono a portare la Gallia nel mondo romano, tanto che secoli dopo i galli ottennero la piena cittadinanza. Per gli standard dell'epoca poi non guasta ricordare che politicamente Cesare era legato ai populares... Era fortemente criticato per i suoi gusti sessuali alquanto ambigui (parola di Catullo) e capace di legarsi a Cleopatra. Una mossa che sarà stata anche di Realpolitik, ma avere un figlio con una non romana e riconoscerlo non era proprio una di quelle cose inseribili nel mos maiorum o nel concetto di purezza del sangue romano. Non per niente un grande storico dell'antichità, molto di sinistra, Luciano Canfora, ha definito Cesare nel titolo di un suo libro Il dittatore democratico. Insomma abbattere la statua di chiunque (a meno che non sia il tiranno del momento) è una cosa sempre senza senso. Ma in questo caso anche col senno del poi... Cari vandali (intesi non come popolo, ma certo come barbari) avete proprio preso la statua del tizio, anzi del Caio, sbagliato.
Matteo Sacchi per "Il Giornale" il 16 giugno 2020. Non bastavano una scarica di pugnalate (secondo la tradizione ventitré) a tradimento, nella Curia di Pompeo. Ora Cesare potrebbe ripetere il famoso «Tu quoque» anche contro i vandali fiamminghi. La cronaca è semplice e merita di essere riportata con quella brevitas che era così cara al conquistatore delle Gallie. Una statua di Lui, Giulio Cesare, è stata danneggiata in Belgio a latere delle manifestazioni «Black Lives Matters» che hanno portato anche alla distruzione, rimozione o imbrattamento di diverse effigi del re Leopoldo II (che in effetti colonialista lo fu alquanto) in tutto il Paese. L'attacco contro la statua del Pater Patriae romano è avvenuto a Zottegem, nelle Fiandre orientali, nella notte tra sabato e domenica, secondo quanto riportano dai media locali prontamente ripresi dalle agenzie italiane. I vandali - saranno stati di più o di meno dei congiurati delle Idi di Marzo? - hanno strappato dal bronzo una anacronistica lancia (avrebbe avuto più senso un pilum) che Giulio Cesare teneva in mano. Inoltre è stato cancellato il nome del dittatore (parola assolutamente positiva in senso romano), mentre è comparsa la scritta «krapuul» (feccia). Le autorità hanno aperto un'inchiesta per scoprire i colpevoli. Il sindaco, Jenne De Potter, ha promesso di far riparare la statua «a spese degli autori» dell'atto di vandalismo. E qui, ci perdoni Cesare, abbandoniamo la sua lezione (mai un commento nel De Bello Gallico) e andiamo un pochino al di là dei fatti. Bisogna essere cretini per valutare il comportamento di un uomo morto nel 44 a.C. con i canoni morali del XXI secolo. Ma, del resto, le persone che aggrediscono un pezzo di bronzo spesso non sono dei geni. Però, in questo caso, la questione assume toni che vanno oltre il ridicolo e sfiorano il surreale. Cesare era un combattente e viveva in un mondo in cui guerra e schiavitù erano all'ordine del giorno. Ma questo era il suo parere sui Galli Belgi: «Tra i vari popoli i più forti sono i Belgi, ed eccone i motivi: sono lontanissimi dalla finezza e dalla civiltà della nostra provincia; i mercanti, con i quali hanno scarsissimi contatti, portano ben pochi fra i prodotti che tendono a indebolire gli animi». Quasi antiglobalista. Evidentemente aveva affrontato Belgi capaci di battersi coi vivi e non solo con le statue dei morti. Li vinse ma stipulando anche una serie di trattati che contribuirono a portare la Gallia nel mondo romano, tanto che secoli dopo i galli ottennero la piena cittadinanza. Per gli standard dell'epoca poi non guasta ricordare che politicamente Cesare era legato ai populares... Era fortemente criticato per i suoi gusti sessuali alquanto ambigui (parola di Catullo) e capace di legarsi a Cleopatra. Una mossa che sarà stata anche di Realpolitik, ma avere un figlio con una non romana e riconoscerlo non era proprio una di quelle cose inseribili nel mos maiorum o nel concetto di purezza del sangue romano. Non per niente un grande storico dell'antichità, molto di sinistra, Luciano Canfora, ha definito Cesare nel titolo di un suo libro Il dittatore democratico. Insomma abbattere la statua di chiunque (a meno che non sia il tiranno del momento) è una cosa sempre senza senso. Ma in questo caso anche col senno del poi... Cari vandali (intesi non come popolo, ma certo come barbari) avete proprio preso la statua del tizio, anzi del Caio, sbagliato.
Abbattere una statua non significa cancellare la storia. Lidia Marassi il 15 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Il dibattito sulla legittimità dei monumenti torna ciclicamente a ripresentarsi sulla sfera pubblica. Adesso, in seguito all’uccisione di George Floyd a Minneapolis ed all’imporsi del movimento Black Lives Matter, i manifestanti statunitensi hanno abbattuto alcune statue dedicate a militari e politici della confederazione, portando nuovamente l’opinione pubblica ad interrogarsi circa la legittimità del gesto. La discussione si è accesa nuovamente anche in Europa, dove spesso è accompagnata da posizioni critiche che difendono la salvaguardia della tradizione storica. Per poter ragionare sulla questione serve tuttavia contestualizzare, considerando innanzitutto che quanto sta accadendo negli USA si sta verificando in uno scenario urbano che non è un ambiente neutro. Se sembra già riduttivo parlare della “brutalità delle rivolte”, prescindendo da un’analisi socio-economica sul sistema statunitense e sul razzismo strutturale a cui ha portato, appare ancor più ingenuo ignorare l’aspetto caratteristico della rivolta. Siamo infatti davanti ad un modello che presenta la rivoluzione come modalità attraverso la quale abbattere il potere costituito al fine di tutelare diritti che non si ritiene siano garantiti. Non tutte le proteste si accompagnano a forme di violenza, ma le rivoluzioni spesso sì, mirando ad un obiettivo di cambiamento che nasce e si esacerba in un contesto in cui difficilmente si potrebbe agire con modalità differenti. In un simile scenario appare consequenziale che si assista all’abbattimento di quei monumenti che sono tracce storiche del sistema contro cui i rivoltosi si scagliano, fatto di soprusi e di oppressione dei più deboli, e la cui distruzione rappresenta simbolicamente la produzione di un cambiamento sociale. Va pure sottolineata la differenza che intercorre tra chi vuole rinnovare l’ambiente urbano per revisionismo storico o damnatio memoriae e chi vuole rimuovere delle statue considerate sgradevoli, soprattutto contestualmente ad una forma di protesta anche ideologica. Questo discorso appare attuale anche nel dibattito pubblico italiano, nel quale molti si sono schierati in difesa delle opere pubbliche e della “memoria storica”. Per quanto riguarda quest’ultima, dovremmo forse considerare l’errore concettuale che commettiamo nel confonderla con una memoria di tipo collettivo. La memoria e la storia sono due cose differenti, la seconda è un divenire ed una tensione perpetua che la prima può solo assumere in modo soggettivo. La memoria può cambiare nel suo ricordo del passato, la storia si dà ancora nel suo futuro svolgersi, cosicché abbattendo una statua non si cancella la storia ma, al limite, si assiste al suo articolarsi. Questo non significa sostenere che si debba ignorare il passato, ma piuttosto che sia necessario evitare che un ricordo assuma i contorni di una sorta di culto memoriale. Pensare che si possa cristallizzare la storia nella sua narrazione porta a tutte quelle posizioni che difendono la legittimità delle opere pubbliche “di per sé”, come testimonianza di un passato che si ritiene inviolabile. Abbattere un simbolo non significa tuttavia cancellare la storia, ma semmai modificare la modalità con cui si sceglie di raccontarla e ricordarla. In Italia su alcuni giornali si è parlato addirittura di “deriva iconoclasta” sottolineando che se ( in un paese come il nostro) volessimo abbattere tutto ciò che richiama a discriminazioni ci troveremmo ben presto in una sorta di deserto culturale. L’esempio che più è stato citato è forse quello della Colonna Traiana, in quanto “testimonianza dell’imperialismo romano e ricordo della sottomissione dei Daci”. Chi sostiene l’inviolabilità dei monumenti, sottolinea l’assurdità di cancellare dalla nostra cultura quello che potrebbe essere interpretato come un inno all’odio, non ottenendo nulla di più che traslare il problema sul piano architettonico, senza risolvere nulla ma piuttosto distruggendo un’opera. Il problema tuttavia non è affatto questo, nessuno pensa di abbattere i monumenti della Capitale proprio perchè la memoria legata alle opere muta con il variare dei tempi storici, e nessuno pensa alla Colonna Traiana come simbolo di oppressione, ma unicamente come reperto. La situazione culturale e sociale italiana è molto differente da quanto sta succedendo negli Stati Uniti, dove quei monumenti restano ancora attualmente legati allo scenario sociale su cui si vuole operare un cambiamento importante. Questo perché esiste semmai una memoria di tipo sociale e collettivo, che si inserisce nell’ambito pubblico ed è pertanto soggetta a reinterpretazioni condivise, ma non una inviolabile memoria storica. Pensare che non si possa operare un mutamento per una sorta di devozione verso il passato è ignorare lo stesso divenire storico e negarne il suo senso ultimo come divenire.
Non siamo alla fine di una storia che va preservata perché giunta al suo termine, ma piuttosto la osserviamo nel suo naturale accadere e la distruzione delle statue non significa mutare la storia passata, ma provare ad influire su quella futura. L’architettura, per quanto bella possa essere, non è solo struttura ma è pure contenuto, ma questo non lo evinciamo mai da quello che preso di per sé è semplicemente un manufatto.
I crociati del politicamente corretto che vogliono cancellare la storia. Roberto Vivaldelli il 14 giugno 2020 su Inside Over. C’era una volta un mondo progressista che inorridiva dinanzi alle barbarie dell’Isis in Siria e Iraq contro i monumenti antichi e manufatti andati distrutti dalla furia islamista dell’organizzazione terroristica. Lo stesso mondo che ha duramente – e correttamene – attaccato il presidente Donald Trump minacciava di bombardare i tesori dell’arte e dell’architettura della Repubblica islamica dell’Iran. Lo scorso gennaio, il New York Times osservava in merito: “Le guerre e le insurrezioni che hanno colpito il Medio Oriente nell’ultimo decennio hanno prodotto non solo un orribile bilancio di morte e sfollati, ma anche una terra desolata di distruzione culturale, riducendo in macerie le porte assire di Ninive, la Grande Moschea di Aleppo e innumerevoli altri tesori, antichi e moderni. Lo scorso fine settimana – proseguiva il Nyt – il comandante in capo americano, cercando di contenere le ricadute dell’uccisione del generale Qassim Suleimani dell’Iran, ha proclamato via Twitter che "se l’Iran colpisse qualche americano", gli Stati Uniti si vendicheranno bombardano un elenco di 52 siti iraniani importanti per l’Iran e la cultura iraniana”. Lo stesso New York Times correttamente ricordava che la mossa di Trump, qualora si fosse sciaguratamente concretizzata, sarebbe rientrata in un “crimine di guerra”, come stabilisce la Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, adottata per prevenire i saccheggi di opere artistiche intrapresi dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. La convenzione afferma, tra gli altri principi, che i Paesi “devono astenersi da qualsiasi atto diretto a scopo di rappresaglia contro i beni culturali”. Fortunatamente la minaccia del Presidente Usa si è limitata a una serie di tweet e non si è mai concretizzata: avrebbe rappresentato un atto barbarico e criminale, alla stregua di quelli commessi da Daesh e da al-Qaeda in Medio Oriente. Il punto è che ora i “barbari” la sinistra Usa li ha coltivati in patria. Li difende e li coccola, in nome di una lotta ideologica folle.
I crociati del politicamente corretto. Benché sia evidente che è del tutto improprio e azzardato paragonare dal punto di vista artistico e sotto il profilo del patrimonio culturale le bellezze iraniane o il sito archeologico di Palmira alle statue dei confederati americani, è altrettanto chiaro che la furia iconoclasta dei politicamente corretti non è dissimile da quella di altri fondamentalismi o dalle minacce di Trump di bombardare i siti iraniani. Come spiega il professor Massimo D’Antoni su Twitter, infatti, “voler applicare i criteri etici di oggi al passato significa mancare di senso della storia. Di solito si accompagna al fondamentalismo”. E ora che i “barbari” che sfregiano e rovesciano statue e monumenti sono i crociati del politicamente corretto, la sinistra liberal americana e occidentale, non solo non li condanna, ma li celebra. Come scrive Gurminder K Bhambra sul New York Times, a proposito della statua di Edward Colston buttata in acqua nei giorni scorsi a Bristol, Regno Unito: “Il rovesciamento della statua di Colston ha reso possibile un dibattito pubblico sul nostro passato coloniale. Coloro che condannano le azioni dirompenti che scatenano il cambiamento dovrebbero riconoscere la violenza intrinseca del passato”. Il punto che Bhambra ignora è che i politicamente corretti non si pongono limiti. E, soprattutto, che la storia la si discute nei luoghi deputati e non può essere appannaggio di qualche gruppetto radicale con una visione partigiana e marcatamente ideologica. Dalle statue i politicamente corretti passeranno presto ad altre opere (film, libri, ecc.) e chissà dove il condurrà quel pericoloso – e ipocrita – senso di colpa che sembra affliggere le loro esistenze. Come già rilevato su questa testata, gli attivisti cosiddetti “antirazzisti” e liberal che in queste ore stanno sfogando la propria frustrazione contro statue e monumenti in tutto l’Occidente non conoscono il significato della locuzione latina damnatio memoriae, ossia la “condanna della memoria”. Come riporta l’Enciclopedia Treccani, parliamo della condanna, che si decretava in Roma antica in casi gravissimi, per effetto della quale veniva cancellato ogni ricordo (ritratti, iscrizioni) dei personaggi colpiti da un tale decreto. In 1984 di George Orwell quando un sovversivo viene fatto sparire dal partito, si applica la damnatio memoriae: viene cioè eliminato, da tutti i libri, i giornali, i film e così via, tutto ciò che si riferisca direttamente o indirettamente alla persona in oggetto. Citiamo un passaggio chiave del capolavoro di Orwell: “Ogni disco è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni immagine è stata ridipinta, ogni statua e ogni edificio è stato rinominato, ogni data è stata modificata. E il processo continua giorno per giorno e minuto per minuto. La storia si è fermata. Nulla esiste tranne il presente senza fine in cui il Partito ha sempre ragione”.
I nuovi fanatici della censura non conoscono la storia. Pierluigi Battista sul Corriere della Sera inquadra perfettamente i nuovi (pericolosi) fanatici della correttezza politica. “Tra i nuovi fanatici della censura, dell’iconoclastia, del rogo di libri e di film, il passato dell’arte, della cultura e del pensiero non va studiato, rappresentato, esaminato, criticato, va superato, cioè distrutto, cancellato, epurato, ricontestualizzato che è l’esatto opposto della doverosa contestualizzazione di un testo, di un’opera, di un’idea, di una parola: cioè quello che si fa normalmente senza bisogno di abbattere le statue come i talebani con quelle di Buddha o dell’Isis a Palmira”. C’è poi un altro dato storico che gli attivisti fissati con gli “schiavisti bianchi” dimenticano – o forse non conoscono – ed è riportato nel capolavoro di Robert Huges La cultura del piagnisteo (Adelphi): “Il commercio degli schiavi africani, la tratta dei neri, fu un’invenzione musulmana, sviluppata dai mercanti arabi con l’entusiastica collaborazione dei loro colleghi neri, e istituzionalizzata con la più spietata brutalità secoli prima che l’uomo bianco mettesse piede sul continente africano; continuò poi a lungo dopo che nel Nordamerica il mercato degli schiavi era stato finalmente soppresso”. Ma è questa è storia, quella che gli iconoclasti vorrebbero eliminare, soprattutto quella “scomoda” alle loro tesi distruttive.
L'ideologia dei diritti fa a pezzi la libertà. Douglas Murray smaschera chi, fingendo di difenderle, imbriglia le nostre conquiste. Matteo Sacchi, Giovedì 11/06/2020 il Giornale. La democrazia liberale si basa sulla difesa dei diritti dell'individuo. Nessuno lo sa meglio di Douglas Murray commentatore politico britannico di orientamento conservatore e dichiaratamente gay. Murray, una delle firme di punta della rivista The Spectator e tra i fondatori del think tank «Centre for Social Cohesion», ha combattuto una lunga battaglia, giusto per fare un esempio, contro la penetrazione strisciante, in Europa e in Gran Bretagna, delle idee del radicalismo islamico che minano il concetto di parità tra i sessi o la libertà sessuale. Quindi risulta evidente che difficilmente le sue idee sull'omosessualità o sul razzismo (per esempio, in questi giorni ha criticato le modalità con cui si svolgono le proteste di Black Lives Matter: perché i manifestanti - si è chiesto - sono esentati dal rispettare la distanza prescritta dalle norme anti virus, mentre noi siamo stati costretti al lockdown?) possono essere tacciate di essere oscurantiste. Eppure nel suo saggio appena tradotto in italiano per i tipi di Neri Pozza - La pazzia delle folle. Gender, razza e identità (pagg. 288, euro 18) - la critica su l'imperversare delle tematiche Lgbt è ad alzo zero. Ovviamente Murray, come tutti i liberali, è assolutamente a favore della diffusione e della difesa dei diritti individuali. Lo è molto meno però sulla diffusione di posizioni ideologiche o sul creare una campagna permanente che, più che consolidare diritti acquisiti, li frammenta e tende a trasformarsi sempre di più in una sorta di bavaglio alla libertà di espressione. Facendo sua una frase di G. K Chesterton - «Il tratto specifico del mondo moderno non è il fatto che sia scettico, ma che sia dogmatico senza saperlo» - mette il dito in tutte le contraddizioni in cui la presente ideologia dei diritti ci sta ficcando. La prima secondo Murray è questa, la società occidentale ha fatto una rapidissima e lodevole corsa per la diffusione delle libertà dei singoli. Ora è in una fase in cui dovrebbe consolidarle. Ma da un lato fraintende le minacce, per esempio tralascia quella dell'islam radicale, dall'altro urla continuamente al lupo al lupo se qualcuno si permette di sostenere tesi del tutto normali. Come puntualizzare i rischi connessi ad autorizzare pratiche quali l'utero in affitto, sostenere la differenza fisica tra maschi e femmine o il fatto che i ruoli genitoriali tradizionali siano ancora validi e abbiano, quantomeno dal punto di vista della storia, una maturazione di lunga data che quelli delle famiglie omosessuali non hanno. Sostenere queste idee o soltanto volerle discutere, ora come ora, provoca automaticamente un vespaio che si conclude facilmente a colpi di accuse di omofobia. Quindi la difesa, settaria e acritica, di certe libertà ha come risultato immediato non quello di rafforzarle ma di mettere la mordacchia anche a chi, pur dandole per acquisite, cerca di ragionare sui loro limiti (perché ogni libertà deve avere anche dei limiti). Il risultato secondo Murray è che «i Paesi più avanzati in tutte queste conquiste sono quelli che ora vengono presentati come i peggiori». Non è solo una questione di immagine. Questo modo di procedere crea dei paradossi, come le riscritture della Storia per renderla politicamente corretta, crea un cortocircuito che mina la politica. Ancora Murray: «È come se all'aspetto indagatore del liberalismo si fosse sostituito un dogmatismo liberale... è per questo che ora quelli che sono i frutti dei diritti vengono presentati come se ne fossero le basi». E questo crea processi di accelerazione incomprensibili per la maggior parte della popolazione che vengono, inevitabilmente, trasformati in politica, e sfruttati da partiti di sinistra o presunti tali. Qualche esempio tra i tantissimi portati da Murray. Se un gay dichiarato come Peter Thiel (il cofondatore di Pay Pal) decide di appoggiare la campagna elettorale di Trump c'è chi si sente in dovere di precisare che: «Peter Thiel ci mostra che c'è differenza fra il sesso gay e il gay». O si è gay come pretendono i gay politicizzati oppure non lo si è abbastanza. Esattamente come è diventato un dogma dire che gay si nasce, anche se la comunità scientifica non ha affatto le idee chiare su quando e come si fondi l'identità sessuale delle persone. Ma il dibattito viene rimosso perché si teme che il pensare che essere gay sia un fatto fluido possa far venire in mente a qualcuno di poter «curare» i gay. Ovviamente Murray invita a depoliticizzare tutte queste questioni e a valutarle tornando a porre la libertà, ma quella di tutti, in primo piano. Senza costruire ghetti ideologici, gestiti da censori, per cui è fondamentale imporre al prossimo un'ideologia queer che annulli tutte le differenze. Come invita a tener presente che le battaglie per i diritti bisogna avere il coraggio di sostenerle in quella parte di mondo dove i diritti non ci sono, non limitarsi a far polemica dove invece ci sono. Ma difficilmente la sua voce controcorrente sarà ascoltata.
Così Benedetto XVI ha previsto il suicidio dell’Occidente. Francesco Boezi l'11 giugno 2020 su Inside Over. Oswald Spengler, Martin Heidegger, Emanuele Severino, Michel Houllebecq e Joseph Ratzinger: punti di partenza diversi, per conclusioni simili. L’Occidente, nell’analisi di questi pensatori, è destinato al tramonto, al nichilismo assoluto, alla sottomissione, alla scomparsa nel primato della tecnica o al suicidio relativista. Strade teoretiche ed argomentazioni che differiscono, per un avvenire comunque nefasto. La profezia di Benedetto XVI è nota: insistendo sull’imminente crisi della Chiesa cattolica, Ratzinger racconta in modo indiretto l’implosione dell’Europa. L’Ecclesia, stando alla previsione di Benedetto XVI, è destinata a divenire minoritaria, con una riduzione significativa del potere e del numero dei fedeli cristiano-cattolici. La disamina del teologo tedesco è ancora oggi al centro di molte interpretazioni. Ratzinger aveva parlato per la prima volta di crisi ecclesiastica in tempi non sospetti, ossia nel 1969, con un’intervista rilasciata ad un’emittente radiofonica tedesca. Ma gli scritti ratzingeriani sono densi di analisi che riguardano il collasso della civiltà occidentale e non si concentrano solo sulla crisi che vive Santa Romana Chiesa. Proprio i moti sessantottini, nella visione del Papa emerito, assumono un ruolo centrale: con la promozione dei “nuovi diritti” si è entrati in un’altra fase che mira comunque a scardinare la basi bioetico-antropologiche del giudaismo e del cristianesimo. Quei moti trovano oggi il loro compimento definitivo, con lo sdoganamento di leggi volte ad attaccare la famiglia naturale. Questo, almeno, non può non essere il punto di vista di un tipo credente che per semplificazione le cronache chiamano “conservatore”. Anche la pandemia da Sars-Cov2 ha svelato come l’Occidente possa doversi confrontare con sfide inaspettate, finendo col porsi domande insolite: la querelle sul raggiungimento dell’immunità di gregge, con le polemiche che ne sono conseguite, è forse il simbolo più evidente della battaglia che si sta combattendo tra due visioni del mondo diametralmente opposte. Quella che vuole salvaguardare ad ogni costo il sistema economico-sociale e quella che ritiene gerarchicamente prioritaria la salvezza delle vite umane. Nell’ultima opera del giornalista Giulio Meotti, un’opera centrata su Ratzinger che si intitola “L’ultimo Papa d’Occidente?“, questi afflati sulla catastrofe culturale del Vecchio continente sono spiegati con dovizia di particolari. Nel libro viene posto l’accento su questa capacità previsionale di Benedetto XVI, che non si è limitato ad una fotografia del momento ma che ha anche preso posizioni prospettiche non ritenute ammissibili dal politicamente corretto. Alcuni passaggi centrali della fatica di Giulio Meotti sono stati citati sul blog di Marco Tosatti. Molto prima di essere eletto sul soglio di Pietro Ratzinger annotava quanto segue: “Si è trovato di continuo qualche sotterfugio per potersi ritirare. Ma è quasi impossibile sottrarsi al timore di essere a poco a poco sospinti nel vuoto e che arriverà il momento in cui non avremo più nulla da difendere e nulla dietro cui trincerarci”. L’imputata, ancora una volta, è la civiltà occidentale, che ha deciso di suicidarsi sposando la dittatura del relativismo. Oggi le tesi di Ratzinger riemergono quasi in maniera esasperata: chi pensa che l‘Europa abbia ancora qualche chance di salvezza, si ancora al “diritto a non emigrare”, al valore che Ratzinger attribuiva alle mura, quindi ai confini, alla persistenza della negazione di un diritto all’aborto, di un diritto all’eutanasia e di un diritto all’eugenetica, sino alle parole che ogni tanto l’emerito sceglie di pronunciare in pubblico nonostante abbia rinunciato al papato. La parabola ecclesiastica di Benedetto XVI diviene così una sorta di metafora di un tramonto che non riguarda la sua figura, ma quello che siamo stati e che abbiamo rappresentato, in quanto europei, sino al matrimonio col nichilismo. Anzi, la figura di Ratzinger è una delle poche, in ottica conservatrice, a potersi dire in grado di ergersi tra le rovine. Il dramma nel dramma è relativo agli avvertimenti di Benedetto XVI: non solo non sono stati ascoltati, ma sono stati direttamente rifiutati da chi gestisce i processi del mondo contemporaneo.
Quella gran parte d’Italia che non si commuove e non si mobilita per George Floyd. Giampiero Casoni l'08/06/2020 su Notizie.it. C'è un'Italia che scende in piazza per George Floyd e un'altra che alla rabbia dei manifestanti risponde con pragmatico benaltrismo. La partecipazione emotiva è sempre stata il nostro forte. Di pancia, diretta, disorganizzata, caciarona ma accoratissima. Un po’ croce, un po’ delizia degli italiani, che non a caso hanno inventato il melodramma e sono melodrammatici anche quando la situazione non lo richiede. Questo per dire che a noi un po’ ci tocca per cliché, il ruolo di quelli che compatti o in parte maggioritaria sposano le grandi cause planetarie. Amiamo le piazze ed il suono della nostra voce che scandisce slogan dal megafono molto più di quanto non amiamo la polpa di quegli slogan, è un fatto. Ma nel caso dell’omicidio di George Floyd le vernice del costume popolare che scatta in automatico per meccanismi rodati si scrosta da sé. Perché quella è vicenda vera, sanguinolenta e chiama in causa due cose parallele, ma non eguali, e sono due cose immense: la legge e la giustizia. Eppure c’è una grossa, grassa fetta di italiani che non ha saputo cogliere l’usta di uno sconcio su cui forse c’era bisogno di puntare di più i piedi. Magari di marcare un po’ più lo sdegno, come si fa per le cose che devono arrivare a quella parte del mondo con le orecchie piene del cerume dell’indifferenza. È vero, da noi ci sono state manifestazioni, e poi gli immancabili lavacri teatraleggianti sotto l’italico cielo dei flash mob. Insomma, ci siamo messi in pari con quella parte di mondo che più o meno ha fatto le stesse cose, ma in minimo sindacale. Tuttavia qualcosa è mancato, lo si percepisce sottotraccia come quando ti tocca raggiungere una cima "facile" e alla fine la conquisti ma il fiatone ti arriva prima del previsto. È un gap che cogli dal dialogo, dalle immancabili uscite social, dal clima delle letture al bar mentre si ciuccia il cappuccio con la mascherina sotto il mento a fare da bavetta. Sembra quasi che gli anni di full immersion, coatta o accolta, nel sovranismo d’accatto abbiano reso una parte di noi preconcettualmente ostile ad ogni forma di condanna del razzismo, del sopruso gratuito, della brutalità in divisa. E si percepisce che questo è un sentire figlio di un certo modo di dividere la società italiana in blocchi. Sono blocchi in cui l’Ordine è un concetto sacrosanto, che si oppone al Caos e che quindi contiene già in sé tutti i germi della sua auto assoluzione. Va da sé dunque che chiunque incarni e materialmente vesta i panni di quell’ordine sia membro di una nuova casta, intoccabile o scalfibile solo superficialmente, anche quando le sue singole aberrazioni scrivono le pagine buie della storia. Ci stanno cambiano l’anima, non ce ne stiamo accorgendo ma, anche a ricusare le tesi politiche di chi di certe idee fa totem, noi italiani siamo di fronte ad uno dei grandi bivi del nostro genio nazionale. Eravamo faciloni ma empatici e stiamo diventando tignosi e anaffettivi. Eravamo idealisti urlanti ed ora siamo pragmatici benaltristi, che contrappongono al caso Floyd i reati commessi dai neri qui da noi. E che all’idea somma di una giustizia giusta schiaffano in contrappunto le frange più compromesse della magistratura italiana. Come se certe bilance ci togliessero il segnale dalle antenne puntate sulle brutture del mondo. Come se funzionassero da livella per quella fame di giustizia che ormai, da qualche anno, ci vede in buona parte anoressici.
Gli ipocriti in ginocchio. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud il 6 giugno. Atterrisce il potere della correttezza ideologica. Domina perfino i riflessi mentali. In tutto il mondo si registra, giustamente, partecipazione verso l’inerme George Floyd, soffocato da un poliziotto che gli schiaccia il collo togliendogli il respiro. L’americanismo, si sa, ha le sue controindicazioni ma l’ipocrisia dei benpensanti nostrani simbolicamente inginocchiati per solidarietà, porta a un cattivo pensiero, giusto una domanda: come mai non si sono inginocchiati quando sono stati uccisi altri afro, forse perché alla Casa Bianca c’era Barack Obama e non, come adesso, il marito di Melania?
Pugni chiusi e genuflessi. Marcello Veneziani, La Verità 12 giugno 2020. Se i simboli e i riti vogliono dire qualcosa e raccontano la realtà più dei fatti e delle parole, quei pugni chiusi, quelle città messe a ferro e fuoco dagli antifa, quella parodia di religione con la genuflessione e la stola arcobaleno al collo e i minuti di penitenza in ginocchio, vogliono dire che una nuova religione fanatica e un nuovo comunismo stanno sorgendo in Occidente. Una religione preterintenzionale, al di là delle intenzioni di chi l’abbraccia: per tanti che si sono inginocchiati in favore di telecamera e hanno simulato un rito religioso, c’era un obbiettivo più basso: schiacciare sotto un ginocchio, il Nemico, la Bestia, Donald Trump. Tutta una messinscena mondiale perché si avvicinano le elezioni. Si rovescia su Trump un brutale assassinio di cui non ha alcuna colpa, un assassinio come tanti della polizia americana, sotto amministrazioni democratiche e repubblicane. Altrettanti, va pure detto, ne subisce la polizia americana, ad opera della delinquenza. Perché l’America resta una società violenta, a tratti selvaggia, sotto la crosta di progresso, tecnologia, ciccia e lattine. Inginocchiarsi per una vittima, quando ogni giorno la delinquenza comune, la persecuzione religiosa e le dittature ne uccidono migliaia, è solo malafede. Ma una religione si va formando nelle società occidentali intorno al catechismo politically correct. Quella religione è il supporto morale di qualcosa di colossale che sta avvenendo nei nostri giorni, sopra le nostre teste e sotto i nostri occhi. Quel che per anni è stato definito Pensiero Unico sta diventando Potere unico. Come ogni sistema totalitario si fonda su un assoluto: nel nostro caso è l’assoluto sanitario, l’imperativo di salvarci la pelle a ogni costo. Proteggerci dal male, amen; il male è il contagio. Ma la pandemia si presenta in due forme: il covid e il fascio, cioè il virus e l’insubordinazione in forma di assembramento, protesta sociale, obiezione di coscienza al vaccino, alle restrizioni più assurde, al tentativo di renderle permanenti e alle profilassi più fanatiche e insensate. I dogmi imposti dalla scienza e dai virologi sono usati dal potere per allargarsi e durare il più possibile. Il modello implicito è la fonte stessa del virus, di cui ogni giorno si scoprono le gravi responsabilità: la Repubblica totalitaria cinese. Contagio e omertà, restrizioni conseguenti e durature, popolazioni militarizzate, controllo totalitario e molecolare, divieto di manifestazione, repressione del dissenso, uso totalitario della scienza e della tecnologia, dominio commerciale globale; e sullo sfondo il comunismo come orizzonte. Il modello cinese diventa il paradigma in Italia e in alcuni settori progressisti occidentali. Dopo decenni di collusioni tra capitalismo e radical-progressismo, ora si delinea, a viso aperto, quel connubio: il ponte tra capitalismo e comunismo è l’uso imperativo della scienza e l’applicazione totalitaria del controllo. Il fine, come nel comunismo, è sempre il bene dell’umanità, il mondo migliore, l’uomo nuovo, magari transumano per essere più nuovo. Di dittatura sanitaria ne parlai agli inizi di marzo, quando si stava appena profilando. L’Italia stava candidandosi a diventare il paese pilota, la cavia di laboratorio per l’esperimento. Oggi, dopo tre mesi di pratica, le analisi e le denunce in questo senso sono tante. Vorrei citare due filosofi diversi tra loro e ambedue lontani dal pensiero reazionario, cattolico-tradizionalista o addirittura fascista. Mi riferisco a Giorgio Agamben che denuncia l’inquietante connubio tra religione medica e capitalismo, alla base di un nuovo sistema totalitario, incline a sospendere la libertà e la democrazia; la religione cristiana e in particolare la Chiesa di Francesco soccombe ai loro diktat sanitari e ritiene la salute prioritaria rispetto alla salvezza. Da altri versanti, un giovane filosofo, Michel Onfray, che teorizzò l’ateismo e criticò la religione, denuncia ora, sulla scia di Orwell, l’avvento di una dittatura globale fondata su sette comandamenti: distruggere la libertà e ridurre a fascisti tutti i dissidenti e gli insubordinati; impoverire la lingua per manipolare le menti; abolire la verità tramite il bipensiero; sopprimere la storia e riscriverla per gli usi del presente; negare la natura, a partire dalla natura umana; propagare l’odio e fondare l’Impero, progressista e nichilista. Non resta, per Onfray, che darci all’ateismo sociale per non “inginocchiarsi” davanti ai nuovi dei arcobaleno. Usa proprio il verbo inginocchiarsi, non sapendo dell’uso mistico-elettorale di questi giorni, scimmiottando la religione (il diavolo, per la Bibbia, è simia dei, scimmia di dio). Entrambi, Agamben e Onfray, denunciano la matrice teologica del nuovo totalitarismo, il tentativo di sostituire dio con una nuova divinità. I nuovi fanatici si chiamano antifa, contrazione global di antifascisti; e il fatto che l’elemento di odio – anti – sopravviva al sostantivo, la dice lunga. Il nemico globale è Trump, il nemico complementare è Putin, il nemico ideologico è tutto ciò che viene definito sovranismo. Il piano prevede tre sostituzioni: la fede medico-progressista al posto della fede in Dio, sacra e trascendente; la popolazione mobile dei migranti al posto di popoli o nazioni restanti; il postumano secondo scienza e volontà al posto dell’uomo secondo natura e procreazione. Non c’è un piano globale prestabilito e non ci sono pianificatori; alcuni vi concorrono consapevolmente, molti inconsapevolmente. L’Italia per la sua fragilità, la sua teatralità, il trasformismo e il servilismo, l’impreparazione del governo, il residuo ideologico depositato dal comunismo e dall’antifascismo, è il tampone esemplare. Da noi la cialtroneria, come già scrivevamo, tempera il totalitarismo nell’inefficienza e nella comicità. Ma il pugno chiuso è nemico della mente aperta. MV, La Verità 12 giugno 2020
Con gli inchini l’Occidente muore di nichilismo. Andrea Amata, 12 giugno 2020 su Nicola Porro.it. Si sta operando un’impropria sanificazione identitaria per rendere asettica la nostra memoria, sottoponendola alla depurazione del politicamente corretto. Una furia iconoclasta vorrebbe smantellare tutto ciò che non è allineabile alla narrazione antirazzista che occulta una becera natura discriminatoria. L’assassinio di George Floyd ha scatenato proteste che si sono declinate nei saccheggi delle città americane e nella devastazione delle icone marmorizzate in statue come quella di Cristoforo Colombo a Richmond (Virginia) e di Winston Churchill a Londra. Strumentalizzare la morte dell’afroamericano Floyd per demolire i simboli della civiltà occidentale è espressione di analfabetismo e oscurantismo storico, che non onora la vittima del poliziotto di Minneapolis Dereck Chauvin, semmai se ne serve per conferire legittimazione morale ad azioni vandaliche che contraddicono la presunta matrice antirazzista dell’organizzazione Black lives matter. L’assassino di Floyd è stato giustamente arrestato, ma far discendere dalla responsabilità individuale dell’episodio criminale una generalizzazione, che implica la correità universale dell’uomo “bianco”, significa applicare un’aberrazione logica. Per giunta, le statistiche ci informano che le “vittime” della polizia statunitense sono in maggioranza maschi bianchi da cui non si evince un accanimento razzista sugli afroamericani. Quando Pamela Mastropietro fu barbaramente stuprata e il suo corpo vilipeso e smembrato dal nigeriano Oshegale, non venne tramutato il reato personale in una responsabilità collegiale degli africani. In base alle deduzioni arbitrarie di Blm la responsabilità personale dell’omicida è stata convertita nella imputabilità generica dei “bianchi” con un eccesso di semplificazione che esonda nel pregiudizio. L’inginocchiatoio mediatico, allestito nella teatralità ipocrita della solidarietà verso i presunti discriminati, ha reclutato nell’omologante trending topic i soliti radical chic in versione salottiera. Non è stato il genere umano a pigiare il ginocchio sul collo di Floyd, ma l’agente di polizia Chauvin è stato l’autore del delitto che la legge americana ha incriminato per la sanzione che merita. Le sceneggiate dell’inchino collettivo confessano una subalternità culturale al nichilismo che come un rullo compressore vuole nullificare la storia. Il movimento Antifà Black lives matter con la demolizione dei monumenti innalzati a Churchill e Lincoln, simboli della lotta al nazismo e alla schiavitù, dimostra di frodare la storia a cui non riconosce il contributo dell’uomo “bianco” nel processo di affermazione della libertà e di emancipazione di quelle che erano considerate minoranze. Chi si rifiuta di inginocchiarsi alla narrazione mistificante rischia di essere accusato di negazionismo o di collateralismo al Ku Klux Klan, equiparando il dissenso all’apologia suprematista. Sta dilagando una propaganda anti-americana nel tentativo di identificare Donald Trump come emanazione dei bassi istinti razzisti. Il radicalismo politico si è impossessato del corpo esanime di Floyd, elevandolo a simbolo asservito alle allucinazioni dell’ideologia antifascista che infierisce sulle icone del passato, come sir Winston Churchill, che hanno salvato l’occidente dalla repressione nazista. Nel clima suggestionato dal pericolo illusorio del razzismo giungono notizie plasmate dal politicamente corretto con il servizio streaming di Hbo che ha ritirato dal catalogo on-line il film Via col vento per le “raffigurazioni razziste” e con la catena svizzera di supermercati Migros che ha deciso di rimuovere dagli scaffali il prodotto dolciario denominato “Moretto”. Tale ubriacatura dettata dal pensiero unico rischia di far sbandare la civiltà occidentale che deve reagire alla somministrazione di plateali idiozie. Dimostriamo di essere astemi e di non berci il distillato dell’omologazione culturale che provoca sbornie suicide destinate a spegnere la nostra identità. Andrea Amata, 12 giugno 2020
Giuseppe Fantasia per huffingtonpost.it il 12 giugno 2020. Vengono distrutte le statue di coloro che si sono macchiati di razzismo o imperialismo. Anche Cristoforo Colombo è ormai nella lista dei cattivi. Per Achille Bonito Oliva, celebre critico d’arte, accademico e saggista, 81 anni il prossimo novembre, ”è un atteggiamento che potremmo definire ‘politicamente corretto’, ma che in realtà è solo scorretto, perché all’uccisione fisica succede l’uccisione dell’arte e della cultura. C’è questa imitazione alla violenza che non pareggia nulla, perché vince sempre la morte”. Conversando con l’Huffpost, Bonito Oliva spiega che “facendo ciò pensano che sia un modo di smascherare il razzismo anche storico dello scopritore dell’America come degli altri colonizzatori. Pensano di punire la Storia, ma è patetico, perché quelle sculture hanno una perennità per la loro qualità artistica. Nell’arte non esistono solo i contenuti, non esiste solo la narrazione, ma anche l’apparizione e la forma che è poi quella che dà durata all’opera. Questa uccisione postuma di Cristoforo Colombo attraverso la statua, la ritengo patetica e infantile”. Da Minneapolis - dove il Black Lives Matter è ripartito dopo la brutale uccisione di George Floyd per mano della polizia – a Boston, da Saint Paul a Richmond, in Virginia, dove la statua di Colombo, colui che “rappresenta il genocidio”, come è stato scritto su un cartello, è stata buttata giù dal suo piedistallo nel Byrd Park dai i manifestanti, incendiata e poi gettata nel lago del parco. Atti di vandalismo ci sono stati anche in Regno Unito e in Belgio, mentre in Italia è finita nel mirino l’effige di Indro Montanelli. “Era un uomo politicamente prudente e moderato”, spiega Bonito Oliva. “Sembrava che tifasse per la destra, ma questo non c’entra, perché in ogni caso atti come questi sono tutte vendette postume e frutto di ignoranza e di un atteggiamento pericoloso di populismo culturale”. Anche Roma, Sabaudia e molte altre città italiane con elementi di architettura fascista potrebbero rischiare di vederli danneggiati, gli chiediamo. “Esiste un’architettura razional-fascista di altissima qualità”, risponde lui. “Quando vedo il Foro Italico non penso a Mussolini, perché quella è un’architettura compiuta e volta a coniugare il lato progettuale – quindi la razionalità – con l’enfasi legata alla celebrazione dei miti di Roma. Ritengo assurdo giudicare, censurare e mettere a morte l’arte, anche questa - aggiunge - perché è arte. Imitare per ricompensare il delitto di Minneapolis è ingiustificato. Andrebbe stigmatizzato tutto il corpo della Polizia americana che ha assunto una violenza indicibile. Oramai il suo stile è quello”. Nell’arte – precisa - non dovrebbe esserci questo. L’arte è un massaggio del muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva. L’arte ci tiene svegli e ci sensibilizza. Se invece, usiamo per l’arte lo stesso sistema del quotidiano, la violenza, l’omicidio, lo spossessamento eccetera, si arriva al massacro, alla fine dell’umanità. Tutto questo lo ritengo molto pericoloso, ma quello che è più grave è che attraverso i social c’è una diffusione, un’imitazione del comportamento, un’incoscienza inammissibile”. “Se non fermiamo questo trend, il principio dell’imitazione – quello di imitare attraverso gesti simbolici la negatività della vita, della storia, di eventi del passato – arriveremo alla distruzione di tutto. È un modo triste di progettare il passato, di utilizzare le forma simboliche del passato per punire peccati storici. Si si pensa che facendo questo ci potrà essere l’emancipazione e un futuro garantito – conclude – si sbaglia, perché ci sarà solo uno sbarramento”.
Nicola Porro sulla manifestazione a Bologna: "In ginocchio per George Floyd ma scordano i nostri cassintegrati". Libero Quotidiano il 07 giugno 2020. La rabbia di Nicola Porro si riversa contro la manifestazione avvenuta a Bologna sabato 6 giugno, organizzata da Arci Ritmo Lento, Amici di Piazza Grande, Link, Coalizione Civica e a cui hanno partecipato anche le Sardine. Un flash-mob per George Floyd, l'afroamericano brutalmente ucciso da un agente di polizia a Minneapolis e per cui si manifesta un po' a tutte le latitudini del globo. E nella sua Zuppa di Porro di domenica 7 giugno, Nicola Porro punta il dito: "Per capire questo Paese basta vedere la prima pagina del Corriere di Bologna e la retorica della piazza con tutti gli assembrati in ginocchio per George Floyd ma non in ginocchio davanti alle 800 mila persone che non hanno ancora ricevuto la Cassa Integrazione", picchia duro. Già, tutti - e giustamente - in ginocchio per George Floyd. Ma nessuno, in quella piazza, pensa al dramma dei nostri connazionali, dei cassintegrati a cui il coronavirus ha rovinato la vita e il futuro.
(ANSA il 7 giugno 2020) - La protesta che sta infiammando gli States sbarca a Roma: a migliaia, soprattutto ragazzi e famiglie, stanno manifestando a Piazza del Popolo contro ogni razzismo. In tantissimi hanno accolto l'appello sui social, lanciato da un vasto cartelli di organizzazioni tra cui i Giovani Europeisti Verdi, Fridaysforfuture-Roma, NIBI : Neri italiani - Black italians, 6000 sardine, Extinction Rebellion Rome International, American Expats for Positive Change e Women's March Rome. Distanziati e tutti con la mascherina, i manifestanti, tantissimi i ragazzi di colore con la maglietta nera, hanno portato ognuno dei cartelli fatti in casa, sul modello americano, con su scritte le parole d'ordine della campagna esplosa dopo l'omicidio di George Floyd. Tante le scritte soprattutto in inglese come, "No justice, no peace", "I can't breath", "Defund the police", "fuck racism". Ma anche alcuni cartelli che chiedono "ius soli" e diritti per i migranti. Su uno di loro, "Muoiono a casa nostra e non sappiamo nemmeno i loro nomi: black lives matter". Non c'è un palco, ma solo un microfono dal quale si alternano gli interventi degli organizzatori, alcuni di loro in inglese.
La storia di Adnan, il "George Floyd italiano" ucciso a coltellate in silenzio. Giulio Cavalli su Il Riformista il 9 Giugno 2020. Adnan Siddique è stato ucciso la sera del 3 giugno nel suo appartamento, in via San Cataldo a Caltanissetta. Viveva in Pakistan, a Lahore, una cittadina di 11mila abitanti con suo padre, sua madre e i suoi 9 fratelli. Adnan era la punta di diamante su cui la sua famiglia aveva investito tutto, tutto quel poco che ha, perché trovasse fortuna. Aveva 32 anni e in Italia lavorava come manutentore di macchine tessili. Era molto conosciuto in città, tutte le mattine passava al bar Lumiere per un caffè e i gestori del locale lo raccontano come un ragazzo pieno di sogni e di preoccupazioni. Quali preoccupazioni? Avere cercato giustizia per un gruppo di connazionali che lavoravano nelle campagne da sfruttati come capita in tutta Italia, da nord e sud. Adnan si era messo in testa di liberare i suoi amici dallo sfruttamento e aveva addirittura accompagnato uno di loro a sporgere denuncia. Troppo, per qualcuno che evidentemente continua a credere che la schiavitù sia qualcosa di cui scrivere e parlare solo quando si svolge lontano da noi. Era stato minacciato più volte e non era tranquillo. Aveva anche denunciato le minacce ma evidentemente non è bastato. Adnan è stato ucciso con cinque coltellate: due alle gambe, una alla schiena, una alla spalla e una al costato. Quella al costato, secondo la perizia sul cadavere, gli è stata fatale. Sono bastate poche ore anche per trovare l’arma, un coltello di circa 30 centimetri. Ci sono anche quattro pakistani fermati per l’omicidio, un quinto è accusato di favoreggiamento. «Una volta è stato pure in ospedale – racconta la famiglia Di Giugno, titolare del bar frequentato da Adnan – lo avevano picchiato». Jaral Shehryar, pakistano di 32 anni, titolare di una bancarella di frutta e verdura, racconta: «Era bravissimo, gentile, quelli che lo hanno ucciso no. Si ubriacavano spesso. Qualche volta andavano a lavorare nelle campagne ma poi passavano il tempo ad ubriacarsi e fare baldoria». Anche suo cugino Ahmed Raheel, che vive in Pakistan e con cui Adnan Siddique si era confidato, sembra avere le idee chiare: «Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce all’Ansa – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia». Il presidente dell’Arci di Caltanissetta Giuseppe Montemagno chiede che «si faccia piena luce sui motivi alla base dell’omicidio di Adnan Siddique e sulla diffusione dello sfruttamento dei braccianti agricoli nelle campagne tra le provincie di Caltanissetta ed Agrigento. Oltre ai responsabili materiali – chiede il presidente dell’Arci – dell’atroce delitto chiediamo agli inquirenti di accertare quali siano le proporzioni del fenomeno del caporalato nel territorio nisseno ed individuare eventuali altri responsabili». Perché la storia di Adnan, al di là di quello che accerterà l’autorità giudiziaria sta tutta nelle pieghe di un caporalato che sembra non avere paura di nessuno, che continua a cavalcare impunito interi settori dell’agroalimentare e che tratta gli stranieri in braccia. Tutti sono solo le loro braccia: le braccia per raccogliere la frutta e la verdura e le braccia da armare per punire un connazionale che ha deciso di alzare troppo la testa. E in questi tempi in cui da lontano osserviamo gli Usa che si ribellano al razzismo forse sarebbe il caso di cominciare a osservare anche le profilazioni che avvengono qui da noi, dove l’essere pakistano ti relega al campo o sul cantiere senza il diritto di avere diritti, dove una storia di violenza che si trascina da tempo finisce per essere sottostimata dalle Forze dell’ordine e da certa stampa, dove un omicidio non merita nemmeno troppo di finire in pagina perché anche se parla un’altra lingua in fondo parla di noi. Parla tremendamente di quello che siamo.
Pd in ginocchio per Floyd, lite in aula: "Lo avete fatto per Pamela?" Le repliche piccate alla messa in scena dei Dem dopo il discorso di Laura Boldrini. Fdi attacca: "Lo avete forse fatto per Pamela, per gli agenti che sacrificano la loro vita per proteggerci o per gli italiani che si suicidano a causa della crisi?" Federico Garau, Martedì 09/06/2020 su Il Giornale. Ha scatenato un vero e proprio putiferio in Parlamento, lasciando un'inevitabile lunga coda di polemiche, la teatrale messa in scena seguita al discorso tenuto dall'ex deputata di Leu (ora tra le fila del Pd) Laura Boldrini. Alla conclusione dei lavori, durante la serata di ieri, l'ex presidente della Camera si è resa protagonista di un intervento per ricordare la morte di George Floyd e condannare razzismo e discriminazioni di ogni genere. Fin qui tutto nella norma, tuttavia il bello doveva ancora arrivare. Una volta terminato il discorso della collega di partito, infatti, alcuni deputati del Pd si sono inginocchiati, copiando con la carta carbone quella particolare forma di protesta nata proprio negli Stati Uniti per contestare in modo pacifico i fatti di violenza e di sangue attribuiti all'odio razziale, tra i quali è stato fatto rientrare anche l'episodio di Minneapolis. "Sono qui a chiedere se ieri sera si sono rispettati i regolamenti della Camera dei deputati quando a fine seduta abbiamo visto occupare genuflessi l'emiciclo da alcuni deputati per la vicenda di Floyd, che riguarda un'altra nazione ed un'altra situazione. Quella messa in atto ieri dalla collega Laura Boldrini e da altri deputati del Pd è una sceneggiata che squalifica anche la stessa lotta al razzismo", ha attaccato stamani all'apertura dei lavori il deputato di Fratelli d'Italia Giovanni Donzelli. "Vede, Presidente, non abbiamo visto nessuno inginocchiarsi quando è stata uccisa Pamela, quando le forze dell'ordine si sacrificano per difendere il popolo italiano o sono costrette al suicidio perchè abbandonate dallo Stato", prosegue Donzelli. "Non abbiamo visto nessuno inginocchiarsi per gli italiani che si sono tolti la vita per la crisi seguita al Coronavirus. Ma hanno fatto bene a non inginocchiarsi, perchè in quest'aula non ci si inginocchia, si sta in piedi e si risolvono i problemi degli italiani. Basta sceneggiate, non servono", conclude. Dai banchi del governo si sono levati fischi e mugugni, come d'altronde era ovvio attendersi. "Trovo incredibilmente strumentale che ogni volta che si parla di questi temi l'aula si debba dividere, quando invece il razzismo, la violenza, l'intolleranza dovrebbero unire tutti", replica Lia Quartapelle del Pd. "Troppe volte si fanno dei distinguo incomprensibili e io sono orgogliosa di far parte di un gruppo parlamentare che ieri ha voluto unirsi alle piazze di tutto il mondo e sono orgogliosa si essermi inginocchiata in segno di rispetto per chi soffre, anche in Italia, per le violenze e le discriminazioni che avvengono tutti i giorni". Nicola Fratoianni di Leu cavalca l'onda del razzismo per attaccare il deputato Fdi e difendere il gesto dei colleghi. "Sono molto colpito dalle parole di Donzelli. Io trovo piena di dignità e di rispetto per i valori di quest'aula l'iniziativa assunta ieri dai miei colleghi. Definire una 'sceneggiata' quella scelta, continua a rimuovere il gigantesco problema degli abusi e delle violenze, la cui origine è una sola: l'odio razziale, il disprezzo per la diversità. Essere militanti, quotidianamente, contro il razzismo è la più alta forma di rispetto nei confronti del Parlamento". Anche i CinqueStelle entrano nella bagarre, prendendo le parti dei colleghi con cui hanno messo in piedi la maggioranza giallorossa. "Quando si condanna il razzismo bisogna sapere bene da che parte stare. Il gesto fatto ieri sera deve essere rispetto e ci si deve unire a quel gesto. Solo chi è in cattiva fede può fare interventi di un certo tipo", afferma Giuseppe Brescia, presidente della commissione Affari Costituzionali. La replica della Lega è affidata a Paolo Formentini. "Ieri siamo rimasti basiti. Ma un conto è condannare in modo inequivocabile il razzismo e la morte violenza di George Floyd, condanna alla quale ci uniamo. Un altro è dire, come ha fatto Boldrini, che le manifestazioni si sono svolte con tranquillità, perché non è vero. Basta ricordare le devastazioni e le violenze che abbiamo visto nelle varie città degli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd". "Condanniamo il razzismo sempre, senza se e senza ma.Tuttavia la sinistra continua e dividere il mondo in buoni e cattivi e loro, guarda caso, stanno sempre dalla parte dei buoni", affonda Giorgio Silli di Cambiamo. "Che ragionamento è dire che chi non si inginocchia non condanna il razzismo? Sarebbe come dire che per essere antifascisti, occorre essere iscritti all'Anpi. Questi sono modi di ragionare fuorvianti, che allontanano le persone dalla lotta al razzismo o al fascismo", conclude. Una polemica che non pare tuttavia sopita, e che avrà ancora degli strascichi.
La lezione dello zio di Pamela: "Cosa non sa chi sta con Floyd". Lo zio di Pamela Mastropietro si è inginocchiato nei pressi della palazzina di via Spalato, dove è stata trucidata la nipote, per lanciare un messaggio simbolico: "Tutte le vite sono importanti, sogno il giorno in cui ci si inginocchierà per qualsiasi vita ingiustamente portata via da questa terra". Elena Barlozzari, Giovedì 11/06/2020 il Giornale. Si è inginocchiato assieme al resto della famiglia davanti ad un grosso pino marittimo. Un vecchio albero che svetta tra le palazzine di via Spalato, a Macerata. Sulla corteccia c'è inciso il nome di sua nipote: Pamela Mastropietro, trucidata una notte di tre anni fa dal pusher nigeriano Innocent Oseghale in un appartamento che si trova proprio su quella strada. È un gesto simbolico, che Marco Valerio Verni, zio della vittima, spiega così ai nostri taccuini: "Tutte le vite dovrebbero essere ritenute importanti. Non solo alcune, a seconda della convenienza politica, mediatica o di altra natura".
A distanza di più di tre anni dalla morte di Pamela, sente di aver ricevuto giustizia?
"I dubbi sono ancora tanti. Rispetto il lavoro degli investigatori, ma ci sono ancora troppi punti da chiarire."
Quali?
"Oseghale non può essere l’unico colpevole. È impossibile. Nella catena di eventi che parte dall’allontanamento dalla comunità a doppia diagnosi dove era ricoverata e arriva sino alla sua demoniaca fine ci sono dei coni d'ombra. Questo è il classico caso in cui la verità storica è quella processuale rischiano di non combaciare."
Perchè oggi si è inginocchiato di fronte all'albero di Pamela come fa chi manifesta al grido di black lives matter?
"Per lanciare un segnale: tutte le vite dovrebbero essere ritenute importanti. Non solo alcune, a seconda della convenienza politica, mediatica o di altra natura."
Che effetto le ha fatto vedere le piazze italiane piene per Floyd?
"Rispetto chi manifesta per lui. Anche io ho trovato assurda la sua morte. Anzi, uccisione. Certo, mi sarebbe piaciuto vedere la stessa mobilitazione per mia nipote e per denunciare altre vicende orrende".
Secondo lei come mai nel nome di Pamela le piazze non si sono riempite?
"La storia di Pamela è la sintesi di diverse tematiche scomode per una certa cultura, la stessa che adesso spinge le folle nelle piazze."
Cosa c’è di scomodo nella storia di una ragazza trucidata?
"L'immigrazione irregolare prima di tutto. È un fenomeno sul quale lucrano in tanti, spesso nascondendosi dietro al dovere umanitario di accogliere chi ha bisogno. Un principio che, se fosse diretto ad offrire protezione a chi veramente fugge dalle guerre, sarebbe sacrosanto. Peccato però che attraverso i flussi migratori, gestiti da vere e proprie organizzazioni criminali transnazionali, arrivino anche tanti delinquenti, con tutto quello che ne consegue in termini di violenza e degrado sociale. Molti hanno paura di essere tacciati di razzismo anche solo affermando questa verità, eppure le prime vittime spesso sono proprio i migranti, trattati alla stregua di vera e propria merce di scambio o, per meglio dire, di schiavi."
L'ha stupita vedere come qui da noi abbia destato più clamore un fatto di cronaca avvenuto oltreoceano piuttosto che il caso di sua nipote?
"Purtroppo no, qui da noi, rispetto ad una ragazza violentata, uccisa con due coltellate, depezzata chirurgicamente, scarnificata, esanguata, asportata di tutti i suoi organi interni, lavata con la varechina, messa in due trolley ed abbandonata sul ciglio di una strada, ha fatto quasi più scalpore l'uovo lanciato nell'occhio delle discobola Daisy Osakue. Fatto anch’esso da condannare, ma di cui è chiara a tutti la diversa drammaticità rispetto al primo."
Un gruppo di deputati del Pd, tra cui Laura Boldrini, si è inginocchiato alla Camera. Cosa ne pensa?
"La Boldrini è libera di fare quello che vuole, ci mancherebbe. Ma ricevo tanti messaggi di gente che mi chiede e si domanda come mai la stessa attenzione non si sia avuta proprio per Pamela, o per altri casi in cui il carnefice, o i carnefici, erano di colore."
La trovata è stata stigmatizzata dalle opposizioni...
"Beh, mi ha fatto piacere che qualcuno si sia ricordato di Pamela, ma la memoria dovrebbe essere costante e soprattutto democratica. Sogno il giorno in cui ci si inginocchierà per qualsiasi vita ingiustamente portata via da questa terra, secondo il concetto che all lives matter."
Natalia Aspesi per "la Repubblica" l'11 giugno 2020. Saremo tutti rincitrulliti, come pensano i noiosi irresponsabili della Hbo e altre anime buone, al punto che a scoprire o rivedere per la centesima volta Via col Vento potremmo trovare carino il razzismo e non poi così grave che un poliziotto bianco ammazzi un nero soffocandolo col ginocchio o in altre occasioni a calci o fucile o fuoco, o ai tempi in cui è situato il film, con l'impiccagione? Forse no, a voler pensare bene anziché male, si potrebbe credere a una vendetta degli Oscar (o della Corea del Sud) contro il solito presidente Trump che se non urlasse sempre sarebbe meglio, per averlo citato alla vittoria di Parasite «Che viene da un paese con cui abbiamo problemi commerciali! », come esempio di film americano e degno di essere premiato (a suo tempo, 9 Oscar). Si è trovato finalmente il responsabile dei disordini razziali sempre più gravi negli Stati Uniti, ed è questo film anziano, che compie adesso 81 anni, i cui primi entusiasti spettatori probabilmente sono tutti defunti, e che in Italia arrivò nel dicembre del 1951, assieme ai reggipetti a punta, alla cucina all'americana e alle notizie sulle impiccagioni di neri da parte del KKK: impazzimmo, noi fanciulle di allora, e mai sazie delle sue crinoline e chissà perché del pallido e casto Leslie Howard, continuammo a milioni nel mondo a vederlo, tanto da fargli incassare 3,44 miliardi di dollari. Avevamo già divorato prima della guerra, nel 1937, il favoloso romanzo di Margaret Mitchell, ma sinceramente sia del libro che del film ci parevano molto secondarie, irrilevanti, sia la guerra civile che la presenza degli schiavi, perché per noi era solo la storia appassionante di una birichina e di un seduttore, di una moglie santa e di un marito dolorosamente fedele e della certezza di un futuro d'amore. Non si cercava altro in una storia e certo rivedendo adesso Via col vento forse ci sfuggirebbe ancora una lacrima di beatitudine: non avendo del tutto perso né il senno né qualche accenno di storia, credo che malgrado le paure Hbo, non riusciremmo a collegarlo a "Blak Lives Matter". Il famoso dileggiato buonismo è del tutto fuori moda, un reperto dell'accoglienza e della comprensione, e forse è la causa del cattivismo, del solo insulto, della sola rabbia e della sfiducia in tutto. E soprattutto di un moralismo che da una parte organizza incontri contro la legalizzazione dell'aborto, e dall'altra vuole condurci su un'altra retta via, oscurando ogni tentazione cattiva, anche se molto romantica. Povera Rossella, da noi invidiatissima per via del vitino di 40 cm.! E povero Red Butler che a vederlo adesso pare Salvini, uno entusiasta del "Prima gli italiani" (purché bianchi). C'è questa voglia di censura, una smania di cancellare il passato che non si adatta alle paure del presente, la negazione della storia, una pericolosa chiusura nel qui ed ora, da noi nei confini non tanto di una nazione, ma delle regioni, e tra un poco potrebbe esser di valle in valle. La storia va dimenticata, non serve, si potrebbe cancellare anche a scuola, non c'è stata la schiavitù in America, e in Italia il fascismo ha fatto cose buone. Ma chi vuole oscurare il passato ha un grande pubblico consenziente, che non vuole sapere né pensare e affida la sua ignoranza e fragilità non tanto a chi lo salva da un film senza peccato ma a chi offre una verità pronta, da accettare senza riserve. Dal film certo era ed è tuttora impossibile eliminare i neri in quanto schiavi, perché proprio la loro condizione fu la causa della guerra civile a metà '800 tra il Nord che li voleva affrancare e il Sud che ne aveva bisogno; eppure alla fine degli anni '30 quando l'enorme produzione fu decisa, la schiavitù non c'era più ma i neri erano ancora una casta a parte e non avevano diritti, compreso il voto. Ed è interessante vedere come già allora la faccenda razziale nella produzione di un film con neri creasse molti problemi. Il produttore David O' Selznick si definiva un liberale ed essendo ebreo conosceva la discriminazione e il pregiudizio, e capì subito che il fortunato romanzo della Mitchell, razzistissimo, andava ritoccato. Si circondò di consulenti di colore, si rivolse ai giornali di colore, parlò con gli attori di colore: gli fu chiesto di eliminare la parola nigger , anche se pronunciata solo dai neri, sostituita dalle non meno antipatiche definizioni darkies e inferiors e in cambio ottenne di poter sostituire il KKK con un gruppo innominato di bianchi cattivi: certo non si poteva cancellare il fatto che l'aristocrazia nera fosse quella dei domestici, e che sempre secondo il romanzo fossero contenti di essere schiavi e adorassero i "badroni" bianchi. È poi leggendaria la prima del film data ad Atlanta, quando la società bianca si disse onorata di avere tutti gli attori compresi i tanti neri sul palco per applaudirli, ma i neri no, grazie, alla cena e al ballo. La sera degli Oscar, tra i candidati c'era anche Hattie McDaniel, la grassa cameriera nera che adora Rossella, che concorreva per il premio alla non protagonista assieme a Olivia De Haviland, per lo stesso film: vinse Hattie, la prima donna di colore a ottenere un Oscar, che potè ritirare, senza però potersi sedere con gli altri vincitori bianchi. Negli Stati uniti non succede più anche se c'è il peggio, ma in Italia c'è qualche eroica signora che insulta sul tram le donne di colore obbligandole a scendere e qualche vecchio scemo che sul treno pretende di vedere se un ragazzo nero ha il biglietto. Dimentichiamo la storia, chiudiamo la scuola, non serve E il fascismo ha fatto anche cose buone.
“Altissimi negri…” Io canto, e non chiamatemi razzista. Michel Dessì l'11 giugno 2020 su Il Giornale. Quando è troppo è troppo! Ora la situazione ci sta sfuggendo di mano. Non si può dire più nulla. Nulla. Altrimenti sei razzista. Con il dissenso cresce anche la censura. Hanno addirittura cancellato dal catalogo di Hbo il famosissimo film “Via col Vento”. “È un film del suo tempo che raffigura alcuni pregiudizi etnici e razziali che erano, disgraziatamente, dati per assodati nella società americana” ha detto un portavoce della celebre tv a pagamento su Variety. Speriamo solo non censurino l’Alligalli di Edoardo Vianello. Come farebbero i vecchietti in vacanza senza il ballo che da decenni li accompagna nelle serate d’estate? Soprattutto ora che si deve ballare a due metri di distanza. Io lo canto, e me ne infischio.
“Nel continente nero
Alle falde del Kilimangiaro
Ci sta un popolo di negri
Che ha inventato tanti balli
Il più famoso è l’hully gully
Hully gully, hully gu…”
Dopo la morte ingiusta e orribile di George Floyd in migliaia si sono rivoltati. Da nord a sud. Da est a ovest. Dall’America all’Italia; dalla Francia al Brasile. Nel Mondo si è accesa la lampadina del razzismo. Una scusa per molti di portare scompiglio e caos. I giornali di sinistra le hanno chiamate invasioni pacifiche. Io, in molti casi, di pacifico ho visto ben poco. La folla, dopo la morte dell’afroamericano Floyd, si è scagliata contro le statue di diversi personaggi accusati di essere “razzisti” o “schiavisti”. I manifestanti dal Minnesota a Londra, fino in Belgio, hanno preso di mira diverse effigi. Hanno scatenato tutta la loro rabbia e frustrazione su delle statue che sono state abbattute. Tirandole con delle corde. Poi, in molti casi, incendiate e buttate in laghi o specchi d’acqua. Ma che hanno in testa? Speriamo solo non lo facciano in Italia. Già si sono fatti sentire i “Sentinelli” (non so chi siano e non lo voglio sapere) questi pazzi vorrebbero abbattere la statua di Indro Montanelli. “E’ un razzista” dicono… Ma come può essere un gesto liberatorio abbattere la statua di un giornalista libero e senza padroni?
Dai «Moretti» a Otello, il fanatismo che azzera la Storia. Pierluigi Battista su Corriere della Sera l'11 giugno 2020. Nel nuovo integralismo i cittadini sono trasformati in bambini bisognosi di protezione. Dai «Moretti» a Otello, il fanatismo che azzera la Storia. Un tempo sarebbe stata inconcepibile la distruzione della statua di Cristoforo Colombo . Nel nuovo integralismo i cittadini sono tutti trasformati in bambini bisognosi di protezione. C’è poco da sorridere, però. In effetti, sembra quasi uno scherzo o una parodia, tanto è grottesca la notizia, che un’azienda svizzera abbia deliberato la rimozione dagli scaffali dei cioccolatini «moretti», detti anche «testa di moro», pericolosi veicoli di razzismo strisciante. O che i canali Disney, sull’onda della messa sotto accusa di Via col vento, siano intenzionati a mettere sull’avviso i giovani consumatori degli Aristogatti, Lilli e il vagabondo con una scheda pedagogicamente corretta che dice: «Questo programma potrebbe contenere rappresentazioni culturali ormai superate». C’è poco da sorridere. Perché un po’ di anni fa avremmo liquidato come una boutade la decisione di alcune università americane di sradicare dai piani di studio opere scorrette di Shakespeare e le Baccanti: fatto. O di bloccare alla Sorbona la messa in scena delle Supplici di Eschilo: fatto anche questo. O di rimuovere da un’università inglese una targa con i versi di Rudyard Kipling, autore di un libro molto pericoloso come Kime cantore, autore seriale di crimini culturali, Il fardello dell’uomo bianco: fatto. Avremmo considerato impossibile l’accusa a Dante Alighieri di essere «islamofobo». Sarebbe stata inconcepibile la distruzione della statua di Cristoforo Colombo, o lo scempio vandalico che ha deturpato quella di Churchill, l’eroe della guerra contro Hitler. O le protese veementi al New York Times perché nella pagina delle opinioni se ne sia pubblicata una troppo conturbante. E invece non dobbiamo sorridere: è tutto vero, non è una parodia, non è uno scherzo. Non lo era nemmeno la manipolazione della Carmen di Bizet al Maggio Fiorentino (avallata dal sindaco Nardella, purtroppo) quando si manomise il finale per non dare alimento culturale al femminicidio. È invece una forma di nuovo e prepotente fanatismo, non riducibile nemmeno agli stereotipi del pur petulante «politicamente corretto», che vuole sradicare il passato, l’arte e la cultura del passato, tutto ciò che appartiene alla storia, alle idee, ai concetti, ai pregiudizi, anche agli orrori del passato per fare tabula rasa di tutto ciò che ci ha preceduto, equiparato a qualcosa di intrinsecamente peccaminoso e corrotto, da purificare con i precetti della nuova ideologia, o da mettere dietro a una lavagna punitiva, come Via col vento. Gli aggressivi funzionari della «neo-lingua» già analizzata da Orwell definiscono pudicamente «ricontestualizzazione» (un po’ come i Lager maoisti ribattezzati «campi di rieducazione»), questa demolizione e riscrittura delle opere del passato, per stravolgere ed estirpare quella che i solerti esecutori della Disney chiamano «rappresentazioni culturali ormai superate». Tra i nuovi fanatici della censura, dell’iconoclastia, del rogo di libri e di film, il passato dell’arte, della cultura e del pensiero non va studiato, rappresentato, esaminato, criticato, va «superato», cioè distrutto, cancellato, epurato, «ricontestualizzato» che è l’esatto opposto della doverosa contestualizzazione di un testo, di un’opera, di un’idea, di una parola: cioè quello che si fa normalmente senza bisogno di abbattere le statue come i talebani con quelle di Buddha o dell’Isis a Palmira, o come le guardie rosse che perseguitavano i musicisti nel caso avessero eseguito impura «musica occidentale» o come i pasdaran khomeinisti che volevano ammazzare Salman Rushdie per i suoi versetti blasfemi. Paragoni azzardati. Ma proviamo a leggere Amos Oz per verificare l’azzardo: «Tutti i fanatici tendono a vivere in un mondo in bianco e nero. Il fanatico è uno che sa contare fino a uno» e vuole azzerare il «mondo malvagio» da soppiantare con il «mondo a venire». Ecco: azzerare. Esattamente fare del mondo una pagina bianca in cui dopo aver cancellato tutto ciò che c’è di immondo del passato si riparte dall’anno zero della purezza. E se l’arte, il cinema, la cultura, i libri, il teatro, la musica, anziché adeguarsi talvolta con qualche secolo se non millennio di anticipo alle direttive impartite con ciò che oggi consideriamo il Bene e il Male, si ostinano a rappresentare scorrettamente i conflitti della vita, la violenza, la sopraffazione, la discriminazione, l’ingiustizia, insomma tutto ciò che è materia viva nella storia della cultura, allora i nuovi guardiani della fede si incaricheranno di azzerare, rimuovere, abbattere, manipolare, ricontestualizzare.
Dal Movimento anti-razzista alla rivoluzione culturale. Piccole Note l'11 giugno 2020 su Il Giornale. Il Movimento anti-razzista nato sull’onda dell’omicidio di George Floyd ha assunto carattere iconoclasta. I manifestanti. in America e in Inghilterra soprattutto, hanno preso di mira le statue: gettata a terra, a Bristol, quella di Edward Colston, noto schiavista che la città ha onorato per i benefici da lui apportati.
Statue non grate. Se pochi piangeranno per la fine indecorosa della statua di Colston, l’assalto ad altri monumenti ha suscitato reazioni: così è stato per la deturpazione, avvenuta a Londra, della statua di Churchill, punito per le sue propensioni razziste verso gli indiani e i palestinesi, ma al quale è innegabile assegnare un ruolo primario nella sconfitta del nazismo (Hitler vede così irriso il suo più acerrimo nemico: simbolismo alquanto sinistro). Né si comprende la ratio della distruzione e il relativo affondamento in acqua della statua di Cristoforo Colombo, avvenuto a Richmond: se certo il navigatore genovese è reo di aver scoperto l’America, non gli si può attribuire un ruolo nel genocidio dei suoi nativi, come hanno fatto i vandali (con motivazione rimasta scritta sul residuo piedistallo). Ma al di là, va segnalato che il sindaco di Londra, in sintonia l’onda, ha avviato una revisione dei monumenti della città per decidere quali siano degni di rimanere, revisione che potrebbe essere ribaltata in seguito, con riscrittura permanente della storia in stile orwelliano (così in “1984”). Questo lato simbolico della protesta ha fatto nascere paragoni, anche da parte di ambiti non avversi ai manifestanti, con la furia talebana, che in Afghanistan fece strame di monumenti buddisti. Ma il simbolismo delle statue buttate giù, nella storia recente, ha anche altri precedenti. Le rivoluzioni colorate nell’Est europeo, che tanti punti in comune hanno con il Movimento antagonista americano ed europeo (e nel Vecchio Continente soprattutto britannico: Trump e Johnson, accomunati dalla sfida alla globalizzazione, hanno gli stessi antagonisti), hanno una storia seriale di statue abbattute, a sigillo dell’avvenuto regime-change. Come resta nella storia l’abbattimento della statua di Saddam, a coronamento simbolico della prima grande vittoria delle guerre infinite (anche qui il rimando al presente è facile, dato che George W.Bush e Colin Powell, protagonisti pubblici di quella guerra, si sono schierati in favore dei manifestanti contro Trump). Non solo l’aspetto simbolico, l’accanimento contro certi monumenti pubblici ha fatto assumere alla protesta sociale il carattere di una rivoluzione culturale (quella cinese, non è un bel precedente). Analizzare con occhi nuovi la storia è operazione legittima e benvenuta, dato che può portare a porre nuovi interrogativi e favorire una maggiore comprensione di una materia in genere appannaggio dei vincitori (in particolare quella moderna). Ma allo stesse tempo c’è il rischio che storia stessa sia consegnata a improvvisati professori o di una rischiosa palingenesi che, azzerando tutto, vedrebbe il sorgere di una nuova Storia, a uso e consumo dei nuovi vincitori, quelli che si nascondono dietro le attuali proteste e le alimentano (tutti i media mainstream Usa e gran parte degli altri, oltre che le più potenti piattaforme web, la supportano, e non certo casualmente). Peraltro, se proprio si vuole porre fine ai tanti simboli del razzismo, occorrerebbe forse abolire il partito democratico americano che oggi cavalca la protesta, dato che gran parte dei suoi esponenti, al tempo della guerra di secessione, si schierò con i confederati contro l’abolizionista Abraham Lincon.
Il rito dei democratici al Congresso. Proprio tale partito ha dato vita a un singolare spettacolo al Congresso Usa, nel quale ha voluto portare il gesto più potente e simbolico delle attuali manifestazioni anti-razziste, che consiste nell’inginocchiarsi in pubblico in memoria di Floyd. Un gesto di per sé bello, che rischia però di essere consegnato al simbolismo e così svuotato del suo significato di preghiera e partecipazione. Meno bello se viene chiesto, come accade durante le manifestazioni, ad altri estranei al Movimento, con un’insistenza e una pervicacia che, anche se non ne deriva una costrizione, assume il significato di una richiesta di sottomissione pubblica al Movimento e alle sue ragioni (e, di fatto, anche al Potere che lo supporta). Tornando allo spettacolo al Congresso, al quale la solennità e l’uso di una stola cerimoniale ha fatto assumere i caratteri rituali (e di un rito più pagano che laico), è singolare che, per manifestare la propria vicinanza agli afroamericani, i membri del partito democratico abbiano deciso di indossare una stola di Kante. Un tessuto particolare, il Kante, che ha nel simbolismo cromatico rimandi iniziatici, la cui storia si “intreccia profondamente con quella dell’Impero Ashanti“, dato che era appannaggio dei suoi regnanti. Tale impero, che insisteva sul Ghana (dilatandosi ben oltre gli attuali confini del Paese che affaccia sul Golfo di Guinea), fu uno dei più potenti regni dell’Africa, un impero “schiavista” che “sul commercio di oro e schiavi (con i colonialisti europei ndr) costruì la propria ricchezza”. La storia è bizzarra. E riserva sorprese, anche a chi la vuole riscrivere.
Le riscritture della storia sono sempre su un lato solo della strada. Toni Capuozzo l'11/06/2020 su Notizie.it. Vi immaginate se la scuola italiana bruciasse la Divina Commedia perché nel Canto XXVIII mette Maometto all’Inferno? Qualche dietrologo sostiene che il coronavirus non esiste, o almeno è la scusa per imporre un nuovo ordine mondiale. Fosse così, consoliamoci, perchè la Spectre composta da Soros e Bildelberg, o da Trump e Bolsonaro, o dalla Cina e Bruxelles, o da chi più ne ha più ne metta, sta fallendo. Il disordine è grande, e le incertezze si moltiplicano. E non ci sono neppure bandiere sotto le quali stringersi, come marines a Iwo Jima, siamo a corto di simboli. Prendi “Andrà tutto bene”: è ormai il datato ricordo di un tempo innocente e ottimista, un coro poetico che ha lasciato spazio alla prosa meno eroica delle fasi 2 e 3. Prendi il No al razzismo, bandiera nobile ma troppo simbolica, quasi una moda, in quell’inginocchiarsi in Parlamento, della ex presidente della Camera Laura Boldrini e di altri con lei. “Quel” razzismo è una storia tutta americana, come la apple pie. Ed è giusto che si sia solidali con chi vi si oppone, ma senza confondere le acque, sapendo che è una storia loro, su cui adesso si illuminano le telecamere dei telefonini, ma è antica e recente (ricordate i 58 morti del 1992 a Los Angeles dopo il pestaggio di Rodney King?), e comunque è loro e almeno in questo non c’è nulla di cui scusarsi, per noi europei. Naturalmente siamo dei gran percettori di mode, noi italiani: persino il termine “antifa”, noi che siamo nati dalla Resistenza lo abbiamo preso in prestito dalle piazze americane. C’è razzismo in Italia? A giudicare da come la comunità cinese ha ripreso tranquillamente il suo posto, dopo la pandemia, si direbbe di no. A guadare lo sfruttamento nelle campagne, certo, c’è da preoccuparsi, ma è piaga sociale, che non ha a che vedere con il colore della pelle: possono essere raccoglitori di fragole moldavi o rumeni, van bene lo stesso, purchè precari e sottopagati. Più scomodo invece far notare che in meno di un anno, degli 11.800 migranti raccolti e sbarcati sulle nostre coste, l’Europa ne ha accolti e ricollocati solo 464: abbastanza da sospettare un respingimento che meriterebbe qualche inginocchiata davanti ai consolati di molti paesi amici. Viviamo di simboli e mode, ed era ovvio che qualcuno, non avendo statue di Cristoforo Colombo da decapitare come a Boston, a corto di piedestalli, avrebbe segnalato come politicamente scorretto il monumento a Indro Montanelli, ai giardini di Porta Venezia, e qualcuno starà cercando tra vecchi dvd quali film italiani siano da mettere all’indice, come Via col vento. Intanto è curioso notare come le riscritture della storia siano sempre su un lato solo della strada (e corso Unione Sovietica a Torino?) e poi vi immaginate che la scuola italiana, già deficitaria di suo, bruci la Divina Commedia perché nel Canto XXVIII mette Maometto all’Inferno, tra i seminatori di discordia? Si resta con i simboli, come quegli striscioni gialli che hanno raccontato il dolore di noi italiani per la morte di Giulio Regeni, ma sono stati anche un simbolo identitario, politico. L’Italia vende due fregate agli egiziani – qualcosa attorno ai dieci miliardi di euro – e la famiglia di Giulio – che come famiglia ha il sacrosanto diritto di dire qualunque cosa – dice che si tratta di un tradimento del governo, che si tratta di armi e navi che serviranno a perpetuare la violazione dei diritti umani. Di Maio imbarazzato, il PD, anche. Nessuno tra loro che noti come etica e relazioni internazionali siano spesso separati in casa: facciamo le vie della seta con il regime autoritario cinese che soffoca Hong Kong, compriamo aerei dagli Stati Uniti dove i poliziotti fanno la caccia a i neri, intratteniamo come tutti rapporti commerciali con paesi cui è meglio non misurare la temperatura, quanto a diritti civili. Lia Quartapelle, PD, si spinge più in là: dice che l’Egitto è il capofila di un “asse reazionario” che in Libia sostiene il generale Haftar. Le anime belle sono sempre un po’ strabiche. Diciamo che le parti contrapposte in Libia difettano di galantuomini, se con Serraj stanno la Turchia e i Fratelli musulmani: fronte progressista? E torniamo all’America. L’ultimo numero della rivista di Al Qaeda definisce Covid 19 un “microscopico soldato di Allah” e le rivolte antirazziali una opportunità di finire il lavoro iniziato l’11 settembre 2001. Certo, Trump è in difficoltà. E Biden, se riuscisse a reclutare Michelle Obama come vice, un candidato alla vittoria. Non sappiamo in quale ordine mondiale andrebbe iscritto questo scenario. Ma è bene ricordare, senza illusioni, che le guerre le hanno sempre iniziate i democratici americani. E che il problema razziale è diventato un problema criminale incrociandosi, nella guerra per imporre Law and Order, con le carcerazioni di massa, inaugurate da Bill Clinton.
Renato Farina contro gli anti-razzisti che cancellano la storia: "Abbattono le statue e non i propri cervelli". Renato Farina su Libero Quotidiano il 12 giugno 2020. La furia iconoclasta di quest' anno ha strappato nuovi scalpi da appendere alla trave alla quale i suoi protagonisti attuali saranno a loro volta impiccati tra qualche anno. Il conto è provvisorio. Abbiamo segnato le statua di Cristoforo Colombo affogata in un lago a Richmond, in America, colpevole di averla scoperta; quella di uno a noi sconosciuto schiavista del '600 a Bristol e di altri colleghi sparsi nel Paese; ha poi sfregiato a Londra quella di Winston Churchill perché «era un razzista» avendo difeso le colonie della Regina in India; in Belgio il monumento a Leopoldo II, oppressore del Congo. Molte altre lapidi ed effigi sono in corso di sradicamento. In Italia essa si è diretta, per la seconda volta in un paio d'anni, contro Indro Montanelli, per aver sposato, secondo costumi africani degli anni 30, la dodicenne figlia di un capo etiope. Ultimo caso notevole, che sobbolliva già da un po'. L'Olympiastadion di Berlino, voluto dal regime nazista e inaugurato nel 1936 per ospitare i Giochi Olimpici estivi, non essendo passibile di essere buttato giù da un corteo, sarà - dopo una campagna di stampa su Zeit - ristrutturato demolendo tutti i simboli del regime hitleriano: non solo le sculture, ma la stessa forma, troppo rievocativa dell'estetica del III Reich. L'Herta Berlino sostiene questa idea. Ancora. In Svizzera i supermercati hanno deciso di togliere dagli scaffali, per onorare Georg Floyd, gli storici cioccolatini "moretti", che a suo modo sono un monumento. E avete capito perché.
L'INVIDIA DEGLI OMETTI. Qui non ci mettiamo a difendere Colombo, Churchill e Montanelli. Constatiamo che quelli che Nietzsche chiamava "ometti" o "cinesini" se la prendono sempre per invidia con i grandi che hanno lasciato un segno nella storia. Ma cerchiamo un po' di capire che cosa sta succedendo. Quando un popolo, o chi per esso, ribalta un tiranno, ribalta anche i segni della sua presenza. Darei una mano anch' io, se dovesse arrivare il califfato islamico in Lombardia, a demolire le statue di Bin Laden (anche se è impossibile: i musulmani non fanno statue). Un conto però è il repulisti di una rivoluzione o dopo la fine di una guerra: i perdenti sono sempre colpevoli. È accaduto e accadrà sempre. I romani spargevano sale, decretavano la damnatio memoriae, neanche il nome doveva sussistere, perché i nomi contengono una forza spirituale. Quello che sta capitando ora è tutta un'altra storia. Ad essersi alzata e a non trovare dighe di buon senso e di onestà è l'onda della purificazione "politically correct". Per chiarire il concetto, rispettandone l'autore Tom Wolf: "politicamente corretto" è ciò che resta dopo il rastrellamento con il forcone progressista della intera realtà culturale, della eredità giuntaci dal passato bello o brutto che sia stato. Idee, parole, statue, quadri, poesie giudicate fasciste, razziste, omofobe, islamofobe, sessiste, imperialiste. Nei periodi di bonaccia questo vaglio spaventoso procede lento. Si appunta sul vocabolario, agisce attraverso leggi contro opinioni fuori dai canoni (vedi quella oggi in Parlamento). Poi di colpo prende forme devastanti, come oggi. Essa non è dovuta a ignoranza. Anzi essa ha per ideologi gente erudita. Costoro fanno così. Individuano un personaggio famoso che sta loro odioso per ragioni politiche o semplicemente perché è apprezzato da gente estranea ai loro circoli. Dopo di che cercano nei suoi armadi, in qualche lettera, in un discorso bellico qualcosa che stoni rispetto ai dogmi del pensiero unico d'oggi. Estrapolano dal contesto quanto occorre per la loro indignazione, e lo indicano come idoneo al linciaggio. Un'operazione che rinuncia a quella suprema onestà che è riconoscere la perenne imperfezione di chiunque, anche di chi si erge a giudice. Senza prospettiva storica, senza pietas, chiunque è reo di morte. Su questa base andrebbero abbattute le statue di Giulio Cesare, che in Gallia sterminò un milione e passa di futuri francesi, andrebbe divelto il monumento di Marco Aurelio, i russi dovrebbero dare alle fiamme l'Arco di Trionfo. E l'intero patrimonio architettonico e letterario classico, da Atene a Roma, da Aristotele a Seneca, dovrebbe essere cancellato: schiavismo, umiliazione delle donne, imperialismo erano costumi praticati. Oppure c'è la prescrizione? Non si costituisce nulla se non accettando e notando la tradizione, con tutte le scorie che essa si porta dietro, e gli uomini che ne sono stati l'emblema. Se la civiltà è sopravvissuta alla barbarie dopo la fine dell'impero è proprio perché nei monasteri benedettini santi amanuensi trascrissero opere che pure contenevano ideologie avverse al cristianesimo. E costruirono sui templi pagani, senza distruggerli, cose nuove. Il campione del pensiero moderno, Voltaire, che i progressisti citano continuamente, ingrassò come i due schiavisti inglesi sul commercio di neri con le Americhe, e fu violentemente antisemita (vedi i Dialoghi e il Candide). Antonio Gramsci scrisse dal carcere cose turpi e razziste sui "negri" che riteneva "pericolosi" per aver diffuso in Europa le loro danze inferiori. Che facciamo? Bruciamo i loro monumenti o lo salviamo perché di sinistra?
STALIN IN SOFFITTA. E i monumenti nazisti, fascisti o comunisti? Non faccio l'elenco di quelli belli da salvare, non ho abbastanza competenza. Ma il genio umano per distrazione semina bellezza anche quando serve cause ignobili. E noi siamo tutti figli di epoche dove i nostri padri hanno seguito idoli buoni o perversi, ma sono i nostri padri. Piuttosto in questa epoca dove non esiste memoria condivisa del passato, almeno sia praticato il rispetto delle memorie altrui. Magari mettendo in campo se non l'arte del perdono quello dell'umana convenienza. L'umanità cambia così spesso i suoi cavalli vincenti Mi viene in mento quanto la saggezza contadina raccontò al grande scrittore ebreo-russo Vasilij Grossman nel 1961 in Armenia, allora Urss. Erevan, la capitale, era ancora sotto lo sguardo terrificante del "gigantesco maresciallo di bronzo". Il monumento a Stalin eretto sul monte era un problema per le autorità al tempo di Kruscev. Che farne? Bisognava demolirne la statua per ragioni di opportunità politica e perché nemico del gentile cuore armeno. Ed ecco che un contadino, durante un'assemblea, propose di seppellire il monumento costato centomila rubli solo dieci anni prima, anziché distruggerlo. «Può tornare comodo se cambia il governo». Del resto gli armeni com' è che difesero il loro patrimonio di chiese cristiane in attesa dell'inesorabile devastazione mongola: scolpirono sulle porte Cristo, Madonna e santi con occhi da mongoli. Ma questo è un altro articolo.
Da huffingtonpost.it il 13 giugno 2020. La caccia alle statue di personaggi storici giudicati oggi alla stregua di “razzisti, imperialisti” o presunti tali deve finire. A levare la voce contro questa deriva - innescata negli Usa, nel Regno Unito e altrove da frange del movimento Black Lives Matter sulla scia della protesta contro l’uccisione di George Floyd - è Boris Johnson: sceso in campo per denunciare “gli estremisti” nel giorno in cui Londra è stata costretta a impacchettare vari monumenti, in primis quello dedicato a Winston Churchill, per il timore di nuovi assalti. Johnson ha definito “assurdo e vergognoso” che la statua del primo ministro della Vittoria sul nazismo abbia dovuto essere coperta da una sorta d’involucro in modo da essere protetta. La decisione è stata presa dal Comune di Londra, che ha riservato lo stesso trattamento al cenotafio in onore dei caduti, nel cuore della capitale, ma anche ad altre opere: compresa una raffigurante Nelson Mandela, minacciata da contromanifestazioni ultranazionaliste. Il sindaco della città, il laburista Sadiq Khan, ha invitato tutti i dimostranti “a restare a casa” nel rispetto delle restrizioni dell’emergenza coronavirus. Mentre un raduno in ricordo di George Floyd previsto per domani a Hyde Park è stato sospeso dagli stessi promotori onde evitare il pericolo di scontri con la contemporanea iniziativa opposta di estrema destra. Altre sigle del movimento antirazzista hanno tuttavia manifestato stasera a Londra. Mentre i monumenti sotto tiro (anche senza contare le annunciate ritorsioni di drappelli di nazionalisti contro le effigi di progressisti o rivoluzionari e già entrati in azione a Bristol per sfregiare con l’acido un busto di Alfred Fagon, poeta e attore d’origini giamaicane) si moltiplicano in vista del weekend in diverse città. E, dopo le statue di mercanti di schiavi di secoli passati quali Edward Colston (abbattuto giorni fa a Bristol) o Robert Milligan (rimossa in anticipo), gli antirazzisti più radicali mettono nel mirino decine di figure storiche di vario spessore: ex governatori coloniali, leggendari navigatori come James Cook, il corsaro Francis Drake (eroe dell’Inghilterra di Elisabetta I), capi di governo imperiali del peso di Robert Peel o di William Gladstone, fino al quasi contemporaneo Robert Baden-Powell, fondatore dello scoutismo tacciato in una fase della sua vita di simpatie hitleriane. Commentando le minacce alla statua di Churchill, già imbrattata da un drappello di dimostranti nei giorni scorsi di fronte a Westminster con la scritta ‘fu un razzista’, il premier Tory ha paventato il rischio che una protesta già definita legittima e “comprensibile” venga “presa in ostaggio dagli estremisti”. “La statua di Winston Churchill in Parliament Square è un memento permanente di quanto egli seppe conseguire per la salvezza di questo Paese, e di tutta l’Europa, dalla tirannia fascista e razzista. È assurdo e vergognoso che questo monumento nazionale debba essere messo ora a rischio da manifestanti violenti”. ″È vero - ha ammesso Johnson - talora Churchill manifestò opinioni che erano inaccettabili e sono inaccettabili per noi oggi, ma egli è un eroe e merita in pieno il suo memoriale”. Secondo l’inquilino attuale di Downing Street - divulgatore storico di successo, ammiratore e biografo di sir Winston - il Regno Unito ha una storia comune da ricordare. “Non possiamo cercare di riscrivere o censurare il nostro passato, non possiamo pretendere di avere una storia diversa”, ha notato. “Vi sono prospettive differenti su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ma le statue innalzate dalle precedenti generazioni ci insegnano il nostro passato, con tutti i suoi errori: abbatterle - ha concluso ammonendo a restare a casa - sarebbe mentire sulla nostra storia e impoverire le future generazioni”.
Caso Floyd, la furia antirazzista diventa iconoclasta e corre sui social: "Giù le statue". Pubblicato venerdì, 12 giugno 2020 da La Repubblica.it. L'ultima a cadere è stata la statua di Cristoforo Colombo a Houston, in Texas, dopo quella di Minneapolis. Ma prima di lui nel Regno Unito è toccato a Edward Colston, mercante-filantropo di Bristol arricchitosi tuttavia nel '600 anche con il commercio degli schiavi, e a Winston Churchill. La protesta antirazzista che divampa un po' dappertutto nel mondo nel nome di George Floyd - l'afroamericano 46enne morto soffocato durante l'arresto a Minneapolis - corre veloce anche sui social e diventa iconoclasta. Le prime a farne le spese sono le statue di personaggi fino a ieri considerati icone di civiltà, quando non di libertà e democrazia. Ma che adesso si sono trasformate in simboli della schiavitù o dei regimi coloniali. "Se non fosse drammatico, sarebbe solo grottesco", è il commento del governatore della Liguria Giovanni Toti sull'accanimento contro Colombo. In Italia si è fatto sentire il movimento dei Sentinelli di Milano, gruppo che si batte contro le discriminazioni razziste e omofobiche, che ha inviato un appello al sindaco Giuseppe Sala e al Consiglio comunale perché sia valutata la rimozione della statua di Indro Montanelli posta nei Giardini a lui intitolati. Montanelli - affermano i Sentinelli - fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l'aggressione del regime fascista all'Etiopia. Ma il sindaco Sala dice no alla rimozione del monumento: "Penso che in tutte le nostre vite ci siano errori. E quello di Montanelli lo è stato - dichiara in un'intervista al Giorno - Ma Milano riconosce le sue qualità, che sono indiscutibili". Anche da Fucecchio in Valdarno, sua città natale, si leva un coro di no. E il sindaco Alessio Spinelli parla di "follia, priva di ogni logica storica". La statua del giornalista toscano non è l'unica finita nel mirino dell'antirazzismo iconoclasta. Basta fare una rapida ricognizione su Twitter per trovare altre proposte di abbattimenti. Come ad esempio la già contestata statua di Gabriele D'Annunzio a Trieste, l'obelisco "Mussolini dux" al Foro italico a Roma o l'effigie dell'esploratore Vittorio Bottego a Parma. Nonché i vari monumenti all'Eroe dei due Mondi Giuseppe Garibaldi, più detestato al Sud di quanto si possa immaginare come testimonia questo tweet di una utente di Napoli. Credo che poche statue al mondo meritino la rimozione quanto questa del Criminale Nizzardo nella immensa piazza di Napoli cui è stato imposto il suo nome dannato. Eppure sta lì, nessuno lo tocca, nessuno se lo fila, e credo sia ormai quasi invisibile per la gran parte di noi. A Torino il Kollettivo Studenti Autorganizzati (Ksa) rivendica su Facebook lo sfregio dell'effigie di Vittorio Emanuele II. "Torino come Bristol - si legge sul profilo del Ksa - Quando la giunta comunale di Torino si indigna per una sbombolettata nera sulla statua di un colonialista di m... noi rispondiamo che questa statua non è il nostro patrimonio culturale". Il tam tam iconoclasta arriva anche in Sardegna. A Cagliari viene presa di mira la statua del vicerè di Sardegna Carlo Felice, nella centrale piazza Yenne di fronte al porto. Secondo i promotori di una petizione online, tra i quali spiccano Francesco Casula, autore del libro "Carlo Felice e i tiranni sabaudi" e Giuseppe Melis, docente universitario di marketing, il monumento andrebbe non abbattuto ma "spostato" nell'androne dell'ingresso principale del Palazzo Regio in piazza Palazzo. Ogni tanto, fra l'altro, la statua viene coperta e viene proposto di intitolare un monumento ai Martiri di Palabanda, i promotori (giustiziati) di una fallita rivolta contro i Savoia. L'opinione pubblica è però divisa, fra chi considera l'opera un simbolo di "cagliaritanità" (Largo Felice è uno dei luoghi più frequentati della città) e chi invece vi legge solo l'icona di un tiranno senza scrupoli che ha calpestato i diritti dei Sardi. Ma c'è anche chi la prende con ironia: Carlo Felice è troppo legato ai trionfi del Cagliari, quando viene vestito di rossoblu. Potrebbe essere sostituito solo da una statua di Gigi Riva...Sull'onda emotiva di George Floyd e della lotta al razzismo, è tornato sotto alla luce dei riflettori mediatici anche un vecchio dibattito sull'opportunità di abbattare il monumento al criminale di guerra fascista Rodolfo Graziani ad Affile, un paesino di meno di 1500 abitanti in provincia di Roma. "Un monumento alla vergogna" si legge su Twitter e Facebook, contro il quale si era schierato pubblicamente anche il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti con un post che invitava a dire "no al revisionismo di stampo fascista e alla memoria storica". Ad #Affile è ancora in piedi il sacrario dedicato al gerarca e criminale di guerra #fascista Rodolfo #Graziani. Il sindaco che l'ha eretto è già stato condannato per apologia di fascismo. Cosa aspettiamo ad abbattere questo scempio? Ma il il primo cittadino Ercole Viri difende l'opera: "Non si abbatte niente, quello è un museo dove sono conservati i cimeli dei soldati, anche quello di mio nonno. Deve piacere agli affilani. Io amministro loro, non i partigiani". Una polemica annosa quella di Affile, che va avanti da tempo come nel caso del mausoleo di Michele Bianchi - gerarca fascista e capo della massoneria calabrese - a Belmonte Calabro (Cosenza), più volte danneggiato da atti vandalici e anche da un incendio di matrice dolosa che nel 2016 ha colpito la pineta circostante.
Perché distruggiamo le statue? Dagli antichi egiziani ai giacobini, passando per le guerre religiose: quando la politica è iconoclasta. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 13 giugno 2020. Statue che vengono giù come castelli di carta, decine, forse centinaia di statue abbattute oltreoceano dall’impeto iconoclasta del movimento nato dopo l’omicidio di George Floyd. È caduto Edward Colston, mercante di schiavi del 17esimo secolo, sono caduti Jefferson Davis e Alexander Stephens, presidente e vicepresidente della Confederazione durante la Guerra civile. Assieme a loro sono andati in polvere anche il generale Williams Carter Wickham, il conquistatore spagnolo Don Juan de Oñate e naturalmente Cristoforo Colombo. A Londra se la sono presa con Winston Churchill a Città del Capo con il colonialista britannico Cecil Rhodes. In Italia, con più modestia, traballa il monumento al giornalista Indro Montanelli che campeggia in un anonimo giardinetto milanese. Questa furiosa campagna contro i simboli dello schiavismo, del razzismo, del potere coloniale sta scatenando accese battaglie tra gli stessi antirazzisti, che si sono divisi in stucchevoli dibattiti sulla morale e la memoria, sulla storia e la politica. La distruzione dei simboli non è un prurito postmoderno, ci accompagna dall’alba delle civiltà ed è un tratto distintivo delle società complesse, che provenga dal “basso” o che sia promossa dalle élite. Nell’antico Egitto era una pratica ricorrente: le effigi dei faraoni deceduti venivano fatte distruggere dai loro successori e in generale si credeva che le vestigia degli antichi sovrani contenessero «una forza spirituale che doveva essere disattivata con la distruzione» per citare l’archeologo americano Edward Bleiberg. Una questione a metà tra il prestigio politico e la superstizione in un mondo pervaso dal paganesimo. Sono le religioni monoteiste e la loro guerra all’idolatria a fare dell’annientamento delle immagini un pilastro teologico e una pratica da promuovere con fervore. Non solo nella distruzione dei vecchi idoli, nella cancellazione delle vecchie divinità, ma come elemento normativo del proprio culto. Il divieto della rappresentazione di un Dio ineffabile ma anche non rappresentabile: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» si legge nella Torah ebraica. Ma se nel rigoroso approccio del giudaismo la proibizione di raffigurare il Dio trascendente è assoluta, nel mondo cristiano la questione è più complessa e si intreccia alla teologia dell’incarnazione, del Dio mondano che si è fatto uomo fino a farsi crocifiggere. Il fiorire delle icone, non idoli ma immagini di culto del dio unico, nell’impero romano d’oriente non solo era tollerato ma in gran parte promosso. Almeno fino all’ottavo secolo con la nascita del movimento iconoclasta con l’imperatore Leone III che proibisce l’uso delle icone del Cristo, della Vergine Maria e dei santi ordinandone la distruzione. L’influenza filosofica dell’islàm, nato il secolo precedente nella penisola arabica e in grande ascesa è evidente. Ancora più dell’ebraismo l’islàm combatte infatti qualsiasi forma di rappresentazione divina, Dio trascende il mondo sensibile, non ha forma ed è al di fuori dello spazio e del tempo, inafferrabile dall’intelletto umano. Il suo profeta Maometto, rovesciando gli idoli della Kaaba, tratteggia un monoteismo radicale che rende empia ogni rappresentazione, ogni forma di arte religiosa che verrà poi sublimata nella cura maniacale, artistica, della calligrafia. Questo dogma è rimasto inalterata i sunniti, mentre la confessione sciita è molto più tollerante sulla questione al punto da essere accusata di apostasia dai fratelli di fede. Molti secoli dopo in una violenta nemesi della storia la spada dell’iconoclastia viene sottratta alla religione dai suoi nemici più accaniti. È il caso della Rivoluzione francese che sbaraglia i simboli dell’Ancien régime, abbattendo statue, monumenti ma anche luoghi di culto religioso. Il termine «vandalismo» fu coniato in quel periodo all’Abate Gregorio, un religioso riformista che simpatizzava per i rivoluzionari ma che provava orrore per l’annientamento delle opere d’arte. In epoca più moderna, escludendo le demolizioni dei talebani e le razzie dei predoni dell’Isis, l’iconoclastia ha assunto una forma tutta politica, le statue abbattute segnano la fine di regimi spesso caratterizzati da un ossessivo culto della personalità. È un domino infinito. I bolscevichi buttarono giù i monumenti zaristi e le loro sculture furono a sua volta abbattute quando finì il socialismo reale. Pur nella sua miseria scenica, l’ultima immagine globale dell’iconoclastia politica è l’abbattimento della statua del raìs iracheno Saddam Hussein nella piazza Fridos di Baghdad trasmessa in mondovisione. Ora tocca agli schiavisti e ai colonialisti, i loro monumenti sembrano diventati troppo ingombranti e oggi assistono muti alla furia dei movimenti antirazzisti e alla loro ansia di liberarsi qui e ora di un passato che continua a incutere paura. Anche attraverso le statue, pezzi di pietra, materia inanimata che non dovrebbe più spaventare nessuno ma che, al contrario, dimostrano quanto i simboli siano radicati nel nostro immaginario collettivo. Così come in un rito sciamanico, facendoli a pezzi ci liberiamo anche della loro “forza spirituale”. Proprio come i nostri antenati.
Perché odiare Colombo? Orlando Sacchelli il 12 giugno 2020 su Il Giornale. Con la scusa delle proteste scatenate dall’uccisione di George Floyd a Minneapolis, negli Stati Uniti si è diffusa un’onda iconoclasta contro le statue di alcuni personaggi controversi. Tra questi incredibilmente è finito anche Cristoforo Colombo, l’europeo che per primo mise piede nel “Nuovo mondo”. A Houston (Texas) qualcuno ha dipinto di rosso le mani e la testa della statua di Colombo (guarda la foto), mettendo anche un cartello con la scritta: “Tagliare la testa al nostro oppressore”. A Boston (Massachusetts) una statua del navigatore genovese è stata decapitata. Un’altra a Richmond (Virginia) è stata divelta e gettata in un lago. Stessa sorte per la statua posta davanti al Campidoglio di Saint Paul, nel Minnesota. A New York la polizia ha organizzato la sorveglianza della statua posta a Columbus Circle, a Manhattan, al confine con Central Park. La statua si trova di fronte al Trump International Hotel. Andrew Cuomo, governatore dello stato di New York, ha detto di “capire i sentimenti contro Colombo e su alcuni dei suoi atti”, ma ha poi sottolineato che la statua dell’esploratore “rappresenta l’eredità e il contributo degli italoamericani” al Paese. Non è la prima volta che Colombo finisce al centro delle polemiche. Tre anni fa Los Angeles il consiglio comunale decise di sostituire il Columbus Day con l’Indigenous and Native People Day, la festa delle popolazioni indigene e native. La stessa decisione venne adottata a Seattle, Minneapolis, Albuquerque, Phoenix e Denver. Il paradosso è che senza quel pezzo di storia di cui Cristoforo Colombo indubbiamente fa parte gli americani di oggi non esisterebbero. O, forse, sarebbero molto diversi. Come spiegò il filosofo conservatore Roger Scruton i neo iconoclasti “vogliono i benefici dell’Occidente senza i sacrifici che questi hanno comportato. È il nuovo ‘dream world’ di gente che deve dimostrare di essere virtuosa”. Ma cosa viene contestato a Colombo? Non tanto la sua scoperta quanto le conseguenze di ciò che fece in seguito sulle persone che vivevano, in quell’epoca, nel Nord America (vedi genocidio di Taìno). I movimenti a favore dei nativi americani si fecero più forti negli anni Novanta, ponendosi al centro del dibattito storico a partire dalla pubblicazione di un libro di Howard Zinn (Storia del popolo americano dal 1492 ad oggi), che affrontava il punto di vista dei popoli oppressi. I difensori di Colombo hanno sempre ribattuto soprattutto su un punto: le violenze commesse dagli spagnoli avvennero soprattutto dietro ordini della monarchia spagnola. Veniamo a tempi più recenti. Il Columbus Day venne celebrato la prima volta nel 1869 dagli italo-americani di San Francisco. Fu solo nel 1937, per volere del presidente Franklin Delano Roosevelt, che divenne una festa di tutti gli Stati Uniti. L’evento più grande si svolge ancora oggi a New York, con la Columbus Parade, lungo la Fifth Avenue. Una grande festa con bande, carri e figuranti e la comunità italo-americana orgogliosamente in prima fila. Umberto Mucci, presidente dell’associazione We The Italians, qualche anno fa in un’intervista disse che “il Columbus Day ormai è la celebrazione dell’italo-americanità, non di Cristoforo Colombo”. Se oggi Colombo viene contestato dagli ambienti della sinistra radicale ma anche dagli anarchici, c’è stato un periodo in cui anche i suprematisti bianchi se la sono presa col navigatore genovese, per negare la sua scoperta dell’America, attribuita invece ai vichinghi.
La celebre tela di Delacroix e la copertina di Rolling Stone: quando la storia si ripete. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 24 giugno 2020. Non sappiamo se anche la copertina della rivista Usa Rolling Stones, dedicata alle rivolte provocate dall’uccisione di George Floyd a da parte di un poliziotto razzista, sia una citazione esplicita della tela di Delacroix, probabilmente no, è solo una coincidenza. Una coincidenza impressionante che mostra però quanto certe rappresentazioni siano radicate nell’inconscio collettivo. «Subiremo il colera come abbiamo subito il governo», si lamentava in una lettera la scrittrice Zulma Carraud all’amico di sempre Honoré de Balzac. Era il giugno 1832, da quattro mesi a Parigi e a Marsiglia la malattia aveva ucciso migliaia di persone e ridotto alla fame le classi popolari, l’esecutivo monarchico non riesce a fermare il contagio, i medici sono sopraffatti da un morbo che non conoscono. All’inizio le autorità non avevano preso sul serio l’allarme, la malattia era apparsa in India e nessuno credeva che avrebbe raggiunto l’Europa. Alla fine si conteranno oltre centomila vittime. Sono soprattutto i quartieri poveri a venire colpiti con più ferocia, al punto che si sparge la voce che sia stato proprio il governo ad avvelenarli. Nella capitale scoppia una rivolta guidata da dissidenti orleanisti, repubblicani e pezzi di popolo. La città è in stato d’assedio ma durerà appena una 24 ore, repressa nel sangue dalle truppe del maresciallo Mouton che uccideranno quasi un migliaio di insorti. L’insurrezione è raccontata da Victor Hugo nei Miserabili attraverso gli occhi di Gavroche, il ragazzino di strada che muore nelle barricate della rue Chanvrerie, archetipo del monello parigino e simbolo dell’eroismo popolare. Aveva scavalcato una piccola trincea per aiutare i compagni e viene trafitto dai fucilieri dell’esercito. Come raccontò lo stesso Hugo, la commovente figura di Gavroche era stata ispirata da un celebre dipinto del pittore romantico Eugène Delacroix, La libertà guida il popolo. Una tela allegorica che rappresenta un’altra rivoluzione, quella del 1830, che pose fine al regno di Carlo X, scacciando per sempre la monarchia borbonica dal trono di Francia e inaugurando l’epoca di Luigi Filippo d’Orléans. Accanto alla Marianne seminuda che spinge i rivoltosi alla battaglia, un ragazzino con il tipico berretto dell’epoca, il bonnet o caschetto irlandese, impugna due pistole: rappresenta la gioventù e la sua voglia di vivere in libertà, il coraggio di mettere la testa fuori dai bassifondi ( i ghetti diremmo oggi) anche a costo della propria vita. Non sappiamo se anche la copertina della rivista Usa Rolling Stones, dedicata alle rivolte provocate dall’uccisione di George Floyd a da parte di un poliziotto razzista, sia una citazione esplicita della tela di Delacroix, probabilmente no, è solo una coincidenza. Una coincidenza impressionante che mostra però quanto certe rappresentazioni siano radicate nell’inconscio collettivo. La donna afroamericana che guida la manifestazione del movimento “black lives matter” è anch’essa affiancata da un ragazzino nemmeno adolescente, non impugna armi, solo un pugno teso verso il cielo. Ma dietro di loro c’è ancora il popolo e il suo eterno ritorno anche se in altre forme, sono i neri delle periferie d’oltreoceano che si ribellano contro il razzismo strisciante di un Paese che non ha fatto ancora i conti con le pagine più buie sua storia. E contro un presidente che fa di quella frattura un fondo di commercio per la sua propaganda. Oggi Gavroche è uscito dagli arrondissement di Parigi e abita anche a Minneapolis, a Chicago, a Los Angeles e Baltimora e in tutti i ghetti americani ( e non solo). E la sua vita «conta» come gridano i manifestanti che da settimane contestano lo Stato di polizia e la macchina giudiziaria statunitense. Le pandemie e i conflitti sociali sono un binomio indissolubile nella Storia, le prime creano sofferenza e rabbia con un climax ricorrente: la negligenza delle autorità, l’impotenza dei medici, l’esasperazione dei cittadini e la repressione del dissenso. Le seconde esplodono all’improvviso, alimentate dal caos e dalla paura, ma sostanziate dalle disuguaglianze sociali e politiche. A duecento anni di distanza la dialettica dominanti- dominati è sempre la stessa e in fondo il conflitto nato negli Statri Uniti non sorprende affatto. Stupisce però il legame simbolico, persino allegorico che lega rivolte lontane due secoli, come se la Storia volesse riproporsi uguale a se stessa a partire dalle sue rappresentazioni. Dopo l’insurrezione del 1832 ai francesi ci vollero 16 anni per cacciare la monarchia e instaurare la Seconda repubblica con la Rivoluzione del 1848. Ai neri d’America basterà molto meno.
Attenzione a buttare giù le statue, si diventa come i talebani. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 12 Giugno 2020. È difficile esprimere un giudizio definivo sul destino dei monumenti dedicati a personalità di altri tempi. Qualsiasi scelta si faccia sulla loro permanenza o rimozione (anche violenta) dalle piazze in cui danno riparo ai piccioni (una specie di volatile ingiustamente perseguitato) vi sarebbero decine di controprove a giustificazione di una scelta differente. Ho riflettuto, mentre scrivevo, che da noi a Rodolfo Graziani comandante dell’esercito di Salò è dedicato una sorta di Mausoleo ad Affile, suo paese natale. Graziani non è certo paragonabile ad un gentiluomo del Vecchio Sud come il generale Robert Lee che guidò le truppe della Confederazione durante la Guerra civile americana. Graziani, già nella sua esperienza coloniale, fu un massacratore di migliaia di etiopici inermi. Credo, però, che non avrebbe molto senso a tanti anni di distanza (Graziani morì nel 1955) prendersela con quell’edificio (probabilmente bisognava provvedere sul momento). Di monumenti ne sono caduti tanti, a testimonianza dell’odio represso della popolazione nei confronti del personaggio raffigurato. Dopo il 25 luglio del 1943, la popolazione di Roma si riversò nelle vie e strappò dalle loro basi i busti del Duce. In Germania non credo che esistano monumenti a Hitler e ai suoi gerarchi. Così nei Paesi ex Urss ed ex satelliti i monumenti a Stalin furono rimossi dopo il rapporto di Kruscev al XX Congresso del Pcus. Nella Piazza Rossa si conserva ancora la mummia di Lenin allo scopo forse di tenere occupato il posto quando verrà il turno di Putin. Nella Repubblica Ceca si è aperto un conflitto diplomatico con la Federazione russa per la rimozione della statua del generale dell’Armata Rossa che liberò Praga dall’occupazione tedesca. Sono sconvolto per la caccia becera e spietata ai monumenti, in corso, negli Usa, in nome di un atteggiamento ritenuto “politicamente corretto” in seguito ad una grande sbornia collettiva. Hanno imparato dai talebani o dai militanti dell’Isis a cancellare le icone della propria storia. In quel Paese è scoppiato il senso di colpa del razzismo, che, come abbiamo visto in questi ultimi giorni, sconvolge ancora l’anima profonda dell’America, soprattutto perché non è quello della curva dello stadio di una grande città, ma delle istituzione stesse. Non si sconfigge il razzismo attraverso la distruzione dell’immagine di chi non poteva – per quei tempi – non essere razzista, perché era cresciuto e vissuto in quella cultura. A suo tempo trovai singolare che una persona della cultura e della storia (anche famigliare) dell’onorevole Emanuele Fiano si fosse messo a fare la guerra non solo ai nostalgici o ai neofiti del fascismo, ma anche ai collezionisti, ai produttori di giocattoli (come ad esempio i soldatini raffiguranti i combattenti della seconda guerra mondiale) e a chi, appeso al muro di casa sua, intende conservare un ritratto di Mussolini, magari ereditato da chissà chi e riposto in un sottoscala. È un’iconoclastia insensata, come se a cancellare ogni immagine dei dittatori del secolo scorso ci si mettesse al sicuro dal ripetersi di esperienze come quelle tragicamente vissute dai nostri genitori e nonni. Quando, al contrario, sarebbe più urgente accorgersi del fascismo di nuovo conio che siede in Parlamento (e che non è costituito dai nostalgici di quello antico). Del resto, non si può chiedere a nessuno di anticipare l’evoluzione della cultura e del pensiero nella storia dell’umanità. Prendersela con Via col vento è da imbecilli, quando uno dei primi capolavori almeno sul piano tecnico del cinema del secolo scorso è La nascita di una nazione (del 1915) di David Griffith nel quale il Ku Kluk Klan era presentato come un sorta di esercito di liberazione. Addirittura, qualcuno vorrebbe prendersela con Cristoforo Colombo come se il grande navigatore che per caso “scoprì” l’America (e che morì povero) potesse immaginare che dopo di lui sarebbero arrivati i Conquistadores che, dopo aver bruciato le navi alle loro spalle, infettarono di un coronavirus di quei tempi intere popolazioni. E come poteva un difensore dell’Impero britannico come Winston Churchill essere contrario al colonialismo? Occorre usare prudenza quando si gioca con la propria storia. Perché se si volesse portare l’espiazione dei nostri errori fino in fondo, non ce la caveremmo demolendo le statue dei protagonisti di altre epoche storiche. Soprattutto noi europei dovremmo restituire alle nazioni e ai popoli dell’emisfero meridionale la nostra ricchezza e il nostro benessere. Come ha potuto fiorire nel Vecchio Continente un’idea tanto estesa e compiuta di tutela dei lavoratori dalla culla alla tomba? Questo faro di civiltà, da additare come esempio alle generazioni future; questo presidio che tutti i democratici sono tenuti a difendere – si è tornati a ripetere la solita solfa – contro la “barbarie del neoliberismo” avrà pure delle origini. Certamente. Lo stato sociale è frutto dello sviluppo economico, assai intenso e duraturo in Europa e soprattutto con radici lontane. Non è forse avvenuta nella vecchia Europa la rivoluzione industriale? A voler rispondere onestamente, infatti, bisognerebbe ricordare quanto la crescita economica sia dovuta all’enorme disponibilità di materie prime a prezzi stracciati e dunque a quel fenomeno di cui noi europei non possiamo andare molto fieri e che è noto col nome di colonialismo. Come scrisse Alexis de Tocqueville (La democrazia in America): «Il legislatore (la politica, ndr) somiglia all’uomo che traccia la sua rotta in mezzo al mare; può dirigere la nave che lo porta, ma non può cambiarne la struttura, né creare i venti, né impedire all’Oceano di sollevarsi sotto i suoi piedi».
Milano, manifestanti per Floyd vandalizzano sede di Fratelli d'Italia. In merito alla vicenda verrà richiesta un'interrogazione parlamentare diretta al ministro Lamorgese. Osnato di FdI: “Incredibile che ogni qual volta ci sia una manifestazione di centri sociali e manifestanti di sinistra, i controlli della Questura siano un colabrodo”. Federico Garau, Domenica 07/06/2020 su Il Giornale. Tanta amarezza da parte del deputato di Fratelli d'Italia, Marco Osnato, che ha denunciato un fatto gravissimo avvenuto quest'oggi nel corso del flash-mob organizzato a Milano da alcuni attivisti scesi in strada per protestare contro il razzismo e ricordare la morte di George Floyd, il 46enne afroamericano ucciso da un agente di polizia a Minneapolis (Stati Uniti). Durante la manifestazione, presentata come pacifica, sarebbe stata vandalizzata la sede di FdI sita in viale Melchiorre Gioia, presa di mira da alcuni partecipanti al corteo. Una vicenda, questa, che il partito di Giorgia Meloni intende adesso avere delle risposte. “È incredibile che ogni qual volta ci sia una manifestazione di centri sociali e manifestanti di sinistra, i controlli della Questura siano un colabrodo”, attacca Marco Osnato, come riportato da “AdnKronos”. In programma, adesso, una interrogazione parlamentare rivolta direttamente al ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, che dovrà fare chiarezza sull'atto vandalico avvenuto ai danni della sede di FdI. “Una sede politica in pieno centro non presidiata, segreteria parlamentare presa d'assalto a due passi dal ritrovo (abusivo o autorizzato non è dato saperlo) della manifestazione”, ribadisce il deputato Osnato. “Foto e video parlano chiaro e saranno inoltrate alle autorità competenti”, annuncia. Sul caso è intervenuto anche Riccardo Truppo, rappresentante del coordinamento cittadino di Fratelli d'Italia. “Non è dato sapere se il corteo sia stato autorizzato e se avesse un percorso prestabilito dalla Stazione Centrale fino in Melchiorre Gioia”, spiega Truppo. “Parliamo di quasi un chilometro di percorso. Difficile crederlo dato che le norme anti-assembramento vietano cortei in movimento”. La rabbia, in ogni caso, è tanta. E il pensiero va alla manifestazione organizzata dal centrodestra lo scorso 2 giugno, resa invece subito oggetto di polemiche. “Il 2 giugno il centrodestra ha organizzato una manifestazione in piazza Duomo con regole ferree che abbiamo fatto rispettare. Come mai oggi non c'erano gli stessi controlli?”, si domanda infatti con tono polemico il rappresentante di Fratelli d'Italia. Organizzata dall'associazione "Razzismo brutta storia", da sempre in prima linea per combattere ogni genere di discriminazione, e da "Abba Vive", la manifestazione si è svolta sotto la pioggia, in piazza Duca D'Aosta a Milano, ed ha coinvolto altre città italiane. Circa un migliaio di persone hanno preso parte al raduno, senza rispettare le norme di distanziamento. Ancora nessuna notizia in merito ai presunti responsabili dell'atto vandalico perpetrato ai danni della sede di Fratelli d'Italia. Gli accertamenti sono in corso.
Federico Garau per Il Giornale.it il 10 giugno 2020. L'episodio della morte di George Floyd, dopo la pantomima dell'inginocchiamento alla Camera dei deputati da parte di alcuni membri del Pd seguita al discorso di Laura Boldrini, continua a dar modo agli esponenti della sinistra di portare il tema "razzismo" come metro con cui valutare qualsiasi genere di problematica o presunta tale: l'ultima in ordine cronologico è la questione legata alla statua di Indro Montanelli ed ai giardini pubblici di via Palestro a lui dedicati. A parlare sono "I Sentinelli" (che si professano laici ed antifascisti, come si legge nello stesso simbolo che li rappresenta), i quali in un post sulla pagina Facebook chiedono al sindaco di Milano Giuseppe Sala di intervenire per cambiare la situazione in essere nell'area verde in questione. "A Milano ci sono un parco e una statua dedicati a Indro Montanelli, che fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l'aggressione del regime fascista all'Etiopia", attaccano gli attivisti. "Noi riteniamo che sia ora di dire basta a questa offesa alla città e ai suoi valori democratici e antirazzisti e richiamiamo l'intero consiglio a valutare l'ipotesi di rimozione della statua, per intitolare i Giardini Pubblici a qualcuno che sia più degno di rappresentare la storia e la memoria della nostra città Medaglia d'Oro della Resistenza", proseguono nel post. "Dopo la barbara uccisione di George Floyd a Minneapolis le proteste sorte spontaneamente in ogni città con milioni di persone in piazza e l'abbattimento a Bristol della statua in bronzo dedicata al mercante e commerciante di schiavi africani Edward Colston da parte dei manifestanti antirazzisti di Black Lives Matter, richiama con forza ogni amministrazione comunale a ripensare ai simboli del proprio territorio e a quello che rappresentano". Una proposta che ha ovviamente trovato terreno fertile tra i membri della maggioranza che sostiene il primo cittadino di Milano. "Credo che la richiesta dei Sentinelli vada sicuramente discussa in consiglio. Quando ci viene presentata una proposta noi siamo sempre pronti ad accoglierla e discuterne, soprattutto quando tocca i temi dei diritti e della dignità delle persone", dice il consigliere comunale nonchè presidente della Commissione pari opportunità Diana De Marchi (Pd) riferendosi alla questione Montanelli, come riportato da MiaNews. "Le motivazioni della richiesta di rimuovere la statua le riconosco come valide perché quella è stata una brutta pagina della nostra storia. Vanno indagate le motivazioni che hanno portato all'intitolazione e valutare se siano ancora valide oggi. Da parte mia, farò in modo che se ne discuta". Anche il consigliere Dem Alessandro Giungi ha dato la sua "benedizione" all'iniziativa in un comunicato. "La questione messa in luce dai Sentinelli merita di essere dibattuta in un approfondito dibattito in consiglio comunale. Non è un tema semplice, ma come consiglieri dobbiamo farcene carico. Su questa scia ho depositato nei giorni scorsi un ordine del giorno per intitolare i giardini di via Ardissone, da poco riqualificati, a Rosa Parks", rivela il Dem con orgoglio. "La richiesta è arrivata dai ragazzi della scuola media Puecher che tramite un sondaggio online effettuato durante il periodo di lockdown hanno avanzato questa proposta che si sposa con il ragionamento dei Sentinelli e rilancia a Milano l'idea di dover dare rilevanza, anche con queste iniziative, al tema dei diritti. Ricordiamoci anche che sono ancora poche le intitolazioni dedicate alle donne in città", si legge ancora nella nota.
Indro Montanelli, Sentinelli e Arci vogliono rimuovere la statua a Milano: "Bimba eritrea per schiava sessuale". Salvini: "Che vergogna la sinistra". Libero Quotidiano il 10 giugno 2020. Giù le mani da Indro Montanelli. A Milano la sinistra, per mano di Sentinelli e Arci, chiedono ufficialmente al sindaco Beppe Sala (del Pd) di rimuovere la statua del grande giornalista fondatore del Giornale e de La Voce, che si trova nell'omonimo parco della città in via Palestro nel quartiere di Porta Venezia, e di dedicare i giardini "a qualcuno che sia più degno di rappresentare la storia e la memoria della nostra città Medaglia d'Oro della Resistenza". La richiesta, pubblicata sulla pagina Facebook del gruppo, arriva dopo le proteste e i cortei, che si sono tenuti anche a Milano, per l'uccisione di George Floyd a Minneapolis. Secondo I Sentinelli il giornalista "fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di 12 anni perché gli facesse da schiava sessuale. Riteniamo che sia ora di dire basta a questa offesa alla città e ai suoi valori democratici e antirazzisti". Nel centrodestra reazioni indignate. "Che vergogna la sinistra, viva la libertà", è il laconico commento di Matteo Salvini, leader della Lega.
Giampiero Mughini per Dagospia il 10 giugno 2020. Caro Dago, non è certo la prima volta che il presente si mette a fare a cazzotti contro le tracce del passato, com’è successo adesso in Inghilterra dove la statua che ricorda un grande imprenditore inglese del Settecento che si era arricchito con il mercato degli schiavi è stata lanciata nelle acque di un fiume, e dove una statua in onore di Winston Churchill è stata imbrattata da un qualche cretino del terzo millennio che ha dato a Churchill del razzista. Per passare dalla farsa alle cose serie, in Ungheria hanno rimosso da non molto una statua che onorava il maresciallo sovietico Ivan Konev che era stato alla testa delle truppe russe che nel 1945 avevano spodestato i tedeschi da Praga, solo che era lo stesso maresciallo sovietico alla testa dei carri armati che nel 1956 erano entrati a Budapest senza che nessun ungherese li avesse invitati. Non solo: in un’altra zona di Praga le autorità cittadine hanno deciso di erigere una statua in memoria del controverso generale russo Vlasov, una delle figure più tragiche della Seconda guerra mondiale. Uno dei più valorosi e intelligenti comandanti dell’Armata Rossa, venne preso prigioniero dai tedeschi nella primavera del 1942. Convinto com’era che i tedeschi avrebbero vinto la guerra e altrettanto convinto che Stalin fosse un criminale politico, Vlasov valutò che gli fosse possibile costituire uno spezzone di esercito russo democratico che combattesse a fianco dei tedeschi e che a guerra finita fosse protagonista della ricostruzione dell’Urss. Ambizione, ingenuità, una scelta disperata la sua? Un po’ di tutto questo e anche se alcuni scrittori e studiosi, Alexander Solgenitsin su tutti scrivono con rispetto di Vlasov, che alla fine della guerra tentò di darsi prigioniero agli americani. Quelli lo rifiutarono e lui cadde nelle mani dei russi, che lo impiccarono nell’agosto 1946s. E’ un fatto che nel maggio 1945 gli uomini di Vlasov furono in prima linea nel sostenere l’insurrezione dei praghesi contro i tedeschi. 300 di loro caddero in combattimento. I praghesi di oggi hanno voluto ricordare l’impegno di Vlasov e dei loro uomini con una statua che ne esalta la memoria. Ci sono statue e statue. Alessandro Robecchi sul “Fatto” di oggi ha perfettamente ragione che il mausoleo eretto ad Affile nel 2012 in onore del maresciallo Graziani è una vergogna e basta, data la truce fisionomia del personaggio. Laddove avevano fatto benissimo l’allora sindaco di Roma Francesco Rutelli e Gianni Borgna a tentare di intestare una via una ventina e passa di anni fa a Giuseppe Bottai, un fascista di cui l’Italia non si deve vergognare, uno che dopo aver votata o contro Mussolini nella seduta del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, andò a combattere i tedeschi nella Legione straniera. Fortemente contrastati, Rutelli e Borgna decisero di no. Peccato, sarebbe stato un atto di lealtà verso la complessità di ogni comparto della storia umana. E a proposito di tracce del passato, qualche semianalfabeta che pur rivestiva cariche pubbliche ha di recente pronunziato parole minacciose contro le tracce del regime fascista nell’architettura degli anni Trenta e Quaranta, laddove la buona parte di quell’architettura figura tra le cose più belle dell’intera architettura novecentesca. A cominciare dal meraviglioso quartiere dell’Eur o dalla Sala delle Armi di Luigi Moretti di cui ancora aspettiamo il restauro completo. Alla fine della guerra Moretti venne arrestato e restò in carcere per un mese, e per fortuna che i suoi capolavori siano ancora intatti nello splendore razionalista di cui costituiscono una campionatura eccezionale. Per la recente puntata di una trasmissione Rai in cui la mia amica disabile Fiamma Satta viene condotta ogni volta in carrozzella in un posto che ne vale la pena, io e lei abbiamo circumnavigato assieme una scuola pubblica che Moretti progettò alla fine degli anni Trenta in ogni suo stupefacente dettaglio. Mirabilie che fanno da patrimonio dell’umanità. Altro che “tracce di un passato da dimenticare”.
Giù le mani da Montanelli o cancellate pure Maometto. Ricordate quando i talebani, in Afghanistan, distrussero a colpi di dinamite le effigi storiche - compresi monumenti millenari - contrarie al loro credo via via che conquistarono fette di terreno? Alessandro Sallusti, Giovedì 11/06/2020 su Il Giornale. Ricordate quando i talebani, in Afghanistan, distrussero a colpi di dinamite le effigi storiche - compresi monumenti millenari - contrarie al loro credo via via che conquistarono fette di terreno? Io lo ricordo bene, e ricordo lo sdegno unanime del mondo libero per quel sacrilegio: la storia e la memoria non si toccano, barbari che non siete altro. Bene, oggi i barbari siamo noi o, meglio, i barbari sono tra noi. Sull'onda dello sdegno per il ragazzo di colore ucciso dal poliziotto bianco, in Occidente è partita la caccia a distruggere o rimuovere tutto ciò che rimanda a un passato di soprusi e violenze su minoranze e fasce deboli, re, imperatori o eroi che siano. Siccome la mamma dei cretini è sempre incinta - e chi non vive e pensa di suo è costretto a emulare - ieri a Milano un gruppo di squinternati appoggiati da esponenti del Pd locale (ti pareva) ha annunciato un'iniziativa per fare togliere dai Giardini pubblici di via Palestro la statua che rappresenta e ricorda Indro Montanelli, in quanto convinto partecipante alla guerra coloniale italiana in Abissinia del 1935, durante la quale - aggravante - a 23 anni si fidanzò con un'indigena di soli 12 anni (episodio da lui raccontato - conoscendolo - con un probabile eccesso di fantasia e licenza letteraria). Applicare le regole e il sentire di oggi a fatti successi cent'anni fa - come ben meglio di me spiega oggi su queste pagine Giordano Bruno Guerri - è un non senso ridicolo (a quel tempo in Abissinia le ragazze a tredici anni erano già madri). Ma se proprio vogliamo fare piazza pulita dei «pedofili» del passato, ho un consiglio da dare al comitato anti-Montanelli e al Pd milanese. Cari signori, procediamo per via gerarchica. E in cima alla lista metterei Maometto, il fondatore dell'islam, che, superati i quarant'anni, accettò in dono come sposa - in cambio della sua benevolenza nei confronti della sua tribù - Aisha, una bimba di otto anni. So che non esistono monumenti o effigi di Maometto da rimuovere perché quella religione li vieta, ma se vogliamo mettere al bando i simboli di ciò che oggi è (giustamente) considerato impuro, beh l'islam non dovrebbe avere diritto di cittadinanza nella civile Milano. Io penso che sarebbe un'operazione demenziale contro la quale mi batterei. Quindi, per favore, giù le mani da Indro Montanelli, perché altrimenti ognuno potrebbe sentirsi libero di alzarle su chi gli pare.
Il dibattito sul monumento a Milano. Montanelli e la sposa bambina africana: “perché quella statua va tolta”. Redazione su Il Riformista l'11 Giugno 2020. Si abbattono statue in tutto il mondo. Schiavisti, colonialisti, imperialisti. È uno degli effetti della morte di George Floyd, il 46enne afroamericano ucciso in un violento intervento della polizia a Minneapolis, nel pomeriggio del 25 maggio. Le statue di Re Leopoldo II del Belgio, di Winston Churchill, di Cristoforo Colombo sono state vandalizzate o abbattute. Si è riaperto allora il dibattito sulla statua di Indro Montanelli nei giardini omonimi a Milano, in zona Porta Venezia. L’organizzazione antifascista I Sentinelli di Milano hanno chiesto infatti al sindaco Giuseppe Sala e al Consiglio Comunale di rimuovere il monumento al giornalista in quanto “fino alla fine dei suoi giorni Montanelli – Soldato in Etiopia, negli anni Trenta – ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale”. Non è un dibattito nuovo. Già nel 2019, in occasione delle manifestazioni per la Festa della Donna dell’organizzazione femminista Nonunadimeno, la statua era stata imbrattata con della vernice rosa. La storia risale al 1935, quando Montanelli, 26enne fascista, reporter, comandante di compagnia del XX Battaglione Eritreo, comprò dal padre e sposò una 12enne abissina di nome Destà. La vicenda venne raccontata nel libro XX Battaglione Eritreo e dallo stesso giornalista, anni dopo, nel 1969, durante la trasmissione L’ora della verità di Gianni Bisiach. In quell’occasione, però, il giornalista trovò Elvira Banotti a contestare argomentazioni e aneddoti. “In Europa si direbbe che lei ha violentato una bambina di 12 anni, quali differenze crede che esistano di tipo biologico o psicologico in una bambina africana?“, incalzò Banotti lasciando in alcuni tratti senza parole Montanelli. Banotti era una giornalista e scrittrice italiana nata ad Asmara. Negli anni espresse anche lei posizioni controverse, come per esempio contro “il totalitarismo gay”. Difese Silvio Berlusconi nel dibattito sul processo Ruby. Resta comunque negli archivi e nella memoria di molti quel botta e risposta, con un Montanelli sconcertato, o quantomeno spiazzato, dalle parole della femminista. Il giornalista, in Africa, aveva contratto un rapporto di madamato, ovvero una relazione more uxorio in territorio coloniale. E per questo venne accusato da Banotti; e per questo la sua statua è stata imbrattata dalle femministe con un secchio di vernice rosa. A favore della proposta dei Sentinelli, di rimuovere la statua, anche l’Arci: “Nella Milano Medaglia d’oro della Resistenza questa è un’offesa alla città e ai suoi valori democratici”. Contraria su tutta la linea la destra. In primis la Lega. “Giù le mani dal grande Indro Montanelli! Che vergogna la sinistra, viva la libertà”, ha dichiarato il leader Matteo Salvini. “Il fatto che il Partito Democratico ipotizzi di discutere l’idiozia lanciata dai novelli stalinisti di voler mettere le mani sulla statua a ricordo di Montanelli, un grande milanese e italiano, dimostra che il Dna della sinistra caviale e champagne è sempre quello della cancellazione della storia scomoda“, ha commentato il capogruppo della Lega al Comune di Milano e parlamentare, Alessandro Morelli. Riccardo De Corato, assessore alla Sicurezza della Regione Lombardia ed esponente di Fratelli d’Italia, si spinge fino a una fantomatica “Floyd mania“: “È una vergogna, un attacco alla memoria di uno dei più grandi giornalisti italiani. La Floyd mania sta offuscando le menti anche di qualche consigliere comunale”. Anche tra i consiglieri comunali del Pd, in verità, la proposta ha destato perplessità. Il capogruppo del partito, Filippo Barberis, ha spiegato di essere “molto lontano culturalmente da questi tentativi di moralizzazione della storia e della memoria che trovo sbagliati e pericolosi”. A difesa del giornalista e della sua memoria anche Beppe Severgnini, allievo di Montanelli e firma del Corriere della Sera: “Montanelli poi capì l’ingiustizia e l’anacronismo di quel legame; ma non negò, né rimosse, la vicenda. La giovanissima Destà andò poi in sposa a un attendente eritreo, e con lui fece tre figli: il primo lo chiamarono Indro”. Per Severgnini “se un episodio isolato fosse sufficiente per squalificare una vita, non resterebbe in piedi una sola statua. Solo quelle dei santi, e neppure tutte”.
Quaranten(n)a - Scusaci, Destà. E scusateci tutte. Valerio Giacoia il 23 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Cara Fatima Destà, come una triste ombra cinese sembra spuntare fuori da una quinta nascosta quel tuo bel viso. Adesso che il ginocchio di un razzista ha tolto il fiato per sempre a George Floyd, scorgiamo tra le proteste e i fuochi il contorno di quel visetto salire in mezzo al fumo. Che cosa avessi dentro quando a 12 anni ti vendettero al sottotenente Indro Montanelli, partito da Napoli per raggiungere l’Africa orientale, dove l’aggressione all’Etiopia regalò la “medaglia” di imperatore al re Vittorio Emanuele III, nessuno se lo chiede però. Non eri un animalino docile, come ti dipingeva quel “marito” soldato in una orribile intervista a Enzo Biagi: due amici annoiati, come seduti al tavolino di un vecchio caffè, parlando di rozze conquiste tra smorfie e quesiti assolutori. No, Destà, perché tu eri una bambina. I tuoi non erano i capelli di una capra, come egli li descrisse, non puzzavano di pecora. Erano capelli di una bambina. E poi tu, innocente, scegliesti pure quel nome, Indro, per tuo figlio. Senza sapere che a quell’italiano non importò davvero un granché. Frettoloso con te, e attento nel fare il suo dovere per il Duce, sottotenente di un esercito che laggiù sganciò micidiali bombe chimiche sulla popolazione inerme, come contro quegli 800 tra donne, bambini, padri, nonni, massacrati nella grotta di Debra Brehan tra il 9 e l’11 aprile del ’39 che chiedono ancora giustizia. Altro che “io vado in Abissina per aver letto i romanzi di Kipling”. Il dovere del sottotenente comprendeva il soggiacere con te ogni quindici giorni, quando portavi silenziosa la biancheria pulita, già torturata e infibulata com’eri, già derubata? Il suo dovere comprendeva di cederti poi al generale, prima che al suo fidato sciumbasci, signor graduato indigeno delle truppe coloniali Gabér Hischial? Come si fa con una sedia, con un panino a scuola, come una sigaretta mezza fumata da spartire? Ti dobbiamo delle scuse, Destà. E con te le dobbiamo alle bambine che ancora nel mondo vanno in spose agli orchi e delle quali, come toccò a te, a nessuno importa. Milioni di Destà, milioni di visetti innocenti ai quali viene negato, come fu per te, il diritto all’infanzia. Un anno fa l’Unicef calcolava 65 milioni di piccole spose fantasma costrette al matrimonio prima dei 18 anni, 12 milioni di ragazzine ogni anno. Delle tue disperate succeditrici, Destà, il 40 per cento vive in Asia Meridionale, anche se il numero dei matrimoni combinati cresce orribilmente proprio nel tuo continente, nell’Africa Subsahariana: una su tre. Vendute, sfruttate, segregate, derubate, quando in Occidente alla stessa età si sceglie il diario più carino per andare a scuola, quale sport praticare, si legge Harry Potter. Matrimoni infernali con persone che quelle bambine nemmeno conoscono, figli che arrivano in giovanissima età, vite schiacciate sotto ai tacchi come quelle di una formica. Sai, ancora impressiona la storia di Aisha, la bambina somala che a 13 anni, uno in più del tuo, fu costretta a sposare un uomo di trenta più grande dal quale ebbe una figlia, Rayan, e che soltanto dopo un tempo lunghissimo riuscì a liberarsi. “Avevo provato a scappare molte volte – poi raccontò –, ma ogni volta mio padre mi riportava da lui, non avevo scelta”. Gravidanze in adolescenza (dai 15 ai 19 anni il parto per queste ragazzine è ancora la principale causa di morte), violenze, riduzione in schiavitù, pestaggi. Un orrore a cui l’Italia del “tuo” sottotenente Montanelli non è immune, cara Destà. Giovanissime immigrate di seconda generazione, tra 10 e i 17 anni. Italiane dunque, nate e cresciute qui. I familiari le fanno sparire all’improvviso, fingono di organizzare una visita a un parente ammalato. Una volta a destinazione, la trappola: documenti occultati, biglietto di ritorno distrutto, prigioniere per sempre. Ribellarsi significa rischiare la vita. Come toccò nel 2006 a Hina Saleem, la ragazzina di Brescia che trovò la forza di dire di no, e che fu uccisa e poi sepolta nel giardino di casa. Ti dobbiamo delle scuse, Destà. Le dobbiamo anche a quei 25milioni di spose bambine dell’India, moltissime delle quali hanno meno di 10 anni. Dobbiamo chiedere scusa a quelle bambine che vengono promesse fin da quando hanno 6 mesi di vita. Dobbiamo chiedere scusa alle vittime del misyar, il matrimonio del viaggiatore: l’orco è un uomo che fa il turista, è ricco, sposa le bambine per il tempo della vacanza e quando torna al suo paese di origine è sciolto da ogni vincolo, da qualsiasi obbligo, anche se la ragazza dovesse aspettare un figlio, salvo quei seimila dollari imposti per decreto come in Egitto (l’Egitto che ora si prende anche il lusso di beffare i genitori di Giulio Regeni, inviandogli oggetti che non gli appartenevano) se la differenza d’età con la “moglie” supera i 25 anni. Dobbiamo delle scuse anche alle bambine dello Yemen, vendute per pochi denari sotto le bombe. Cara Fatima Destà, poco è cambiato da allora. Certo non cambiano le menzogne. E siccome tu eri una di noi, sei una di noi, come da una vecchia fotografia scoperta in soffitta adesso sarà obbligatorio soffiare via la polvere acre della menzogna familiare italiana. Restituendoti un po’ di verità e di pace.
Indro Montanelli, pedofilo e razzista. Mario Furlan il 12 giugno 2020 su Il Giornale. Indro Montanelli era pedofilo e razzista. E’ quanto sostengono alcuni gruppi antirazzisti e femministi, che a Milano vorrebbero rimuovere la statua del grande giornalista dai giardini pubblici a lui intitolati. E che vorrebbero, naturalmente, intitolare i giardini a qualcun altro. Più degno di lui. La colpa di Montanelli? Arrivato all’Asmara nel 1935, reporter ventiseienne, viene nominato comandante di compagnia nel XX Battaglione Eritreo, formato a ascari, mercenari locali. Era tradizione che gli italiani trasferiti laggiù, a migliaia di chilometri da casa, si prendessero come compagna una donna africana. Al giovane Indro venne proposta una minorenne locale, e lui non si sottrasse. Si vollero bene. Ma per fortuna Montanelli capì che quel legame era sbagliato. Quando la relazione terminò, la ragazza sposò un attendente eritreo. Con lui fece tre figli, il primo lo chiamarono Indro. Eccola qui, la grande colpa del grande scrittore. Ecco perché era razzista: perché si era messo insieme ad una ragazza di colore (dovrebbe semmai essere il contrario: un bianco che va con una nera dimostra che il colore della pelle non conta). Ed ecco perché era pedofilo: perché lei non era ancora maggiorenne. Che dire, allora, di Maometto, che ebbe la bellezza di 13 mogli, tra cui una schiava copta (pure schiavista, oltre a razzista!), e addirittura 16 concubine? La sua moglie più importante, Aisha, venne sposata formalmente quando aveva 6 anni. E il rapporto venne consumato quando ne aveva 9. Oggi ci scandalizziamo per certe cose. Aggiungo: per fortuna. Un maggiorenne che fa sesso con una minorenne finisce in gattabuia; se la ragazzina è una bambina, buttano via la chiave. Ed è giusto che sia così. Oggi. Ma allora le tradizioni, la cultura, la mentalità erano completamente diverse. Si viveva meno, si moriva prima e si doveva prolificare prima. A 13 anni Gandhi sposò una tredicenne ed ebbero cinque figli. Sbagliato, sbagliatissimo. Come i matrimoni combinati. Ma allora era la regola. E se provavi a ribellarti venivi condannato, come eretico e nemico dei valori familiari. Ci sono istanze giuste, giustissime. Che però, portate all’estremo, diventano ridicole. Da quando, negli Usa e in tutto il mondo, il movimento Black lives matter ha ripreso vigore dopo la tragica uccisione di George Floyd, la piaga del razzismo è tornata all’ordine del giorno. Era ora, visto anche che Trump si è permesso di mettere sullo stesso piano i suprematisti bianchi e gli antirazzisti. Dopo i disordini di Charlotteville nell’agosto 2017, in cui una giovane antifascista venne uccisa da un estremista di destra, il Presidente disse qualcosa che fa ancora accapponare la pelle: “There were very fine people on both sides”, “C’erano ottime persone da entrambe le parti”. Come dire che anche gli scagnozzi del Ku Klux Klan sono ottime persone. Ben venga il rigurgito antirazzista. Ma evitando che, oltre al razzismo, prenda di mira anche il buon senso. E’ ridicolo abbattere le statue di Cristoforo Colombo, colpevole di avere scoperto il Nuovo Mondo, e quindi di avere dato il via al genocidio degli indiani. Così come è ridicolo voler tirare giù i monumenti a Winston Churchill, l’eroe della lotta a Hitler, perché credeva che i bianchi fossero più intelligenti dei neri e degli orientali. Idiozie, che però nell’epoca dell’imperialismo europeo andavano per la maggiore. E c’è chi, in nome dell’antirazzismo, vorrebbe mettere al bando Shakespeare. Perché antisemita nel Mercante di Venezia. Leonardo da Vinci, animalista e vegano ante litteram, scrisse: “Fin dalla più tenera età, ho rifiutato di mangiare carne. E verrà il giorno in cui gli uomini guarderanno all’uccisione degli animali così come oggi si guarda all’uccisione degli uomini”. Se il tempo dimostrerà che aveva ragione, tra uno o due secoli, chissà, i posteri inorridiranno al pensiero che ancora nel ventunesimo secolo si mangiavano gli animali. Guardando i video-choc degli allevamenti intensivi, in cui mucche, maiali e pulcini sono (mal)trattati come oggetti, resteranno a bocca aperta. E abbatteranno le statue di tutti quanti, prima di loro, non sono stati vegetariani: razzisti, anzi specisti, perché teorizzavano la superiorità di una specie sull’altra. E perché giustificavano, in questo modo, le peggiori violenze su creature inermi. Quando, nel lontano 1983, sostenni l’esame di Maturità, scelsi il tema dal titolo “Cosa significa essere figli del proprio tempo”. Spiegai che vuol dire ritrovarsi nelle idee e nelle usanze, giuste o sbagliate, della propria epoca e del luogo in cui si abita. Ci vuole coraggio a non essere figli del proprio tempo: si finisce incompresi. O emarginati. O incarcerati. O uccisi. La cultura cambia, la morale cambia, e ciò che allora era giusto oggi è sbagliato. E viceversa. L’antirazzismo è un dovere morale. Il politically correct è, invece, moralismo. Ossia il tentativo di impancarsi ad eticamente superiori. E’ facile, e gratificante: io mi sento moralmente superiore a te, perché tu hai fatto questo e quest’altro di sbagliato. Visto che siamo uomini, quindi peccatori, trovare qualcosa di sbagliato in qualcuno è facilissimo. E di questo passo dovremmo abbattere tutte le statue, e cambiare in nome a tutte le strade. Non si salverebbero nemmeno i santi: anche loro avevano difetti. Come disse Andreotti, uno che di peccati se ne intendeva, “ distinguerei le persone morali dai moralisti. Perché molti di coloro che parlano di etica, a forza di discuterne, non hanno poi il tempo di praticarla.”
Statua di Montanelli a Milano, Di Maio: "Nessuno ha il diritto di rimuoverla". Sala: "Contrario a toglierla, tutti facciamo errori". Pubblicato venerdì, 12 giugno 2020 da La Repubblica.it. "A distanza di oltre 40 anni" - dall'agguato terroristico a Indro Montanelli - nessuno può "arrogarsi il diritto di rimuovere la sua statua, di cancellare la memoria di quell'agguato. Un agguato contro un uomo e contro la libertà che quell'uomo stesso, con grande dignità, ha sempre rappresentato. Mi auguro che il Comune di Milano quella libertà voglia difenderla. Pensiamo al futuro, costruiamo nel presente. Prendiamo lezione dal passato e guardiamo avanti, con fiducia e determinazione. L'Italia è anche questo e dobbiamo esserne orgogliosi". Con un lungo post su Facebook il ministro degli Esteri Luigi Di Maio interviene nelle polemiche sulla richiesta da parte dell'associazione I Sentinelli di Milano di rimuovere la statua dedicata al giornalista nei giardini vicino Porta Venezia, cambiando anche l'intitolazione dei giardini stessi. Una richiesta a cui risponde anche il sindaco di Milano Beppe Sala dicendo di non essere favorevole. Tutto è nato mercoledì, quando l'associazione antirazzista e per i diritti I Sentinelli di Milano scrive una lettera pubblica al sindaco e al Consiglio comunale: "A Milano ci sono un parco e una statua dedicati a Indro Montanelli, che fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l'aggressione del regime fascista all'Etiopia. Noi riteniamo che sia ora di dire basta a questa offesa alla città e ai suoi valori democratici e antirazzisti e richiamiamo l'intero consiglio a valutare l'ipotesi di rimozione della statua, per intitolare i Giardini Pubblici a qualcuno che sia più degno di rappresentare la storia e la memoria della nostra città Medaglia d'Oro della Resistenza". Di Maio scrive su Facebook, accompagnando le sue parole con una foto di Montanelli subito dopo la gambizzazione: "Il 2 giugno 1977, più di quarant'anni fa, Indro Montanelli prese a camminare lungo la cancellata dei giardini pubblici di Milano. Gli si avvicinarono due giovani. Uno dei due estrasse dal giubbotto una pistola con silenziatore e sparò otto colpi. Quattro proiettili andarono a segno: tre attraversarono la coscia destra e l'altro trapassò un gluteo e si fermò contro il femore sinistro. Montanelli non cadde subito. Il suo pensiero, anche in quegli istanti, fu quello di restare in piedi, aggrappandosi a una inferriata che aveva accanto. In piedi, con la schiena dritta, com'è sempre stato. Era stato colpito il più grande giornalista italiano di allora, oggetto in quel periodo di una campagna d'odio senza precedenti. Le Brigate Rosse rivendicarono l'attacco. Oggi, in quegli stessi giardini pubblici di Milano, c'è una statua che ricorda quel momento. Ritrae Montanelli con la sua Lettera 22 sulle ginocchia. E in passato, è vero, lui stesso criticò quell'opera, sostenendo che i "monumenti sono fatti per essere abbattuti". Idee e valori di un giornalista attento e scrupoloso, ma soprattutto di un uomo libero. Anche questo era uno dei tratti che lo distingueva da tutti gli altri. Montanelli vantava un'onesta intellettuale che gli permetteva di soprassedere alle logiche dei personalismi e della vanità. Lavorava per raccontare i fatti. Scriveva per la verità. Non aveva bisogno di elogi, né di onorificenze". "Non sono favorevole alla rimozione della statua di Montanelli: penso che in tutte le nostre vite ci siano errori, e quello di Montanelli lo è stato. Ma Milano riconosce le sue qualità, che sono indiscutibili". Nel dibattito rovente sulla richiesta di rimuovere la statua di Indro Montanelli dai giardini a lui dedicati (e quindi di cambiare anche l'intitolazione) è intervenuto anche il sindaco di Milano Beppe Sala. Con un parere - espresso in un'intervista al quotidiano Il Giorno - che, per quanto non vincolante in quello che al momento resta un dibattito accademico, comunque pesa. "Non mi piacevano tutte le sue posizioni, a volte eccedeva in protagonismo. Ma aveva una penna straordinaria", ha spiegato il sindaco. Nel post I Sentinelli collegano questa richiesta alla cronaca: "Dopo la barbara uccisione di George Floyd a Minneapolis le proteste sorte spontaneamente in ogni città con milioni di persone in piazza e l'abbattimento a Bristol della statua in bronzo dedicata al mercante e commerciante di schiavi africani Edward Colston da parte dei manifestanti antirazzisti di Black Lives Matter richiamiamo con forza ogni amministrazione comunale a ripensare ai simboli del proprio territorio e a quello che rappresentano". Le reazioni, in due giorni, sono state tantissime. Politici, intellettuali, molti contrari all'ipotesi con toni più o meno accesi (tra i più accesi quelli del segretario della Lega Matteo Salvini) e con posizioni diverse nel centrosinistra, anche se proprio il capogruppo del Pd a Milano Filippo Barberis ha già dato il suo parere negativo. Ora arriva quello del sindaco Sala: ma a questo punto bisognerà vedere se la proposta approderà comunque in Consiglio comunale. E la Fondazione Montanelli Bassi di Fucecchio (Firenze) ha scritto al sindaco Sala per dire che "anche il solo ipotizzare la rimozione della statua di Indro Montanelli sarebbe un'offesa alla memoria del più popolare e apprezzato giornalista italiano del Novecento". La missiva è firmata dal presidente della Fondazione, Alberto Malvolti: "Le testimonianze lasciate da Montanelli e il contesto storico in cui quei fatti avvennero - prosegue Malvolti - dimostrano che non ci fu alcuna violenza né tanto meno ci furono atteggiamenti razzisti da parte di Indro, che accettò quel "matrimonio" proposto dalla popolazione locale e celebrato pubblicamente secondo gli usi e i costumi abissini".
Lorenzo Mottola per ''Libero Quotidiano'' il 12 giugno 2020. Nel 1935, l'allora giovane Indro Montanelli - era nato a Fucecchio (un paesotto di 20mila abitanti a metà strada tra Firenze e Pisa) il 22 aprile 1909 - già laureato in Legge e già giornalista di qualche peso, con articoli pubblicati da Il Frontespizio di Piero Bargellini, l' Universale di Berto Ricci, il Popolo d' Italia di Mussolini e per il quotidiano francese Paris-Soir, decide di partecipare da volontario all' impresa coloniale fascista in Etiopia. Il 27 giugno viene incorporato all' Asmara nel XX Battaglione eritreo (sarà questo anche il titolo del suo primo romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1936 e recensito entusiasticamente sul Corriere della Sera da Ugo Ojetti; sarà poi riedito nel 2010 con le lettere inedite ai genitori dal fronte) , come comandante di un plotone di ascari. I quali, seguendo una consolidata tradizione, lo invitano, pena la perdita di prestigio ai loro occhi, a prendere per moglie una ragazzina di 12 anni. Indro ne parlerà più volte apertamente nel corso della sua vita, anche in una celebre intervista televisiva del 1972, fino a una "Stanza" del 2000 sul Corriere, poco prima di morire. Sempre rivendicando il proprio operato e sempre uscendone a testa alta. Proprio per questo non si comprendono le polemiche di questi giorni e le richieste al sindaco di Milano Giuseppe Sala di rimuoverne la statua dall' omonimo parco, così come non si spiegava l'atto vandalico che questa aveva subito l' anno scorso venendo imbrattata di vernice rosa a opera delle femministe. Del resto, la parola definitiva sullo "scandalo" eritreo l' aveva pronunciata nel giugno 2019 Angelo Del Boca, il maggiore storico del colonialismo italiano, che proprio con Montanelli si era reso protagonista di una lunga diatriba sull' uso dei gas nella guerra d' Etiopia. Il grande giornalista lo negava, mentre il grande storico cercava di dimostrarne l' impiego sistematico. Alla fine, la scoperta di documenti ufficiali aveva chiuso la questione nel 1996. Questo per dire come l' ex partigiano Del Boca non aveva certo remore nel contraddire e attaccare Montanelli. Ebbene, l' autore di volumi fondamentali come Gli Italiani in Africa Orientale (Laterza), I gas di Mussolini (Editori Riuniti), La nostra Africa (Neri Pozza) e Italiani, brava gente? (Neri Pozza) e delle principali biografie del Negus Hailé Selassié e di Gheddafi, intervistato per il Tg2 Dossier dedicato a Montanelli da Miska Ruggeri, era stato chiarissimo: . Sulla stessa lunghezza d' onda un altro storico, Giordano Bruno Guerri, secondo cui: «Non possiamo giudicare la storia con gli occhi di oggi, perché altrimenti non capiamo nulla del passato e lo distorciamo». Guerri allarga il discorso anche a chi tira in ballo, per le stesse ragioni, le figure di Winston Churchill e di Cristoforo Colombo, o un film come "Via col vento". «Lo schiavismo», ricorda lo scrittore, «è certamente da condannare, ma fino al Seicento tutti lo accettavano». Quanto a Montanelli «è chiaro che lui ha fatto una cosa deprecabile», acquistando una bambina eritrea. «La pedofilia e, tanto meno l' acquisto di qualcuno, è assolutamente inaccettabile. Però non si può giudicare un protagonista della storia da un solo episodio. Montanelli ha fatto anche altro, è stato uno dei più grandi giornalisti italiani del '900, gambizzato dalle Brigate Rosse». «Come lui», prosegue lo storico toscano, «anche altri intellettuali, ad esempio Pasolini, hanno delle macchie. Ma se dovessimo abolire le personalità storiche che hanno avuto delle macchie nella loro vita, non rimarrebbe quasi più nessuno».
Gad Lerner su Indro Montanelli: "Oggetto di venerazione sproporzionata rispetto alla sua biografia". Libero Quotidiano l'11 giugno 2020. Siamo alla follia targata Pd. Già, perché alcuni esponenti del Pd, intercettando la proposta dei cosiddetti Sentinelli (gruppo laico e antifascista, così come si presentano sui social), invocano la rimozione della statua di Indro Montanelli a Milano, ai giardini di via Palestro. La ragione? "Montanelli fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l'aggressione del regime fascista all'Etiopia". Dunque chiedono rimozione della statua e cambio del nome dei giardini. E ora, nel primo mattino di giovedì 10 giugno, sulla questione interviene Gad Lerner, il quale su Twitter afferma quanto segue: "Andiamoci piano con l'abbattimento delle statue. Qualcuno potrebbe ricordare che la Bibbia contempla schiavismo e patriarcato: rimuoviamo pure il Mosè di Michelangelo?". E fin qui tutto bene. Poi, però, Lerner aggiunge un PS: "Montanelli è oggetto di venerazione sproporzionata alla sua biografia, non alimentiamola boicottandolo". Già, secondo Lerner, insomma, Montanelli è sopravvalutato. Il gigante assoluto del giornalismo sarebbe oggetto di "venerazione sproporzionata" e il rischio sarebbe di aumentare tal venerazione rimuovendo la statua. Una presa di posizione che lascia letteralmente senza parole.
Paolo Guzzanti per ''il Giornale'' il 12 giugno 2020. Nel clima di caccia alle statue che si è sparso nel mondo, ieri Gad Lerner ha attaccato, con temerarietà e sprezzo del ridicolo, la memoria di Indro Montanelli, scomparso da nove anni, twittando un messaggio ridicolo e imbarazzante. Questo: «Montanelli è oggetto di venerazione sproporzionata, non alimentiamola boicottandolo». Il retroscena è noto. Essendo l' Italia un Paese a rimorchio degli altri anche per inerzia e pigrizia degli intellettuali e poiché in America si abbattono le statue di generali e politici schiavisti dell' Ottocento, da noi c' è chi ha pensato di ritirare fuori - e fuori contesto la storia raccontata dallo stesso Montanelli secondo cui durante la guerra d' Abissinia per la quale partì volontario, sposò una ragazza abissina che, come tutte le spose del suo Paese, era minorenne. Vista con gli occhi di oggi, fu una cosa inaccettabile, ma all' epoca era purtroppo normale. Lerner, però, nel suo messaggio pubblico, non richiama questo evento arcinoto e per il quale le femministe si sono indignate, ma attacca la persona e quella che definisce «venerazione» per Montanelli, condivisa da tutto il mondo giornalistico e letterario e recentemente espressa anche da Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. Ora, io conosco bene Gad Lerner con cui ho lavorato alla Stampa e ho talvolta apprezzato il suo giornalismo, ma certamente non l' ho venerato e credo che non lo veneri nessuno. Purtroppo Lerner ha nella sua storia professionale l' ombra di una vicenda che non gli permette proprio di tenere un corso di antipedofilia, come ha fatto attaccando un grande giornalista e protagonista. Morto, fra l' altro, sullo stesso fronte politico su cui si trova Lerner: quello dell' antiberlusconismo, dopo aver rotto con il suo ex editore che gli aveva permesso di sopravvivere con un Giornale economicamente fallito. Il fatto è che Lerner, come direttore del Tg1 Rai, mandò in onda un servizio vergognoso sulla pedofilia, con immagini ignobili per le quali dovette scusarsi pubblicamente, di fronte all' Italia stupita e indignata, per non avere controllato la messa in onda di materiale pedo-pornografico. Le sue scuse furono chieste dai vertici della Rai e del mondo giornalistico e politico. Fu, quel servizio, una macelleria di bambini già violentati fisicamente e poi nelle immagini del telegiornale diretto da Gad Lerner. Poi, per carità, ognuno su Montanelli può avere l' opinione che vuole e forse Lerner vede oltre la stima, anche la «venerazione» (parola che ha scelto lui) di chi lo ha stimato e amato, fra cui Marco Travaglio, direttore del Fatto per cui scrive ora Lerner e che è stato un «Montanelli boy». È un fatto storico che Indro Montanelli sia stato un rivoluzionario del giornalismo e un coraggioso, che mai e poi mai, da vivo, avrebbe proposto il «boicottaggio» di Gad Lerner, perché spropositatamente venerato. Certe cose un uomo non le fa: se uno pensa di boicottare la memoria di un grande protagonista, deve almeno avere un passato impeccabile nel campo per cui si scaglia contro un morto. E la storia del vergognoso servizio in materia di pedofilia non ci sembra impeccabile, ma più deplorevole degli usi e costumi del mondo coloniale di novanta anni fa.
Andrea Galli e Maurizio Giannattasio per corriere.it il 14 giugno 2020. Almeno cinque barattoli di vernice di colore rosso. Vernice utilizzata per cospargere la statua di Indro Montanelli e farla colare sulla testa, sul busto, sugli arti come sangue. E due bombolette di spray di colore nero. Spray utilizzato per scrivere alla base del monumento, nei giardini tra le vie Palestro e Manin intitolati proprio al giornalista e scrittore, due parole che, nei piani degli esecutori, sintetizzano e spiegano l’agguato: «Razzista stupratore». Il vandalismo è avvenuto nel pomeriggio di ieri. Del caso si occupa la Digos. Un blitz che potrebbe avere avuto numerosi testimoni ed esser stato ripreso dalle telecamere. Ci sono sì impianti, nelle strade adiacenti il parco e all’interno della stessa area verde, ma è anche vero che esistono percorsi di avvicinamento e allontanamento verso la statua «scoperti». L’indagine potrebbe non essere fulminea. Come invece sembra essere stata l’azione. Quantomeno, un’azione studiata, preparata. C’erano più persone, e magari altri complici a far da palo lungo il perimetro dei giardini e in prossimità dei cancelli. A ieri sera, nessuno ha rivendicato il blitz, eseguito dopo intensi giorni di dibattito in seguito alla richiesta dei Sentinelli, che sostengono di battersi per i diritti, di rimuovere il monumento in relazione al passato colonialista di Montanelli, quando in Abissinia (era un giovane sottotenente) sposò e convisse con una minorenne. Nei giorni scorsi i Sentinelli avevano scritto una lettera al sindaco Beppe Sala e al consiglio comunale tutto. Più che una lettera, era stato un appello. Ancor di più, un’esplicita richiesta da soddisfare nel breve volgere. Ovvero rimuovere la statua ed erigerne altre dedicate a personalità più «degne». E come una sequenza di voci contrarie s’era subito messa in moto, così le reazioni nell’apprendere il vandalismo sono state immediate. Fra i primi a intervenire, il governatore della Regione Lombardia, Attilio Fontana: «Proprio non ci siamo. L’odio, la cattiveria e l’astio sono sempre più dominanti sul confronto civile e democratico. C’è da preoccuparsi seriamente». Roberto Cenati guida l’associazione milanese dell’Anpi. E rimane fermo sulla posizione già espressa, un invito ad analizzare l’intera vita e la professione del giornalista: «Nessuno vuole difendere quel passato. Ma ricordo che il monumento a Montanelli è stato costruito a pochi passi da dove fu gambizzato dai brigatisti. Ha un significato particolare, questa statua. Quei terroristi avevano voluto colpire la libertà di stampa. Sono preoccupato per questa deriva iconoclasta che vuole emendare la storia». Non è la prima volta — e a registrare i fatti il timore è che non sia l’ultima — che il giornalista diventa un bersaglio. Scelto e colpito. Un simbolo eletto a rappresentazione del male e meritevole di essere cancellato nella sua memoria. Le mosse dei Sentinelli avevano seguito le «diramazioni» dell’assassinio negli Stati Uniti di George Floyd. Era stata per esempio abbattuta la statua di Edward Colston, un mercante di schiavi, e allo stesso tempo aveva subìto oltraggi il monumento a Winston Churchill. Attaccare ovunque, attaccare in ordine sparso. Qui in Italia, per appunto, ecco Indro Montanelli, inviato, scrittore, storico, narratore del mondo. Difficile che nessuno abbia visto il blitz: era sabato, e di sabato i giardini sono affollati. Sulla statua i vandali hanno dovuto arrampicarsi e sostare, per versare la vernice; dopodiché, plausibilmente, hanno dovuto scappare. Non sono passati inosservati.
"Razzista, stupratore", vandalizzata la statua di Montanelli. Dopo le polemiche degli ultimi giorni ecco la concretizzazione del forte astio emerso nei confronti del giornalista: statua imbrattata con almeno quattro barattoli di vernice e scritta ingiuriosa sul basamento della stessa. Federico Garau, Domenica 14/06/2020 su Il Giornale. Che la statua di Indro Montanelli collocata nei giardini di via Palestro (Milano) a lui dedicati fosse stata al centro delle polemiche in questi giorni è cosa oramai risaputa, ma quanto accaduto nelle ultime ore va ben oltre delle semplici rimostranze. Per la seconda volta nella sua storia, iniziata con l'inaugurazione ufficiale il 22 maggio del 2006, è stata vandalizzata, questa volta da ignoti, che l'hanno imbrattata utilizzando una vernice rossa. Il lavoro è stato poi completato con l'aggiunta della scritta "Razzista stupratore", che campeggia in nero sul basamento poco sotto l'incisione del nome del giornalista originario di Fucecchio. Il primo episodio del genere risale all'8 marzo dello scorso anno quando, in occasione dello svolgimento di una manifestazione femminista nel giorno della Festa della donna, il gruppo "Non una di meno" imbrattò la statua di Montanelli con una vernice rosa. Più recenti, invece, le proteste dei "laici ed antifascisti" Sentinelli, che ne avevano chiesto la rimozione in un post pubblicato su Facebook, spingendo anche per un cambio di intitolazione dei giardini di via Palestro. "A Milano ci sono un parco e una statua dedicati a Indro Montanelli, che fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l'aggressione del regime fascista all'Etiopia", avevano attaccato gli attivisti. "Noi riteniamo che sia ora di dire basta a questa offesa alla città e ai suoi valori democratici e antirazzisti e richiamiamo l'intero consiglio a valutare l'ipotesi di rimozione della statua, per intitolare i Giardini Pubblici a qualcuno che sia più degno di rappresentare la storia e la memoria della nostra città Medaglia d'Oro della Resistenza". Proposte che, specie sull'onda delle polemiche sorte dopo la morte di George Floyd, richiamata anche dagli stessi Sentinelli, avevano trovato l'immediato consenso di alcuni consiglieri comunali del Pd. "Le motivazioni della richiesta di rimuovere la statua le riconosco come valide perché quella è stata una brutta pagina della nostra storia", aveva detto Diana De Marchi. "Vanno indagate le motivazioni che hanno portato all'intitolazione e valutare se siano ancora valide oggi. Da parte mia, farò in modo che se ne discuta". Almeno quattro i barattoli di vernice svuotati sulla statua di Montanelli e lasciati sul posto dai vandali unitamente ad alcuni sacchetti di carta. Preoccupazione per la vicenda e per il crescente clima di tensione è stata espressa in serata dal presidente della regione Attilio Fontana. "Proprio non ci siamo. L'odio, la cattiveria e l'astio sono sempre più dominanti sul confronto civile e democratico. C'è da preoccuparsi seriamente", ha commentato il governatore, come riportato da Agi.
Giuseppe Fantasia per huffingtonpost.it il 13 giugno 2020. “Continuiamo a demolire i monumenti. Disfare e rifare la storia”. Si intitolava così la conferenza di Francesco Rutelli ospitata lo scorso anno a Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia. In quell’occasione, ricordiamo bene che fu lui stesso a sollevare il tema che nelle nostre città ci piace colpire o demolire monumenti che non sembrano corrispondere ai nostri convincimenti contemporanei. Alla luce di quanto è avvenuto negli Stati Uniti negli ultimi giorni e di quanto sta avvenendo anche in altre parti del mondo, ne parliamo a telefono proprio con lui, ex sindaco della Capitale, ex ministro, scrittore e attuale presidente dell’Anica, grande esperto e studioso di Storia, un uomo, prima che un politico, che ha sempre voluto affermare attraverso la tutela del patrimonio culturale, i valori di tolleranza, libertà e democrazia.
Perché continuano ad esserci questi atti vandalici nei confronti dei monumenti?
“Perché nessun monumento può riposare in pace come fosse un corpo inanimato. I monumenti sono fatti viventi che si misurano con la reinterpretazione della Storia e anche con le polemiche del momento. Nella mia biografia familiare, ho qualcosa di rilevante e le posso raccontare delle tante sculture fatte dal mio bisnonno, Mario Rutelli, nessuna delle quali è rimasta immune dal dramma se la raffigurazione scultorea e monumentale fosse la migliore o fosse criticabile. Ovviamente, non dal punto di vista estetico, ma storico e politico. Il mio bisnonno ha fatto un monumento ad Anita Garibaldi, al Gianicolo, e Mussolini impose che Anita – che raffigura mia nonna Graziella, perché non c’è un’iconografia di lei visto che morì giovanissima – fosse rappresentata cavallerizza e combattente, ma anche madre e che allattasse il figlio. Ancora: l’unico monumento di Edoardo VIII, in Inghilterra, nel Galles, lo ha fatto proprio Mario Rutelli, e gli studenti hanno tentato di decapitarlo, perché non riconoscevano l’autorità di Londra rispetto all’aspirazione indipendentista e nazionalista gallese. Altro monumento è quello ai caduti in guerra che si trova ad Agrigento, un pezzo del quale, un pannello in marmo, è stato eliminato perché raffigurava un soldato italiano che trafigge un soldato austriaco, gesto all’epoca dell’asse con la Germania divenuto politicamente scorretto. Questo per dirle che non c’è un monumento nella Storia che abbia riposato o riposi in pace”.
C’è dunque, alla base di tutto, un problema sociale e politico, come dice lei, un problema infinito, eterno.
“Sì, perché l’interpretazione del monumento che si erige è data dal potere esistente. È il potere che esiste che vuole celebrare qualcosa, che è in linea con una personalità e che, attraverso la sottolineatura di questa personalità, compie un atto politico. In alcuni casi la Storia rappresenta un giudizio definitivo e indisputabile, ma nessuno mai si sarebbe aspettato, ad esempio, che cogliendo uno o l’altro aspetto a distanza di secoli di un’ esperienza storica, qualcuno potesse – come è avvenuto in Africa – eliminare il monumento a Gandhi, simbolo della liberazione e della non violenza universale, oppure, che si mettesse in discussione a Londra il monumento a Churchill, salvatore della Patria, o – aggiungo io – che si mettano in discussione i monumenti a Cristoforo Colombo con l’argomento ridicolo che lui, esploratore, navigatore, espressione della cultura e dell’arte della navigazione di fine Quattrocento, sia responsabile nei confronti dei diritti dei nativi americani di cui lui, come si sa, all’inizio, ignorava addirittura l’esistenza. Accusarlo di essere l’artefice del genocidio - che c’è stato eccome e di cui portano la responsabilità molti governanti americani degli ultimi tre secoli - è veramente ingeneroso ed arbitrario, è una cosa ridicola. Dovrebbe essere invece fatta una lettura storica più corretta. Qui viene un altro aspetto”.
Qual è?
“Esiste un utilizzo strumentale dell’interpretazione storica che è una prova di immaturità culturale, di faziosità e di polarizzazioni che per un verso è inevitabile. Come detto, nessun monumento della storia riposerà in pace sul proprio piedistallo, perché tutte le vicende saranno assoggettate ad una valutazione critica e questo è un bene. Il monumento sta lì anche per poter essere giudicato nel corso del tempo e non solo dal punto di vista estetico e artistico, oltre che della firma di chi lo ha realizzato. Però, non bisogna cadere nella catastrofica pretesa per cui dobbiamo adattare al politically correct di un determinato periodo storico interpretazioni che non possono essere più complesse. La cultura nei confronti delle donne ad esempio, o nei confronti del pluralismo religioso, delle popolazioni ‘altre’ da noi…non possiamo certamente applicare il frutto di processi storici drammaticamente complicati che ci hanno portati a una maggiore sensibilità e applicarli a loro volta tout court retrospettivamente a sei secoli fa o più. Non dubiterei che si possa trovare qualcuno che voglia eliminare il monumento al grande Imperatore Marco Aurelio, icona di saggezza, stoicismo, di una filosofia molto aperta e illuminata, perché fu anche un combattente. Se dobbiamo quindi considerare con un metro di oggi l’interpretazione storica del passato, non diamo prova di maturità, ma di immaturità e finiamo con l’alimentare, tra l’altro, una pretesa che è anti-storica”.
I monumenti della storia sono presenze importanti nelle nostre città, ma sono stati e sono in tanti coloro che vogliono che gli stessi non portino contraddizioni: perché?
“I monumenti sono vivi proprio perché ci permettono di riflettere, di vedere le luci come le ombre. Posso citare un episodio bizzarro e molto divertente, un’operazione furba. A Roma, davanti la sede del Palazzo degli Uffici dell’Ente autonomo EUR, il primo a essere innalzato tra gli edifici del grande progetto E42, c’è Il Genio dello sport, una scultura che rappresenta un giovane con un guanto da lottatore e l’alloro in testa. È una scultura arditamente ribattezzata con un altro nome, perché in realtà, si chiamava Il Genio del Fascismo, e fu messa lì nel 1939 dopo che fu realizzata dallo scultore toscano Italo Griselli. Ha il braccio teso, fa il saluto romano. Nel dopo guerra si domandarono se toglierla o ribattezzarla. Come hanno risolto? Gli hanno messo il guanto dell’atleta e l’hanno chiamata Genio dello Sport”.
Geniali davvero.
“Assolutamente. È stata un’operazione che ha salvato la scultura dandole un nuovo significato. Quando leggiamo che il monumento di Accra a Gandhi “deve cadere”, è perché quel pensiero rispecchia la cultura di un indiano educato secondo gli stilemi britannici. Quando viveva in Sudafrica, prima di divenire il liberatore della sua nazione e il profeta della non violenza per ogni persona, anche per me, come Radicale nelle battaglie che ho fatto, quel Gandhi giovane non aveva una lettura come la abbiamo oggi rispetto alle popolazioni africane che sono autoctone. Si pensi, poi, anche all’eredità post sovietica, al soldato di bronzo a Tallinn, in Estonia, che raffigura la liberazione dal nazismo: è stato rimosso perché è stato voluto dai regimi del dopo guerra comunisti che oggi, ovviamente, in Estonia, detestano come dittatura. Quell’uomo si era però anche battuto contro il nazismo. Lo stesso è successo per il monumento a Budapest al martire Imre Nagy per volere di Stalin, rimosso dal governo di Orbàn nonostante Nagy fosse stato impiccato dai sovietici nel 1958. La colonna di Place Vendôme a Parigi fu abbattuta dalla Comune di Parigi, perché ritenuta simbolo del militarismo. Appena finita la comune fu ricostruita”.
In Italia, immaginiamo, si sono verificati episodi simili.
“Sì. Non dimentichiamo che noi cristiani abbiamo buttato giù tutti gli obelischi romani considerandoli un simbolo pagano. C’è voluto un Papa, Sisto V, a ritirarli su, a mettere la croce in cima, a ribattezzarli e ad usarli come indicatori per i pellegrini per la città davanti alle grandi chiese”.
Sono diversi, invece, i casi in cui sono stati abbattuti i monumenti di Stalin, di Gheddafi e di Hussein, o no?
“Certo, perché in quei casi c’è stata la liberazione e quindi la caduta del monumento del dittatore. È comunque importante dare un’interpretazione della Storia che tiene conto di questa complessità e del contributo che anche gli sconfitti della stessa – o quelli che oggi non sono mainstream – danno a tutti noi. Se non ci fossero stati coloro che hanno combattuto il nazismo, incluse le truppe sovietiche, non avremmo avuto la caduta del nazismo. È chiaro che se oggi giudichiamo le truppe sovietiche un’espressione di una dittatura totalitaria che ha creato anche orrore e i gulag, allo stesso tempo dobbiamo avere una capacità di lettura più storica, più equilibrata perché altrimenti rischiamo di fare come i talebani e l’Isis che stabiliscono la loro verità religiosa che non consente monumenti altri da quelli che vogliono loro, ovvero nessuno. Ci sono delle cose che è giusto che vengano messe in un magazzino o defilate in un giardino. Penso ai generali della secessione o a personalità che sono state anche mercanti di schiavi come è avvenuto a Bristol, dove la statua di Edward Colston è stata abbattuta. Quell’uomo ebbe però grandi meriti: trafficava gli schiavi, ma ha lasciato delle istituzioni benefiche e filantropiche molto importante. In ogni città è giusto che prevalga una lettura della negatività rispetto a quella della positività che si dava all’epoca. Discuterne è positivo, ma l’idea che si possa fare giustizia sommaria e buttare in un fosso una scultura anziché mettere in discussione questa interpretazione e la gloria che è stata attribuita con il monumento, è sbagliato. Fare giustizia da soli è sbagliato”.
Il caso Colston ricorda in qualche maniera anche il caso Bottai che la vide coinvolto quando era Sindaco di Roma. Anche lì la situazione era al limite.
“A Roma abbiamo una strada intitolata al governatore Boncompagni Ludovisi dell’età fascista e nessuno ha avuto niente da ridire visto che non è che poi abbia fatto tantissimo. C’è stato invece un governatore che ha fatto molto per Roma ed è stato proprio Giuseppe Bottai, ma rispetto la decisione che si è presa per la fortissima ribellione della comunità ebraica. Alla fine, Gianni Borgna ed io che volevamo intestagli un largo, abbiamo rinunciato a farlo, perché Bottai si dissociò dal regime, ma formò le Leggi razziali. Un argomento pesantissimo. Si è dimenticato, però, quello che ha fatto di positivo: ha dato origine alle leggi del 1939 sul Paesaggio e la Tutela del Patrimonio Culturale, quelle con cui in Italia ancora oggi tuteliamo e difendiamo i monumenti. È stato colui che ha voluto Cinecittà e l’Istituto Centrale del Restauro e fu lui a creare la rivista “Primato”, vera palestra del pensiero antifascista, perché vi scriveva, tra gli altri, Giulio Carlo Argan. Bottai votò al Gran Consiglio per la caduta di Mussolini e andò a combattere i nazisti nella legione straniera per espiare in qualche modo la sua partecipazione al regime. Un caso, il suo, che a mio avviso avrebbe meritato una lettura complessa e non monocroma. Fu una personalità che non può essere letta solo in bianco o in nero. Queste letture ci aiutano a contestualizzare e a rispettare la complessità in un mondo, il nostro, in cui tutto è immediato (Rutelli è autore, tra gli altri, del libro Contro gli immediati, La nave di Teseo, ndr)”.
Cosa bisognerebbe fare secondo lei?
“Se si vuole riflettere e contestare le cose che ci troviamo davanti, è assolutamente rispettabile. Se si vuole diventare iconoclasti e distruttori senza ascoltare le ragioni dell’altra parte, diventa un caso di polarizzazione estrema che contraddice quest’ansia di ricerca della verità. Questi movimenti americani sono molto importanti. In America i neri sono discriminati e c’è un grande movimento che rivendica i diritti delle persone di colore tuttora discriminate. Questo porta a riesaminare alcune figure storiche, ma non ci dimentichiamo che i primi presidenti degli Stati Uniti, i fondatori della democrazia americana, avevano tutti degli schiavi in casa propria perché quella era la società del tempo”.
Stiamo entrando in una fase adulta per giudicare i monumenti che abbiamo nelle nostre strade oppure no?
“La fase adulta significa che li sappiamo giudicare, ma senza ergerci a giudici definitivi con una sega elettrica in mano. Un monumento non si elimina come un tweet. Un monumento o il ricordo di una personalità, ci dicono chi siamo noi oggi, oltre a dirci chi era quella persona rappresentata. Ci fanno riflettere su di noi e sulla complessità della Storia. Non ci deve, poi, scandalizzare perché quella pretesa e quella volontà pedagogica che hanno possono scontrarsi a distanza di tempo con la loro stessa negazione. Si pensi all’adulterio che fino al 1968 era un crimine punito dal codice penale. La donna adultera, fino alla riforma del codice penale, finiva in carcere. Al contrario, invece, l’uomo non veniva punito. Ci sono voluti i Radicali per abolirlo. Questa era l’Italia fino a pochi anni fa. Questo c’entra poco con i monumenti e più con il costume: piuttosto, col fatto, che se se ci mettiamo a fare i giudici superficiali della Storia, finiamo come i talebani, con l’avere una visione estremista e fondamentalista, e questo può essere solo un danno”.
Ecco perché l'Occidente è per natura più libero rispetto all'Oriente. Il capitalismo si fonda su mercato e proprietà privata. E sulla concorrenza fra i poteri. Giampietro Berti, Venerdì 29/05/2020 su Il Giornale. A pochi giorni dalla scomparsa di Luciano Pellicani, il maggior studioso italiano di sociologia politica, esce un suo breve testo che raccoglie una lectio magistralis da lui tenuta il 21 settembre 2019 al festival estivo promosso e organizzato a Sciabaca dall'editore Florindo Rubbettino. Si tratta di una sintesi che compendia il grande problema relativo alla natura della civiltà occidentale: Perché in Occidente c'è più libertà che in Oriente? Il testo è pubblicato dallo stesso Rubbettino con una sua prefazione. Perché dunque in Occidente c'è più libertà rispetto non soltanto all'Oriente, ma anche ad ogni altra civiltà? La spiegazione di Pellicani, di cui naturalmente la lectio magistralis registra solo alcuni passaggi, si può riassumere così. Per dar conto della natura dell'Occidente è necessario affrontare prima di tutto la natura del capitalismo, il quale si fonda sul mercato, che a sua volta presuppone l'esistenza della proprietà privata come struttura portante della società civile. L'economia capitalistica sorge dalla limitazione del potere dovuta al pluralismo del sistema feudale, scaturito dalla dissoluzione dell'impero romano (la sua genesi, pertanto, non è quella indicata da Max Weber). Il periodo medievale è segnato dalla guerra delle investiture fra Papato e Impero; una guerra che si risolve senza vinti né vincitori: l'Impero non riesce a creare un cesaropapismo, il Papato non realizza la teocrazia universale. L'intero periodo è caratterizzato da una pluralità molto articolata di centri potestativi, che impediscono la formazione di un monopolio unico del comando, sia questo religioso, politico o economico. Tale pluralità favorisce la presenza di interstizi di libertà perché il contrasto fra il potere spirituale e il potere temporale impedisce ad entrambi di controllare fino in fondo la società civile. Di fatto, la loro rivalità crea una situazione favorevole allo sviluppo della cultura del conflitto istituzionalmente regolato, che sfocerà molti secoli dopo nella creazione liberale dello Stato di diritto. Pellicani ricostruisce il lungo tragitto del pensiero occidentale così come esso si è svolto dai Greci ai nostri giorni. Affronta in tal modo uno dei nodi teorici più problematici del dibattito filosofico, storico e sociologico relativo alla comparazione fra le varie civiltà. Si deve constatare che solo l'Occidente presenta queste caratteristiche perché solo esso è pervaso dalla logica della secolarizzazione; processo che contempla laicamente il pluralismo dei valori e dunque la possibilità effettiva della loro convivenza. Ne è conseguito un intreccio di interessi che hanno dato vita alla civiltà dei diritti e delle libertà, grazie anche alla prodigiosa crescita della ricchezza materiale generata dalla sinergia fra sviluppo economico e conoscenza scientifica. Di qui la possibilità della manipolazione tecnica del mondo; di qui la definitiva supremazia piena e netta del libero arbitrio quale nucleo concettuale ultimo del mito dell'«avanzamento continuo» del progresso umano. Non vi è alcuna altra civiltà che abbia nel suo Dna tutte queste peculiarità, le quali a loro volta possono darsi solo in presenza del processo di secolarizzazione. Vi è modernità laddove esiste la separazione tra la società politica e la società civile, quale logica conseguenza della dialettica continua fra economia e politica, fra società e Stato. Libertà, mercato e proprietà privata sono costitutivi del capitalismo e dunque dell'Occidente: senza secolarizzazione non vi è pluralismo, senza pluralismo non vi può essere la relatività dei valori e dunque la libertà, sia essa politica, sociale, economica, religiosa. A differenza di qualsiasi altra civiltà, quella occidentale risulta attraversata dal conflitto fra Sparta e Atene, fra spirito giudaico e spirito greco, fra messianesimo e illuminismo, dualismi riassumibili nella contrapposizione tra una concezione chiusa e una concezione aperta della società; molteplici tradizioni di pensiero che hanno convissuto senza mai riuscire a prevalere l'una sull'altra in modo definitivo. Il che ha conferito alla civiltà occidentale lo statuto di una civiltà superiore. A partire dalla ricerca intellettuale di Luciano Pellicani si può quindi dare una precisa risposta alla domanda se, rispetto al problema decisivo della libertà, la civiltà occidentale sia superiore alla civiltà orientale come a qualsiasi altra civiltà. Ebbene, la risposta è affermativa, perché a fronte di quella occidentale, tutte le altre civiltà non presentano prioritariamente il valore centrale della libertà.
· La Memoria: tra passato e futuro.
Per andare dove dobbiamo andare...Michele Gravino su La Repubblica il 30 ottobre 2020. “...per dove dobbiamo andare?”. Si concludeva così la domanda di Totò al vigile urbano milanese nel celebre Totò, Peppino e la... malafemmina (1956). Totò e Peppino volevano "savuàr l'indirìss". Ma i nomi delle strade sono una cosa seria: così un Paese celebra il suo passato. E per questo qualcuno li mette in discussione. Piccola autobiografia per indirizzi. La via in cui sono cresciuto, in una cittadina campana, era intitolata al generale Milbitz («chi? come si scrive? ti zeta?»), un garibaldino polacco che aveva combattuto da quelle parti; poi le diedero il nome di un ancor più ignoto politico locale. Intanto ci eravamo trasferiti in centro, sul corso dove re Umberto I, dopo aver resistito a quarant'anni di Repubblica, aveva ceduto il posto ad Aldo Moro. Una volta a Roma, ho abitato in via Asmara (conquista coloniale) e studiato in viale Pola (conquista della Prima guerra mondiale). Ora lavoro in via Cristoforo Colombo, nome che oggi in America qualcuno vorrebbe cancellare, ma da noi andò bene per sostituire la mussoliniana via dell’Impero. L’ultimo trasloco mi ha portato per la prima volta in una via dal nome di donna, una nobile fiorentina citata da Dante nel Paradiso: si era fatta monaca ma la famiglia la rapì e la costrinse a sposarsi. Insomma una martire della castità, cantata da un uomo. Chiedo scusa per il prologo in prima persona, ma è un esercizio che possiamo fare tutti: rintracciare nella manciata di indirizzi che abbiamo attraversato il filo che lega la vita di una persona qualunque alla Storia. Gli odonimi, come gli studiosi chiamano i nomi di strade, piazze e altri spazi pubblici, «sono luoghi comuni in entrambe le accezioni del termine» dice Stefano Bartezzaghi, scrittore, semiologo e gran giocatore con le parole (anche sul Venerdì). «Luoghi fisici, pubblici, comuni per definizione; e parole che a forza di ripeterle diventano appunto comuni, banali. Del resto “banale” in origine significava “noto a tutto il villaggio”». Già, ma quale senso di comunità, di storia e memoria collettiva trasmettono quei nomi? Capita che una parte del “villaggio” cominci a chiederselo, e scopra di non riconoscersi più. Sta succedendo all’estero, con le statue di schiavisti e razzisti (o presunti tali) abbattute o sfregiate e personaggi un tempo celebri cancellati dal discorso pubblico. La cosiddetta cancel culture: sta arrivando anche sulle strade italiane? Se c’è una persona che sui nomi sa tutto è Enzo Caffarelli, ex docente universitario e fondatore e direttore da 26 anni della Rivista italiana di Onomastica, punto di riferimento internazionale sul tema. Sugli odonimi sta preparando l’ennesimo libro, ma basterebbero le curiosità che tira fuori in mezz’ora di colloquio a riempire diverse pagine. «Conosce via Abbi Pazienza a Pistoia? Si narra che lo abbia detto un tale a un suo compagno, dopo averlo accoltellato per sbaglio durante uno scontro tra famiglie rivali»; «a Lecco c’è una via per ogni personaggio dei Promessi sposi: anche Maria Tramaglino, cioè la figlia di Renzo e Lucia, che appare in poche righe alla fine del romanzo»; «la legge vieta di intitolare strade a persone morte da meno di dieci anni: ma come la mettiamo con largo Beatles a Napoli? Il gruppo è morto ma due componenti sono vivi». Eccetera. «Gli odonimi tradizionali» spiega Caffarelli «nascono come semplici indicazioni: una caratteristica del luogo – “via dei Sassi rossi” – un albero, una locanda, la bottega di un artigiano, il palazzo di una famiglia in vista» (uno schema, quest’ultimo, che curiosamente si ripete nel viale della periferia romana intitolato di recente a Francesco Caltagirone, capostipite della stirpe di costruttori che ha tirato su il quartiere). «Solo con la Rivoluzione francese» prosegue Caffarelli «nasce l’abitudine di dare agli odonimi un intento pedagogico: ecco allora strade e piazze dedicate a personaggi, eventi o valori da celebrare». In Italia cominciarono i governi post unitari a riempire le città di nomi di re, regine, principi sabaudi, eroi e battaglie risorgimentali; poi venne l’epopea della Grande Guerra, poi il Fascismo. Con il risultato che, mentre all’estero gli odonimi tradizionali sono ancora i più diffusi (Rue de l’Eglise in Francia, High Street in Inghilterra, Calle Mayor in Spagna, per non parlare degli Stati Uniti con le loro strade numerate), da noi la classifica – compilata grazie a una ricerca guidata proprio da Caffarelli – vede in testa Roma, seguita da Giuseppe Garibaldi e Guglielmo Marconi. Fu Mussolini in persona, nel 1931, a firmare la circolare che intimava di intitolare ovunque una strada «non secondaria» alla capitale. Ancora oggi oltre 7.000 degli 8.100 comuni italiani hanno una via, piazza o corso Roma. Con il crollo del regime scomparvero i fori Mussolini, i viali della Rivoluzione fascista, il piazzale Adolfo Hitler che aveva accolto il Führer in visita a Roma, oggi dedicato ai partigiani. Ma altri odonimi (e statue, edifici, monumenti) rimasero in piedi. L’Istituto nazionale Parri, con la Rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, ha lanciato un progetto di ricognizione dei luoghi della memoria fascista sopravvissuti fino a oggi. «Le zone in cui era stata più forte la Resistenza sono quelle in cui i segni sono meno presenti» spiega la storica Giulia Albanese, coordinatrice del progetto. «Mentre ad esempio nel Centro-sud troviamo tante strade dedicate ai Savoia: buona parte della classe dirigente meridionale era ancora monarchica». Salvo poi dar vita, in anni più recenti, a un’ondata di revisionismo neoborbonico, con odonimi dedicati ai sovrani delle Due Sicilie o ai briganti antipiemontesi. Del resto l’attivismo odonomastico è sempre stato uno sport molto apprezzato dai politici italiani: ultime (ma in realtà ricorrenti) proposte pervenute, quella del sindaco Sala di dedicare una via di Milano a Bettino Craxi, quella di Vittorio Sgarbi di onorare Italo Balbo a Ferrara (ma in quanto aviatore, non in quanto fascista), fino alla – bizzarra? sconcertante? furba? – iniziativa del comune di Terracina di intestare una piazza alla memoria congiunta di Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante. Boutades che restano quasi sempre nel recinto della polemica spicciola, senza dar vita a riflessioni storiche sensate. Se qualcuno avesse dei dubbi su quale sia il grande rimosso della storia nazionale, può toglierseli andando a via dell’Amba Aradam a Roma. Questa via centralissima, trafficatissima, a due passi da un tempio della cristianità come la basilica di San Giovanni in Laterano, celebra un crimine di guerra. Anzi due. Sul massiccio dell’Amba Aradam, nel ‘36 e nel ‘39, per ben due volte l’esercito italiano usò il gas contro le truppe etiopiche, ma anche contro i civili. Episodi noti da tempo, ma quel nome resta lì da più di 80 anni. Nel giugno scorso, nei giorni delle manifestazioni Black Lives Matter negli Stati Uniti (e di quelle milanesi contro la statua di Indro Montanelli) al giornalista Massimiliano Coccia è venuta un’idea: intitolare la futura fermata della metropolitana di via dell’Amba Aradam a Giorgio Marincola, partigiano figlio di un italiano e di una somala, ucciso dai tedeschi nel ‘45. Il suo appello si è guadagnato la firma di Roberto Saviano e di altre migliaia di persone, ed è stato accolto dal consiglio comunale e dalla giunta Raggi (che già si era mostrata sensibile al tema: due anni fa, i nomi di tre vie intitolate a scienziati firmatari del Manifesto della razza sono stati sostuiti con quelli di Nella Mortara, Mario Carrara ed Enrica Calabresi, studiosi perseguitati dal Fascismo). Nella strada che ricorda un massacro di africani, la stazione ricorderà un partigiano nero. «Potevamo chiedere di cancellare il nome dell’Amba Aradam, ma sarebbe stato come negare la storia» spiega Amin Nour di Black Italians, una rete di afrodiscendenti che ha partecipato alla mobilitazione. «E noi la storia vogliamo studiarla, farla conoscere, altro che cancel culture. Non è tempo di distruggere, ma di costruire una memoria diversa». Nel quartiere romano della Garbatella c’è un raro gruppo di strade intitolate a donne: via Rosa Raimondi Garibaldi, via Maria Drago Mazzini, piazza Adele Zoagli Mameli. Che cosa hanno fatto per meritarsi un odonimo? Risposta ovvia: erano le madri di maschi famosi. La mamma di Garibaldi, la mamma di Mazzini, la mamma di Mameli. Quando il quartiere è stato costruito c’era anche una via dedicata alla mamma di Mussolini. Poi sostituita da Rosa Guarnieri Carducci, mamma anche lei ma di un figlio partigiano, e uccisa dai nazisti. «Nelle città italiane le strade dedicate a donne sono il 3-4 per cento del totale» spiega Maria Pia Ercolini. «E quelle poche sono in maggioranza sante, madonne e regine». Il censimento è opera di Toponomastica femminile, l’associazione che Ercolini ha fondato proprio per riequilibrare la presenza delle donne nello spazio pubblico. Oggi ha 340 associate/i («anche maschi, siamo inclusive») e migliaia di iscritti alla pagina Facebook, e nel 2019 l’Unione europea le ha assegnato il premio della società civile. «Ogni anno, l’8 marzo, invitiamo i sindaci di tutta Italia a intitolare almeno tre spazi pubblici a tre donne: molti che all’inizio ci ridevano dietro col tempo hanno cambiato idea. Siamo presenti nelle commissioni toponomastiche di molti comuni. E con un concorso nelle scuole facciamo scoprire agli alunni figure femminili da commemorare». Evitando magari “trappole” pur dettate dalle buone intenzioni: «non ci piace per esempio l’idea di dedicare una strada a una vittima di femminicidio: sarebbe come additarla a modello. Preferiamo dedicarle una panchina e un albero in un parco». «Lo spazio pubblico è un campo di battaglia su cui si scontrano visioni della storia opposte e inconciliabili» dice la storica Mariana E. Califano, una delle animatrici del collettivo bolognese Resistenze in Cirenaica, che già dal 2015 propone una riflessione sul colonialismo italiano usando anche tattiche di “guerriglia odonomastica” : sostituzioni simboliche di targhe, adesivi con la scritta “sterminatore” sotto i nomi di esploratori o generali, eccetera. Bartezzaghi non sembra troppo d’accordo: «Salvo casi eclatanti non possiamo correggere tutto. Se pronuncio il nome di un tizio sconosciuto dell’800 solo perché in quella la via c’è il mio callista, a che pro sapere che era un criminale? Quel nome è ormai una pura indicazione geografica, quando ne facciamo oggetto di polemica politica gli ridiamo un significato che ormai aveva perso. Forse è ora di trovare un sistema di memoria diverso e lasciare in pace le vie». Certo è che con l’espansione urbana i comuni italiani hanno dovuto trovare migliaia di nuovi odonimi per migliaia di nuove vie. Dando fondo ai repertori più svariati: attori, cantanti, fotografi, fumettisti; e poi opere d’arte, corpi celesti, derrate alimentari, e naturalmente ogni specie di pianta e di animale. Si può fare battaglia politica su via dei Carciofi o viale dei Crostacei? Intanto però, segnala sempre Caffarelli, a Busto Arsizio le vie del Daino, del Capriolo e della Gazzella sbucano tutte in via dei Fratelli Cervi, martiri partigiani. Che l’accostamento sia frutto di ignoranza, di disprezzo politico o di gusto postmoderno per il pastiche, viene da pensare che i nomi delle strade abbiano un senso anche quando sembrano non averne affatto. Sul Venerdì del 30 ottobre 2020
Fine di un mondo – ovvero, quando Evola anticipò Orwell e Huxley. Andrea Scarabelli il 14 ottobre 2020 su Il Giornale. È appena uscita per Mediterranee la nuova edizione, critica e aggiornata, comprensiva di note, bibliografie e approfondimenti, de La Torre, la mitica rivista diretta da Julius Evola nel 1930. Oltre a essere un documento storico come pochi altri, è la testimonianza di un approccio, “metapolitico” e “spirituale”, che provò a orientare la politica del tempo in un senso differente da quello che poi prese, negli anni successivi. In occasione di questa nuova edizione riportiamo, per gentile concessione dell’Editore, una nota firmata da Evola sul quarto numero della rivista, il 16 marzo 1930, all’interno della rubrica da lui diretta L’Arco e la Clava. Qui, il filosofo risponde in modo netto a tutti quei periodici (La Volontà d’Italia, Roma Fascista, L’Italia Letteraria, L’Ora, eccetera) che lo accusavano di “catastrofismo”, essendosi dedicato alla tematica della fine delle civiltà. In questa sospendente risposta, Evola non solo anticipa analisi più note, contenute ad esempio in testi come Il Mondo Nuovo di Huxley (1932), Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno (1947), 1984 di Orwell (1949) e L’uomo a una dimensione di Marcuse (1964), ma offre un ritratto spietato e chirurgico del nostro mondo. In questa singolare variazione sul tema “fine del mondo” (il cui spettro si aggira tutt’ora nel dibatto pubblico odierno), Evola si immagina tuttavia una calamità ben diversa da quella a cui siamo soliti pensare, finendo per descrivere nei fatti… la nostra contemporaneità, con i suoi tic e tabù, con tutte le sue maschere e i suoi attori che il lettore – ne siamo certi – non faticherà a riconoscere. Anche perché spesso non occorrono catastrofi naturali – o pandemiche, potremmo aggiungere. Una civiltà può anche morire di morte naturale. È forse il caso della nostra. Il mondo occidentale si avvia verso la sua “fine”. Ma è appunto su ciò che significa “fine” che bisognerebbe intendersi! I nostri punti di riferimento non sono per nulla quelli in corso. E se noi non profetiamo, ma dimostriamo – attraverso la constatazione di caratteri e di processi precisi della storia e della cultura – il tramonto di una civiltà, questo stesso fatto agli occhi dei più potrebbe assumere un aspetto molto diverso e per nulla allarmante. Spieghiamoci con un esempio. Noi non pensiamo per nulla che la fine del mondo occidentale debba per forza rivestire quell’aspetto coreograficamente catastrofico, cui la mente dei più è subito portata. Non si tratterà necessariamente di cataclismi, e nemmeno di quelle nuove guerre mondiali, sui cui orrori e sui cui esiti di sterminio dell’uman genere molti fin d’oggi lugubramente c’intrattengono. Anzi, una guerra… un altro buon squassamento, ma radicale, però, risolutivo – che altro potrebbe augurarsi chi ancora spera? Noi vediamo più nero ancora. Ecco, per esempio, una delle forme in cui, fra le altre, potremmo anche raffigurarci la “fine del mondo”. Niente più guerre. Fratellanza universale. Livellamento totale. Unica parola d’ordine: obbedire – incapacità, divenuta organica attraverso l’educazione di generazioni, a far altro che obbedire. Niente capi. Onnipotenza della “società”. Gli uomini, mezzi per l’azione sulle cose. L’organizzazione, la industrializzazione, il meccanismo, la potenza e il benessere fisico e materiale raggiungeranno apici affatto inconcepibili e vertiginosi. Accuratamente scientificamente liberati dall’Io e dallo spirito, gli uomini diverranno sanissimi, sportivi, lavoratori. Parti impersonali nell’immane agglomerato sociale, nulla, in fondo, li distinguerà più gli uni dagli altri. Il loro pensiero e il loro modo di sentire e di giudicare avrà carattere assolutamente collettivo. Con le altre, anche la differenza morale fra i sessi scomparirà, e può darsi anche che il vegetarianesimo farà parte delle abitudini razionalmente acquistate di quel mondo, giustificandosi sull’evidente simiglianza delle nuove generazioni con gli animali domestici (quelli selvatici allora non vedendo più permesso di esistere che in qualche giardino zoologico). Le ultime prigioni rinchiuderanno nell’isolamento più terrificante gli ultimi attentatori dell’umanità: i pensatori, i testimoni della spiritualità, i pericolosi maniaci dell’eroismo e della fierezza guerriera. Gli ultimi asceti si estingueranno a uno a uno sulle vette o in mezzo ai deserti. E la massa celebrerà sé stessa per bocca di poeti ufficiali e autorizzati, i quali liricizzeranno i valori civili e canteranno la religione del servigio sociale. A questo punto, sorgerà una grande aurora. L’umanità sarà veramente rigenerata, e non conserverà più nemmeno il ricordo dei passati tempi di barbarie. Ora: a voi chi permetterebbe di chiamar “fine” questa fine? Di vedervi, con noi, il collasso totale, la caduta definitiva? Sapreste voi forse concepire un mito più splendido, un avvenire più radioso, per l’“evoluzione”?
Un Paolo Mieli spietato e moderno, Vittorio Feltri: se manca memoria un paese affoga nel presente. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 15 ottobre 2020. Lotto quotidianamente con un iPad ingrato che omaggio ogni giorno scrivendo ormai soltanto su quello, però lui mi nasconde le cose, fa sparire le foto che mi mandano per posta elettronica, e non avendo più un foglio di carta vera davanti, lavoro nella paura che la tavoletta si spenga di colpo e tutto quel che sto facendo vada perduto; ma soprattutto, l'onniscienza satanica dei motori di ricerca mi seduce, m'impigrisce, m'induce a non esercitare più la memoria. Non è un problema solo mio. L'accesso immediato e a chiunque alla enorme (e quindi inafferrabile) quantità di informazioni accatastate su internet non ha salvato gli uomini dalla dimenticanza o, peggio, dal ricordo selettivo. Per chi non è "nativo digitale" (leggi: ragazzino nato con un cellulare in mano), le informazioni sono troppe e in più ai nostri occhi escono tutte dallo stesso minuscolo posto, uno schermo. Ragion per cui, per chi non è addestrato al web fin dalla nascita è come mettere la mano in un secchio d'acqua abbagliante e profonda: ci si smarrisce, e ci sgomenta avere accesso a una messe di dati, fatti e opinioni che non avremo mai tempo di visitare compiutamente. Peggio ancora, non si trovano in un luogo fisico, con dei confini chiari, per esempio un libro: ci compaiono e scompaiono davanti a ogni movimento, basta la fuga inavvertita di una frazione di polpastrello sul tasto sbagliato per rovinare ore di ricerche. I giovanissimi sono più attrezzati tuttavia non se la passano meglio: avere tutto a disposizione cancella stimoli e curiosità, li spinge a pensare e agire alla stessa velocità di un computer e, dato che non è possibile, finiscono in pasto ai social, imprigionati in una rete di slogan, di aforismi, di giochi di parole seducenti ma "niente-dicenti", di concetti superficiali. Per pensare, a qualunque età, serve tempo. Che accesso abbiamo, dunque, ai fatti presenti, al passato recente, alla storia remota? Come funziona la memoria? Funziona malissimo, da sempre. La memoria dell'uomo è una cosa farlocca, e la storia ha come oggetto qualcosa di probabilmente inconoscibile. L'avevano già capito nel Seicento gli Empiristi inglesi, ancora prima, nella Grecia classica, se n'erano approfittati i Sofisti: esiste quindi solo l'interpretazione, suscettibile della pratica poco nobile di cancellare fatti e dettagli in favore dei propri comodi. E qui veniamo al nuovo libro di Paolo Mieli, La terapia dell'oblio - Contro gli eccessi della memoria (Mondadori, 292 pagine, 18 euro), un saggio prezioso sulle contraddizioni della memoria collettiva e sull'inaffidabilità di chi, di epoca in epoca, la gestisce. Paolo Mieli ha una cultura abbondante e rigonfia di dettagli, ed è una mente analitica capace di immagazzinare e restituire una smisurata quantità di fatti riorganizzandoli con un raziocinio angolato, a volte ispido tanta è la densità della scrittura. Ma la sua lettura "orizzontale" della storia è modernissima e spietata. Dunque, una delle contraddizioni più interessanti della natura umana è l'ossessione di ricordare tutto e l'incapacità di ricordare "bene". È la stessa criticità che ogni nazione deve affrontare: per avanzare deve rammentare e anche fare pace con il suo passato e lasciarselo alle spalle, cioè in qualche modo dimenticarsene. È un crinale affilato e l'Italia, dice Mieli, in questa pratica non è molto brava, in fondo nessuno lo è. L'oblio è indispensabile ma altresì pericoloso. L'amnesia infatti, spiega Mieli, lavora in due sensi di marcia: selezionare ricordi e cancellarne altri è terapeutico affinché una civiltà possa avanzare o ricominciare; però può pure essere una pratica killer, che elimina sfumature e a volte i fatti per intero, che arbitrariamente glorifica o consegna alla dannazione della memoria personaggi, espunge o attribuisce colpe ad alcuni, nasconde viltà e incapacità di altri. Sfogliando il libro mi è parso che questo lavoro sia andato oltre le intenzioni dell'autore, è una collezione di eventi ed aneddoti avvincenti che spiegano, a chi voglia leggerne l'insieme al di sopra delle righe, quanto fragile e confusa sia la nostra identità come specie umana. Mieli ha raggruppato alcuni episodi storici controversi in tre tipologie: Curiose amnesie, La memoria riluttante, Dimenticanze sospette; più un'appendice sui «cospirazionisti e gli untori del discorso pubblico in tempo di pandemia». Vi cito degli esempi: un'estesa e minuziosa descrizione degli Stati Uniti, attraverso la politica militare in Somalia e in Afghanistan negli anni Novanta e Duemila, Paesi incapaci di distinguere fra la pace e il caos, che non sanno più fare la guerra ma la fanno lo stesso, con soldati poco disponibili a morire e strategie distruttive influenzate dai problemi interni del governo americano. Un altro caso che Mieli prende in esame è il destino di uno degli imperatori romani più controversi, Caracalla. Arrivato al potere dopo il primo sanguinario decennio del secondo secolo post Christum (di cui Mieli dà avvincente e sconfortante resoconto), Caracalla, come i suoi contemporanei, non era uno stinco di santo, ciononostante promulgò la Constitutio, che concedeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'impero. Non sappiamo se l'abbia fatto per somigliare ad Alessandro Magno, per il quale aveva una venerazione, o per allargare la platea dei contribuenti e dare respiro alle casse dello Stato; ma nei secoli immediatamente seguenti la Constitutio è stata attribuita dagli storici a chiunque tranne che a lui, che rimase congelato nell'immagine semplificata di tiranno irascibile e disumano. la resistenza E ancora: gli aspetti meno edificanti della Resistenza, tra rivalità fra bande, passaggi di militanti da una formazione a un'altra, polemiche e lotte finite nel sangue sulla destinazione degli aiuti paracadutati dagli americani, regolamenti di conti, gruppi minori di autonomisti riluttanti a entrare nel Cln, disordinate tregue con i tedeschi di talune brigate alle spalle delle altre. E anche un curioso momento storico, quando il sultano di Baghdad regalò a Carlo Magno un elefante. Doveva essere l'inizio di una relazione diplomatica con l'islam fortemente voluta dal sovrano, che però finì pressoché cancellata o relegata a "strano ma vero" poiché si riteneva sconveniente che il grande iniziatore dell'Europa guardasse con interesse al mondo musulmano: fino a spingere negli anni Trenta gli storici legati a Hitler a dichiarare che Carlo Magno «non era un vero tedesco». Da sempre il rovello di come cogliere la verità dei fatti mi perseguita. Sovente mi sono trovato davanti a fatti che mi parevano insensati, a volte lo erano. Con la cronaca è già dura, ma la storia è peggio, non controlliamo quasi nulla della nostra esistenza, figurarsi quella degli altri e dei tempi lontani. Passiamo metà dei giorni a incassare e a reagire ai fatti che accadono, e l'altra metà a cercare di giustificarli. Balzac scrisse che i ricordi rendono la vita più bella e dimenticare la rende più sopportabile, ma credo che la frase più appropriata sia piuttosto «Calunniate, calunniate, qualcosa resterà». E - ci credete? - fra Plutarco, Bacon, Voltaire e una manata di altre celebrità, su chi l'abbia pronunciata gli studiosi non si sono mai messi d'accordo.
Il 2000? Ci aveva promesso i replicanti. Invece abbiamo peste, catastrofi e grillini. Film, letture e scienza disegnavano il nuovo Millennio come l’era della macchine del tempo, dei viaggi nell’universo e degli uomini bionici. Invece ci siamo ritrovati epidemie come nel 1919, crisi come nel 1929 e attacchi agli Usa come nel 1942. E l’ignoranza al potere. Massimo M. Veronese, Domenica 31/05/2020 su Il Giornale. Ce lo avevano venduto in maniera tutta diversa: il punto più alto dell’intelligenza umana, l’universo senza più confini, l’uomo che convive con macchine sempre più perfette, uguali a lui, se non migliori, la fine del lavoro. Ecco, magari questa fantasia si è realizzata ma non proprio come ce la immaginavamo noi. Il Duemila quest’anno fa vent’anni, l’età delle gioventù e della bellezza, e non è mai stato così vecchio e brutto. Invece che farci viaggiare nel futuro ci ha trascinati nel passato e promette, così a naso, nuove età della pietra. Il cinema per esempio, maestro di generazioni di sognatori, tra catastrofi nucleari e invasioni aliene, ci aveva educato ad altre aspettative sul Duemila. «Blade runner» ci aveva convinto che nel 2019 avremmo avuto a disposizione replicanti da usare come forza lavoro nelle colonie extraterrestri. Invece nel 2020 abbiamo extracomunitari usati come forza lavoro nelle piantagioni del pugliese come nell’Alabama dei sudisti. «Ritorno al futuro» ci aveva fatto salire, al massimo entro il 2015, sulla macchina del tempo, invece abbiamo le ciclabili disegnate per terra nel bel mezzo del traffico milanese, e la bici che sembrava fino a qualche decennio fa un residuato della civiltà contadina è adesso il futuro equo e sostenibile. «Rollerball» era certo che nel 2018 l’umanità avrebbe sfogato gli istinti più bassi in un gioco assassino all’inseguimento su pista di palle di ferro, invece il peggio dell’uomo si sfoga seduto sul divano a chattare su facebook, tra gogne medievali e gare di rutti. Solo le palle, anche se non di ferro, circolano secondo previsione. «La Corsa della morte» ti spiegava che nel Duemila tondo tondo non ci sarebbero state più guerre, «Strange Days» che avresti potuto vivere le vite degli altri, e magari finalmente comprenderle, attraverso un dispositivo di realtà virtuale, «2001 Odissea nello spazio» che equipaggi umani avrebbero scorazzato per l’universo come i motorini di Roma per la città. Ma anche la scienza, oltre che la fantascienza, ci faceva vedere altro: la Nasa prevedeva i primi esploratori umani su Marte nel 2010, i politologi che l’elettorato cosiddetto moderato, ormai maggioranza, avrebbe deciso gli uomini al comando del mondo, la medicina era certa che il tumore sarebbe stato sconfitto. Invece niente. Il Duemila ventenne ci ha rifilato solo sfighe, congelando il tempo in un eterno passato. Il 2001 ci ha restituito alla Twin Towers un attacco all’America come a Pearl Harbour nel 1942, il 2007 una crisi economica più devastante di quella del 1929, il 2020 ci ha infettato con un epidemia che ricorda la Spagnola di cento anni fa. Le Olimpiadi di Tokyo sono state rinviate come nel 1938, l’Italia del calcio non è andata ai mondiali come nel 1958, e abbiamo due papi come nel 1378. E poi guerre mondiali, tsunami biblici, terrorismi religiosi, i veli al posto delle minigonne, bambine che predicano sventura, grillini al potere. E «Bella ciao» è l’hit del momento a noi che sembrano vecchi i Rockets. Ma quello che è peggio è che la pazzia guida i nostri giorni più della ragione diventando modello politico e sociale. Da cosa derivi questo uscire di testa virale e globale non si sa, questo vivere con la convinzione che non ci sia più nessuno e più nulla a cui rendere conto di niente, che tutto vada e venga senza senso. Ma di certo il futuro non è più quello di una volta. E adesso? Promettono case che parlano, uomini bionici e turismo spaziale, ma chi ci crede più. «Alien» arriverà nel 2122, ma non fatevi illusioni. Elisabetta sarà ancora la regina d’Inghilterra...
QUALE STORIA. Raffaele Vescera su Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale il 30 maggio 2020. Di Liliana Isabella Stea. Dopo l’intensificarsi di spiacevoli episodi giornalistici e televisivi, si impone una domanda: ”Dove e come si sono formati questi pseudo-italiani sempre impegnati a lanciare insulti da una parte e a subirli dall’altra?” L’unico elemento che li accomuna tutti nella loro formazione è la scuola, dove usano più o meno gli stessi libri di testo in cui è scritta la loro comune storia che credono condivisa e da cui dovrebbero ricavare una altrettanto comune e condivisa identità come accade ad altri popoli, tipo francesi e inglesi. La Storia che costoro leggono nei loro libri di scuola li informa di quanto è accaduto nella loro Nazione prima che loro nascessero, ed ognuno sviluppa una identità nazionale uguale per tutti. Nei nostri libri di Storia invece ogni bambino sviluppa una identità diversa a seconda della latitudine, nord o sud, anche se l’impostazione del testo è uguale per tutti. E non mi sto contraddicendo. Sto cercando di mettere in evidenza che, se trasmetto a tutti bambini della Nazione che i loro antenati erano ricchi, bravi e buoni al Nord e poveri, ignoranti, cattivi al Sud, quei futuri cittadini non potranno sviluppare una identità comune e uguale per tutti come i francesi o gli inglesi, ma ne svilupperanno un ‘derivato’ bivalente e purtroppo condiviso. Ossia, siamo tutti italiani, condividiamo questa identità e appartenenza, ma condividiamo anche la convinzione che quelli del nord sono… e quelli del sud sono… come detto prima. Poiché me l’hanno detto gli adulti, di cui mi fido, e l’insegnante, che le cose le sa e mi fido anche di lui, mi convinco, a qualunque regione io appartenga, che i settentrionali sono migliori dei meridionali, e questa diventa una convinzione condivisa. Quindi, se il settentrionale sarà sprezzante nei confronti del meridionale, quest’ultimo non si ribellerà perché è convinto (così gli è stato insegnato da adulti autorevoli) che colui ne abbia tutte le ragioni essendo lui, meridionale, ‘da sempre’ meno rispetto a quell’altro. Entrambi pensano che il settentrionale sia ‘migliore’ del meridionale e che al migliore spetti il meglio di tutto, così come al ‘peggiore’ tocchi il peggio di tutto. In dieci anni di scuola dell’obbligo ad ogni futuro cittadino di questa nazione viene ripetuto questo concetto in ogni modo, e volete che non se ne convinca? Così come le donne si convincono di essere ‘meno’ degli uomini, così i meridionali si convincono di essere ‘meno’ dei settentrionali, e viceversa uomini e settentrionali si convincono di essere ‘più’ di donne e meridionali. La fonte da cui arriva questo ‘insegnamento’ è autorevole, è uniforme; su tutto il territorio nazionale si racconta la stessa Storia, senza contraddittorio, e chi osa raccontare una Storia diversa, benché documentata, viene insultato e deriso, emarginato. Come avevano ben compreso i pedagoghi che nel ‘700 hanno codificato queste norme educative, se fate qualcosa a un bambino molto piccolo, per esempio un condizionamento mentale come quello descritto, l’insegnamento che volete dargli si radicherà profondamente, e dopo, da adulto, non vorrà credere a chi gli mette in dubbio quelle che lui crede ‘verità’. Soprattutto il settentrionale convito di essere ‘il migliore’, ma anche paradossalmente il meridionale, condannato ad essere ‘meno’ perché, come ho scritto nel mio libro “Perdonate, signore, questa è la mia Patria (Perché siamo come siamo)” a pagina 58-59 “Ogni popolo dipende, per la soddisfazione di molti suoi bisogni, dai governi che lo amministrano: scuola, sanità, trasporti, sicurezza, ecc. E al pari di un bambino ha bisogno di pensare che i suoi governanti, paragonabili ai genitori, per la loro funzione e il loro potere, lo amano, agiscono nel suo interesse e per il suo benessere, e come un bambino, è pronto a prendere su di sé la colpa di ciò che non va. Perfino nel caso in cui sia ben evidente che così non è e che il suo governo, in funzione di genitore, ha le sue responsabilità e le sue mancanze, e una ribellione sarebbe necessaria, allora, come in un bambino che non saprebbe come sopravvivere se andasse via dalla sua casa, poco confortevole e magari anche anaffettiva, ma pur sempre casa, allora subentra la paura di perdere le certezze, sia pur negative, ma a modo loro rassicuranti.” E il meridionale, per paura dell’ignoto e per soddisfare il bisogno di appartenenza, resta fermo nel suo ruolo di subalterno e di negativo. Non sa di avere diritto ad una identità rispettabile e si tiene quella che gli hanno cucito addosso. Il famoso meglio di niente. Ad una vera identità condivisa senza migliori da sempre e peggiori da sempre si può arrivare solo cambiando i libri di testo delle scuole di ogni ordine e grado. Senza questa battaglia, perfino i più convinti oppositori di questo iniquo sistema saranno in difficoltà con i propri figli e nipoti, che, formati diversamente dalla maggioranza, rischiano di essere dei ‘diversi’, termine che in questa società è sinonimo di emarginazione. Come si fa una battaglia per cambiare la stesura dei libri di testo scolastici? Io non lo so, ma tra voi ci sono sicuramente persone che possono indicare la strada da percorrere, parliamone! Volere è potere, e insieme si può. Proviamoci. La posta è alta e vale la pena battersi. Grazie.
Memoria della memoria, l’ossessione di ricordare per poi dimenticare. Eraldo Affinati su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Perché scegliamo di ricordare certi eventi mentre altri li dimentichiamo? È una vecchia domanda logorata dalla psicanalisi. Pensiamo alle storie personali che abbiamo alle spalle: pare sempre forte la tentazione di concepirle alla maniera di un nostro esclusivo possedimento, quasi fossero il colore degli occhi, la qualità del sorriso. E invece la famiglia, felice o infelice che sia, lungi dal porsi quale evento naturale, è un’invenzione della storia, uno dei nuclei primari e tuttavia fungibili della nostra civiltà: potrebbe essere questo il succo prezioso di Memoria della memoria (Bompiani, pp.457, traduzione di Emanuela Bonacorsi, 22 euro), composto da Marija Stepanova con la pazienza certosina della ricercatrice e una notevole grazia stilistica. Scoprire le genealogie per lei significa entrare in una dimensione corale uscendo dall’atrofia soggettiva: tocchi la radice di una pianta e ti accorgi che questa s’intreccia con molte altre. Non siamo soli al mondo, anche se a volte saremmo spinti a pensare il contrario: Jared Diamond nel classico Armi, acciaio e malattie, uscito nel 1997, che molti hanno riletto in questi mesi sulla nuova onda epidemica, ce lo raccontò con sagacia narrativa e precisione scientifica. Allo stesso modo la tradizione di un singolo essere umano non è mai solo sua: nel momento in cui la interpelli, smuovi l’intera struttura. Sembra fondamentale capire cosa vogliamo trovare nel calderone indifferenziato della storia trascorsa, sapendo che optare per questo o per quello produce conseguenze talvolta incontrollabili. Il compito di chi scrive appare profondamente connesso a questa coscienza collettiva. Per fare un solo esempio: la sala dedicata alle storie del Museo ebraico di Berlino dove vengono conservate fotografie di bambini, tazze e violini, inghiottiti nella tragedia della Shoah, non riguarda soltanto loro, ma ognuno di noi, specialmente quando ci troviamo coinvolti nell’azione di ripristino dei contatti interrotti a causa di forza maggiore: guerre e violenze, ma anche semplicemente il trascorrere rovinoso e trionfante del tempo sulle imprese umane. «D’altra parte il fardello della post-memoria», dichiara Stepanova, nata a Mosca nel 1972, «ricade sulle spalle dei figli: la seconda e terza generazione di chi è sopravvissuto e si è concesso di volgere gli occhi al passato». E così a contare, in questo lungo viaggio all’indietro, con gli occhi rivolti al futuro, non sono tanto i tasselli tematici relativi ai padri, ai nonni e alle bisnonne, che evocano vicende belliche soprattutto russe attraverso la messa in scena di lettere e descrizioni fotografiche, diari e riflessioni, quanto il sentimento di smagata disillusione nei confronti di qualsiasi intento ricostruttivo. Tutto, prima o poi, si perderà, compresa l’idea stessa della conservazione: dall’Ecclesiaste alla manzoniana biblioteca di Don Ferrante, la bibliografia al riguardo è infinita. I quadri citati dalla Stepanova rivelano il senso di ciò che stiamo dicendo: le facce del Davide con la testa di Golia di Michelangelo Caravaggio, visibili nel Kunsthistorisches Museum di Vienna, dimostrano «che non c’è differenza tra vincitore e vinto». L’Incendio nella foresta di Piero di Cosimo, assomiglia a un’esplosione apocalittica originaria o finale: «La catastrofe, a quanto pare, può essere l’istanza generatrice, o è una fornace in cui le figure di argilla si induriscono o un calderone per trasmutazioni». Ecco allora in quale senso il gesto di custodia e protezione che la letteratura, malgrado ciò, s’incarica di realizzare diventa eticamente rilevante: le scatole magiche e i filmini di Joseph Cornell, l’artista americano che fece scattare in piedi il giovane Salvator Dalì, sconcertato dal ritrovare in certi fotogrammi il proprio carattere più intimo; gli autoritratti di Rembrandt, nei quali si vede in azione “il lavoro della morte”; la titanica impresa proustiana e i pappagalli di Giambattista Tiepolo affrescati nella residenza di Würzburg e miracolosamente scampati ai bombardamenti della Luftwaffe. Ma è chiaro che lo scrittore di riferimento più importante presente in quest’opera per molti versi drammatica ed epigonica resta Winfried Georg Sebald, al quale la Stepanova rende esplicito omaggio soprattutto nel mirato confronto con Primo Levi: inutile distinguere fra sommersi e salvati, afferma l’autrice, essendo gli uni e gli altri destinati a sparire: «Dunque non serve scegliere, e ogni cosa, ogni sorte, ogni persona e ogni insegna merita di essere ricordata, di scintillare ancora nella luce prima del buio finale». Conclusione che, in evocazione di alcuni versi di Paul Celan, ci propone una verità azzardata e rischiosa in quanto aperta a possibili equivoci legati alla paralisi cui ci potrebbe consegnare tale invocata lungimiranza, ricollocando il romanzo contemporaneo nei registri sapienziali criptonovecenteschi di muta iscrizione tombale nei quali è spesso sprofondato. Il libro si configura alla maniera di un sepolcreto («come se il volume e il vissuto degli altri e il loro numero fossero più di quanto possa essere tenuto a mente»): che è insieme la sua forza e la sua fragilità.
Italia, paese senza memoria. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Maggio 2020. Nello scorso fine settimana gli Stati Uniti hanno celebrato la festa dei Veterani dedicata a tutti i soldati statunitensi di tutte le guerre, dalla Rivoluzione americana all’Afghanistan. È una ricorrenza festosa del mese di maggio che gli americani celebrano con grandi picnic anche nei cimiteri militari. Le televisioni si sono però sbizzarrite a intervistare giovani sotto i trent’anni: «Contro chi è stata combattuta la seconda guerra mondiale?». Risposta: «Il Brasile?». E la prima? «Contro la Francia, ma non ricordo». E così via. Una serie di straordinari strafalcioni da cui si capiva soltanto che, almeno nei grandi numeri, i ragazzi statunitensi non hanno la più pallida idea della storia del loro Paese, del perché si chiamano americani e del passato comune, benché alcuni simboli, come l’uso familiare e plebeo della bandiera anche come canovaccio da cucina, e gli inni, mantengano vivo il display identitario. E da noi? Come funziona la memoria? Passiamo direttamente alla domanda di riserva: chi e come mantiene viva la memoria di noi italiani? La risposta è facile: non ci pensa nessuno. Ormai lo sappiamo: lo strumento più complesso e accessibile di cui disponiamo sono le teche della Rai, formate come stratificazioni del tempo. In ogni Paese gli anni non si contano dalle date di battaglie ma dai jingle, le canzoncine della pubblicità, sicché da noi il servizio prestato da Carosello supera quello dell’enciclopedia Treccani, lasciamo stare i licei. Il Festival di Sanremo è tuttora trattato, con molto abuso di soldi e cortisone, come se fosse istituzionalmente l’album del nostro Dna, malgrado il fatto che il 95 per cento delle canzoni propinate siano men che mediocri, ma sostenute da investimenti sfarzosi che hanno un riconosciuto potere unificante, non importa che cosa unifichino. Correva l’anno, inteso come jingle della storia, fa sempre riferimento a qualcosa che abbia lasciato un segno: film, pubblicità, moda, musica, raramente arte, editoria: queste sono le catene di aminoacidi su cui si forma l’elica genetica che ci dà l’impronta. E la rissa fra coloro che vogliono possedere quell’impronta per trasformarla in potere definisce lo spazio su cui si gioca il futuro di tutti. Ma in realtà quel potere non è rivendicato perché nessuno lo vuole ed è preferibilmente mummificato. Lo scontro consiste nell’impedire che venga gestito. George Orwell non aveva soltanto notato che nella Fattoria degli animali vigeva un tale rigido criterio di uguaglianza per cui alcuni animali erano meritoriamente più uguali degli altri; ma che chi controlla il passato (dunque la Storia), controlla il futuro. E che chi controlla il presente, controlla il passato. Un buon controllo del passato è sufficiente dunque per controllare il futuro. Se non si sa controllare il passato… Si può controllare l’anestesia e la lobotomia, meglio l’amnesia: meno rogne, basta che la legge sia uguale per tutti. Quel delicato meccanismo che sbrigativamente chiamiamo “memoria” è il Gps che ci permette di viaggiare nel tempo, ma la memoria ha una caratteristica che tutti trascuriamo anche se la conosciamo. La memoria si accende soltanto in presenza di una emozione. Tutti coloro che imparano le tecniche della memoria per concorrere nei quiz televisivi sviluppano metodologie usate per migliaia d’anni nelle scuole greche e romane e rinascimentali, prima che arrivasse la stampa a caratteri mobili e facesse dimenticare questa tecnica che permetteva di recitare un testo appena letto in senso contrario, dall’ultima alla prima parola. La stessa Divina Commedia è un teatro della memoria, come quello creato dall’umanista Giulio Camillo Delminio. La memoria si può organizzare in scatole, case, archi, teatri, ma il punto centrale è che tutti ricordiamo soltanto quel che ha colpito i nostri sensi. Il memorabile deve essere sempre legato a marker semplici come l’orrore, il piacere, il disgusto, la disperazione, profumi e puzze, oscenità e merda, paura e terrore, la tenerezza ispirata dai cuccioli e l’angoscia di morte. Fate un controllo personale: tutti i ricordi indelebili sono legati a sensazioni memorabili. E così abbiamo tutti una vaga ma ancora attiva percezione del fatto che esiste sia una memoria personale, con tracce di memoria collettiva, che però non è il solito “inconscio collettivo” di Carl Gustav Jung ma piuttosto un minestrone di frammenti condivisi, ricordati, allusi, i pettegolezzi geniali di Dagospia, tutto ciò su cui interviene la televisione che con il traino dei social forma quella instabile nitroglicerina che è l’identità comune. Tutto ciò è banale, perché sotto gli occhi e nella memoria di tutti, ma costituisce – guarda un po’ – un tabù. Non è prudente trattare la storia. Un tempo – il tempo di Peppone e Don Camillo – la politica si regolava pressappoco così: i cattolici e il papa curano la memoria come identità religiosa, mentre il Partito comunista cura la cultura, le case editrici, il cinema, i media. La sottilissima area laica, quella socialista radicale e liberal-libertaria non ha mai avuto la forza sufficiente fino alla fine della Guerra Fredda per inserirsi nel gioco dei grandi, ma poi il gioco dei grandi è finito e nulla e nessuno lo ha sostituito. La televisione italiana non ha mai nemmeno voluto affrontare come archivio di sceneggiatura godibile neppure il Risorgimento italiano, salvo alcuni tentativi che non si sono mai scostati dall’agiografia monumentale. Pensate alla riserva del Western americano: Billy the Kid e Buffalo Bill, il colonnello Cody e Toro seduto, la Guerra di secessione e Via col vento, fino a Bonnie e Clyde e Al Capone o i Sopranos. Gli americani hanno magnificamente saccheggiato, maneggiato, manipolato e ricreato il loro recente passato dando vita a un’epopea identitaria basata sulla loro memoria, che è stata così potente da infiltrarsi nella nostra memoria attraverso Walt Disney e l’epopea Western, finita col nostro Sergio Leone che andò ad insegnare agli americani come amministrare cinematograficamente la loro memoria, ma che non se la sentì di filmare l’avventura di Carlo Pisacane massacrato coi suoi trecento a Sapri dai contadini. O di Felice Orsini che a Londra su consiglio di Giuseppe Mazzini si fece confezionare un paio di bombe da un bombarolo di fiducia da lanciare contro Napoleone Terzo, colpevole di fregarsene dell’Italia, mancandolo, per poi finire sotto la ghigliottina mentre alcuni suoi compagni si arruolavano nella cavalleria dell’esercito americano combattendo nella battaglia del Little Bighorn. La Rai non ha mai voluto andare a impicciarsi troppo del nostro passato western: troppi garibaldini forse craxiani, bisogna stare attenti ai “mangiapreti” perché sua santità potrebbe dolersene, e poi non bisogna infastidire gli storici marxisti, meglio darsi al dadaumpa con le sorelle Kessler, vai più sul sicuro. Le reti commerciali sono state altrettanto prudenti e ormai non resta che sperare in Netflix – hai visto mai – che è diventato una delle maggiori fonti storiografiche e della memoria sia nazionale che internazionale. La Bbc molti anni fa realizzò la serie “Roma” sulla grande crisi istituzionale che fece cadere la Repubblica e inaugurare l’Impero, con un cast fantastico in cui Cicerone parlava come Winston Churchill e una sterminata serie in titoli di coda di personale italiano, storici, accademici, linguisti, sceneggiatori, ma che lavoravano per un prodotto destinato ai popoli di lingua inglese con risultati mai raggiunti e mai cercati. Scusatemi se uso me stesso per fare degli esempi, ma sono l’unica persona che conosco e dunque ricordo personalmente il fastidio, la noia e il desiderio di fuga che provavo da bambino quando gli adulti anziani discutevano dell’uomo di Dronero (Giolitti), dell’equivoco scambio di lettere tra l’onorevole Curlo e l’onorevole Meda, con contorno di tutti i personaggi dell’Italietta prefascista con abbondante mitologia pascoliana, carducciana e garibaldina (poco mazziniana) e molto savoiarda, tutta trattata come antologia attualissima e che invece era già decrepita e immemorabile. Oggi sarebbe ora, se qualcuno avesse il fegato di riaprire il teatro della memoria, ma sotto forma di spettacolo, come attualità, visto che i temi dell’identità nazionale, delle frontiere, dell’immigrazione, dell’integrazione e dell’assimilazione sono talmente maturi da risultare guasti. Si potrebbe partire dalla scoperta del fatto che, più o meno fino a duecentocinquanta anni fa non esisteva uno spirito nazionale e nazionalista; la gente apparteneva al suo re e alla sua religione, parlava la lingua che gli era capitata con i suoi dialetti e fino a Napoleone le appartenenze e le identità, dunque la memoria, andavano in una maniera che oggi non riusciremo a capire, così come l’arte, la comunicazione, la musica. Un gruppo hip-hop che si fosse presentato nel diciottesimo secolo, sarebbe stato subito internato in un manicomio. Fino alla Prima guerra mondiale il mondo che potremmo chiamare il nostro mondo, era dominato da un clan di teste coronate fatte di cugini, fratelli, cognati, nonni e zii. Il poeta romano Trilussa concludeva la sua “Ninnananna di guerra” ricordando che «So’ cuggini, e fra parenti non se fanno complimenti: torneranno più normali li rapporti personali». Oggi in Italia la storia non si insegna più e questa amputazione viene giustificata in vari modi, ma il fatto è che la semplice narrazione di come andarono le cose, è graffiante e controversa, è madre di altre guerre e così, sempre negli Stati Uniti, molte scuole preferiscono non affrontare la Seconda guerra mondiale perché parlare della Shoah significherebbe mettere in conflitto gli studenti di religione musulmana con quelli di origine ebraica. Quando frequentavo il liceo, il programma di storia si fermava alle “cause della Prima guerra mondiale”. Cause, peraltro, mai chiarite perché ci sarebbero parecchie cose da spiegare in quell’evento di oltre un secolo fa, come ad esempio il fatto che la maggior parte degli intellettuali della sinistra in Italia, Pietro Nenni repubblicano e futuro segretario socialista, e Palmiro Togliatti che sarà “il Migliore” dei comunisti, Antonio Gramsci fondatore del Pci, andarono in guerra volontari, come Mussolini che per questo ruppe col partito socialista e se ne fece uno suo. Una a caso, ma immaginate: che spettacoli, che sorprese, quali polemiche, conflitti, quale nuova vita della nostra storia anche per scoprire per quale accidente di motivo molte parti della storia, non soltanto italiana, sono state censurate, necrotizzate o poste sotto divieto assoluto. Verrebbe voglia di dire: ehilà, voi tutti liberi, liberali, libertari, riformisti e garantisti, unitevi – uniamoci – perché siamo ancora in tempo durante questa carestia a fare gli italiani, visto che fare l’Italia non è stata un’impresa ben riuscita.
· La prossima egemonia culturale.
Dai globalisti agli antimoderni. Il virus influenza il pensiero. Le "famiglie" culturali rispondono in modo molto diverso alle domande sul futuro e su come ridare senso al mondo. Corrado Ocone, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Potrà sembrare un aspetto secondario in questo momento, ma in verità è l'architrave su cui poggerà il nostro futuro. Il Covid-19 ha conseguenze drammatiche sull'economia, sulla società, sull'istruzione, ma ne ha anche sul pensiero. Intorno a quali categorie si organizzerà la nostra comprensione del mondo, il nostro dare senso ad esso? Chi eserciterà nei prossimi anni l'egemonia culturale? Quale narrazione risulterà vincente, ispirando l'azione delle classi dirigenti e modulando il senso comune dei cittadini? Nulla sarà più come prima, o al contrario tutto resterà immutato ma in peggio come ipotizza Michel Houellebecq? Altrove, soprattutto in Francia, il dibattito è già ampio. In Italia le posizioni cominciano solo ora a delinearsi, in un contesto nazionale in cui la riflessione intellettuale sembra ancora asfittica e legata ai topoi rassicuranti del moralismo e del politicamente corretto. Proviamo a individuare qualche filone di pensiero, quasi come un divertissement intellettuale e tenendo ben presente che si tratta di tendenze che a volte si pongono in alternativa fra loro e altre volte si intersecano.
1. I globalisti. Sembra impossibile, ma continuano ancora ad esserci coloro che giudicano la crisi attuale come un incidente di percorso, come qualcosa che prima o poi sarà superato e archiviato e ci rimetterà sui binari felici del Progresso e della Globalizzazione. D'altronde, si dice, il virus ha mostrato che siamo in un mondo iperconnesso e che un problema che sorge in una lontana provincia cinese in poche settimane può diventare un problema comune a tutto il mondo. Dobbiamo quindi ripartire accelerando la collaborazione e la condivisione fra i popoli, in vista di un governo unico mondiale, e di un'etica comune all'umanità (ovviamente quella della correctness). «A problemi globali, una risposta globale».
2. Gli anticapitalisti. Per costoro il Covid-19 conferma le loro analisi di sempre: in crisi è il nostro modello di sviluppo, che non è riformabile ma va rovesciato. Quale sia l'alternativa non è dato sapere, e comunque ognuno la immagina a suo modo. La sinistra radicale pensa come al solito al comunismo, ovviamente e come sempre quello «vero» e non ancora mai realizzato; qualcuno a una «decrescita felice» e casomai green. I pensatori della sinistra radicale fanno dell'attuale una crisi di diseguaglianza crescente, e quindi di un modello di sviluppo non da riformare ma da sovvertire.
3. I gretisti. In parte sono anticapitalisti della sottospecie decrescista anche loro, in parte annoverano fra le proprie fila molti capitalisti che sperano in questo modo di riconvertire il sistema di produzione in un'ottica schumpeteriana di «distruzione creatrice». Ovviamente un capitalismo non liberista, come quello dei globalisti, ma statalista nel preciso senso che, con una buona dose di ingegneria sociale e costruttivismo vorrebbe affidare allo Stato il compito di impostare dall'alto e poi accompagnare la trasformazione. La quale, come dice Luciano Floridi nell'ultimo suo libro, deve essere verde e blu al contempo, fondata cioè sulla riconversione ecologica e sulla Intelligenza artificiale.
4. I sovranisti. Sembrerebbero i vincenti di questa partita, con il mondo costretto a chiudere i confini e con il ritorno prepotente degli interessi nazionali. Non coperti nemmeno più, a livello continentale, da quella retorica europeista che accomunava politici e burocrati di Bruxelles. I globalisti dicono ora spesso le cose che dicevano prima gli odiati sovranisti. Tanto che persino Romano Prodi arriva a proporre all'Italia il reshoring, il rientro in patria di aziende e lavorazioni negli anni delocalizzate. Eppure, è come se ai sovranisti mancasse un'idea per il futuro, dopo avere nel passato visto il presente meglio degli altri. La loro presenza annuncia nuove sintesi e nuovi equilibri, ma questi tardano a delinearsi.
5. Gli antimoderni. Sono coloro che riconducono la situazione attuale del mondo a una crisi spirituale, di civiltà, soprattutto dell'Occidente che ha perso o non crede più nei propri valori. È la «dittatura del relativismo», di cui parla Ratzinger. Per i più catastrofisti di loro non c'è più speranza, e solo «un Dio potrà salvarci». Per altri c'è bisogno di invertire drasticamente la rotta e ritrovare nel passato la spinta per il domani. Essere antimoderni non significa però essere necessariamente premoderni, bensì solo prendere atto che il progetto razionalistico degli ultimi secoli è giunto al capolinea.
6. I neopaternalisti. In molti vagheggiano un governo che protegga e rassicuri, da ogni punto di vista: economico, epidemiologico, della sicurezza personale. E che, in virtù del fine, possa anche mettere fra parentesi le libertà fondamentali e i diritti umani. Una democrazia controllata e guidata, «illiberale», o addirittura un nuovo dispotismo soft all'orientale sul tipo di quello cinese. Perché il liberalismo è obsoleto, come ha detto Putin. E la libertà esige responsabilità, e quindi fatica.
7. I conservatori. Sembravano un reperto del passato, e invece potrebbero trovare una nuova linfa vitale. Liberali e anche liberisti, ma all'interno di una comunità politica coesa e unita da valori comuni e dall'amore per la Patria; ecologisti ma nel senso della cura e manutenzione continua della propria casa (oikòs), non in quello dei Grandi Progetti; scettici e disincantati sulle umane vicende ma sensibili al trascendente; aperti al futuro ma convinti che esso debba maturare ed evolversi dalle esperienze del passato. Essi, in poche parole, sembrano porsi al crocevia delle altre tendenze, moderandole e umanizzandole. Che sia loro il futuro?
· Il Buonismo.
Basta con la melassa: Padre Cavalcoli svela l'Eresia del Buonismo. Oggi pomeriggio, in diretta web, conferenza a più voci sul libro del teologo domenicano. Andrea Cionci su Libero Quotidiano l'1 novembre 2020.
Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.
“L’eresia del buonismo”, il volume di Padre Cavalcoli, uno dei teologi più colti e soprattutto aderenti al vero magistero cattolico, torna prepotentemente alla ribalta - purtroppo grazie alla cronaca - e sarà oggetto di una chiacchierata, oggi alle 17.30, sulla piattaforma Youtube “Ritorno a Itaca” (clicca qui per vederlo) e sulla fan page Facebook del moderatore Aurelio Porfiri, con ospiti del calibro di Aldo Maria Valli ed Eugenio Capozzi (anche Libero darà un suo piccolo contributo alla discussione). Dopo i silenzi dei vertici ecclesiastici sulle orribili stragi islamiste in Francia e sulle persecuzioni dei cristiani in Cina, gli interrogativi di Aurelio Porfiri sono condivisi da molti cattolici: “Abbiamo diritto di difenderci? – si chiede il musicista - Abbiamo diritto di respingere la retorica della misericordia (non la vera misericordia) che viene da tanti settori della Chiesa Cattolica? Bisogna accogliere, accogliere, accogliere....benissimo! Accoglieteli tutti in Vaticano, fate in modo che Vescovi e Cardinali debbano difendere i loro cari dagli assalti di popoli che - la storia lo ha provato - non vogliono affatto integrarsi. La gente è stanca, frustrata, spaventata. È facile parlare di accoglienza quando si vive protetti da un corpo di sicurezza fra i migliori del mondo e in uno stato in cui, non dimentichiamolo, senza un motivo non si entra. Si può continuare a propagandare la misericordia senza la giustizia? Purtroppo questa retorica è rafforzata dal clima buonista in cui viviamo, il buonismo di coloro che predicano moderazione soprattutto agli altri, ma che non sanno portare quegli stessi pesi per se stessi. Il libro di Padre Cavalcoli è un’efficace lettura per aprire gli occhi su questo devastante e nauseabondo politically correct che ci sta ammorbando da decenni e che si fa sempre più fastidioso”. Se ben conosciamo il buonismo come tratto identificativo di una certa parte politica, è molto stimolante la sua declinazione come vera e propria eresia tanto che già nel 2015, di fronte alle tragedie nel canale di Sicilia, ci eravamo posti la stessa domanda. “L’eresia buonista ha una storia molto recente – spiega Padre Cavalcoli - almeno nella sua forma estrema che prevede la bontà di tutta l’umanità con la negazione del peccato (come privazione della grazia), dei castighi divini e dell’esistenza di dannati nell’inferno. Essa sorge e si diffonde subito dopo il Concilio Vaticano II grazie a un’interpretazione pretestuosa ed estremista dell’impostazione conciliante dell’etica e della pastorale del Concilio. Questa eresia comparve già con Origene, ma in una forma molto più attenuata, in quanto, come è noto, Origene ammetteva l’esistenza di anime dannate e dei demòni nell’inferno, ma immaginava che alla fine del mondo tutti, uomini e demòni sarebbero stati perdonati ed assunti nell’eterna beatitudine”. Vi è anche un buonismo alla Lutero, con la sua teoria della predestinazione, secondo cui il destino delle anime è già implacabilmente segnato e si spera in una misericordia divina indipendentemente da quanto l’uomo possa fare per salvarsi. Vi è poi il buonismo settecentesco di Jean-Jacques Rousseau, il quale sostiene che l’uomo, naturalmente buono, non è stato corrotto dal peccato originale, ma dal convivere sociale. Il protestantesimo liberale dell’’800, Schleiermacher, Von Harnack e Ritschl aprono la via all’idea che nell’inferno non c’è nessuno. Questa eresia penetra nella Chiesa cattolica col modernismo condannato da S.Pio X ed è stata diffusa dopo il Concilio Vaticano II da Karl Rahner . In molti attribuiscono la frase “l’inferno è vuoto” ad Hans Urs von Balthasar, ma sembra che questo concetto, da lui spesso rinnegato, sia stato piuttosto una trappola tesa dei nemici del teologo svizzero che, invece, fu fatto cardinale da Wojtyla (anche se morì due giorni prima di ricevere il galero) e viene considerato un “grande teologo” proprio da Josef Ratzinger. Sarebbe avvenuto, quindi, una specie di siluramento mediatico di colui che in effetti era considerato il nemico n.1 di Rahner e che, non a caso, fu escluso dal Concilio. Ce ne rioccuperemo di von Balthasar, ma, nel frattempo, fateci caso: nel dibattito cattolico ormai il DOGMA DEL PURGATORIO E’ SCOMPARSO. Si parla pochissimo dell’inferno - e spesso a sproposito - ma assolutamente zero di quello stato intermedio di “purificazione subita” propedeutico alla visione di Dio, nella quale ogni residuo di peccato viene combusto dalla luce divina. Avevamo già scritto di quali radicali ribaltamenti siano in corso nella fede e, per quanto possa far comodo a tutti una prospettiva escatologica più comoda, un “sei politico” dell’Aldilà, con tutti promossi, l’inquietante sospetto è che – per chi crede nella vita dopo la morte - questo possa mettere a rischio la salvezza di qualche miliardo di anime. Se un oncologo dicesse: “Fumate tranquilli, tanto poi i polmoni espellono tutto il catrame del tabacco” o se un dietologo affermasse “Il fast food non vi fa niente e nemmeno l’alcol” verrebbero certamente molto apprezzati dalla massa, ma sarebbe opportuno fidarsi di loro? Con il libro di Cavalcoli invece si “rifà la convergenza” alla fede cattolica vera, quella ortodossa, quella “scomoda”. Particolarmente interessanti i concetti di ira e aggressività, che, invece di essere rimossi chirurgicamente (e a forza) come vorrebbe utopisticamente il pensiero unico buonista, vengono modulati e indirizzati per la giustizia e, quindi, proteggere e salvare i deboli e gli oppressi. Si può essere laici o credenti, ma non si può fare a meno di riconoscere la coerenza interna dell’impianto razionale teologico cattolico (qui l’approfondimento) e di affrontare un affascinante viaggio intellettuale tra le “verità ultime”.
· La Dolce Vita.
Dario Salvatori per Dagospia il 27 ottobre 2020. Accadde il 5 novembre del 1958. Lo scandalo del “Rugantino”, il locale di Trastevere dove si spogliò la ballerina turca Aichè Nanà. Si festeggiava il compleanno di Olghina di Robilant, ventiquattrenne di sangue blu, che proprio due sere prima si era tuffata nella Fontana di Trevi per una scommessa. Il suo amico Guidarino Guidi, assistente di Federico Fellini, passando accanto a quell’acqua gelida esclamò che non sarebbe entrato là dentro nemmeno con una pistola puntata alla tempia. “Io lo farei per diecimila lire”, disse la giovane nobildonna. Partì la scommessa, entrò in acqua tutta vestita e vinse le diecimila, che coprirono esattamente la multa elevata per “inquinamento di acque pubbliche”. Così ci si divertiva. Olghina usciva con il facoltosissimo Peter Howard Vanderbilt, estroso miliardario americano, gay e vanitoso, che voleva regalarle un compleanno indimenticabile. Ci riuscì. La Robilant supponeva che sarebbe andato da Bulgari per scegliere qualche regalo prezioso che lei avrebbe immediatamente depositato al Monte di Pietà. Invece il Vanderbilt preferì donare un compleanno swing al “Rugantino”. Da quel momento la vita notturna romana non fu più la stessa. Guardando quelle foto storiche scattate nel basement del locale, riconosciamo Marcello Rosa, 85 anni, jazzista, trombonista, compositore, membro della Roman New Orleans Jazz Band e uno dei pochi sopravvissuti di quella serata.
Maestro Rosa, cosa ricorda di quella notte?
“Noi suonavano abitualmente al Rugantin- e quella sera ci dissero che ci sarebbe stata una festa privata, un compleanno. A quell’epoca il jazz piaceva alla Roma bene, alla nobiltà nera, alla Roma pariola.”
Però all’ingresso trovaste i fotografi e un pubblico di vip: Luca Ronconi, Corrado Pani, il marchese Carlo Durazzo, i principi Andrea Hercolani e Pier Francesco Borghese, Marina Cicogna, il pittore Tomas Conceptiòn...
“Si, però quando arrivò Anita Ekberg capimmo che la serata avrebbe preso un’altra strada.”
Però lei non si spogliò…
“No, però prese a ballare da sola a piedi nudi. Mentre suonavano mi si avvicinò una brunetta bonazza e mi disse in romanesco – ‘’Slacciame a guepiere e ‘a sottana, mo’ je faccio vedè io a quella’’- e si mise a ballare selvaggiamente. Era la ballerina turca Aichè Nanà.”
I clienti che cenavano al piano superiore scesero tutti, giusto?
“Si, io smisi di suonare perché avevo in mano la biancheria di Aichè. E quella fu la mia salvezza.”
Perché?
“Perché tutti i musicisti furono condannati a tre anni con la condizionale. La sentenza fu chiara. Con i loro strumenti eccitavano la turca. Lei era in pieno parossismo e urlava. “Datemi il tappeto di Allah!”, voleva dire datemi giacche e cappotti.”
Insomma lei la svangò?
“Non tanto, perché dopo qualche giorno i giornali americani pubblicarono quelle foto di Tazio Secchiaroli. Siccome due giorni prima era salito al soglio pontificio Giovanni XXIII i giornali americani titolarono – Orgia in Vaticano!- Mi chiamò mio zio dall’America chiedendomi se avessi cambiato mestiere. In una foto ero con la corsetteria di Aichè in una mano e con l’altra il trombone e sullo sfondo la cupola di San Pietro.”.
Altre complicazioni?
“Il locale era di Mario Crisciotti, proveniente da una famiglia di ristoratori. Lui se la cavò con una multa di tremila lire e i sigilli all’ingresso per qualche giorno. Però i turisti facevano la fila e ordinavano “Fettuccine allo spogliarello-“.
Si incuriosì anche Federico Fellini…
“Si, stava scrivendo “La dolce vita”, era stato invitato ma non venne, mandò la Ekberg. Voleva dimostrare come si divertivano i ricchi, come trasgredivano. Ci chiamò, ci fece un provino, noi arrivammo con le divise, suonammo un blues e una ballad, credo che si annoiò moltissimo visto che di trasgressivo non avevamo proprio nulla. Infatti chiamò Adriano Celentano, che nel 1958 era sicuramente più trasgressivo di noi.” Però era ufficialmente iniziata la Dolce Vita.
· Gli anni Ottanta.
Quell'Italia "di latta" che si piegò a tutto. "Nel groviglio degli anni Ottanta" troviamo le radici del Paese attuale. Stenio Solinas, Domenica 07/06/2020 su Il Giornale. Nel groviglio degli anni Ottanta (Einaudi, pagg. 303, euro 30), di Adolfo Scotto di Luzio, ha come sottotitolo «Politica e illusioni di una generazione nata troppo tardi», ovvero la stessa del suo autore, venuto al mondo più o meno al tempo del Sessantotto ruggente, decenne durante il Settantasette di piombo, ventenne quindi quando fra paninari, Tempo delle mele e pantere universitarie quell'epoca giungeva al suo termine senza aver bene afferrato il perché del suo inizio. Scotto di Luzio ha senz'altro ragione quando osserva che si tratta comunque di un decennio esemplare, quanto a coscienza di sé e coerente nel suo autodefinirsi, ma il fatto stesso che una buona metà del libro sia dedicata, come dire, alla elaborazione del lutto di ciò che c'era stato prima, è la spia di una fragilità congenita, una sorta di eterna età del rimpianto con annessa pedagogia del rimpianto, quella che, come lo stesso autore deve ammettere, farà «del cosiddetto riflusso la base di una compiuta formazione giovanile». Ben scritto, senza sociologia d'accatto né birignao accademico, si capisce che Nel groviglio degli anni Ottanta ha più a che fare con le aspirazioni e le delusioni dell'autore al tempo dei suoi vent'anni che con il suo successivo percorso professional-universitario, più una confessione, in stile educazione sentimentale, che un saggio critico. Questo rende più attraente la lettura, ma impedisce una riflessione compiuta, mantenendo cioè la visione sia di quel periodo, sia di quello che l'ha preceduto, all'interno di una mitizzazione rivoluzionaria che se è in qualche modo consolatoria non è per questo meno falsa. In sostanza, non ci fu prima nessuna rivoluzione a cui non si fece in tempo a partecipare, quindi sarebbe stato meglio dopo non piangersi addosso, tantomeno sentirsi in colpa o chiamare in causa il destino cinico e baro...Venendo più strettamente agli anni Ottanta, ciò che un po' resta fuori dall'educazione-confessione di Scotto di Luzio, spesso troppo colta nel suo nutrirsi di esempi alti, musicali, artistici, letterari, è una certa animalità viscerale che ne fu anche la sua cifra esistenziale, divenuta in seguito un dato di fatto del nostro Paese. Per esempio, nella conta dei fagioli di una celebre trasmissione televisiva della Raffaella Carrà di quegli anni c'è la televisione dei Fatti nostri che poi trionferà, da Funari a Zoro, Del Debbio, Giordano, Piazzapulita, passando per Lerner e Santoro; l'Italia di Toto Cutugno anticipa quella del presidente Ciampi e poi di Napolitano e di Mattarella; il bon ton di Lina Sotis prepara quello di Flavio Briatore; lo storico primo incontro fra metalmeccanici e comunità gay a Bologna («sono d'accordo con il compagno busone che ha parlato prima») è il viatico per i Vendola politici...Ci sono gli yuppies, i paninari, le finte bionde, le casalinghe che giocano in Borsa, i Rambo di Sylvester Stallone e I fichissimi di Diego Abatantuono. Ci sono anche i fatti tragici, talmente tanti che l'idea del decennio riflussato e de-ideologizzato necessita di qualche messa a punto. Strage di Bologna, scandalo dei petroli, terremoto in Irpinia, Ustica, assassinio di Walter Tobagi, dell'ingegner Taliercio, del generale Dalla Chiesa, sequestro Dozier, attentato al Papa... Si può anche mischiare il sacro al profano, «Gei Ar» e Enzo Tortora, i Duran Duran e Sigonella, Michele Sindona e il segretario del Pci Alessandro Natta sfottuto sulle pagine di Tango. Resta memorabile il ricordo dei politici canterini alla trasmissione Cipria: il socialdemocratico Michele Di Giesi che canta L'uccellin che vien dal mare, il repubblicano Oddo Biasini che gorgheggia Signorinella, il democristiano Calogero Mannino impegnato con la Turandot, il liberale Alfredo Biondi con Buon anniversario... Poi ci si domanda da dove venga il discredito della nostra classe politica. Quel decennio si apre con la morte di Pietro Nenni e si chiude con l'esordio televisivo di Gigi Marzullo e questo vorrà pur dire qualcosa. A livello internazionale però c'è il crollo del Muro di Berlino, c'è Tien an Men. Solo allora il Pci penserà di cambiare il nome e anche questo vorrà pur dire qualcosa. Ciascuno si porta dietro i propri ricordi e non è detto che generazionalmente siano gli stessi. Edonisti reaganiani, ragazzi dell'85, post-femministe, post-rivoluzionari, post-compagni, post-fascisti, pentiti e post-pentiti del giornalismo, del sesso, dell'ideologia, mai della vita, impiegati in stile Dynasty, nuovi soggetti politici ed economici: marxisti delusi e liberali perplessi, teorici appassionati dell'effimero e teorici dell'utile personale. Lo stabilire se il mutamento sia stato in meglio o in peggio è naturalmente una valutazione soggettiva. Personalmente, ciò che di quel decennio non mi piaceva era proprio quel combinato disposto di rampantismo, menefreghismo, cinismo, arrivismo, fancazzismo e qualunquismo (di Sinistra, pensa un po') che emerge plasticamente da esso. C'era un generale ritorno all'ordine nell'idea che tutto fosse già stato detto, pensato, e nella speranza che lo sfruttamento intensivo delle posizioni, il cambiare disinvoltamente bandiera, garantisse il funzionamento del sistema. Non si credeva più nei partiti, ma si continuava a usarli come moneta di scambio, non si sognavano più rivoluzioni, mai del resto avvenute, ma l'averle sognate garantiva la cooptazione nei centri di potere, si praticava l'edonismo di massa con la stessa disinvoltura con cui prima si era vissuto il pauperismo da comune. Non sorprende che poi sia saltato tutto. Se dovessimo racchiude gli Ottanta in una definizione, potremmo azzardare quella di «anni di latta». Abbiamo avuto gli anni della ricostruzione e quelli del boom, gli anni della contestazione e quelli del piombo: v'era latta anche in essi, ma non era predominante, non era il materiale di base. La latta è vile, cedevole, priva di valore. Il nostro tessuto umano e sociale non è stato da meno. Tuttavia, per uno di quei curiosi paradossi su cui il destino si diverte a farci inciampare, più si è piegato, si è acconciato alle altrui esigenze, e più ha racchiuso in sé una violenza inerte, fatta di sfiducia, di inimicizia, di egoismo, molto più forte di quella data, in altri tempi, dallo scontro fra opposti modi di essere e di esistere. In quel decennio non ci sono modelli antagonisti fra loro nella società, ma un modello vincente che l'avvolge e la permea. Schiacciato sul versante dell'essere, si è mostruosamente, patologicamente, sviluppato su quello dell'apparire. I ragazzi dell'85, per esempio, sono stati sì un'invenzione dei media - per quello che concerneva la loro presunta volontà di cambiamento, il loro essere un nuovo soggetto politico - ma altresì sono apparsi come la rappresentazione plastica di un look che è proprio di ogni movimento emergente per età e per potere. Fra essi e gli yuppies quarantenni non v'era distonia né crisi. I primi erano in fieri i secondi; questi, seppellite frettolosamente le ubbie alternative della loro giovinezza, frutto della dittatura della moda politica, si erano sottoposti a un lifting che cancellasse ogni segno di diversità, per entrare di diritto nella «nuova società». Se si riflette bene, si vedrà come l'Italia di oggi è il puro prodotto di quella generazione degli Ottanta che, pur nata in ritardo, mancando, come scrive Scotto di Luzio, «un appuntamento decisivo con la storia», non per questo non ha saputo fare bene i suoi conti rispetto alla cronaca.
· Il Grande Fratello.
2010-2019: il decennio in cui abbiamo capito davvero ''1984'' di Orwell. Pubblicato su it.mashable.com. Dire che 1984 di George Orwell è il mio libro preferito non è diverso dal dire che Star Wars è la mia saga cinematografica preferita. In effetti, sono le mie ossessioni. Li rivedo/rileggo per intero almeno una volta l'anno e ho già divorato tutto quello che c'era sui loro creatori. I loro stili non potrebbero essere più opposti – uno space fantasy un po' ingenuo contro una delle distopie più dure — ma entrambi i titoli sono degli esempi lampanti di buona costruzione di universi narrativi. Ed entrambi sono tornati in auge negli anni '10 del millennio, proprio quando ce n'era bisogno. Star Wars è finito in cima alle classifiche dei box-office di tutti i tempi; nel 2016 1984 è risalito nella lista dei bestseller, e c'è rimasto fin da allora (è anche apparso sugli striscioni di protesta in giro per il mondo). In una discussione che tenni a metà del decennio, intitolata ironicamente Il lato luminoso di 1984! (allarme spoiler, non ce n'è, nemmeno nella storia della sua scrittura), notavo che il mondo che Orwell aveva costruito continua ad affascinarci per una ragione soltanto: è talmente perfetto da mettere all'angolo tutte le successive distopie. Non ci sono buchi nella rete di controllo del Partito, nessun filo scucito che l'opposizione possa tirare. Se c'è una Resistenza, questa svanisce a metà della storia. Il libro è pensato per far sembrare totalmente infallibili il Partito e il suo meccanismo di oppressione. Tu lettore accetti, come il protagonista Winston Smith, che non può essere rovesciato. Questo non è The Hunger Games. Non c'è nessun cattivo stilizzato da romanzo young adult, come un Presidente Snow che una ribelle Katniss Everdeen possa spodestare. Persino Margaret Atwood, nel Racconto dell'ancella, distrugge Gilead in un poscritto ambientato in un lontano futuro.
Ma in 1984? Per quanto ne sappiamo, il Partito domina su tutto il genere umano.
Il Grande Fratello ti sta manipolando. Come ci riesce? Il Partito non deriva il suo potere dallo spiare i suoi cittadini, né dal farne delle spie o nel punirli. Tutte queste cose vengono presentate come semplici strumenti nelle mani dello Stato. Allora come fa ad avere un tale livello di controllo? Orwell, aka Eric Blair, un combattente socialista per la libertà e un ufficiale coloniale pentito affascinato dalla lingua e dalla politica, sapeva che nessun controllo poteva dirsi totale se non si colonizzavano prima le menti delle persone. Uno stato come quello che avrebbe descritto poteva esistere solamente se basato su una serie costante di grosse, ovvie bugie. Uno stato che si potesse dire completamente totalitario, e Orwell l'aveva capito dai regimi del suo tempo, avrebbe dovuto controllare la verità per poterla ridefinire a piacimento come "qualsiasi cosa decidiamo che sia". Avrebbe dovuto falsificare memorie, foto, documenti. La gente avrebbe anche potuto essere a conoscenza dei fatti, ma fin quando avesse tenuto la bocca chiusa e tirato avanti non ci sarebbe stato alcun problema (è il cosiddetto bipensiero).
Non chiamatelo Winston Smith. Chiamatelo Mr. 2019. Il risultato è che Winston Smith viene manipolato tutto il tempo. Passa l'intero romanzo a chiedersi quale sia la verità. Non è nemmeno sicuro che sia davvero il 1984. Il Grande Fratello esiste davvero da qualche parte in Oceania o è solo un simbolo? ¯\_(ツ)_/¯ Winston è quello che si direbbe un uomo con una buona istruzione nel suo mondo; ricorda persino il nome "Shakespeare". È abbastanza intelligente da non credere all'ovvia propaganda accettata dal resto delle persone, ma non importa. Il libro è la storia di come viene consumato, metaforicamente e fisicamente, finché non è troppo stanco e debole per poter tenere a bada la marea di assoluto nonsenso. Non chiamatelo Winston Smith. Chiamatelo Mr. 2019. Perché sembra sempre più che siamo noi quelli che vivono in Oceania. Quello stato inventato comprendeva le isole inglesi, il Nord America e il Sud America. Ora i leader dei paesi più grandi di quelle regioni — Boris Johnson, Donald Trump, Jair Bolsonaro — sono uomini in grado di inondare la propria gente di evidenti bugie e i loro opponenti non hanno, semplicemente, tempo o energie sufficienti per smascherarle tutte. E mentre ci affacciamo al 2020, sembra sempre più che tutti e tre, disgustosamente, potrebbero farla franca. Sono protetti da membri del partito che sopporterebbero qualsiasi umiliazione pur di strombazzare la loro fedeltà al Grande Leader (si veda il senatore repubblicano Lindsay Graham) e da un sistema mediatico che dà risonanza alle bugie dei politici (grazie, Facebook). Tutti i Winston Smiths del nostro mondo possono vedere che cosa sta succedendo, ma non sembra fare la differenza. Almeno siamo a conoscenza della frase più importante di 1984, oggi una delle più twittate.
Non è solo la sorveglianza, stupido. Nelle decadi successive alla sua pubblicazione nel 1949, il messaggio di 1984 è stato corrotto. La cultura popolare l'ha ridotto a un singolo slogan — Big Brother is Watching You — e quelli che avevano un vago ricordo del libro studiato a scuola si sono convinti che il suo scopo principale fosse metterci in guardia contro uno stato di sorveglianza. Di certo poteva sembrare particolarmente vero nel 2013, quando Edward Snowden rese pubblici i documenti che svelavano quanto fosse grande il programma di spionaggio dell'NSA. "George Orwell ci aveva messo in guardia contro rischi di questo tipo," Snowden aveva detto alla televisione britannica nel suo "discorso di Natale alternativo" di quell'anno. "I sistemi di raccolta di dati [in 1984] — microfoni e videocamere, televisioni che ti guardano — non sono niente in confronto a quello che abbiamo a disposizione oggi". Era vero, ma non era proprio il punto. Orwell non dice che il sistema di sorveglianza in Oceania sia così capillare. Non sarebbe stato credibile immaginare un partito capace di tenere sott'occhio tutti i suoi membri tutto il tempo. Sarebbe stato come scrivere un romanzo di fantascienza di serie B. (In Cina fantascienza non lo è poi tanto, ora che il sistema statale di riconoscimento facciale e di classificazione della tua attitudine sociale rendono il programma dell'NSA un passatempo amatoriale). In 1984, l'unico momento in cui sappiamo per certo che lo schermo sta guardando Winston è quando sta facendo i suoi esercizi mattutini e il suo istruttore femminile lo sgrida per non essersi impegnando abbastanza. Non si tratta solo di essere tenuti d'occhio costantemente dal Grande Fratello — anche questa è un'altra bugia del Partito. Non si sa in quale momento si verrà osservati; un po' come sapere che ci potrebbe essere un autovelox alla prossima curva ti trattiene dall'andare più veloce in macchina. Ma contro questo tipo di possibilità, i cittadini possono ancora ribellarsi. Per la maggior parte del libro, Winston e Julia riescono a scappare a quasi tutte le telecamere, fuori nella campagna post atomica. Ma evitare la sorveglianza non basta. Vengono catturati perché credono ad una bugia: la finta Resistenza capitanata da un membro del Partito, O'Brien. Il libro qui ci invita a ponderare se non siamo caduti anche noi nella trappola. Il libro dentro al libro che spiega il mondo di Winston alla fine risulta scritto dallo stesso O'Brien, maestro della menzogna. Le bombe che cadono su Londra sono lanciate dal Partito. Tutte le verità interne di questo universo il lettore le riceve da Winston, e alla fine nulla di quel che dice è affidabile — dal momento in cui viene torturato finché non ammette che O'Brien gli sta mostrando tre dita invece di due al punto in cui crede di aver sentito la notizia di una vittoria sulla guerra infinita che si va combattendo. Al termine di questi dieci anni, persino parole come "Orwell" o "Orwelliano" sono diventate ambivalenti. Me ne sono reso conto nel 2017 quando mia moglie, sapendo quanto amo questo libro, mi ha comprato un cappello con scritto "Make Orwell Fiction Again". L'ho adorato, fin quando non mi sono reso conto che era stato prodotto in uno stato che aveva votato per Trump, da una compagnia con una linea di prodotti libertari. Abbiamo pensato fosse una risposta allo slogan del Make America Great Again (MAGA), ma poteva anche essere uno di quel genere: Make Orwell fiction again by helping Trump fight Deep State surveillance, man! Se c'è speranza per Oceania, potrebbe arrivare dall'unire le persone sotto la bandiera comune di quello contro cui ci mette in guardia 1984 — a partire dalle sfacciate bugie che tanto preoccupavano Orwell. Quelle che i guardiani dei social media hanno impiegato fin troppo tempo a notare, sempre che se ne siano davvero accorti. Se non riusciamo ad essere d'accordo sui fatti più semplici della scienza e della storia, abbiamo perso. Ma se ci riusciamo, allora non ci può essere alcun sistema di sorveglianza, alcuna guerra senza fine o punizione che possa distruggerci. "La libertà è poter dire che due più due fa quattro", scrive Winston nel suo diario. "E se questo è concesso, il resto viene da sé". Rimanendo scettici riguardo a ciò che leggiamo, ma leggendo comunque molto e difendendo un insieme di verità che sono semplici e oggettive come la matematica, possiamo dare prova di aver appreso finalmente la lezione di Orwell. E fare in modo che 1984 rimanga un capolavoro letterario e nulla più.
Jaime D’Alessandro per “la Repubblica - Scienze” il 15 febbraio 2020. La tv ha iniziato a osservarci. Lo fa con attenzione, annotando ogni dettaglio delle nostre abitudini: cosa guardiamo, quando, con quale frequenza. E lo fa con il nostro permesso. La prima volta che accendete un televisore di ultima generazione, sempre dotato di connessione al Web, è tutto scritto nei termini d' uso. Esatto, quelli che nessuno legge, anche perché in genere il testo è volutamente lungo e a caratteri minuscoli. Ma termina, poco importa la marca del televisore, con un grosso pulsante "accetta". E noi, inevitabilmente, accettiamo. Da quel momento ogni cosa che passa sullo schermo, il quando lo accendiamo e lo spegniamo, per quanto tempo resta in funzione, a quali ore e in quali giorni, diventa dato e viene trasmesso alla casa produttrice che poi potrà venderlo a chi le pare. Potreste dire no negando l' assenso, spingervi anche a non connetterlo al wi-fi di casa, poi però non potreste più accedere ai tanti servizi online offerti da Netflix, Prime Video di Amazon, Sky, Mediaset o Rai. «Possono sapere tutto, veramente tutto. Ed è incredibile che nessuno ne parli», racconta Luca Di Cesare, fondatore della Datv, azienda nata un anno fa che fornisce ai network televisivi strumenti digitali di analisi del comportamento degli spettatori proprio partendo dalla diffusione di decoder e tv connessi. Con un passato alla SmartClip e a DoubleClick, acquisita da Google nel 2008 per 3,1 miliardi di dollari, che anche uno come lui trovi stupefacente una raccolta di informazioni così sfacciata fa pensare. La nuova miniera d' oro, che alcuni sperano possa portare alla luce un filone ricco quanto quello del Web e dei social network, in gergo si chiama "addressable tv advertising". È l' insieme di tecnologie che permettono di selezionare una fascia di pubblico particolare basandosi sui dati raccolti per annunci pubblicitari su misura. Se Facebook e Google hanno accumulato miliardi tracciando ogni movimento in Rete degli utenti e poi vendendo inserzioni su misura, i principali network televisivi e costruttori di tecnologia di consumo non vogliono esser da meno. Siamo solo all' inizio e i numeri di questo mercato sono ancora minuscoli, in Italia si parla di 15 milioni di euro che sono davvero nulla rispetto ai 2,9 miliardi dell' online, anche se la raccolta di informazioni è già attiva e sempre più capillare. Ci sono tecnologie come l' Automatic content recognition (Acr), che riconoscono le "impronte digitali" di ogni immagine e la confrontano con archivi immensi di contenuti per sapere quel che si sta guardando. Di ogni fotogramma raccolgono una manciata di pixel distribuita in maniera unica e grazie a quella combinazione la individuano. È la stessa tecnica che Facebook impiega per riconoscere i contenuti vietati pubblicati dagli utenti. E ce ne sono altre che capiscono, come una sorta di Shazam, ogni pubblicità che passa sul nostro televisore. Vengono impiegate per sapere sempre cosa guardiamo; sia se abbiamo aperto una app sia se stiamo sfogliando il palinsesto tradizionale di qualche emittente. Altro che Auditel. «Gli ambiti più importanti, sui quali tutti puntano in questo momento, sono due», spiega Andrea Lamperti, direttore dell' Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano. «I contenuti da un lato e la pubblicità personalizzata dall' altro. I primi sono forniti via app o decoder e quindi sei profilato come su uno smartphone. L' altro mondo è quello delle pubblicità su tv connesse. Le stanno usando Sky come Discovery e Mediaset. Ti offrono spot personalizzati in base all' abbonamento che hai, a dove abiti, alla tua età. Non te ne accorgi, ma l' erede del vecchio Carosello oggi cambia da abitazione ad abitazione». Inutile scandalizzarsi, tutto ciò accade già su pc, tablet e smartphone e, al di là degli scenari distopici veri o presunti che siano dipinti in questi anni a proposito delle pratiche disinvolte della Silicon Valley per sorvegliare l' intera umanità, la maggior parte delle persone presta davvero poca attenzione a questi aspetti. Ma forse comincerà a farlo a breve. Le tv connesse si stanno diffondendo, in Italia sono otto milioni su 42,7 totali benché solo la metà sia realmente collegata alla Rete, e all' orizzonte c'è il passaggio al nuovo digitale terrestre, il Digital video broadcasting Second generation terrestrial (Dvb-T2). Dal primo luglio 2022 tutte le trasmissioni saranno solo in questo standard che aggiunge, fra le altre cose, funzioni interattive via collegamento Web. Al suo fianco c' è anche un altro standard, Hybrid broadcast broadband Tv (HbbTV), che unisce i sistemi tradizionali di trasmissione con quelli via banda larga. Ora, provate ad immaginare cosa si potrebbe fare con tecnologie del genere in piena campagna elettorale per promuovere un candidato. «Siamo al principio e fortunatamente questa rivoluzione avviene in regime di Gdpr (il Regolamento generale sulla protezione dei dati europeo, ndr), che comunque ha posto dei paletti importanti», conclude Luca Di Cesare. Paletti che però per ora non sembrano aver posto un freno stando ai termini d' uso dei televisori smart.
Umberto Rapetto per infosec.news il 14 febbraio 2020. Tanto tuonò che piovve. Non ci riferiamo alla storica frase attribuita a Socrate e da lui presumibilmente utilizzata per darsi un contegno quando – dialogando con un suo discepolo nel cortile di casa – la moglie manifestò un imprecisato disappunto prima inveendo contro il filosofo e poi riversandogli in capo una brocca d’acqua dalla finestra del piano superiore. Parliamo di qualcosa di fin troppo contemporaneo. Huawei e alcune sue consociate sono state accusate di associazione per delinquere, per aver violato il Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act (RICO) con le loro forniture a Paesi sotto embargo (nella fattispecie Corea del Nord e Iran). Dopo tante chiacchiere di chi avrebbe dovuto preventivamente intervenire e soprattutto dopo tante minacce e negazioni di ogni evidenza da parte dei protagonisti di questa turpe vicenda, la Corte di Giustizia del distretto orientale di New York ha presentato formalmente le accuse in capo a Huawei Device Co. Ltd., Huawei Device USA Inc., Futurewei Technologies Inc. e Skycom Tech Co. Ltd., nonché al direttore finanziario (il Chief Financial Officer o CFO) di Huawei Wanzhou Meng (nota alla cronaca per il suo arresto in Canada certamente non passato inosservato). I ben sedici pesantissimi capi di imputazione sono stati annunciati da Brian A. Benczkowski (Vice Procuratore Generale della Divisione Criminale del Dipartimento di Giustizia), John C. Demers (Vice Procuratore Generale della Divisione di Sicurezza Nazionale del medesimo dicastero), Richard P. Donoghue (“prosecutor” degli Stati Uniti d’America per il distretto competente territorialmente alle indagini) e Christopher A. Wray (direttore dell’FBI). Tra le accuse del “Superseding Indictment” (che chi vuole leggerne le 56 pagine è accontentato con il link qui a disposizione) c’è persino quella della cospirazione mirata a sottrarre segreti industriali e commerciali della sofisticata tecnologia dei fornitori statunitensi utilizzando frodi e inganni di vario genere. Huawei avrebbe dato luogo alla appropriazione indebita di “codici sorgenti” e manuali utente per router Internet, e di tecnologie delle antenne trasmissive e delle apparecchiature per l’esecuzione automatizzata di test funzionali. Fa una certa impressione leggere la parola “racket” quando si parla dell’accordo tra Huawei, Huawei USA e Futurewei per reinvestire i proventi nel business mondiale dell’azienda capogruppo in giro per il mondo. Come avrebbero agito? Semplice: stipulando accordi di riservatezza con i titolari della proprietà intellettuale e quindi violando i termini a tutela delle opere dell’ingegno per finalità commerciali. La “cricca” non avrebbe esitato a reclutare dipendenti di altre aziende e a indurli a portar via i segreti dell’attuale o precedente datore di lavoro. Avrebbe persino coscritto professori universitari e specialisti top in servizio presso centri di ricerca pur di ottenere qualunque elemento di conoscenza idoneo a sviluppare tecnologie competitive e a falcidiare gli sforzi innovativi della concorrenza americana. In ossequio allo spot promozionale che dalle nostre parti recita “Ti piace vincere facile”, Huawei ha così avuto modo di ridurre drasticamente i costi di ricerca e sviluppo e di annullare ogni potenziale eventuale ritardo rispetto le aziende concorrenti, ottenendo un vantaggio competitivo significativo e ingiusto. Per avere idea delle strategie di Huawei in proposito, va detto che sarebbe persino emerso un piano di remunerazione straordinaria con bonus particolarmente incentivanti per premiare i dipendenti che ottenevano informazioni confidenziali dai “competitors”. Non è mica finita. A queste condotte si aggiungono tutte le bugie raccontate dai funzionari del colosso cinese agli agenti dell’FBI e ai rappresentanti del Comitato permanente sull’intelligence della Camera degli Stati Uniti, nonché i comportamenti ostruttivi per sbriciolare il rischio di contenzioso e per ostacolare le indagini penali. La malafede – secondo gli investigatori – si riconosce nitidamente scorrendo la documentazione interna di Huawei dove, per ordini e spedizioni, non si faceva mai riferimento a Iran e Corea del Nord, ma si preferiva utilizzare rispettivamente i codici “A2” e “A9”. Mi piacerebbe che una manciata di nostri politici o qualche 007 tricolore si prendessero la briga di leggere le carte che – a vantaggio dei più pigri – abbiamo “linkato” (termine orribile, ma così fan tutti…) a questo editoriale. Potrebbe essere l’occasione per affrontare la questione della indiscutibile (intesa soltanto nel non volerne discutere…) fragilità del sistema nervoso delle telecomunicazioni nazionali i cui gangli sono costituiti in larga parte da apparecchiature di produzione cinese. Per un attimo qualcuno metta da parte Coronavirus e altre faccende prioritarie su cui non ha alcuna competenza o potere taumaturgico per trovarne soluzione. Ognuno faccia il suo, senza trovare giustificazioni in altre emergenze solo per non fare il proprio lavoro o per rinviare decisioni e prese di posizione certamente non facili da assumere. Magari ci si accorge di essere pagati per fare proprio quelle cose.
Umberto Rapetto per infosec.news il 20 febbraio 2020. Non mi si venga a raccontare che la guerra a Huawei è un capriccio del Presidente Trump. E nemmeno si pensi che io creda all’innocenza del colosso cinese, quasi la storia dello spionaggio industriale fosse una recente boutade per azzoppare un pericoloso produttore concorrente. Tutti parlano (e molti si impegnano per farlo a vanvera) della grande azienda di Shenzen senza conoscere una serie di precedenti storici che potrebbero consentire una più serena lettura dei recenti eventi del braccio di ferro tra Stati Uniti e Repubblica Popolare. Chi si è svegliato ieri esperto di cyber security (come Alberto Sordi nel film “Troppo forte” un giorno medico, quello dopo avvocato e quindi ballerino classico…) probabilmente non conosce qualche antefatto che può risultare quanto meno suggestivo. La storia delle scorribande di spionaggio industriale di Huawei e della sua Futurewei, che ha sede a Santa Clara in California, comincia nel 2003. La collocazione temporale è sufficiente per dichiarare per obiettive e insindacabili questioni cronologiche l’estraneità sia di Donald Trump sia di Barack Obama. La vicenda primigenia, infatti, ha avuto luogo quando alla Casa Bianca abitava George W. Bush jr. e nessuno ipotizzava complotti economico-finanziari. L’ormai storica causa presso la Corte di Giustizia per il Distretto orientale del Texas per violazione di segreti produttivi e di opere dell’ingegno tutelate dal diritto è etichettata “266 F. Supp. 2d 551” e chi vuole approfondire la questione senza pregiudizi di sorta ne può leggere le carte. Chi reputa la vicenda infondata, può invece dare un’occhiata ad un articolo di marzo 2003 uscito sul Wall Street Journal, in cui si legge (ma lo si trova anche altrove) che il colosso cinese avrebbe ammesso di aver copiato “un pochino”… Quel “cicinino” che sarebbe stato sottratto si tradurrebbe nella violazione di cinque brevetti di Cisco e nella copia abusiva del codice sorgente dell’Internetwork Operating System (IOS) sempre di proprietà della azienda americana. In aula la società di Shenzen ha ammesso che un dipendente (naturalmente impossibile da identificarsi) avrebbe “inavvertitamente” inserito nel software VRP trentamila righe di codice (poche ma magari fondamentali nel milione e mezzo di quelle complessive) scopiazzate dal programma dell’impresa statunitense. Il maltolto era stato memorizzato su un disco che è ripetutamente passato di mano in mano da un dipendente ad un altro, rendendo impraticabile qualsivoglia ricostruzione dell’accaduto e ancor meno l’auspicata individuazione delle responsabilità. Tralasciando questioni ataviche e querelle che ormai hanno quasi raggiunto la maggiore età, vale la pena segnalare che Huawei (in compagnia dell’altra realtà cinese ZTE) ha appena ricevuto un’altra pesante “mazzata” (termine d’obbligo vista l’identità del giudice che l’ha sferrata). Amos Mazzant, questo il nome del magistrato, martedì 18 ha dichiarato l’infondatezza del ricorso presentato da Huawei e con cui si rappresentava l’incostituzionalità della messa al bando. Il provvedimento (qui disponibile per chi ha giustamente il vizio di conoscere le fonti e di sincerarsi dell’attendibilità di quel che si racconta) è la risposta all’azione legale di Huawei che aveva considerato lesivo dei diritti fondamentali il provvedimento normativo che vieta la vendita dei suoi apparati all’Amministrazione pubblica USA. Il giudice ha ritenuto che la presunta penalizzazione era da intendersi invece come legittimo limite commerciale ancorato ad insormontabili problematiche di sicurezza nazionale. Come Berlusconi rappresentava l’aggressività della Procura milanese nei suoi confronti, qualche tifoso del produttore cinese potrebbe richiamare l’attenzione dicendo che anche stavolta è lo stesso Tribunale del Texas ad occuparsi delle faccende in questione. Ad ogni buon conto, secondo Mazzant, la legislazione americana ha lasciato a Huawei molte altre opportunità come quella di vendere i propri dispositivi a soggetti privati negli Stati Uniti, nonché a migliaia di potenziali clienti, pubblici e privati, in ogni angolo del mondo. Comunque la si pensi, le forniture per infrastrutture e servizi strategici non possono essere affidati a interlocutori su cui non veleggino dubbi di qualsiasi sorta. Ripescando lo slogan di una importante industria casearia italiana, serve trovare qualcuno il cui nome “vuol dire fiducia”. Perché come diceva il Carosello “la fiducia è una cosa seria che si dà alle cose serie”.
Google e gli altri motori di ricerca sanno tutto su di noi? Le Iene News il 26 febbraio 2020. Non sono solo le pubblicità sul web a essere profilate su di noi, ma anche i contenuti. Ma che differenza c’è tra Google, usato dal 90% degli europei e dal 95% degli italiani, e gli altri motori di ricerca? Nicolò De Devitiis, insieme a diversi esperti del settore, fa un po’ di chiarezza sull’argomento. Con motore di ricerca si intende quel posto in cui tutti andiamo quando cerchiamo qualcosa su internet: digitiamo una frase o una parola e ci escono tutta una serie di risultati. Ma che differenza c’è tra Google, quello usato dal 90% degli europei e dal 95% degli italiani, e gli altri motori di ricerca? Abbiamo fatto un piccolo esperimento: abbiamo digitato la parola “casa” su tutti i diversi motori di ricerca. Ma al di là delle grafiche e delle impaginazioni i risultati sono abbastanza simili. Insomma, non sembrano esserci grandi differenze. Quindi cosa cambia veramente tra l’uno e l’altro? “Il nostro è un motore che non traccia i dati, rispetta la privacy dell’utente e ti mette in condizione di avere una ricerca più aperta possibile” ci dice Jean Claude Ghinozzi, il presidente e direttore generale di Qwant, “Google invece traccia tutti i dati degli utenti per poi riutilizzarli e rivenderli a livello pubblicitario: rivende dati ma essenzialmente usa lo stesso metodo di ricerca delle informazioni degli altri motori di ricerca”. Ma quindi cosa c’è di diverso? Proviamo a chiederlo a un altro esperto, il fondatore e direttore di un famoso motore di ricerca: Ecosia. “Sostanzialmente funziona come Google ma non prendiamo i dati di nessuno e la vera grossa differenza è che noi usiamo i guadagni per piantare alberi”. Puntano tutto sull’ecologia insomma e fanno del loro profitto un investimento sul benessere del pianeta. Passiamo a Bing, il motore di ricerca di Microsoft. “Bing riesce a rispondere alle mie esigenze: se scrivo per esempio ‘traducimi frigorifero in arabo’ non dovrò appoggiarmi a dei servizi esterni, ma troverò la traduzione direttamente su Bing”. Però è lo stesso su Google. Come mai? “Il 50% delle ricerche porta le persone a restare dentro Google: se cerco, per esempio, il risultato della partite di serie A, lo vedo subito senza dover aprire altri siti specifici” ci spiega Marco Montemagno, imprenditore digitale. Questo significa che più rimani sulla loro pagina e più loro guadagnano. Funziona un po’ come gli ascolti per la televisione: più gente guarda un programma, più posso fare pagare una pubblicità. Per un certo verso la pubblicità mirata è comoda perché internet mi propone cose che di sicuro mi piacciono, ma dall’altro perché allora gli altri motori di ricerca si vantano di non profilarti? “Oggi ci sono miliardi di internet: ognuno ha il proprio. Non sono solo le pubblicità a essere adattate a noi ma anche i contenuti” spiega Luca Cattoi, un esperto di strategia di comunicazione digitale. “E non solo! Se cerco una cosa dallo smartphone o da un computer fisso i risultati saranno diversi. Così come cambia se le cerco da un iPhone, che costa molto, o da un telefono che costa meno: ti segnalano anche offerte in linea con la tua spesa”, aggiunge Montemagno. Quando si parla quindi di ‘democrazia del web’ si dovrebbe parlare di una democrazia personalizzata. “Finiamo per continuare a ricevere informazioni in linea con la nostra storia e i nostri interessi: ti danno dei risultati simili a quelli già cercati e il problema è proprio che continuo a consolidare la stessa idea” ci spiega Montemagno. Stiamo parlando della ‘filter bubble’: un insieme di algoritmi che ti fanno vedere siti e informazioni in linea con la tua persona. “Negli Stati Uniti hanno fatto degli studi legati alla sfera politica e hanno visto che c’è una correlazione tra la filter bubble e l’estremizzazione dei pensieri politici: se io rimango dentro una bolla continuo a pensare che quella è l’idea giusta” sottolinea Cattoi. Insomma, avremo sempre una visione parziale del mondo. E per fare questo utilizzano i cookies, dei microfile su cui c’è scritto tutto quello che abbiamo fatto e cercato su internet. “Questi dati possono essere poi venduti o utilizzati alla tua insaputa” aggiunge Ghinozzi di Qwant. Ma quindi quando un sito ci chiede di accettare i cookies per continuare la navigazione, a cosa stiamo dando il consenso in realtà? “Permettiamo al sito di tracciarci e di collegare quello che stiamo facendo con altri servizi esterni. Facebook, Instagram, Spotify, Youtube, Amazon e tanti altri siti sapranno non solo su che sito sono andata ma anche cosa ho cercato e cosa ho visto”, ci spiega Paolo Dal Checco, consulente informatico forense. Se quindi andiamo su un sito di droni per esempio, Amazon ci proporrà dei droni da comprare. Ma non è finita qui: “Il sito che stiamo visitando passa le nostre informazioni (cosa ci piace, cosa cerchiamo online, cosa vogliamo comprare) in una piattaforma fatta apposta per la pubblicità e mette all’asta lo spazio pubblicitario. In pochi millesimi di secondi chi vince ottiene la possibilità di mostrarti la sua pubblicità”. Pubblicità che sarà ovviamente profilata sull’utente che sta visitando quel sito in quel momento. E vale un sacco di soldi! Da 20/30 centesimi a 1 euro per ogni click. “Il business di Google è infatti vendere pubblicità, ha fatto 40 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre” specifica Montemagno. Sono soldi che fa per aver messo quindi la giusta pubblicità nei siti che vogliamo visitare. Insomma, siamo noi che accettiamo i cookies che generano questo grande guadagno. Ma sapete come non farvi tracciare? “Andando su adsetting.google.com possiamo decidere se attivare o disattivare gli annunci pubblicitari. Cliccando poi su ‘my activities’ vediamo anche tutto quello che sa su di noi: età, sesso, preferenze sugli acquisti, siti che ho visitato, ricerche che ho fatto, tutto. E se poi ho pure un contatto diretto con la banca, conosce anche i miei investimenti!”, spiega Dal Checco. È essenziale quindi, vi ricordiamo, che la vostra password della e-mail sia unica, non va usata in altri siti che magari sono facilmente hackerabili. Mettiamo infatti che un hacker riesca a bucare, per esempio, un sito dove ordiniamo la pizza. Alcuni siti infatti non hanno un livello di sicurezza molto alto. L’hacker riesce così a prendere i tuoi dati e se, come il 90% degli italiani, usi un’unica password per tutti gli account, il gioco è fatto. L’hacker riuscirà a entrare anche in siti che hanno protezioni altissime. Tutti questi dati vengono poi raccolti in alcuni cataloghi e sono a disposizione di chi vuole acquistarli o scaricarli. “Con questi dati puoi bucare le caselle di posta e da lì entri in tutti gli altri account come Facebook e Instagram”. Ma non finisce qui, “dalla tua mail si può facilmente rintracciare carta di identità, banca, numero telefonico, può sapere quando siamo in casa e quando no o dove si trova la nostra automobile. Abbiamo la nostra vita in mano a quello che è il delinquente di turno” dice Montemagno. Volete sapere cosa sa Google di voi? Cercate Google Takeout: dal vostro profilo potrete scegliere cosa volete scaricare (acquisti, i blog, il calendario… tutto quello che avete fatto su intenet) e poi chiedete di asportare il tutto. Dopo qualche ora vi arriverà una cartella con la montagna di informazioni che hanno su di noi. E la stessa cosa potete farla su Facebook: andate su Impostazioni, poi Le tue informazioni e infine su ‘Scarica informazioni’ e lì dentro… troverete il mondo.
· Il Galateo.
L’aristocratico baciamano difficile prima, impossibile ora. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 13 dicembre 2020. C’era una volta il baciamano, un gesto di galanteria che in tempi non sospetti prevedeva già un seppur minimo formale distanziamento. Niente schiocchi, per intenderci! Distanza raccomandata due centimetri. Pena essere tacciati di cafonaggine. Galateo, infatti, vuole che le labbra debbano solo sfiorare il dorso della mano della signora. Una sorta di soffio leggero quasi impercettibile preceduto da un gioco di sguardi e posture secondo il codice delle buone maniere. Un rituale divenuto via via più raro ma che ha resistito all’usura del tempo acquistando molteplici significati fino ad arrivare al nostro presente rastrellato dalla pandemia da coronavirus. Il Covid-19 ha praticamente fatto terra bruciata – almeno per ora – di saluti e gestualità a cui eravamo abituati praticamente da sempre scardinando anche le consuetudini di quello che i francesi chiamano “bon ton” . Niente abbracci, niente strette di mano, niente baci men che meno baciamano: una pratica questa le cui origini ci portano indietro nel tempo fino al 1500. Dove? Alla corte polacco-lituana dove – a quanto è dato sapere – il baciamano germogliò per poi passare a quella spagnola del XVII – XVIII secolo fino a diffondersi e attecchire in più luoghi. Sulle tracce del cortese ossequio ci imbattiamo anche in un dipinto di Pietro Longhi del 1746: sulla tela un nobiluomo è intento a baciare la mano di una dama. Ma le storie e le leggende fiorite sull’argomento son diverse. A cominciare – si diceva – dal significato perché fare il baciamano può voler dire cortesia, ammirazione ma anche devozione e persino soggezione ad un altra persona. Così oltre al baciamano dei cavalier gentili, quando è considerato dichiarazione di fedeltà e sottomissione può tradursi anche in quel “baciamo le mani” che venne reso celebre da Il Padrino di Coppola con un monumentale Marlon Brando nel ruolo di Don Vito Corleone . Ed è sempre sinonimo di fedeltà e sottomissione quando viene fatto tramite il bacio dell’anello (o del sigillo di stato) come riconoscimento simbolico dell’autorità della persona che si ha di fronte. Se poi a farlo è un ambasciatore – neanche a dirlo – si ammanta di un significato diplomatico e persino politico. Non è esente (anzi) dalla pratica l’ambito religioso. Nella Chiesa cattolica, un incontro con il pontefice o con un cardinale, o con un prelato inferiore, comporta il bacio dell’anello alla mano destra. Anche se tale pratica non è più obbligatoria alcuni devoti cattolici abbinano il gesto con l’inginocchiarsi sul ginocchio sinistro. A proposito di Chiesa, tornando prepotentemente allo scorso marzo con la pandemia che dettava le regole del nostro vivere con gli altri (ma anche con noi stessi), come non ricordare il video diventato virale di Papa Francesco a Loreto che si ritrae quando i fedeli cercano di baciare il suo anello? Un polverone chiuso dalle parole del direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Alessandro Gisotti: «Quando ci sono file interminabili – ha spiegato il portavoce vaticano – vuole che si eviti il rischio di contagio tra la gente. Ciò non avviene, invece, quando c’è una persona o un gruppo molto piccolo». Andando in giro per il mondo sulle tracce del baciamano si scopre che il gesto galante in Turchia, Malaysia, Indonesia e Brunei, è un modo comune e usato per salutarsi specialmente se si tratta di parenti stretti (genitori, nonni o zii) e insegnanti. Se, invece, si vuole far ricorso ai suggerimenti per un baciamano perfetto, anche la rete viene in soccorso. Ad esempio, sul sito “Maison Galateo” si stilano le sei regole d’oro per confezionare un gesto romantico ed elegante. Eccone alcune: l’uomo deve eseguire il baciamano solo se autorizzato dalla donna, la quale mostra la sua disponibilità ponendo la mano morbida e a media altezza. Nel caso non desideri ricevere il baciamano, tenderà all’interlocutore la mano rigida e molto bassa. E ancora: la donna non deve assolutamente porgere una mano guantata. Per capirci: in base alle regole del cortese vivere se fa molto freddo, alla donna è consentito tenere i guanti, ma non dovrà essere eseguito il baciamano. Ancorpiù se vale la regola generale in base alla quale non si dovrebbe mai stringere una mano con il guanto. Procediamo. Il baciamano deve essere fatto in casa o in situazioni intime al chiuso e dunque non in pubblico – si ricorda ancora sul sito – inoltre deve essere riservato di norma soltanto alla padrona di casa, altrimenti è d’obbligo farlo a tutte le donne presenti. Di più. Il baciamano non si esegue mai in luoghi pubblici, come strade, negozi, bar, ristoranti ad eccezione di palchi a teatro, stazioni e aeroporti (queste ultime due situazioni appaiono come retaggio di antichi rituali). Continuando a navigare anche sul “Il blog del marchese” è possibile trovare storie, curiosità e regole sul baciamano. E non mancano gli aneddoti. “Tempo fa mi è capitato di vedere un “Signore” fare il galante facendo il baciamano a tutte le “Signorine” presenti ad un cocktail (simil baciamano da geometra Calboni nel night L’ippopotamo ne il Secondo Tragico Fantozzi) – racconta online il marchese – Risultato? Altro che gentiluomo…un vero e proprio “tamarro”. Se non vi sentite di farlo evitatelo. Occorre eleganza, disinvoltura e discrezione. Va fatto con gesto rapido, cortese, impersonale. In caso contrario si risulta goffi, inadeguati fino ad essere volgari”. Insomma se la stretta di mano è per così dire democratica e alla portata di tutti, il baciamano è aristocratico ed esige luoghi e regole che è bene conoscere. A metterci la “livella” – per dirla con Totò – oggi ci ha pensato il coronavirus: vietati entrambi!
I napoletani sono avanti di 200 anni”: parla l’esperta in materia di galateo. Da Valentina Coppola il 4 Settembre 2015 su vesuviolive.it. Mangiare, si sa, è un piacere senza eguali, soprattutto qui a Napoli, dove la tradizione culinaria è così vasta e ricca di ricette tramandate di generazione in generazione. Il momento del pranzo e della cena costituiscono un vero e proprio “rito”, che ha delle precise regole che ogni napoletano doc segue a dovere.
Seguire ed avere buone maniere è doveroso in ogni contesto, ancora più quando si sta a tavola e quando si parla di cibo. Barbara Ronchi della Ronca, esperta in materia di galateo, come riportato in un articolo di Campaniasuweb.it, si sofferma su una particolare tendenza, poco gradita, che spopola da qualche anno: fotografare i piatti. Fare foto non fa altro che sminuire la qualità e la bontà della pietanza stessa. Queste le sue dichiarazioni a riguardo: “È un piacere da eunuchi, guardare e non toccare. Cerchiamo di salvare l’idea che il piatto è uno spettacolo. Fotografarlo e basta è un modo per sminuirlo. Inoltre, ci sono piatti che non rendono in foto come la minestra maritata napoletana che invece è squisita.” Per quanto riguarda i napoletani nello specifico, ha dichiarato che Napoli è sempre stata avanti in quest’ambito. Oggi però, ci sono prodotti come la sfogliatella, ai quali dovrebbe essere ridato il giusto “valore”. Ha dichiarato: “Erano detti “mangiafoglia” perché mangiavano molte verdure nell’800 quando non le mangiava nessuno… Napoli era avanti di 200 anni. Ma bisogna rivalutare anche prodotti come la sfogliatella, che è data troppo per scontata.”.
“Lo Calateo Napolitano”. Sapevate che a Napoli è stato scritto un galateo in dialetto? Da Alina De Stefano 3 Marzo 2018 su vesuviolive.it. “Lo specchio de la cevertà o siano schirze morale aliasse lo Calateo Napolitano pe chi vo ridere e mpararese de crajanza” è questo il nome per esteso del galateo napoletano scritto da Nicola Vottiero nel 1789. Proprio così, anche a Napoli è stato scritto uno dei più completi, estesi e divertenti manuali delle buone maniere. E anche nel ‘700 il motivo che mosse Vottiero è quello che anche oggi è di moda: riscattare l’orgoglio dei napoletani, maltrattati da pregiudizi inconsistenti. E così il napoletano Nicola in una bella premessa all’opera spiega che il suo obiettivo è proprio quello di correggere i difetti dei partenopei così da non essere più derisi dalla gente forestiera. Un vero patriota, innamorato della sua terra che oltre a difendere la sua bella Napoli a parole, ha provveduto a scrivere un lungo trattato con più di 200 regole comportamentali utili a rendere civile ed educato il suo popolo. Ma oltre l’utilità pratica di quest’opera didattica ed educativa, Vottiero ostenta tutta la sua passione scrivendo in napoletano, nel dialetto locale, conscio che nel ‘700 a Napoli non tutti parlavano, scrivevano e capivano in italiano. Permettendo così di frantumare quel muro innalzato dai cocciuti accademici delle lettere, che consideravano le parlate locali inadatte alla letteratura o da destinare solo a stesure umoristiche e volgari. Così nel suo Calateo si legge che “non t’aje d’avantare, ma t’aje da fare avantà da l’autre”, poi ribadisce l’importanza di “ire a la scola” per non diventare “sciuocche”, ma soprattutto “quanno se promette, besogna ch’attenna la promessa”. Quando si cucina “non hanno da stà sozzuse dinto a le cucine e non hanno da tenè le mano unte”. Critica i lamentosi sempre afflitti da qualcosa quando la verità è che “a Napole se pò campa con poco e co assaje, perchè con una tosca (vecchia moneta di poco valore) se pò magnà pane, carne e vino”. Essere sfacciato neanche è da galantuomini perchè sanno solo dire “damme e prestame” senza fare nulla. E quando si ruba, si inganna o si fanno delle frodi, bisogna pentirsi e “tornà la rroba a lo patrone”. E a rendere tutto ancora più esilarante sono le chicche finali dei 205 capitoli dell’opera in cui Vottiero estrapola dalla tradizione popolare delle storielle divertenti che fungono da morale educativa ed esplicativa per ogni singolo difetto trattato nei capitoli. Ma a prescindere da tutto, quest’opera emana un sapore e un amore “napolitano” che solo chi ama davvero questa terra sa trasmettere.
· Siamo egolatri. Ergo: Egoisti e Narcisisti.
I selfie sono sempre più un'ossessione: se ne fanno 93 milioni al giorno. L'esperto: è un chiaro sintomo di disagio, significa che esistiamo soltanto se visti dagli altri. La Repubblica il 09 febbraio 2020. Un'ossessione. E nemmeno magnifica. Scattiamo almeno 93 milioni selfie al giorno al giorno, oltre 1000 al secondo, e il molti casi si tratta di vera e propria dipendenza. Questo modo di rappresentarsi è sintomo di un grave disagio diffuso, che porta a riconoscere noi stessi solo attraverso lo sguardo altrui. Si tratta di una nuova modalità di fare esperienza del proprio corpo, non dissimile dal disagio nascosto dietro anoressia e bulimia. Lo spiega all'Ansa Giovanni Stanghellini del Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio dell'Università di Chieti e autore del libro "Selfie - Sentirsi nello sguardo dell'altro" (Feltrinelli). "Videor ergo sum", esisto in quanto vengo osservato da qualcuno, è questo il nuovo io all'epoca dei selfie - spiega Stanghellini. "Il sé, insomma, 'prende corpo' solo attraverso lo sguardo dell'altro, solo perché qualcuno guarda il mio selfie". Il problema, continua l'esperto, è tanto più acuito dal fatto che "lo smartphone, che consente un numero illimitato di selfie in ogni istante della vita, non è un semplice dispositivo tecnologico estrinseco rispetto al corpo di una persona, come poteva essere una macchina fotografica - rileva l'esperto; è una vera e propria protesi integrata nei nostri corpi, ormai così indispensabile che per molti di noi è difficile immaginare la propria esistenza in assenza di essa".
I narcisisti di Instagram? Amano gli altri narcisisti. Uno studio analizza la correlazione fra persone con lo stesso disturbo: tenderanno a seguire o mettere più "like" a chi, come loro, fa selfie o si autocelebra. Giacomo Talignani l'08 gennaio 2018 su La Repubblica. Hanno bisogno di attenzioni, spesso tramutate in "like", ma sono disposti a darle a chi è come loro. Secondo diversi studi molte persone narcisiste utilizzano i social media come Facebook, Snapchat o Instagram, per promuovere se stessi e spesso lo fanno attraverso i selfie o foto in posa. Ma chi è narcisista, come si comporta rispetto ai propri "simili"? A questa domanda ha provato a rispondere un team di studiosi, guidato dalla dottoressa Seunga Venus Jin della Sejong University, che sulla rivista Computers in Human Behavior ha pubblicato il resoconto di una analisi effettuata attraverso Instagram per esaminare se i narcisisti sono più tolleranti nei confronti del comportamento narcisistico degli altri. La risposta è sì, lo sono. "Postare i selfie è un'attività popolare che esemplifica l'auto-promozione narcisista su Instagram - ha spiegato l'autrice Seunga Venus Jin - Ci siamo chiesti: perché le persone narcisiste non solo postano selfie ma mettono anche diversi "like" o diventano follower di chi pubblica selfie?". Per capire meglio gli psicologi hanno effettuato uno studio su 276 adulti abituati a usare Instagram e a pubblicare foto come "selfie o groupie". I partecipanti narcisisti hanno mostrato automaticamente un atteggiamento più favorevole verso i selfie pubblicati da altre persone e una maggiore intenzione di seguire gli amici narcisisti su Instagram rispetto ad altri interpellati nello studio. "Solitamente i selfie sono interpretati come più narcisisticamente negativi rispetto alle foto neutre - ha detto Venus -. Tuttavia, la somiglianza della personalità narcisistica tra l'utente che posta un autoscatto e quello che ha la stessa tendenza ma in quel momento è solo un osservatore fa da mediatore a questo effetto". Lo studio si è concentrato esclusivamente sul "narcisismo grandioso" senza esaminare quello "vulnerabile". In generale, mentre il primo è quello più noto caratterizzato da grandiosità vera e propria e che implica un'elevata autostima e bassa tolleranza alle critiche, il secondo denota spesso una scarsa autostima ed è sensibile alle critiche e ai giudizi degli altri, oltre ad essere associato al ritiro sociale. Per i ricercatori lo studio, dal titolo "Narcisismo 2.0! I narcisisti seguiranno altri narcisisti su Instagram?" offre "la base per future spiegazioni del rapporto fra selfie e narcisismo, aggiungendo prove empiriche all'ipotesi della tolleranza al narcisismo".
Post-umanesimo, lo svelamento della dualità e la smania della replica di noi stessi. Lea Melandri de Il Riformista il 31 Gennaio 2020. Per quanto lo si nomina e per quanto, al contrario, appare sfuggente il suo oggetto, “l’umano” si può dire che è oggi come l’araba fenice: qualcosa che c’è, ma “dove sia nessun lo sa”. È, vistosamente, nei corpi spezzati dalle guerre, dalle migrazioni forzate, dalla fame, dai disastri ambientali e climatici, dalle epidemie, dallo sfruttamento lavorativo, è nei corpi senza nome dei naufraghi del Mediterraneo – ma in questo caso si parla di “dis-umano” -, è negli artefatti della sua onnipotenza tecnologica, in procinto di farglisi contro come una “seconda natura” – e in questo caso la parola calzante è il “post-umano”, così come postumano appare il desiderio di sporgersi verso quel sostrato biologico che l’uomo ha lasciato in destino all’altro sesso: il “divenire donna”, il “divenire animale”. Quello che non si dice è che, pur essendo sia l’uomo che la donna fatti di quell’humus (terra) che ne segna la radice etimologica, solo il maschio della specie si è considerato storicamente l’umano perfetto. «L’uomo ha in sé anche la donna, anche la materia, e può lasciare che questa parte del suo essere si sviluppi, cioè deperire e degenerare; oppure la può riconoscere e combattere. È come se l’uomo a ogni qualità puramente animale se ne fosse sovrapposta una simile eppure appartenente a una sfera più alta (…) La donna assoluta non ha un Io. La donna non è che sessuale, l’uomo è anche sessuale» (Otto Weininger, Sesso e carattere, 1903). Nel momento in cui l’interezza del potente “Io” della tradizione greco romano cristiana comincia a vacillare – vuoi per l’emancipazione delle donne e la femminilizzazione degli uomini, vuoi per l’insorgere degli spiriti guerrieri che porteranno l’Europa al disastro di due guerre mondiali -, Otto Weininger sacrificherà la sua stessa vita sull’altare della Ragione che aveva fatto del solo sesso maschile il depositario della immortalità di un dio. Ma con l’ingresso nella modernità non tramonta certo il dualismo sessuale su cui si erano retti fino allora il patriarcato e la cultura occidentale egemone nel mondo, e neppure il rapporto ottimistico che essa aveva intrattenuto con le sue mete tecno-scientifiche. «Il dio-protesi si è da allora incredibilmente complicato, e il discorso sul mondo si è incaricato di attorcigliare per bene il filo che lo lega ai suoi organi accessori» (Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, 1974). Il dibattito che si è avviato ormai da anni sul “post-umano”, più che l’uscita dalla visione dualistica che ha contrapposto e complementarizzato corpo e pensiero, natura e storia, sembra esserne lo svelamento. Se la Ragione kantiana, l’Io di Weininger, si erano limitati a porsi come “vita superiore” rispetto alla “naturalità” dell’umano, le intelligenze artificiali, prodotto del progresso inarrestabile dell’era digitale, sembrano mirare a un traguardo più ambizioso: porsi come “seconda natura”, razionalizzare la società e i comportamenti umani, imporre modelli di esistenza individuali e collettivi considerati i migliori applicabili. «Prende forma uno statuto antropologico e ontologico inedito, che vede la figura umana sottomessa alle equazioni dei suoi stessi artefatti, con l’obiettivo primario di rispondere a interessi primari e instaurare un’organizzazione della società in funzione di criteri principalmente utilitaristici» (Eric Sadin, Critica della ragione artificiale. Una difesa dell’umanità, Luiss 2019). La domanda più interessante che si pone Sadin – ma che ha alle spalle riflessioni analoghe tra i pensatori che prima di lui hanno dato l’allarme riguardo alla cancellazione dell’umano – è da dove viene «quella particolare fame di generare una replica di noi stessi», quale presunzione di onnipotenza ma anche, al contrario, quale senso di inadeguatezza o vergogna dei propri limiti, la muovono. Ciò che spinge l’uomo a costruire un surrogato di mondo, sempre più conforme al proprio Io, è, per Gunter Anders, «l’originaria indeterminatezza della sua natura», la carenza istintuale che lo differenzia dall’animale, esiliandolo dalle sue radici biologiche e costringendolo a far uso di una libertà “patologica”. La “vergogna” rispetto alla propria nascita sembra per Anders riferirsi solo ai limiti dell’umano, a una corporeità imperfetta e perciò da controllare e ricreare artificialmente. Con più attenzione alla natura sessuata dell’umano, scrive André Gorz: «Il rifiuto dell’esistenza corporale, della finitezza, della morte, esprime il progetto di essere fondamento di sé con l’odio sprezzante della natura e della naturalità della vita; con il rifiuto di essere nato dal corpo di una donna…» (A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri 2003). Gli uomini conoscono il corpo femminile che li ha generati nel momento della loro maggiore dipendenza e inermità. Quanto può aver contato nel riservare a sé la ragione ordinatrice del mondo, fino a farsi sottomettere dalle cose che hanno prodotto, quel rapporto originario con la potenza materna? A che cosa fa pensare quel “vampiro benevolo” che, secondo Sardin, sta divorando la società tecnologica, pronta a «rassicurarci, accudirci, gratificarci, cavandoci contemporaneamente il sangue»? «Il potere-kairos (…) il suo scopo è quello di proteggerci, farsi carico della nostra igiene e del nostro benessere, sollevarci dalle fatiche, distrarci (…) gestire le nostre paure, le nostre angosce, le nostre mancanze». Forse non è un caso che, di fronte all’accelerazione tecnologica verso un’intelligenza artificiale che assorbe e sostituisce le più essenziali relazioni umane – per esempio i “robot da compagnia” all’interno di ospedali e case di riposo -, ma anche all’emergere di una violenza selvaggia, come nel caso dei femminicidi, si torni a parlare di vulnerabilità e fragilità maschile, di rifiuto e diniego rispetto alla sofferenza e alla morte. Dietro la facile etichetta del “post-umano”, applicata a cambiamenti di cui quasi mai vengono indagate le ragioni profonde, si può pensare che ci siano vicende essenziali dell’umano considerate “impresentabili”, per le quali è il racconto delle esperienze individuali a poter dare voce. «Prima di ipotizzare un’oltranza rispetto all’umano – scrive Franco Rella – bisognerebbe essersi imbattuti nell’inumano. A farci entrare nel non-umano è la forza della guerra, dell’assoggettamento, della schiavitù, delle necessità materiali e della depressione». È soprattutto la consapevolezza della morte, «quel verme del niente» che «si muove dentro di noi e occupa a volte tutto l’orizzonte del nostro pensiero». (F. Rella, Territori dell’umano, Jaca Book 2019). Ancora una volta, tuttavia, passa sotto silenzio quella morte in vita che è toccata alla donna, considerata per secoli un umano inferiore.
Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” il 31 dicembre 2019. «Siamo egolatri, non sappiamo gestire la nostra solitudine. E tutto questo comporta una rottura di relazione, soprattutto dentro la famiglia». Giuseppe De Rita, 87 anni, otto figli, presidente del Censis (Centro studi investimenti sociali) guarda la «foto» dell' Italia scattata dall' Istat - in sintesi: sempre meno figli e sempre più famiglie composte da single - e osserva: «Il punto è che noi questo scenario lo abbiamo sempre affrontato in termini strutturali, il bonus bebè, i sostegni alle famiglie: ma la realtà è che è finita l' anima».
Ovvero, professore?
«Fare figli in qualche modo vuol dire scordarsi di se stessi, ma noi non abbiamo più questa capacità, questa propensione: la ragione non sta in una dimensione economica, si tratta innanzitutto di un fatto emotivo. Siamo dediti a noi stessi, siamo ricolmi di narcisismo egoistico e in definitiva siamo incapaci di un rapporto con l' altro».
E dunque?
«Siamo così soli dentro che preferiamo investire nel breve periodo. E siamo single anche per questo».
Questa «fine dell' anima» di cui parla dove trova le sue radici?
«Nella congiuntura emotiva dell' ultimo decennio, con la rottura totale della vita di relazione. Anzi: la relazione non è più un valore, il valore è oramai la rottura di relazione simbolizzata dal "vaffa", divenuto lo slogan della società, implicito ed esplicito. Siamo un Paese che rompe ogni minuto miliardi di piccole relazioni. E questo mi sembra stia diventando il peccato maggiore della società italiana».
Speranze?
«Un augurio, semmai. In quel film-capolavoro che si chiamava Miracolo a Milano , diretto da Vit-torio De Sica e sceneggiato da Cesare Zavattini, si vede un ragazzino che, nella Milano del 1951, esce dall' orfanotrofio e inizia a salutare tutti. Al quinto "buongiorno", un passante gli chiede perché. Lui risponde che non c' è una ragione. Ecco, dobbiamo tutti tornare a salutare come quel ragazzino».
Mariolina Iossa per il “Corriere della Sera” il 31 dicembre 2019. Famiglie sempre più piccole, anzi piccolissime, in pratica un esercito di single che avanza e che non solo a fare figli non ci pensa proprio, ma neppure a vivere in coppia, e nuovo minimo storico delle nascite, mai state così poche dall' Unità d' Italia, sempre più vecchi. È questo il Paese che si affaccia al 2020, come ce lo racconta l' Annuario Istat. Poche le buone notizie, principalmente due, pure se in chiaroscuro: buste paga un po' più pesanti (ma solo per i dipendenti pubblici) e livelli di occupazione tornati a prima della crisi economica del 2008 (ma i posti di lavoro in più sono quasi tutti a tempo determinato).
Una famiglia su tre è un single. Un altro terzo è formato da due componenti, una coppia senza figli, un genitore con un figlio. Soltanto due famiglie su dieci sono composte da quattro persone. Più del 60% dei figli tra i 18 e i 34 anni vive con i genitori.
Continua il calo delle nascite e l' invecchiamento della popolazione. «I nati vivi, che nel 2017 erano 458.151, nel 2018 passano a 439.747», conferma l' Istat. La speranza di vita media alla nascita «riprende ad aumentare attestandosi su 80,8 anni per i maschi e 85,2 per le femmine nel 2018». Aumentano le retribuzioni: l' Istat registra un più 1,5% in busta paga, «dovuto per la quasi totalità agli aumenti retributivi previsti per i dipendenti pubblici (+2,6%) dopo il blocco contrattuale che si protraeva dal 2010». Aumentano anche i livelli di occupazione, siamo al 58,5%, e sfiorano il livello massimo del 2008, prima della crisi. Nel 2018 le famiglie in condizione di povertà assoluta erano un milione e 822 mila (7,0 per cento), per un totale di oltre 5 milioni di poveri. Dai numeri Istat emerge anche che più le città sono ricche, maggiori sono le disuguaglianze sociali. Ed è allarme carceri: il sovraffollamento è cresciuto in un anno del 3,6%.
"Chi ha di che lagnarsi è sempre felice". Dalla guerra ai pollici di una ragazza. Tutto viene registrato e commentato. W.n.p. Barbellion, Martedì 31/12/2019, su Il Giornale.
La solitudine fa bene all'anima. Dopo un'ora di solitudine mi sento nobile e imperiale come Marco Aurelio. Anche la ragazza più bella nell'abito migliore sembra corrotta se le calze fanno le pieghe sulle caviglie.
Certi vecchi, quando raggiungono una certa età, continuano a vivere per abitudine... una brutta abitudine oltretutto. Quante cose posso imparare su uno sconosciuto dalla sua risata.
Il cristiano è l'egoista par excellence. Non si preoccupa di annullarsi col duro lavoro in questo mondo, dal momento che avrà la vita eterna nell'altro...
La vera felicità sta nelle piccole cose, come un po' di giardinaggio, il tintinnio delle tazze da tè nella stanza accanto, l'ultimo capitolo di un libro.
Preferisco conoscere Bergson che saper stare all'Hotel Ritz. Preferisco saper sezionare il sistema vascolare di una stella marina che conoscere il prezzo dei buoni di Stato.
Funerale (del padre, ndr). Non è la morte, ma sono le tremende possibilità della vita che ci abbattono.
Siamo talmente egoisti che un dolore o un'avversità, se si rivelano intense abbastanza, in fondo ci lusingano. Ci facciamo l'idea che quell'incidente capitato propria a noi ci abbia reso diversi dai nostri simili. (...) L'uomo che ha di che lagnarsi è sempre un uomo felice.
Se fosse un po' più triste e un po' più bella, sarebbe irresistibile.
Sembreranno solo scemenze, se dopotutto riuscirò a non morire! Essendo io un artista della vita, devo morire, perché sarebbe l'unico finale davvero artistico. E devo morire presto, altrimenti il terzo atto si ridurrà a un lungo conto del dottore.
Ho fatto del mio meglio, ho cercato ogni possibile scappatoia, ma non posso proprio rifiutare la triste evidenza che... ha dei brutti pollici.
La cosa mi turba sul serio, perché lei mi piace. Nessuno sarebbe più contento di me se la loro forma fosse diversa... Povera cara! Quanto la amo! Ecco perché mi preoccupo tanto dei suoi pollici.
Di certo anche una sola esposizione, alla Quinta di Beethoven ad esempio, porterebbe a un palese miglioramento del corpo e dell'anima.
Nella metropolitana si è seduta di fronte a me una giovane vedova, pallida, scavata dal dolore, riservata, tutto in lei sembrava sussurrare: «sia fatta la Tua volontà». L'adattabilità degli esseri umani ha in sé qualche cosa di orribile. È spaventoso quanto ci siamo tutti assuefatti a questa guerra. La rassegnazione cristiana è debolezza. Perché quella povera vedova non si alza a urlare e maledire l'iniquo mondo che ha permesso questa iniqua guerra?
Dicono che se vincono i tedeschi rimetteranno indietro di un secolo l'orologio della civiltà. Ma che cosa rappresentano cento miseri anni? Pensate all'epoca della prima dinastia egiziana. Siamo appena al 1915, possiamo anche permetterci di sprecare un secolo o due, anzi si potrebbe evacuare interamente il pianeta e poi lasciarlo in mano ai crucchi, per vedere che cosa sono capaci di fare, come fosse un esperimento. Dopotutto non c'è questa gran fretta. Dobbiamo prendere un treno? Prima di decidere di andare in guerra vorrei che il Signore mi comunicasse il suo programma futuro per l'umanità.
La verità è come un mastino, bisogna tenerla alla catena.
La società odia «l'adesione sociale, vuole la consuetudine, la disciplina, il movimento unico e omogeneo, l'ortodossia, il conformismo.
La verità è che io credo di essere innamorato di lei, ma sono anche e soprattutto innamorato di me stesso. Uno dei due amori dovrà per forza cedere all'altro.
Eccomi qua, vecchio amico, finalmente ti ritrovo, come stai? È al mio diario che sto parlando. Sono stato tanto senza scrivere, e in genere quando non scrivo vuol dire che sono contento.
Se non posso essere amato per quello che sono, non voglio esserlo per quello che non sono.
Qualche giorno fa hanno portato la culla, ma non l'ho vista fino a stamattina, quando ho aperto la porta della dispensa e mi sono ritratto con un brivido. «C'è una bara nella dispensa» ho detto quando sono sceso giù a colazione. E. (la moglie Emily, ndr) ha riso, ma non sa che dicevo sul serio.
Il pessimismo è una forma di saggezza, è come conservare la torta in dispensa e mangiarla al tempo stesso.
· Lo Snobbismo.
Testo di Vittorio Feltri per la rivista “Arbiter” pubblicato da “Libero quotidiano”l'11 febbraio 2020. Marcel Boulenger (1873- 1932) fu provetto spadaccino, amico di Gabriele D' Annunzio, giornalista e scrittore raffinato. Sconosciuto all' editoria italiana per decenni, oggi è al centro di un piccolo caso editoriale, con tre libri pubblicati nel giro di pochi mesi. L' ultimo arrivato è Elogio dello snobismo (Odoya). Un pamphlet di poche ma grintose pagine in cui Boulenger elogia per stroncare e mette dunque alla berlina un tipo umano ancora molto diffuso: lo snob. Prima di tutto: cosa significa snob? Questa parola, che usiamo in modo scontato, ha un' origine misteriosa e dibattuta. L' ipotesi a lungo più accreditata, forse a torto, è che snob sia la contrazione di sine nobilitate, espressione latina che all' università di Oxford indicava gli studenti di famiglia non aristocratica. Sui registri era abbreviata in «s.nob». Secondo questa definizione, lo snob è il borghese che vorrebbe far parte della nobiltà. Tuttavia parole molto simili a snob sono presenti in lingua islandese (snopr) e in antico sassone (snab). Lo snob è uno spaccone e si vanta di qualità che non possiede. Inoltre è un campagnolo trapianto in città dove prova a scimmiottare lo stile di vita dell' aristocrazia. In tutti i casi, il fenomeno sociale affonda le radici alla fine del XVIII secolo ed è in rapporto con l' ascesa della borghesia. Boulenger accoglie e adatta queste definizioni. Lo snob è il borghese che vorrebbe avere le caratteristiche che i nobili sembrano possedere per diritto di nascita: una certa sprezzatura, il gusto innato per il lusso, il cinico senso dell' umorismo. Purtroppo non è in grado di apprendere ciò che gli aristocratici succhiano insieme con il latte delle balie. Di conseguenza, per essere all' altezza, lo snob approva senza riserve tutte le fissazioni dell' alta società e condanna quelle della classe sociale alla quale in realtà appartiene: la borghesia, appunto. Come il nobile, quando gradisce qualcosa, la definisce «spassosa», «adorabile» e «deliziosa». categoria dello spirito Il maestro nel descrivere lo snobismo fu Marcel Proust. L' autore della Recherche ha trasformato il fenomeno sociale in categoria dello spirito (eletto). Gli snob sono affetti da un senso della superiorità che non si capisce da cosa sia giustificato. Boulenger taglia corto con acido sarcasmo: «1° essere ricevuti nei salotti delle persone titolate o molto ricche; 2° riceverle a propria volta; 3° disprezzare chiunque non sia mai invitato nei suddetti salotti». Lo snob ostenta buone maniere ma in realtà si nutre di malcelato disprezzo per le classi sociali «subordinate». Fino a qui il passato. Ma oggi chi è lo snob? Le cose sono cambiate. Lo snob mantiene intatto un senso della superiorità morale e culturale. Ma lo snobismo non è più elitario. Anzi. Lo snobismo è di massa. Nel mondo della cultura, per esempio, non è l' eccezione ma la regola. Lo snob si dichiara pericolosamente originale proprio nel momento in cui esprime banalità del tutto scontate nel suo ambiente, anzi: prescritte e richieste dal suo ambiente come lasciapassare e testimonianza di appartenenza al gregge. Chi ha le idee giuste ha diritto di parola e merita l' applauso. Chi ha le idee sbagliate deve tacere e merita biasimo. Questo tipo di censura morale si sposa alla perfezione con il politicamente corretto. L' applicazione pratica è spietata. Le idee che si scostano di pochi millimetri dalla ortodossia spariscono subito dopo essere state tacciate di fascismo, razzismo, xenofobia. Nel mondo dello snob ci sono solo due tipi di pensiero: sinistra e destra, socialismo e fascismo, bontà e cattiveria, bene e male. La varietà e le sfumature non sono alla portata dello snob, troppo abituato ad aver ragione per aver voglia di confrontarsi. il cerimoniere Lo snob promuove il suo gruppetto. Piccolo ma sufficiente per essere la voce ufficiale della cultura italiana. Fabio Fazio ne è il gran cerimoniere. I suoi ospiti sono tutti quanti «spassosi», «adorabili» e «deliziosi». Dotti, sapienti, cantanti, scrittori fanno a gara per ripetersi, ribadire il già detto, esprimere l' opinione corrente con l' aria di chi corre verso il plotone d' esecuzione. Mentre s' indignano e tuonano contro il conformismo della borghesia, il loro portafogli si gonfia, riempito dalle banconote elargite proprio dalla borghesia allocca pronta ad abboccare. Lo snobismo si confonde oggi con la mediocrazia. Lo snob si esalta per il romanzo con pretese letterarie (abbiamo detto pretese). Per l' opera d' arte che vorrebbe riflettere lo spirito dell' epoca e invece fa a stento sorridere per cinque minuti prima di finire nel deposito degli oggetti dimenticati perché irrilevanti. Per il film d' autore vuoto come la testa del regista dietro la telecamera. Per il saggio del geniale intellettuale che riscrive penosamente gli articoli di giornale, ma almeno gli articoli di giornale non hanno la pretesa di durare, mentre il geniale intellettuale crede di aver staccato il biglietto per l' immortalità. Venghino signori, venghino. Ecco il campionario delle idee elitarie confezionate apposta per la massa.
· Il nostro Accento.
Perché non dobbiamo perdere il nostro accento quando parliamo un'altra lingua. Alessio Caprodossi il 18 gennaio 2020 su it.mashable.com. Quasi la metà degli italiani vorrebbe eliminare il proprio accento quando si esprime in inglese, francese, spagnolo o qualsiasi altra lingua straniera. Colpa di una mancata tranquillità, o fiducia nei propri mezzi, nel rapportarsi con gli altri tramite un idioma differente dalla propria lingua, tanto che quasi in uno su tre scatta quell’imbarazzo che, talvolta, può sfociare in un blocco mentale, nonostante si abbiano le conoscesse base per comunicare in lingua straniera. Siamo convinti, sbagliando, che l’accento italiano ci penalizza sul lavoro…Concetto che si amplifica se rapportato all’ambito professionale e alle possibilità di fare carriera, con il 55% dei connazionali convinti che l’accento italico possa rivelarsi un fattore negativo in termini di scalata sociale, nonostante l’accento straniero sia valutato un elemento utile per conquistare un status migliore. Preoccupazioni che dovrebbero sparire, considerato che all’estero l’accento italiano che marca la pronuncia nelle espressioni in un linguaggio differente piace, e pure tanto. Una conferma in tal senso arriva da un sondaggio realizzato dall’agenzia di ricerca Ipsos su commissione di Babbel, una delle più popolari e utilizzate applicazioni per apprendere una nuova lingua tra le quattordici disponibili, tramite lezioni divise per temi utili che ricreano contesti quotidiani.
…perché in realtà la pronuncia all’italiana piace tanto agli stranieri. A differenza delle certezze nostrane, i popoli stranieri (oltre all’Italia, il sondaggio ha coinvolto 1.000 o 500 intervistati tra i 18 e i 65 anni di Canada, Francia, Germania, Stati Uniti, Polonia, Spagna e Regno Unito) hanno elogiato l’accento italiano, definendolo “sexy, appassionato e amichevole”. I più entusiasti sono tedeschi (43%) inglesi (42%) e statunitensi (40%), per i quali la pronuncia all’italiana è sinonimo di passione mentre, a livello di stile, britannici e francesi evidenziano l’associazione tra l’accento italiano e il buon gusto, peculiarità tutta nostrana secondo la speciale classifica elaborata dalla società di ricerca. Dovendolo identificare con un aggettivo, l’italiano che parla in straniero appare “intrigante, sofisticato e professionale”. “Dal punto di vista linguistico, il report mostra come le persone abbiano sentimenti contrastanti nei confronti del proprio accento”, commenta Alex Baratta, docente di linguistica e comunicazione all’Università di Manchester, in Inghilterra. Che aggiunge: “Da un lato sono orgogliosi del proprio accento perché racconta chi sono da prospettive diverse, agendo come una specie di “carta d’identità”. Allo stesso tempo, però, hanno paura di essere giudicati in modo negativo per vari elementi, come etnia o classe. A partire dalla famiglia fino al posto di lavoro, sembra che ci sia un grande desiderio di vivere in una società senza pregiudizi ma anche la consapevolezza che c’è ancora tanta strada da fare.”
L’italiano che parla inglese non ha rivali. Che ci sia da fare è indubbio, come pure che gli inglesi in particolare amino l’accento italiano, con la dimostrazione che arriva da vari sondaggi e ricerche realizzate in terra d’Albione nel corso dell’ultimo decennio. Uno dei più recenti l’ha condotto Kayak, sito che agevola la pianificazione di un viaggio tramite informazioni su hotel, voli e auto a noleggio, rivelando che tra i sudditi della Regina la pronuncia all’italiana spopola: per le donne è l‘accento più sexy in assoluto, per gli uomini è il secondo più gettonato dopo il francese, anche se la distanza è minima (31% contro il 29%).
· «Ma che dici?»
VI SIETE MAI CHIESTI DA DOVE ARRIVA LA PAROLA “CIAO”? VENTI VOCABOLI DI USO QUOTIDIANO CHE CELANO RACCONTI INASPETTATI E MOLTO INTRIGANTI.
QUANDO UNA PAROLA VUOLE DIRE MOLTO DI PIÙ.
Da can can a bischero, da hamburger a tamarro, conoscete il segreto di queste parole? E poi: rubinetto, cafone, okay. Dietro ogni nome una storia incredibile. Ecco 20 vocaboli che nascondono racconti inaspettati e molto intriganti. Camilla Sernagiotto il 24 settembre 2020 su Il Corriere della Sera.
1. Cafone. Cafone significa maleducato e secondo alcuni deriverebbe da due termini della lingua greca: kakòs, che vuol dire «cattivo», e phoné, che significa «suono», ossia «cattivo parlatore». Ma esiste un’altra teoria più avvincente sull’etimologia di cafone. A Napoli, nel Medioevo, i venditori ambulanti di latte passavano tra le stradine del centro di prima mattina assieme alla mucca da mungere al momento. Quando vedevano potenziali clienti affacciarsi alle finestre, strillavano a pieni polmoni «a fune!» per farsi calare una corda con attaccato un secchio da riempire di latte. Il nome «lattiere» venne quindi ben presto sostituito con l’espressione che i venditori gridavano a squarciagola: a fune, che in breve si trasformò in cafune e infine variò in cafone. Con il tempo, la parola è diventata sinonimo di una persona sgarbata.
2. Candidato. Candidato deriva dal latino candidatum, che significa «imbiancato». Nell'antica Roma, in periodo elettorale, l’aspirante a cariche pubbliche per farsi notare girava per il Foro avvolto in una toga bianca resa brillante da una sostanza gassosa. Spesso si pitturava addirittura la faccia di bianco pur di non passare inosservato.
3. Mancia. Mancia deriva dal francese antico «manche», che significa manica. Durante i tornei, le donne si staccavano le maniche dal vestito per donarle al cavaliere vincitore. Da qui deriva il significato odierno di mancia lasciata a chi svolge bene il suo lavoro.
4. Tamarro. Tamarro deriva dall'arabo tamr che significa dattero. «Tammar» indicava il mercante di datteri, tipologia di venditore che era solita vestirsi in maniera molto appariscente e pacchiana.
5. Mignotta. Come riportato dall’Enciclopedia Treccani, la parola mignotta deriva dal francese «mignotte» che significa favorita, letteralmente gatta per via dell’associazione delle prostitute all’indole ambigua del felino. Una teoria popolare, tuttavia scorretta, farebbe derivare il termine dalla seguente storia: nel Medioevo, quando era tristemente celebre la ruota dei conventi in cui abbandonare i neonati, appena la campanella collegata alla ruota suonava e una suora recuperava lo sfortunato bambino, questo veniva battezzato con un nome inventato. Quel nome veniva inserito nel registro del convento con la dicitura «Madre Ignota». Con il passare del tempo, le suore avrebbero incominciato a siglare la M. di Madre, scrivendo quindi «M. Ignota». Secondo questa teoria popolare, da quella sigla alla parolaccia che indica una donna di facili costumi il passo sarebbe stato breve.
6. Boicottare. Boicottare significa «impedire l’attività altrui». Deriva dal nome del capitano Charles Cunningham Boycott, amministratore del feudo irlandese di Lord Erne. Avendo aumentato il canone ai contadini, costoro per protesta smisero di consegnargli cibo, legna eccetera, isolandolo a tal punto che alla fine Boycott dovette lasciare l’Irlanda.
7. Can can. Can can inteso come «baccano» ha una bella storia alle spalle. A metà dell’Ottocento alcuni linguisti francesi si riunirono al Procope, un ristorante di Parigi, per stabilire se quamquam (“«ebbene» in latino) andasse pronunciato «quam quam» o «kam kam». Ne seguì una cagnara alla quale parteciparono anche gli altri clienti del ristorante, incominciando a gridare chi «quam quam», chi «kam kam». Da qui nacque can can inteso come baccano. Il tipico ballo francese del Moulin Rouge, nonostante ne condivida il nome, ha un’origine diversa: deriva da «canard», cioè anatra, perché i movimenti del fondoschiena delle ballerine ricorderebbero quelli del palmipede.
8. Hamburger. La parola Hamburger indicava la specialità tipica della città di Amburgo (in tedesco e in inglese Hamburg). L’ham venne in seguito erroneamente interpretato come prosciutto (in inglese ham, appunto) e burger quale suffisso indicante panino. Tale suffisso venne poi lessicalizzato (ossia trasposto dalla sintassi al lessico) e utilizzato in erronee formazioni quali Cheeseburger, Fishburger e via dicendo.
9. Bischero. Bischero nel dialetto toscano indica una persona scema e babbea. Nella Firenze del Trecento viveva la famiglia Bischeri, proprietaria di una casa nel quartiere dove si sarebbe dovuto edificare Palazzo Vecchio. Il quartiere andava raso al suolo ma i Bischeri furono l’unica famiglia a non accettare l’indennizzo per abbandonare la casa. Quando la loro rimase l’unica abitazione del quartiere, il comune decise di espropriarla così i Bischeri si ritrovarono senza casa e senza indennizzo. Da allora chi si comporta da scemo viene definito “bischero”.
10. Okay. La locuzione «okay», scritta più frequentemente con le sigle OK e O.K., indica positività e sostituisce l’espressione «va bene». Ne sono state date molte spiegazioni, alcune poco plausibili. Quella accertata riportata dalla Treccani è che apparve nel 1840 quando, nell’anno delle elezioni presidenziali, un comitato per la rielezione del presidente in carica, Martin van Buren (soprannominato «il mago di Kinderhook» dal suo villaggio d’origine) si fece chiamare Old Kinderhook Club, abbreviato in O. K. Club; la sigla, interpretata come iniziali di oll korrect per all correct («tutto esatto»), ha avuto subito fortuna ed è passata dal gergo politico al parlato con il significato di «sta bene». Tra le tante spiegazioni avvincenti ma poco plausibili nate negli anni, c’è anche quella che racconta che la sigla OK veniva usata durante la Guerra di secessione americana nei bollettini dal fronte per indicare «zero killed», ossia «nessun soldato ucciso».
11. Assassino. La parola assassino deriva dall'arabo «hasciscin» e indicava una popolazione che faceva uso di una bevanda inebriante derivata dall’hashish (le foglie della canapa indiana) che rendeva particolarmente temerari nonché sanguinari. Dopo le Crociate, la parola venne utilizzata per indicare coloro che assaltavano i viandanti per depredarli o ucciderli.
12. Bus. Il primo mezzo di trasporto pubblico fu inaugurato a Londra. Questa carrozza, a differenza delle precedenti, non era più solo privilegio di nobili e ricchi ma era per tutti. Da qui il suo nome Omnibus, ossia «per tutti» in latino. In seguito la desinenza bus fu erroneamente interpretata come il suffisso indicante i mezzi di trasporto e venne lessicalizzato (ossia trasposto dalla sintassi al lessico). Bus diede poi origine a formazioni sbagliate (ma ormai universali) come autobus, filobus e scuolabus.
13. Robot. Non molti lo sanno però robot non è una parola inglese. In realtà è una parola che deriva da una delle lingue più complicate d’Europa: la lingua ceca. In Ceco «robota» significa lavoro forzato e a sua volta è un termine che deriva dall’antica parola slava «rabota» (servitù). Il termine robot fu utilizzato per la prima volta nell’opera di teatro R.U.R. dallo scrittore cecoslovacco di fantascienza Karel Čapek.
14. Croissant. La parola francese croissant che indica il cornetto dolce che ha la forma della mezzaluna si riferisce proprio alla Luna crescente, dal verbo francese croître che significa crescere. Quel nome e quella forma alludevano alla mezzaluna turca poiché i primi croissant furono prodotti a Vienna nel 1689 proprio per celebrare la vittoria sui Turchi.
15. Rubinetto. Rubinetto deriva dal francese «robinet», ossia «piccolo montone» («Robin» era un nome comunemente dato alle pecore), perché in Francia la chiavetta di apertura dell’acqua un tempo era ornata proprio con una testa di montone.
16. Ciao. Ciao deriva dal dialetto veneto. I veneziani, incontrando qualcuno, erano soliti dire: «Schiavo suo». Questa espressione andò contraendosi e modificandosi: prima perse il «suo» e rimase solo «schiavo», dopodiché caddero la esse, l’acca e la vi di schiavo - (s) c (h) ia (v) o- e rimase solamente «ciao». Oggi è la più diffusa forma di saluto utilizzata in Italia.
17. Pomata. In origine la pomada o pommade era un intruglio cosmetico al quale ricorreva la vanitosa Regina Elisabetta I d’Inghilterra composto da sugna, acqua di rose e purea di mele. Il suo nome deriva da quest’ultimo ingrediente: la mela (pomo in italiano, pomme in francese e pōmum in latino, inteso come frutto in generale), componente di base. Dato che la pomada si spalmava, il termine finì per significare nella forma «pomata» una qualsiasi preparazione di consistenza molle.
18. Maratona. Il termine maratona indica una gara podistica su un percorso di km 42,192. Il nome risale alla vittoria dell'ateniese Milziade (490 a. C.) che sconfisse l’esercito persiano nella piana di Maratona. Dopo la battaglia, il guerriero Fidippide percorse l'intera distanza tra Maratona e Atene di corsa per portare agli ateniesi la notizia della vittoria. Morì subito dopo aver dato l'annuncio.
19. Estroso. Estroso letteralmente significa «punto dai tafani» perché oistros in greco è il tafano. L’estroso è colui che, come punto dai tafani, mostra irrequietezza e furore, due caratteristiche principali dell'inventiva di chi è creativo.
20. Liberty. La parola liberty indica uno stile di architettura, arredamento e moda, sinonimo di Art Nouveau. Deve il suo nome al signor Arthur Liberty, titolare di un negozio di Londra che vendeva (e vende ancora nell’omonimo gran magazzino di Regent Street, a Londra) tessuti orientali e orientaleggianti ricchi di ghirigori, curve e spirali, quelle che oggi definiremmo per l’appunto le tipiche decorazioni liberty. Fu proprio Mister Liberty a propagandare tale stile che così prese il suo nome.
Andrea Cuomo per “il Giornale” l'11 agosto 2020. Quanti sono i morti di Covid oggi? Boh, diciassei... In metro mettiti la mascherina, fbl! Oh, gliel'hai proprio toccata piano, eh. Tokyo che passa gente! Ho passato quattro giorni a guardarmi tutte le puntate della casa di carta... Prdqp, eh? Dialoghi nemmeno troppo immaginari tra giovani nemmeno troppo giovani, in città nemmeno troppo metropolitane. Parole che mischiano slang, regionalismi, acrononimi, forestierismi, citazioni da serie tv o fumetti, e che compongono il nostro vocabolario quotidiano, quello vero, quello con cui comunichiamo su Whatsapp o tra amici, quello che se ci sentisse la nostra prof d'italiano, quella con il tailleur colore verde marcio, ci boccerebbe ex post, ma per fortuna non si può. Parole ed espressioni raccolte da Slengo, il dizionario «di strada» online (slengo.it) che possiamo consultare e anche scrivere. Proviamo a comporre un breve vocabolario «di spiaggia» con le parole di Slengo.
A BOLLA. Dal gergo edile, tutto a posto. «Hai portato la mascherina?». «Sì, tutto a bolla».
ANFATTI. Storpiatura romanesca di «infatti», indica una adesione annoiata a ciò che dice l'interlocutore. «Certo che dopo il lockdown non è cambiato niente, sono tutti al mare». «Anfatti...».
ASCIUGARE. Parlare a lungo di cose poco interessanti. «Giorgio mi ha fatto un asciugo...»
BACCAGLIARE. Flirtare o corteggiare. «Mi ha baccagliato tutto il tempo».
BAGGATO. Che sta poco bene. «Oggi sto baggato, se va avanti così mi farò un tampone».
CCCM. Acronimo di c'è chi c'è morto. «Mi faccio un tuffo». «Ma se hai appena mangiato, CCCM!».
DA GARA. Al massimo delle potenzialità. «Belle scarpe, da gara!».
DÀJE. Incitamento romanesco, ormai utilizzato ovunque e in ogni circostanza. «Ce la possiamo fare, dàje».
EDGY. In inglese provocatorio, d'avanguardia. «Come mai ascolti solo musica così edgy?».
FRIENDZONARE. Relegare nel ruolo di amico qualcuno che nutre ben altri interessi per te.
GIARGIANA. Un non milanese, qualcuno che arriva dalla provincia e quindi è perennemente inadeguato e goffo.
HYPE. L'attesa prodotta (non sempre a ragione) dall'uscita di una serie, di un film, di un prodotto tecnologico. «L'hype per il nuovo iPhone è pazzesca».
LURKARE. «Spiare» i contenuti di una comunità online senza contribuire, comportamento questo considerato nella netiquette irrispettoso e perfino losco.
MAINAGIOIA. Scoramento dopo l'ennesima delusione.
MECOJONI. Termine romanesco ormai diffuso in tutta Italia che indica stupore. È l'altra faccia dell'ormai ubiquo sticazzi.
NO VABBÈ. Espressione usata quasi come un intercalare, per intendere lieve stupore. «No vabbè, sai chi mi ha richiamato? Il mio ex».
ONESTO. Giusto, corretto, che ci sta. «Alla fine sono uscito con Giulia». «Onesto».
PACCARE. A Milano dare buca, a Roma fare petting. I due significati naturalmente non possono essere contemporanei.
PISCIARE. Anche in questo caso dare buca a una persona o a un evento. L'altro significato è superfluo spiegarlo.
QUARTOGGIA. Situazione losca e potenzialmente pericolosa, dalla contrazione del quartiere milanese Quarto Oggiaro.
RIP. «Rest in peace» in inglese. Usato ironicamente come espressione di cordoglio per qualsiasi sfortuna.
SQUARARE. Comprendere qualcosa che non si sarebbe dovuto sapere. «Volevo nascondere a Fabio che ho visto Marta con un altro ma lui se l'è squarata».
TANTA ROBA. Commento di ammirazione estrema per qualsiasi cosa. «Oh, sta musica è tanta roba».
UNA CERTA. S' intende una certa ora e comunica l'intenzione di andarsene. «Ragazzi, s' è fatta una certa, me ne vado».
VECIO. Termine veneto che sta diffondendosi in tutta Italia per indicare con affetto un amico. «Ciao, vecio!».
ZERODUE. Si sottintendono i secondi. Indica qualcosa che si desidera a tal punto da farlo immediatamente. «Appena esce lo compro in zerodue».
A proposito: diciassei è chiaramente un numero immaginario che indica una quantità indefinita; fbl è l'acronimo di fà ballà l'oeucc, che in milanese vuol dire fai attenzione; passarla piano in gergo calcistico vuol dire, ironicamente, sparare una bomba; Tokyo non è la capitale del Giappone ma una storpiature di: occhio! Prdqp è l'acronimo di: poche ragazze da quelle parti, come a dire, non avevi niente di meglio da fare. Appunto.
«Ma che dici?»: il gesto italiano più famoso del web diventa un'emoji. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessio Lana. C'è una cosa che ci rende unici nel mondo. Non è la pizza né la pasta, il Colosseo o il cinema ma il «gesto italiano», quella posizione così peculiare della mano che ora diventa anche un'emoji. L'arte di gesticolare fa così parte del nostro Dna da renderci riconoscibili all'estero da sempre ma da qualche anno online è emerso questo gesto che è diventato iconico. Tutti lo abbiamo fatto almeno una volta: basta chiudere la mano a coppetta con i polpastrelli delle dita che vanno a toccare quello del pollice. Qui da noi ha miriade di significati, all'estero ne amano soprattutto due. Da una parte indica «Cosa stai dicendo», dall'altra viene interpretato come «chef's kiss», il bacio dello chef, con le dita chiuse che vanno a toccare la bocca per poi aprirsi e segnalare qualcosa di buono da mangiare. O meglio, «al bacio». Ora l'Unicode Consortium che sovrintende allo sviluppo di nuove emoji ha deciso di inserire il gesto tra le immaginette che potremo usare per arricchire i nostri messaggi di testo. Verrà rilasciato nel corso dell'anno insieme ad altre immagini come per esempio l'uomo che allatta, spose vestite da uomo e uomini vestiti da sposa con un lungo velo bianco ma anche la bandiera dei transgender e una coppia senza sesso percepibile che si abbraccia. Sul fronte animale arriveranno invece il mammut, il dodo e l'orso polare. Va da sé che per noi però il più interessante è quel gesto che ha origini molto lontane. Sul fronte culinario infatti lo stereotipo conquista gli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale quando inizia ad apparire su insegne di ristoranti e pubblicità di vivande. Con un grande salto arriva nel web negli anni Dieci di questo Duemila grazie al recupero di un personaggio del Muppet Show, Swedish Chef, che nonostante fosse svedese lo faceva continuamente. Nel significato di «cosa stai dicendo» (o internettianamente «Wtf») la conquista del web è coeva ma probabilmente ha subito un'accelerazione grazie alla ripubblicazione negli States nel 2015 del Supplemento al dizionario italiano, in cui il designer Bruno Munari spiegava il nostro linguaggio delle mani. In copertina c'è proprio la mano chiusa e interrogativa che poi, dal 2017, darà vita al «How Italians Do Things», una serie di video, foto e gif in cui si vedono persone intente a fare ogni cosa, dal guidare al bere il caffè al mangiare la pasta, con le mani inesorabilmente chiuse. Perfino la Dolce & Gabbana, nel 2014, ha pubblicato un filmato in cui lo fa interpretare dai propri modelli. Ma adesso però diventa un gesto di tutti. Prepariamoci a riceverlo anche sulle chat.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 7 aprile 2020. «Ero molto laconico dopo quel preambolo solerte ascoltato in chiesa. Biasimandomi nel prete, capii che stavamo andando incontro alla catarsi. Temevo però di corroborare tutto con quei brutti pensieri e quindi corsi via. Passai per strade caustiche e piene di gente, vidi un adepto del Comune dedicarsi all' afflizione di un manifesto e un tifoso blandire una bandiera. Infine giunsi a casa, sordido di sudore e affamato. Se fossi stato un fedifrago, avrei mangiato carne umana». C' è da restare senza parole nel leggere i termini in corsivo usati in questo modo. Con significati forzati, sballati, rovesciati. E con effetti involontariamente comici. Eppure è questo il senso che molti studenti italiani, anche universitari, attribuiscono ai suddetti vocaboli: se interrogati in proposito sul loro valore semantico, danno risposte imbarazzanti, producendo mostri verbali.
Il bestiario. Se n' è accorto il linguista Massimo Arcangeli che ha dato alle stampe l' interessante saggio Senza parole. Piccolo dizionario per salvare la nostra lingua (Il Saggiatore, pp. 248, euro 19), raccogliendo una cinquantina di parole, tra verbi, sostantivi e aggettivi, che, oltre a rischiare di essere perdute, corrono il pericolo di essere fraintese. Lo ha verificato lui stesso, sottoponendo questi termini a qualche centinaio di studenti universitari e chiedendo loro, per ciascuna parola, di scrivere una frase che la contenesse e di fornire un sinonimo. La raccolta venuta fuori è degna di un bestiario che fotografa bene l' ignoranza linguistica di molti giovani; e mette a nudo lo stato culturale del nostro Paese, ormai vittima di un analfabetismo di ritorno. Volendo procedere in ordine alfabetico, si può partire da abulico che, secondo alcuni studenti, significa «non aulico», quasi che il prefisso ab- abbia valore privativo. E si può continuare con adepto che, anziché come «seguace, discepolo», viene usato nel senso di «addetto, incaricato» (es.: gli adepti alla vigilanza) o addirittura come equivalente del verbo «adattare» (es.: Mi adepto a ogni situazione). E che dire di afflizione, parola che, a leggere come viene equivocata dagli universitari, ci procura moltissima afflizione: per alcuni ha il significato di «affiliazione» (un' afflizione mafiosa, le società in afflizione tra loro), per altri di «affissione». Tutti questi studenti andrebbero biasimati, ma non nella maniera in cui essi usano la parola biasimare. Anziché «criticare», «deplorare», per loro vuol dire l' esatto contrario, ossia «assecondare», «giustificare», «avere pietà» o addirittura «immedesimarsi» (Mi biasimo in lui). C' è poco però da blaterare e da blandire. Perché, se la prima parola viene usata come sinonimo di «sussurrare», la seconda viene confusa con verbi simili a livello sonoro come «brandire» e «bandire». Da qui gli spassosi ma agghiaccianti: «Non capisco come fai a blandire quel coltello», «È stato blandito un nuovo annuncio». Urgerebbe una catarsi per purificarsi da questi obbrobri linguistici, se non fosse che per alcuni universitari quella parola significa «disastro». Pertanto occorre rimbrottarli in modo caustico, aggettivo che si presta alle interpretazioni più fantasiose: si va da «ostico» ad «antipatico» fino a «caotico, rumoroso». Per la proprietà simmetrica, a detta di alcuni studenti, la parola «ostico» significa «caustico». Eppure i due significati non collimano affatto: il che, in un italiano corretto, vorrebbe dire «combaciano, coincidono», mentre per gli universitari interrogati significa «culminano» o «colmano» (es.: collimare un vuoto). L' unica soluzione sarebbe corroborare la loro padronanza della lingua italiana, a meno che quel termine non venga inteso, come fa qualche sciagurato, nel senso opposto di «rovinare». Un uso da esecrare, ma non nel modo in cui, secondo alcuni, si può essere esecrati dalle tasse (ossia, «esentati»). Perché, al più, si può esimere qualcuno dalle tasse, ossia «esonerarlo», senza però esimere da lui una spiegazione (perché in realtà si dice «esigere»). Questo tradimento della lingua italiana è esiziale («funesto», mica «illustre», come credono gli studenti) ed è degno di un fedifrago, che non significa però «cannibale», con buona pace degli universitari. Di fronte a tale scempio, comunque, non ci si può limitare a un commento laconico, da molti considerato affine a «malinconico»; al contrario tutti gli svarioni vanno menzionati, che non è un sinonimo di «coperti».
Lo scempio. Punire gli studenti sarebbe la giusta nemesi, ossia un giusto «castigo» e non «una via di mezzo tra analisi e sintesi». Anche perché, come scrive un altro scellerato, «sbagliare è umano, perpetrare è diabolico». Peccato che perpetrare non voglia dire «perseverare» né «perpetuare» (I Greci perpetrarono il loro sapere artistico) né «rimandare» (Hai il vizio di perpetrare i tuoi impegni), ma «compiere un' azione illecita». Questo lungo preambolo (ritenuto a torto equivalente di «profezia») richiede che ogni studente nell' apprendimento sia solerte, aggettivo che non ha niente da spartire con «solenne» o addirittura con l' avverbio «spesso» («Solerte mi alzo di prima mattina», scrive uno). Ma serve anche a dimostrare che la lingua è uno strumento da usare in modo ponderato, che di sicuro non corrisponde a «riposato». E che nello studio non si deve essere pusillanimi, cioè «pavidi», anche se qualcuno è convinto significhi «farabutti». Perché il rischio, oltre a quello di essere uno che sporca l' italiano e lo rende sordido (che non è parente di «madido» o di «silenzioso», con buona pace degli ignorantelli), è quello di risultare un troglodita: sostantivo che ha il significato di «cavernicolo» e non di «regresso». Una menzione speciale merita infine il termine apodittico. Sottoposto al giudizio di 176 studenti, in 175 non hanno saputo trovargli un sinonimo adeguato. In modo apodittico, cioè «inconfutabile», è possibile sostenere che nessuno di loro sapesse neanche vagamente il significato.
· Chi uccide la Lingua italiana?
Quelle nuove parole contagiose che non si mordono più la lingua. Intervista a Luca Serianni, co-estensore del Nuovo Devoto-Oli, accademico della Crusca e dei Lincei. Annamaria Barbato Ricci su Il Quotidiano del Sud il 18 ottobre 2020. La lingua è un organismo vivo quanto l’essere umano, in quotidiana mitosi, essendo la sommatoria del parlato degli individui intrecciata alla loro creatività. Perciò, non stupisce che, come c’è la natalità di un popolo, ci sia anche quella delle parole. Il Nuovo Devoto-Oli, ad ogni edizione, informa che non è uguale a sé stesso, rispetto all’anno precedente: nel 2020 ha registrato almeno 600 neologismi, selezionati e raccolti dai suoi due curatori (dal 2004), i filologi Luca Serianni e Maurizio Trifone, i quali hanno raccolto il testimone dai fondatori del vocabolario, Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, autori che lo crearono 53 anni orsono. La notizia di una tale iper-natalità linguistica fornisce il destro per riflettere su un qualcosa che assorbiamo quasi in automatico. La tempesta del COVID, ad esempio, ha fatto entrare nel nostro linguaggio parole nuove, inedite e inesplorate, o arricchito il significato di altre già esistenti: a cominciare dallo stesso nome del virus (quest’ultima parola, però, di secoli ne ha almeno 25, essendoci stata “contagiata” dagli antenati romani) battezzato Covid 19, o, en amitié “Coronavirus”, passando, con prestiti dall’onnipresente inglese, per lockdown, spillover, droplets, drive in e i più “caserecci” distanziamento sociale (che poi, se volessimo essere pignoli, dovrebbe essere individuale, mica siamo alle differenziazioni fra ceti!), autoquarantena, quarantenare, tamponare, biocontenimento. Un vocabolario che sta sul pezzo registra il parlato corrente, promuove persino il gergo giovanilista, è, talvolta, un sensore più veloce e immerso nella realtà di quanto lo sia l’incoronazione dell’Accademia della Crusca. Regista e co-estensore del Nuovo Devoto Oli è Luca Serianni, docente emerito di Storia della Lingua italiana all’Università “La Sapienza” di Roma. Una carriera prestigiosa, ma che, di per sé non basta a illustrarne i talenti: è Accademico della Crusca e dei Lincei nonché uno dei vicepresidenti della Società “Dante Alighieri”, la fortezza per la diffusione della lingua italiana in Italia e all’estero. A lui chiediamo lumi e spiegazioni su questa continua nursery delle parole.
Professor Serianni, è difficile “costruire” un dizionario, diventando così i giudici delle parole da conservare o emarginare, perché ormai obsolete? O il decisore dei neologismi degni di essere inseriti?
«Occorre tenerne d’occhio la misura, innanzitutto. Non si possono fare dizionari ipertrofici. Bruno Migliorini, grande linguista, già novant’anni fa, osservava che, a voler essere accurati, si sarebbe potuto compilare un dizionario di 300mila lemmi solo per la chimica. Dunque, il nostro compito è quello di decidere il taglio del dizionario. Si può optare per farne uno “storico”, statico e museale, oppure uno in cui si registri l’uso corrente della lingua. Per avere un proprio ruolo, senza soccombere ad un web competitivo e accessibile gratuitamente, il dizionario cartaceo deve proporsi come compatto, innovativo, capace di dare risposte autorevoli».
Quali sono i motivi di questi aggiornamenti?
«In tanti contribuiscono ad arricchire la lingua, a cominciare dalla scienza, dalla politica, dall’economia e finanza e dai media, a cui vanno ad aggiungersi gerghi e modi di dire. Un fenomeno inarrestabile. Ci sono anche parole che, pur rimanendo immutate, negli anni assumono altri significati. Vi sono continui esempi. Prendiamo la parola “ambiente”, la cui diffusione risale a fine ‘800, ma con tutt’altro significato rispetto a quello che ha assunto dagli anni ’50 in poi, in concomitanza con l’emergere del movimento ambientalistico. Identica evoluzione ha riguardato un vocabolo corrente, “compagno” o “compagna”…È da pochi decenni che ha aggiunto alla sua accezione scolastica (compagno di scuola, o di banco) o politica un ulteriore significato, che lo rende sinonimo di convivente o di persona a cui si è sentimentalmente legati. In questo caso il dizionario si fa testimonianza di un vero e proprio cambiamento di mentalità».
Ma come distinguere i neologismi radicati da quelli usa e getta?
«Inevitabilmente, ciò avviene sulla base di un certo procedimento artigianale. I redattori sono molto attenti alla contemporaneità, hanno un’esperienza che consente loro di intercettare le parole su cui “scommettere”, prevedendo quelle che hanno maggiori possibilità di affermarsi e radicarsi nel parlato. Ciò non toglie che alcune di esse possano entrare e poi uscire in quanto inizialmente appaiono diffondibili e, invece, non hanno fortuna. Naturalmente, esiste poi un blocco di lemmi appartenenti al lessico stabilizzato, che conta diverse decine di migliaia di voci. Infine, ci sono quelle sulle quali eventi esterni, contingenti, influiscono tanto da aggiungervi un significato ulteriore. Prendiamo a esempio la parola “ventilatore”. Fino a meno un anno fa, salvo in ambienti strettamente medici, evocava la calura estiva e il sollievo generato da una piccola turbina domestica elettrica. Ora, invece, ha una seconda accezione e richiama alla mente scenari ben più tragici: un mezzo per salvarsi la vita».
Nelle edizioni che via via si susseguono, vengono cassati anche dei lemmi o si marginalizzano da soli, pur citati, per mancanza d’uso?
«Possiamo dire che le parole più obsolete, come le stelle morenti, subiscono un processo di allontanamento dal lessico stabilizzato e dunque finiscono per essere solo nominate o addirittura per rimanere fuori dal testo. Molti lemmi vengono riformulati, sintetizzati, sempre per evitare di avere tomi troppo mastodontici».
Che ne pensa del tanto magnificato “petaloso”? O di qualche suo similare, entrato in voga in questi mesi?
«Il termine è nato dalla creatività di un bambino, Matteo Trovò della scuola elementare di Capparo, in provincia di Ferrara, nel 2016, mentre fu la sua maestra, Margherita Aurora a sottoporlo all’Accademia della Crusca per ottenerne l’“omologazione”. È una parola che, però, non entrerà mai in un vocabolario come il Devoto-Oli o lo Zanichelli. Non è che su iniziativa di un singolo parlante un vocabolo può ambire a entrare nella lingua! Certo, ve ne sono altri, che, da un parlante “zero”, hanno la capacità di diffondersi come un contagio, perché vanno a occupare una “casella vuota” e corrispondono alle esigenze di un sempre crescente gruppo di persone. Altri, invece, come fuochi fatui, si spengono senza lasciare tracce memorabili. I bambini, che hanno l’attitudine a metabolizzare i meccanismi di derivazione dei vocaboli hanno menti fertili in tal senso. Vi fu, fra loro, chi scrisse di lietitudine, sulla falsariga di beato/beatitudine. Anche in quel caso, la parola non attecchì».
Il giornalismo può essere fonte di neologismi?
«Certamente sì e pure in questo caso, però, non si approda al vocabolario generalista, bensì ad appositi dizionari di neologismi, che cercano le parole effimere, provenienti dal mondo del giornalismo. A tal proposito, mi riferisco mi riferisco ai due volumi usciti in sequenza, di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle “Neologismi quotidiani” (per la casa editrice Leo S. Olschki di Firenze) che riportano tali specificità, create dai giornalisti o da loro riportate. Un esempio per tutti: il termine gastrofilologo, utilizzato da Michele Serra a proposito di Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food».
Le manca l’insegnamento? La sua lectio magistralis prima della pensione fu seguita da una folla di estimatori.
«Mi manca poter fare dal vivo lezioni e conferenze. La DAD e le conferenze da remoto non sono la stessa cosa. Quanto alla lectio magistralis, rappresenta un gran bel ricordo».
Se non avesse seguito il suo amore per l’italico idioma, cosa le sarebbe piaciuto fare?
«Al momento della maturità, fui tentato pure da Giurisprudenza e Medicina. Un’attrazione che ho proiettato anche nello studio filologico: per la Medicina scrissi nel 2005 “Un treno di sintomi – I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente” (Garzanti), esplorando i termini medici; alcuni miei scritti sono stati dedicati anche ai vocaboli giuridici. Insomma, son rimasto fedele ad antichi amori mai sopiti».
Da «governatore» a «premier», la Crusca bacchetta la politica. Mario Ajello Mercoledì 15 Luglio 2020 su il Mattino. Brava Crusca. Ha messo il pennino in una stortura italiana, diventata più acuta nella fase dell’emergenza virus. Ovvero l’ipertrofia del regionalismo, per cui 20 presidenti regionali si sentono piccoli capi di Stato e considerano le loro contrade delle nazioncine con la pretesa di autonomia, se non addirittura d’indipendenza. Ma per fortuna, ecco scendere in campo gli accademici della lingua, che dal 1583 cercano di preservare la purezza del nostro idioma, e avvertono: «Le Regioni italiane non hanno governatori ma presidenti». Ben detto! E chissà se dopo questo intervento, che è linguistico ma la lingua è sostanza, i vari Fontana e Emiliano e tutti gli altri smetteranno di atteggiarsi a governatori come in Texas o in Alabama. Se poi la Crusca chiederà di chiamare in italiano, Giornate di voto e non Election Day, quelle che si svolgeranno il 20 e 21 settembre per scegliere chi guiderà alcune parti della Penisola, allora non sarà contento soltanto Dante ma anche tutti noi quaggiù. Si sono rivolti all’istituzione fiorentina e italianissima alcuni cittadini, a proposito dell’uso di «governatore», e la risposta via web è questa: «Come il premier inglese non è previsto, né nel nome né nei poteri e ruoli, dalla nostra Costituzione, così i governatori non hanno posto nel nostro ordinamento». Firmato Vittorio Coletti, accademico e docente di storia della lingua italiana dell’università di Genova. In Italia - secondo la Crusca, che ancora sta discutendo per esempio se si dice «il» Covid o «la» Covid, ma forse vale l’una e l’altra perché quel virus è un morbo ma anche una malattia - l’unico a potersi fregiare di questo titolo è il governatore della Banca d’Italia, come ha ricordato anche Antonio Patuelli, presidente di Abi. Il fatto è che i linguisti sembrano considerare fuori dalla realtà l’idioma della politica e ascrivono la consuetudine di certi vocaboli all’«americomania» che impazza. Che poi è la stessa - e la Crusca non ci sta: «Uno scarso amore per la nostra lingua rivela una scarsa attenzione ai temi dell’identità nazionale», dice il presidente dell’istituzione fiorentina, Marazzini - che ci fa dire smart working quando potremmo dire lavoro da fuori o da casa, o situation e non situazione, o lunch quando c’è il pranzo (che è più lungo solo di una lettera), o infinite altre espressioni anglosassoni sostitutive di parole italiane che esistono eccome e guai a dimenticarcele. La Crusca è anche quella che ha deciso di non accettare obbrobri del tipo: «Che cosa pensi del mio outfit?», oppure «Manda in print!» e via così con altri speach (ma non è meglio chiamarli discorsi?). Intanto il mese scorso un cittadino si è rivolto alla Crusca - che nel 2019 già è intervenuta insieme al Consiglio di Stato perché le decisioni dei giudici e dei tribunali diventino «comprensibili a tutti con un linguaggio appropriato» - per chiedere: è corretto che Conte chiami Stati Generali i suoi incontri a Villa Pamphili? Risposta dell’Accademia: «Con l’antico istituto politico francese questo evento mantiene legami molto tenui». Ossia il premier, anche se non si dice premier, avrebbe dovuto trovare un’altra formula. Il problema, come diceva Platone, è che «le parole false non sono male in se stesse. Ma infettano l’anima con il male». E possono infettare il discorso pubblico e le regole istituzionali. Il che non sfugge all’accademico Coletti. Lui vede dietro l’uso e l’abuso del termine governatore «l’ambizione dei capi delle giunte regionali» di esondare dai loro poteri, «specie dopo che il sistema elettorale li ha fortemente messi in rilievo». E insomma la Crusca - che non somiglia a un sinedrio di parrucconi, basti pensare che ha sdoganato il verbo whatsappare - è nettissima: «Con la parola governatore si avalla un (modesto) abuso istituzionale e si favorisce un evidente progetto politico. Chi non approva l’uno e non condivide l’altro farebbe bene a starci attento ad adottare questa espressione». Su cui ha lievitato l’Ego di troppi politici locali, e povera Italia.
L'APPELLO. “Basta anglicismi”, l’appello dell’Accademia della Crusca. "Dobbiamo avere fiducia nella nostra lingua italiana, nella sua bellezza, ed evitare l'uso esagerato di anglicismi." Questo l'appello da parte della Crusca. A cura di Libreriamo. Da “lockdown” a “recovery fund”, passando per “smart working”, mai come in questo periodo di emergenza da Covid i media d’informazione hanno fatto ricorso ad anglicismi e parole straniere. Molte di essere sono utilizzate oramai nel nostro linguaggio comune, in sostituzione alla corrispettiva parola italiana. Per questo, l’Accademia dell Crusca lancia “l’allarme dell’invasione egli anglicismi”, rivendicando l’importanza e la bellezza della lingua italiana.
Più i vocaboli italiani, meno anglicismi. Secondo il principale ente custode della nostra tradizione linguistica, occorre avere maggiore fiducia nella nostra lingua. E naturalmente usare meno anglicismi. “Va fermata l’imbarazzante epidemia di parole straniere, quasi tutte inglesi, che ci sommerge – afferma il presidente della Crusca Claudio Marazzini – Spesso dietro il ricorso a una parola inglese si nasconde il nulla. Bisogna imparare a usare sempre il corrispettivo italiano se questo esiste nel nostro vocabolario.”
I diritti della lingua italiana. Ciò non significa non evolvere la lingua italiana, così come cambia e si modifica la società. “L’azione dell’Accademia della Crusca avviene con equilibrio ma non con atteggiamento rinunciatario. Non va fatta una battaglia indifferenziata contro le parole straniere, perché sarebbe non solo perdente ma inutile. Non ci dimenticheremo di prendere posizione in maniera ferma ogni qual volta la lingua italiana sia aggredita o privata dei suoi diritti.”
La parola lockdown. Quello che si augura l’Accademia della Crusca è che venga usato un equivalente in italiano per ciascuno dei termini internazionali coniati a livello europeo. Esempio su tutti, la parola lockdown, secondo la Crusca un anglicismo superfluo, persino scorretto. “Lockdown è un prestito integrale dall’angloamericano che ricorda il confinamento di prigionieri nelle loro celle per un periodo prolungato di tempo, solitamente come misura di sicurezza a seguito di disordini. In piena pandemia da coronavirus, la parola ‘lockdown’ ha indicato le misure di contenimento messe in atto prima nella provincia cinese di Hubei, poi in Italia, in Europa e negli altri paesi colpiti dalla pandemia. E la sua diffusione è apparsa difficile da frenare anche da noi.”
50 parole straniere che potremmo benissimo dire in italiano. A cura di Libreriamo. Siamo ormai abituati a usare parole straniere in ogni circostanza, ma non sempre è necessario. Eccone 50 che potremmo benissimo dire in italiano. Nel linguaggio comune, imperversano neologismi e termini stranieri che man mano stanno sopravanzando nella frequenza d’utilizzo i corrispettivi vocaboli italiani. Se alcune parole come “marketing”, “sport”, “rock”, “browser”, “smog” non trovano un corrispondente efficace nella nostra lingua, ci sono altri termini come "workshop", "abstract", "fashion", "light" di cui potremmo far benissimo a meno, utilizzando i loro corrispettivi italiani "seminario", "riassunto", "moda", "leggero". Non si tratta di una crociata contro le lingue straniere, né contro l’impiego dei molti termini inglesi che non hanno corrispondenti italiani efficaci e accettati, ma semplicemente di un gesto d’orgoglio nei confronti della nostra amata lingua italiana. Vi proponiamo, così, una serie di termini stranieri di cui potremmo benissimo fare a meno, in quanto "doppioni" di vocaboli italiani.
ALL INCLUSIVE = TUTTO COMPRESO
ANTI AGE = ANTI ETA’
ABSTRACT = RIASSUNTO
APPEAL = ATTRAZIONE
AUDIENCE = PUBBLICO
BACKGROUND = SFONDO
BACKSTAGE = DIETRO LE QUINTE
BADGE = TESSERINO
BIPARTISAN = TRASVERSALE
BOSS = CAPO
BRAND = MARCA
BREAK = PAUSA
BUSINESS = AFFARI
BUYER = COMPRATORE
CASH = CONTANTI
CATERING = APPROVVIGIONAMENTO
COACH = ALLENATORE
CONCEPT = IDEA
COMMUNITY = COMUNITA’
COPYRIGHT = DIRITTO D’AUTORE
DEVICE = DISPOSITIVO
DISPLAY = SCHERMO
DRESS CODE = REGOLE D’ABBIGLIAMENTO
EVERGREEN = INTRAMONTABILE
FASHION = MODA
FLOP = FIASCO
FITNESS = ALLENAMENTO
FOOD = CIBO
GOSSIP = PETTEGOLEZZO
HAPPY END = LIETO FINE
HOTEL = ALBERGO
JOBS ACT = LEGGE SUL LAVORO
LIGHT = LEGGERO
LOOK = ASPETTO
MAIL = POSTA
MAKE UP = TRUCCO
MASTER = SPECIALIZZAZIONE
MATCH = PARTITA
MEETING = RIUNIONE
MISSION = MISSIONE
NEWS = NOTIZIE
OPEN = APERTO
OKAY = VA BENE
PARTNER = COMPAGNO
PARTY = FESTA
PREMIER = PRIMO MINISTRO
RED CARPET = TAPPETO ROSSO
RELAX = RIPOSO
TREND = TENDENZA
SHOW = SPETTACOLO
SELFIE = AUTOSCATTO
SEXY = SEDUCENTE
SNACK = MERENDA
STAFF = PERSONALE
TEENAGER = ADOLESCENTE
TEAM = SQUADRA
TICKET = BIGLIETTO
WEEKEND = FINE SETTIMANA
WEB = RETE
WORKSHOP = SEMINARIO
LEGGI ANCHE: CHI HA UCCISO LA LINGUA ITALIANA? A cura di Libreriamo. Chi ha ucciso la lingua italiana? Un libro per scoprire il colpevole della ”strage dei congiuntivi”. Il virus è ormai divenuto pandemico e interessa, in maniera trasversale, individui di ogni età, sesso, razza, religione e classe sociale. Parliamo della "Strage dei congiuntivi", non solo un dato di fatto. Il virus è ormai divenuto pandemico e interessa, in maniera trasversale, individui di ogni età, sesso, razza, religione e classe sociale. Parliamo della "Strage dei congiuntivi", non solo un dato di fatto, come dimostrato da un nostro studio sugli 8 errori grammaticali più frequenti commessi dagli italiani, ma una tesi confermata dal docente e scrittore Massimo Roscia, autore dell’opera. Un noir originale, ricco di rimandi letterari, citazioni, livelli narrativi; un testo iperbolico, una vera delizia per gli amanti della lingua italiana, ormai sempre più vilipesa, maltrattata, mutilata. La responsabilità? Secondo l’autore è "di tutti coloro che hanno fatto sì che in Italia il ruolo della cultura sia (congiuntivo) diventato residuale". Un noir, un esercizio di erudizione, un’invettiva contro i depauperatori della lingua italiana.
Come definirebbe il suo libro?
«Un complesso di fogli (324, per la precisione) della stessa misura, stampati, rilegati e forniti di copertina, una copertina, peraltro, iconograficamente molto accattivante. Oppure un romanzo, un componimento letterario in prosa in cui in cui l’Autore – No. L’ho fatto. Ho usato la maiuscola e la terza persona! – ha mescolato esperienza, osservazione e immaginazione. O un noir, una narrazione in cui il crimine e la sua soluzione sono meri pretesti, l’obiettivo cattura le immagini della società, il mistero assume una funzione subordinata, i confini tra il bene e il male si confondono fino a scomparire, il finale spiazza e i lettori si immedesimano nei protagonisti diventando essi stessi paladini della lingua italiana, difensori della sua integrità, magnificatori della sua bellezza e giustizieri dei suoi nemici. O un esercizio di erudizione di un lettore che adora la finzione, l’inganno, il paradosso, la metafora, la mistificazione della storia, l’intreccio, i labirinti, i mondi paralleli, le trame contorte, il gioco, la burla, la provocazione, la sfida e che, indossato l’abito dell’autore – con la minuscola; questa volta ho saputo resistere alla tentazione – si comporta in maniera coerente. O, ancora, un’aspra invettiva contro coloro che invertono i congiuntivi con i condizionali, che fanno a brandelli le desinenze, che rendono maldestramente transitivi i verbi intransitivi, coloro che gettano a spaio la punteggiatura sulle pagine, che abbattono i nessi logici e le regole grammaticali con suoni e surrogati di parole, coloro che eccedono in fastidiose sovrapproduzioni di avverbi, che usano insopportabili diminutivi iperbolici, espressioni trite e banali, frasi mangiucchiate, difettose, frammentate, irrelate… O una dolce/amara riflessione sullo stato di salute della lingua e, più in generale, della cultura in Italia. O, infine, un lungo e disorganico flusso verbale che è stato trascritto in bembo corpo dodici solo per urgenza, desiderio, presenza, riparazione, provocazione, condivisione, amore, capriccio, bisogno, riflesso condizionato, dilatazione dei pori, divertimento, azione e reazione, ineluttabilità, espiazione, dispetto, libertà, tensione, noia, censura, sfida, impulso, angoscia, devozione, rivalsa, godimento, esercizio, dipendenza, mancanza di ritegno, gioia, inerzia, principio di Archimede, nutrimento, onanismo, gioco, partecipazione, insonnia, altruismo, egoismo, riscatto, affermazione, deficit affettivo-relazionale».
Quali sono gli strafalcioni più comuni oggi?
«Quante battute (non solo tipografiche) ho a disposizione? È il trionfo dei Se io sarei, pò, stò, sò, quà, un’abbraccio, qual’è; le ripetute mutilazioni della lettera h nel verbo “avere”; l’epifania della vergognia, raggione, moltiplicazzione, borza, areoporto, celebrale, matrimognale, eggemonia, viggile, coscenza, pultroppo, sopratutto e daccordo; le raffiche di piuttosto che erroneamente usato con valore disgiuntivo; gli insopportabili assolutamente sì e assolutamente no che rendono perentorie normalissime affermazioni o negazioni; l’ignominioso lessico ricolmo di fare, cosa, molto, bello, tanto, grosso e – il più abusato, il peggiore in assoluto – quell’importante che miracolosamente diventa aggettivo universale, sinonimo di tutto, adatto a persone, situazioni, eventi, luoghi, attitudini e capacità, valido per ogni stagione, disponibile ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette, parola magica, portentosa panacea ai mali del mondo; i venefici neologismi come attenzionare, efficientare, situazionare, promozionare, sendare, briffare, le skills e l’apericena; gli inutili pleonasmi come entrare dentro, uscire fuori, salire su e scendere giù; le metafore trite e ritrite, i tic linguistici, i luoghi comuni e le banalità di ogni sorta; gli usi smodati e impropri di non c’è problema e mi sia consentito, le mitragliate di senza se e senza ma; i per quanto e i quant’altro scagliati come dardi avvelenati che fendono l’aria con le loro irritanti code inespresse e sospese nel nulla. Errori aberranti, locuzioni insensate, difetti di pronuncia, espressioni fruste, pattume semantico… “La sconsiderata favella – direbbe Partenio di Nicea – altera, cannibalizza, corrompe, avvelena, infanga, sfigura, strazia, tormenta, amputa, umilia, inquina, imbarbarisce, appesta, deturpa, abbatte, tortura, devasta, oscura, saccheggia, lacera, annichilisce”».
Esiste una particolare categoria di “gaffeurs linguistici” più sensibile?
«Purtroppo, da un punto di vista epidemiologico, non possiamo fare riferimento a un’unica categoria. Il virus è ormai divenuto pandemico e interessa, in maniera trasversale, ecumenica e tragicomica, individui di ogni età, sesso, razza, religione e classe sociale. Il gioco delle categorie torna però ad avere un senso se riferito alla gravità della colpa, che è direttamente proporzionale alla conoscenza – reale o presunta – della lingua. Uno stò scritto da un giornalista o un come dirò poc’anzi usato nell’arringa da un avvocato civilista sono difficilmente perdonabili».
Perché secondo lei oggi la lingua italiana viene sempre più maltrattata e mutilata? Ci sono responsabilità particolari?
«Dietro l’alibi della necessità di semplificazione si celano ignoranza, pigrizia, superficialità, sicumera, scarso amor proprio, perdita dei valori. La drammatica diffusione di errori/orrori non si limita a evidenziare il decadimento della lingua, ma sublima la mediocrità, sancisce ufficialmente l’abdicazione della cultura, profetizza la rovina definitiva del sapere. La responsabilità? È di tutti coloro che hanno fatto sì che in Italia il ruolo della cultura sia (congiuntivo) diventato residuale».
Dal libro alla realtà: chi può essere oggi il vero salvatore della lingua italiana?
«Io».
· Oltre ogni ragionevole dubbio.
Oltre ogni ragionevole dubbio, Antonio Angelini il 28 aprile 2020 su Il Giornale. Oggi su questo mio Blog ospito un fisico. Ha lavorato per vari tribunali, consulenze su via Fani e per vari altri famosi processi. Ci propone un ragionamento, un modo di vedere. Sarà il primo di una serie di incontri con lui. Che cosa ne pensate?
OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO?
Oggi nell’era della iper-comunicazione, in un mondo fatto di informazioni continue ed ovunque reperibili, ci troviamo di fronte a due problemi apparentemente insormontabili:
quale è la verità? e quale è l’aspettativa che la scienza dia una risposta certa ad ogni domanda?
Poiché la prima domanda è spesso legata alla seconda (in particolar modo in questo periodo di pandemia) inizieremo a dare degli spunti per rispondere al quesito: la scienza può dare delle risposte certe su ogni argomento?
Cercare risposte è sempre stato lo spirito che ha animato l’essere umano dal momento in cui ha avuto coscienza. Esistono due livelli di risposte:
un livello personale, interiore che può sfociare nel sociale ed è la Filosofia, ed un livello oggettivo in cui si danno risposte ai meccanismi che regolano i fenomeni naturali, ed è la Scienza.
Come noto le due discipline per secoli si sono avvicinate ed a volte sovrapposte fino a distaccarsi con il nascere del metodo scientifico Galileiano (osservazione, misurazione, deduzione). Senza entrare in questi dettagli cerchiamo invece di dare degli strumenti al cittadino comune per potersi districare nell’enorme massa di informazioni circolanti al giorno d’oggi.
Partiamo dal principio più discusso in tempi di pace, in una società umana, ed è il principio giuridico di condanna per un presunto colpevole di un crimine “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Questa formulazione giuridica intende dire che l’insieme delle prove, raccolte in sede di dibattimento, deve portare, affinché una giuria si possa esprimere per una condanna, ad un convincimento tale della colpevolezza che alcun dubbio possa offuscare la certezza del giudizio. Non entriamo nelle polemiche socio politiche sui tempi e modi della giustizia, qui supponiamo che il giudizio avvenga in tempi brevi e con il pieno convincimento del collegio giudicante in linea ovviamente con le leggi vigenti.
Che vuol dire ”oltre ogni ragionevole dubbio”?
La “certezza” in ambito giurisprudenziale è qualcosa che va oltre il significato scientifico. La certezza in termini statistici si ha solo con il 100% delle probabilità favorevoli, e il 100% di eventi favorevoli è un dato che scientificamente “difficilmente” viene ottenuto. Restando in ambito forense, si pensi al confronto tra due profili genetici; quando un certo numero di loci coincidenti viene raggiunto, la probabilità che quei due profili genetici appartengano alla stessa persona raggiunge il massimo possibile ed è statisticamente del 99,99%. Il significato scientifico (statistico) è che quei due profili appartengono alla stessa persona a meno di uno su svariati miliardi, il che da un punto di vista giurisprudenziale è logicamente sufficiente a stabilire l’identità. Tuttavia la scienza mantiene un margine di incertezza insita nel fenomeno stesso in esame, ovvero non possiamo escludere in “assoluto” che non esistano due persone con il medesimo DNA (a parte i gemelli omozigoti ovviamente), per quanto infinitesima sia la probabilità che ciò accada. L’errore in ambito scientifico non viene inteso come uno “sbaglio”, “abbiamo sbagliato i calcoli, o il presupposto di partenza, per cui abbiamo commesso un errore”. L’errore è l’errore insito nella misura stessa. Senza scomodare il principio di Heisenberg, il cui concetto si può sintetizzare nella constatazione che “nel momento in cui si misura un evento nel suo ambito naturale si condiziona l’ambiente stesso e pertanto l’errore va considerato come parte integrante della misura”, in termini molto più comprensibili, ma concettualmente differenti rispetto al citato principio, basta cercare di misurare la lunghezza di un lato di un tavolo con misuratori differenti o anche uguali, i quali, per loro stessa costruzione, presentano un margine di incertezza che può variare da centesimi a millesimi di metro per gli strumenti più comuni. Questo comporterà che un lato di un tavolo, lungo un metro avrà riportato il valore misurato, ad esempio, con (1,00+0,01)m. Una misurazione correttamente riportata con il suo proprio errore legato allo strumento utilizzato, comporterà a cascata tutta una serie di “incertezze” nelle successive considerazioni, che non sono però incertezze dovute ad incomprensioni, ma bensì incertezze scientifiche (di misura in questo caso).
Esprimere pertanto un risultato con un termine di probabilità in ambito giurisprudenziale è un esercizio spesso rischioso e non di aiuto nell’interpretazione dell’evento.
La probabilità è un “numero”, compreso tra 0 e 1, risultato dal numero di eventi favorevoli diviso il numero di eventi totali. In sistemi molto articolati la probabilità di un evento, per essere calcolata, necessita di espressioni anche molto complesse. Ma sono le conseguenze di un valore di probabilità, stimato sull’interpretazione di un evento criminoso, che vogliamo discutere.
Senza entrare nel merito di eventuali calcoli molto complessi, riportiamo un esempio banale: se la NASA riportasse uno studio in cui venisse assegnata una probabilità di impatto con la terra da parte di un grosso meteorite anche “solo” del 50%, ciò scatenerebbe, giustamente, una serie di eventi a catena a livello globale per trovare delle soluzioni onde evitare l’evento distruttivo. Se invece in un processo penale per omicidio si stabilisse che un personaggio ha commesso il reato con una probabilità dell’80%, quasi certamente il soggetto verrebbe assolto.
Ora la giurisprudenza potrebbe spiegare che il rischio di una estinzione di massa per via dell’impatto del meteorite giustifica l’allarme ed il prendere seri provvedimenti in merito, mentre il rischio di condannare un innocente con un margine di incertezza del 20% non è accettabile.
Ma quanto è accettabile? Al 99,99% (massima percentuale favorevole raggiungibile in accertamenti scientifici utilizzati in ambito forense)? Ma questa percentuale si riferisce al fatto che i profili genetici di una traccia repertata e di un sospettato sono gli stessi (a meno dello 0,01%), ma la stessa deve poi essere contestualizzata nella scena del crimine. Infatti non sempre si ha la “fortuna” di rinvenire tracce biologiche in una scena in posizioni favorevoli alla spiegazione del crimine (ad esempio sotto le unghie di una vittima, o sul manico di un coltello rinvenuto infilzato sul corpo della vittima etc.). Ed anche quando fosse favorevole, il movente può essere passibile di interpretazione, dalla preterintenzionalità, alla casualità, alla difesa etc. La dinamica di un evento criminoso è la combinazione di una serie di eventi ognuno con una probabilità associata differente e non sempre i valori possono essere così elevati.
Pertanto si potrebbe raggiungere il paradosso che una serie di eventi consequenziali, che mostrano inequivocabilmente che i fatti siano andati in quel modo, potrebbero avere una probabilità associata giurisprudenzialmente considerata bassa.
Allora si deve ricorrere ad una successione logica di eventi, ovvero tornare “indietro” nel pensiero scientifico e ragionare sulla “logica deduzione”.
Logica ( dal Greco logos, parola) termine che implica un collegamento tra una ipotesi ed una tesi.
Deduzione (dal Latino deducere) che per gli antichi Romani era un termine legato alla fondazione di una città, che intrinsecamente significa arrivare ad una conclusione a partire da fatti “accertati”.
Tornando al concetto giuridico, ci troviamo di fronte ad un apparente paradosso: abbiamo tecnologie avanzatissime che consentono di individuare su una scena di un crimine “una” cellula e da essa estrarre un profilo di DNA di una persona; abbiamo tecnologie in grado di ricostruire le traiettorie delle tracce di sangue con scarsi margini di incertezze, ricostruire volti da immagini distorte et., eppure la decisione è demandata alla fine da un giudizio espresso da un giudice ed una giuria che il più delle volte non hanno nemmeno la preparazione minima scientifica per interpretare correttamente il dato tecnico.
Senza volerlo, in quanto appena scritto, abbiamo messo insieme due termini “scienza” e “tecnologia” che nella realtà non sono affatto la stessa cosa.
La tecnologia è una conseguenza di una conoscenza ed è la realizzazione di strumenti che ci consentono certamente non solo una vita migliore ma anche capacità di elaborare nuove maggiori conoscenze.
Ma mentre la scienza esiste senza la tecnologia, non è vero il contrario ed anzi diventa estremamente pericoloso utilizzare la tecnologia senza la giusta conoscenza scientifica.
Anzi, come diceva qualcuno, la tecnologia rischia di diventare la tomba della scienza, ed oggi troppo spesso si tende infatti a confondere le due cose, creare aspettative sbagliate e dare inizio ad una caccia alle streghe di tipo medioevale del tipo “allora la scienza non serve a nulla”.
Non è ovviamente cosi, anzi. Chiariamo una cosa: l’estrazione di un profilo di DNA da una cellula è tecnologia, non scienza, la velocità di calcolo di un processore è tecnologia, non scienza, un software è tecnologia non scienza…un algoritmo invece rientra in un concetto scientifico, ovvero una formulazione matematica in grado di individuare, tra miliardi di dati, delle correlazioni. L’intero sistema economico finanziario può essere considerato un avanzamento tecnologico, non certo scientifico, cosi come un conto è realizzare un vaccino per un virus (tecnologia) un conto è comprendere un processo pandemico (scienza), la Politica è tecnologia. Abbiamo espresso dei concetti un po forzandone il senso ed anticipando anche gli argomenti delle prossime considerazioni, ma tornando al nostro attuale tema, ovvero: la scienza può dare risposte assolute ed univoche in ogni campo?
La risposta è NO. Ma il NO va interpretato nel senso descritto in queste poche righe di considerazioni; se ci aspettiamo che la scienza risolva ogni dubbio e ci dia una strada unica percorribile per risolvere ogni problema, sbagliamo atteggiamento e creiamo false aspettative. Se chiediamo alla Scienza di fornire degli strumenti attraverso i quali scegliere di percorre quella che è la strada giusta (in ogni campo) allora SI quella è l’aspettativa corretta…ma poi sta al singolo essere umano fare un buon uso degli strumenti della scienza e delle informazioni che la tecnologia (che in ogni caso “deriva” dalla Scienza) ci fornisce ed assumersene la responsabilità.
Se lo studio orografico di una certa area geografica ci dice che li un tempo scorreva un fiume, o era una zona montana in cui le valanghe trovavano il loro sfogo, non possiamo certo dare colpa alla scienza che non ci dice con esattezza se e quando un evento alluvionale o una valanga avverranno di nuovo, lo stesso discorso per i terremoti etc etc.
Quindi in ogni campo un semplice cittadino per poter esprimere un giudizio valido in un settore a lui sconosciuto, deve per prima cosa informarsi almeno sui principii di base di quello specifico tema, dopodiché però è opportuno che si faccia una idea personale del fatto da analizzare sulla base di ragionamenti logico deduttivi a partire dai “fatti” acclarati, non da considerazioni altrui, altrimenti rischia di cadere nel marasma di informazioni (anche pubblicazioni) che dicono tutto ed il contrario di tutto. Ma questo sarà argomento dei prossimi incontri.
TORNA UN GIORNO IN PRETURA. ROBERTA PETRELLUZZI: “L’ITALIA? UN PAESE GIUSTIZIALISTA”. Marco Baronti il 29 aprile 2020 su L’Opinione.it. Orecchini di perle, foulard e cartellina in mano. Sono questi i tratti che contraddistinguono Roberta Petrelluzzi, storica ideatrice e conduttrice di Un giorno in pretura, programma di Rai 3 che da oltre trent’anni racconta le vicende più buie che hanno segnato la storia di questo Paese. E che da domenica 3 maggio tornerà in onda con una nuova stagione in prima serata. Il mostro di Firenze, Mani pulite, il massacro del Circeo, la strage di Erba, il caso Cucchi, sono soltanto alcuni dei grandi processi che il programma della terza rete pubblica ha raccontato nel trentennio di messa in onda. “Il processo che più mi ha colpito? Quello sull’omicidio di Sarah Scazzi, con due donne che si trovano a scontare la pena dell’ergastolo tra tanti dubbi.” E sulla polemica di questi giorni per i boss mafiosi scarcerati: “Una bagarre inutile, sembra sia stato liberato Totò Riina con la licenza di uccidere. Siamo un Paese giustizialista”.
Cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova stagione di Un giorno in pretura?
«Sarà una stagione ricca di processi di grande attualità che aiuteranno a raccontare l’Italia in tutte le sue sfaccettature. Inizieremo nella prima puntata con il processo che vede protagonista un personaggio popolare come Gina Lollobrigida. Ma parleremo anche di vicende meno note, come il caso del suicidio di una ragazza a Palermo avvenuto in un quartiere popolare, in un contesto molto difficile. Poi il caso di Gloria Rosboch, l’insegnante uccisa dal suo ex studente. Emergeranno, come sempre, spezzoni di vita tratti dai diversi spaccati della nostra società».
Ci saranno delle novità particolari?
«La vera novità di questa stagione sarà che i processi si esauriranno tutti nella medesima puntata».
Come è cambiato il format rispetto alla prima puntata del 1988?
«È cambiato moltissimo. Se si guarda una puntata del 1988 risulta irriconoscibile rispetto alla costruzione e alla narrazione di quelle di oggi. Prima l’approccio era molto più notarile, seguivamo con le telecamere la ritualità del processo. Con il tempo abbiamo cominciato ad entrare nel merito delle cose, a raccogliere la voce dell’accusa e della difesa, a cercare di capire e spiegare quelli che sono i meccanismi che ruotano attorno a un’aula di tribunale. Ma soprattutto a svelare cosa si nasconde nella natura profonda degli uomini».
Secondo lei il successo di questo programma è dato anche da un interesse morboso che l’opinione pubblica nutre per la cronaca giudiziaria?
«Non lo definirei un interesse morboso, rifiuto questo termine. Secondo me un omicidio, una tragedia, un qualsiasi caso di cronaca nera colpiscono profondamente le coscienze di ognuno di noi. Umori e sensazioni si fanno molto profondi portandoci all’attenzione, al voler sapere, conoscere. Spesso un processo ci aiuta a capire l’andamento di ciò che ci sta intorno. Ci “attrezza” a conoscere l’uomo, le sue passioni, le sue debolezze».
Lei non è solo conduttrice ma anche autrice e regista. Come riesce a conciliare questi ruoli?
«Siamo un equipe fantastica, una redazione veramente affiatata dove tutti partecipano e contribuiscono a un pezzo importante del programma. Posso dire che la longevità di Un giorno in pretura è dovuta anche alla grande capacità di essere un vero gruppo di lavoro».
Si può dire che il processo Mani Pulite ha contribuito ad affermare questo programma?
«In realtà gli anni di Tangentopoli non sono stati un vero e proprio spartiacque sotto l’aspetto dell’affermazione del format, anche se gli ascolti che riscontrammo in quel periodo furono incredibili. È stato il racconto di un pezzo d’Italia che il programma ha fotografato e testimoniato. Basti pensare che il discorso di Bettino Craxi in tribunale, inquadrato da solo per un’ora, ha tenuto incollati milioni e milioni di italiani. Per la tivù di oggi è inimmaginabile, tutto è più veloce, lo zapping si è impossessato di noi».
Cos’è cambiato rispetto a quegli anni?
«Prima le persone volevano sapere, capire. Adesso si ragiona più con la pancia, si cede ai pregiudizi. Diciamo che la valutazione attenta e la riflessione dei fatti è una merce molto rara al giorno d’oggi».
Qual è stato il processo che più l’ha colpita?
«Quello che più mi ha appassionato e allo stesso tempo lasciato grande dispiacere è stato il processo sull’omicidio di Sarah Scazzi».
Perché?
«È stato un processo che ha subito profonde modifiche dovute a elementi esterni. Il piccolo paese di Avetrana d’un tratto era diventato New York e quando si creano contesti e situazioni del genere è molto difficile, se non impossibile, riuscire ad avere dei testimoni liberi».
Pensa quindi che la sentenza di condanna all’ergastolo nei confronti di Cosima Serrano e Sabrina Misseri non renda giustizia?
«Ho molti dubbi su quella sentenza, credo fortemente all’ipotesi dell’errore giudiziario».
Cosa la differenzia dai programmi e dallo stile di Franca Leosini (Storie Maledette) e Federica Sciarelli (Chi l’ha visto?)?
«Loro sono semplicemente più brave di me. Io non vengo mai a contatto diretto con vittime e carnefici, resto sempre distante. Quando vado in onda sono solo in compagnia della telecamera e della mia cartellina».
Sul caso di Marco Vannini si è trovata al centro di una grande polemica per aver difeso Martina Ciontoli dagli attacchi dell’opinione pubblica. Si è pentita?
«No. Secondo me in situazioni come quella dell’omicidio Vannini i soli ad avere il diritto di urlare e provare rabbia sono i familiari del ragazzo, la madre in primis. Tutto il resto dell’opinione pubblica si lascia soltanto trascinare dall’emozione dentro fatti che sono difficilissimi. Nessuno è più disposto a ragionare, è lo specchio dei nostri giorni a cui per fortuna non appartengo perché la mia formazione è totalmente diversa. Credo che ognuno debba sempre considerare la pietà verso chi sbaglia, verso l’altra persona, le sue ragioni».
Siamo un Paese giustizialista?
«Sì, sicuramente. Le persone preferiscono dare giudizi netti, è una facile scorciatoia. Le sfumature sono molto più difficili da cogliere perché ci costringono a perdere troppo tempo. Pretendiamo invece tutto, subito e con facilità. Chi ha molti contatti con le vittime è impossibile che non ne sposi la causa, diventa una cosa naturale perché ti affezioni. Vedi una mamma soffrire e piangere ed è umano rimanere coinvolti, schierarsi dalla sua parte. Però bisogna anche capire la realtà complessa e sfaccettata, ricca di spigolature e dettagli in più».
Come sta trascorrendo questa quarantena?
«Bene, diciamo che sono molto fortunata. Vivo in una casa molto grande con un terrazzo e non ho le preoccupazioni economiche che molti italiani purtroppo hanno in questo difficile momento. E poi impiego il mio tempo lavorando, quindi non mi posso certo lamentare, sarei una donna da poco se lo facessi».
Molti hanno paragonato la condizione di quarantena che stiamo vivendo agli arresti domiciliari. È d’accordo?
«Mi sembra un paragone improprio. Vuol dire non comprendere cosa sia davvero la carcerazione domiciliare».
Pensa che questa emergenza abbia insegnato agli italiani a immedesimarsi con chi vive agli arresti?
«Non credo. Perché siamo un popolo duro a capire. Ne abbiamo avuto la dimostrazione anche in questi giorni, con le grandi polemiche che si sono sollevate sulla scarcerazione di alcuni boss mafiosi per motivi di salute. Ne è nata una bagarre assurda per niente. In un caso specifico si tratta di un uomo anziano e gravemente malato al quale restavano soltanto nove mesi da scontare in carcere. Capirai. Quel magistrato ha fatto bene a concedergli gli arresti domiciliari. Gran parte delle persone, invece, ha reagito come se fosse stato scarcerato Totò Riina con la licenza di uccidere».
Cosa è il giustizialismo, spiegato bene. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Il Riformista è uno dei pochi usberghi sopravvissuti in difesa dello Stato di diritto. L’opinione pubblica non si è ancora accorta che, col pretesto dell’epidemia del Covid-19, la legislazione d’emergenza ha azzerato non solo i fondamentali diritti di libertà (politici, religiosi, civili) ma ha trasformato in reati le più elementari regole di comportamento che gli esseri umani utilizzano da quando i cavernicoli hanno cominciato ad esplorare il territorio. Ormai la nostra esistenza è regolata da un solo diritto: quello penale. A questo proposito consiglio la lettura di un lepidus libellus di Filippo Sgubbi Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, edito da Il Mulino. Già il titolo è eloquente, ma nelle 88 pagine del libellus, Sgubbi, ex docente di diritto penale e autore di pubblicazioni fondamentali nella materia, mette in evidenza la trasformazione intervenuta nel diritto e nella procedura penale, tanto da alterare le funzioni che non solo la Costituzione, ma prima ancora gli ordinamenti liberali, ripartiscono tra i diversi poteri dello Stato. Peraltro questo breve saggio è stato scritto prima che si affacciasse, anche nelle previsioni degli indovini, la prospettiva di un contagio con effetti devastanti sulla vita e le abitudini dei cittadini e distruttivi per l’economia, il reddito e l’occupazione. Il quadro tracciato da Sgubbi si è trasformato in una sorta di quadratura del cerchio nel rapporto tra lo Stato e il cittadino attraverso un uso repressivo della legge. Il diritto penale è divenuto ancora di più totale «perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua». Totale «perché anche il tempo della vita individuale e sociale è occupato dall’intervento punitivo che, quando colpisce una persona fisica o giuridica, genera una durata della contaminazione estremamente lunga o addirittura indefinita, prima della risoluzione finale». Tanto che le norme sulla sospensione della prescrizione somigliano al sistema punitivo degli antichi Tribunali episcopali, «i quali disponevano del potere di irrogare penitenze che potevano durare fino alla morte del trasgressore». E ancora, totale «soprattutto perché è invalsa nella collettività e nell’ambiente politico la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico ad ogni ingiustizia e a ogni male». E qui Sgubbi – senza citare casi concreti ma consentendo al lettore di risalire a eventi della cronaca – denuncia gli interventi governativi che di fronte a fatti disastrosi, ampiamente presenti e diffusi dai media, pretendono di aver immediatamente identificato il responsabile, prescindendo dall’operato della magistratura reputato troppo lento nell’acquisire le prove e nel giudicare. Una forma di pretesa irrilevanza delle prove come quella manifestata da certi gruppi (l’autore di riferisce a movimenti come il #metoo) che mirano ad incolpare senza provare. A questo proposito l’autore si sofferma sul tema delle molestie sessuali di tipo verbale o non verbale, ‘’indesiderate’’, dove la tipicità penale del fatto scaturisce direttamente dal gradimento o meno da parte del destinatario. La percezione della vittima diventa elemento costitutivo del reato: «La condotta dell’agente può essere oggettivamente neutra, ma se viene percepita come lesiva dall’interlocutore diventa reato». Ne deriva che nei processi penali le prove non si limitano ad applicare il sillogismo classico dell’illiceità, confrontando il comportamento specifico dell’imputato con la norma di carattere generale, ma la ricerca verte anche sull’esistenza o meno della illiceità ovvero di una norma che sanzioni quel comportamento. È il caso di incriminazioni non di origine legislativa ma giurisprudenziale, tra le quali spicca il cosiddetto concorso esterno nei reati associativi «ove l’imputato potrà apprendere solo dal dispositivo della sentenza – e quindi ex post – se la propria condotta rientra o meno in tale figura». La giurisprudenza – che dovrebbe limitarsi a decidere sul caso concreto – è divenuta, impropriamente, non solo fonte del diritto, ma persino creatrice della norma, al posto e in sostituzione del potere legislativo. «L’apparato penale – spiega Sgubbi- costruito per definire l’area dell’illecito e per legittimare l’applicazione delle sanzioni, diventa il supporto per l’adozione di scelte decisionali di governo economico-sociali». La “distorsione istituzionale” viene così spiegata: «La decisione giurisprudenziale diventa – secondo l’autore – una decisione non soltanto di natura legislativa, quale regola di comportamento, ma anche di governo economico-sociale imperniato sull’opportunità contingente». Ma la critica («le norme penali così assumono un ruolo inedito. Sono fattori non di punizione, ma di governo») non si ferma qui. «Il sequestro di aree, di immobili, di un’azienda o di un suo ramo, il sequestro di un impianto industriale e simili incide direttamente sui diritti dei terzi. Con tali provvedimenti cautelari reali – prosegue Sgubbi – la magistratura entra con frequenza nel merito delle scelte e delle attività imprenditoriali, censurandone la correttezza sulla base di parametri ampiamente discrezionali della pubblica amministrazione e talvolta del tutto arbitrari». Si staglia, poi, nel contesto di una giustizia penale sempre più avulsa dalle sue finalità, la fattispecie della responsabilità penale senza colpa (dal binomio innocente/colpevole si passa al binomio puro/impuro). In sostanza, il reato è diventato una colpa per talune categorie sociali: non nel senso tradizionale di uno specifica fatto – sostiene Sgubbi – commesso da una persona e connotato da colpevolezza, bensì come un male insito nell’uomo e nel suo ruolo nella società. Il reato e la colpa sono uno status che precede la commissione di un fatto. Assomiglia, per gli “impuri”, al peccato originale. Non si tratta di una colpa generale inerente alla persona umana come tale, ma è legata al ruolo sociale ricoperto o alla tipologia dell’attività che svolge nella vita (in particolare, la politica, ndr). Così talune categorie sociali sono “pure” per definizione e prive di colpa (esempio gli occupanti abusivi di case); anzi la loro condizione di illegalità, talvolta, è creatrice di diritti (come l’allacciamento abusivo alla corrente elettrica). Gli appartenenti ad altre categorie, invece, dovranno dimostrare la loro contingente ed episodica purezza (un innocente è solo un colpevole che l’ha scampata); cioè saranno costretti a provare che in quella circostanza eccezionalmente non gli può essere imputato nulla. Per gli impuri “la salvezza penale è ardua” perché devono vincere la presunzione di colpevolezza e superare l’inversione dell’onere della prova. È la casta; e in quanto tale è condannata ad un costante e immanente sospetto di illecito. Si è cominciato e si continua così. Il fatto è che questi abusi sono sorretti da un sostanziale consenso. Nella serata del 25 Aprile, mi ha impressionato una trasmissione televisiva, durante la quale la conduttrice si collegava con un operatore a bordo di un elicottero delle Forze dell’Ordine che sorvolava Roma per individuare degli assembramenti ed orientare, dall’alto, l’intervento delle pattuglie dei Carabinieri. Io operazioni siffatte le ho viste compiere solo nel Cile ai tempi di Pinochet, quando la Cgil mi incaricò – come si faceva tutti gli anni – di recarmi a Santiago per parlare al comizio (proibito) organizzato dai sindacati dell’opposizione. La presenza di un sindacalista straniero alla loro manifestazione era un modo di proteggere quei lavoratori dagli interventi repressivi della Polizia del regime, che non gradiva far parlare di sé sul piano internazionale. Siamo a questo punto? La democrazia italiana sta diventando una "democratura"?
· La libertà: uno Stato di Fatto che non è di questa Italia.
La libertà, il sentimento meno amato dagli italiani. Iuri Maria Prado il 4 Gennaio 2020 su Il Riformista. Ci si può dolere ma non sorprendere del fatto che le cose di giustizia in Italia abbiano preso questa piega. E non solo le cose di giustizia ma generalmente quelle riguardanti i diritti e le libertà della persona. Sorprendersene significa non aver compreso la natura profonda del sentimento italiano verso quelle due faccende, i diritti e le libertà della persona: due faccende risentite e trattate dagli italiani come realtà non solo trascurabili ma persino ripugnanti. Con questo sentimento non abbiamo fatto i conti dovuti, e infatti non riusciamo a riconoscere la verità definitiva del nostro rapporto con gli eventi che in Italia maggiormente hanno avuto peso sul regolamento dei diritti individuali e di libertà: quando quei diritti sono stati compressi fino alla soppressione, e quando sono stati riconquistati. Le libertà in questo Paese non sono state impedite da pochi e con la forza: al contrario, in molti e senza sforzo vi hanno rinunciato. E così quando gli italiani hanno potuto nuovamente godere di libertà: non loro, non gli italiani se la sono riconquistata, ma altri gliel’hanno assicurata. Agli italiani la libertà è stata imposta, e una parte tutt’altro che minoritaria degli italiani avrebbe tranquillamente scelto di farsi governare da coloro che della libertà avevano anche meno rispetto a paragone di quelli che in Italia l’avevano soppressa. Queste due verità – e cioè che alla libertà abbiamo rinunciato quasi spontaneamente o comunque senza sforzo, e che non ce la siamo riconquistata ma altri ce l’ha garantita – sono bestemmie in questo Paese. Perché attentano alla tenuta della contraffazione infinita su cui si regge tutto il corso repubblicano. L’Italia non ha patito troppo della soppressione della libertà, e non ha trovato poi troppa soddisfazione nel poter poi godere della libertà ricevuta. Perché in entrambi i casi si trattava appunto di una cosa – la libertà, l’aspirazione alla libertà – che non è nelle fibre degli italiani. Come dunque può far sorpresa che le diminuzioni di libertà cui oggi assistiamo non siano risentite con allarme da parte degli italiani? A chi non piace questo andazzo, a chi pur meritoriamente ne denuncia i pericoli, bisognerebbe raccomandare di non commettere l’errore ennesimo. E cioè di far credere che il rischio stia in un’Italia trasformata e che rinnega se stessa: mentre sta in un’Italia che per l’ennesima volta si ritrova e si riconosce.
· I Radical Chic.
Superiorità morale e ipocrisie: ecco come ragiona un radical chic. Dal vizio di adottare due pesi e due misure alla convinzione di essere sempre dalla parte giusta della storia. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 25/09/2020 su Il Giornale. Victor Hugo, nel suo “Les Miserables”, dedica un’intero capitolo a descrivere la differenza sottile che, secondo lui, intercorre tra la “sommossa” e “l’insurrezione”. In entrambi i casi si tratta di una rivolta di piazza: sono due collere simili, dice l'autore, ed entrambe prevedono la sollevazione del popolo, la guerriglia e la violenza. Eppure “una ha torto e l’altra ha diritto”. Perché? La sommossa è negativa perché è la guerra di una minoranza contro quella che l'autore considera la “giustizia”. L’insurrezione invece impugna le armi per rivendicare un diritto: è la difesa della massa contro chi vuole usurpare il potere. Dunque è legittima. Nella pratica per Hugo assaltare il Palazzo del governo è lecito se si vuole cacciare il Re, ma è un sacrilegio se la rivolta insidia un governo democratico. Allo stesso modo, sparare contro la folla è giustificato se lo si fa per difendere il “progresso” mentre è un crimine se ad aprire il fuoco sono i cannoni di un sovrano. Direte: ma che c’azzecca tutto questo con i radical chic? C'entra. Perché il modo di ragionare di Hugo sulle insurrezioni somiglia a quello utilizzato dalla sinistra italiana, europea e globale per perorare la causa della propria superiorità morale e politica. Sia chiaro: non stiamo dicendo che l’autore francese era un radical chic. Non sia mai. Ci serve solo come esempio. Hugo relativizza la violenza e la giustifica sulla base della propria lettura della storia: etichetta quindi con il bollino dei “buoni” tutto ciò che gli aggrada e con quello dei “cattivi” ciò che non apprezza. Lo stesso sono soliti fare - ma con molta meno intelligenza - i protagonisti di un certo pensiero progressista, radical nei contenuti e chic nelle movenze. Il riassunto può essere questo: se la pensi come me sei nel giusto, altrimenti vai demonizzato. E non importa se a volte pur di difendere le equazioni progressista=giusto e populista=sbagliato l’intellighenzia radical usa "due pesi e due misure" con tanta sfacciataggine da apparire imbarazzante. Va detto che il radical chic non ha una carattere ben definito. E il significato del termine è evoluto nel tempo: una volta dipingeva il ritratto di chi per moda o convenienza sposava idee anticonformiste pur appartenendo ad un ceto sociale elevato. Oggi la locuzione abbraccia altre accezioni. Identifica ad esempio l'atteggiamento di chi è convinto di avere una certa superiorità culturale ed esibisce appena può questa cultura "elevata". Tradotto in altri termini, come nel caso di Hugo, è quel modo di fare in cui ciò che aggrada una certa parte (la sinistra) è giusto mentre tutto il resto (la destra) va cestinato. In Italia i protagonisti di questo "movimento" incarnano ora l'uno ora l'altro significato del termine.
Dunque i radical chic nostrani sono quelli che combattono l'inquinamento ambientale vestendo sintetico, acquistando iPhone e mangiando McDonald's. Oppure chi predica l'accoglienza ma non vuole migranti a Capalbio. Ma sono anche quelli che s’indignano se alla manifestazione del centrodestra mancano le mascherine e poi tacciono se i Black Lives Matter si assembrano nelle piazze di tutto il mondo. Sono insomma quelli che il voto popolare va bene, ma solo se vince la sinistra. Radical chic sono le sardine, che riconoscono ai “populisti” libertà di parola ma negano loro “il diritto di essere ascoltati” (che poi sarebbe la stessa cosa). Radical chic è il modo in cui vengono descritti gli scontri di piazza degli antagonisti (è sempre la polizia a “caricare” e mai i manifestanti ad “attaccare” gli agenti). Sono insomma quelli che il titolo “patata Bollente” di Libero no, ma i “partigiani con lo schippo” contro la Meloni anche sì. Due pesi e due misure, appunto. E sono solo pochi esempi. Osservare l'evoluzione di questo pensiero serve a mostrare l'ipocrisia di un intero mondo politico e culturale. Per questo dedicheremo ai radical chic e alle loro uscite una rubrica settimanale. Questa. Sarà un modo per canzonare e mettere a nudo le contraddizioni di chi si sente sempre dalla parte giusta della storia. E di chi rivendica una certa superiorità morale. Senza averla.
· I Tabù.
DAGONEWS il 25 aprile 2020. Dall'inizio della pandemia, il sesso è cambiato: è immaginato, monogamo, ingigantito o ignorato. E in questo scenario i selfie di nudo sono diventati un simbolo di resilienza, un rifiuto a lasciare che il distanziamento sociale ci confini all’astinenza. I selfie di nudo non sono più i preliminari, un modo per stuzzicare l'appetito di un amante, ma l'intero pasto. Sebbene il dibattito sull'arte in contrapposizione alla pornografia non sia mai stato risolto, si può sostenere che i selfie di nudo in quarantena sono arte. Alcuni di noi hanno finalmente il tempo di fare arte, e questa è l'arte che stiamo realizzando: posare con cura, scegliere l'ombra, usare i filtri. Questi scatti, sollecitati o spontanei, sono doni a partner lontani, ad amici che non sono esattamente amici, a estranei a ex. «Prima della quarantena la mia regola era che i nudi erano solo per fidanzati - afferma Zoe, assistente di marketing a Los Angeles - Qualcosa di speciale per qualcuno di cui mi fido. Ma in tempi di solitudine mi rivolgo alle chat ed è cambiato tutto». Kat, un'artista dell’Arizona, invia selfie sexy e creativi su un'app sicura chiamata Wire a un barista che ha incontrato all'estero appena prima del coronavirus: «Questa è solo un'esperienza umana, no? Amore. Morte. Sesso». Se storicamente il nudo nell'arte esprimeva il potere negli uomini (pensate alle sculture degli atleti greci) e la sessualità nelle donne (pensate alla Maja Desnuda" di Goya), i selfie di nudo, soprattutto ora, condensano entrambi gli aspetti. La componente della sessualità è ovvia, la componente del potere è dovuta dal contesto: il potere di sedurre senza contatto, di connettersi quando il contatto fisico genera pericolo, di impressionare, di suscitare una forte reazione a chilometri di distanza. «Le immagini erotiche aggiunte ai manoscritti sono sempre state un modo per sfuggire ai vincoli della realtà» afferma Constant Mews, direttore del Center for Religious Studies della Monash University in Australia che fa riferimento al Decamerone di Boccaccio, la risposta letteraria del XIV secolo alla peste nera, una raccolta di 100 racconti in cui personaggi, circondati da malattia e morte, si intrattengono a vicenda con racconti osceni. Nella vita moderna, la tecnologia ha mai fornito tale evasione? Oltre al nostro Wi-Fi, non abbiamo molto in termini di rapporti. Molti di noi sono soli e vivono in piccoli spazi. Ci mancano le distrazioni a cui siamo abituati e le routine su cui facciamo affidamento. Ma se ci pensiamo alcuni dei più famosi autoritratti sono derivati da una carenza di risorse. Rembrandt era spesso il soggetto dei suoi dipinti perché non poteva permettersi un modello. Frida Kahlo ha iniziato a dipingere se stessa quando non stava bene ed era costretta a letto e tutto ciò che riusciva a vedere era uno specchio. Quando Vincent Van Gogh si ritrovò senza modelli, guardò a se stesso. D’altra parte il nudo nell’arte risale a decine di migliaia di anni fa. Dalle incisioni nelle caverne passando per la "Venere di Hohle Fels" con il seno che sfida la forza di gravità. Ma l'autoritratto di una donna che si libera dalla sguardo maschile non è diventato popolare fino all'inizio del XX secolo. «Albrecht Durer si fece un autoritratto completamente nuda intorno al 1503 - dice Abigail Susik, professoressa associata di storia dell'arte all'Università di Willamette - ma probabilmente era perché non aveva un modello». Conosciamo tutti alcune delle iconiche immagini del 20° secolo, tra cui il tragico dipinto di Frida Kahlo "La colonna spezzata" e la fotografia della 22enne Diane Arbus in mutande, a testa alta mentre osserva il proprio riflesso. La dott.ssa Susik menziona anche la fotografa Hannah Wilke, che si è spesso immortalata nuda fino alla sua mostra straziante "Intra-Venus", con fotografie del suo viso e del corpo devastati dal linfoma che l'avrebbe uccisa. "Autoritratto di fronte alla morte" è l'analogo lavoro di fine vita di Picasso. "Sei autoritratti" è di Andy Warhol. Molti artisti, non solo pittori e fotografi, lasciano un selfie finale come una sorta di ultima volontà e testamento: Sylvia Plath ha pubblicato il suo romanzo autobiografico "The Bell Jar" poco prima di porre fine alla propria vita. L'ultima canzone di David Bowie, "Lazarus", inizia con "Guarda qui, sono in paradiso". In "Cavalcando con la morte", uno degli ultimi dipinti di Jean-Michel Basquiat prima della sua fatale overdose, un uomo nudo dalla pelle marrone cavalca lo scheletro di un cavallo. Anche se potrebbe richiedere un po’ di fantasia paragonare un selfie di uno sconosciuto nudo dell'era della pandemia a Basquiat, i geni non mantengono il monopolio dell'istinto di autoconservazione. O il desiderio di essere visti, di essere supportati. Dipende sempre da ciò che tutti desideriamo e ancora di più ora in tempo di Covid-19: una testimonianza della nostra stessa vulnerabilità, la nostra verità più privata.
Massimiliano Panarari per “la Stampa” l'1 febbraio 2020. Allo studio delle metamorfosi della concezione del sesso in Occidente è stato dedicato uno dei cantieri concettuali più significativi dell'opera di Michel Foucault. Originariamente il filosofo lo aveva pensato come uno studio di quello che considerava il dispositivo biopolitico della sessualità nell' età moderna (tra Cinque e Ottocento), per poi scegliere, invece, di fare una genealogia storica del «soggetto desiderante» attraverso l' analisi di alcuni testi paradigmatici della cultura greco-romana. Un cantiere aperto, ma rimasto incompiuto per la sua morte prematura nel 1984. Da poco è uscito anche in italiano Le confessioni della carne (Feltrinelli, pp. 426, 29), il quarto volume della sua incompleta Storia della sessualità (la cui pubblicazione era iniziata nel 1976), che dall' universo classico greco-romano trasporta il lettore al mondo cristiano. Un volume che era «quasi pronto», ma non ultimato, appena uscito dall' archivio di Gallimard, dopo oltre un trentennio di interruzione della pubblicazione dei suoi testi che erano rimasti inediti. E un' esperienza intellettuale affascinante, come tutti i lavori foucaultiani. Il filo conduttore rimane, in uno scenario temporale successivo, il medesimo dei libri precedenti di questa progettata opera in più volumi, giustappunto i processi di costituzione del soggetto nell' antichità. Seguiti e ricostruiti in queste pagine, passo per passo, con la rilettura dei Padri del cristianesimo dei primi secoli (dal II al IV d. C.) mediante un approccio ermeneutico (ma di matrice «decostruttiva e decostruzionistica», per così dire). Pure in questo libro vediamo così in azione il Foucault del confronto serrato, tra generalogia e archeologia dei saperi, con libri e pensieri nei quali ravvisava la strutturazione di una dottrina e di un apparato di precetti che riorientavano e piegavano la libertà degli individui. In alcune sue lezioni al Collège de France del febbraio 1978, il filosofo aveva cominciato a delineare le specificità del contesto della «governamentalità pastorale», fondata su una serie di «atti di verità» (prevalentemente intorno a se stessi), che si articolavano attraverso un ventaglio di pratiche di obbedienza. È la prospettiva che guiderà i suoi appunti e le sue note confluiti in maniera quasi organica in questo IV volume della Storia della sessualità. Grazie alla quale metteva in luce il processo di traslazione per certi aspetti senza soluzione di continuità nei Padri della Chiesa di tutta una precettistica che proveniva dal paganesimo. Che nei primi due secoli dell'era cristiana finisce per venire assoggettata, per l' appunto, a una governamentalità di tipo pubblico. Per i filosofi greci e romani, che l' avevano inizialmente elaborata, rimaneva prevalentemente destinata all' arte del vivere e alle «tecniche del sé» del singolo. La decostruzione foucaultiana era così approdata alla sovversione di una convinzione molto radicata: quella di una morale dominante di tolleranza nei riguardi della diversità delle condotte sessuali nell' età antica. Per mezzo dell' ermeneutica testuale delle «confessioni della carne», il celebre professore di Storia dei sistemi di pensiero al Collège de France evidenziò invece come le radici dell' idea della sessualità per fini procreativi, del divieto dell' omosessualità e dell' esaltazione della temperanza (e, quindi, della continenza) si trovino nelle scuole e nelle sette filosofiche greco-romane, e specialmente nello stoicismo. Le regole della carne, dunque, vengono già codificate dalla filosofia antica, ma la sua disciplina dell' esistenza si svolge in un quadro razionalistico e di formazione spirituale volontaria, che il cristianesimo avrebbe definito di libero arbitrio. E l' individuo, quindi, non era affatto obbligato a sottoporvisi, mentre la patristica convertì queste tecnologie del sé, sulla base dell'«antropologia negativa» di san Paolo - secondo cui la malvagità, di fatto, alberga dentro di noi e, di conseguenza, l'annullamento del piacere diventa la strada esclusiva per contrastarla - nel pilastro dell'«arte di vivere cristianamente». Edificata sulla dimensione pubblica della sorveglianza e sulla figura del pastore come consigliere spirituale al quale rendere conto di ogni aspetto della sfera privata, attraverso la definizione di pratiche e regole (dal battesimo alla penitenza) che configureranno un «regime», come lo chiama Foucault sulla scorta dei medici antichi, da seguire strettamente. Così il cristianesimo - prima religione del mondo antico a generare una Chiesa, come sottolinea il filosofo francese - darà vita alla disciplina penitenziale e quella dell' ascesi monastica, che orienteranno fortissimamente il soggetto occidentale stabilendo un collegamento tra il concetto di male e quello di verità. Qui si colloca anche la nuova morale sessuale cristiana, frutto della giustapposizione e stratificazione di una certa trattatistica (dimenticata) dei primi secoli, che va dalla dottrina del matrimonio di Clemente di Alessandria all' arte cristiana della verginità (di san Cipriano e dei vescovi Basilio di Ancira e Metodio di Olimpo), fino alla categorizzazione della libido da parte di sant' Agostino. E, in particolare, in Clemente Alessandrino, il filosofo individuava i due ambiti principali destinati a indirizzare l' etica cristiana: il tema della verginità e quello della concupiscenza. Ed è come se, ci fa leggere in controluce Foucault, il cristianesimo avesse inventato il soggetto dell' inconscio, tanto distante da quello sempre presente a sé che aveva voluto costruire l' amatissimo universo culturale tardopagano.
· Emozione ed Amore.
Sgomento, atterriti e in allarme o paralizzati da un’emozione. Pubblicato mercoledì, 19 febbraio 2020 su Corriere.it. Ci sono parole che chiedono di essere usate con cautela, perché esprimono situazioni molto precise e ci consentono di descriverle con tutta l’importanza, e talvolta la drammaticità, che hanno. Sgomento è una di queste, ha una temperatura altissima e merita di essere usata come facciamo con una pentola bollente, con tutte le precauzioni. Chi prova sgomento non sta vivendo una paura qualsiasi. È atterrito da un allarme che quasi gli impedisce ogni reazione, paralizzandone per un momento i movimenti e l’espressione. Sintetizza con la consueta chiarezza, il dizionario De Mauro: «grave turbamento psichico, consistente in un profondo abbattimento morale causato da pericoli, ansie, preoccupazioni, dispiaceri e simili, fino a determinare un senso di impotenza e di inadeguatezza». Il verbo che ce lo ha regalato è sgomentare, che ha una probabile origine latina da excommentare, verbo composto da ex (nel significato di fuori, da) e commentari (meditare). Verbo che significa provare un turbamento nel senso più profondo, quello che ci impedisce di razionalizzare quello cui assistiamo e ci porta fuori dalla possibilità di rifletterci sopra e ci atterrisce. Talmente precisa la sua presenza nella nostra lingua da presentarsi in due modi. Come participio passato di sgomentare (senza suffisso, altrimenti si usa sgomentato) e che ad esempio il vocabolario Treccani esemplifica nell’esempio «lo guardavano con occhi sgomenti»; ma usato spesso come aggettivo sinonimo di avvilito, sfiduciato. Oppure come sostantivo che identifica proprio lo scoramento e il grave turbamento psicologico. Comprensibile che una parola così potente venisse utilizzata come iperbole, proprio nel significato autentico di questa preziosa figura retorica, una esagerazione che conquista l’attenzione scorrendo all’eccesso. Dover affrontare quel saccente antipatico del capo ufficio è uno sgomento! Oppure, come riporta sempre la Treccani, «come marito è perfetto, ma come cuoco è uno sgomento!». Qualcosa che rischia di confonderci è la folla di sinonimi che accompagna questa parola: esterrefatto, attonito, basito, meravigliato, sbalordito, sbigottito, sconcertato, sconvolto, strabiliato, stupefatto. Ma lo sgomento, ed è bene ricordarlo, indica anche un elemento in più: l’incapacità di reagire, schiacciati dalla visione, dalla situazione, dall’episodio che ci ha lasciato sgomenti. Ci aiuta a comprendere un po’ meglio questa parola citare quando è venuta in soccorso di un concetto artistico complesso: il sublime. Si intende con sublime proprio il senso di sgomento che proviamo di fronte alla grandezza di un’opera d’arte. Il trattato del Sublime è un’opera del primo secolo ma è solo dal Settecento che si è conquistata uno spazio significativo tra i canoni estetici. E c’è senz’altro sgomento nel capogiro unito alla confusione e alle vertigini di quella reazione che taluni provano di fronte alla straordinaria emozione che provoca un’opera d’arte. È nota come «sindrome di Stendhal» dal nome dello scrittore che per primo la descrive in un suo libro e che stata individuata e analizzata per la prima volta a Firenze nel 1977 dalla psichiatra Graziella Magherini. Molto più prosaico lo sgomento che proviamo di fronte alla diffusione di certe notizie. Secondo l’ultimo rapporto Eurispes per un italiano su sei la Shoah non è mai esistita. E insieme al 15,6 per cento degli italiani che nega la Shoah c’è un altro 16,1 per cento che dice sì, la Shoah c’è stata ma non è stata un fenomeno così importante. Nel 2004 il negazionismo riguardava il 2,7 per cento degli italiani. Questo lascia veramente sgomenti.
Perché si festeggia San Valentino? Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 su Corriere.it da Silvia Morosi. San Valentino, la cosiddetta «festa degli innamorati», si celebra ogni anno il 14 febbraio. Anche se nei secoli si sono sovrapposte leggende diverse, secondo la tesi più accreditata la ricorrenza vede nella figura di papa Gelasio I quella del promotore della cristianizzazione dei Lupercalia, gli antichi riti pagani dedicati al dio della fertilità Fauno, nella sua accezione di Luperco come protettore del bestiame (dai lupi) e dei campi. Nel 496 d.C., non riuscendo a cancellare questo culto pagano, la Chiesa decise di abolire questa celebrazione, decretando che venisse seguito il culto di San Valentino, come ricorda la Bbc. Nato a Interamna Nahars, l’attuale Terni, nel 176 d.C., Valentino era un vescovo romano che era stato martirizzato. Fu scelto come patrono degli innamorati poiché la leggenda narra che egli fu il primo religioso che celebrò l’unione fra un legionario pagano e una giovane cristiana. Difendendo, quindi, la libera scelta del compagno. Si distinse anche, durante la sua opera di evangelizzazione, come guaritore degli epilettici. La ricorrenza, come la conosciamo oggi, è più recente e fa riferimento a dei bigliettini d’amore che Carlo duca d’Orleans scrisse nel XV secolo — mentre era prigioniero nella torre di Londra dopo la sconfitta alla battaglia di Agincourt (1415, nell’ambito della Guerra dei cent’anni) — alla moglie, chiamandola «dolce Valentina» (appellativo che si ritrova anche nell’Amleto di Shakespeare del 1601, quando Ofelia canta: “Domani è san Valentino e, appena sul far del giorno, io che son fanciulla busserò alla tua finestra, voglio essere la tua Valentina”, ndr). Il biglietto d’amore, il cosiddetto «valentine», trovò la massima fortuna con la sua commercializzazione, voluta dall’imprenditrice statunitense Esther Howland (che ne aveva capito il potenziale). Un’ultima curiosità? L’amore non viene celebrato in tutti i Paesi, anzi. In alcuni stati questa festa è addirittura vietata. In Pakistan, ad esempio, dove un tribunale nel 2017 ha deciso di vietare i festeggiamenti ad Islamabad perché contrari ai dettami dell’Islam. E ancora, in Indonesia, dove nel 2012 la festa degli innamorati è stata proibita dal più alto consiglio clericale islamico perché non appartenente alla cultura islamica. In Giappone il 14 febbraio le donne regalano cioccolatini agli uomini, non necessariamente essere mariti o fidanzati. Gli uomini ricambieranno il dono, regalando cioccolato bianco, un mese dopo, il 14 marzo, in occasione del White Day. I brasiliani festeggiano gli innamorati il 12 giugno, il giorno che precede Sant’Antonio, patrono dei matrimoni.
Non solo San Valentino: il 13 febbraio è il Mistress Day per festeggiare con l’amante. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 su Corriere.it da Greta Sclaunich. Il 14 febbraio è San Valentino: la festa degli innamorati, com’è ben noto. Il 15 febbraio, invece, è san Faustino: la festa dei single, meno nota ma comunque conosciuta. Il 13 febbraio è san Benigno e in teoria non si festeggia niente. Ma negli Usa ha un nome: Mistress Day, cioè il giorno dell’amante. Perché, complice un anomalo boom nell’invio di bouquet e nella prenotazione di hotel, qualcuno a New York qualche anno fa notò che se le coppie ufficiali festeggiano il 14 e i single il 15, il 13 è il giorno delle coppie ufficiose. L’Italia non fa eccezione, almeno stando a un sondaggio effettuato dalla piattaforma di incontri extraconiugali Gleeden: il 71% degli iscritti ha dichiarato che troverà il modo di dedicare del tempo al o alla amante proprio la vigilia di San Valentino. Il valore simbolico dei due giorni è diverso, certo. Come quello economico. Che però, sempre secondo il sondaggio di Gleeden, andrebbe a favore della relazione clandestina: il costo medio per festeggiare il Mistress Day sarà di circa 300 euro, quello di San Valentino si aggirerà tra gli 80 ed i venti euro. Basta fare un rapido calcolo per capire come mai il o l’amante avranno la parte del leone: una camera in un hotel di lusso (scelta dal 72% degli utenti per l’incontro segreto) costa più di una cenetta romantica in un ristorante di bassa-media categoria o a casa con il o la partner ufficiale (come intendono fare rispettivamente il 42 e il 49% degli intervistati). E poi c’è il regalo. Al o alla partner ufficiale andrà un pensierino di una ventina di euro, che si tratti di cioccolatini (60%) o profumo (16%). A quello o quella ufficioso, invece, doni più impegnativi come lingerie sexy (63%), gioielli (26%), weekend a sorpresa (32%), massaggio alla spa (31%) e sex toy (17%). I meno originali si limiteranno al classico mazzo di fiori per l’uno/a e per l’altro/a: il 65% ha dichiarato di volerlo regalare alla moglie o al marito e il 93% all’amante. Ecco spiegato il famoso boom di bouquet che ha dato avvio al Mistress Day.
· Il Pianto.
Giorgio Piras per “il Messaggero” il 12 aprile 2020. In questa attenta traduzione del libro della storica francese Sarah Rey sono tante le testimonianze antiche raccolte sul fenomeno del pianto a Roma, con osservazioni originali di taglio antropologico-culturale e riferimenti ad altre culture, anche contemporanee. Le lacrime sono spesso riportate dalle fonti letterarie e storiografiche romane, anche se non compaiono generalmente nelle arti figurative, forse non solo per la difficoltà tecnica di rappresentarle. Diversa era infatti rispetto alla nostra la concezione e la percezione antica del piangere. Le lacrime avevano un valore essenzialmente pubblico e politico e costituivano un aspetto frequente e dal forte valore simbolico della vita collettiva, sin dai tempi più antichi. O per lo meno assumevano spesso questa valenza e in ogni caso noi siamo più informati delle manifestazioni pubbliche del pianto, quelle che evidentemente erano considerate più rilevanti. Esse accompagnavano naturalmente il lutto, in tutte le sue fasi e tutti i complicati riti che a Roma riguardavano il defunto, specialmente per gli uomini più in vista e in particolare nel caso dei funerali degli imperatori, momento estremo della loro popolarità. In ambito religioso le lacrime sono considerate in genere un segnale negativo, funesto, come nel caso delle statue di divinità che piangono. Ma sono un elemento essenziale delle suppliche pubbliche agli dei (supplicationes), che si svolgono in frangenti di particolare pericolo per lo stato, come nel caso dei cartaginesi di Annibale che scorrazzavano per l'Italia o dell'incendio della città del 64 d.C. Se pure spesso venga menzionato come tipico comportamento femminile e segno di debolezza, spesso sia anche disprezzato, è interessante che Tacito osservi come solamente i duri e barbari Germani ritenessero che «alle donne si addice piangere, agli uomini ricordare». La commozione poteva infatti essere mostrata in pubblico senza problemi in molte occasioni, e anche da parte dei potenti. Per gli uomini politici Romani è importante ostentare sensibilità, anche con il pianto, come fece Cesare di fronte alla testa mozzata del suo avversario Pompeo. L'esempio degli eroi omerici che non esitano a piangere esercitava un certo fascino letterario. La clemenza del resto è una virtù importante per l'uomo di stato, esibita e teorizzata da Cesare in poi. Da Augusto in particolare vengono enfatizzate le manifestazioni del sentimento di pietà e compassione per i suoi sudditi: l'imperatore piange quando gli viene conferito il titolo di padre della patria, quando è costretto per ragioni superiori di stato a imporre il suicidio agli amici che hanno sbagliato. Il buon imperatore sa piangere e commuoversi, non per sé ma per coloro che gli sono attorno e per lo stato. Il ricorso alla commozione e al pianto è frequente nei discorsi giudiziari, laddove sia necessario il pathos per coinvolgere e convincere pubblico e giudici: spesso Cicerone menziona le lacrime degli accusati o degli spettatori, talvolta versandole egli stesso. Rimangono certamente tracce qua e là di una concezione aristocratica che imponeva di nascondere le proprie emozioni in pubblico. Il poeta Ennio riprendendo una tragedia greca affermava che alla plebe è dato piangere, ma al re, per il suo decoro, no. Solo in ambito filosofico la condanna delle passioni eccessive porta solitamente i filosofi Romani, imbevuti degli insegnamenti greci, a condannare il pianto e il lamento, specialmente se esibito in pubblico, vana espressione di sentimenti non controllati e di irrazionalità. Argomentazioni non dissimili si trovano nei Padri della Chiesa. Le emozioni dei pagani vengono considerate infondate o frivole, specialmente se collegate agli antichi culti, anche perché i dolori terreni sono destinati ad essere annullati nella prospettiva ultraterrena della salvezza e della fuga dalla contingenza del tempo presente. La dinamica pubblica e politica delle emozioni si mostra quindi piuttosto articolata. Per i romani le lacrime non pregiudicano in assoluto la riflessione e la corretta comprensione della realtà, anche se era bene evidente che potessero avere un valore demagogico e di sviamento del giudizio. I romani si rivelano dei sentimentali che si difendono dal sentimentalismo.
· Il Romanticismo contemporaneo.
La scienza dell’amore, così il cervello reagisce ai sentimenti. Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 da Corriere.it. Parafrasando Ungaretti, si va verso San Valentino come d’autunno sugli alberi le foglie. L’amore è caduco come mai prima d’ora. L’Istat rileva che una famiglia su tre è fatta di single e l’età delle neo-divorziate ha picchi precoci fra i 40 e i 44 anni. Nella classifica di Google Trends su San Valentino e dintorni, la ricerca «San Valentino Single» ha segnato, in 5 anni, un’impennata del 90%, risultando quarta, dopo film, regali e vignette e subito prima di «San Valentino ironia». L’amore non è morto, ma andrebbe curato con nuovi metodi diagnostici, suggeriscono psicologi e neuroscienziati. «Crediamo ancora che amore faccia rima con cuore, invece, il cuore dell’amore è il cervello», dice al Corriere Donatella Marazziti, docente di Psichiatria all’Università di Pisa, autrice di La natura dell’amore (Giovanni Fioriti editore), prima al mondo a studiare la neurobiologia dell’innamoramento. Di recente, il New York Times si è chiesto se non dovremmo imparare ad amare dai Millennials, che sono per la «via lenta all’amore». L’antropologa americana Helen Fisher, decana degli studi su amore e cervello, assicura che «sposandosi più tardi rispetto a qualsiasi altra generazione, stanno tracciando un percorso più efficace verso l’amore duraturo». Le statistiche, ricorda, dimostrano che chi, prima del sì, si frequenta almeno tre anni divorzia il 39 per cento meno degli altri. La ragione sarebbe scritta nella Risonanza magnetica funzionale del cervello degli innamorati: il brain imaging ha rilevato che l’amore è un percorso in tre fasi, con innamoramento, attaccamento e «amore vero». Che non sboccia in un giorno, ma matura, appunto, all’incirca in 3 anni. Spiega al Corriere Grazia Attili, docente di Psicologia Sociale alla Sapienza di Roma e autrice di Il cervello in amore (Il Mulino): «Comprendere i meccanismi neurobiologici dell’amore aiuta a non avere aspettative irreali: bisogna sapere che, finita la passione folle, non è finito l’amore». Il punto critico è trasformare la fase «farfalle nello stomaco» in un sentimento più sereno e solido. «L’innamoramento è involontario, l’amore implica un atto di volontà», sintetizza Marazziti. «Servono sei millisecondi per innamorarsi e 12 millisecondi per saperlo: vedo uno, non so chi è, e si accende di colpo l’amigdala, l’area più coinvolta nella decodificazione delle emozioni, che sequestra gran parte del cervello. In sei millisecondi, siamo pronti alla fuga o all’attacco, senza sapere se abbiamo davanti un dinosauro o un bambino. Sei millisecondi dopo, la corteccia ci dice: scappa o rilassati. In questo momento, la corteccia prefrontale, la nostra area decisionale, è spenta. Insomma, quando ci innamoriamo, siamo un po’ scemi». Pensiamo ossessivamente all’amato, lo sentiamo perfetto. Come Roberto Benigni che declama Il Cantico dei Cantici a Sanremo, ci diciamo «le tue carezze sono migliori del vino, i tuoi profumi hanno un odore soave, il tuo nome è un profumo che si spande». Marazziti, nel 1999, ha scoperto la relazione fra innamoramento e riduzione della serotonina: «Per innamorarci, è necessario che i livelli di questo neurotrasmettitore che regola l’umore siano bassi. Questo stato di vulnerabilità ci fa reagire a uno stimolo banale, tipo lo sguardo di uno sconosciuto, come di fronte a un dinosauro. Dopo, c’è un aumento della dopamina, che dà un piacere enorme e innesca il circuito della dipendenza, come nelle droghe». Questa fase, spiega, dura dai sei mesi a un anno: «Poi, i livelli di stress si abbassano, le fiamme della passione si calmano, cominciamo a vedere i difetti dell’altro, ma entrano in gioco i meccanismi dell’attaccamento, che danno quel piacere di stare insieme derivato dalla conoscenza. Aumentano ossitocina, vasopressina. La mappa «d’illuminazione» del cervello cambia. La crisi di coppia è fra primo e terzo anno proprio perché bisogna supplire alla diminuzione della spinta neurobiologica iniziale con un atto di volontà». La natura non fa niente a caso. Tre anni è il tempo che serve per mettere su famiglia, ricorda Attili: «Alla base, c’è anche la spinta evoluzionistica a proseguire la specie. Gli esseri umani hanno una progenie a lungo non autonoma, la cui sopravvivenza richiede la presenza di madre e padre almeno nei primi mesi di vita». Le aree del cervello attive nelle fasi dell’amore raccontano le ere geologiche della nostra evoluzione. Spiega Attili: «Semplificando, l’attrazione è regolata dal cosiddetto cervello rettiliano, l’innamoramento da quello paleo-mammaliano e l’amore progettuale dal cervello neo-mammaliano, sede del pensiero critico, logico, astratto». Poi, fondamentali sono le esperienze infantili: «Sappiamo amare bene se siamo stati amati nei primi 3 anni di vita, quando si formano i circuiti neuronali», avverte Attili. In caso contrario, non c’è da disperare. Marazziti confida su uno studio che definisce bellissimo: «Rileva che nell’ippocampo ci sono cellule staminali fino a 90 anni. Siamo sempre in tempo per imparare ad amare».
Rose rosse o no? Il significato dei fiori per non sbagliare a San Valentino. Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 da Corriere.it. Un mazzo di fiori è un classico di San Valentino e visto che al 14 febbraio ci siamo quasi, meglio fare un veloce ripasso sul significato dei diversi bouquet che si possono regalare oppure ricevere, onde evitare di mandare(o di interpretare) un messaggio sbagliato, con conseguenze facilmente immaginabili. Rose rosse. Di certo, non c’è modo migliore per dire «Ti amo» di una dozzina di rose rosse: come spiega infatti l’esperto di fiori Robert Cottone in un articolo sul Reader’s Digest, «la rosa rossa simboleggia il vero amore, il desiderio e la devozione e non c’è un momento più giusto di un altro per mandarle, se il vostro istinto vi dice di farlo, meglio non pensarci troppo e dargli retta». Le rose gialle. Chi spera di ricevere un mazzo di rose rosse, ma poi gli arrivano gialle, è bene che si metta l’animo in pace: l’altra persona vuole solo amicizia. «Le rose gialle indicano le emozioni platoniche – conferma Cottone – quindi sono il fiore perfetto per la migliore amica». Le rose lavanda. Ricevere delle rose color lavanda è un ottimo segno, perché indicano che il partner ha intenzioni serie, «Se già dal primo incontro avevate capito di aver trovato la persona giusta, diteglielo con delle rose color lavanda – suggerisce ancora l’esperto – perché questi fiori simboleggiano l’amore a prima vista». Le piante grasse. Diciamo la verità, le piante grasse gridano tutto tranne che passione, eppure riceverle è un bel segno, perché indicano il desiderio di una relazione a lungo termine. «Una combinazione di piante grasse e fiori freschi come garofani, ranuncoli o dalie crea un bouquet unico e simboleggia l’amore eterno - spiegano infatti le esperte di fiori Laurenne Resnik e Whitney Port - perché le piante grasse hanno una vita lunga, mentre i garofani rappresentano l’amore profondo». I narcisi. Di solito associati alla primavera, i narcisi ricevuti a San Valentino sono un altro fiore dalle connotazioni sentimentali positive, perché rappresentano la galanteria e la felicità e sono quindi un bel modo per un uomo di dimostrare il proprio apprezzamento per una donna. I crisantemi gialli. Una persona single che si vede recapitare a casa un mazzo di crisantemi gialli, farebbe bene a tenere gli occhi aperti, perché questi fiori simboleggiano un ardente desiderio. In altre parole, c’è un ammiratore segreto da qualche parte. L'eucalipto. Se qualcuno si presenta con un bouquet di fiori al quale sono stati aggiunti dei rami di eucalipto, timo, felce o edera questo significa che si preoccupa anche dei minimi dettagli e che presta attenzione anche alle più piccole cose. Le calle. Simbolo di fedeltà e devozione, le calle sono la trasposizione fatta a fiore dell’impegno a lungo termine, ecco perché non stupisce che molte rose le inseriscano nel loro bouquet di nozze. «La varietà bianca rappresenta la purezza, mentre quella viola sta ad indicare passione e ammirazione», spiega sempre Cottone. Le orchidee. Chi vuole dire a una donna che la trova sexy e forte e che è preso da lei, a San Valentino dovrebbe mandarle delle orchidee. «Questi fiori esotici rappresentano l’amore, la lussuria, la bellezza e la forza – sottolinea ancora una volta l’esperto – quindi sono perfetti per una donna elegante, che ama le cose più belle della vita». I garofani. Con i garofani il messaggio che si vuole mandare dipende dal colore. «Quelli rosa sono associati all’amore profondo, come quello di una madre – conclude Cottone – e sono quindi perfetti per mostrare affetto e apprezzamento, mentre chi cerca un bouquet adatto all’uomo della sua vita dovrebbe optare per dei garofani viola, fucsia o verde lime».
Maria Sorbi per “il Giornale” il 4 febbraio 2020. Analuisa scrive dal Sud America e le sue parole scivolano su una bella carta da lettera a fiori. Calligrafia delicata d'altri tempi, racconta le sue pene d' amore tentennando con la stilo ogni volta che si imbatte nel nome del suo amato. Ester invece scrive dal Nord Europa, documento Word fitto fitto ma firma autentica scritta a penna. Le loro sono solo due delle lettere ammucchiate sul tavolo di via Santa Cecilia a Verona. Le altre arrivano dal Giappone, dalla Spagna, dalla Russia, da ogni parte del mondo. Siamo nel quartier generale dell' amore, una minuscola e graziosa stanza che ospita il Club di Giulietta, l'adolescente shakespeariana emblema per eccellenza della passione più pura, impulsiva e coraggiosa.
POSTE INTASATE. Gli innamorati di tutto il mondo le scrivono 50mila lettere ogni anno. Sì, 50mila. Tanto che la filiale veronese delle Poste italiane vicino alla stazione di Porta Nuova si è dovuta ingegnare per gestire il traffico di lettere e si è organizzata con una «corsia preferenziale» dedicata. Anche perché ci sono momenti dell' anno, come San Valentino o l' inizio di settembre - compleanno di Giulietta - in cui i sacchi di posta triplicano e sembra che d' improvviso tutto il mondo abbia urgenza di raccontare la propria storia. A lei e a lei sola, confidente universale che mai è esistita se non nella mente di Shakespeare ma che è diventata l' amica più intima. Su parecchie buste c' è semplicemente scritto «Juliet, Verona». E la lettera arriva lo stesso, riconosciuta dai postini di ogni Paese e da tutti i macchinari che smistano le buste. «Cara Giulietta, ho 89 anni» scrive un' anziana signora rimasta vedova e desiderosa di lasciare traccia della sua storia d' amore mai realizzata. Oppure «Cara Giulietta, sono Philipe e ho 17 anni». Ogni riga racconta di sogni, sentimenti, aspettative, ansie. Narra di occasioni mancate, di timidezze che sembrano insuperabili, di paura di rimanere da soli. E Giulietta risponde a tutti. O quasi. A prestarle penna e cuore sono le sue ambasciatrici dell' amore, un gruppo di volontarie che da anni legge le lettere e cerca di dare i consigli e le consolazioni più dolci. Ognuna di loro sa bene che non si scherza quando in ballo c' è il cuore e mai nelle risposte pecca di superficialità. Anche perché basta dare un' occhiata ai testi archiviati per lingua tra gli scaffali per scoprire che nel mondo ci sono ancora tante Giuliette moderne: ragazze pakistane costrette a matrimoni imposti dalla famiglia scrivono per raccontare la loro ansia di non potere amare mai davvero, giovani indiane confidano le lotte con le famiglie per smarcarsi da legami prestabiliti. Qualche anziana signora ha voluto inviare a Verona l' anello del marito morto da poco, il diario della propria storia d' amore di gioventù, le foto dell' ex fidanzato da dimenticare.
I PRIMI BIGLIETTI. La storia delle lettere a Giulietta risale al 1930, quando Ettore Solimani, il custode della tomba della giovane Capuleti partorita da Shakespeare, inizia a raccogliere i primi bigliettini che i turisti lasciano in cerca di consiglio e, commosso dal fenomeno, ha l' idea di rispondere diventando così il primo «segretario di Giulietta». Da quel giorno la tradizione va avanti ininterrottamente. Le lettere scritte con capilettera arzigogolati sono diventate mail e messaggi adornati di emoticons, ma l' amore raccontato resta sempre quello. Struggente, soffocato, negato, rimpianto. Negli anni il gruppo dei segretari dell' amore assume una forma sempre più ufficiale. Tanto che nel 1972 viene fondato il Club di Giulietta. L' idea viene a Giulio Tamassia, responsabile della comunicazione per l' azienda dolciaria Paluani, appassionato dei testi shakespeariani. All' inizio i volontari si ritrovano in una stanzetta concessa gratuitamente in una scuola di musica, poi si trasferiscono fuori dal centro. E ora che Tamassia è da poco scomparso, continuano la tradizione in una piccola sede concessa dalla Fondazione Cariverona. A continuare la tradizione di famiglia c' è Giovanna Tamassia che anni fa è «stata tirata in mezzo» dal padre nell' avventura delle lettere d' amore. All' inizio per tradurre alcune lettere dal tedesco, poi in ogni attimo libero. «Anni fa era tutto più gestibile - racconta lei, che oggi ha 55 anni e ha cominciato a rispondere per conto di Giulietta quando ancora era all' università - Arrivavano al massimo 200 lettere in un anno. Oggi le lettere sono infinitamente di più ma per fortuna i volontari non mancano. È da poco stata qui da noi una ragazza peruviana che si trovava in Francia per motivi di studio. Ci ha fatto compagnia per una settimana e ha voluto provare a lavorare nella nostra squadra». E l' ha fatto in uno dei momenti più delicati dell' anno: a breve si terrà il concorso Cara Giulietta, organizzato ogni anno per premiare le lettere d' amore più belle. «Le volontarie vanno e vengono ma tutte ci rendiamo conto che il nostro è un compito molto delicato - racconta Giovanna -. Molti ci scrivono dalle carceri, altri ci affidano confidenze molto molto intime. In qualche caso ci siamo anche preoccupate perché abbiamo riscontrato depressione e molta solitudine. E noi, che psicologhe non siamo, abbiamo imparato a consolare e incoraggiare, senza mai strafare ma tenendo sempre accesa la speranza. Come forse avrebbe fatto Giulietta. Ammetto che non tutti i giorni è semplice. Anche noi volontarie abbiamo i nostri umori e i nostri periodi alti e bassi nella vita. Ma una risposta la diamo sempre».
Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 4 febbraio 2020. Che dolcissima storia d' amore ha vissuto la instancabile, serena signora dai capelli bianchi che gira l' Italia per raccontare, perché nessuno dimentichi mai, mai, l' atrocità dei lager da cui lei, bambina ebrea uscì per ritrovarsi nel grande vuoto di dover reimparare a vivere senza mai dimenticare. Ma ad Alfredo Belli Paci, il marito che l' ha salvata anche da se stessa, Liliana Segre ha fatto una fatica enorme a raccontare le cose. «In realtà volevo godermi il nostro amore, pensare al nostro futuro insieme. Per la prima volta amavo e mi sentivo amata». Una storia d' amore davvero grande, unica, mentre forse non sono solitamente diverse dalle nostre le storie d' amore di chi ha l' ingombro della cultura, della fama, della creatività, di una professione che divora e che espone alla curiosità e al giudizio degli altri perché dell' amore se ne serve, e ne scrive, lo recita, lo canta, lo disegna, lo mette in scena, lo cura. Leggendo le 30 storie d' amore meravigliosamente scritte da Simonetta Fiori per Repubblica e adesso raccolte in La testa e il cuore (Guanda), credo di poter dire di no: il cuore, o forse il corpo, ragionano senza badare alla testa anche la più sapiente, mentre la testa, sapiente o no, può confondere, esaltare, distruggere allo stesso modo un cuore. Cioè sono quasi sicura che gli amori degli intellettuali non sono diversi da quelli di chi li sbeffeggia in quanto tali, o educatamente li ignora, preferendo affidarsi a quelli molto più vivaci di Belén o Harry: perché per tutti, gli amori sono fragili e difficili, impossibili e affidabili, litigiosi e muti, sublimi e distruttori, spericolati e clandestini, sadici e casti. Le persone che si sono qui rivelate ricordano amori d' epoca, quando le coppie, anche se clandestine, erano rigorosamente eterosessuali: le altre erano nebbia. Oggi fa parte della celebrità e del mestiere esibire sui social la propria vita privata sino a diventare influencer di sentimenti o erotismi colti, mentre al tempo di queste coppie tumultuose e no, si sapeva tutto ma solo in forma di sussurro, di battuta, di insinuazione: mai se ne sarebbe scritto e neppure parlato apertamente, perché faceva parte della fama anche dei trasgressivi, una vita borghese, moglie e piccini, oppure da incontentabile scapolone o signorina, per il resto, anche abbondante, silenzio. Ho conosciuto alcuni di questi uomini e donne importanti, ma quasi mai insieme, in quanto coppia. Forse solo il mio crudele e quindi da me temuto collega Giorgio Bocca con la mia colta e simpatica collega Silvia Giacomoni: che prendeva in giro il marito ogni volta che lui mi sollecitava a smettere i miei abiti frou frou per indossare quelli molto Bloomsbury della Silvia, e mi sgridava per il mio italiano tentennante obbligandomi a chiedere aiuto alla Giacomoni. Una cosa tra donne, insomma, tipico di un grande intellettuale che venera la moglie pur non apprezzando le femmine. Giacomoni ha avuto una vita bellissima con Bocca, e da quando lui si è spento otto anni fa rivendica «il diritto ad essere infelice perché ho perso un marito molto amato e molto rompiballe». Cioè si sente ancora in lutto, e devo dire che altre dalla perdita sono invece uscite acciaccate ma anche liberate: come Maria Jatosti, che ha pagato l' amore tormentato che le portava Luciano Bianciardi ed ora, novantenne, ancora bella ed energica, può dire «ne sono uscita a pezzi, completamente azzerata»; lui morto disperato e alcolizzato a 49 anni, lei vive da quarant' anni col poeta Paolo Memmo «che mi ha dato il rispetto e la tenerezza» che l' autore del magnifico La vita agra le aveva negato. In queste coppie supreme, più che nelle altre, c' è spesso una grande differenza d' età tipo il Maestro e l' Allieva: 17 tra Nadia Fusini e Beniamino Placido, 18 tra Giacomoni e Bocca, 20 tra Liv Ullman e Ingmar Bergman, 40 tra Chiara Rapaccini e Mario Monicelli, 44 tra Carmen Llera e Alberto Moravia. Si capisce quindi perché tra le 30 storie, luminose, crudeli, non sempre rimpiante, solo due riguardino un lui e una lei insieme (ma nel frattempo Raffaele La Capria ha perso la bella intelligente amatissima Ilaria Occhini), mentre sette riguardano uomini rimasti vedovi e tutte le altre, ventuno, signore più o meno in gramaglie. Quelle che erano quasi bambine, e magari la sapevano già lunga, raccontano della loro accanita responsabilità nel farsi accettare, amare, sposare da questi nonni celebri e stanchi che invano tentavano di scappare: e per esempio Chiara Rapaccini celebra Mario Monicelli così: «È stato autore della sua vita e della sua morte», e Llera ricorda Alberto Moravia come «l'unico uomo che mi ha preso anche se lui non ne è mai stato consapevole». Sono rimaste vedove presto non solo perché l' amato era tanto più anziano, ma perché le donne sono più accanite nel sopravvivere: e infatti Lina Wertmüller, 91 anni, ha parlato del suo amore per il marito Enrico Job, di sei anni più giovane, morto a 74 anni, 12 anni fa; e Piera degli Esposti, 81 anni, ricorda con furia e persino un po' di noia il compagno Alberto, 27 anni meno di lei, morto per un incidente d' auto dopo 14 anni di vita insieme; e pure la tuttora incantevole baronessa Beatrice Monti della Corte, 93 anni, continua a vivere e a promuovere le letteratura nella tenuta del Valdarno vissuta col suo grandissimo amore, l' apolide Gregor von Rezzori, che ricordo come gran bell' uomo, autore di un libro indimenticato che si dovrebbe rileggere, Un ermellino a Cernopol : «Grisha non voleva che diventassi una vedova noiosa e lugubre, e l' ho accontentato ». Le vedove non so perché hanno ricordi più vivi e spettacolari dei vedovi, per esempio Sultana Razon, che è stata una delle più belle ragazze della comunità ebraica milanese, anche lei scampata ad Auschwitz, pediatra adesso in pensione, ha vissuto una passione divorante e drammatica con il marito Umberto Veronesi, troppo affascinante, come grande chirurgo e come grande uomo, e quindi molto assalito dalle signore. «Era un irrefrenabile Don Giovanni e la gelosia ha reso infelice la mia esistenza. Lui mi ha sempre rassicurato dicendomi che erano solo scappatelle. Ma non è stato sempre così». C' è una coppia, finalmente un lui e una lei, che si palleggia i ricordi prendendosi in giro con la riconoscenza di chi sta insieme da quasi cinquant' anni continuando a scoprirsi, ed è quella composta dal silenzioso, timido, tuttora molto carino Francesco Tullio Altan con la bella brasiliana Mara Chavez, piena di vita e di allegria, di professione costumista; Mara: «Per me non fu un amore a prima vista. Anche perché ti vedevo poco, Checco. Tra barba scura, baffoni e una cascata di capelli Se fu lui a scegliere me? Difficile dirlo». Francesco: «Beh, io ti ho assunta».Le persone che si sono rivelate a Simonetta Fiori erano, sono, almeno apparentemente, tradizionali, anche se clandestine, cioè eterosessuali: le altre erano nebbia. Adesso è un po' l' opposto, paiono più interessanti i coniugi dello stesso sesso soprattutto se ambedue appartenenti al mondo della cultura: docente universitario e antiquario, scrittore e stilista, addetto stampa e ballerino, tenore e scenografo, filosofo e archeologo, psicoanalista e scrittore e ci vorrebbe quindi un nuovo intervento di Simonetta per tenerci al corrente delle gioie e dei drammi delle nuove coppie che paiono più solide, ed addirittura di più, di quelle tradizionali con mamma e papà.
· Quell’irrefrenabile bisogno di costruire il nemico.
Quell’irrefrenabile bisogno di costruire il nemico. Catarsi o propaganda? Daniele Zaccaria il 5 gennaio 2020 su Il Dubbio. E se questa cupa processione di forche, questa esultanza scomposta per un brillìo di manette, questo sangue che scorre sotto l’applauso ammorbante del “popolo”, questo tutti contro uno ( o contro pochi) non fosse altro che un rito catartico, un esorcismo collettivo per placare gli istinti violenti della comunità? Il giustizialismo non è soltanto una cultura propagandata e codificata dall’alto, non è solo cinica manutenzione degli spiriti indignati da parte delle élites o dei tribuni della plebe, ma anche una forza primordiale che viene dal basso e che risponde a una precisa condizione psicologica, qualcosa che attiene alle pulsioni profonde degli esseri umani e alla loro vita collettiva. Individuare una vittima all’interno di un gruppo ( popolo, etnia, scuola, squadra, famiglia, setta) per poi spingerla ai margini di quel gruppo permette di convogliare la violenza endemica verso un obiettivo esterno, che sia esso un individuo o una minoranza di individui, un politico corrotto o un immigrato clandestino. E non importa se siano colpevoli o innocenti, poiché la logica tribale del sacrificio è estranea alle precisioni e alle sottigliezze del diritto. La maggioranza ha bisogno di emettere una condanna per mondare se stessa da ogni colpa: è lo schema classico del capro espiatorio. Nelle società moderne la costruzione del capro espiatorio avviene nell’intreccio malsano tra la propaganda dei governi e i pregiudizi popolari, tra manipolazione ideologica e credenze striscianti. Il caso più famoso è l’Affare Dreyfus, l’ebreo alsaziano ufficiale dell’esercito accusato ingiustamente di spionaggio e alto tradimento che ha rappresentato per la società francese di fine Ottocento il colpevole ideale; per dirla con le parole di Georges Clemenceau «Dreyfus è il capro espiatorio del giudaismo sul quale convergono e si accumulano tutti i presunti crimini precedentemente commessi dagli ebrei». Ebrei traditori, zingari, omosessuali, kulaki, minoranze etniche, oppositori politici, ma anche sovrani decaduti, banchieri, massoni, re Mida globali, kasta, ciò che caratterizza il capro espiatorio sono le sue qualità estreme; estrema povertà, estrema ricchezza, estrema bellezza o bruttezza, estrema distanza o vicinanza dal gruppo che lo respinge o lo scaccia via. Come fa notare l’antropologo e filosofo francese Réné Girard autore del celebre Le bouc émissaire ( 1982), probabilmente lo studio più approfondito sul concetto di capro espiatorio, «il rito sacrificale non è altro che la replica del primo linciaggio spontaneo che riporta l’ordine all’interno di una collettività. Attorno alla vittima sacrificata la comunità trova pace, producendo una specie di solidarietà nel crimine». Il sacrificio è dunque violenza legalizzata e funzionale all’equilibrio sociale del gruppo, in particolare nei momenti di crisi ( carestie, guerre, epidemie, conflitti sociali). Nella Bibbia ( Levitico) il capro sacrificato deve placare l’ira di Dio, è un animale scelto a sorte su cui però converge il biasimo di tutta la comunità, in realtà, sottolinea Girard, la bestia viene uccisa affinché tutti possano mondarsi dei propri peccati e non per paura di una reale ritorsione divina. L’aspetto religioso non è altro che il contenitore simbolico, l’involucro di un’espiazione tutta umana. Un tratto talmente interiorizzato e trasmesso nel corso della storia che spesso chi viene colpito dalla vendetta del gruppo accetta docilmente il suo destino senza ribellarsi, giocando il ruolo di vittima consenziente. Le tecniche di manipolazione, la semplice prostrazione degli individui nei confronti del potere inquisitorio, la sproporzione di mezzi tra accusa e difesa rendono tutti noi dei potenziali Benjamin Malaussène, il surreale personaggio inventato dallo scrittore Daniel Pennac, direttore tecnico di un grande magazzino nonché “capro espiatorio di professione”. Nella mitologia classica la prima vittima consenziente è Edipo, l’incestuoso e parricida Edipo, che accetta senza battere ciglio il verdetto ottuso dei tebani i quali lo credono colpevole di aver portato in città un’epidemia di peste; vittima di una mistificazione, Edipo è un innocente perseguitato dal pregiudizio popolare. Le sue parole remissive, la sua stoica accettazione di una colpa che non ha commesso equivalgono a una confessione estorta sotto tortura nella cella buia di un commissariato. Questo tratto di vittima consenziente emerge ancora di più nel sacrificio di Cristo nel Nuovo Testamento che in fondo svela apertamente questo meccanismo di autoassoluzione collettiva alle spese del più debole, ‘ l’agnello di Dio’, letteralmente capro espiatorio umano- divino, afferma di sacrificarsi per salvare il genere umano ma allo stesso tempo si dichiara innocente, accetta il martirio non perché è colpevole di lesa maestà ma perché sa che c’è bisogno di un colpevole per interrompere il circolo vizioso della violenza. Per un breve tratto però, perché la società contemporanea sostituisce rapidamente i suoi bersagli, sempre alla ricerca di nuove vittime, di nuovo sangue da far scorrere per placare la rabbia repressa e alienata delle maggioranze. La rete da questo punto di vista è un formidabile moltiplicatore dell’indignazione popolare e di conseguenza della calunnia corale. Diffamare qualcuno senza nessuna prova, additare un comportamento ritenuto non conforme alla volontà del gruppo, perché infedele, osceno, immorale, evocare complotti e cospirazioni da parte di misteriosi burattinai o di fantomatiche spectre del crimine planetario, significa aver continuamente bisogno di costruire capri espiatori diversi, in una ricerca spasmodica che diventa fine a se stessa, generando una società di inquisitori frustrati e di vittime designate.
· L'anziano tolga il disturbo.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 25 giugno 2020. Era opinione diffusa che dopo l'esperienza drammatica del Covid, gli italiani sarebbero diventati più buoni, disponibili nei confronti del prossimo, meno aggressivi. Come spesso avviene, le previsioni ottimistiche si sono rivelate false. Stando alla ricerca di un ente importante, il CENSIS, in realtà gli abitanti della penisola, soprattutto i giovani, sono incazzati neri. E la loro rabbia colpisce in particolare le persone di una certa età, che a loro giudizio hanno rotto l'anima, pretendendo di essere assistiti e strappati alla malattia. Come dire: sarebbe stato meglio lasciare che crepassero, riservando ogni cura, per altro costosa, a chi era sotto i 40 anni, cioè gente più utile, in grado di contribuire allo sviluppo del Paese. Insomma i vecchi rompono le balle a chi vecchio non è benché speri di diventarlo a costo di cambiare parere una volta incanutitosi. Lo studio sociologico è pieno zeppo di percentuali che dimostrano ciò che abbiamo già scritto, ma noi vi risparmiamo le cifre, talmente incasinate da complicare il discorso e renderlo oscuro. Il punto è questo. Gli anziani sono avversati poiché in molti casi godono di un buon reddito, assai superiore a quello dei ragazzoni, dispongono di abitazioni ampie e comode, mantengono i figli, i quali si sentono umiliati dal fatto di dipendere dai genitori. Essi in pratica preferirebbero che papà e mamma andassero all'altro mondo, magari con l'aiuto del virus, e consegnassero loro in eredità i propri beni non trascurabili. La sensazione è che l'odio sociale si stia estendendo alle famiglie, e questo non giova alla concordia necessaria ai fini di favorire una esistenza tranquilla tra le mura domestiche. Il conflitto tra generazioni è alimentato prevalentemente dal potere economico dei vegliardi e dalla loro capacità di spesa. In pratica succede tra babbi e mamme e i loro discendenti quello che accade tra le diverse classi sociali: i ricchi sono invidiati, e l'invidia è il motore della vendetta. Purtroppo è così. Per cui non sorprende che a seguito della pandemia si siano accentuati taluni attriti determinati da vari motivi: l'isolamento, l'impossibilità da parte dei giovanotti di sfogare fuori di casa le loro pulsioni, la costrizione inflitta a chiunque di non vivere normalmente si sono presto trasformati in una sorta di risentimento dei più freschi verso chi li ha generati. Pure la tutela della salute, secondo i nostri ex bambini, è stata eccessiva a favore dei nonni, troppo salata, e ciò ha sottratto risorse ai signorini bisognosi di guadagnare di più, magari alle spalle di coloro che hanno prodotto e producono maggiormente. Viva i vecchi.
L'anziano tolga il disturbo. Panorama il 26 dicembre 2019. Nessuno rispetta più i vecchi, colpevoli (secondo Greta) delle peggio cose. Eppure aiutano figli e nipoti, non solo con le pensioni. Né Greta né gretino. Ma nemmeno cretino. Anche se tutti ormai lo trattano così. Se dovessi scegliere il personaggio dell’anno, ebbene, non sceglierei la 16enne svedese ma l’Anziano italiano. Anziano con la a maiuscola, perché gli si deve rispetto. Almeno qui. Dalle altre parti, infatti, in questi ultimi 12 mesi lo hanno attaccato tutti: gli hanno detto che ha rovinato il mondo, che è colpevole dell’inquinamento del pianeta, che ai suoi nipoti ha dato troppo benessere, però che nello stesso tempo è stato anche troppo avaro, che sta rubando i soldi delle pensioni, che sta rubando il futuro, che non deve votare, che non sa pensare al domani e che è un maledetto egoista. Come dimostra il fatto che non ne vuol sapere di morire. Avete ascoltato i telegiornali? C’è il «problema della popolazione che invecchia», dicono. Ma sicuro: il fatto che nonno non si decida a tirar le cuoia è un «problema». Non è un’opportunità. Il vecchietto dove lo metto, cantava già Domenico Modugno tanti anni fa. Figurarsi ora. In alcuni ospizi hanno pensato bene, negli ultimi tempi, di accelerare le pratiche: le telecamere mostrano quasi quotidianamente casi di maltrattamento, una su tre offre cibo scaduto o servizi insufficienti. Che cosa non si fa per risolvere il problema dell’invecchiamento della popolazione. Si accompagna l’Anziano direttamente al cimitero. Non si dice, non sta bene dirlo, ma in molti ospedali la domanda è ormai di routine: conviene ancora curarlo? Alla sua età? Con quel che costano oggi le terapie? Anche la tanta invocata eutanasia, in fondo, può essere un sistema pratico per la risoluzione del solito problema, quello dell’invecchiamento della popolazione. Ci vuol niente, in fondo, a far sentire un anziano un peso. Un elemento di disturbo. Fonte di tensioni in famiglia. Se venisse legalizzata l’eutanasia chissà quanti nonni si farebbero da parte per sempre. Un’iniezione e via: la sanità non dovrà spendere troppi soldi per le cure, la famiglia non dovrà affannarsi a pagare la retta della casa di riposo, e l’anziano potrà chiudere gli occhi con tanta sofferenza nel cuore ma la convinzione di aver dato l’ultimo aiuto ai suoi cari. «Almeno dimostro di essere ancora utile a qualcosa». Ma vi pare possibile? Eppure è così. Chi ha lavorato una vita per costruire questa società ora si sente considerato dalla medesima società come un avanzo di panettone da buttare in pattumiera. L’Anziano oggi è colpevole di tutto. «Come avete osato distruggere il pianeta?», ha urlato all’Onu Greta, conquistandosi così i galloni di personaggio dell’anno del Time. «Come avete osato andare in pensione?», ripetono ogni giorno i centri studi economici, rilanciati dai giornaloni. Ma la prima dimentica che gli anziani questo pianeta non lo hanno distrutto: l’hanno ricostruito, pezzo a pezzo, mattone dopo mattone, passando attraverso devastazioni e tragedie e senza perdere mai la fiducia nel futuro. E i secondi dimenticano il piccolo particolare che, per chi ha lavorato 35 o 40 anni, la pensione non è un regalo. È un diritto conquistato con il sudore della fronte. Eppure niente. Tutti a sciogliersi per i giovani del venerdì gretino. Tutti a emozionarsi per i giovani delle sardine. Invece se viene calpestato l’Anziano non importa niente a nessuno. Ma sì: l’Anziano si può calpestare, bastonare, prendere a calci nel sedere, si può lasciare in attesa per ore all’Asl, si può spremere con le tasse, con la bolletta che aumenta, si può umiliare con aumenti ridicoli da 25 centesimi al mese o mettere in difficoltà con l’imposizione del bancomat anche per comprare due pomodori al mercato. Nessuno dice nulla. Chi se ne importa dell’Anziano. Si può addirittura considerarlo indegno di votare, come ha suggerito il leader di uno dei partiti al governo in Italia. Chiaro, no? L’Anziano va bene quando deve pagare le tasse. Va bene quando deve sostenere la famiglia con i suoi risparmi. Va bene quando deve passare la paghetta al nipote ventenne, magari pure al figlio quarantenne, però non deve votare. Deve star zitto. E, se fosse possibile, deve pure morire lasciando quel che gli resta dei risparmi in eredità ai giovanissimi. I quali, così, possono andare in giro in un mondo che li ha allevati nella bambagia a dire che questo mondo fa schifo. Che ci vuoi fare? Sei proprio fuori moda, caro Anziano. E per questo ho deciso di sceglierti come mio personale personaggio dell’anno. Forse in tutta la vita non hai fatto le crociere che ha fatto quest’anno Greta e non sei andato in barca come quelli che la osannano. Però, in compenso, hai remato assai più di tutti loro. Grazie.
Diodato Pirone per “il Messaggero” il 19 febbraio 2020. «I figli invecchiano. Ma non invecchiano loro. Invecchiano te. I figli ti invecchiano perché passi le giornate curvo su di loro e la colonna prende per buona quella postura; perché parli lentamente affinché capiscano quel che dici e questo finisce per rallentare te; perché ti trasmettono malattie che il loro sistema immunitario sconfigge in pochi giorni e il tuo in settimane; perché ti tolgono il sonno per sempre. Assonnato e curvo, lento, acciaccato, sei nella terza età. I figli ti invecchiano anche perché quando arrivano al mondo mettono fine, con violenza inaudita, a quella stagione di aperitivi feste e possibilità che ti sembravano il senso stesso della vita». E' l'inizio del monologo di Mattia Torre sullo choc che travolge una coppia quando arrivano i figli: dopo un successo clamoroso sui social, è diventato un film, con Valerio Mastrandrea e Paola Cortellesi. Mojito addio, benvenuti pannolini insomma. Una chiave di lettura che ai nostri padri e madri non sarebbe mai venuta in mente, ma che fa riconoscere l'intera generazione di mezzo - quella dei 25-44enni - che in Italia, lo ha drammaticamente confermato l'altro giorno l'Istat, ha smesso di fare figli. Solo una ragione socio-economica, come si tende a pensare? Un Paese per vecchi, che non sostiene in alcun modo le giovani famiglie? Anche, ma non solo, come conferma il sondaggio Swg che pubblichiamo in queste pagine. Il dato più eclatante è che il 15% di coloro che hanno figli non li rifarebbe ma il bello è che questa percentuale sale al 22% (ovvero a quasi uno su quattro) nella fascia d'età fra i 25 e i 44 anni, ovvero fra coloro che i figli li dovrebbe sfornare sul serio. Non è corretto, tuttavia, descrivere gli italiani come gente insensibile al tema. Anzi. Lo stesso studio dell'Swg ci racconta che il 67% degli intervistati, una larga maggioranza, pensa che «senza un figlio la vita di una persona è incompleta». Anche su questo punto però coloro che si collocano nella fascia 25/44 anni sono molto più tiepidi e scendono al 57%. Il vero nodo che la ricerca mette in rilievo è che gli italiani non pensano che la crisi demografica sia un'emergenza. Nonostante gli allarmi sempre più dirompenti dei demografi e degli economisti secondo i quali una delle ragioni del declino italiano sta proprio nella riduzione della vivacità intellettuale determinata dall'invecchiamento della popolazione, solo il 33% degli intervistati ritiene che il «calo demografico sia una priorità da affrontare». Manco a dirlo questa percentuale crolla al 24% fra chi ha 25/44 anni. Addirittura il 27% del totale degli intervistati sostiene che «il problema non è grave» e questa percentuale si impenna al 36% fra i più giovani. Ma perché gli italiani sottovalutano in modo così evidente il tema del crollo delle nascite? La risposta non è semplicissima. La ragione più diffusa per la riduzione del numero dei figli che viene data dal campione Swg è l'insicurezza economica. Una ragione condivisa dal 66% degli intervistati e dal 74% di chi, fra costoro, non ha figli. La seconda ragione (62%) sarebbe la precarietà lavorativa (70% fra chi non ha figli). Altre motivazioni alla crisi demografica sono meno popolari. Si va dalla mancanza di servizi per la famiglia che viene trovata convincente dal 35% degli intervistati al 29% che trova troppo difficile conciliare la vita lavorativa con quella famigliare, al 15% che risponde seccamente che «fare un figlio comporta troppi sacrifici a livello personale». Altre motivazioni sono poco condivise ma spicca un 10% di intervistati che si lamenta perché la «propria rete familiare darebbe uno scarso supporto alla cura del bambino». Un altro 10% addossa la responsabilità della crisi demografica italiana alla maggiore indipendenza delle donne che ne ha ridotto l'interesse a fare e seguire i figli. Infine sul che fare per favorire l'incremento delle nascite ben tre risposte (il sondaggio permetteva tre scelte) superano quota 40: concedere maggiori sgravi fiscali alle famiglie con figli; rendere i servizi per i bambini economicamente accessibili e creare più servizi per la famiglia. Il 43% delle coppie senza figli chiede però una maggiore flessibilità suglim orari di lavoro.
Giacomo Galeazzi per “la Stampa” il 19 febbraio 2020. Analisi secca, senza sfumature: «Per riempire le culle non bastano bonus o asili nido gratis. Bisogna lavorare sul tessuto sociale e ricostruire un'idea di comunità». Il sociologo Giuseppe De Rita, fondatore del Censis ed ex presidente del Cnel, attribuisce il crollo delle nascite a «una dinamica culturale malata». Prende in mano i dati sulla natalità a partire dagli anni 70 e li mette a confronto con quella che chiama la «cetomedizzazione» dell'Italia.
Qual è la tendenza in corso?
«In Italia la denatalità è un dato ormai strutturale. Ciò provoca un danno anche economico. Per anni la dottrina tradizionale riteneva l' elevata natalità un moltiplicatore delle possibilità di povertà».
Poi cosa è cambiato?
«Ora la prospettiva sociologica si è capovolta: la denatalità diminuisce la ricchezza sociale attraverso effetti negativi sulla mobilità economica e sulla psicologia collettiva. Le culle sempre più vuote sono il risultato di un Paese impaurito, ripiegato sul presente, incapace di pensare al futuro».
Problema solo culturale?
«Non solo. C'è un narcisismo di massa che fa temere al ceto medio un progressivo impoverimento. Non si è più disposti a fare sacrifici per proiettare in avanti, attraverso i figli, le proprie speranze. Il crollo delle nascite nell' ultimo decennio sarebbe stato ancora più verticale se l' Italia non avesse goduto dell' effetto compensatorio della fecondità delle straniere».
Cosa deve fare la politica?
«C'è un quadro di incertezza occupazionale ed economica che contribuisce a una profonda revisione anche dei modelli culturali relativi alla procreazione. E' un paradigma sociale segnato dalla tendenza a rinviare i momenti di passaggio alla vita adulta, soprattutto la scelta coraggiosa di diventare genitori».
Qual è l'alternativa?
«Si preferisce divertirsi o mettere da parte risorse in vista di qualche investimento o nel timore di esigenze future. Quello che entra in cassa viene messo a risparmio invece che a consumo. Fare figli è ritenuto un salto nel buio».
Quanto ha inciso la crisi economica di questo decennio?
«La crisi ha pesato su tutto, anche sulla voglia di avere figli. Ma non è detto che le coppie sarebbero più propense ad allargare la famiglia se migliorassero gli interventi pubblici. E' un problema più profondo, di mentalità e di dittatura dell' io. Una società che non sa più dire "noi" non fa figli. Si è perso l' equilibrio nei rapporti sociali necessario per stare bene insieme, uno accanto all' altro. Per uscire dall' inverno demografico occorre rimboccarsi le maniche. Servono umiltà, volontà di fare, capire, migliorarsi. Altrimenti è la decadenza».
Cosa è cambiato dal 2008?
«Il ceto medio di natura impiegatizia ha peggiorato la propria condizione, si è precarizzato e ha introiettato insicurezze e rabbia che prima non aveva. Invece di un salto di qualità c' è stato un balzo all' indietro generalizzato».
E ciò a cosa è dovuto?
«L'egolatria dei social riduce gli orizzonti mentali e impedisce di accettare la sfida della genitorialità. Sono cresciuti timori, risentimento, autoreferenzialità. Tutti dicono che in Italia non c' è più un euro, ma non è vero. Aumentano i depositi bancari, le polizze vita, il risparmio nei fondi d' investimento, i soldi provenienti dall' economia sommersa e nascosti nel materasso. Lo conferma il fatto che in giro sono introvabili le banconote da 200 euro. Se non si fanno figli è soprattutto perché non si vuole ridimensionare tenore di vita, abitudini e comodità. I figli costano e obbligano eterni Peter Pan a uscire da loro egoismo». ».
Tanti vanno all'estero...
«Le nuove generazioni, quelle in età fertile, vanno a studiare o lavorare all' estero e lasciano il Paese al suo declino. La metafora della mucillagine rende bene l' idea: monadi scomposte che si riaggregano in poltiglie indistinte, senza un collante che le unisca in nome di un bene comune o di un progetto familiare. Non c' è più la speranza di migliorare, di crescere».
«L’amicizia con Marconi, la perdita di Marchionne. Il mio secolo italiano». Pubblicato sabato, 22 febbraio 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. Per capire cosa sia stata Torino e cosa sia stata — e non sia più — la borghesia italiana, bisogna venire alla Crocetta nella casa al pianterreno di Marida Recchi: donna di impresa e di filantropia, testimone di un secolo di storia del nostro Paese.
Signora, lei è nata 102 anni e tre mesi fa.
«Nei giorni della rotta di Caporetto».
Aveva cinque anni quando il Duce prese il potere.
«Ricordo la sua voce alla radio. All’inizio parlava con un terrificante accento romagnolo; poi affinò la dizione. Era un bravo oratore. Ma non aveva viaggiato abbastanza e non conosceva gli Stati Uniti. Altrimenti non avrebbe fatto la guerra».
Ricorda anche Hitler?
«Andai a Berlino per le Olimpiadi del 1936, ma non vidi né lui né Jesse Owens. Incontrai però Ondina Valla, prima della finale degli 80 metri a ostacoli. Le dissi: “Abbiamo sentito tanti inni, ma non ancora l’inno italiano...”. Vinse clamorosamente e grazie a lei ascoltammo la Marcia Reale all’Olympiastadion, uno stadio meraviglioso. Era la prima volta che una donna italiana conquistava una medaglia d’oro olimpica».
Com’era il clima?
«L’organizzazione tedesca era perfetta. Avevo studiato il tedesco, amavo la loro cultura, anche se ovviamente non i nazisti di cui ancora si capiva poco. Eravamo prima dell’Anschlüss. Pensavamo che non avrebbero scatenato la guerra».
Ha altri ricordi della Germania?
«Studiavo in Westfalia, avevo 15 anni, con le amiche andavamo in bicicletta a trovare il farmacista, che ci regalava le caramelle. Durante l’occupazione nazista mio marito, che aveva ereditato da suo fratello l’azienda di costruzioni, aveva bisogno di permessi anche solo per uscire di casa. Siccome parlo tedesco, andai io ad affrontare il responsabile della piazza di Torino, colonnello Brinken. Entrai nel suo ufficio e sentii la sua voce chiamarmi con il mio cognome da ragazza: “Fräulein Acuto...”. Era il farmacista. Ottenni i permessi».
È vero che lei ha conosciuto Guglielmo Marconi?
«Sì. Mio padre era chimico e frequentava la società scientifica dell’epoca. Di alcuni scienziati era diventato grande amico: non solo del promettente Giulio Natta, che avrebbe poi vinto il Nobel nel 1963, ma anche di Marconi. Ci vedevamo d’estate in Val Gardena, era con sua figlia Elettra e con la seconda moglie Cristina, per poterla sposare si era rivolto al Papa. Era un conversatore brillantissimo».
Ricorda il Grande Torino?
«Certo. Ero e sono molto tifosa del Toro. Quand’ero ragazza la Juve non toccava palla: un periodo meraviglioso. Quando il Toro è morto fu un dolore terribile per tutti. Ero amica di Renato Casalbore, il fondatore di Tuttosport, anche lui caduto con la squadra a Superga. Andavo al Filadelfia a vedere la partita. La prima volta portavo un cappello con delle ciliegie: nella ressa qualcuno me lo fece volare via. Ora che ci ripenso, non aveva torto».
Perché?
«Perché andare al Filadelfia portando un cappello con delle ciliegie era francamente una sciocchezza».
Com’erano i cantieri in Africa?
«Affascinanti e grandiosi. Città temporanee da migliaia di abitanti. Ferraioli veneti, carpentieri piemontesi, e molti operai del posto, che chiamavano i figli con nomi immaginifici, tipo Caterpillar e Signorgeometra. Lavoro duro, fatto con il gusto di costruire, di lasciare qualcosa dietro di sé, di fare della Libia, del Sudan, dell’Etiopia un posto migliore».
In Etiopia lei incontrò l’imperatore Hailé Selassié.
«Era molto piccolo, e girava con cani piccolissimi. Una figura ieratica, dagli occhi mobili. Parlavamo in francese. Toccava a lui prendere la parola, ma la moglie francese di Rinaldo Ossola, direttore generale della Banca d’Italia, non lo lasciava parlare. Si arrabbiò. Il giorno dopo la fece contattare dal primo segretario».
Per chiederle scusa?
«No, per ribadire che aveva ragione lui, e chiedere soldi per l’Etiopia a Bankitalia. Quando Menghistu lo depose con un colpo di Stato militare, aiutammo alcuni nipoti a fuggire negli Stati Uniti. Purtroppo la più grande, la principessa Igigaeiù, mia cara amica, finì in carcere. E nelle carceri di Menghistu non c’era cibo: i detenuti mangiavano quel che portavano i familiari; ma i suoi familiari non c’erano più. Così la principessa morì di fame».
La vostra azienda di famiglia ha fatto i viadotti dell’Autostrada del Sole.
«Sì. L’Autostrada del Sole è stata un’operazione titanica, che tutto il mondo ha ammirato. Le migliori imprese sono state coinvolte in centinaia di lotti, chiamarono i migliori progettisti e ingegneri italiani, orgogliosi di contribuire a questo progetto collettivo che univa il Paese. Era un’Italia in crescita, che aveva fiducia in se stessa. Uscivamo da una tragedia. All’inizio il lavoro mancava, eravamo un Paese povero, ma c’era questa grande spinta a ricostruire, a ripartire. Il nostro primo incarico dopo la Liberazione fu in Grecia».
Come mai?
«Riparazione dei danni di guerra: dovevamo costruire, con altre imprese, tre dighe. Con mio marito Giuseppe vivevamo in una baracca, che ingentilivo con qualche fiore».
Come ricorda l’Avvocato Agnelli?
«Telefonava alle 6 e mezza del mattino e chiedeva di mio marito, che chiamava con il suo soprannome, Pèpolo. Lo ammirava e un po’ lo invidiava: aveva avuto l’età giusta per fare la guerra di Spagna, mentre Gianni era troppo giovane».
Suo marito combatté in Spagna con Franco?
«Nell’aviazione. L’Italia aveva dato il suo supporto e mio marito si trovò a far parte della Squadra dei caccia, la Cucaracha. Volavano su Fiat CR42: scatolette di legno, bussola con l’acqua per indicare il Nord, l’anemometro per segnalare la velocità».
Dove vi siete conosciuti?
«A Bolzano. Ero infermiera volontaria della Croce Rossa. In ospedale curai suo fratello, ferito a un braccio, che gli parlò di me. Venne per conoscermi, ma rimase chiuso in macchina, senza alzarsi. “Ferito di guerra?” lo apostrofai».
Lei fondò l’associazione che portò in Italia il vaccino antipolio. Ha conosciuto Albert Sabin?
«Certo. Era un ebreo polacco, parlavamo in tedesco. Era un grande filantropo: non brevettò mai il suo vaccino, perché tutti i bambini del mondo potessero ricevere questo suo dono. Ed era pure un igienista: mi suggeriva di non stringere mai la mano a nessuno, semmai di baciarlo ma senza toccargli le guance, baciando l’aria, così. Stava lavorando a un vaccino contro il morbillo per i Paesi africani, ma diceva che con i vaccini bisogna essere prudenti, bisogna prima studiare».
Vedo una foto con Romiti.
«Sua moglie era una delle mie migliori amiche. Ma la prima volta che Cesare venne a casa nostra feci una gaffe. Preparai in suo onore la fonduta con il tartufo; lui detestava sia i formaggi, sia il tartufo. Così gli preparai due uova strapazzate».
Lei ha anche una foto con Marchionne.
«Una persona speciale, anche molto affettuosa. Per Torino è stata una grave perdita».
Fanfani frequentava la sua casa di Portofino.
«Veniva a dipingere, e ci lasciava i suoi quadri. A casa nostra incontrò Maria Pia. Lei rimase stregata e ci annunciò: “Sposerò quest’uomo”. Lui all’inizio pareva indifferente. Quando regalò il primo quadro pure a lei, capimmo che si era innamorato. Tre mesi dopo erano marito e moglie».
E Gheddafi com’era?
«Un grande personaggio. Con Jallud presero in mano la Libia che avevano vent’anni. Jallud strinse un forte legame con mio figlio Enrico, che seguiva i lavori in Africa. In quegli anni la Libia ebbe una straordinaria importanza per il nostro Paese, ricordo il clamore che suscitò il suo ingresso nel capitale della Fiat. Il modo in cui hanno ucciso Gheddafi è stato una barbarie».
E Craxi?
«È stato un grande amico, sono anche andata ad Hammamet ai suoi funerali. Parlava benissimo. Voce da oratore. Quando mio figlio Enrico morì in un incidente aereo arrivò a casa nostra di notte, piangendo».
Anche suo figlio era un aviatore?
«Un operaio veneto ebbe un incidente in cantiere in Africa, perse un braccio. Enrico caricò l’operaio sul suo aereo, decollò di notte da una pista illuminata dai fari del camion, con il braccio a bordo, e al Cto di Torino con un intervento straordinario riuscirono a ricucirlo. La nostra impresa credo sia stata una po’ unica: una grande famiglia unita nel condividere le difficoltà dei cantieri e quelle della vita privata. In questo senso ho sempre cercato di aiutare mio marito nella sua attività di imprenditore».
Com’è la vita a 102 anni compiuti?
«Una barba. È terribile non avere un futuro. Non poter fare progetti. L’unica aspettativa che posso coltivare è arrivare viva a fine giornata. Badando a non cadere».
Come immagina l’Italia tra vent’anni?
«Spero che investa nella cultura e nella formazione dei suoi giovani. I riferimenti al passato non sono inutili, per capire le motivazioni che hanno costruito il nostro Paese. Io ho vissuto in un’epoca ricca di ideali. Ricordo un’Italia senza infrastrutture né energia, che si è costruita grazie a un popolo capace di orgoglio e sacrificio. Un popolo che ha compiuto cose straordinarie, che ha fatto di una nazione divisa la quinta economia del mondo».
Ma qual è il segreto della longevità? Mangiare poco? Fare molto sport?
«Faccia sport, se le piace. Eviti le abbuffate. Legga: io ho sempre dormito poco e leggevo un libro ogni notte, ora purtroppo non riesco più. E coltivi il suo cuore. Io a cinquant’anni mi ero convinta di essere cardiopatica, mi dispiaceva morire anzitempo e lasciare solo mio marito. Così sono andata da un grande luminare svizzero».
E lui?
«Mi tranquillizzò: non ero così grave. Però aggiunse: “Certo, non scambierei mai il suo cuore con il mio”».
Anche il luminare svizzero è centenario?
«Morì due mesi dopo. Il mio cuore invece è ancora qui».
Luna Mancini per “Libero quotidiano” il 25 gennaio 2020. Un business regolare da 6,9 miliardi di euro, un altro parallelo e sommerso, dove girano altrettanti soldi. In tutto fanno una quindicina di miliardi di euro, un volume di affari che oggi coinvolge in Italia quasi due milioni di lavoratrici per lo più straniere, tra badanti e colf. E siccome nel nostro Paese le culle sono sempre più vuote e il popolo dei capelli bianchi aumenta, c' è chi ha pensato bene di farci affari e di aprire agenzie, cooperativo sociali o addirittura franchising, per la gestione e collocazioni delle badanti. A Modena, per esempio, pochi giorni fa ha aperto la diciannovesima filiale della agenzia "Gallas", che nelle quattro regioni coperte al centro nord, conta un giro di 5mila cosiddetti profili di lavoratrici in carico. «Sono badanti che vengono per lo più dai Paesi dell' Est» spiega Alberto Gallas, titolare dell' agenzia insieme al fratello Lorenzo. Romania, Albania, Ucraina, ma anche Asia, centro e nord Africa, Sudamerica. «Molte di loro sono disponibili ad assistere parenti bisognosi nelle famiglie 24 ore su 24, e guadagnano in media 1100 euro al mese, vitto e alloggio incluso. Se si tratta invece di ore, siamo sull' ordine dei dieci euro come una colf. Ciascuna si ferma circa dodici mesi in una famiglia. Solitamente se ne va quando muore l' assistito. Le italiane? Quelle H24 sono pochissime, da noi neppure il 2%». La badante, come la colf, si rivolge all' agenzia per cercare lavoro. In questo caso deve presentare almeno tre esperienze di impiego e fornire i singoli numeri di telefono per le verifiche del caso nelle precedenti famiglie ospitanti. Se il suo profilo è soddisfacente, nel giro di poco verrà chiamata e collocata, a seconda delle esigenze. Non paga nulla. La famiglia che invece chiede assistenza per un parente, quando si rivolge a una agenzia paga dai 100 ai 400 euro per la selezione del profilo. Gli vengono presentate così diverse persone e sceglierà quella che ritiene più consona alle proprie necessità. In più, ogni mese versa dai 30 ai 60 euro per il servizio che comprende anche la parte burocratica relativa all' assunzione delle lavoratrici. «In questo modo garantiamo alle famiglie una assistenza costante», aggiunge Gallas, «se una badante non va bene siamo sempre noi che la sostituiamo, e ad ogni modo ci facciamo carico di ogni problematica che può nascere tra lavoratrici e famiglie quando queste ultime offrono il proprio supporto nella cura di anziani». Secondo le ultime statistiche Inps, tra colf e badanti si ritrova la più alta percentuale di lavoro nero e irregolare (il 37% secondo il Censis, mentre secondo un' indagine campionaria di Iref/Acli, il 57% svolge il proprio lavoro completamente o in parte senza contratto); per lo più viene dichiarato un numero di ore inferiore a quelle effettivamente prestate (nei due terzi dei casi secondo una ricerca di Irs/Caritas Ambrosiana). Esiste poi un vero e proprio vademecum per assumere una badante. «Tra le cose da non fare», dicono in tanti in coro, «affidarsi al passaparola, pubblicare annunci per la ricerca, etc Meglio prendere una che conosci, che ha già badato un genitore scomparso di un amico, oppure rivolgersi a specialisti del settore». Chi gestisce le centinaia di agenzie o cooperative sociali sparse per tutta Italia con una distribuzione davvero ridotta al sud, ha imparato a conoscere vizi e virtù delle straniere che assistono anziani. Per esempio, una caraibica o sudamericana ha un carattere solitamente più allegro e quindi viene consigliata in casi di Alzheimer; le signore dell' est hanno mediamente un carattere più rigido che permette loro di essere più ordinate e attente. Infine i filippini solitamente hanno un alto grado di onestà e sono quindi fidati. Ma c' è anche chi, forte di esperienza, ha un' idea piuttosto pessimista dell' assistenza agli anziani da parte di badanti straniere. «Gestire le badanti non è semplice, sono spesso inaffidabili, fanno la valigia all' improvviso e se ne vanno», premette Antonio Baldascino, presidente della cooperativa sociale onlus Assistere, che vanta sei strutture a Roma e dintorni, 300 famiglie assistite e un fatturato annuo di tre milioni di euro. «C' è purtroppo tanto fai da te in giro. Noi prendiamo solo chi ha una qualifica scritta sul campo, e sono davvero poche». «Noi proprio non le prendiamo in carico», mette subito le mani avanti Giorgio Matteucci, vice presidente di "Progetto assistenza", un franchising partito nel 2011 e che oggi conta 101 centri in 16 regioni e un giro di 3mila famiglie assistite e 10mila operatori. «Dalle famiglie agli ospedali forniamo solo personale qualificato per rispetto alle persone malate. Prendiamo solo straniere che sono in Italia da almeno dieci anni. È la nostra politica e nel tempo paga. Siamo in tutta Italia tranne al sud. Perché? Semplice, chi ha provato ad aprire un centro lì, ha ricevuto minacce di morte. Negli ospedali l' assistenza ai malati è appannaggio di una certa mafia e non basta denunciare».
La dura vita dei pensionati italiani, sempre più in fuga verso i "paradisi dei vecchi". Le Iene News il 15 gennaio 2020. L’Istat fotografa le difficoltà economiche dei nostri pensionati: oltre il 40% non arriva a 1.000 euro al mese. Con la tentazione di fuggire all’estero, come ci ha raccontato Cizco accompagnando i suoi genitori alle Canarie, “il paradiso dei vecchi”. Quasi il 40% dei pensionati italiani vivono con meno di 1000 euro lordi di pensione e 1 su 8 non arriva neanche ai 500 euro. È il quadro sconfortante che emerge dai dati sul 2018 dell’Istat, secondo il quale grande è anche il divario all’interno di questa categoria. Il 20% dei redditi da pensione più alti, infatti, “consumano” oltre il 40% della spesa pensionistica complessiva. Una spesa che ammonta a 293 miliardi di euro, pagata a quasi 16 milioni di pensionati italiani. E una fetta sempre più importante di questa categoria ha scelto di godersi il proprio assegno mensile al di fuori dell’Italia, dove quei 1.000 euro valgono molto di più. Gli espatriati della pensione costano alle casse dell’Inps oltre 1 miliardo di euro, erogato nei 160 paesi in cui si trovano, tra cui Canada, Germania, Svizzera. E Spagna, dove i nostro Cizco nel servizio che potete rivedere qui sopra, è andato a conoscere i pensionati italiani che hanno deciso di iniziare una nuova vita alle Canarie. L’occasione è quella di far fare un giretto ai suoi genitori, che stanno valutando l’idea di spostarsi a quelle latitudini. “L’Italia ci ha buttato fuori a noi pensionati”, spiega Chiara, una pensionata sarda che dopo essere rimasta vedova si è trasferita lì con tutta la famiglia. “Ci stanno mandando via dal nostro Paese”, ribadisce un’altra italiana che ha scelto di ricominciare alle Canarie.
L.Ci. per “il Messaggero” il 24 gennaio 2020. Quasi 400 mila pensioni pagate dall'Inps all'estero, per una spesa complessiva di 1,3 miliardi. Che nasconde però fenomeni molto diversi. Da una parte la tendenza recente di molti italiani maturi di andare a godersi all'estero il trattamento previdenziale, normalmente piuttosto cospicuo; dall'altra le storie dei nostri connazionali emigrati nei decenni passati che avendo solo una piccola parte della carriera lavorativa in Italia mettono insieme minuscoli assegni, i quali non sono verosimilmente la loro principale fonte di reddito. C'è poi una quota ancora limitatissima, ma probabilmente destinata a crescere: quella degli immigrati nel Belpaese che sono tornati nelle terre d'origine dopo aver maturato lavorando il diritto ad un assegno dell'Inps. Delle 383 mila pensioni versate dall'istituto nazionale di previdenza sociale a residenti all'estero (non sono considerati i dipendenti pubblici) oltre la metà (209 mila) si fermano in Europa, mentre 87 mila circa attraversano l'oceano in direzione dell'America settentrionali. Molto più indietro gli altri Continenti. Il singolo Paese con più trattamenti è il Canada (sono 51.927) seguito subito dopo dalla Germania e poi da Svizzera, Australia e Francia, tutti Paesi che ricevono un numero di trattamenti superiore ai 40 mila. Anche gli altri tradizionali Paese di emigrazione italiana hanno numeri rilevanti: si tratta degli Stati Uniti, dell'Argentina e del piccolo Belgio che ne riceve 13.500. La storia è completamente diversa se si guarda all'importo medio mensile dei trattamenti. A Cipro risultano pagati solo 178 assegni, che però valgono 5.468 euro lordi al mese. Ancora meno negli Emirati arabi uniti: le 60 pensioni dirottate da quelle parti valgono in media 3.784 euro. A seguire c'è il Portogallo, che può vantare numeri più consistenti avendo una legislazione fiscale favorevolissima che negli ultimi anni ha attirato molti anziani benestanti dall'Italia e non solo. Gli assegni versati nel Paese lusitano sono poco meno di 3.000 per un importo medio mensile di 2.720 euro. Al contrario gli italiani emigrati in Canada percepiscono solo 105 euro e la situazione non è molto diversa negli altri Stati in cui in passato i nostri connazionali hanno cercato fortuna, con valori che si collocano normalmente tra i 100 e i 200 euro; la media è un po' più alta, ma non di molto, in Argentina (311 euro). Complessivamente a livello mondiale l'importo è di 260 euro: i pensionati agiati in fuga, che aumentano ma sono ancora relativamente pochi, non riescono ad alzare la media. Infine per completare il quadro si può dare un'occhiata all'età: quella media totale è di 79,5 anni, ma la media comprende gli 85,5 dell'Argentina e i 52,4 del Senegal, passando per i 70,8 anni del Portogallo.
· Hikikomori, il fenomeno dei ragazzi che vivono al contrario e si isolano.
Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera” l'8 ottobre 2020. Nel suo bunker tiene appeso lo stemma della Polizia stradale. Un paradosso, perché Marco Brocca, 25 anni, dal 2013 a oggi ha visto solo le strade che separano Treviso da Padova (due volte), Vicenza, Milano, Vigevano, Lucca, 2.238 chilometri fra andata e ritorno. A spanne, in totale fanno 875 metri al giorno. Per il resto, non più di una cinquantina di uscite nel circondario. «Mi recai anche a Pesaro con Blablacar. Avrei desiderato riallacciare i rapporti con mio padre, che non vedevo da anni, ma la trasferta finì male». Brocca soffre di un disagio adattivo sociale tipico dei ragazzi giapponesi. È un hikikomori. Significa «stare in disparte». Lui lo fa nella taverna di casa, una stanza disadorna, due finestre poste a livello del suolo, un divano, un appendiabiti e la scrivania con sopra il monitor del computer, davanti al quale passa 12 ore al giorno. È il suo unico contatto con il resto del mondo. Mette fuori la testa solo per prepararsi da mangiare, quando la madre Patrizia, infermiera al Servizio di emergenza 118, e la sorella diciottenne sono assenti. «I primi tre anni furono di clausura completa. Adesso incontro qualche amico, una volta al mese. Esco unicamente per le visite mediche».
Che cosa le è successo?
«Soffro da sempre di una dermatite cronica. Per il 40 per cento è stata all'origine della separazione dei miei. Mio padre è un no vax, voleva curarmi con l'omeopatia. Sosteneva che ero stato rovinato all'età di 3 mesi dalle vaccinazioni obbligatorie. Ma è falso: nel suo ramo familiare esiste traccia di questo eczema».
Le manca il papà?
«Mi manca una figura paterna».
Ricorda quando iniziò questa storia?
«In seconda superiore. Frequentavo l'Itis Max Planck di Villorba. Intorno a Pasqua fui ricoverato per una decina di giorni in Dermatologia. Mentre attendevamo il certificato di dimissioni, mia madre mi disse: "Domani torni a scuola". Decisi che non lo avrei fatto. Una scelta inconscia. Mi sentivo dentro una fossa».
E che fece?
«Mi barricai in camera, con il letto davanti alla porta per impedire a chiunque di entrare. Dopo due giorni, la mamma smise di urlare. Però staccò Internet e mi requisì il pc. Leggevo Topolino , Harry Potter e Le Cronache di Narnia ».
A scuola era vittima dei bulli?
«Già dalla prima media. La mia è una diversità che si nota subito e non potevo farci nulla. Non riuscivo ad accettarmi. I rush cutanei su braccia, gambe e collo mi provocano un prurito irresistibile. Grattandomi, la dermatite diventa ancora più evidente, sfocia nel sanguinamento. I compagni mi guardavano schifati».
La offendevano?
«Mi chiamavano lebbroso, ma sottovoce: da 1,70 di statura ero passato a 1,95 e mi temevano. Oppure zombie, perché il bruciore mi teneva sveglio la notte e mi presentavo in aula con le occhiaie».
Non poteva chiedere aiuto ai docenti?
«Lo feci, ma fu inutile. Vigeva il cameratismo, dovevi dimostrare di essere maschio con pugni e schiaffi. Un mio compagno riferì a un professore d'aver ricevuto un cazzotto nello stomaco e la risposta fu: "Ma sì, dài, scherzavano"».
Sua madre non si rivolse al preside?
«La implorai di non farlo. Per il prurito incessante non riuscivo mai a finire i compiti. Mamma e insegnanti si convinsero che fossi pigro, così decisi di dar loro ragione e cominciai ad andare male intenzionalmente in tutte le materie».
Sino a quando?
«Sino alla fine della terza media. Nel passaggio alle superiori cominciai ad avere molta, molta, molta, molta, molta ansia. Un picco di stress, quindi di dermatite. Sembravo un pomodoro».
Non c'è cura?
«No, a parte l'Atarax, un ansiolitico».
Più ritornato sui banchi?
«M' iscrissi ai corsi serali dell'Itis Mazzotti a Treviso. Uscivo alle 17 e rincasavo alle 23. In terza, a dicembre, smisi».
Ha studiato per conto suo?
«Solo le lingue. L'inglese alla perfezione. Lo spagnolo lo capisco benissimo. Il russo lo so a metà. Il francese e il tedesco poco, non mi piacciono».
Da piccolo che cosa voleva diventare?
«Un paleontologo».
A che età ha avuto il suo primo pc?
«A 13 anni. Allora mi sentivo estroverso e normalissimo».
E il primo telefonino?
«A 10. Un Nokia. Me lo regalò mia zia Cristina per la prima comunione. Ma io non lo volevo. Non l'ho mai adoperato».
Quando ha scoperto i social?
«A 20 anni. Ho account su Instagram e Twitter. Facebook lo uso di rado».
Com' è la sua giornata tipo?
«Sto al pc dalle 10 alle 23. Mi fermo solo per cucinarmi qualcosa, a volte alle 17 anziché alle 13. Mi corico all'1 o 2 di notte, senza spegnere il computer. Se non riesco a dormire, torno a usarlo».
Naviga in Internet?
«Lavoro. Alleno patiti dell'e-sport di tutto il mondo, che vogliono diventare campioni di Overwatch o di Valorant».
Sanscrito, per me.
«Videogiochi. Il secondo è uno sparatutto, creato dall'americana Riot. Organizza tornei in cui mette in palio anche 50.000 dollari. Faccio consulenze a 10 euro l'ora per chi vuole perfezionarsi nel combattimento. A volte rimedio al massimo 400 euro mensili, a volte niente».
La sofferenza dei suoi non le pesa?
«Sì, certamente, quella di mia madre in particolare. Mio padre è stato più che altro un despota. Con mia sorella il rapporto non è buono. Ho una mia idea della giustizia: il male che provochi, prima o poi con il karma ti torna indietro».
Nessuno le ha dato una mano?
«Marco Crepaldi, fondatore e presidente di Hikikomori Italia. Non sapevo che esistesse un'associazione così, credevo d'essere l'unico afflitto da questa sindrome. È stato un amico ad aprirmi gli occhi: "Secondo me, tu sei un hikikomori". Tornato a casa, mi sono messo a cercare sul web. Ho provato sollievo, non mi sono più sentito solo. Ho scoperto che almeno 100.000 italiani soffrono il mio stesso disturbo. Però ci ho messo cinque mesi prima di decidermi a scrivere a Crepaldi. È merito suo se sono uscito di casa per incontrarlo a Milano. Mi ha segnalato alla psicologa Giovanna Borsetto per una terapia, iniziata via Skype e proseguita di persona a Mestre».
Perché pensa che il fenomeno sia nato proprio in Giappone?
«I giovani di quel Paese sono sottoposti a una pressione sociale gigantesca. Si isolano per sottrarsi all'obbligo di uccidersi con il lavoro pur di arrivare primi».
Non crede che l'intera umanità sia diventata un insieme di solitudini che possono comunicare solo con dispositivi e app detenuti da pochi monopolisti?
«Sì. I social li paghi vendendo i tuoi dati. Con Tik Tok, al governo cinese».
Va mai in vacanza?
«L'ultima volta ci sono stato a 11 anni con mia madre e mia sorella, a Jesolo».
Stare chiuso in casa ha modificato la sua personalità?
«A cambiarmela sono state le offese patite a scuola. L'isolamento mi ha peggiorato. L'abbraccio di un amico mi procura imbarazzo, anche se non m' infastidisce. Mi mancano i rapporti umani reali. Attraverso i videogiochi online ho conosciuto una svedese e una norvegese. Una di loro voleva incontrarmi. A che serviva? Veniva qui una settimana, e poi? Ho tirato giù la saracinesca».
E il suo fisico ne ha risentito?
«A causa dei miei malesseri il peso è cresciuto in pochi anni da 50 a 100 chili. La segregazione e la sedentarietà mi hanno fatto arrivare a 128. Prima andavo in palestra, ma il sudore m' irritava la pelle e subentrava il grattamento. Mangio un tot di mandorle prima di coricarmi, non va bene».
Vivendo in simbiosi con il computer, avrebbe potuto diventare un hacker?
«Sì, se mi fosse piaciuto programmare. Ma l'informatica non m' interessa».
Ha mai visitato il dark web?
«Solo una volta. Ci vendono armi, droghe, merci di contrabbando e altre schifezze. Tutta roba che detesto».
Se non esce mai di casa, a che le serve quell'acconciatura da samurai?
«È da personaggio della serie tv Vikings , non da samurai. Però ha ragione: non mi serve. Ma se arriva un giornalista?».
Che cosa la turba del mondo di fuori?
«L'essere minimizzato a formica. Vali solo per il tuo lavoro, per quanto riesci a vendere di te stesso, mentre io a scuola avrei tanto voluto avere tempo per imparare a scattare foto e girare video».
Che consigli darebbe ai giovani perché non precipitino in questo gorgo?
«È difficile. All'inizio non sei conscio di caderci dentro. Poi diventi un vegetale che cammina e ti autodifendi chiudendoti a riccio. Il malessere non si cronicizza solo se la famiglia ti accetta e ti aiuta».
Si commuove mai?
«L'ultima volta che ho pianto è stata prima del ricovero in ospedale. Barricato in camera, mi sentivo abbandonato».
In che cosa consiste l'infelicità?
«Nel non potersi realizzare. Non penso di essere adatto a farmi una famiglia».
È mai stato felice ultimamente?
«Felice felice felice? Mi prende alla sprovvista con questa domanda». (Ci pensa a lungo) . «Avevo 4 anni. Mia nonna Agnese mi portò in una fattoria e mi fece accarezzare le paperelle e gli asini».
Qual è il suo stato d'animo in questo preciso istante?
«Sono contento d'aver parlato con lei. Ma una proiezione nel futuro non ce l'ho. Neppure la speranza mi è rimasta».
E se un giorno le dicessero che papa Francesco la vuole incontrare?
«Io sono qui, sebbene sia ateo. Gli chiederei: perché Dio, se è buono, ha creato gli insetti che in Africa mangiano gli occhi ai bambini?».
Hikikomori, il fenomeno si allarga: 100mila giovani italiani autoreclusi. Gioacchino Criaco de Il Riformista il 23 Aprile 2020. Forse non ne usciremo più, anche se il più o il mai, nelle vicende umane, è impossibile da usare. La domanda se usciremo migliorati o peggiorati dalla quarantena forse è quella sbagliata, probabilmente bisognerebbe chiedersi quanti vorranno davvero uscirne, ma non dalla pandemia, starsene proprio fuori da tutto, o quasi. Hikikomori (letteralmente significa stare in disparte) nato negli anni ottanta come moda, in Giappone, è poi diventato uno stato patologico, una sindrome di cui sono infettati, silenziosamente milioni di giovani, dall’adolescenza ai 30 anni. Dal Giappone, l’Hikikomori, si è espanso, è arrivato in Occidente: in Italia più di 100.000 ragazzi si sono rinchiusi in camera, dentro casa, precludendosi i rapporti sociali fisici con chi abbia continuato a vivere anche il mondo di fuori. Queste persone sono colpite da una sindrome invisibile, perché ancora sconosciuta ai medici, una malattia subdola, sottovalutata o confusa, ora con la depressione, la schizofrenia, un disturbo della personalità e altre forme patologiche di fobia sociale. Curata in modo erroneo. È una scelta, che può diventare, irreversibile e malattia cronica, di sicurezza sociale assoluta, di asocialità come vittoria sopra ogni pericolo. La gigantesca quarantena determinata dalla pandemia da covid19 ha rinchiuso in casa miliardi di persone dando legittimazione scientifica e benefica al vivere in disparte, il meno persone possibile. Un isolamento salvifico. Stare da soli è buono, fa bene a te e agli altri. il rischio è proprio questo: già milioni di ragazzi praticavano l’isolamento salvifico. Ora questo farmaco lo hanno tracannato miliardi di persone. Rispetto al covid la scienza non ci ha spiegato bene cosa sia successo o stia accadendo, non ha saputo o non ha voluto farlo, lo stesso è accaduto con la politica, l’informazione. Tutte le risposte sono state evasive, parziali. Il mondo si è salvato perché si è chiuso, incarcerato quasi. Un paradosso, fin qui fuori dal mondo ci stavano gli inadeguati, quelli che non erano capaci di inserirsi, andavano a formare le marginalità, e quando le emarginazioni diventavano moleste a esse si applicavano misure più stringenti di isolamento. La cura migliore, immutata nelle evoluzioni sociali, era, è il carcere: chi turba la sicurezza comune va rinchiuso. Si tolgono alcuni per difendere i più. La pandemia sovverte tutto e indica un rimedio straordinario: ci chiudiamo i blindati alle nostre spalle e ci guadagniamo la salvezza, nulla ci turberà più. Nelle quarantene si sono poi scisse le categorie umane che svolgono mestieri essenziali da quelle che sono addette ad attività di cui in emergenza si può fare a meno: un film, un libro, una poesia, un quadro, un’opera teatrale. L’arte non mette carne intorno alle ossa, e per lo spirito ci sarà tempo di un pasto futuro. E se si volesse: molte delle persone, funzionali alla produzione di beni e servizi insopprimibili, potrebbero sostituirsi con elementi meccanici. E davvero, il rischio concreto sarà che moltissimi saranno tentati di non uscire dalla quarantena: di ritenere sanità un morbo che chiude a chiave le porte.
La ribellione verso la società. Hikikomori, arriva in Italia il fenomeno dei ragazzi che vivono al contrario e si isolano. Roberta Caiano de Il Riformista il 19 Febbraio 2020. Hikikomori è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte o isolarsi”, in poche parole ritirarsi. Il fenomeno dell’hikikomori è una piaga sociale che vede la sua nascita in Giappone, ma che si sta estendendo in tutto il mondo compreso in Italia. La parola fu coniata dallo psichiatra giapponese Tamaki Sato a metà degli anni ottanta, periodo in cui questa condizione cessò di essere circoscritta e cominciò ad avere una rilevanza sociale in tutto il Paese orientale. Vivere come un hikikomori indica una situazione di esclusione e isolamento sociale voluto dalla persona, chiudendosi in casa o più frequentemente nella propria stanza tagliando ogni rapporto con il mondo circostante. Niente relazioni, niente vita sociale che sia reale o virtuale. Molto spesso questa ritirata in un mondo proprio e illusorio avviene anche nei confronti dei propri familiari e/o delle persone che vivono sotto lo stesso tetto dell’hikikomori. Secondo alcune stime si registrano più di 200mila casi di persone colpite da questo fenomeno, anche se la maggior parte sono giovani divisi tra ragazzi e ragazze studenti al liceo o all’Università di età compresa tra i 14 e 30 anni. La durata dell’isolamento può durare da mesi fino ad anni.
IL FENOMENO – Non è un caso che il fenomeno dell’hikikomori sia nato proprio nel Paese del Sol Levante. Nella società giapponese, infatti, è molto radicato il sentimento della competizione che colpisce soprattutto i bambini e i ragazzi proveniente da buona famiglia. La disparità sociale crea delle pressioni che può portare a reazioni di questo genere, anche se molto estreme e pericolose. Il ceto sociale diventa così direttamente proporzionale alle attese e alle aspettative a cui vengono sottoposti i ragazzi. Più gli studenti dimostrano di essere bravi sin dalle scuole elementari, più si caricano di pressione che li porta a dover raggiungere ad ogni costo un buon obiettivo. Il periodo in cui si verifica maggiormente questo fenomeno è all’Università, dove i test di ammissione sono molto duri: ogni anno si contano decine di suicidi di studenti che falliscono l’esame in alcune delle più prestigiose università del Giappone. Ma uno dei problemi più frequenti per cui il fenomeno dell’hikikomori dilaga sempre più è quello del bullismo. Oltre a dover mantenere una certa reputazione, i ragazzi sono spesso alle prese con il conformismo che li vede combattere contro la diversità e la stravaganza. Per questo, qualsiasi diversità fisica e comportamentale diventa oggetto di pesanti offese e vessazioni da cui devono difendersi. Anche se un’altra causa sociale da cui devono ripararsi è all’interno della famiglia stessa. Infatti il Giappone, nonostante si stia cercando di migliorare la situazione, è una società prevalentemente maschilista con una figura della madre spesso accondiscendente e il padre assente stando tutta la giornata fuori casa per lavoro. Dichiarare apertamente o accettare un fallimento, una sconfitta o un disonore non è contemplato. Una famiglia preferisce assecondare questo comportamento pur di nascondere alla società un figlio o una figlia con questo problema. Tutto questo non fa altro che alimentare la condizione di alienazione sociale.
COSA FANNO GLI HIKIKOMORI – Vivere da hikikomori significa vivere al contrario, a ciclo invertito. Una sorta di ribellione implosa che vede il ragazzo dormire di giorno e stare sveglio di notte isolandosi in questo modo completamente dai ritmi della società e da ciò che lo circonda. Una delle cose che spesso ci si chiede a proposito di questa sindrome è cosa facciano gli hikikomori durante le loro ore di ritiro. In Giappone, come è risaputo, c’è una forte cultura degli anime, manga, videogames e action figures che in questo caso diventano non soltanto un piacevole passatempo ma un vero e proprio stile di vita. Rintanandosi tra le mura domestiche non sono attivamente partecipi neanche della vita familiare, infatti di solito l’hikikomori mangia il cibo che gli viene lasciato davanti alla porta, non si lava, ovviamente non esce di casa ed in molti casi ha una totale assenza anche dalle relazioni virtuali. Negli ultimi anni però sono nate molte associazioni che si occupano del supporto e del reinserimento delle persone colpite da questo fenomeno. Il trattamento cambia a seconda della gravità delle condizioni in cui si vive questa sindrome. L’approccio è di tipo psicoterapico, educativo per la famiglia e in molti casi viene somministrato anche un trattamento farmacologico. Questo è un tipo di approccio che viene adattato anche perché molto spesso il fenomeno scatena patologie di tipo psichiatrico come la depressione, il disturbo ossessivo compulsivo, i disturbi della personalità e nei casi più gravi la schizofrenia.
IN ITALIA – Anche se l’argomento non è molto conosciuto, anche in Italia il fenomeno sta prendendo sempre più piede. In totale si contano decine di migliaia di casi potenziali di hikikomori che fortunatamente vengono salvati prima di arrivare ad un reale pericolo. Per questo nel 2017 è nata l’associazione nazionale Hikikomori Italia, presieduta da Marco Crepaldi specializzato in psicologia sociale e comunicazione digitale. L’associazione ha creato 50-60 gruppi distribuiti da Nord a Sud, in cui psicologi volontari aiutano le famiglie ad affrontare questo tipo di problema. “Spesso si confonde l’hikikomori con la dipendenza dalla tecnologia, mentre l’abuso della tecnologia è solo una conseguenza, non una causa di questo fenomeno”, per citare Crepaldi, “il giovane, di solito adolescente, si isola completamente e trova nel web un rifugio ma non sviluppa dipendenza: togliergli il computer non è la strada per farlo uscire dall’isolamento”. Il trattamento dunque deve agire più in profondità, cercando di capire le cause dell’isolamento e come riuscire a salvare il ragazzo dalla condizione di inettitudine e ripudio nei confronti del mondo esterno. A livello nazionale, la regione che conta più casi di hikikomori è l’Emilia Romagna. Come spiega Alex Cavallucci, presidente del Comitato Utenti familiari e operatori del Dipartimento Salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ospedale Bufalini di Cesena e ora nominato a capo del Comitato Tecnico Cesenate contro la piaga del Hikikomori: “L’identikit è quello di un giovane di sesso maschile proveniente da una famiglia di ceto medio-alto, con una buona istruzione e che va bene a scuola. Per ora le ragazze sembrano meno colpite, ma il numero dei segnalati è comunque in crescita e anche l’identikit continua a modificarsi. L’Emilia Romagna ha numeri alti perché è una regione in cui il livello di benessere è alto e, inoltre, viene posta anche molta attenzione a questo tipo di problematiche e quindi situazioni che in altre regioni vengono sottovalutate qui emergono con più facilità”. Il primo passo per la prevenzione è cercare di capire le esigenze del ragazzo o della ragazza e cercare di agire prima che il fenomeno possa degenerare in un completo rigetto non solo nei confronti della società ma della vita stessa.
· Gioventù del “Cazzo”.
Michele Serra per "l'Espresso" 21 dicembre 2020. C' è un solo modo per evitare che le risse tra gang di adolescenti al Pincio degenerino. Vanno regolamentate e devono svolgersi sotto l' egida del Coni (nonché, ovviamente, sottoposte al vaglio continuo del Tar del Lazio, come ogni attività umana di questo Paese). Se il periodo di prova darà buoni esiti, è possibile che la rissa tra adolescenti sia una delle nuove discipline ammesse alle prossime Olimpiadi di Parigi. I praticanti, in tutto il mondo, sono già milioni. La specialità "parents" prevede anche la partecipazione dei genitori, che inizialmente assistono ai lati gridando «menaje a quer lurido!» e scambiandosi insulti tra loro, e nel secondo tempo possono entrare in lizza personalmente, anche con armi da fuoco, meglio se non denunciate. Le regole I partecipanti devono avere tra gli undici e i sedici anni. Dopo i sedici, si passa alle rapine a mano armata e alle violenze sessuali di gruppo, prima degli undici si possono praticare solo il piccolo spaccio, il furto in casa propria, la molestia alla compagna di banco e altre discipline minori. I colpi consentiti sono solo quelli bassi: sputo in faccia, calcio nei genitali, sfregio col coltellino. Vietatissimo il duello leale uno contro uno: si rischia l' espulsione immediata. Punteggio molto alto per il pestaggio di gruppo. Dai dieci contro uno in su scatta la menzione speciale della giuria. Valgono parecchi punti anche l' aggressione ai soccorritori, con furto di ambulanza, e la delazione a carico di persone estranee ai fatti nel caso si venga arrestati. Si parla molto bene di Fabbio e Sabbri, due fidanzatini dodicenni di Tor Magnaccia che hanno messo in fuga a parolacce una volante della Polizia. Gli agenti, terrorizzati, hanno fatto appena in tempo a chiudere i finestrini prima di darsi alla fuga. «Non avevo mai sentito niente di simile in trent' anni di carriera», racconta, ancora sotto choc, il viceispettore Loris Bravini, che dopo l' accaduto ha dato le dimissioni ed è entrato in monastero. Ha fama di duro anche Dumbo Ambolari, giostraio quattordicenne, capo dei temutissimi Plippies, che hanno preso il nome dell' ambita cover per cellulari Plip, per avere la quale gli adolescenti di tutto il mondo sono disposti anche a uccidere. Soprattutto la Plip color senape, prodotta in pochissimi esemplari perché orribile, e dunque molto ricercata, pare sia alla base di vere e proprie guerre tra gang, con decine di omicidi. La colonna sonora "Kill for a cover" ("Uccidi per un dozzinale copritelefonino di plastica dal valore di undici euro, ma dai cinesi lo trovi anche a otto") è il grande successo del trapper Kronzo, artista di riferimento dei Plippies. Ne esiste anche una versione, identica, del trapper Pao Paolo, e una terza del trapper Bigolo. Impossibile distinguere non solo le tre versioni, ma anche i tre interpreti, assolutamente identici se non per minimi particolari, come l' anello al naso: d' oro quello di Pao Paolo, di cachemire quello di Kronzo, di torsoli di mais quello di Bigolo. Oltre al genere trap, tra le gang di adolescenti va fortissimo anche il brap, molto simile al trap, ma ruttato anziché cantato. Tra le gang minorili più note si segnalano i Burini, molto legati ai valori della tradizione (come lo sfruttamento della prostituzione). Nemici giurati delle droghe pesanti, bevono solo Frascati e nelle risse usano esclusivamente colli di bottiglia di vini di poco prezzo. Il loro indumento di culto è la canottiera Nando, che si trova solo nei mercati rionali, nella bancarella di Nando, tutto a cinque euro. I loro nemici giurati sono i Mamiani's, gang di figli di papà che affrontano gli avversari con colli di bottiglia di Borgogna o di Sassicaia. Molto temuti anche i Califanos, gli unici adolescenti che odiano il trap e cantano solo le canzoni di Califano perché le considerano molto più trucide. Infine si segnalano le Mancomorta, unica gang femminile conosciuta: pur di non frequentare i loro coetanei vivono chiuse in casa imparando il punto croce e leggendo Jane Austen e Virginia Woolf.
Dagospia 21 dicembre 2020. DALL'ACCOUNT FACEBOOK DI CHRISTIAN RAIMO. Il pezzo di sedicente satira di ieri di Serra sulla rissa dei ragazzini al Pincio mi fa finalmente capire perché sto completamente dalla parte dei ragazzini che si menano in 400. Questa città se hai 17 anni, non hai la paghetta di un millino al mese, e abiti vicino al Raccordo non dà accesso agli spazi, ai luoghi, ai negozi, a un campo di calcetto, ai consumi culturali minimi, a nulla. Il centro è fatto per i turisti, la vita notturna è preclusa a chi non ha un mezzo autonomo di trasporto, l'unica attività concessa è lo struscio e lo shopping, il sabato magari con mamma che ti compra le scarpe se scegli quelle che vuole lei. Ma anche a via del Corso i ragazzini di Torbella, Samba, Malafede dovrebbero andarci meno, no? Continuiamo a aprirgli centri commerciali nelle nuove centralità: adesso hanno il Maximo. Non venissero a rompere le palle a noi borghesi, vecchi già a 20 anni, in pensione da sempre con la rendita della prima seconda terza sesta e nona casa, prima con la movida e ora addirittura con le risse. Hanno la street art in periferia - serve a riqualificare quei palazzi cessi che gli abbiamo costruito, perché eravamo timidi e non abbiamo saputo dire no ai palazzinari pieni di progetti - non imbrattassero i luoghi decenti che stanno dentro le ztl. Che c'è? Non riescono a arrivare con il monopattino fino a Palmarola o Guidonia? Se finisce la batteria possono sempre spingere. E invece intignano, portano il loro disagggio qui, con i video su instagram delle scazzottate per un telefonino. Ma non hanno Netflix, Amazon Prime, un Netflix della cultura? Perché gli piace vedersi il video di una scazzottata? Non hanno Suburra che racconta come si vive male e così gli spiega bene il loro tormento interiore sociale? Cosa ci fanno qui al Pincio in 400? Nessuna sceneggiatura matcha, fitta con questa nuova espressione giovanile. I ragazzini di Baby e Skam si fanno le canne e alle volte addirittura pippano nelle case dei genitori che sono fuori per il weekend, non hanno una zia con la casa a Fregene almeno? Quelli di Suburra e Gomorra spacciano già a 14 anni perché l'ha deciso il destino. Quindi ha ragione Serra, se ci sono 400 ragazzini che si menano al Pincio, occorre reagire immediatamente: dare l'allarme e scriverci anche una bella pagina di satira. Dovessero la prossima volta spingersi a Rosati o a Canova a fare una rissa in 400 rovesciando i cappuccini di soia, provare a entrare alla Casina Raffaello o alla Gnam. Che dobbiamo fare, se no, alzare ancora i prezzi? Mettere più recinti con le fioriere? Altri bodyguard di colore all'ingresso? Devono tornare da dove sono venuti. Roma est, dicono alcuni, un paese sconosciuto, un hic sunt leones dove un tempo arrivava un trenino e oggi alle volte una metropolitana, dove la sera puoi trovarti - quando è festa - un Calenda che scende dal suo Suv e ti mostra le slide o una Federica Angeli che ti urla al citofono che lei non si fa intimidire.
Mirella Serri per "la Stampa" lastampa.it 21 dicembre 2020. Il secolo breve è stato anche il secolo dei giovani? Certo, ma solo per circa trent' anni, dal 1945 alla morte di Aldo Moro: tre decenni in cui i giovani salirono sul palcoscenico della storia e riuscirono a coniugare «l' incontro tra il disagio e la rivolta del singolo con il disagio e la rivolta degli oppressi». Questa risposta ce la offre un «giovane» un po' speciale, nato tre anni prima che iniziasse la Seconda guerra mondiale: Goffredo Fofi. Il gran guru della cultura italiana (ma guai a chiamarlo così! Non apprezza) si è sempre dedicato alle nuove leve, ha ispirato movimenti giovanili, ha aperto la strada della letteratura, quando erano alle prime armi, a narratori come Alessandro Baricco o Roberto Saviano. Di recente Fofi ha ripubblicato un suo saggio uscito negli anni 80, Il secolo dei giovani e il mito di James Dean (La nave di Teseo), accompagnato da una nuova, approfondita introduzione in cui evoca Greta Thunberg come l' adolescente che ha riportato gli under 20 a cimentarsi sul terreno dell' impegno civile.
Che ruolo hanno avuto i giovani in quanto protagonisti del Novecento?
«Alla fine della Prima guerra mondiale, in Europa, le ultime generazioni protestarono contro le borghesie nazionali responsabili del massacro nelle trincee di diciassettenni e diciottenni. Furono giovanissimi anche i protagonisti della rivoluzione fascista e dell' elaborazione gramsciana che venivano esortati alla lotta e alla presa del potere. Queste generazioni non si espressero né da sole né in prima persona ma furono manovrate e strumentalizzate da forze più grandi di loro».
A quando risale il vero protagonismo giovanile del '900?
«Risale agli anni Cinquanta, quando James Dean con la sua tragica scomparsa, a soli 24 anni, divenne l'icona della ribellione individuale e anarchica. Ed è stato uno dei precursori del Sessantotto in cui però la protesta del singolo diventava collettiva. Nel periodo della ricostruzione e prima del "miracolo economico" emerse anche una nuova, straordinaria leva di autori e di opere».
Nello stesso anno in cui Dean moriva, nel '55, il diciottenne Fofi, futuro critico letterario, cinematografico e teatrale, fondatore e nume tutelare d' importanti palestre politico-culturali, dai Quaderni piacentini a Linea d' ombra, a Lo straniero a Gli asini, iniziava la sua avventura in Sicilia per collaborare con Danilo Dolci e incrementare tra i giovani disoccupati una protesta di tipo gandhiano. Lo scrittore ha sempre coniugato passione intellettuale e attivismo politico, l' attenzione verso gli invisibili e gli esclusi che lo ha portato a essere tra i fondatori a Napoli della mensa dei bambini proletari.
Oggi cosa fanno e chi sono i giovani?
«La storia è sempre andata avanti in un rapporto tra minoranze "virtuose", innovatrici, e maggioranze più conformiste, sostanzialmente più egoiste. Ci sono però momenti in cui le minoranze influiscono in modo determinante sulla Storia, e sui comportamenti e le idee delle maggioranze. C' è una novità in questi ultimi anni: è rappresentata dai gruppi e gruppetti di ragazzi che sentono il dovere di occuparsi di chi soffre, degli immigrati, dei "subalterni"... Sentono il dovere di occuparsi della natura, dei rischi che comporta la violenza nei suoi confronti esercitata dal capitalismo - e dal consumismo che ci rende tutti suoi complici».
Hanno un peso sociale queste minoranze attive?
«È difficile che queste minoranze alzino la testa in un anno pessimo come il 2020, di fronte a una minore tensione tra ceti sociali unificati da un sistema culturale pesantemente conformista se non reazionario. Però diversi segnali di un risveglio ci sono e il futuro, con le sue storture crescenti, spingerà le nuove leve a cercare nuovi modi di agire per contrastare il disastro».
In epoca di pandemia si parla molto in termini di conflitto generazionale, tra anziani e giovani. Secondo lei esiste quest' opposizione?
«Esiste, e come! Perché i vecchi hanno ben poco da insegnare agli ultimi arrivati che sono i loro figli (o sono i fratelli minori delle generazioni che non sono state all' altezza delle loro ambizioni, dal '68 in poi, e hanno velocemente accettato "il mondo così com' è"). Di fatto, le nuove generazioni sono come abbiamo voluto che fossero, egoiste, sciocche e conformiste (o modaiole) come noi... ed è quasi un miracolo che alcuni giovani siano diversi, a dimostrazione che l' irrequietezza e la non-accettazione è ancora una costante - e una speranza per tutti».
Nel secondo dopoguerra, lei scrive, c' è stato l' ultimo exploit artistico, letterario e musicale. Oggi le luci della ribalta si sono spente?
«A far danni con i giovani sono Internet e l' illusione di "parlo e scrivo e dunque sono"; l' università; i padri e fratelli maggiori... Ma continuo a incontrare ragazzi di grande valore per niente portati al compromesso e non accecati dagli idoli di un successo frivolo e transitorio. I giovani scrittori, purtroppo, non hanno modelli sempre ammirevoli, e penso agli intellettuali delle precedenti generazioni che si sono affrettati a vendere l' anima al diavolo (o a certi giornali!). Ho letto di recente tre ottimi o buoni romanzi, per esempio, di Alessio Torino, Daniele Mencarelli (finalista allo Strega, ndr), Filippo Nicosia, sorprendenti anche per la loro intelligenza del presente e le ansie nei confronti del futuro, e mi rincresce di non poter citare, solo quest' anno, degli equivalenti femminili».
Tornando al neodiplomato Fofi che inaugurava in Sicilia la stagione degli scioperi pacifici «a rovescio» e, invece di incrociare le braccia, lavorava per asfaltare le bianche carreggiate insulari, ritiene che esperimenti simili si possano riproporre?
«Certo che sì, e ne conosco tanti, per esempio nelle periferie delle grandi città, e in giro per il mondo in molte iniziative di volontariato e in molte associazioni anche importanti.
Cercano di rimediare ai disastri di un sistema malato. Minoranze sì, avrebbe detto Aldo Capitini, teorico della non violenza, in un mondo dove a dominare sono i "retori". Quel che non c' è, è "la politica" e una cultura di coloro che non vogliono accettare il mondo così come ci viene imposto o proposto».
"Suicidi, delitti, autolesionismo: i mostri senza volto dei ragazzi". Secondo il giudice penale Valerio de Gioia potrebbe esserci anche la possibilità che a "manipolare" la 15enne di Bassano del Grappa siano stati i "mostri senza volto" del web. Sofia Dinolfo, Sabato 10/10/2020 su Il Giornale. “Ho un piano per uccidere i miei genitori”. Con queste parole una 15enne di Bassano del Grappa gli scorsi giorni ha comunicato agli amici tramite messaggi su Snapchat di avere in mente il programma di togliere la vita ai suoi familiari. Lei, una "ragazza perbene" secondo i conoscenti, ha detto agli investigatori che non avrebbe mai commesso il crimine. Ma i dubbi rimangono. Ne abbiamo parlato con il giudice penale Valerio de Gioia.
Nessuno può sapere se il piano criminale sarebbe stato davvero realizzato. Ma cosa può essere passato nella mente di questa ragazza?
“Questo è l’aspetto più preoccupante e agghiacciante, quello che spaventa un po’ tutti. Tra l’altro la ragazza appartiene a una buona famiglia, con un nucleo familiare sereno. La speranza è che si sia trattato di una ‘ragazzata’, qualcosa di fantasioso che non doveva trovare poi nessun tipo di realizzazione. Però non dobbiamo sottovalutare questi segnali. Non dobbiamo riportare tutti gli eventi del genere ad eventuali ragazzate proprio per le gravi conseguenze che ne derivano nei confronti dei ragazzi ma anche per i rischi che corrono i familiari, come in questo caso”.
Si parla di una ragazza perbene, di buona famiglia. Ma com’è scattato un piano simile nella testa di una adolescente?
“Questo può essere collegato ad un disagio, non di tipo sociale, visto che la ragazza ha sempre vissuto in un contesto familiare sereno, più che altro legato alla fase adolescenziale che porta in alcuni casi a fenomeni inspiegabili e ingestibili”.
Adesso la 15enne è assistita da uno psicoterapeuta. Da questo affiancamento si potrà capire se la giovane avesse realmente un’ intenzione omicida?
“Assolutamente sì. È importante rivolgersi a soggetti professionalmente qualificati, come lo psicoterapeuta in questo caso. So che i genitori sono vicini alla ragazza in modo tale da poter capire l’origine di questo evento preoccupante. Sicuramente lo psicoterapeuta potrà dare una risposta e capire se realmente vi fossero quelle intenzioni e, in quel caso, quali fossero le origini di un piano così folle e diabolico”.
In molti hanno parlato di emulazione del delitto commesso da Erika e Omar a Novi Ligure diversi anni fa. Lei crede sia possibile?
“Lo escludo perché è passato troppo tempo e di quell’episodio non se ne parla più. Escludo che una generazione di giovanissimi, come quella alla quale appartiene la ragazza, possa avere architettato queste dinamiche come emulazione a quel fatto che noi più grandi ricordiamo”.
Gli inquirenti non escludono che dietro quel piano si possa nascondere l’accettazione di una sfida sul web manipolata dai “mostri senza volto” . Crede sia possibile?
“Credo sia possibile e questo mi preoccupa enormemente. Ho una bambina di 4 anni e quando sarà più grande e avrà accesso a internet e alle chat, sarò molto attento nel seguirla e controllarla per evitare che si imbatta in questi soggetti organizzano sfide di questa natura”.
Dalla Blue Whale a Jonathan Galindo, cosa c'è di vero secondo lei dietro queste storie? Davvero sono un pericolo per i ragazzi?
"I giovani corrono pericoli importanti. Blue Whale era la sfida della balena blu, che istigava al suicidio. Si induceva ad un percorso che portava alla morte. Credo che il fenomeno non debba essere sottovalutato, che dietro ci siano gruppi di persone, anche giovanissimi, che portano a questi giochi sfruttando una fascia di età particolarmente vulnerabile che è quella dell’adolescente. Quest’ultimo abbocca e crede che tutto sia un grande gioco”.
La giovane di Bassano del Grappa a cosa potrebbe andare incontro penalmente? E gli eventuali “mostri senza volto”, cosa rischiano?
“Consideriamo che dai 14 anni in su si è imputabili, quindi si viene giudicati dal tribunale per i minorenni. Il rischio della ragazzina è che se venisse ritenuta superata quella soglia minima che porta alla configurabilità del tentativo, potrebbe esserle contestato addirittura un tentato omicidio. Coloro che invece avrebbero indotto la giovane a compiere questo piano folle potrebbero rispondere di istigazione a delinquere la cui pena porta fino a 5 anni di reclusione. Se invece la ragazza avesse accolto questo invito ponendo in essere il reato, avrebbero concorso nella commissione del reato”.
Il piano programmato dall'adolescente non prevedeva ancora dettagli e quindi per gli inquirenti non si può parlare di “tentato omicidio”.
Può spiegarci quali sarebbero stati in questo caso i presupposti?
È difficile in questo caso ipotizzare un tentato omicidio. La giurisprudenza ha anticipato la soglia di punibilità anche ai cosiddetti ‘atti preparatori’, però questi atti devono indicare in modo diretto e univoco la finalità delittuosa. Ad esempio si parla di ‘acquisto della rivoltella’, di ‘appostamenti notturni’, questi sono elementi che pur essendo preparatori danno l’idea che stia per essere commesso un delitto. In questo caso specifico credo che ci fosse una progettazione che non si è tradotta poi in atti concreti e diretti in modo non equivoco alla commissione del delitto. Quindi, verosimilmente non dovrebbe ipotizzarsi alcun tipo di reato”.
Monica Ricci Sargentini per il "Corriere della Sera" il 29 settembre 2020. La Danimarca, nell'immaginario comune, è tra i Paesi che ha raggiunto la parità tra i sessi. Il governo è guidato da una donna, e non è la prima volta, chi fa figli può godere di generosi congedi parentali, gli asili nido funzionano e nel mercato del lavoro il genere femminile è ben rappresentato. Ma dietro quest' immagine patinata si cela una realtà ben diversa. A scoperchiare il vaso di Pandora è stata una conduttrice televisiva di lungo corso che dal 2018 anima la trasmissione X Factor. Il 6 settembre Sofie Linde, 31 anni, chiamata a presentare la cerimonia degli Zulu Awards, in cui vengono premiate le migliori trasmissioni televisive, ha confessato le numerose molestie sessuali subite durante la sua vita professionale. La prima a 18 anni quando, durante una festa di Natale, un potente manager televisivo le chiese un rapporto orale minacciando, in caso di rifiuto, «di rovinarle la carriera». Capelli biondi, un vestito blu luccicante che mette in evidenza la sua seconda gravidanza, Linde ha avuto il coraggio di rompere il tabù: «Non si può dire che le donne e gli uomini sono uguali in Danimarca semplicemente perché non è vero» ha detto in diretta tv. Una doccia fredda per il pubblico in sala che, dopo un momento d'esitazione, ha applaudito convinto. Il giorno dopo, però, sono cominciati gli attacchi sessisti: la donna mente, si vuole solo mettere in mostra, tiri fuori i nomi e poi vediamo. Accuse trite e ritrite che hanno ottenuto l'effetto di mobilitare quelle che finora avevano taciuto. Una lettera appello sul quotidiano Politiken ha ottenuto in pochi giorni 1.600 firme. «Tutte noi abbiamo subito, nel corso della nostra carriera, commenti inappropriati sul nostro modo di vestire, messaggi allusivi, contatti fisici al di là del consentito - si legge nel testo -. Non sono pochi gli uomini da evitare alle feste di Natale. È successo in passato, succede ancora». Da allora è stato tutto un susseguirsi di testimonianze. Giornaliste, politiche, mediche, docenti universitarie. In Danimarca il MeToo è arrivato con tre anni di ritardo. Un cambio di clima subito colto dalla premier Mette Frederiksen che, su Facebook, si è schierata: «Vi sostengo - ha scritto -. Dobbiamo fare qualcosa per cambiare questa situazione e dobbiamo farlo ora». E altri leader politici hanno promesso altrettanto. Il governo danese, però, ha un problema: è il ministro degli Esteri Jeppe Kofod che nel 2008, quando aveva 34 anni ed era il portavoce dei socialdemocratici, ha avuto un rapporto sessuale con una quindicenne. Niente di illegale perché in Danimarca l'età del consenso è proprio 15 anni, ma un comportamento stigmatizzabile tanto che Kofod è stato costretto a scusarsi: «Vorrei poter cambiare quello che è successo, non posso - ha detto venerdì scorso -. Però posso imparare da questo e l'ho fatto». Non è abbastanza per alcune deputate che chiedono la rimozione del ministro anche se la premier lo difende: «È successo tanti anni fa, Jeppe Kofod ha mostrato pentimento e si è scusato. Tanto mi basta». Che la Danimarca fosse indietro nel raggiungimento della parità di genere era già emerso lo scorso anno quando, in un sondaggio condotto da YouGov-Cambridge Globalism Project, soltanto un danese su sei si era dichiarato femminista e un terzo della popolazione aveva giudicato accettabile fischiare una donna per strada. D'altra parte i numeri parlano chiaro: la metà delle aziende danesi non ha nemmeno una donna nel consiglio di amministrazione. La strada da fare è tanta ma il ministro per la parità di genere Mogens Jensen promette tolleranza zero: «Molestie, scherzi, battute sessiste non sono accettabili. E ci saranno conseguenze».
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 29 settembre 2020. Per uscire di casa, un giovane italiano ci mette dodici anni più di uno svedese. Leggo il rapporto Eurostat e cliché preconfezionati mi si proiettano in testa: il maturando Sven Larsson, arrotondata la borsa di studio con ingegnosi lavoretti, saluta senza particolare pathos il parentado e raggiunge in bici la nuova abitazione, mentre Luca Bamboccioni - trent' anni, una laurea, un master e zero redditi -- si stropiccia le occhiaie da pennichella e controlla i primi riccioli grigi nello specchio della cameretta in cui ha fatto tana dai giorni dell' asilo, sbuffando al richiamo della madre: «La pasta è in tavola!». Nella vita vera le cose non stanno così. Sven ha alle spalle uno Stato che aiuta i ragazzi persino più dei vecchi, stendendo una rete di protezione che consente loro di mettere in pratica il verbo della giovinezza: rischiare. Luca B. alle spalle non ha nulla: non uno Stato, non una politica e nemmeno un' economia disposte a credere in lui. Ha solo i genitori. I quali a parole lo vorrebbero autonomo, ma nei fatti sono spesso i primi a scoraggiare il suo spirito di iniziativa, che, quando c' è, va a cozzare contro impieghi nebulosi e stipendi insufficienti a garantire il livello di benessere di mamma e papà. In un Paese dove le rendite hanno superato da tempo il lavoro, ci sono ancora famiglie che possono permettersi di tenere di vedetta i propri figli, nell' attesa che arrivino i Tartari del posto fisso e ben remunerato. Ma fino a quando?
Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera” il 29 settembre 2020. Li hanno chiamati sfigati o choosy , che in inglese sta più o meno per schizzinosi. E ancora inoccupabili, sdraiati o addirittura (come dimenticare?) bamboccioni. Etichette indovinate oppure no, il fenomeno che le ha generate è vivo e lotta insieme a noi. Anzi, sta crescendo. A ricordarcelo è un file di Eurostat, l'ufficio statistico dell'Unione europea. Per ogni Stato membro, il documento dice a quale età i figli vanno via di casa, lasciando il nucleo familiare d'origine, cioè mamma e papà. La media europea è intorno ai 26 anni, 25,9 per la precisione. In Italia siamo un filo sopra quota 30, 30,1 anni. Più tardi di noi, escono di casa solo gli slovacchi e i croati, rispettivamente a 30,9 e 31,8 anni. Non è una sorpresa, certo. Come non stupisce che in Svezia il momento del distacco arrivi ancora prima di diventare maggiorenni, in media a 17,8 anni. Tutti i Paesi del Sud Europa tendono a ritardare il momento dell'indipendenza, e questo non solo perché è più difficile trovare lavoro o perché il lavoro si cerca per altri canali, ma anche per una diversa visione della vita. Colpisce però che la forbice si stia allargando. Nel 2011, quando la grande crisi che di fatto non ci ha mai abbandonato era agli inizi, i giovani italiani lasciavano la famiglia d'origine prima dei 30 anni. Per carità, appena prima, 29,7. Ma che cosa è successo se nel 2019 abbiamo superato la soglia non solo psicologica di quota 30 anni, mentre la media europea è scesa, seppure di uno zero virgola? «A me non sembra un segnale negativo, ma un aggiustamento per adattarci al mondo senza lavoro che sta arrivando» dice il sociologo Domenico De Masi, serafico come sempre. Lui invita ad alzare la lente di ingrandimento dalle tabelle dell'Eurostat e guardare quella che definisce la «striscia lunga dei dati». In che senso? «Nel 1891, in Italia eravamo 30 milioni e lavoravamo 70 miliardi di ore. Adesso siamo il doppio e lavoriamo quasi la metà di ore. Che la tecnologia non distrugga posti di lavoro è una bugia che ci raccontiamo tutti per stare un po' più tranquilli. E se c'è meno lavoro è inevitabile che si resti di più nella famiglia d'origine». Nessun problema, dunque? «No, un problema c'è. Chi resta in una famiglia ricca se la cava, chi resta in una famiglia meno ricca se la cava meno. Bisogna trovare altri modi per dividere la ricchezza. Finora lo abbiamo fatto proprio sulla base del lavoro, con gli stipendi e le pensioni. Ma se il lavoro tende a scomparire?». «In una stagione difficile come questa è inevitabile che le famiglie d'origine diano una mano ai figli per il sostentamento o per l'investimento in istruzione, e li tengano vicini», dice il fondatore del Censis Giuseppe De Rita. Ma non c'è il rischio che andando via di casa più tardi, i giovani italiani fatichino poi a nuotare in mare aperto? «Questo dipende molto dalle famiglie di provenienza. In linea di massima questo rischio non c'è anche perché non è mica vero che chi rimane nel nido ne approfitta sempre per non fare nulla. Semmai il rischio vero è un altro». E quale? «Che ad addormentarsi sia proprio la famiglia di provenienza. Specie dopo il Covid e questo anno di assoluta mancanza di mobilità, non solo fisica, il problema può essere questo». Ma se ci spostiamo dalla sociologia alla psicologia, spuntano altre domande, altri problemi: «C'è sicuramente un fascino nell'essere trattenuti e la famiglia mediterranea tende a inseguire questa chimera del non lasciarsi», dice la psicoterapeuta Anna Salvo. «Il rischio è quello di finire in un'adolescenza protratta, quasi interminabile». E questo può essere un guaio serio. «Certo, perché noi abbiamo bisogno di movimenti oscillatori, di andata e ritorno. Altrimenti compromettiamo la nostra capacità di metterci alla prova. E quella è una ferita che può restare aperta per tutta la vita».
Roberto D’Agostino per VanityFair.it il 15 settembre 2020. A un giovane fan che l’aveva perculato su Instagram (“Da “vita spericolata” a vita in mascherina che tracollo che hai fatto. Brutta fine”), il 68enne Vasco Rossi ha replicato a martellate: “Io la mascherina la metto anche sulle mani e pretendo che la indossino tutti quelli che per qualsiasi motivo mi avvicinano. A tutti gli squilibrati, negazionisti, terrapiattisti, complottisti e socialmentecatti vari impegnati a insultarmi quotidianamente sul web dico di nuovo di andare allegramente a farsi fottere!’’ E adesso sentite come li sfancula il 69enne Carlo Verdone: “Mi fa incazzare l'omologazione che avvolge i giovani. Sono tutti uguali: nei capelli, nei tatuaggi, nel gergo. Nessuno riesce a distinguersi davvero”. Si dà il caso (ma non è un caso) che per anni la Società dei Costumi (intellettuali, sociologi, psicologi) si è occupata con fervido entusiasmo della gioventù, del quindicenne precipitoso, della ragazzina stupidona, del rockettaro strafatto, della piccina brufolosa stanca di sopravvivere; ogni loro gesto, dichiarazione, capriccio, anche il più demente, veniva rumorosamente narrato e gonfiato sotto le telecamere e sopra le copertine dei rotocalchi. Si viveva in un'epoca di sacralità giovanile, generosamente aperta a tutte i punk-rap-rave-acid-funk-grunge-techno, ecc. Si dà il caso (ma non è un caso) che l'estate del Covid ha messo in scena la giovinezza più vigliacca; talmente vile e idiota che fa venire voglia di gettarla nell'olio bollente, come un sofficino Findus. Non avendo conosciuto i turbamenti del giovane Törless o provato i dolori del giovane Werther, né si riconoscono negli sfinimenti del giovane Holden o nella disperazione del giovane Curcio, i Covidioti non vogliono portare il lutto di nulla. Di fronte a una pandemia che sta ribaltando la vita di tutti in ogni angolo del mondo, non possono permettersi altro sacrificio che il divertimento. Finita la quarantena, malgrado mille avvertimenti e oltre 35 mila morti, s'imbottigliano in discoteca a mezzanotte, e si mettono a nanna alle otto del mattino, "strippati" e lessi. E da tale Rincoglionificio (“Non mi faccio mica rovinare le vacanze dalla paura del Covid”), il virus è di nuovo dilagato. Accanto al dramma della salute (il 14 settembre riaprono le scuole) e dell’economia (se si sbloccano i licenziamenti, saranno sommosse di piazza), c'è un altro trauma: quello che costringe persino genitori e figli, nonni e nipoti, fratelli e sorelle a percepirsi come reciprocamente pericolosi. Il Covid sta cambiando le nostre vite ma probabilmente il terreno su cui sta avvenendo il cambiamento più radicale è quello della gioventù, a partire dagli effetti sul modo di funzionare delle loro menti. Da Elvis e Beatles in poi, dai giovani ci si aspetta sotto sotto le solite tre cose: rivoluzioni, neologismi e porcherie. (Cose che poi arrivano sempre da parte dei vecchi). Una volta era la "sofferenza" di diventare grandi il punto di partenza; un frenetico modo di riempire i buchi della vita, sia quelli del dolore sia quelli della noia. Si andava alla ricerca del piacere non come fine, ma come terapia. Come mai, da Kerouac a Ginsberg, da Frank Zappa a “Porci con le ali”, siamo finiti a questi cretini senza passato né futuro - rompiballe di giorno, perversi di notte, insopportabili di pomeriggio, capaci solo di avere i “nasi comunicanti’’ per un tiro di coca? Ma l’anarchia mentale che li attanaglia sembra adesso perfino più oscura e confusa. C'è una formidabile vignetta di Altan per capire come è cambiata l'immagine della giovinezza, oggi. Con l'espressione stropicciata di uno che è appena uscito da una lavatrice, ecco un bebè che strilla alla cicogna: "Da chi mi porti?". E l'uccellone bianco, con l'occhio a mezz'asta, sospira: "Che te frega? Tanto son tutti stronzi uguali". Ma sì: in tempi di deliri inimmaginabili, di virus assurdi, di horror quotidiano, la cicogna di Altan è una desolata metafora che potrebbe anche voler dire: su ragazzi, piantate lì tutto, chiudiamo la bottega delle illusioni, non c'è più niente da fare.
PS. Modestamente, voglio avanzare una proposta. Dopo averli mandati a svacanzare in Sardegna o a Panarea, ora portateli a visitare gli ospedali. La repressione del vociare e dell'allegria sarebbe automatica, fin dall'entrata. Fategli vedere, per gradi, a seconda dell'età, tutto: sale operatorie, obitorio, oncologia, aids, parto, grandi ustionati, bambini, pronto soccorso, rianimazione. Imparino che la gioventù non è una stagione della vita, è solo uno stato mentale.
Zoomer contro boomer. la rivoluzione al tempo di Tik Tok (e Trump). Riccardo Luna il 23 giugno 2020 su La Repubblica. Un posto dove i giovani di tutto il mondo trascorrono ogni giorno un'ora e mezzo del loro tempo, non fissando uno schermo e basta, come su Netflix o YouTube, ma creando qualcosa ed esprimendosi, è il posto da guardare per capire quando arriverà la rivoluzione. Quel posto evidentemente non è Facebook (dove stanno i genitori e i nonni); non è Twitter (prediletto da politici e giornalisti e utile semmai per interloquire con queste categorie); e non è nemmeno Instagram (più adatto a selfie spettacolari). Quel posto è Tik Tok. Lo avevamo già detto, segnalando la trasformazione che c'era stata nel social network cinese dei video brevi e scemi, diventato recentemente il luogo prediletto di espressione del movimento antirazzista. Infatti, grazie anche al fatto che la durata delle clip era stata portata da 15 a 60 secondi, è su Tik Tok che si potevano trovare i migliori video di Black Lives Matter. Storie, commentate. Ora arriva la vicenda, irresistibile, degli adolescenti di Tik Tok che sabotano la grande manifestazione elettorale di Donald Trump prenotando online un milione di biglietti per lasciarlo solo in un palazzetto semivuoto a Tulsa, Oklahoma. Vero, esagerato? Esagerato. Ma è vero che due settimane fa è stata una utente di Tik Tok dello Iowa, Mary Jo Laupp, a lanciare l'idea del sabotaggio, ma lei non è più da tempo una adolescente: ha 51 anni, è una attivista dei diritti civili e firma i suoi video ironicamente come "nonna Tik Tok". Da un video di Mary Jo la cosa ha preso piede grazie ad #AltTikTok, una rete alternativa rispetto a quella ufficiale, dove si trovano così diverse dai balletti e dalle challenge, un po' più toste. A rendere quel video popolare di "nonna TikTok" virale è stata la rete di #alttiktok assieme ai fan del pop coreano che sono moltissimi e molto attivi online (la settimana scorsa il concerto in streaming dei BTS ha totalizzato quasi 800 mila spettatori paganti e online). Così si dice. Possibile che i responsabili della campagna di Trump - non esattamente degli sprovveduti - si siano fatti beffare da qualche migliaio di adolescenti che si è registrata su un sito dovendo lasciare un numero di telefono provvisorio? Sì, possibile, anche se probabilmente dietro il flop di Tulsa non c'è solo Tik Tok (Donald Trump nei sondaggi è molti punti dietro Joe Biden, qualcosa vorrà pur dire); ma sicuramente c'è anche Tik Tok che è diventato ormai un'altra cosa. Uno strumento per l'attivismo giovanile. Ieri infatti il social era invaso di video di "zoomer" (che non sono gli utenti di Zoom ma gli esponenti della Generazione Z che hanno fra 13 e 25 anni), che festeggiavano il flop del presidente facendo un balletto davanti ai biglietti prenotati e non utilizzati per Tulsa sulla note di Macarena, una canzonetta estiva di tanti anni fa, il 1993, quando loro non erano ancora nati. Insomma su Tik Tok è andata in scena una sfacciatissima e allegra presa per i fondelli che faceva da contraltare ad alcuni video postati il giorno prima dal palazzetto di Tulsa dove si vedevano alcuni attempati sostenitori di Trump sbadigliare mentre il presidente prometteva di fare di nuovo l'America grande, slogan che deve sembrare una vecchia solfa persino per certi boomer (boomer: esponenti della generazione del baby boom, nati fra le fine della seconda guerra mondiale e la prima metà degli anni '60). Ora sarebbe un errore madornale dare Trump già per sconfitto alle elezioni del 3 novembre partendo da questo episodio divertente ma circoscritto. Anche perché ieri l'emittente più vicina alla Casa Bianca, Fox news, si è affrettata ad annunciare che il palazzetto di Tulsa sarà anche stato mezzo vuoto, ma il presidente ha battuto ogni record di ascolto in tv per il sabato sera: quasi otto milioni di persone. Eppoi, come si diceva una decina di anni fa a proposito di Twitter, "la rivoluzione non sarà twittata". E se non basta un tweet a far cadere un regime, non basterà una goliardata su Tik Tok a far sloggiare l'inquilino della Casa Bianca. L'attivismo va portato nelle piazze e poi nelle urne, come ha ricordato qualche giorno fa l'ex presidente Barack Obama. Epperò va annotato il cambio di registro che Tik Tok mette in campo: intanto è un social dove i non più giovanissimi si sentono estranei, è un terreno di gioco che ti fa sentire fuori posto se hai 30 anni. E' casa loro. Eppoi il linguaggio che produce è allegro, beffardo, scanzonato. E come sapevano già gli antichi romani, non c'è nulla che faccia più male a chi gestisce il potere che uno sberleffo ben piazzato. Insomma se la sfida "zoomer contro boomer" promette di essere il nuovo '68, forse una risata ci salverà.
DAGONEWS il 5 maggio 2020. Ormai siamo alla frutta. L’ultima tendenza tra gli adolescenti che popolano Tik Tok è la “Pee Your Pants Challenge”, ovvero ragazzetti che si pisciano nei pantaloni e si riprendono mettendoci pure la faccia. L’ultima stronzata è stata partorita da Liam Weyer, 19 anni, del Kansas, che si è filmato davanti allo specchio mentre urinava nei pantaloni, riprendendo anche la pozzanghera che si creava ai suoi piedi. Una scemata che meritava di finire nel dimenticatoio e che, invece, è diventata l’ultima sfida tra ragazzini: adesso il social è popolato di adolescenti che si pisciano addosso mentre i video con l'hashtag #peeyourpantschallenge hanno raggiunto gli oltre 3,3 milioni di visualizzazioni.
Baby gangster, tutti i numeri di un’emergenza che non esiste. Alessio Scandurra de Il Riformista il 22 Febbraio 2020. Nelle carceri minorili italiane il 15 gennaio erano detenuti in tutto 352 ragazzi e 23 ragazze. Questo piccolo numero racchiude in se molte sorprese. Anzitutto per quanto è piccolo. Nonostante i ragazzi detenuti nei nostri IPM siano da tempo in calo, di fatto questo è uno dei numeri più bassi mai registrati nella storia dell’Italia repubblicana. Altra sorpresa, da tenere però sempre a mente, è che la maggioranza di questi ragazzi, il 58%, pur avendo commesso il reato da minorenni, è oggi maggiorenne. Non stiamo dunque parlando solo di ragazzini. Ulteriore sorpresa, almeno per alcuni, è il fatto che questa diminuzione del ricorso al carcere non abbia comportato una crescita dalle criminalità minorile. Al contrario fra il 2014 e il 2018 le segnalazioni da parte delle forze di polizia all’autorità giudiziaria riguardanti i delitti commessi da minori sono diminuite dell’8,3%. Calano gli omicidi volontari (-46,6%) e colposi (-45,4%), i sequestri di persona (-17,2%), i furti (-14,03%) e le rapine (-3,9%). Chiunque gridi all’emergenza in materia di criminalità minorile lo fa ignorando, più o meno deliberatamente, i fatti. I tassi di delinquenza minorile italiani sono tra i più bassi d’Europa e, come abbiamo visto, il fenomeno è ulteriormente in calo. Questi numeri non sono però piovuti dal cielo. Al di là delle attività educative e di prevenzione, nella scuola e fuori, che restano lo strumento fondamentale con cui si costruire una comunità solidale e coesa, nel corso degli anni il sistema della Giustizia minorile ha sviluppato una gamma articolata ed efficace di risposte alla devianza che hanno relegato il carcere al ruolo di strumento marginale. A fronte dei 375 ragazzi detenuti al 15 gennaio 2020, nella stessa data i ragazzi provenienti da percorsi penali e che erano ospitati nelle comunità di accoglienza per minori erano 1.104. La scelta che ha fatto il nostro sistema è chiara. Non si pone più al centro il carcere ma una rete di strutture, le comunità appunto, che guardano anzitutto ai bisogni educativi e di crescita del minore e che lasciano l’istanza repressiva in secondo piano. Anche nei numeri, dato che si tratta di strutture che ospitano in prevalenza minori che non provengono dall’area penale ma che hanno solo bisogno di accoglienza e supporto. E non ci sono solo le comunità. Solo nel primo semestre del 2019 sono stati 2.382 i provvedimenti di messa alla prova, 3.653 in tutto il 2018. La messa alla prova rappresenta un istituto di grande interesse, esteso recentemente anche agli adulti. Non si tratta solo di una alternativa al carcere, ma allo stesso processo, che viene sospeso durante la misura. Se questa avrà successo, ed è così in oltre l’80% dei casi, alla sua conclusione il reato verrà dichiarato estinto. Ad un quarto circa dei ragazzi messi alla prova il giudice prescrive il soggiorno in comunità ma gli altri eseguono la misura nel proprio contesto di provenienza, con la propria famiglia, andando a scuola, al lavoro o svolgendo attività di volontariato. Il quadro non è ovviamente tutto rose e fiori. Chi finisce in IPM spesso trova strutture inadeguate rispetto ai compiti ambiziosi previsti dalla legge ed anche le comunità non sono tutte uguali, ma è certo che il sistema della giustizia minorile italiano è riuscito a ridurre al minimo il ricorso al carcere garantendo al tempo stesso sicurezza alla collettività e sostegno ed opportunità a chi ha commesso il reato. Non a caso anche all’estero il caso italiano è guardato con grande interesse. Sicurezza per la collettività e sostegno ed opportunità per gli autori di reato. Un binomio che solitamente ci viene proposto in forma di contrapposizione: per garantire la sicurezza della collettività bisogna chiudere la gente in galera e buttare via la chiave, altro che sostegno ed opportunità per gli autori di reato. L’esperienza della giustizia minorile italiana dimostra l’esatto contrario.
Da “il Giornale” il 9 febbraio 2020. Per non essere disturbato durante la festa con gli amici, ha pensato bene di mettere la mamma sotto chiave. Non in senso metaforico, ma sul serio. E così una mamma 44enne si è ritrovata chiusa nella camera da letto. Il tutto mentre in salotto il figlio 15enne se la spassava. Il ragazzo, come riferisce Il Resto del Carlino, è stato così arrestato dai carabinieri di Medicina (Bologna) con l' accusa di maltrattamenti in famiglia. È successo l' altra notte, quando il giovane ha invitato a casa sua quattro amici minorenni, tra cui una 12enne con problemi di salute e una 15enne che di recente si erano allontanate dalle rispettive abitazioni, facendo preoccupare i genitori che si erano rivolti ai carabinieri di altre stazioni della provincia di Bologna per denunciarne la scomparsa. Grazie all' intervento di un' altra figlia 17enne che è entrata in casa, la donna è stata liberata ed è corsa in caserma, dai carabinieri, per denunciare una serie di soprusi, minacce e altre aggressioni che di recente il figlio 15enne aveva commesso nei suoi confronti e anche in quelli della sorella 17enne, «bullizzandola» per l' aspetto fisico. Rintracciato poco dopo dai militari, mentre si trovava ancora col gruppo di amici, il 15enne, per nulla intimorito dalla situazione, è finito in manette. I quattro minorenni sono stati affidati ai genitori. Su disposizione dell' autorità giudiziaria minorile, il 15enne è stato condotto in un centro di accoglienza.
Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2020. Addio sogni di gloria fuori tempo massimo. La Corte di Cassazione ha stabilito che, una volta conclusi gli studi, un figlio ha il dovere di rendersi autonomo dai propri genitori e cercarsi un'occupazione in grado di mantenerlo. Anche se non rispecchia i propri sogni. Perché, spiegano i giudici, «un figlio non può pretendere che a qualsiasi lavoro si adatti, in vece sua, soltanto il genitore». L'assegno di mantenimento, aggiungono, «non è una copertura assicurativa». E spetta al ragazzo dimostrare che ne ha ancora bisogno o perché sta facendo di tutto per trovare lavoro o perché dimostra, ad esempio con il merito nello studio, che ne ha ancora bisogno. Il principio è stato stabilito nella sentenza 17183 della prima sezione civile della Suprema Corte, presieduta da Maria Cristina Giancola, che ha respinto il ricorso di una donna, contro la decisione della Corte d'appello di Firenze del 29 marzo 2018, di revocare l'assegno del ragazzo (ridotto da 300 a 200 euro) e l'assegnazione della ex casa familiare. Insegnante di musica precario, con le supplenze il giovane guadagnava una media di 20 mila euro lordi l'anno. Uno scenario ormai consueto. A 30 anni però (ormai diventati 35) secondo la Cassazione non può più pensarci il babbo. C'è bisogno di passare da un'ottica di assistenzialismo a quella di una diffusa autoresponsabilità. E, per questo, spetta al ragazzo «ridurre le proprie ambizioni adolescenziali». I figli non possono approfittare «in malafede» del genitore. E commettere così un abuso di diritto. Il giudice di primo grado aveva accennato al fatto che il figlio maggiorenne era «insegnante precario che conclude meri contratti a tempo determinato, come tale di fatto incapace di mantenersi». E aveva aggiunto che «l'impiego deve essere all'altezza delle sue professionalità ed offrirgli un'appropriata collocazione nel contesto economico sociale adeguato alle sue aspirazioni». In mancanza di ciò, «l'obbligo di mantenimento permane». La Corte d'appello aveva ritenuto, invece, che «l'obbligo va messo in relazione alla capacità di mantenersi». E dopo i trent' anni va presunta per chi non ha deficit, come avviene in tutte le parti del mondo». In Italia il 64,3% dei giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni - dicono i dati Istat relativi al 2019 - vive in famiglia con almeno un genitore. La Suprema Corte ha accolto la linea della Corte d'appello. E ha stabilito che «dimostrare che si ha ancora diritto al mantenimento è a carico del richiedente». E se sussiste «uno stile di vita volutamente inconcludente o sregolato oppure l'inconcludente ricerca di un lavoro protratta all'infinito, il figlio non avrà certo dimostrato di avere diritto al mantenimento». Ne deriva quindi, concludono i giudici, «che la prova del diritto all'assegno di mantenimento sarà più gravosa, man mano che l'età del figlio aumenta». A 35, a quanto pare, si è fuori tempo massimo.
Andrea Bucci per "lastampa.it" il 7 febbraio 2020. Per il tribunale di Ivrea il padre non è più obbligato a mantenere la figlia di 34 anni. Davide Meloni, 57 anni, ora residente in provincia di Cagliari è stato assolto, nei giorni scorsi, dal giudice di Ivrea Elena Stoppini. Una sentenza che ribalta il provvedimento del giudice del tribunale di Cagliari che invece imponeva al papà, dopo la separazione dalla moglie avvenuta nel marzo 2009, di corrispondere 250 euro al mese per garantire sussistenza alla figlia, all'epoca 24 enne, che vive a Ivrea e non aveva un lavoro stabile. I fatti erano avvenuti a Ivrea tra il marzo 2012 e il maggio 2013. La figlia che dal 2012 non ha più ottenuto la sussistenza economica da parte del padre lo aveva prima denunciato e poi si era costituita parte civile nel processo. Per il legale della ragazza, l'avvocato Fillippo Amoroso di Ivrea, la sentenza letta in aula dal giudice Stoppini potrebbe essere impugnata: «Il tribunale di Ivrea ha disatteso il provvedimento emesso nel 2009 dal giudice di Cagliari». Inoltre per l'avvocato il giudice di Ivrea: “Non ha tenuto conto del profondo disagio in cui la ragazza ha vissuto dal 2012 al 2017. Non aveva un lavoro stabile. Le mancavano i mezzi di sussistenza e addirittura, per un certo periodo della sua vita, è stata ospite di amici». La sentenza di assoluzione potrebbe fare giurisprudenza. Il padre avrebbe rischiato fino a un anno di reclusione, invece il giudice Elena Stoppini ha deciso che l’uomo, ora in difficoltà economiche a causa del fallimento della società dove aveva lavorato per 32 anni e nel 2014 aveva ricevuto il Tfr dall’Inps, non è più obbligato a mantenere la figlia che a partire dal 2017 ha un lavoro saltuario e convive con una compagna.
Ivrea, a 34 anni denuncia il padre che non la mantiene: il giudice dà ragione al genitore. Il tribunale di Ivrea si pronuncia in favore del papà: "La figlia è in grado di lavorare". Ottavia Giustetti il 07 febbraio 2020 su La Repubblica. Non paga gli alimenti alla figlia adulta anche se la sentenza civile di divorzio ha fissato, per il padre, l'obbligo di contribuire al mantenimento della ragazza con 250 euro al mese. Ciononostante, il giudice di Ivrea Elena Stoppini lo assolve, ritenendo che la figlia è in grado di lavorare e lo ha dimostrato con dei piccoli impieghi saltuari. Un sentenza che ribalta i criteri di un'altra decisione gudiziardia. Protagonista di questa nuova vicenda è una giovane donna, ora 34enne, che fino al 2017 ha avuto gravissime difficoltà a mantenersi. Era iscritta alle agenzie interinali ma non riusciva a trovare impieghi regolari. Alla fine, in chiusura d'anno arrivava al massimo a guadagnare 3mila euro. "Ha dovuto chiedere prestiti per pagare le spese condominiali, ha perso la casa quando la madre è finita nei guai con la giustizia, spesso è riuscita a mantenersi soltanto andando alla mensa per i poveri" racconta il suo avvocato, Filippo Amoroso di Ivrea. La ragazza ha trovato una situazione stabile solo a partire dal 2017, ma dal momento del divorzio dei genitori, quando aveva già 24 anni, ha ricevuto solo saltuariamente l'assegno di mantenimento del padre che di mestiere fa la guardia carceraria e che ha portato in giudizio la nuova compagna e la sorella per dire che non era in grado di versare il mantenimento. La prima sentenza, quella di divorzio consensuale era stata disposta dal tribunale civile di Cagliari dove si è celebrata la causa. "Padre e madre avevano concordato l'assegno per la figlia e all'epoca lei era già maggiorenne - dice Amoroso - quando la ragazza si è trovata in gravissime difficoltà ha chiesto aiuto al padre ma lui l'ha abbandonata a se stessa". Davide Meloni, 57 anni, ora residente in provincia di Cagliari è stato assolto sia dall'accusa di non aver mantenuto la figlia sia di aver violato la sentenza di un precedente giudice. "Su questo secondo punto - dice l'avvocato di parte civile - faremo di sicuro ricorso, perché è un reato formale che non riguarda la ricostruzione del fatto. Se il padre voleva smettere di pagare il mantenimento doveva chiedere una modifica della sentenza di divorzio, cosa che non ha fatto".
La bugia dentro una paghetta. Ha fatto notizia la sentenza del Tribunale di Torino sulla "paghetta" che un padre dovrebbe versare alla figlia. Daniela Missaglia il 20 dicembre 2019 su Panorama. Se un accento o un apostrofo possono cambiare il senso ad una parola, figuriamoci cosa potrebbe accadere se si lasciasse interpretare liberamente una sentenza a chi non ha gli strumenti per comprenderla e, magari, cerca solo lo scoop.
“Figlia vuole la paghetta a 33 anni: il tribunale le dà ragione e condanna il papà”.
“Figlia 33enne guadagna 700 euro al mese: "Papà le dia la paghetta".
“Torino, il verdetto del giudice: "Papà le dia la paghetta anche se ha 33 anni".
Ma quale paghetta e paghetta ! Il messaggio veicolato è sbagliato perché ciò che è accaduto, a Torino, è cosa ben diversa da quanto raccontano questi fuorvianti titoli di stampa. Andiamo al sodo: il Tribunale penale di Torino non ha sancito alcun diritto all’argent de poche di una figlia trentatreenne che lavora, ma solo comminato una pena ad un padre che, dal 2012, cioè ben sette anni prima, si era sottratto all’obbligo di mantenimento. Esisteva, infatti, una sentenza che lo condannava a corrispondere un assegno alla figlia - poco o tanto che fosse è irrilevante - e lui non lo ha fatto. Punto. Il codice penale punisce queste condotte e l’accertamento che il Tribunale di Torino ha effettuato concerneva solo l’omissione di questo papà e le eventuali giustificazioni dello stesso, senza poter certamente decidere altro. E’ solo il Giudice civile, nell’ambito di un procedimento di modifica delle condizioni di separazione o divorzio, a poter modificare o revocare le precedenti decisioni: il Giudice penale può solo limitarsi a prendere atto di un provvedimento dell’Autorità Giudiziaria civile. Siamo quindi totalmente fuori contesto: nessuno ha statuito il diritto divino alla "paghetta", tantomeno i figli maggiorenni fannulloni o coloro che già lavorano, quand’anche precari. L’obbligo di mantenere i figli, nel nostro ordinamento, non è ancorato ad un’età determinata ma permane, indipendentemente dal raggiungimento della maggiore età, fino al conseguimento della cosiddetta “autosufficienza economica”, ossia quella condizione di indipendenza tale da consentire ai ragazzi di provvedere da soli alle proprie esigenze di vita. Con ciò non significa che i figli possano appendere il "cappello al chiodo" di mamma e papà e crogiolarsi in eterne prebende dei "fessi" che li hanno generati. Con ordinanza del 29 marzo 2016, il Tribunale di Milano ha persino provato a stabilire l’età, 34 anni, oltre la quale il figlio non possa più pretendere il mantenimento e debba attivarsi autonomamente per diventare indipendente, anche se non è un orientamento vincolante ma solo un riferimento di massima, da valutare caso per caso. Ma tutto questo non centra con la vicenda di Torino. Spettava a questo padre rivolgersi al Giudice civile e far revocare la precedente decisione. Non lo ha fatto e posso anche comprenderlo (disoccupato ed in difficoltà, come si legge), ma senza una revoca del precedente titolo non si può apparecchiare la tavola in casa d’altri: il Tribunale penale di Torino ha solo applicato la legge. Sarebbe bastato un consulto legale, ma pare che molta gente sia allergica, un po’ come andare dal dentista. Forza papà di Torino, non è mai troppo tardi.
Azzurra Barbuto per “Libero Quotidiano” il 20 dicembre 2019. Li chiamiamo "bamboccioni" e "mammoni", ci lamentiamo del fatto che si comportano da eterni adolescenti pure quando entrano negli anta, ché di riuscire a schiodarli dalla casa dei genitori, più confortevole di un hotel 5 stelle, non se ne parla. Troppo comodo campare sugli altri, come fanno i parassiti. Eppure se tanti giovani italiani non diventano maturi mai e rinviano sine die decisioni e responsabilità, come quella di pagarsi da soli le bollette, la colpa è soprattutto degli adulti e di una società che, invece di favorirne la crescita, li preserva e li coccola e li giustifica e li pasce, trasformandoli in pappemolli: da soli sono persi e hanno difficoltà persino ad accendere un fornello per cucinare un uovo al tegamino. Codesta mentalità tipicamente italiana è talmente interiorizzata e sedimentata che conduce addirittura a sentenze che fanno accapponare la pelle a chi conserva miracolosamente un minimo di buonsenso. È accaduto a Torino: un padre, 63 anni, il quale si è dichiarato nullatenente e attualmente risulta addirittura disoccupato, è stato condannato in primo grado a due mesi di galera - pena sospesa, naturalmente - per avere smesso da qualche annetto di versare ogni mese alla figlia, la quale ha un lavoretto, la somma di 258 euro. È stata la donna, che non è mica una bimbetta, avendo 33 anni suonati e nessuna disabilità che la renda inabile alla fatica, a denunciare il babbo nel 2014, specificando che l'uomo aveva smesso di contribuire al suo sostentamento dal 2012, ossia quando la signorina era ventiseienne. Peraltro il papà, come ci ha spiegato il suo avvocato, Carmine Ventura, ha aiutato la ragazza ad acquisire autonomia trovandole un impiego come segretaria, attività che ella ha perduto per motivi non imputabili al babbo. La domanda sorge spontanea: ma a 33 anni, come a 26 del resto, non è il caso di smetterla di pretendere le poppate e la paghetta da chi ci ha messi al mondo? Insomma, fino a quando su un padre ed una madre grava il dovere di provvedere materialmente ai discendenti e, soprattutto, è accettabile che codesto obbligo si protragga a vita, pure allorché il figlio diventa adulto ed il genitore versa in grave difficoltà economica, pena il ritrovarsi in gattabuia? Quando anche un tribunale riconosce ad un uomo ed una donna in buona salute e sopra i trent' anni il diritto di ricevere un assegno dal padre, si legittima, si appoggia e si avalla un atteggiamento di parassitismo sociale, il quale induce il soggetto a non darsi da fare per la propria esistenza e il proprio futuro, poiché tanto tocca a coloro che lo hanno concepito di provvedere al suo benessere, riempirgli il frigo e soddisfare i suoi capricci. Ecco perché la sentenza del tribunale di Torino, a nostro avviso, è fortemente diseducativa non solo per la diretta interessata il cui babbo, secondo la giustizia, dovrebbe in teoria finire in cella alla stregua di un criminale, bensì per generazioni di giovani che, invece di essere riconoscenti a genitori che ne finanziano studi e passatempi, con arroganza esigeranno tutto ciò che ritengono sia loro dovuto e non fino alla laurea e all' inserimento lavorativo ma persino ben oltre.
UN PRECEDENTE. Una sentenza infatti crea un precedente, fa giurisprudenza, incide sui costumi, sulla civiltà, talvolta peggiorandola, anziché migliorandola come sarebbe opportuno. Insomma, stiamo allevando degli inetti e la nostra unica preoccupazione è come rendere loro l' esistenza ancora più comoda. In questa smania collettiva di autoflagellazione ed autocolpevolizzazione che ha preso gli italiani si è affermata la visione distorta in base alla quale se ai giovanotti mancano lavoro ed opportunità la responsabilità è delle vecchie generazioni, le quali devono pagare, anzi devono essere punite. Come in questo caso: il babbo merita la prigione, la figlia trentatreenne l' assegno. Nessuno osa dire a quest' ultima: "Sei abbastanza grande per provvedere da sola a te stessa". I giudici ci spieghino almeno fino a quale età corre l' obbligo di mantenere la prole che potrebbe benissimo essere autosufficiente se solo la smettesse di contare sulla "borsetta di mammà" e si rimboccasse le maniche. Purtroppo qui c' è in ballo qualcosa di molto più importante dei 200 o dei 300 euro mensili per mangiare. È in gioco la dignità della persona. E per la tutela di codesto decoro la faccenda familiare non sarebbe dovuta arrivare in aula. Invece di pagare gli avvocati e perseguitare il padre, buono o cattivo che sia stato, per ottenerne i denari, l' agguerrita signora avrebbe fatto meglio a conservare l' orgoglio e ad adoperarsi per incrementare da sé le proprie entrate, qualora reputate insufficienti. I genitori ci hanno donato la vita, non succhiamogli il sangue.
· Un popolo di Maleducati.
Melania Rizzoli per Libero Quotidiano l'8 ottobre 2020. "Grazie" è la parola che pronunciamo tutti più volte al giorno, spesso come puro segno di formalità, convenzione sociale o cortesia, senza soffermarsi sull'immenso valore di questo vocabolo, uno dei primi che si imparano da piccoli e che non viene più dimenticato. Saper ringraziare non è solo sinonimo di educazione, perché coinvolge la capacità emotiva e una serie di fattori psicologici che hanno effetti sullo stato di benessere generale. Quando si esprime gratitudine si sottolinea la riconoscenza per un beneficio ricevuto, la lode verso chi lo ha reso possibile ed infine la disponibilità a ricambiare, ma sovente si dimentica il significato intrinseco di una parola così importante, troppo spesso ridotta con superficialità ad un automatismo linguistico privo di reale intenzionalità di ricambiare o riconoscere una cortesia. L'essere grati infatti è una sempre meno comune predisposizione mentale che influenza il modo in cui consideriamo gli avvenimenti positivi della vita di tutti i giorni, un atteggiamento che favorisce il benessere fisico, in quanto ringraziare con sincerità immette in circolo neurotrasmettitori in grado di agire direttamente sul sistema immunitario, abbassare la pressione sanguigna e migliorare il sonno. Invece ogni giorno diciamo grazie in modo irriflesso, perché fa parte di quelle parole che utilizziamo all'interno dei copioni sociali, come se il ringraziare facesse parte delle regole formali di una condotta socialmente accettata e scontata. La disponibilità a sentirsi grati però, troppo spesso diminuisce nella misura in cui ciò che si ha o si riceve è ritenuto un proprio diritto, quando per esempio una persona ritiene di ricevere dall'altra ciò che le è dovuto e che si merita, mentre diversa è la situazione di coloro che provano gratitudine perché sentono e avvertono la presenza comune di un dono nei loro confronti. Per molti anni la parola "grazie" non è stata presa in considerazione dalla psicologia sociale, e solo da quando è stata oggetto di studio ha evidenziato come troppe persone, quando devono spiegare i propri successi li attribuiscono alle abilità personali, mentre i fallimenti e gli insuccessi vengono regolarmente connessi ad eventi esterni, dimenticando che da secoli la coesione della società si basa su un'adeguata dinamica tra benefici dati e benefici ricevuti, e pronunciare un sincero "grazie" consente il riconoscimento di quanto ricevuto, ma anche l'impegno a restituire il dono avuto, a ricambiare gratuitamente in una interminabile danza di avvicendamento che alimenta l'emozione sociale. Ragionando in un'ottica scientifica, la parola "grazie" assume spesso una valenza completamente diversa, poiché riconoscere, e sentirsi riconosciuti, è uno dei bisogni fondamentali dell'essere umano e sta alla base delle nostre relazioni. Ma perché a volte è così difficile dire grazie? In taluni casi l'idea di dover ringraziare è inquinata da una cultura permeata da dinamiche di debito/credito, in cui tutto sembra ricondursi al famigerato "do ut des", ed in quest' ottica è comprensibile che il riconoscere di aver ricevuto può far sentire manchevoli in qualcosa e in debito verso qualcuno. Le personalità narcisistiche, egoistiche, ambiziose ed ignoranti, che non riconoscono il proprio disturbo psicologico, dovuto a supervalutazione autoriferita delle proprie capacità, non si sentono in obbligo di dover rendere qualcosa, di cui magari nemmeno dispongono, bensì meritevoli di un gesto o di un'attenzione solo in virtù di quello che si sono auto convinti di essere. Molto spesso si tende a dare per scontate cose che in effetti non lo sono e che meritano invece gratitudine, poiché il benessere emotivo passa sempre attraverso il filtro del ringraziamento costante per ciò che si è avuto dalla vita rispetto a ciò che si era, che si è ottenuto e che si è diventati. I rapporti affettivi e personali con le persone che ci circondano diventano più forti grazie all'energia sprigionata dalla riconoscenza reciproca, un grande aiuto nelle diverse fasi della vita, e la riconoscenza verso le persone che ci hanno aiutato è un ottimo antidoto al lamento, al pensiero ruminante, ossessivo, tipico delle persone ingrate, che non genera nullo di positivo. Spesso fatichiamo a trovare le parole giuste per esprimere gratitudine verso qualcuno, e magari si preferisce inviare un'emoticon di una faccina con gli occhi a cuore rispetto ad usare la parola "grazie", un gesto che ci contraddistingue in quanto esseri umani, perché ringraziare rientra nella sfera del dovere più che il diritto, ed in ultimo, ma non meno importante, non costa niente!
La netta differenza tra vivacità e maleducazione. Elvira Fratto il 14 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. “State buoni, se potete”, raccomandava Don Filippo Neri agli orfani di cui si occupava, nella povera Roma del Cinquecento. Un appello che si è conservato attraverso i secoli e un po’ anche tra i denti, ogni qualvolta ci si trova in compagnia di bambini spesso troppo movimentati. Il monito non è comunque stato d’aiuto a un ristoratore di Roma, che oggi rischia di ritrovarsi a dover risarcire un danno da 30.000 Euro alla famiglia di una piccola cliente, ustionata con una pizza bollente rovesciata da una cameriera, la quale era stata spintonata da un altro bambino. L’incidente avviene nel 2007, dopodiché la famiglia della piccola infortunata chiama in causa il locale chiedendo un risarcimento danni. Il Tribunale di Ostia rigetta la richiesta, ma in Appello il ristoratore viene condannato a risarcire la famiglia, poiché avrebbe dovuto prevedere che i piccoli clienti sarebbero stati un potenziale pericolo per il servizio in sala. La Corte d’Appello ha insistito nel condannare la condotta “troppo tollerante” del proprietario del locale che non aveva rimproverato i bambini, asserendo che avrebbe dovuto essere più intransigente e prevedere il loro eccessivo movimento. L’orientamento concorde della Cassazione su questo punto ha definitivamente confermato la condanna a carico del ristoratore. Nelle motivazioni della Suprema Corte ritroviamo perfino l’esempio del giurista romano Ulpiano, che considerò responsabile un barbiere che ferì alla gola un suo cliente con il rasoio dopo essere stato urtato dalla pallonata di alcuni ragazzini, perché era cosciente di stare esercitando la propria attività in una zona frequentata da molti bambini. A ciò la Cassazione ha aggiunto anche che i ristoratori hanno la responsabilità del benessere del cliente nel momento in cui lo stesso entra nel locale, e che il loro non si limita a essere un mero servizio di erogazione di cibo e bevande nei confronti di chi paga. Tuttavia, la Suprema Corte ha “restituito” il caso alla Corte d’Appello poiché non appaiono chiare le motivazioni della sentenza: qual è stato l’effettivo danno estetico per la bambina? Con quali criteri si è arrivati a individuare nella somma di 30.000 euro l’importo del risarcimento? Una spinta che rischia di costare parecchio, quindi, sulla pelle (letteralmente) di una bambina ustionata e di un ristoratore considerato direttamente responsabile. Ma se sul piano giuridico possiamo rifarci perfino ai nostri avi romani per ricondurre le colpe di un incidente all’esercente di un’attività, è altrettanto comprensibile, sul piano puramente umano, che i genitori non abbiano alcuna responsabilità per l’incapacità dei propri figli di osservare le regole del luogo in cui si trovano con quel minimo di educazione necessaria a qualsiasi età? Pochi mesi fa si gridava allo scandalo per la decisione del proprietario di una pizzeria di non accettare bambini nel suo locale, proprio perché consapevole del fatto che potessero arrecare disturbo ad altri clienti ed intralciare il servizio; oggi la notizia che la Suprema Corte abbia condannato un ristoratore per non aver impedito ai bambini di muoversi ci fa storcere il naso. Non sarà che, come in molte altre situazioni, anche in questo caso la responsabilità di un incidente è un concetto altamente relativo? L’idea che dei bambini vengano “esclusi” da quel frammento di vita sociale che è una cena fuori casa ci fa rabbrividire: “sono bambini, che volete che sia”. Eppure è necessario entrare nell’ottica che non tutto ciò che riguarda i bambini è scusabile con il loro “status”. E di fatto, se mai ci sia davvero un colpevole, quello non è mai il bambino. Chi sfugge (quasi) sempre ai propri doveri nel momento in cui un bambino si mostra non già troppo vivace, ma maleducato, sono proprio i genitori. La differenza tra vivacità e maleducazione può essere spesso fraintesa, eppure c’è: un bambino maleducato non risponderà positivamente né al primo, né al secondo, né al decimo richiamo; il bambino con il “semplice” argento vivo addosso saprà, seppure nella propria euforia, rispettare le indicazioni dei genitori che, nel momento in cui un inserviente porta in tavola la cena, gli chiederanno di sedere e non dare fastidio. Chiedere al bambino di avere anche solo una vaga idea della precarietà in cui si muove un cameriere in un locale colmo e con delle portate in mano, è davvero una pretesa incontentabile: ai suoi occhi potrebbe sembrare un giocoliere che è lì per farlo divertire. È corretto dire che il gestore di un locale sia responsabile del benessere del cliente che entra nel suo esercizio; è sbagliato pensare che sia responsabile anche della mancata educazione dei clienti più piccoli, lasciati girovagare senza controllo per tutto il locale. Genitori, state attenti, se potete.
"Lasciate i bambini maleducati a casa o cambiate locale": il cartello-provocazione del pizzaiolo di Sondrio. A Villa di Tirano il 25enne Gabriele Berbenni ha esposto l'avviso dopo le lamentele di diversi clienti storici: "Corrono, finiscono addosso ai camerieri. Alcuni mi hanno detto che ho fatto bene, altri mi hanno dato del cafone". Luigi Bolognini su La Repubblica il 9 gennaio 2020. Nelle prime righe il tono è evidentemente, e sperabilmente, scherzoso: "Ci riserviamo il diritto di prenderli in cucina a lavare i piatti con tanto di nastro adesivo sulla bocca". Ma è serio il resto del cartello che si trova affisso alla pizzeria Bagà di Villa di Tirano, provincia di Sondrio contro i bambini maleducati che urlano e corrono indisturbati per il locale, avviso rivolto ovviamente a chi li ha male educati, i genitori: "I clienti che vengono nel nostro locale hanno il piacere di passare il loro pranzo o cena in tranquillità senza sottofondi di bambini maleducati che strillano". Vecchio problema, che già in altri locali ha portato a esporre cartelli simili. Ma qui i toni sono particolarmente duri. Basti leggere le richieste: "Venire a Bagà senza bambini, educare i vostri figli, cambiare pizzeria, starvene a casa vostra". Il tutto firmato "L'uomo nero". E in effetti è nero di capelli, e forse anche di umore, il pizzaiolo e padrone del locale, il 25enne Gabriele Berbenni. Che alla Provincia di Sondrio spiega di non poterne più: "Spesso hanno consumato il pasto da noi genitori con bambini al limite dell'educazione che urlano, corrono da tutte le parti. Vanno su e giù dalle scale, giocano a nascondino dentro e fuori dal bagno. Se finiscono addosso ad una cameriera, che passa con pizze e bicchieri, e si fanno male, poi i problemi sono miei. Inoltre alcuni clienti storici, finita la pizza o a metà della stessa, se ne sono andati perché non ce la facevano più a causa delle urla dei bambini". Così Berbenni, uno che a volerne leggere il profilo Facebook ama i gesti un po' plateali, ha appeso il cartello, "a mio rischio e pericolo, perché alcune famiglie che lo hanno letto hanno fatto dietrofront e non sono entrate. È ovvio che posso perdere fatturato, ma devo tutelare il resto della clientela che cerca un luogo tranquillo e curato. Alcuni clienti mi dicono di aver fatto bene e lasciano i figli dai nonni. Altri hanno avuto da ridire. A chi, nonostante il cartello, è entrato con i bambini che hanno fatto caos abbiamo gentilmente chiesto di fare meno rumore. Ci hanno dato dei cafoni e se ne sono andati".
Il pizzaiolo che non vuole bambini in sala e i 5 mila commenti online: «Era ora». «Non si giudica un genitore». Pubblicato domenica, 12 gennaio 2020 su Corriere.it da Barbara Gerosa. Pioggia di reazioni sui social per il cartello affisso dal titolare del ristorante «Bagà». Si sfogano anche i camerieri. Ci sono le mamme che danno ragione al pizzaiolo, quelle che giudicano un errore clamoroso vietare l’ingresso ai bimbi. Chi porta la propria esperienza personale, chi cerca di proporre una soluzione di mediazione. In molti assolvono i più piccoli e condannano i genitori. E poi quella frase ripetuta più volte: «Ai miei tempi bastava lo sguardo di mio padre per farmi stare tranquillo». Quasi cinquemila commenti sulla pagina Facebook del Corriere della Sera, 18mila like, migliaia di condivisioni. La notizia è quella del titolare del ristorante «Bagà» di Villa di Tirano, in Valtellina, che all’esterno del suo locale ha affisso un cartello rivolto alle famiglie: «Venite senza bambini, provate ad educarli, nel caso non vi fosse possibile cambiate pizzeria o restatevene a casa». Chi è d’accordo. «Bravo! Da andare in questa pizzeria certi di un poco di pace e di decoro, smarriti da troppo tempo», scrive Emanuela. «E trovi il televisore acceso sulla partita», risponde sarcastica Eva. Marina: «Ha fatto bene. Poche settimane fa, una cena di lavoro importante, rovinata da due famiglie di decerebrati». Chi accenna a un problema di discriminazione. «Caro ristoratore, a mio avviso lei sta etichettando i bambini, quelli educati e quello maleducati. Questo non si fa, i bambini sono tutti uguali. Quello che ha scritto è bruttissimo. Se non riesce a stare in mezzo alla gente cambi lavoro», il commento di Barbara. «I bimbi sono tutti uguali, ma non sono tutti educati. Parlo da mamma e da insegnante», risponde Laura. «I bravi genitori dovrebbero cercare un ristorante idoneo ai bambini, con una sala giochi per evitare di farli annoiare», prova a proporre Clara. «I bambini sono bambini. Non li si può legare a una sedia. Siamo proprio un paese di vecchi. Ma che infanzia avete avuto?», chiede Francesco. «Se corre tra i tavoli non è vivace, è maleducato, e i genitori cafoni che glielo lasciano fare», l’opinione di Carlo. Esperienze personali. «I bambini sono bambini, ma i clienti pagano per mangiare, non per sopportare l’insopportabile intorno a loro», chiosa Flavius. Maria Cristina rivela che, ai tempi in cui gestiva un agriturismo, lasciava fuori le famiglie con bambini sotto i 12 anni «perché ineducati e disturbatori della quiete»: «Rispondevo che era tutto occupato». Pioggia di critiche per lei. «Una follia», ribatte Corinna. E poi c’è il punto di vista di chi, nei locali, ci lavora. Roberta, cameriera: «Svolazzano tra i tavoli, si allontano negli spazi verdi e i genitori (con 140 persone da servire) ci chiedevano di cercarli per sapere cosa volessero mangiare, oppure erano ipnotizzati da tablet e smartphone». La Je: «Per colpa di genitori che lasciavano che il bambino si divertisse facendo pizzicotti dietro le cosce al personale stavo per far cadere una teglia di cibo bollente sul pavimento». Maelmale: «Un ragazzino correndo mi ha fatto rovesciare addosso un intero boccale di birra sulla camicia bianca.. Immagina che bello visto che ero a inizio servizio...». Mary: «I bambini correvano tra i tavoli, io con 5 pizze in mano, qualcuna poteva scivolarmi, la mozzarella calda è micidiale...». Poi la gara di voti: «Sono una mamma di figli ammessi alla maturità con 10 in condotta. Educare i figli è possibile», dice Tanya. «I genitori sono i colpevoli», l’opinione di Andrea e di tanti altri. Lo sfogo di Laura: «Cosa ne sapete voi di cosa passa una famiglia? Magari è un bambino iperattivo o con un deficit per cui fatica a controllarsi. Quei genitori dovrebbero essere aiutati, non giudicati». «Io sono una mamma, ha fatto bene. Noi genitori per goderci una serata in totale relax a volte lasciamo fare tutto e non va bene», l’autocritica di Maria. «Divieto inammissibile. Ma voi che avete commentato da dove siete arrivati, da Marte? Non siete anche voi stati bambini?», il quesito di Mary. «Quando vado in pizzeria amo mangiare tranquilla, senza bimbi che corrono o gridano: è un mio diritto, così come è un dovere dei genitori educarli al rispetto per gli altri», taglia corto Anna Maura. Il dibattito è aperto.
Servizio militare obbligatorio: necessario per raddrizzare la spina dorsale alle giovani generazioni di smidollati. Andrea Pasini su Il Giornale il 2 gennaio 2020. La leva obbligatoria è stata abolita dal 2005, e da allora si nota visivamente una gran differenza caratteriale e comportamentale e non solo tra chi l’ha fatta e chi no. È urgente nel nostro Paese reintrodurre la leva militare Obbligatoria per dare una formazione corretta ai giovani italiani. I quali è da molti anni che hanno completamente perso di vista i veri e sani valori della vita. È indispensabile e doveroso far sì che i nostri ragazzi crescano con la schiena diritta in un contesto sociale dove siamo arrivati addirittura a che certi liceali si permettono di insultare e picchiare gli insegnanti in aula e per di più talvolta seguiti dai genitori. In Italia occorre riportare un po’ di ordine, disciplina e rispetto nei giovani e non solo. Ai buonisti della sinistra, veri mandanti ed esecutori del naufragio valoriale ed identitario dei giovani va tolto urgentemente lo scettro del potere nelle scuole, dove purtroppo per troppi anni questi sinistroidi hanno potuto indottrinare i giovani con le loro idee completamente sbagliata ed anti stato. A loro va imputato l’attuale disastro identitario delle nuove generazioni. Vediamo palesemente che sempre più giovani hanno perso totalmente il rispetto verso gli altri, non riconoscono più nessuna regola di civile convivenza, vivono come dei parassiti nella società, non hanno carattere ed hanno perso qualsiasi valore sano della vita. Per aiutare questi giovani ad uscire da questa situazione è consigliabile un po’ di naja per raddrizzargli la spina dorsale. Va immediatamente reintrodotto il servizio militare o civile obbligatorio per insegnare ai ragazzi che cosa significhi rispettare le gerarchie, l’educazione, il condividete le cose, il sacrificio, le regole, l’onore e come si rispetta il prossimo. La leva obbligatoria è stata fondamentale per i giovani che hanno avuto la fortuna di effettuarla. La leva obbligatoria non serve per creare guerriglieri, ma uomini con la U maiuscola. La naja corrisponde ad un periodo formativo che aiuta i ragazzi a crescere e a responsabilizzarsi. Li educa alla vita, insegna loro a cavarsela da soli e gli permette di vivere in una società dove bisogna rispettare delle regole, dove esiste e va rispettata una gerarchia esattamente come nel mondo del lavoro. E’ un periodo di crescita individuale e di corpo, cioè di comunità, che non lede l’intelligenza della persona ma anzi che la stimola e valorizza. E’ una scuola che istruisce i giovani ancora legati alle comodità del tetto genitoriale, alla mamma che li vizia, che insegna a cavarsela da soli per provvedere ai propri bisogni sema l’aiuto di nessuno. Taglia di fatto il cordone ombelicale che ancora lega i giovani alla famiglia e gli tempra il carattere. La leva militare completa i giovani, e’ una disciplina che non viene insegnata nel mondo della scuola dove tutto è dovuto e della famiglia dove le punizioni sono diventate purtroppo un miraggio. La maggior parte dei giovani che hanno affrontato questa esperienza hanno plasmato il loro carattere tramite essa, hanno imparato cosa sia l’umiltà, in senso dell’onore, il rispetto per il prossimo, cosa significhi rispettare le gerarchie insomma la naja insegna le regole basi per poter vivere in modo corretto in una comunità. E non è vero che tutti quelli che hanno subito la naja la ricordano come un periodo di torture e soprusi. Forse all’inizio hanno incontrato difficoltà nell’integrarsi nel nuovo mondo, ma alla fine ne sono usciti uomini veri, forse all’inizio hanno pianto per aver lasciato la propria famiglia, ma alla fine hanno pianto di nuovo per aver lasciato i loro compagni. Quello che serve ora in Italia è maggiore coesione fisica tra i giovani, attualmente coesi solo virtualmente tramite le nuove tecnologie, privi di esperienze forti capaci di plasmare il loro carattere. La leva obbligatoria servirebbe sicuramente allo scopo, una esperienza forte e soprattutto concreta per distaccarli dal mondo virtuale immergendoli in quello sociale, e per farli tornare con i piedi per terra. È sempre più urgente insegnare ai giovani cosa significhi il sacrificio, il rispetto verso gli altri e delle regole, il valore della legalità, dell’altruismo come condivisione e del rispetto verso le istituzioni. I social, la tv, l’attuale scuola e i genitori di oggi purtroppo non sono più in grado di forgiare il carattere dei giovani ed infatti ogni anno sempre più giovani soffrono di problemi psicologici e cadono in depressione perché non sono più in grado di affrontare gli ostacoli anche piccolo della vita quotidiana. La leva militare obbligatoria consentirebbe invece di forgiare i giovani a crescere spronandoli e tirare fuori gli attributi per affrontare con coraggio e senza paura le insidie della vita. I giovani con il servizio di leva obbligatorio sicuramente potranno vivere una esperienza formativa e che gli consentirà anche di potersi inserire più facilmente nel mondo del lavoro. Insomma reinserire la leva obbligatoria per i giovani italiani corrisponderebbe solo ad una grande positività che un Governo serio e che vuole il bene delle nuove generazioni dovrebbe immediatamente reinserire.
Il declino del «Lei», quando e come abbiamo iniziato a darci del «tu». Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 su Corriere.it da Elvira Serra. Approcci confidenziali anche in situazioni formali o sul luogo di lavoro. Il linguista: «Fenomeno storico, cambia l’idea del rispetto. Alla sardina Mattia Santori succede ogni volta che va in tivù: con buona pace di sua madre che se ne dispiace, gli danno sempre del tu. All’attore Gioele Dix succede quando va a comprare un paio di jeans: il capo di abbigliamento «giovane» autorizza le commesse e i commessi a trattarlo da «giovane»; sul tema ci ha imbastito un passaggio del monologo teatrale Vorrei essere figlio di un uomo felice. Al presidente francese Emmanuel Macron successe durante la cerimonia del 18 giugno dell’anno scorso, quando uno studente con un po’ di imprudenza gli chiese «ça va Manu?» e lui replicò fermo: «No, no, no, sei a una cerimonia ufficiale, mi devi chiamare signor presidente della Repubblica o signore». La scomparsa del lei sembra ormai un lutto solo per la famiglia degli allocutivi (quei pronomi personali usati per rivolgersi a un’altra persona) e per pochi nostalgici delle buone maniere. Colpa forse dell’inglese, dove usa comunemente «you», «tu». Ma l’alibi anglofilo non convince Samuele Briatore, presidente dell’Accademia italiana galateo: «La lingua inglese rende la formalità con la costruzione della frase. Anche se usano il “tu”, la formulazione è rispettosa dei ruoli». Il linguista Marco Santagata, piuttosto, nel declino del lei ci vede qualcosa di più sostanziale: «Mi chiedo se non sia venuto meno il modo di rapportarsi con rispetto e dignità con gli altri». Appiattire il linguaggio significa appiattire le relazioni, ma le relazioni non sono tutte uguali, hanno intensità diverse. E su questo si fonda la «ribellione» di Gioele Dix: «Non rifiuto il tu per snobismo, che poi non ti fa nemmeno dispiacere quando ti dicono ciao. La tua illusione è che ti vedano giovane, ma non è così. Penso invece che i linguaggi debbano essere adeguati ai contesti, non puoi parlare allo stesso modo nello stesso luogo con tutti». La lingua italiana, però, è fluida e pertanto destinata a cambiare. Combattere il tu talvolta può essere una battaglia inutile, ma vale la pena insistere in certe circostanze. «Sul posto di lavoro è da preferirsi il lei, sempre. Immaginate una lite tra colleghi: se fatta con il tu perde di valore, mentre il lei mantiene la giusta distanza che la rende definitiva», spiega Briatore. Anche in un negozio è da preferirsi il lei: «È una questione di rispetto. Del cliente, nei confronti del professionista che lo sta servendo. E del commesso, che in quel momento rappresenta anzitutto l’azienda per cui lavora». Il punto dirimente, allora, è chi dà del tu a chi. Briatore insiste: «È grave quando c’è una relazione impari, e chi dà del tu lo fa stabilendo una gerarchia di potere. Piuttosto lo si chiede prima, possiamo darci del tu?». Ma Santagata è realista: «Il lei è venuto meno, assieme al congiuntivo. Questi sono fenomeni storici non governabili. È inutile stracciarsi le vesti per gli anglismi imperanti. Però forse la scuola può fare un’operazione di salvaguardia di alcuni atteggiamenti formali tra generazioni. Ormai i genitori non ci riescono più...».
«Da Fonzie ai nostri figli, ecco perché non sappiamo più chiedere scusa». Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 da Leonardo Caffo su Corriere.it. «Scusa», quasi una formula magica. Fa invece parte di quelle entità che in filosofia si chiamano “atti linguistici” e con cui, per citare il titolo del famoso libro di John Langshaw Austin, possiamo fare cose con le parole (il libro s’intitola proprio Come fare cose con le parole, Marietti). Forse è più che una formula magica, dunque, perché funziona davvero. Secondo Austin, il nostro linguaggio non ha la sola funzione di farci dire delle cose, ma anche quella di costituire azioni che hanno degli effetti. Questi atti linguistici - di cui forse «scusa» è il più poetico ed elegante - oggi, all’epoca delle relazioni scritte e mediate dai social, iniziano a scarseggiare: quanto è difficile fare qualcosa di sbagliato e chiedere, semplicemente, «scusami»? Non è retorica, è sociologia della comunicazione: se la comunicazione si trasferisce sempre più in un medium, e questo medium ci impone delle griglie reattive che possono far oscillare le nostre emozioni da un “mi piace” a un “blocca il contatto”, altre reazioni non previste piano piano, semplicemente, scompaiono. Alle scuse, per esempio, che spesso scaturiscono da una vergogna per un’azione o pensiero offensivo si è oggi sostituita la possibilità di cancellare o rimuovere ciò che si è fatto: una mutazione, per così dire, assai più antropologica che tecnologica. Chiedere scusa implica aver accettato, e dunque anche accertato, un errore il cui unico rimedio, se possibile, è dato appunto dall’assunzione di colpa e dalla comprensione degli effetti; cancellare o rimuovere, invece, significa tentare di non somatizzare o comprendere un accaduto. Winfried G. Sebald, nel suo meraviglioso Storia naturale della distruzione (Adelphi, 1999), discute di come, per moltissimi anni, vi sia stato in Germania un argomento tabù per eccellenza, ovvero la distruzione, durante la Seconda guerra mondiale, subìta dai tedeschi a causa dei bombardamenti degli Alleati: colpevoli della Shoah, i tedeschi non potevano discutere della violenza che hanno ricevuto in risposta. Ma rimuovere, secondo Sebald, non ha niente a che fare con l’affrontare né le colpe né le punizioni che a queste colpe seguono: rimuovere significa, entro un meccanismo tipicamente freudiano, lasciare in ebollizione una pentola che prima o poi rischierà di saltare per aria. «Scusami» sembra essere una parola con una semantica chiara (se non mentiamo) che esprime una proposizione che funziona pressoché così: «Ho fatto o detto una cosa X che riconosco essere sbagliata e ti chiedo di provare ad andare avanti tenendo conto che so che questa cosa è sbagliata e cercherò di non rifarla». Crea un’azione, perché dovrebbe produrre futuro a ciò che poteva spezzarsi, ma crea anche un riparo: un rifugio che faccia pensare a chi ha subìto il torto che la regola ordinaria funziona proprio perché quella che è stata un’anomalia viene riconosciuta come tale. Non rimossa, ma appunto ri-conosciuta: la si riporta a galla, conoscendola ancora una volta, fino a che ogni pezzo dell’ingranaggio relazionale tra due o più entità possa essere risaldato di nuovo. Se è vero che inizialmente i social network riproducevano in modo stereotipato e per comodità algoritmiche le reazioni base dell’Homo Sapiens, oggi, al contrario, è l’Homo Sapiens a mimare sempre più relazionalmente la gabbia algoritmica del social: le cose o piacciono o si ignorano, perché lo spazio per il dissenso è ridotto a turpiloquio, e ciò che si è fatto o detto sbagliando genera cancellazioni, rimozioni, blocchi. Cosa succederebbe se Facebook introducesse la funzione “clicca su scusa” nelle sue procedure? Cosa cambierebbe se una possibilità come il chiedere scusa diventasse una norma al pari del “mi piace” entro uno scambio di discussione e commenti? «Scusa» scompare dai vocabolari della pragmatica, ancor prima che da quelli della semantica, soprattutto perché oggi l’Homo Sapiens della società multi-mediatica è soprattutto lo specchio di ciò che è previsto egli faccia e non di ciò che si può o si sente di fare. «Scusa» svanisce dal dizionario politico, dove non erra mai nessuno, da quello relazionale e amoroso, dove al massimo si “sbaglia in due” (un modo atroce per non assumersi responsabilità), ma anche da quello personale: dove nessuno chiede più scusa a sé stesso per come ha abusato, consumato, o appunto eliminato qualcosa di importante per la fretta di stare al passo con la griglia sociale che è stata scelta per noi. Fare cose con le parole implica capire che parlare non significa descrivere ciò che si sta facendo, ma farlo effettivamente: «scusa» non designa un oggetto ma racconta una volontà di potenza. Ma perché le parole possano funzionare come azioni, ci racconta Austin in quel libro da cui siamo partiti, è necessario che le scuse vengano pronunciate e accolte nelle circostanze opportune: il campo di senso è importante. Serve dunque un campo di senso per ricominciare a chiedersi scusa e per ritornare a capire il valore di una scusa. Il contesto è quello della fragilità: non c’è nessun fascino in chi non sbaglia mai, perché non lo ammette; il fascino è diverso dalla bellezza proprio perché implica l’errore e l’imperfezione. Le scuse, del resto, stanno alla grammatica delle emozioni umane come il restauro alla sintassi dell’arte: non si nasconde un danno o un’erosione del tempo da un capolavoro ma lo si sistema, lo si riporta alla luce. Riparare la vita Come un quadro, così l’umanità: e il contesto? La cornice, per continuare con la metafora? Le possibilità delle scuse stanno nella possibilità di sbagliare, cose che sono in un campo semantico che è quello del perdono, ovvero il dono all’ennesima potenza. All’interno della Pinacoteca di Brera, nel centro di Milano, è presente una stanza trasparente concepita da Ettore Sottsass in cui il lavoro dei restauratori sulle opere è visibile ai visitatori del museo anche durante il processo: così ci abituiamo all’errore e all’usura, ma anche all’eroe che il quadro ripara. Immagino una stanza in cui possiamo osservare cosa succede ai volti e ai corpi delle persone che si chiedono scusa: come a una parola può seguire un abbraccio, come possiamo riavere un sorriso dopo che una colpa è stata assunta e compresa. Anche la vita, come ogni opera d’arte, deve essere riparata: solo nello spazio immaginario della vita digitale possiamo rimuovere ciò su cui non sappiamo chiedere perdono. Ma l’immaginario crolla, e il corpo trema: è il tempo di imparare a dirsi «scusa».
Dagospia il 13 dicembre 2019. Da “la Zanzara - Radio24”. Ma i tatuaggi con Hitler e Mussolini li hai ancora?: “No. Tutti cancellati”. A La Zanzara su Radio 24 Massimiliano Minnocci, alias Il Brasiliano, ex ultrà della Roma ed estremista recentemente protagonista di un violento scontro in tv con Vauro Senesi durante Dritto e Rovescio su Rete 4, si spoglia e mostra a che punto è la sua “rieducazione” dal mondo della delinquenza e dell’estremismo: “Guardate, mi sono tolto Hitler e pure Mussolini. Zio Adolfo nun ce sta più. Al suo posto ho messo una Madonna incoronata”. Ma c’è ancora, sulla coscia la scritta “Guardie Infami”, non va bene dice Cruciani: “Eh lo so, mò fra un po’ tolgo pure questa”. “Qui invece – prosegue – ce stava Mussolini e adesso c’è un teschio. Non c’è più Adolfo, non c’è più Benito, non c’è più nulla”. Dunque basta neofascismo?: “Chi mi diceva che ero un neo fascista dico che non me ne fregava un cazzo. Siccome volevo che tutti gli altri mi attaccassero per poi picchiarli, io mi sono tatuato il peggio che ci poteva stare. Ma a me non mi è mai fregato un cazzo, non so nulla di queste cose”. Come va con Vauro adesso?: “Ci sentiamo spesso, posso dire che siamo diventati amici. Il 15 dicembre andiamo a Rebibbia insieme, per un incontro con i detenuti”. Ecco, tu ai pedofili cosa faresti?: “Ai pedofili je sparamo. Se mi violentano un parente, gli sparo, sinnò je menamo e basta, così, per strada. Il pedofilo è una cosa a parte. Quando li arrestano, non mettono neppure le iniziali sul giornale a differenza di quei bravi ragazzi che fanno le rapine, che gli mettono nome e cognome e dove abitano. Le rapine? Ci sono quelli che lo fanno per fame. I pedofili andrebbero messi con nome e cognome e nei comuni quando ti arrestano, tu devi stare nel braccio dei comuni. Così ti fanno un bucio del culo così, come tu hai fatto ai bambini”. La rieducazione è ancora lunga, dice Parenzo. Poi parla di sesso: “Ho un pisello da 21 centimetri, amico mio. Ce l’ho pure storto, se l’avevo dritto, ce ne avevo 25. Ho un cazzo che sembra una banana”. Ma a te piace il pelo?: “No, no, io voglio solo patate lisce. Ti si incastrano in mezzo ai denti i peli. Il pelo non lo sopporto, la figa deve profumare di albicocca, sai queste patate che profumano di albicocca, mmmm…”. E sulla legittima difesa, quale è la legge del Brasiliano: “Rapine? Io ho aperto un negozio di tatuaggi, e se entra uno e vuole rapinare a me me fa una pippa. Prima di tutto non puoi entrare, perché il negozio è del Brasiliano. Ma se entra un pazzo e vole mori’, io te sparo in petto finchè non mori. E poi lo famo seppelli’. Tocca pure far sparire il cadavere, sennò tocca paga’… Dunque quel gioielliere ha fatto bene? Ha fatto molto bene, però doveva far sparire tutti. Questo non ha fatto sparire un cazzo”. La rieducazione è ancora lunga, dice Parenzo. Andresti a visitare un museo? Ci sono opere che valgono milioni di euro: “E annamoseli a fa’ sti quadri. Ne conosco due che fanno solo i quadri dentro ai musei. Ve lo giuro su Dio. Sono due mostri. Sono specializzati in quadri. Conosco tutti, rapinatori, de tutto, di banche, di poste, portavalori. Se ho bisogno di ammazzare qualcuno c’avemo tutto. Per gambizza’, per fa’ spari’, tutto. E’ una vita che li conosco, è tutta la vita”. Parenzo: “La rieducazione è ancora lunga”. Poi si mette a cantare Bella Ciao avvolto da una bandiera comunista, “così mio padre è contento, anche se negli ultimi tempi l’ho fatto spostare a destra e ora vota Salvini”: “Sabato potrei andare alla manifestazione delle Sardine a Roma. Che me frega, magari c’è da fà casino” ….
Il Papa: basta telefonini a tavola, le famiglie tornino a comunicare. Pubblicato domenica, 29 dicembre 2019 su Corriere.it. «La famiglia è un tesoro prezioso: bisogna sempre sostenerla e tutelarla. Però no ai telefonini a tavola, coi ragazzi a chattare invece di parlare con genitori e fratelli. Intorno alla tavola così c’è un silenzio che sembra di stare a Messa. Invece in famiglia si torni a comunicare». Nella domenica, quella tra Natale e Capodanno, in cui la Chiesa celebra la Sacra Famiglia di Nazareth, papa Francesco dedica l’Angelus in piazza San Pietro proprio alle famiglie, rivolgendo «un saluto speciale a quelle qui presenti e a quelle che partecipano da casa attraverso la televisione e la radio». E spiega: «Gesù, Giuseppe e Maria pregavano, lavoravano e comunicavano tra loro e io vi domando: tu nella tua famiglia sai comunicare o sei come quei ragazzi che a tavola non fanno che chattare, ognuno col suo cellulare?», prima di lanciare il suo appello: «Dobbiamo riprendere la comunicazione in famiglia». Ma prima di recitare l’Angelus Francesco è tornato di nuovo sul tema dei migranti: «La Sacra famiglia solidarizza con tutte le famiglie del mondo obbligate all’esilio, con tutti coloro che sono costretti ad abbandonare la propria terra a causa della repressione, della violenza e della guerra». E poi ha invitato i fedeli a recitare con lui un’Ave Maria per le vittime dell’attentato di Mogadiscio: «Preghiamo il Signore per le vittime dell’orribile attentato di ieri in Somalia, dove nell’esplosione di un’autobomba, sono morte oltre 70 persone. Sono vicino a tutti i familiari e a quanti ne piangono la scomparsa». Poi ha augurato a tutti una serena conclusione del 2019: «Finiamo l’anno in pace, pace nel cuore e con il dialogo in famiglia questo vi auguro».
Luigi Accattoli per il “Corriere della Sera” il 30 dicembre 2019. Nuovo richiamo del Papa ai giovani che preferiscono «chattare» con chi è lontano invece di «comunicare» con chi hanno accanto. Ne aveva parlato più volte e ha ripreso l' argomento ieri all' Angelus, aggiungendo parole improvvisate al testo scritto; e siccome era la festa della Sacra Famiglia, l' ha applicato alla comunicazione in famiglia: «Tu, nella tua famiglia, sai comunicare o sei come quei ragazzi a tavola, ognuno con il telefonino, mentre stanno chattando? In quella tavola sembra vi sia un silenzio come se fossero a Messa, ma non comunicano fra di loro». Dopo questa divagazione, Francesco è tornato al tema più ampio della famiglia da «tutelare» come «tesoro prezioso» nella comunicazione quotidiana dei membri: «Dobbiamo riprendere il dialogo in famiglia: padri, genitori, figli, nonni e fratelli devono comunicare tra loro. Questo è un compito da fare oggi, proprio nella giornata della Sacra Famiglia. La Santa Famiglia possa essere modello delle nostre famiglie, affinché genitori e figli si sostengano a vicenda nell' adesione al Vangelo». Un' altra espressione efficace nel suo italiano creativo, e sempre in riferimento alla comunicazione familiare, Francesco l' ha avuta nel saluto finale, quando ha augurato «a tutti» un «fine Anno sereno»: «Finiamo l' anno in pace, pace del cuore: questo vi auguro. E in famiglia, comunicandosi, l'uno con l' altro». Bergoglio non usa il cellulare e non chatta, ma è attento alla nuova cultura digitale, se ne fa spiegare dai collaboratori risorse e rischi e ne tratta volentieri in documenti e conversazioni. Il suggeritore maggiore su questo fronte è don Dario Viganò, ex responsabile della Segreteria per la comunicazione e che ora è vicecancelliere delle Accademie vaticane per le Scienze e per le Scienze sociali. La trattazione più impegnativa sulle tentazioni dello smartphone Francesco l'ha svolta con l' esortazione «Cristo vive», pubblicata lo scorso marzo recependo le conclusioni del Sinodo dei Giovani: in essa dedica cinque paragrafi a «l' ambiente digitale» che caratterizza il mondo d' oggi e ai rischi della «migrazione digitale» intesa come «distanziamento dalla famiglia» che può condurre i giovanissimi «verso un mondo di solitudine e di auto-invenzione». A un livello meno impegnativo ne aveva parlato lo scorso aprile, anche allora improvvisando, durante un incontro con gli studenti del liceo Visconti di Roma: «Lo smartphone è un grande aiuto, va usato ed è bello che tutti lo usino, ma attenzione perché quando tu diventi schiavo del telefonino perdi la tua libertà». In quell' occasione paragonò la «dipendenza» dal telefonino a quella dagli stupefacenti, avvertendo che si tratta di una «dipendenza più sottile» che può non essere avvertita: «C' è il pericolo che questa droga finisca con il ridurre la comunicazione a semplici contatti», ma «la vita è comunicare non è fatta di semplici contatti».
Alessandro Di Matteo per “la Stampa” il 30 dicembre 2019. La reprimenda del Papa contro i telefonini in famiglia è comprensibile, anche se probabilmente non è della tecnologia la colpa dello sfilacciamento dei rapporti umani. Il sociologo Alberto Abruzzese, in generale, non condivide la demonizzazione degli smartphone, ma le parole di Bergoglio «meritano il tentativo di una riflessione diversa da quella che mi viene ogni volta che sento invocare queste interdizioni».
Vuol dire che non condivide gli allarmi degli intellettuali contro la tecnologia?
«In generale certe reazioni mi sembra facciano parte di quella che definirei la cattiva coscienza dei genitori e degli adulti verso i giovani: scaricano su questo la loro preoccupazione - o magari distrazione - nei confronti dei figli. Le tecnologie hanno dato modo a genitori e insegnanti di individuare un capro espiatorio. Lo trovo un fenomeno culturalmente povero - ed è paradossale perché spesso espresso da persone con media cultura. Dire che le tecnologie portano ignoranza e via dicendo. Tutti i mali di questo mondo sono sempre accaduti».
Il Papa pone il problema dell' impoverimento delle relazioni in famiglia.
«Anche questo è un pregiudizio, chi ha una certa età sa che la solitudine spesso è presente anche senza i telefonini. Io faccio grande uso della rete e ne ho trovato un arricchimento delle relazioni, anche rispetto a persone che conosco. Non voglio dire che al genitore non debba venire in mente di monitorare, ma il divieto non frutta mai nulla. Detto questo, trovo interessante che questo ragionamento venga da questo Papa, che dice sempre cose estremamente profonde ed è molto attento all' umano. Naturalmente è un Papa, ha la responsabilità del destino della Chiesa. Allora è evidente che la grande preoccupazione qui non è tanto per le tecnologie che distraggono».
Cioè il Papa non è preoccupato dell' abuso del telefonino?
«Credo che la preoccupazione sia soprattutto un' altra, la possibilità di perdere un dispositivo fondamentale per la Chiesa: la famiglia, che è il motore dell' educazione religiosa. L' idea che queste tecnologie in qualche modo laicizzino i rituali familiari è visto come un pericolo. Il Papa fa il suo dovere di Papa. Contemporaneamente, forse, essendo una persona intelligente potrebbe specificare meglio il ragionamento. Ma capisco che quando si specifica troppo poi diventa difficile comunicare un messaggio. E non lo fanno nemmeno gli intellettuali. Non vedo l' allarme ma capisco».
Genitori e figli schiavi del web il cellulare spegne le relazioni. Un giovane su tre ammette di passare meno tempo con i familiari perché impegnato a chattare on line. Francesca Angeli, Lunedì 30/12/2019, su Il Giornale. Connessi con la rete sconnessi da mamma e papà. «Parlate con i vostri familiari e spegnete il telefonino», ammonisce il Pontefice. Non è la prima volta che Papa Francesco scomunica i cellulari e più in generale l'abitudine di restare incollati a tablet e device tra chat e navigazione in rete. Ma davvero i rapporti familiari si sono deteriorati a causa dell'avvento di Internet? Certamente le famiglie disfunzionali e i rapporti problematici tra congiunti esistevano prima dell'avvento di internet. Sono stati però pubblicati analisi e studi elaborati allo scopo di valutare l'impatto delle nuove tecnologie sui rapporti umani in particolare all'interno del nucleo familiare che in effetti confermano le preoccupazioni espresse da Bergoglio. In Italia l'allarme sulle conseguenze nefaste dell'abuso delle nuove tecnologie sono state analizzate tra gli altri nella ricerca «Mi ritiro in rete», dell'Associazione Nazionale Di.Te. (Dipendenze tecnologiche, Gap, Cyberbullismo) in collaborazione con Skuola.net pubblicata in novembre. Sono stati intervistati 10mila ragazzi tra i 10 e i 21 anni e un giovane su 3 ha segnalato che passa meno tempo con i propri familiari, meno gioco o sport, perché appunto naviga e chatta su internet. Vale però anche il contrario: pure i genitori spesso sono più attenti ai messaggi che arrivano sul telefonino che a quello che dicono loro i figli. E non c'è dubbio: negli ultimi anni il tempo che le persone passano in rete è aumentato in modo esponenziale. Tempo sottratto ad altre attività. L'indagine di We Are Social, condotta insieme ad Hootsuite, riferita al 2019 segnala che sono saliti a 55 milioni gli italiani che accedono alla rete: ovvero 9 persone su 10. Crescono anche gli utenti delle piattaforme social, 35 milioni: più 2,9 rispetto all'anno precedente. E sono 31 milioni le persone attive su piattaforme da dispositivi mobili. Quanto tempo passano in media «connesse»? Circa 6 ore al giorno e almeno 2 sui social. Per fare un confronto la tv si guarda circa tre ore al giorno. Quasi 9 persone su 10 accedono ad internet almeno una volta al giorno. La stragrande maggioranza si connette per guardare video online. Da non sottovalutare il fatto che un italiano su 6 gioca in modalità streaming live. YouTube e Facebook (WhatsApp, Messenger, Instagram) le piattaforme social più utilizzate. Anche nell'ultimo Rapporto Censis, si certifica quanto le nostre vite siano scandite dalla iperconnessione. La percentuale degli utenti in Italia è passata dal 15 % del 2009 al 73,8. Nel 2018 il numero degli smartphone ha superato quello dei televisori. Nelle case degli italiani sono presenti 111,8 milioni di device e in ogni famiglia ci sono in media 4,6 device. In particolare, nelle case degli italiani ci sono 43,6 milioni di smartphone e 42,3 milioni di televisori. Sono 6,5 milioni le smart tv e i dispositivi esterni effettivamente collegati a internet per guardare programmi televisivi. Quasi la metà delle famiglie con un figlio under 18 ha in casa una smart tv o dispositivi esterni che consentono di collegarsi al web. Un quarto dei possessori di cellulare non esce mai di casa senza il caricabatteria mentre la a metà «confessa» che controllare il telefonino è il primo e l'ultimo gesto del giorno. Tuttavia non si può generalizzare. Un autorevole studio realizzato in collaborazione dalle università inglesi Warwick e Oxford dei professori Stella Chatzitheochari e Killian Mullan, ha evidenziato che se da un lato è vero che le persone passano sempre più tempo connessi, dall'altro la quantità di tempo che i genitori trascorrono con i loro figli è invariata: 90 minuti al giorno. E le tradizionali attività familiari come pranzare e guardare la tv insieme non sono state compromesse.
· Fascista!
La parola “Fascista": la tentazione...La parola “Fascista": la tentazione umana verso il disumano. Una riflessione su un termine urlato e senza mezzi toni. Che si ritira, livoroso, di fronte al ragionamento. Marcello Fois su L'Espresso l'1 ottobre 2020. La parola “Fascista” esiste. Difficile da riconoscersi dopo anni di sdoganamento, ma sempre individuabile, con precisione, per chi voglia individuarla. La parola “Fascista” è un punto di vista. Un livello parziale dello sguardo, qualcosa che ha molto a che fare con la difficoltà di concepire l’altro simile a sé. È fascista chi sa leggere solo alcuni capitoli della Storia, recente o passata, cercando in essa quanto gli occorre per assodare le proprie certezze, per coltivare i propri pregiudizi. La parola “Fascista” è gratuita, non prevede alcuna spesa, viene fornita senza oneri: non occorre studiare, non occorre votare, non occorre scegliere, non occorre fare distinzioni, non occorre informarsi, non occorre leggere, non occorre contestualizzare. La parola “Fascista” è consolatoria, mette al sicuro dal pericolo di dover essere socialmente attivi. È fascista la reazione cieca. La parola “Fascista” è la convinzione pavloviana che l’essere sociale consista nella difesa costante del proprio territorio, che i nemici contro cui difendersi esistano o meno. La parola “Fascista” è fermarsi alla prima parte di ogni domanda e fornire sempre una risposta parziale, occhiuta, indirizzata. È fascista chi non è interessato alle ragioni, ma dà per scontato di avere ragione. La parola “Fascista” è urlata, non ha mezzi toni, non ha pause di riflessione. La parola “Fascista” è paradossale, non ha specchi, di fronte al ragionamento si ritira livorosa e contrattacca furiosa. La parola “Fascista” produce pensieri di purezza e superiorità: bianchi contro neri, maschi contro femmine, cattolici contro musulmani, Nord contro Sud. La parola “Fascista” è una parola contro. È fascista promettere un mondo con un’unica direzione, con un’unica razza, con un unico pensiero. La parola “Fascista” è l’ordine fittizio di chi all’argomento oppone il pregiudizio. La parola “Fascista” produce concetti: rottamare, affondare, deportare, sterilizzare, stuprare, sanificare, escludere. La parola “Fascista” è la tentazione umana verso il disumano.
Meloni zittisce Lucia Annunziata: “Basta domande sul fascismo. Chiedi a Zingaretti del comunismo”. Carlo Marini domenica 12 Maggio 2020 su Il Secolo d'Italia. Giorgia Meloni, ospite della trasmissione di Lucia Annunziata, ha risposto per le rime alla conduttrice di Raitre, che ha posto alla leader di Fratelli d’Italia le solite domande su Mussolini e sul fascismo. «Il fascismo non sta ritornando– ha tagliato corto la leader di Fratelli d’Italia – Il fascismo scatta quando scatta la par condicio. Appena finirà la campagna elettorale, il problema non ci sarà più. Trovo abbastanza ridicolo e triste che ogni volta che vengo intervistata dal servizio pubblico mi si chiede della storia e non dei programmi del mio partito. Chieda a Zingaretti del comunismo e dei morti che ha fatto, deve valere per tutti…». “In mezz’ora in più” su Rai 3 la presidente di FdI a un certo punto ha perso la pazienza: «Mi faccia almeno finire, non si può fare un’intervista così, non mi fa parlare…». La conduttrice ha replicato: «Lei sta parlando, l’abbiamo invitata a posta…» Ad accendere il faccia a faccia i temi caldi dell’immigrazione clandestina, le periferie, la sicurezza. «Se si ferma un attimo e mi fa dire le cose, questa cosa che devo parlare sopra non funziona, non va bene», rimarca Annunziata.
Meloni intervistata su CasaPound anziché sul programma elettorale. Il dibattito si surriscalda quando si parla di fascismo, del ruolo della destra in Europa e dei rapporti con CasaPound. Meloni non ci sta: «Mi chiede di CasaPound, io sono un’altra cosa… Ci sta tanta gente non ideologizzata, non potete far finta di nulla. Lei ha fatto 40 puntate senza mai parlare di fascismo, ora che c’è la campagna elettorale ne riparliamo e mi fa la domanda senza chiedermi nulla sul mio programma elettorale…». Nel corso della trasmissione Mezz’ora, la leader di FdI è riuscita a ritagliarsi qualche spazio per qualche ragionamento politico che esulasse dalla solita querelle sull’antifascismo. «Io ambisco a costruire un’alternativa – ha detto la Meloni a proposito del governo gialloverdeo – Non ho mai detto “Salvini stacchi la spina” ma il mio ruolo è che gli italiani abbiano un governo che non litighi su tutto. Penso siano fondamentali le elezioni del 26 maggio. Non devo convincere io Salvini, ma gli italiani…».
Vittorio Sgarbi a L'aria che tira: "Fascista peggio di comunista? Scordatevi le mie scuse". Libero Quotidiano il 07 ottobre 2020. Dopo aver fatto uno show alla Camera e aver definito "fasciste" le misure adottate dal governo per contrastare il coronavirus, Vittorio Sgarbi decide di chiarire e spiegare meglio il suo discorso: "Sono favorevole a tutte le prudenze e a tutte le cure possibili. tenendo conto però che ci sono dei diritti violati", ha spiegato a L'Aria che Tira, il programma condotto da Myrta Merlino su La7. In particolare ha fatto riferimento a una frase pronunciata da Nicola Zingaretti. Il segretario del Pd aveva detto: "Toglieremo dalla vita sociale coloro che sono positivi". Sgarbi non chiede scusa, però puntualizza: "La frase di Zingaretti non so se sia fascista o comunista ma è una frase autoritaria, va oltre il rispetto dei tuoi diritti. Non sono affatto pentito, non voglio chiedere scusa se non a quelli che ritengono che fascista sia meno grave che essere comunista cinese, è peggio essere comunista cinese", ha concluso il critico d'arte. Insomma, tutti a lezione: in cattedra è salito Vittorio Sgarbi.
· L’Odio, il Rancore, l'Invidia, l’Ingratitudine.
Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 5 ottobre 2020. Perché mai è così piacevole sparlare degli amici? Si domandava Virginia Wolf. Perché la polemica, la prevaricazione, la superbia e la rabbia hanno così tanto bisogno di mostrarsi? Perché ci sono persone che non riescono a controllarsi? Cosa consente ad alcuni di riuscire a gestire gli alti e bassi della vita, gli ostacoli e gli scontri con calma e compostezza, mentre altri s' infiammano al minimo soffio di vento, vanno in pezzi di fronte alla più piccola frustrazione e trasformano delusioni insignificanti in tragedie? «Un cambiamento di prospettiva è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per non reagire in maniera smodata», rivela David J. Lieberman, autore di Come non perdere mai più la calma (editore Tea). Che nel libro suggerisce di osservare la rabbia attraverso una lente olistica che ne sveli le componenti emozionali, spirituali e fisiche nascoste, oltre ad alcuni pratici e semplici strumenti per eliminarla ancora prima che sopraggiunga. Lieberman, psicologo e specialista di fama mondiale nel campo delle scienze comportamentali e dei rapporti interpersonali, spiega: «Chi si altera spesso e volentieri anche per futili motivi ha delle grosse voragini nella sua autostima, spesso provocate da un' infanzia problematica (caotica o traumatica), da relazioni disfunzionali (passate o presenti) o da una vita vissuta senza passione o gioia che ha alimentato un risentimento sotterrano». Ma si può uscirne. Come? «Cambiate la concezione di voi stessi e cambierete la vostra vita», insegna l' esperto, «partendo dalla meditazione e respirazione (le cui radici affondano profondamente in quasi tutte le religioni o le pratiche spirituali): è un primo passo per vedere le cose con chiarezza, perché l' ira distorce la prospettiva della realtà dei fatti. Ovvio che «una mente preda del caos con un sistema nervoso sotto tensione renda vano qualsiasi sforzo di mantenere la calma». Più si è sereni nei periodi di normalità più sarà facile controllare la collera in quegli difficili. E lo sport aiuta. La riduzione dello stress derivante dall' esercizio fisico è ben documentata in molti studi trasversali. In particolare, Nathaniel Thom, fisiologo di fama mondiale, sostiene che «l' attività fisica anche in quantità modeste, può avere un sostanziale effetto protettivo» contro il montare della rabbia. Va ricordato tuttavia, come riporta uno studio internazionale pubblicato sulla rivista ufficiale dell' American Heart Association, che non bisogna fare sport mentre si è arrabbiati, perché il rischio d' infarto entro la prima ora di attività risulterebbe tre volte maggiore.
RALLENTARE. È importante rallentare il ritmo della propria vita per cercare di trovare la giusta prospettiva in modo da non sprecare energie di fronte a un insulto irrilevante, se non adiritttura falso. «Ci sono alcune tecniche per impedire ai neuroni che seguono i percorsi della reazione di rabbia di risvegliarsi. Il primo passo è riconoscere e accettare i propri punti deboli, così da limitare le occasioni di ritrovarsi faccia a faccia con le cause scatenanti». Per esempio, se non si è nella disposizione mentale giusta meglio tenersi alla larga dalle conversazioni potenzialmente conflittuali. E poi bisogna lavorare sulla propria forza di volontà per tenere a freno la rabbia. Le persone che esercitano autocontrollo con maggiore successo, solitamente, sono quelle che impostano la vita in modo da minimizzare le tentazioni nel corso della giornata. In pratica, «stabilire in anticipo una linea di condotta da seguire, basata su una serie di azioni prestabilite permette di reagire in maniera responsabile (e pacata) quando non si è in grado di riflettere ed elaborare una risposta corretta e rispettosa. Questa modalità si rivela efficace perfino nei casi in cui si è a secco di forza di volontà, perché non bisogna pensare troppo al da farsi», spiega lo psicologo.
INTERROMPERE LO SCHEMA. Quando le emozioni virano sui binari della rabbia, non c' è altro da fare che far deragliare il treno il prima possibile. Lo schema va interrotto con un improvviso scossone per tenere a freno la locomotiva affinché non prenda velocità. E sappiamo bene con quali risultati. Cosa può spegnere il fuoco, in questi casi? Magari un pensiero buffo che distoglie l' attenzione. «Provate a rimpicciolire l' irritante interlocutore davanti ai vostri occhi», immaginatelo come un nanetto da giardino oppure seduto sulla tazza del water. Sorriderete, e il risentimento si attenuerà. E se non bastasse, prima di esplodere con aggressività, provate la sana vecchia regola di contare, la riporta pure Lieberman: fermatevi un attimo e calmatevi, respirando profondamente. Questa tecnica funziona per due motivi: la forza di volontà ha una base biologica e la respirazione lenta e profonda attiva il cervello pensante. Il secondo motivo è che respirare invia al cervello il messaggio positivo che la situazione non costituisce una minaccia. «Respirate, rilassate la mascella, le spalle e magari sorridete, concentratevi sull' aria che entra ed esce dai polmoni». Spostare la consapevolezza sul respiro riporta immediatamente con i piedi per terra e interrompe l' acutizzarsi delle emozioni. All' inizio questa operazione avrà bisogno di una certa pratica, ma in breve la reazione diverrà automatica. Le ricerche scientifiche mostrano che nelle situazioni particolarmente stressanti non servono più di 90 secondi perché il nostro sistema riesca a elaborare ogni forma di rabbia o emozione basata sulla paura. Possiamo non avere il controllo del mondo e nemmeno di parte dei nostri comportamenti ma possiamo indirizzare i nostri pensieri e concentrarci su ciò che ci entusiasma piuttosto che su quello che ci disturba. Nello spazio tra desiderio e realtà scatta la delusione: più è alta l' aspettativa più sale la delusione. E di conseguenza la rabbia. Che si può contenere regolando l' elemento sorpresa. Non stiamo parlando di prevedere la realtà, ma di viverci dentro. La consapevolezza di essere delle persone imperfette che vivono in una società imperfetta può essere l' opportunità per sviluppare una forma di resilienza emotiva e di autocontrollo. Ma vi sarete davvero liberati dalla rabbia latente quando avrete sgomberato la mente dal risentimento, dalla colpa e dalla vergogna per vivere in modo sano e con gioia. La felicità è come una calamita avvicina alle cose belle. E chiudo con le parole di Salomone: «Non essere facile a irritarti in cuor tuo, perché la collera dimora in seno agli stolti».
Vittorino Andreoli: “La cattiveria esiste in una società di idioti”. Francescapaola Iannacone su Il Quotidiano del Sud il 27 settembre 2020. «Giunti alla mia età si scopre di non essere un uomo, ma una storia». Con queste parole il professor Vittorino Andreoli, che da poco non solo ha compiuto 80 anni ma ha anche pubblicato il suo ultimo libro “80 anni di follia. E ancora una gran voglia di vivere” (Rizzoli, 2020), racconta cosa sia per lui davvero la vecchiaia e come la società contemporanea la consideri, anche alla luce dell’ultima tragedia che ha colpito il mondo intero. Una vita – quasi sessant’anni – spesa per la cura e la comprensione dei suoi “matti” a cui tiene ancora tanto; è un uomo con una gran voglia di fare, che osserva la realtà con lo sguardo di chi, attraverso la consapevolezza dell’età, può affrontare liberamente qualsiasi riflessione esistenziale.
Professore, l’idea predominante nella società contemporanea, dove c’è una corsa spasmodica a restare per forza giovani e a cercare di fermare il tempo, è che la vecchiaia sia l’anticamera della morte. Considerata quasi come un flagello. Nel suo senso pieno e reale invece, che cos’è?
«C’è da fare una premessa. In tutte le società cosiddette primitive, è stato dimostrato che la figura del vecchio fosse associata a quella del saggio. Io stesso – che ho vissuto per un periodo in Africa – ho potuto constatare come questa figura in un villaggio rappresentasse l’autorità. Era quell’uomo a cui si portava massimo rispetto perché conoscitore non solo della storia ma della vita, proprio perché aveva più anni. Inoltre, se diamo uno sguardo alla cultura ebraica e quindi all’Antico Testamento, possiamo notare come i vecchi fossero il punto di riferimento della storia di un popolo. Alla luce di questo, possiamo dire che è una caratteristica della civiltà occidentale considerare la vecchiaia l’anticamera della morte, vista come “la vita che lenta si spegne come una candela”. La vecchiaia – e parlo da vecchio – così come viene vista in questo periodo, è una novità assoluta. Basti pensare che fino alla Seconda Guerra Mondiale l’età media di un essere umano non superava i quarantacinque anni. La vecchiaia di oggi, invece, ha un’età media che si aggira intorno agli ottant’anni e più, è quasi raddoppiata anche grazie ad una scienza medica che ha permesso e permette di arrivarci in ottime condizioni e a una condizione economica molto più favorevole del passato. Una nuova vecchiaia che va definita come l’ultimo capitolo di una vita, di un libro. Di solito l’ultimo capitolo di un libro è sempre quello più interessante, perché se ne capisce il senso. Confrontare la vecchiaia con l’età della giovinezza è sbagliato. Il giovanilismo a tutti costi è il desiderio, presente in alcune persone vecchie, di nascondere la loro età cercando di sembrare più giovani. Questa è una malattia perché si vuole sembrare quello che non si è, mentre è bellissimo essere vecchi».
Proprio perché viviamo in una società in cui il numero delle persone anziane è elevato, in che modo si può riscrivere il loro ruolo all’interno di una realtà in cui la liquidità esistenziale sta facendo in modo che i punti di riferimento manchino e in cui la digitalizzazione sta riscrivendo il modo di concepire l’esistenza?
«Una società che non considera positivamente i vecchi è una società fallita, è una società di idioti. Certamente se la nostra società viene considerata solo dal punto di vista dell’economia è chiaro che i vecchi non partecipano attivamente alla produttività. Questo concetto errato vale per quella civiltà che vuole fondarsi esclusivamente sull’economia. Ma la vita non è fatta solo di denaro. Considero la ricchezza la più grande patologia sociale perché impedisce di vedere il patrimonio di una civiltà, dove al suo interno si può trovare anche la persona anziana, che è interessata non più all’io. Io sono vecchio e so di non dover dimostrare nulla a nessuno. Non devo fingere, sono quello che sono».
Quindi se il potere e il denaro fanno perdere di vista una società fondata sui valori, in questo contesto storico come se ne può riscrivere una nuova fondandola sul senso etico delle cose?
«Nella Grecia antica, un grande uomo, Platone, distingueva le leggi dai princìpi. I princìpi non sono dentro la storia ma dentro l’umanesimo che è l’insieme di ciò che serve a vivere in pace. Platone parlava della felicità di tutti ma questa è un’utopia perché non è stata ancora realizzata. Le leggi servono per affrontare problemi storici. Quelli della cronaca, immediati. E per questo Platone aveva pensato alla res pubblica, a questo nuovo sistema di gestione della città, alla politeia. Invece i princìpi non sono parte della politica, perché fanno parte dell’esistenza. Platone annoverava tra questi, ad esempio, il rispetto della vita, il rispetto dell’altro. Ad esempio nei suoi “Dialoghi” tutti parlano, poi arriva il maestro che conduce a una visione condivisa. Le idee non sono una questione da legiferare. Il pensare e la libertà di pensare non possono essere legiferati, come direbbe Platone. Quindi come si fa ad impostare una differenza tra quella che è una civiltà e una società. La civiltà guarda ai bisogni dell’uomo, la società – questa di oggi, ad esempio – guarda agli interessi che sono dei più forti. Una società vergognosa, dalle enormi differenze sociali e ingiustizie. C’è chi ha l’inutile e chi non ha il necessario. A tutto questo si aggiunge il voler escludere la persona anziana. Se penso a come i vecchi sono stati considerati in questa grave crisi che è la pandemia, mi indigno perché sono diventati materiale di terza categoria. Questo ci mostra le fondamenta sulle quali si edifica questa realtà: l’economia. Anche in questo momento in cui è in gioco una certa esistenza, tra la vita e mantenere l’economia si è scelta quest’ultima. Il ragionamento è stato e continua ad essere: “Che vita sarebbe senza benessere?” Sarebbe una vita. Le persone povere vivono. Il criterio scelto da questa società, è stato quello di dare un peso all’“ossigeno” e al “denaro” e di scegliere quest’ultimo».
Professore, proprio perché ci sono molti anziani anche la medicina si sta evolvendo non solo nell’essere predittiva ma anche per cercare di contrastare quelle malattie degenerative come l’Alzheimer. Proprio la settimana scorsa si è tenuta una giornata commemorativa per fare il punto della situazione su questa malattia che spegne i ricordi. Quando scompaiono che cosa rimane?
«Quando parliamo di memoria dobbiamo farlo al plurale. Non ne esiste solo una, ma diverse: c’è quella dei numeri, delle parole, delle immagini, quella vista come ricordo. C’è la memoria biografica, quella della propria storia, la memoria dei sentimenti. Nell’Alzheimer c’è la perdita della memoria dell’identità, ma non quella del sentimento».
Crede nell’aldilà?
«Questo è un tema molto difficile. Se partiamo dall’origine dell’universo e dall’origine di ciascuno di noi che si lega alla natura, a questo frammento di universo che si chiama Terra, può essere associata al Big Bang, al Caso oppure a un Dio. Se dovessi inginocchiarmi, preferirei farlo di fronte a un Dio. Credo molto nell’uomo, io amo l’uomo e sono convinto, come diceva Platone, la trascendenza sia un segnale che è dentro l’uomo. Un’esistenza che abbia altre leggi è possibile. Einstein, ad esempio, che era ebreo ma non praticante, quando gli chiedevano se credesse in un Dio o nell’aldilà, rispondeva: “Noi fatichiamo molto per scoprire una piccola legge dell’universo. Ma penso sempre all’infinità di leggi che esistono e che sono state fatte”. La bellezza risiede nel sapere che c’è ancora un po’ di mistero».
Quanto rumore fanno le parole nella società attuale piena di conflitti più che di ideali?
«Sono fondamentali. Bisogna cominciare a controllare il loro significato. Ad esempio, una delle parole che genera guerra è verità perché chi è convinto di averla, tende ad imporsi. La verità bisogna cercarla. Discussione è una parola terribile, meglio dire conversare».
E la parola amore?
«L’amore, non solo quello di coppia ma anche quello tra padre e figlio, o verso gli altri, è solidarietà, rispetto. Diventa il segno di un legame».
Si definisce un “pessimista attivo”. Come si fa ad esserlo?
«Sono un pessimista attivo perché pur vedendo tanti rischi, corro dalla mattina alla sera per cercare che vengano evitati da tutti. Mentre l’ottimista tende a dipendere dal fato e non fa nulla. Ho poca stima dell’ottimista. Poi sono gioioso e lo contrappongo a felice. La persona felice è soddisfatta di ciò che capita a lui, mentre la gioia è anche una percezione di ciò che di positivo succede all’altro. Amando l’uomo ed essendomi occupato di quelli che io chiamo “rotti”, dei giovani più estremi, di delinquenti, non ho mai trovato “mostri”, ho sempre trovato l’uomo».
Esiste la cattiveria?
«Sì, certo. Esiste in una società di idioti. Perché la cattiveria significa fare del male all’altro, e una delle modalità per sentirsi vivo può essere commettere il male. Ma dobbiamo ricordarci che il cattivo potrebbe essere buono o non cattivo perché il peso degli altri su ciascuno di noi, è molto forte».
Lucia Esposito per “Libero quotidiano” il 26 settembre 2020. La colpa è dell'amigdala. Se i vaffanculo e i coglione abbondano sulla vostra bocca, se date del cornuto all'automobilista che vi taglia la strada e urlate stronza alla vicina che vi molesta con l'aspirapolvere alle due di notte, dovete prendervela con l'amigdala che non è una parolaccia ma una struttura a forma di mandorla nascosta nel vostro cervello. È lei, l'amigdala, il grilletto che innesca la carica incendiaria e vi libera della rabbia che ribolle dentro. Quando, invece, vi mordete la lingua e ingoiate la parolaccia come un boccone amaro dovete ringraziare (o maledire) i gangli basali che si trovano sempre nel cervello ma funzionano come freni inibitori. Sono i grilli parlanti cerebrali che vi suggeriscono che è meglio tacere e mettono il silenziatore ai vostri pensieri più feroci. L'emisfero destro del cervello, infine, è quello che confeziona l'insulto e conferisce una forma verbale alla vostra rabbia: tra i mille improperi disponibili vi fa scegliere quello giusto. Dopo aver letto il saggio Insultare gli altri (Einaudi editore, pp.141, euro 12) del professor Filippo Domaneschi direttore del Laboratory of Language and Cognition dell'Università di Genova, non accuserete più di volgarità chi si lascia scappare un'imprecazione. Guarderete con una certa stima chi fino al giorno precedente bollavate come sboccato e scurrile. Scoprirete che insultare è un'ancòra di salvezza nelle giornate burrascose della vostra esistenza, un bel vaffa accompagnato dal dito medio è un argine contro lo straripare della rabbia. Sigmund Freud un secolo fa scrisse: «Il primo umano che scagliò un insulto al posto di una pietra fu il fondatore della civiltà». L'insulto è ammortizzatore della frustrazione che aiuta a rinviare e spesso a evitare lo scontro fisico, insomma dobbiamo ringraziare tutti i coglione che abbiamo detto per aver salvato la nostra fedina penale. Domaneschi definisce l'insulto «un'arte marziale che educa a contenere e a ritualizzare l'aggressività». Una parolaccia ben assestata umilia l'avversario, attrae l'attenzione e sprona qualcuno a fare qualcosa. Per questo l'autore fa notare che «una lingua deprivata delle ingiurie è condannata al disarmo, menomata di una sua capacità espressiva». E pensare di trovare dei sinonimi più socialmente accettabili, sostituire per esempio: sei un coglione con una perifrasi ridicola come sei una persona poco intelligente oppure sei un individuo che non brilla vuol dire rinunciare ad essere linguisticamente attrezzati ad affrontare le diverse situazioni conflittuali. La vita quotidiana impone versatilità, bisogna padroneggiare diversi registri, saper raggiungere vette liriche e poi essere capaci di sprofondare negli abissi. Saper insultare, possedere un vasto repertorio di parolacce ed offese tra cui scegliere significa saper stare al mondo. sallustio e cicerone Molti pensano all'antichità come a un'età in cui il linguaggio era forbito, i modi eleganti e l'eloquio ossequioso, in realtà parolacce e cattiverie fiorivano anche sulle bocche di Catullo, Sallustio e Cicerone. La differenza rispetto al passato è l'irruzione dell'offesa nell'agone politico: oggi l'insulto è usato come strumento per attirare consenso e delegittimare l'avversario politico. È molto interessante il capitolo del saggio dedicato agli insulti in politica in cui l'autore paragona le parole normalmente usate dalla sinistra progressista contro la destra e viceversa. Da una parte fascisti, ignoranti, trogloditi, rozzi, dall'altra professoroni, radical chic, buonisti e intellettualoni. Dal confronto è evidente che i primi sono asimmetrici, presuppongono cioè una superiorità gerarchica dell'insultatore sull'insultato sia di natura morale e civile (fascisti), intellettuale (ignoranti) o cognitiva (trogloditi). Insomma, ci si mette in cattedra e si bacchetta. «L'insulto populista, al contrario, è ecumenico. Chiunque può dare del professorone a qualcun altro»: l'autore sottolinea che quest' ultimo è un linguaggio che fa presa su un più largo numero di persone e ha maggiori chance di colpire. Per quanto tutti vorremmo un confronto politico più pacato e tollerante, la verità è che oggi la competenza denigratoria è diventata un elemento fondamentale di una comunicazione politica efficace. Non bollate l'insulto come espressione di un'incontinenza emotiva perché alcune offese raggiungono il bersaglio solo se ben ponderate e creative. Ci sono mille buoni motivi per leggere questo saggio. Il primo è che dopo averlo chiuso potrete insultare e arricchire il vostro arsenale denigratorio di nuove parolacce senza mai sentirvi scurrili.
Mariella Bussolati per "it.businessinsider.com" il 28 agosto 2020. Ai tempi della Germania nazista, rispettabili cittadini tedeschi, che fino a quel momento non avevano torto un capello a nessuno, hanno denunciato i loro vicini ebrei pur sapendo che fine avrebbero fatto. Nella sanguinosa battaglia tra Hutu e Tutsi in Ruanda, perfino i contadini hanno imbracciato le armi contro chi fino a quel momento aveva lavorato insieme a loro. Gli esempi possono continuare con persone più direttamente coinvolte, come soldati di bassa leva che hanno fatto stragi, o personale delle carceri che si è trasformato in aguzzino. Come mai gente apparentemente normale si può trovare a un certo punto a commettere crimini orrendi? L’empatia, la caratteristica che ci permette di condividere il dolore e di attivare un comportamento altruistico, è fortemente impressa nella nostra biologia umana, ed è servita a farci evolvere. Tanto che è visibile nel nostro cervello: quando vediamo che qualcuno soffre si attiva la parte anteriore e la corteccia cingolata che ci portano ad agire per il bene degli altri. In pratica mappiamo il loro disagio nel nostro stesso sistema di riconoscimento del male grazie ai neuroni a specchio. Quindi in pratica non procuriamo esperienze negative perché non le vogliamo provare a nostra volta. Anche gli altri mammiferi, come i roditori o i primati, hanno lo stesso meccanismo. Chi invece riesce a ignorare questo impulso e a impartire sofferenza evidentemente deve seguire tutt’altro processo. Un gruppo di ricercatori dell’Istituto olandese di Neuroscienze è andato dunque a indagare il motivo per cui tutto questo possa avvenire. E hanno scoperto che il motore che permette di ignorare le proprie pulsioni biologiche è l’obbedienza a ordini, impartiti in modo violento. Stiamo parlando di un’obbedienza particolare, quella che corrisponde a una gerarchia di poteri, in cui la persona che impartisce l’ordine ha uno stato più alto di chi lo riceve. Per capire come mai in questo caso basti un comando per spingere a essere immorali hanno utilizzato coppie di partecipanti, uno con il ruolo di agente, l’altro di vittima. Poi hanno scambiato i ruoli, facendo si che le vittime diventassero agenti. Agli agenti veniva effettuata nel frattempo un risonanza magnetica che permette di studiare le reazioni del cervello. Gli veniva chiesto di decidere, schiacciando un bottone, se infliggere o no uno shock alla vittima. In caso positivo ricevevano anche 0,05 euro. Ma si trattava di una libera scelta. In un momento successivo gli sono stati imposti ordini autoritari e il comando di procurare un supplizio. In questo caso gli agenti hanno schiacciato più spesso il bottone per impartire danni alla vittima. Il loro cervello dimostrava che a causa di questa situazione le regioni dell’empatia erano meno attive, erano inibite anche le zone che mostrano un riconoscimento di quanto fatto e quindi il senso di responsabilità. Erano anche inibite le aree relative al senso di colpa. Inoltre pensavano di fare meno male rispetto a quando potevano decidere liberamente. Non a caso, quando alla fine dell’esperimento veniva chiesto quanto si sentivano cattivi o se provavano dispiacere, i partecipanti rivelavano che avevano provato un maggiore senso di disagio quando avevano potuto decidere da soli. Adolf Eichmann, giustiziato nel 1962 per aver organizzato l’Olocausto e aver pianificato lo sterminio degli ebrei, nel processo aveva espresso sorpresa nel sapere che lo odiavano, rivelando di aver solo obbedito. Nel suo diario aveva anche scritto che gli ordini erano per lui una delle cose di più alto livello nella sua vita, e eseguirli era senza discussione. Eppure gli psichiatri lo avevano dichiarato sano di mente, e veniva da un normalissima famiglia. La storia di Eichmann aveva interessato Stanley Milgram, uno dei primi psicologi che ha effettuato esperimenti sull’obbedienza. Aveva ottenuto gli stessi risultati del team olandese, ma non ne conosceva le cause. La risonanza magnetica invece evidenzia chiaramente questo processo: la corteccia anteriore cingolata, il putamen caudato, un gruppo di nuclei che sono interconnessi con la corteccia cerebrale, il lobo parietale inferiore, la giunzione temporoparietale in cui i lobi temporale e parietale si incontrano, la circonvoluzione frontale inferiore apparivano come disattivate in seguito agli ordini. In pratica quando si eseguono comandi perentori la risposta neurale dimostra chiaramente un modo di interagire con il prossimo completamente differente da quanto la nostra evoluzione ci porterebbe naturalmente a fare. Il potere e l’autorità dunque hanno un’enorme responsabilità sul comportamento umano e gli studiosi ritengono che per evitare che in futuro si possano ripresentare le situazioni che in passato hanno permesso di sterminare intere popolazioni, sia necessario prevenire queste modalità di governo. I ricercatori hanno fatto anche notare che uno dei partecipanti all’esperimento non ha mai inflitto shock neppure quando gli veniva ordinato. Per questo motivo non è stato considerato nello studio. Ma può essere considerata una speranza.
Da leggo.it l'1 gennaio 2020. Le emozioni influiscono sulla nostra salute più di quanto pensiamo e dunque non esprimerle può compromettere il nostro sistema immunitario. A dimostrarlo sono studi scientifici fatti nel settore della Psiconeuroimmunologia (PNEI), secondo i quali reprimere le emozioni ha ripercussioni negative sul sistema immunitario. Stress, collera, rabbia sono tutte emozioni che abbassano le difese del nostro sistema immunitario, rendendoci più vulnerabili e più predisposti a ipertensione, attacchi di cuore, ictus.. I ricercatori hanno notato come persone soggette a maggiore stress, siano anche soggette a maggiori cambiamenti immunitari. E se un atteggiamento ostile, un'aperta aggressività, frequenti scatti di rabbia, hanno un effetto negativo avere uno stato d'animo positivo e buone relazioni sociali porta ad un aumento della risposta immunitaria.
Il caso Silvia Romano e l’odio degli italiani: per favore un po’ di serietà. Walter Siti su Il Riformista il 20 Maggio 2020. L’odio è una passione paziente: può scatenarsi all’improvviso come un colpo di fulmine, per un incontro o un avvenimento, ma poi si sedimenta e mette radici, si cristallizza e costruisce intorno a quel primo granello una corazza pietrosa e inscalfibile. La persona (o categoria) odiata diventa un punto di riferimento costante della nostra esistenza, una risorsa psicologica per i nostri momenti difficili; immaginare quella persona (o quella categoria) come responsabile del male del mondo porta con sé una specie di sollievo. Il tempo si ferma, le circostanze storiche variabili scivolano via e resta, fisso, il piacere di immaginare la vendetta, la nuda violenza esercitata da noi personalmente, o da nostri emissari, sul corpo di chi si odia. Riversare su di lui (o lei, o loro) tutte le colpe ci esime dal riflettere sulle nostre personali e civili responsabilità. Colui (o ciò) che odiamo ci definisce come persone: semplifica, radicalizza e ci preserva dall’angoscia del dubbio. In questo l’odio assomiglia all’amore, e non è da tutti odiare di cuore come non è da tutti innamorarsi perdutamente. L’odio insomma è una cosa seria, che spetta a chi lo prova tenere a freno e alla società limitare, senza speranza di poterlo uccidere una volta per sempre. Se contrastato e indicato come peccato imperdonabile, l’odio si nasconde, si traveste, attende tempi a lui più favorevoli. Questa pandemia, che ha chiuso in casa mezza popolazione mondiale, sembra proprio un tempo favorevole; la dice lunga il fatto che in questo periodo, secondo dati attendibili, siano aumentate del 30% le chiamate ai centri antiviolenza familiare. I coniugi, per i quali le ore di separazione lavorativa erano un ammortizzatore dei conflitti, si sono ritrovati muso a muso a fare i conti con la realtà del loro rapporto; i maschi privati di bar e partite hanno sfogato le loro repressioni su donne e bambini; i ragazzini, senza cortili o strade per giocare con gli amici, si sono mostrati più impegnativi del solito. Il malumore ha fatto emergere l’odio latente, nei non pochi casi in cui incubava da anni sotto la cenere del quieto vivere. Lo stesso è accaduto per gli odii sociali più antichi e stratificati, in primis il razzismo e l’odio religioso. Molti hanno sperato che l’epidemia esplodesse in Africa, ma per ora si scontrano con l’evidenza delle statistiche; così han dovuto ripiegare, prendendosela con gli africani che dagli italici ghetti vengono prelevati la mattina per andare a raccogliere frutta e pomodori. È bastata una ragazza ingenua, che per leggere il Corano ha aspettato di essere prigioniera, a far scrivere sui social parole orrende contro di lei e contro l’Islam “religione inferiore”. Sono casi di odio genuino, covato a lungo come ossessione; ma proprio per questo facilmente identificabile. Più insidioso e pervasivo è l’odio che si traveste, non possedendo né il coraggio né la dignità del proprio nome; meno pericoloso nel fondo, ma più dannoso per la convivenza civile nel breve e medio periodo. L’antipatia strisciante per i cugini francesi, duplicata da rivalità calcistiche; il ricordo bellico dei tedeschi rastrellatori, misto a invidia per la loro organizzazione e i loro soldi. L’insofferenza delle regioni meridionali, più libere dal contagio, per una Lombardia che appesantisce e rallenta; quella uguale e contraria dei settentrionali per un Sud che tanto può fare quello che vuole, non sono loro a incrementare in modo decisivo il Pil. Il fastidio dei giovani per i vecchi troppo prudenti, e dei vecchi per i giovani che non indossano le mascherine. La voglia serpeggiante di delazione, il rancore che si traveste da giustizia; la preoccupazione di pararsi il culo per quando arriveranno i magistrati. I media amplificano e spettacolarizzano: la sindrome dei “polli di Renzo” di manzoniana memoria (che essendo legati per le zampe si ingegnano di beccarsi l’uno con l’altro) diventa platealmente odio di scena nei battibecchi dei talk politici, le cui livide bordate si distinguono a stento da quelle, in odore di audience, dei reality trash. Sui social si lapidano due influencer fidanzati perché lui ha raggiunto lei pur abitando in una Regione diversa; si dà credito ai più inverosimili complotti, ci si dichiara sicuri che la pandemia sia un inganno ordito dai “poteri forti”; perfino gli odiatori dell’odio alzano i toni, perché sono certi che l’odio riguarda soltanto gli altri e mai loro, anime belle. Onda confusa di rinfacci reciproci, in un Paese sull’orlo d’una crisi di nervi. L’odio rischia di diventare una scorciatoia per cavarsi d’impaccio in una situazione che non sembra avere vie d’uscita. L’Italia i soldi pubblici non ce li ha, c’è poco da fare; ha molta ricchezza privata, come si è sbandierato per anni, ma nessuno adesso osa ricordarlo. La forza politica maggioritaria in Parlamento non è più la prima forza politica del Paese, ma oggi una crisi di governo è impensabile e le elezioni sarebbero ostacolate anche da motivi sanitari. L’odio senza conseguenze è quello più facile: sgrugnarsi e insultarsi sapendo che tutto resterà uguale, almeno per un po’. Più che odio, mugugno: insoddisfazione generalizzata, guardare il proprio vicino con sospetto; il bar che non ce la fa a tirare avanti denuncia l’altro bar che si è venduto ai cinesi; l’azienda sotto inchiesta per irregolarità nell’importazione di mascherine dice perché non guardate a chi ha fatto anche peggio di me. L’estrema destra si proclama delusa dalla scarsa reattività di Salvini e Meloni, e accusa siete casta pure voi, cane non mangia cane, come i ladri di Pisa che litigavano di giorno e di notte andavano a rubare insieme. Un urlìo confuso di risentimenti incrociati non è la premessa migliore per affrontare i tempi duri che verranno. La buona volontà dei singoli, e anche dei governanti, non manca, il buonsenso cerca di stare a galla evitando gli scogli più perigliosi. Ma l’amore per gli altri, quello vero che ha il fulgore della carità, potrebbe dispiegarsi con più energia se l’odio gli si opponesse senza maschere.
Più cattivi di così... e l’ironia diventa educazione «cinica». Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Luca Bergamin. Il cinismo diventa un’arma per combattere gli estremismi e gli integralismi di una società che ha perso le buone maniere e anche un po’ il senso dell’ironia. Ma ha voglia di reagire e farsi sentire attraverso il web. L’idea venuta a Enrico Nocera ed Edoardo Scognamiglio, realizzata attraverso i video dell’agenzia ComboCut di Milano, ha raccolto più di cento milioni di visualizzazioni grazie ai fan intercettati con Facebook - il canale principale - poi con Youtube e Instagram, oltre che attraverso i lavori fatti in sinergia con grandi aziende italiane e multinazionali. È Nocera a spiegare: «Il nostro progetto cross-social permette di parlare in libertà, dire quello che non si potrebbe per ragioni di convenzione sociale ed eccessiva correttezza. Mi riferisco a situazioni limite come l’anziana che ruba il posto nella fila al supermercato, alla ragazza che si ostina a occupare l’unico posto libero al parcheggio piazzandocisi sopra in attesa dell’auto del fidanzato, alla maestra che si trova dinnanzi una rappresentante di classe arrogante, o la vegana che pretende di mangiare secondo i propri dettami alimentari in un ristorante normale. Ecco, con la nostra cinica ironia vogliamo far aprire gli occhi su casi di fronte ai quali per debolezza spesso si tace». I video di Educazione Cinica, piaciuti anche a Paola Cortellesi che ne è stata interprete e a Rosario Fiorello che ha voluto Nocera e Scognamiglio fra gli autori di VivaRaiPlay, sono utilizzati come scudo in più direzioni. Contro le convenzioni ma anche contro i maleducati. In una clip, anticipata in esclusiva alla presentazione della Civil Week nella Sala Buzzati del Corriere, attaccano i pregiudizi legati al razzismo: «Abbiamo proposto un video del ragazzo nero che va a un appuntamento al buio - racconta ancora Nocera - e gli tocca ascoltare una serie di strafalcioni culturali e religiosi dovuti principalmente all’ignoranza verso il diverso che regna in questo Paese. Ecco dunque che trattare questi temi con un linguaggio ironico aiuta a sensibilizzare l’opinione pubblica affinché si faccia appunto un esame di coscienza di fronte alle ingiustizie».
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
Melania Rizzoli per "Libero Quotidiano" il 12 agosto 2020. Secondo Erich Fromm l'umanità è più propensa all'odio che all'amore, cioè l'uomo riesce più ad odiare che ad amare. La posizione del filosofo tedesco è sicuramente discutibile, ma è evidente che non si può criminalizzare l'odio, un sentimento nascosto in ognuno di noi e considerato dalla scienza naturale come l'amore. Dal 27 luglio alla Camera dei Deputati si sta discutendo su una proposta di legge che mira a contrastare l'odio e la discriminazione contro l'orientamento sessuale e l'identità di genere, e molti sono stati i commenti negativi sulla minaccia alla libertà di espressione, che hanno parlato di misura liberticida, mentre l'intento della legge sarebbe quello di voler combattere quei reati che nascono dall'odio come gli atti di violenza. Ma la domanda è: può una legge contrastare l'odio, ovvero un sentimento violento che nasce da un disturbo dell'affettività? Perché di questo si tratta, in quanto l'odio è riconosciuto come un disturbo mentale della sfera affettiva, ed è considerato patologico, in quanto causa un'emozione non razionale di tipo ostile, focalizzata sul detestare e sul rivendicare, che comporta un desiderio profondo e duraturo di far del male a qualcuno o a qualcosa, misto a sensazioni di rifiuto, ripugnanza, contrarietà, intolleranza e soprattutto vendetta. Non va confuso con l'ira o la rabbia, che sono anch'essi disturbi dell'affettività ma si distinguono per essere momentanei e passeggeri, mentre l'odio è un sentimento astioso e rancoroso più "ruminato", cioè calcolato e rimuginato silenziosamente anche per lunghi periodi, represso e covato, che poi esplode in modo potente rivelando una aggressività maligna e distruttiva con un facile sconfinamento nella violenza e nel sadismo. Inoltre l'odio si differenzia dall'antipatia, dall'invidia, dall'avversione o da altre forme di giudizio negativo, poiché in queste manca la volontà di "far del male" o di "farla pagare", ovvero di comminare una sonora punizione all'oggetto odiato, anche se l'invidia può trasformarsi in odio quando si vuole che la persona odiata, per esempio, subisca qualcosa di negativo, come una malattia, un licenziamento o declassamento.
La vendetta Per raggiungere il suo scopo spesso chi odia si sente in diritto di infrangere la legge ("mi faccio giustizia da solo") pur di punire la persona odiata poiché sente di agire nel giusto o comunque ritiene che l'eccezione sia valida per salvaguardare la propria persona e vendicarsi, ed in questi casi occorre valutare se il soggetto che odia sia equilibrato mentalmente o no, ovvero se una persona considerata equilibrata possa spingersi fino ad odiare, a punire ed a commettere reati. L'odio potenzialmente risiede dentro ognuno di noi, emerge nel tragico ruolo dell'inconscio nella guerra dei conflitti, e la psichiatria lo considera comunemente in contrapposizione all'amore, in quanto i due sentimenti possono essere accostati per intensità ed impeto pur non essendo paritetici, mentre come sentimento intermedio tra i due, privo sia di punti positivi che negativi, troviamo l'indifferenza. Naturalmente esistono diverse forme di tale disturbo, ma quella più frequente è "l'odio reattivo", scaturito da un evento negativo, da una profonda ferita o da una situazione immutabile che rende impotenti e genera ostilità violenta, ma in molti casi però l'odio è una peculiarità del carattere, e risiede nella predisposizione di una persona ad essere ostile, come quegli individui che appaiono sempre arrabbiati e si relazionano solo in modo negativo, contestando ogni fatto od opinione diversa dalla loro, non accettando critiche od appunti sul loro comportamento e sul loro carattere.
L'aggressività. La psicanalisi gioca un ruolo di primaria importanza nella comprensione di tale sentimento, addirittura attribuendogli una posizione riparativa finalizzata alla neutralizzazione e sublimazione dell'aggressività ("mors tua vita mea") durante il conflitto tra conscio e inconscio, un confine spesso molto sottile e facilmente valicabile. L'odio, che trova comunque le sue radici nella frustrazione, nell'invidia, nella gelosia, nella competizione, nelle differenze sociali e nel desiderio di vendetta, non sempre alimenta stati emotivi che si impregnano di violenza, perché l'odio cosiddetto "freddo" è tipico delle persone che si limitano a tenere le distanze da quelle ritenute negative o repellenti, percepite come esseri inferiori da guardare con disprezzo e superiorità, che è caratteristico di chi cela bassa autostima, insicurezza, immaturità affettiva ed egocentrismo, e che per liberarsi delle proprie paure sfrutta l'indignazione, la furia verbale e niente di più. In termini psicoterapeutici infatti coloro che tendono ad odiare proiettano sul mondo esterno i loro aspetti peggiori, quelli che non vorrebbero avere ma che abitano il profondo dell'inconscio, ombre che generano incubi e pensieri avversi, sentimenti torbidi e angosce che non si vogliono portare alla luce. Ogni uomo in determinate circostanze ha bisogno di un nemico, a cui addebitare regolarmente le cattiverie, le slealtà, le crudeltà e le prepotenze in cui ci si imbatte nella vita quotidiana, e comprendere questa finzione scenica ideata dalla psiche è dunque essenziale per capire che spesso il male abita dentro, e non fuori, per non arrivare a farsi possedere e sopraffare dall'odio. Chi odia comunque prova un sentimento forte, ed il paradosso è che l'odio non solo si alterna all'amore ma ne è parte integrante, indipendentemente dalla volontà, ("amare il proprio nemico"), poiché i due sentimenti sono destinati ad intrecciarsi in una inevitabile coessenzialità, ed ambedue sono in grado di incidere profondamente sugli stati d'animo, con la differenza che l'odio è un sentimento notevolmente inferiore all'amore, non è paritetico ma condannabile, perché sempre distruttivo e devastante. L'odio non più esistenziale invece, è quello che sfocia nella patologia, che si trasforma in un'idea ossessiva inseguendo la quale non si abbandona mai il tentativo di eliminare l'oggetto che si detesta, quasi fosse una liberazione, per cui il sentimento, non privo inizialmente di una sua nobiltà, muta in delirio. Comunque quando compare, il sentimento dell'odio ha un carattere difensivo ed è impossibile reprimerlo, soprattutto dopo una forte ingiustizia, ma lo si può dominare e razionalizzare, ed è una emotività che fa parte del nostro Dna, della nostra espressività ("uno sguardo d'odio") che può arrivare a ritorcersi anche contro se stessi, fino a scaricare contro di sé tutta la sua forza distruttrice.
Senza passionalità. L'odio moderno invece, quello digitale privo della passionalità succitata, per il quale è stata coniata la locuzione "hate speech", oggi trova spazio attraverso i mezzi di comunicazione di massa, soprattutto attraverso la rete Internet, la cui caratteristica è la disinibizione, ovvero la facilità con cui si postano messaggi di odio incentivati dalla sensazione di anonimato, dalla permanenza perenne dei commenti depositati nel web, dall'amplificazione della portata del messaggio negativo e dalla difficoltà di rimozione e censura, per cui è emerso un fenomeno sociale di diffusione di vastissime frange di odio, che si scatenano non solo su temi tradizionali, politica, sessualità, razzismo o religione, ma si allargano su contesti sempre più variabili e imprevedibili, che sovente scatenano un'ondata di commenti carichi di odio, verso persone che non si conoscono nemmeno, e con le quali non si è avuta mai alcuna relazione, ma delle quali si è invidiosi, gelosi e rancorosi per la loro visibilità. L'essere umano è pressoché l'unica specie che aggredisce, violenta e prova piacere nel fare del male, ma alla lunga l'odio non rende soddisfazione, perché è rozzo e ignorante, non controllabile dalla ragione, fa soffrire, è corrosivo, ed oltre che stupido è spesso inutile a risolvere i problemi che lo hanno provocato.
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 24 dicembre 2019. «Non fare del bene se non sei preparato a sopportare l' ingratitudine» diceva Confucio a proposito di questo sentimento umano negativo, oggi molto diffuso, elaborato nel proprio intimo per fronteggiare le conseguenze psicologiche di un debito di riconoscenza derivante da un beneficio ricevuto. Sempre più persone infatti, sembrano incapaci di provare gratitudine verso chi ha fatto loro del bene o chi ha elargito loro un favore, non riconoscono il valore dell' atto, lo svuotano del contenuto affettivo, di stima o di generosità, e stravolgono le motivazioni che hanno mosso il benefattore verso di loro. L' incapacità di riconoscere il dono accettato può addirittura portare ad assumere un atteggiamento opposto, ovvero invece di ringraziare e di essere grati, si finisce per negare, manifestare ostilità, rancore ed aggressività nei confronti del benefattore, sia nel caso in cui l'aiuto sia stato fornito spontaneamente, sia in quello in cui sia stato espressamente richiesto, e tale fenomeno chiama in gioco sentimenti complessi ed ambivalenti, nel tentativo di eliminare il peso "insopportabile" della riconoscenza. Tale comportamento anomalo sfiora il disturbo mentale, è chiamato "Sindrome rancorosa del beneficiato" ed insorge spesso in chi ha un deficit di sviluppo delle esperienze affettive, basate sulla logica del dono piuttosto che su quella del possesso, cosa che esprime sempre un infantilismo narcisistico, una immaturità combinata ad una svalutazione delle proprie capacità, a un senso di inferiorità o di dipendenza, ad una bassa autostima, che possono far insorgere nel beneficiato un moto di competizione ed arroganza nei confronti del suo benefattore una volta ottenuto il riconoscimento, la promozione, il contatto giusto e così via. Il rancoroso cioè, invece di riconoscere spontaneamente il bene ricevuto, non riesce, fino in fondo, ad accettare di averlo avuto, al punto di arrivare a dimenticarlo, negarlo o sminuirlo, a trasformarlo in un fastidio dal quale liberarsi, ed a considerare chi lo ha aiutato come una persona da allontanare, da evitare, da dimenticare, da tradire se non addirittura da penalizzare e calunniare, in una conflittualità psicologica distorta e senza senso logico. L'ingratitudine di chi riceve il favore diventa più comprensibile se si considerano i rapporti di potere in gioco e i sentimenti ambivalenti chiamati in causa, in quanto tale reazione negativa deriva spesso dall' invidia nei confronti di chi dona, che proprio in quanto nelle condizioni di poter dare, gode di una posizione di superiorità, di maggiori risorse e di più elevate competenze, per cui il senso di inferiorità e dipendenza di chi ottiene l' aiuto o il favore viene pertanto ulteriormente rimarcato, scatenando una suggestione superiore ed una risposta inconscia di rivalsa: «Io non gli/le devo niente, il merito è solo mio, anzi è lui/lei che dovrebbe ringraziarmi». Sono soprattutto le persone narcisistiche, o quelle con un ego sproporzionato al proprio talento e alle proprie capacità, quelle che fanno più fatica a dire "grazie", perché vivono il ringraziamento come un atto di sottomissione all' altro, proprio quell' altro che li ha fatti emergere, assumere, lavorare, salvati o strappati da situazioni difficili, per cui iniziano a blaterare, a rimarcare il loro valore che non hanno, ed a convincersi che il dono ricevuto sia soltanto un atto dovuto che meritavano. Il beneficiato infatti, non coglie il valore dell' aiuto, lo svaluta della sua componente di generosità, perché lo interpreta come un debito, come una sconfitta in una competizione, e tale moto d' animo è caratteristico delle persone che sostengono di fare sempre tutto da sole, che il merito è solo loro, del loro impegno e del loro lavoro, e che nella vita non hanno mai avuto bisogno di niente e di nessuno, dimenticando o addirittura tradendo colui/colei che gli ha presentato, per esempio, la persona influente che ha cambiata loro la vita. In realtà più una persona ha attorno persone elevate, più si evidenzia la sua mediocrità, più diventa insicura e se si aggiungono le ridotte capacità e la bassa autostima, più quella persona ha difficoltà a ringraziare, ad essere riconoscente, sviluppando una ridicola ostilità che induce spesso alla rivalsa. Per molto tempo si è pensato che l'ingratitudine fosse solo un sentimento, mentre invece ha una importante componente cognitiva che diventa dissonante e viene rimossa, perché dovrebbe far apprezzare il gesto ricevuto, l' atto in se stesso, ma è noto che l' apprezzamento è una abilità che gli ingrati non hanno sviluppato e non elaboreranno mai. La psichiatria infatti, sostiene che l'ingratitudine si sviluppa nei primi anni di vita, quando i genitori non insegnano ai figli a valorizzare ed apprezzare ciò che gli altri fanno per loro, per cui molto spesso questi bambini manifestano quella che viene chiamata "Sindrome dell' imperatore", una visione egocentrica ed egoistica che li seguirà nell' età adulta, presumendo che gli altri siano tenuti a soddisfare i loro bisogni e desideri, cosa che impedirà loro di provare sia riconoscenza che generosità. La gratitudine e l' ingratitudine non sono due principi assoluti, bensì due atteggiamenti mentali molto diversi, promotori di interessi e obiettivi, a seconda di come ciascuno valuta il principio del dare e del ricevere, che spesso si intrecciano in un rapporto unico di reciprocità che non si può dividere. Ma nell' interiorità del beneficato che ha ricevuto, si stabilisce quasi sempre un vincolo di soggezione, un legame psicologico o materiale con chi ha dato, il quale sentimento, se viene covato ed elaborato in modo negativo nella mente, ingigantisce il potere del beneficante, generando nel beneficato la sensazione di limitazione della sua libertà mista ad invida. Eppure l' ingrato, prima di diventare tale, ammira in modo indefesso colui o colei che formula il beneficio, ne esalta le gesta, lo prende ad esempio, ne adula la personalità, per poi, al raggiungimento dell' obiettivo, distruggerne pubblicamente la credibilità con ipocrisie e maldicenze. Nelle teorie comportamentali tale atteggiamento racchiude in sé non tanto un atto circostanziale fine a se stesso, ma il carattere di una persona, incapace di riconoscere le qualità di chi ha donato, fino a sviluppare una vera sindrome, con un complesso di sintomi che concorrono a caratterizzare un quadro clinico deviato, ovvero a manifestare una vera e propria forma di devianza, derivata da problematiche di ordine psichico difficili da curare. Attenzione quindi ad essere troppo generosi con chi non lo merita, con le persone poco equilibrate, inquiete, che cambiano spesso umore, che danno sempre la colpa agli altri delle proprie sventure, che parlano spesso male e con rancore dei loro amici o congiunti, perché l' ingratitudine è un processo perverso e svilente della mente per il quale chi ha avuto prima o poi si rivolterà contro il suo benefattore, e non a caso è nato il proverbio: «Amico beneficato, nemico dichiarato».
Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 17 dicembre 2019. Portare rancore è un lavoro molto impegnativo, e la maggior parte delle volte non ne vale proprio la pena. Il rancore è un' emozione negativa causata da una situazione avversa che si è verificata, dalla quale ci si sente feriti, una condizione che non si è affrontata apertamente e che non si è risolta, la quale prolunga a tempo indeterminato il malessere alimentando sentimenti di dolore e rabbia rispetto ad un accadimento o verso una persona che si è comportata male. Il rancore è sempre preceduto dal risentimento, un carico emozionale anch' esso negativo che non permette di ristabilire l' equilibrio psicologico, perché il ricordo dell' ingiustizia subita o del danno provocato spingono a restituire il dolore, a progettare atti di vendetta, favorendo atteggiamenti di ostilità e di aggressività verso la persona responsabile della sofferenza e del danno inflitto. In realtà l' unica persona che soffre è la stessa che porta rancore, che prolunga la sua insoddisfazione senza risolvere il problema, ed anche se il tempo la allontana da quella situazione sgradevole vissuta e da colui/colei che l' ha provocata, chi custodisce il rancore si infligge sofferenza e conflitti interiori dai quali non tende a liberarsi La parola rancore deriva dal latino "rancore(m), derivato da "rancere", ossia essere rancido, acido o guasto, ed è usata da secoli per descrivere colui che prova astio, rabbia inespressa, profonda e persistente, covata talmente a lungo e così tenacemente da essere in grado di guastare o irrancidire l' animo umano. Questo sentimento di profonda avversione nasce solitamente a seguite di un torto subìto o un' offesa ricevuta, e si traduce spesso in un desiderio represso di rivalsa, che però non viene manifestata immediatamente nel momento del danno subìto, bensì tenuta nascosta e covata nell' animo, in modo silenzioso e logorante, al punto che tale subdola emozione non fa che essere dannosa per chi la nutre. Non riconducibile ad un fenomeno psichico meramente intraindividuale, il rancore è definito in psichiatria un' esperienza emotivamente disturbante e destabilizzante, provata, rivissuta e rielaborata di continuo nella mente, che presenta varie gradazioni di intensità, ma che provoca quasi sempre la dissonanza cognitiva, ovvero la mancata consapevolezza della grettezza associata al proprio atteggiamento o ai propri sentimenti negativi ed ostili. Spesso dietro il rancore si nasconde un profondo disagio che non si riesce a disciplinare, che può sfociare in una fobia in grado di minare anche i rapporti apparentemente più solidi, che in realtà solidi non sono mai stati, ed in definitiva il risentimento si basa sulla necessità di dire qualcosa che non si è mai stati in grado di esprimere, o almeno con l' intensità desiderata, per cui la persona è in un certo senso delusa e genera nella sua mente una serie di idee negative verso la persona oggetto del suo odio. Generalmente si tratta di personalità fragili e insicure, che tendono ad attribuire la propria inadeguatezza a dubbie ingiustizie subìte o percepite, a colpevolizzare gli altri sul mancato raggiungimento di traguardi od obiettivi, accumulando frustrazioni causa di profonda infelicità ed animosità. Con il passare del tempo questi pensieri diventano ossessivi e sempre più intensi, i quali possono causare molti problemi, dalla semplice ansia alle malattie psicosomatiche, fino a favorire vere e proprie malattie, via via più importanti, poiché a forza di portare sulle spalle un pesante fardello, oltre ai sentimenti negativi prevalenti, ci si nega la possibilità della benché minima serenità psicofisica. Inoltre dietro alla persona che prova rancore si nasconde quasi sempre il giudizio o la sensazione di essere migliore dell' altra, di quella che ha commesso l' errore, senza valutare di giudicare se stessi invece di vivere indossando i panni di giudice, e soprattutto ignorando che ognuno è diverso e che le persone cambiano, per cui è sbagliato restare troppo immersi nell' immagine che si ha di quel lui/lei da non rendersi conto che questa non corrisponde più alla realtà che ci si aspettava. Nella vita tutti prima o poi sperimentano molte cose che si considerano ingiuste, e comunque le si consideri è difficile trovare il lato positivo, ma in molti casi è meglio lasciar perdere piuttosto che farsi consumare dall' amarezza che condiziona il vivere quotidiano. Ed anche se esistesse la possibilità di vendetta, questa non sarà mai la soluzione al dolore accumulato, perché le conseguenze o i conflitti successivi alla restituzione del danno subìto difficilmente restituiscono serenità e soddisfazione, perché il dolore altrui non è in grado di placare il dolore di chi serba rancore in corpo, abituato a sopportare un peso innecessario al quale si è ormai abituati e con il quale si convive. Ma come si evita il rancore? La cosa più conveniente sarebbe risolvere la situazione quando questa si verifica, senza tentennamenti o timidezze, per esprimersi e farsi rispettare sul momento, evitando l' insorgere del risentimento e di tutto quello che questo sentimento negativo comporta. Dopodiché bisogna anche imparare a rispettare il comportamento e il pensiero delle altre persone, libere come tutti di esprimersi, e decidere di conseguenza che relazione mantenere con quell'individuo, poiché rispettare non significa condividere il suo modo di agire, evitando così di vivere una situazione simile un' altra volta. Provare rancore dunque non conviene, perché questo sentimento negativo e livoroso fa male alla salute, condiziona il carattere, rende animosi e astiosi, spegne il sorriso spontaneo, lo trasforma in un ghigno malefico che condiziona il comportamento, e le persone rancorose diventano agli occhi degli altri antipatiche, insopportabili e moleste, difficili da approcciare, o meglio da evitare, sempre avverse e tendenti a parlar male, a lamentarsi e recriminare, per cui si chiudono e vengono isolate, aggravando la loro situazione psicologica di profondo disagio. Il livore infatti, alla lunga diventa un tarlo che divora, che influenza negativamente se stessi e chi vive accanto, è distruttivo, sia dal punto di vista fisico che psicologico, e fa ammalare, quindi molto meglio un atto spontaneo di rabbia espressa sul momento, piuttosto che un sentimento talmente negativo da irrancidire e logorare la serenità della mente e dell' anima.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 19 dicembre 2019. L' amica Melania Rizzoli ha scritto un articolo (qui, martedì) per spiegare che il rancore accorcia la vita, che perlopiù non vale la pena, che spesso rappresenta la mancata soluzione di un malessere che conduce a squilibri emotivi, insomma: il rancore - riassumo - non serve a niente se non a inacidirsi, logorarsi, accumulare frustrazione, perdere serenità, guadagnare fobie, insomma è un inferno che è meglio evitare per non farsene consumare o diventare «animosi, astiosi, antipatici, distruttivi» più altre caratteristiche che in vita mia mi hanno attribuito spesso: anche perché io, in effetti, sono una persona che porta rancore. Proprio così: lo ammetto, io in genere non dimentico, e non voglio farlo, anzi, coltivo amorevolmente i miei rancori e giudico la vendetta un' arte irrinunciabile, nonché, entro certi limiti, un basamento della giustizia umana. Quindi non sono/sarei d' accordo con l' articolo che Melania Rizzoli ha scritto, per come mi era sembrato: ma spiegare il perché, anzitutto, è importante per non generalizzare - come ho fatto io per primo, leggendo - ed è importante anche per capire se usiamo lo stesso vocabolario quando parliamo di rancore, o livore, vendetta, rivalsa, ripicca, risentimento, animosità, astio e altri termini che attenzione, non sono sempre sinonimi: e non sempre si possono liquidare come agenti che fanno male alla salute. Naturalmente esiste un limite che divide ciascuno dal patologico, dalla nevrosi, dalla malattia: ma quello c' è per tutti i sentimenti umani, del resto è anche vero che molti grandi uomini erano dei grandi malati o dei grandi depressi. Invito a riflettere su una banalità, intanto: quasi tutti noi, quando andiamo al cinema, tendiamo a vedere film squisitamente intrisi di vendette e vendicatori, di rancori serbati per anni o per decenni, o, in caso di buonismo, di vendette della vita, che fatalmente tende far quadrare le cose: tutte storie spesso «fuori dalle regole», «con metodi poco ortodossi», con «uomini veri» rispetto a ominicchi, in ossequio a stilemi che non appartengono al nostro quotidiano ma che una parte di noi ammira. Poi, però, quando usciamo dal cinema, quei modelli che li ricacciamo nell' immaginario, e mai, per dire, li insegneremmo a dei bambini. Perché la violenza non serve. Vendicarsi è inutile. Farsi giustizia da soli è incivile. I duelli sono da regrediti. Gli uomini veri, figurati, sono una cazzata. E naturalmente, ecco: il rancore accorcia la vita. Sono solo dei film, ho capito: ma i film in teoria copiano la vita e comunque c' è lo stesso qualcosa che non quadra, o forse, secondo me, c' è una verità che sta nel mezzo, tanto per cambiare. Ed è questa: da una parte c' è la necessità di basare la società su regole civili, non si discute; ma, dall' altra, c' è una maggioranza che non serba rancore perché semplicemente non ne è capace. Gente che non si vendica perché non ne è in grado. Non si fa giustizia perché non è abbastanza forte, oppure ha paura. Soprattutto, gente che ha la memoria corta (che è il mezzo più comodo per tirare avanti) e attenzione, sto parlando di rivalse o vendette rigorosamente dentro le regole, non di pagliacciate di chi ha visto appunto troppi film. La gente, voglio dire, tende a dimenticare. La gente finge di aver perdonato. La gente non serba rancore: ma non tanto perché fa filosofia, ma perché serbare rancore senza abbruttirsi o ammalarsi, o comunque senza diventarne vittima, è un lavoro che necessita di, come dire, due palle così. Il rancore va gestito e bisogna poterselo permettere, altrimenti meglio lasciar perdere. Non sto parlando degli invidiosi sociali, degli haters, degli abbruttiti che serbano rancori (contro chiunque) pur di non incolpare se stessi dei propri insuccessi: quelli sono un' altra cosa, anche se è una cosa importante, perché gli invidiosi sociali stanno prendendo il potere. Io sto parlando di un' incapacità di portare rancore che coincide con la legittimazione di uno dei peggiori difetti italiani: il lasciar perdere perché «non serve», perché tutto s' aggiusta, perché il tempo lava le ferite, e che t' incazzi a fare, il passato è passato, ancora stai a pensarci, domani è un altro giorno. Un cazzo, dico io. Adagio per adagio, allora aggiungo che la vendetta va servita fredda: ma per conservarla serve una dispensa ampia, capiente, riempita anche della vita che intanto continua a marciare senza che la dignità personale e il passato siano d' intralcio, ma neppure abbiano date di scadenza. Senza la memoria, e il rancore che la tiene viva, non può neanche esserci un perdono (che è un' eccezione, non una regola) anche se il classico italiano, o forse l' uomo moderno, ha la prescrizione troppo facile: se t' incazzi per il passato, lui cerca di farti passare per scemo, cioè per rancoroso. Purtroppo abbiamo cattivi riferimenti, anche perché in politica, per esempio, il rancore non dovrebbe esistere, la politica non si fa col risentimento - quante volte me l' hanno detto - e io infatti non faccio politica, anche perché in politica il tradimento è tranquillamente ammesso, e io i traditori li impiccherei tutti. Nella vita reale dovrebbe essere diverso, ma ormai si tende a politicizzare anche i rapporti personali e a gestire i rapporti più con il cervello e meno con il cuore. E lo dico nonostante io abbia vissuto per anni a Roma, dove è bellissimo mischiarsi e dove è normalissimo abbracciare una persona che ha tentato di accoltellarti la sera prima. Insomma, io il rancore ce l' ho, e me lo tengo, mi tiene vivo, anche se non vivrò mai per esso: tuttavia lo reggo, ha il suo posto, mi consente di ricordare che cosa sono gli uomini in generale, che cosa sono alcuni uomini in particolare, e persino - riguardandomi allo specchio, ogni tanto - vagamente chi sono io.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2019. Caro direttore, io credo che questo continuo parlare di «odio» e queste «manifestazioni contro l' odio» possano sortire l' effetto di crearlo, e siano perciò pericolose. Credo pure che ad averlo inteso sia proprio Liliana Segre, che l' altra sera ha tentato di dirlo: «Siamo qui per parlare di amore e non di odio». E sarebbe bello: se non fosse che una manifestazione «contro» presuppone sempre qualcosa o qualcuno da fronteggiare, un convitato di pietra, ed è quello che si stanno inventando. Sotto processo non finisce solo il mancato unanimismo per certe commissioni che è lecito trovare superflue, oppure lo scrivere per giornali che simpatizzano per il centrodestra: ci finisce anche la verità, quando non utile. L' altra sera, a margine della manifestazione milanese «contro l' odio» (dove tutto è filato liscio, a quanto so) l' enciclopedia online wikipedia ha cancellato la notizia che i «200 attacchi social al giorno» contro Liliana Segre, a suo tempo denunciati da Repubblica, in realtà erano riferiti al corso dell' intero anno 2018, dunque «non ad un singolo giorno, e indirizzati non esclusivamente alla senatrice». Questo ha detto il rapporto ufficiale dell' Osservatorio sull' antisemitismo: ma, su wikipedia, qualcuno ha cancellato, e ha sostituito con la seguente dicitura: «La notizia è stata rilanciata da altre testate». Ecco: è proprio su internet, a proposito degli «anonimi leoni da tastiera», citati anche da Liliana Segre, che ho notato qualche nervosismo di troppo. Mi spiego. Durante una pausa della Prima della Scala, sabato sera, in un corridoio di accesso alla platea, sono uscito dal bagno e mi sono ritrovato Liliana Segre di spalle, davanti a me, che camminava molto piano (essendo anziana) con tre uomini di scorta che ostruivano il corridoio nel circondarla; dopo un po', nella situazione di stallo, sono riuscito a superarli uno alla volta, sfiorando la senatrice, dopodiché mi sono chiesto però a che cosa servisse la scorta, visto che eluderla sembrava così semplice. Questo ho scritto in rete. Un dubbio, si badi, tecnico, non una contestazione circa l'esistenza della scorta: vicenda su cui non ho informazioni sufficienti per esprimermi. Bene: non sto a dire gli insulti che ho ricevuto, ma anche, attenzione, i plausi. Brutta faccenda. Gli insulti, non sto a ripetermi, erano di gente rimbecillita che ormai vede odio dappertutto e che, oltre ad associarmi spregevolmente a Libero, non poteva concepire che Liliana Segre non fosse oggetto di adorazione messianica punto e basta; gli altri, i plaudenti, non erano leoni da tastiera o anonimi «haters», ma un misto tra i tradizionali «anticasta» (insospettiti perché Liliana Segre, sino a poco tempo fa, non l' avevano mai sentita nominare) e altri che reagivano più che altro all' odio degli anti-odio. Dunque, direttore, questo è il quadro che mi sono fatto: da una parte, una consueta minoranza di presunti «migliori» che ti mettono sulla lista dei sospettati solo perché non partecipi alle manifestazioni, o non santifichi a prescindere chicchessia, o, ancora, esprimi idee scorrette anche senza volerlo, come l' adorabile ottantenne Giorgio Carbone, che è stato lapidato per aver scritto che la Nilde Iotti della fiction è «grande in cucina e grande a letto, il massimo che in Emilia si chiede a una donna»; dall'altra, poi, eccoti un' altra minoranza che non sa bene chi sia o fosse Liliana Segre, salvo apprendere che dai 14 ai 15 anni fu segregata dai nazisti in un campo di concentramento, e che poi, senza una precisa professione, dopo decenni di anonimato, è passata al ruolo ufficiale di testimone e quindi a incassare premi, lauree, scranni da senatrice e canonizzazioni imposte da Repubblica, o altri fabbricatori di santi e di mostri. Queste due minoranze messe insieme, temo, compongono una maggioranza di «società civile» vanamente corteggiata da noi giornalisti, con evidenti e meravigliosi risultati.
Invidia, il motore del mondo tra peccato e malattia: qual è il pericolo più grave che corri. Melania Rizzoli l'8 Settembre 2019 su Libero Quotidiano. «L'invidia appartiene ai mediocri, agli inutili, ai falliti, a coloro che hanno bisogno di sminuire la vita degli altri per sentirsi appagati». Da "Frasi & Aforismi". Ma l'invidia è un peccato o una malattia? Sicuramente è un sentimento non sano, uno stato d' animo per cui, in relazione a un bene o una qualità posseduta da un altro, si prova dispiacere e astio, per non avere noi quel bene o quella qualità, e a volte il risentimento è tale da desiderare il male di colui che la possiede. L' invidia di per sé è una emozione negativa, è la "stretta" che si prova quando si viene a sapere che un altro ci ha superato, una vera e propria sofferenza che nasce da un confronto perdente, in un campo che è ritenuto importante per la persona invidiosa, e può diventare un sentimento duraturo, evolvere cioè in uno stato di malessere, di malumore e di malevolenza perpetua verso la persona invidiata. Tutti conoscono l' invidia, perché tutti l' hanno provata anche se nessuno osa confessarla, anzi, essa viene sempre negata di fronte all' evidenza, e spesso viene giustificata come ira o gelosia, perché tutti sanno che è una emozione meschina, la più infida e la più nascosta, in quanto ha in sé due elementi disonorevoli, ovvero l' ammissione di sentirsi inferiore e il tentativo di danneggiare l' altro senza gareggiare a viso aperto, ma in modo subdolo, vile e sotterraneo, con una ostilità negata, mascherata da commenti denigratori nel tentativo ossessivo di privare la persona invidiata proprio di ciò che la rende invidiabile. Tradizionalmente si teme lo sguardo malevolo dell' invidioso, perfido e sottile, che non tutti riconoscono, e non a caso la parola latina invidia ha la stessa radice di "videre" ossia vedere, preceduta da "in" che implica inverso, ovvero vedere al contrario la realtà, e non a caso Dante Alighieri, nella Divina Commedia, mette gli invidiosi in purgatorio, con le palpebre cucite con fil di ferro, per chiudere gli occhi che invidiarono e gioirono alla vista dei mali altrui.
COLLEGHI E AMICI. L'invidia non si prova per i grandi della terra, per le persone irraggiungibili, sarebbe uno sforzo ed un confronto inutile, ma insorge soprattutto verso chi è simile, per le persone che si considerano paragonabili come condizioni di partenza, e spesso il bersaglio di invidia diventano quelle più vicine, a cui si vuole bene, come compagni di classe, colleghi, ma anche amici o fratelli, perché dal punto di vista psicologico l' uguaglianza di opportunità rende doloroso l' essere o il diventare inferiori rispetto ai successi di una persona ritenuta uguale o minoritaria. Perché lei sì e io no? Più il confronto è bruciante, astratto o sproporzionato, più la persona invidiosa invidia, diventa ostile, e desidera ferire, sminuire, denigrare e addirittura far del male alla persona invidiata, pur di annichilire il rivale, colpirlo con maldicenze, pregiudizi, cattiverie, costruire prove false al fine di dileggiarlo e danneggiarlo agli occhi dell' altro. Se non stupisce che nella cultura cristiana l' invidia sia uno dei 7 vizi capitali, per la psicologia essa è considerata una debolezza emotiva del paziente, una frustrazione accompagnata da infelicità, da senso di inadeguatezza ed inferiorità, con un deficit grave di auto-valutazione. Non solo. L'invidia viene considerata alla stregua di una malattia dolorosa, e gli scienziati che hanno analizzato con Risonanza Magnetica funzionale cosa accade nel cervello dei pazienti invidiosi, hanno constatato l' aumento dell' attivazione della corteccia cingolata anteriore e dorsale dell' encefalo (legate all' elaborazione del dolore fisico o sociale) tanto maggiore quanto più intensa era l' invidia che il partecipante diceva di provare, come anche il suo senso di esclusione.
OSTILITÀ. Dunque l' invidia è dolorosa, ma è anche potenzialmente pericolosa per gli altri, dal momento che implica ostilità, è socialmente distruttiva, minaccia lo status quo e mette in dubbio la correttezza professionale, la legittimità delle scelte e la credibilità della persona invidiata. L' invidia però è velenosa per chi la vive, per chi la esprime cercando di sopraffare il senso di inadeguatezza, ed autoconvincendosi che il successo dell' altro non sia meritato, che si sia in possesso di qualità migliori, e che le stesse non si sono potute esprimere per situazioni svantaggiose causate dall' altro. Mentre dunque per la psicologia l' invidia è considerata un disturbo patologico dell' umore, un deficit temporaneo o permanente, che condiziona e distorce fortemente l' emotività ed il comportamento, per la psichiatria invece, l' invidia nel corso dell' evoluzione in molti casi si sarebbe rivelata un beneficio, poiché viene descritta come un meccanismo psicologico che avverte che qualcun altro ha guadagnato un vantaggio e dà la spinta per ottenere lo stesso. Secondo uno studio dell' University of Texas l' invidia è un' emozione sviluppata come "sostegno" nella competizione per le risorse, come può essere la conquista di un partner o del cibo, e gli individui invidiosi che giudicano i rivali investono più in sforzi per raggiungere l' obiettivo e non restare indietro, essendo già in partenza sfavoriti nella selezione naturale. Comunque nessuno mai ammette l' invidia, sia per non rendere evidente la propria posizione inferiore, sia per non essere riconosciuto come uno che "parla solo per invidia", ma è bene sottolineare che all' invidia è collegato anche un piacere, ovvero la soddisfazione che si prova davanti alle disgrazie altrui. La psichiatria ha chiamato questo disturbo "schadenfreude", ovvero il fenomeno che insorge quando una crisi stronca un brillante rivale, o la gioia nascosta che si percepisce quando un affascinante conoscente, fino ad allora ammirato e adorato da tutti, ha avuto un grosso problema e deve scendere uno o più gradini, cosa che provoca un più che sottile piacere. Anche questo fenomeno è stato analizzato a livello cerebrale, e di fronte alle sventure capitate ai personaggi invidiati, è stata registrata l' attivazione dell' area encefalica legata al "circuito della ricompensa", poiché nel momento che la sfortuna della persona vincente la "abbassa" al nostro livello, si registra un riequilibrio delle posizioni mentali, e lo svantaggio dell' altro si trasforma in superiorità e soddisfazione dell' invidioso, in modo che il dolore dell' invidia si tramuta in una sensazione di gioia, placando il senso di ingiustizia subìto psicologicamente.
LE DONNE. Gli studiosi hanno evidenziato che l' invidia è ugualmente sviluppata in entrambi i sessi, anche se sono le donne a manifestarla pubblicamente in modo maggiore, soprattutto nel campo dell' avvenenza, oppure nei confronti di rivali che possiedono qualità che si vorrebbero avere, come bellezza, gioventù, riconoscimento sociale, approvazione generale e successo, ma è una emozione negativa che insorge anche in età infantile, quando cominciano le competizioni e si educano i bambini alla condivisione sociale. In più l' invidia dei piccoli pazienti si può mescolare alla gelosia per l' affetto dei genitori, che si teme di perdere, e che si subisce per le loro preferenze o scelte effettuate ed imposte e non condivise. L'invidioso in genere lancia tre messaggi: sono inferiore, ti sono ostile e potrei anche farti del male. Per questo l' invidia è distruttiva, richiede uno spreco di energie fisiche e mentali, minaccia la salute psicologica dell' invidioso, che diventa instabile e aggressivo, reagisce aspramente agli eventi ostili, ed attribuisce il suo insuccesso alla sfortuna, invidiando ancora di più i risultati positivi del rivale. Oggi l' invidia è diventata il peccato capitale più diffuso dell' era dei social, soprattutto tra i giovani, ed è più intensa per la facilità con cui ci si addentra alle foto e commenti degli altri postati su Instagram o su Facebook, alle esperienze positive che non si possono realizzare e che scatenano le reazioni più disparate, sempre negative, come il desiderio di essere al posto di quella persona, se non addirittura desiderare che si ammali o sperare che muoia. L'invidia comunque è un sentimento che divora chi lo nutre, maschi e femmine, e chi la prova non riesce ad instaurare reazioni positive con gli altri, restando bloccato in sentimenti come il risentimento, l' astio e la vergogna, con un senso di insicurezza che si approfondisce e che porta al crollo della fiducia in se stessi. Per cui continuare a chiedere al proprio riflesso: "specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?" non serve a nulla, perché l' invidia è come una malattia maligna, è cattiva, è progressiva ed ha sempre due facce. Sta a noi decidere quale guardare. Melania Rizzoli
Carlo Bordoni per “la Lettura - Corriere della Sera” il 7 novembre 2019. Il riconoscimento delle emozioni non è una novità. Nella sua versione più attuale risale almeno a un secolo fa, al pensiero di Edmund Husserl e alla rinnovata centralità dell' individuo. Non a caso la fenomenologia riporta in primo piano l'emotività come espressione dell' autentico e come strumento di conoscenza. Nella prevalenza del soggetto c' è tutta l' esigenza di contrastare la deriva «socializzante» dell' Ottocento e del primo Novecento (sindacalismo, socialismo, anarchismo, comunismo); di fronte alla minaccia di sovversione da parte delle masse popolari si apre la prospettiva di un «ritorno all' ordine» che trova utili alleati nel darwinismo sociale, nell' antropologia criminale di Cesare Lombroso e nell' elitismo di Vilfredo Pareto. Max Scheler (1874-1928) si situa in questo periodo critico, a cavallo della Prima guerra mondiale, quando pesanti tensioni gravano sull' Europa. La sua è una posizione di mediazione: lontano da ogni simpatia per il socialismo, cerca di trovare una giustificazione ai comportamenti del singolo individuo, grazie a una metodologia fenomenologica che utilizza la psicologia, la sociologia e l' antropologia, dove la tradizione cristiana è il porto sicuro a cui approdare in caso di tempesta. Il suo approccio è essenzialmente etico e riguarda le forme espressive individuali che caratterizzano il soggetto nella relazione con altri, come la simpatia, il pudore, il pentimento e il risentimento. A quest' ultima emozione dedica un saggio del 1912, ripreso e ampliato nel 1915 e nel 1919, riedito ora da Chiarelettere (a cura di Laura Boella), in cui si riflette il clima di turbamento esistenziale che, per la sua frequenza e ampiezza, ha finito per divenire un problema sociale. La riabilitazione delle emozioni non è solo un residuo romantico, ma una modalità altra di rivalutare l' umano in tempi di sfiducia e confusione; poggia su basi tradizionali e per giunta risponde a una visione fenomenologica della realtà (restituzione al soggetto della facoltà di giudizio), ma soprattutto raccoglie l'eredità di una grande tradizione spirituale che viene dalla «logica del cuore» di Blaise Pascal e dall' Ordo Amoris di Agostino d' Ippona per una corretta gerarchia del sistema valoriale. Nella condizione d'incertezza propria degli anni precedenti al primo conflitto mondiale, ristabilire un ordine dei sentimenti (in primo luogo della supremazia dell'amore divino) significa fornire rassicurazione, consolazione e fiduciosa speranza. Così Scheler si affida alla morale cristiana e ne fa il fulcro della sua argomentazione filosofica (soprattutto nel terzo capitolo, il più denso, «La morale cristiana e il risentimento»), passando curiosamente attraverso Friedrich Nietzsche, del quale analizza, talvolta in aperta contraddizione, la Genealogia della morale (1887), con la denuncia della «rivolta degli schiavi» e delle conseguenze etiche. Il risentimento - emozione forte che Scheler usa nella stessa grafia francese di ressentiment impiegata da Nietzsche - è necessario per comprendere il comportamento umano e, malgrado le apparenze, può avere esiti positivi. Nonostante sia un «autoavvelenamento dell' anima», come ogni veleno ( Pharmakon ), comprende il suo rimedio. È il prodotto di un' emozione negativa, di rabbia e frustrazione che non trova sfogo e provoca uno stato di sofferenza, una sensazione di inadeguatezza e di depressione. «L' ambito del risentimento - scrive Scheler - è quindi limitato innanzitutto a coloro che sono perennemente servi e dominati e invano lusingano alla rivolta contro il pungolo di un' autorità». Dal risentimento nasce il desiderio di vendetta, proprio dei deboli, e l' anima offesa coltiva l' odio, il rancore, l' invidia per l' altro. Si tratta sempre di reazioni a posteriori, mediate e meditate, poiché «agli schiavi - per dirla con Nietzsche - è preclusa una reazione vera, quella dell' azione, che possono soddisfare solo grazie a una vendetta immaginaria». Quando il risentimento lascia un senso di impotenza di fronte all' inutilità della reazione, può dare luogo alla rassegnazione, alla rinuncia, all' accettazione, forse accompagnate a una «deviazione dell' attenzione» o persino a una «falsificazione dell' immagine del mondo». Ma anche a una sublimazione del desiderio di vendetta, disposto a lasciare spazio a sentimenti opposti, «salvifici» per il proprio spirito: il valore positivo della povertà, del dolore, del sacrificio, della morte, che si traducono in dispositivi creativi. È quello che, per Nietzsche, è accaduto nel cristianesimo: il rovesciamento dell' ordine morale. Se nella Grecia classica si guardava verso l' alto (i meno nobili aspiravano alla perfezione; i più nobili odiavano l' imperfezione), adesso vige il contrario. Benché rivolgersi verso il debole sia una morale «da schiavi», in questo caso il risentimento si rivela un valore positivo, tanto che «l' idea cristiana dell' amore è il fiore più raffinato del risentimento». In questo capovolgimento dei principi etici, nell' educazione morale volta a privilegiare l' inferiore, sta la perdita del rispetto di sé e della propria integrità individuale. Contrariamente a Nietzsche, Scheler trova in questa sublimazione del risentimento una dimostrazione di forza e una nobiltà d' animo propria dei santi. Da un sentimento negativo può nascere l' amore, quando si accetta con responsabilità la condizione umana. Il risentimento è un' emozione attuale anche nella sua coniugazione odierna: dentro e fuori la rete, è divenuto una costante nei rapporti interpersonali, benché privo di ogni forma di sublimazione. Non tanto perché «gli schiavi hanno infettato i padroni» - come sosteneva Nietzsche - quanto perché la società contemporanea non ha più validi punti di riferimento, ma vive in una sorta di precarizzazione dell' etica che soddisfa il bisogno inesauribile di emozioni sempre nuove.
· La Fiducia.
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 24 ottobre 2020. Poche dimensioni psicologiche sono così vitali, così fruttifere, così indispensabili e allo stesso tempo così complesse e insidiose come fidarsi di un'altra persona. La fiducia è il collante che consolida tutte le relazioni importanti, le migliori amicizie, i grandi amori, i rapporti di lavoro o i legami familiari, e si esercita con le persone nelle quali depositiamo una parte di noi stessi, ed alle quali affidiamo quella più intima, custodita gelosamente nella nostra anima. La fiducia però risiede in forma implicita e irrazionale, anche in gran parte delle attività che svolgiamo in modo automatico ogni giorno, come fidarsi dell'autista del taxi sul quale saliamo, del medico al quale affidiamo la nostra salute o dei funghi potenzialmente velenosi che consumiamo al ristorante, in una sorta di armonico equilibrio essenziale, che compensa le insidie e il caos della vita quotidiana. È anche vero che, in misura maggiore o minore, una certa dose di sfiducia è sempre presente dentro di noi, una caratteristica dell'essere umano che ha un'utilissima funzione protettiva, per non essere colti di sorpresa o almeno per essere pronti a reagire, ed è un dato di fatto che è raro incontrare qualcuno che si fida ciecamente di tutto e tutti, come al contrario qualcuno totalmente sfiduciato. D'altronde noi siamo il frutto di una lunga e lenta evoluzione dei nostri comportamenti, che nei secoli hanno sviluppato nel nostro io la paura e la diffidenza per evitare pericoli, inzeppandolo di una lista infinita di fobie, più o meno evidenti, ma ciò che spaventa di più però, non ha a che fare con situazioni pericolose od animali repellenti, ma con il timore di essere feriti, traditi o umiliati, e da queste paure inafferrabili tentiamo di difenderci ogni giorno, appunto, non fidandoci. Noi umani siamo esseri sociali per natura, siamo fatti per legare con altri individui, spesso per fidarci di loro, poiché, se così non fosse, se percepissimo la nostra realtà attraverso una costante diffidenza, incertezza o paura, cadremmo in una sorta di nevrosi spaventosa, in una serie di disturbi psicologici a causa dei quali non sarebbe possibile svolgere nessuna attività, perché la diffidenza ci "sconnette" dalla vita, ci allontana dalla realtà, e qualunque tradimento o delusione verrebbe interpretato dal nostro cervello come una ferita reale, profonda, dolorosa e duratura.
L'ossitocina. La scienza riconosce che l'ossitocina, l'ormone del benessere, sarebbe in realtà l'autentico collante delle nostre relazioni sociali, ed è la molecola vitale che forma il vincolo della fiducia, che ci fa essere generosi e che interpreta i gesti a noi rivolti come positivi e favorevoli, andando a stimolare una precisa area encefalica, la corteccia prefontale mediale, associata alla ricompensa ed alle emozioni positive. È stato dimostrato infatti come, quando si subisce un tradimento della fiducia, parte di questa attività neurobiologica si alteri completamente, perché le sofferenze emotive stimolano le stesse aree del dolore associate ad una sofferenza fisica. Quello della fiducia è forse il tema più importante quando si parla di relazioni, siano esse amorose, di conoscenza o di amicizia, poiché la fiducia che riusciamo a ricevere od a porre in un rapporto è un ottimo "termometro" della qualità della relazioni stessa. Quando diversi anelli della catena fiduciaria che legano due persone si spezzano uno dopo l'altro, per bugie, menzogne, tradimenti o ipocrisie, diventa difficilissimo recuperare il rapporto rovinato da strappi non più ricucibili. Molto però dipende dal carattere, dalla personalità, dall'istinto, dall'equilibrio psicologico e dalla storia familiare di ciascuna persona, perché coloro che non si fidano mai degli altri galleggiano in un disturbo psicologico costante, sono convinti che tutti siano mentitori, ingannatori, o approfittatori, e che si comportino così per ferire, per trarre godimento dal recare danno, oppure per semplice egoismo ed indifferenza. Le persone sfiduciate covano l'intima convinzione che le relazioni di amicizia o d'amore siano da diffidare, in quanto preludio all'inganno, alla delusione o al tradimento, poiché considerano rari o inesistenti coloro che possono avere intenzioni oneste, essere sinceri e curarsi dei sentimenti altrui.
Equilibrio psicologico. Le persone che non si fidano hanno la tendenza ad essere sempre ipervigili, ad analizzare con un retropensiero ogni comportamento favorevole a loro riferito (per quale motivo lo avrà fatto?) ed alla lunga queste persone vengono ghettizzate socialmente poiché i loro atteggiamenti di sospetto producono solo fastidio negli altri e danni relazionali anche importanti, con rotture di rapporti spesso insanabili. Chi vede potenziali nemici ovunque tende ad auto-isolarsi (io non ho bisogno di nessuno), evitando qualunque tipo di relazione sincera personale, intima o sociale, entrando in uno stato di deprivazione sensoriale che priva appunto il cervello di stimoli (positivi o negativi) del quale è invece sempre affamato, ed in mancanza dei quali, per colmarne l'assenza, esso stesso li crea autonomamente a livello delle sinapsi per essere continuamente eccitato, facendo insorgere fobie, ossessioni, compulsioni e manie di persecuzione. L'isolamento sensoriale spiana la strada alla depressione, allo scadimento delle relazioni, alla solitudine dell'anima, aumentando l'ansia, spesso mascherata e compensata da una iper attività lavorativa, quotidiana ed ossessiva, un inutile e puerile tentativo di colmare il vuoto creato dall'assenza delle gratificazioni fisiche e morali delle connessioni fiduciarie con il prossimo. In realtà la sfiducia non è sempre così estrema, e non è sempre patologica, ma è anche vero che non si può generalizzare, «fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio», perché la fiducia dovrebbe dipendere da caso a caso, in quanto di alcune persone è bene non fidarsi, mentre di altre sarebbe un atto controproducente non farlo. Tutti abbiamo provato in prima persona che sapore hanno le emozioni che emergono da una delusione, e la disgregazioni di quel bene prezioso che pensavamo fosse indistruttibile e duraturo resta a lungo una bruciatura scottante, al punto da sviluppare un auto-risentimento o senso di colpa per essersi fidati. Ma fidarsi è una necessità istintiva del nostro cervello che crea benessere interiore, ed è necessario capire che la fiducia è un atteggiamento verso la vita in generale, non verso alcune persone in concreto, ed è più attiva ed efficace nelle persone positive, quelle consapevoli che vivere comporta quotidianamente certi rischi (quello che oggi sembra sicuro, domani potrà essere incerto). Gli psicologi cognitivi ci dicono che la fiducia è alla base dell'ottimismo, il vero motore del benessere personale, talmente speciale da non sentire il bisogno di sapere tutto dell'altra persona, perché appunto ci si fida in modo consapevole, spesso applicando un filtro basato sull'esperienza ove non regni l'esigenza di un ferreo controllo per riaffermare il vincolo di fiducia. Le persone ottimiste e positive infatti sono sempre le più fiduciose, anche perché sanno che senza la fiducia non si va mai molto lontano, e la coltivano ogni giorno nei propri contesti professionali e relazionali, alimentandola con cura, mentre la sfiducia delle persone pessimiste da secoli distrugge i governi più potenti, le leadership più influenti, le più grandi amicizie, i caratteri più forti e gli amori più profondi. E la maggior parte delle volte sottovalutare i sentimenti, le ragioni e le motivazioni che sono alla base di un rapporto di fiducia significa distruggerlo per sempre, salvo poi, troppo tardi, accorgersi che non ne valeva proprio la pena.
· Gli Amici.
DAGONEWS il 25 settembre 2020. Le persone che riescono a prevedere meglio l’esito di una relazione sono i nostri amici. Più della famiglia sono loro che ci conoscono meglio perché con loro non ci censuriamo: conoscono i nostri difetti, i nostri punti di forza e le nostre vulnerabilità, motivo per cui sono ottimi consiglieri quando scegliamo un partner. Fin qui tutto bene. Il problema è che non tutti i nostri amici hanno a cuore i nostri interessi. Vuoi sapere se un amico sta sabotando la tua relazione d’amore? Leggi questi consigli della sexperta Tracey Cox per rimettere al suo posto un amico che si comporta in modo egoistico.
Vogliono che tu resti solo per godere delle tue attenzioni. Siamo tutti essenzialmente egoisti. Se il tuo migliore amico è single vuole che lo sua anche tu. Anche se è felicemente in coppia, non vuole che una nuova persona nel gruppo vada a rovinare gli equilibri. Si pensa che tutti gli amici e la famiglia vogliano che tu sia felice, ma anche loro vogliono esserlo. Non pensate che un amico “egoista” si mostri apertamente. Lavora in maniera subliminale con battutine verso il nuovo partner sul modo in cui parla, il lavoro, le abitudini. Gli amici onesti ti diranno: «Ehi, spero che tu mi amerai ancora». Altri sanno esattamente perché stanno sabotando la tua relazione e sono troppo dipendenti emotivamente per mettere la tua felicità al di sopra della loro. Come risolvere: se pensi che il tuo amico si senta minacciato, rassicuralo che non lo lascerai solo perché ora hai una relazione.
Flirtano con il tuo partner. Ci sono casi in cui ti trovi nell’imbarazzante situazione di vedere la tua amica che flirta con il ruo partner mettendo in imbarazzo te, ma soprattutto lui. Come risolvere: alcune persone flirtano quasi automaticamente. Faglielo notare dicendo che ti fa sentire a disagio. Un buon amico sarà inorridito, si scuserà e smetterà immediatamente di farlo. L'amico che non ha rimorso è pericoloso.
Sono eccessivamente protettivi. Questo amico ha davvero a cuore i tuoi interessi. Si preoccupano un po' troppo e vedono tutto come una minaccia. Ma possono essere peggio di una madre prepotente: nessuno è mai abbastanza buono per te. Sei così straordinario, potresti trovare qualcuno più ricco/più bello/più intelligente. Controllano qualsiasi cosa che potrebbe finire per farti del male. Come risolvere: vale la pena ascoltare gli amici iperprotettivi se hai l'abitudine di finire in relazioni tossiche. Altrimenti, lascia che dicano quello che vogliono, ringraziali per il loro contributo. Quindi ricorda loro gentilmente che sei un adulto, capace di prendere le tue decisioni e che commettere errori fa parte della vita.
Vogliono quello che hai. Questo è il motivo più comune per cui gli amici sabotano la tua vita amorosa: invidiano alcuni aspetti della tua relazione. Se non possono averlo, non vogliono nemmeno che tu lo abbia. Potrebbero essere i soldi, un partner bello, super gentile, uno stile di vita fantastico, bambini... ci sono molte cose che fanno emergere il mostro verde nelle persone intorno a noi. Come reagisce il tuo amico quando ti succedono cose brutte in generale? Se sembra che traggano piacere dalla tua sfortuna sono invidiosi. Come risolvere: Puoi semplicemente dire: «So di essere fortunato ad avere soldi, una bella casa, un marito. Spero tu sia felice per me. Lo sarei se la situazione fosse ribaltata».
Sono innamorati di te. L'ex con cui sei rimasto amico spera in una seconda possibilità. Quell'amico che conosci dai tempi della scuola che vuole disperatamente che tu veda che siete fatti l'uno per l'altro. Occhio a questi amici perché potrebbero avere dei piani segreti per sabotare la tua relazione. Come risolvere: chiedi agli amici in comune se il tuo istinto ha ragione. A volte, è così palesemente ovvio per tutti gli altri che il tuo amico è stato innamorato di te da sempre e presumono che tu lo sappia. Se pensi che possano provare qualcosa per te, hai due scelte. Continua l'amicizia ma non discutere con loro della tua vita sentimentale. Oppure dì: «Ho notato che non ti piace nessuno con cui esco. C'è una ragione? Voglio che tu sia felice e spero che tu voglia che lo sia anche io». Anche se negano tutto, capteranno il segnale.
Sono cinici. Sono persone che hanno avuto delle batoste in passato e vedono del marcio in tutto mettendoti all’erta costantemente. Come risolvere: ogni volta che fanno una critica o sono cinici, ribaltala sulla loro vita. Dì, gentilmente: «Temo che tu non abbia completamente dimenticato quello che ti è successo. Vuoi parlare di questo?» Se tutto ciò che fanno è lamentarsi della loro vita amorosa fallita, dì: «Sono preoccupato che quello che ti è successo stia ostacolando la tua vita felice. Hai pensato di parlarne con qualcuno in modo da poter andare avanti?».
Credono di sapere tutto. Gli amici che sono così hanno da dire su tutto, non solo sulla tua relazione. Non solo: credono di avere ragione su tutto. Tendono a parlarti sopra e non ti lasciano dire una parola. Finisci per essere intimidito e sottomesso, ammettendo che il tuo partner non sia in linea con te. Come risolvere: Prova gentilmente a dire che apprezzi l'input, che stai bene e sei capace di prendere le tue decisioni da solo.
· V per Vendetta.
Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 21 giugno 2020. La vendetta è un sentimento primordiale esclusivamente umano, radicato nell' animo da un punto di vista biologico, psicologico e culturale, la cui caratteristica è quella di essere istintiva e non razionale, spesso sproporzionata tra il danno subìto e quello arrecato. Quando si subisce un' offesa o un' ingiustizia si provano immediatamente emozioni negative di rabbia, risentimento e disappunto, ed il comportamento più frequentemente messo in atto è quello di vendicarsi per il torto, azione che, contrariamente a quanto si possa pensare, non allevia il dolore provato, perché la vittima resta focalizzata sull' evento negativo accaduto, pensando e ripensando come farla pagare cara al suo trasgressore. Il pensiero vendicativo, a differenza di quello della ritorsione, che invece si distingue per essere una reazione di rivalsa immediata senza ruminazione mentale, ha radici più profonde, ed è tipico delle persone che non riescono ad elaborare l' ostilità che li governa e li caratterizza caratterialmente, ed il soggetto vendicativo nasconde un danno sofferto dal suo Io, che costituisce la base di tutte le altre offese delle quali si lamenta regolarmente. Il desiderio di vendetta, il cui fine conscio è il castigo o la punizione, è finalizzato idealmente alla rimozione del rancore per la perdita subìta, nell' illusione di raggiungere uno stato di soddisfazione che ovviamente non arriverà con il compimento dell' azione ritorsiva, la quale innesca un circuito vizioso ed inconcludente, che non riesce a lenire il dolore, per sua natura non quantificabile. Inoltre, come in altre situazioni e stati d' animo di emozione intensa, la possibilità che una modificazione delle condizioni ambientali porti ad una diminuzione della tensione emotiva è minima, perché il soggetto vendicativo tende a selezionare, per poi scartarli, tutti gli stimoli esterni che contraddicono il suo stato emotivo. Restituire un torto subìto è un impulso istintivo che il nostro sistema psicologico ci suggerisce in modo automatico e totalmente irriflessivo, ma la vendetta non rappresenta mai la soluzione migliore, poiché la tempesta emotiva che essa provoca, alimentando risentimento e rabbia, aumenta e cronicizza livelli di stress che possono mettere in pericolo addirittura la salute fisica. In realtà nella maggioranza dei casi la vendicatività rappresenta un tratto distintivo del temperamento e dell' affettività di alcune persone gravemente problematiche, psicologicamente instabili, caratterizzate da disturbi della personalità, nelle quali la vendetta rappresenta una delle modalità mediante le quali il soggetto cerca, in modo disfunzionale, di ripristinare il proprio equilibrio psicologico già precario, dilatando una realtà interpretata come persecutoria, spesso ingiustificata rispetto al torto subìto o presunto tale. Le personalità narcisistiche per esempio, estremamente vulnerabili sul piano dell' autostima e del valore di sé, percepiscono qualunque atteggiamento che vada a disconfermare la propria presunta grandiosità come una grave offesa, cosa che alimenta intenti punitivi al fine di ripristinare la sensazione della propria superiorità. Le personalità paranoidi invece, purtroppo le più frequenti, sono propense a cogliere intenti malevoli in ogni comportamento altrui, e quanto più un torto subìto viene interpretato dalla vittima come una grave lesione al proprio senso di identità e sicurezza psicologica, tanto più è probabile che la stessa agisca con atteggiamenti vendicativi, ristrutturando cognitivamente l'evento giudicato negativo, distanziandosene emotivamente, ed empatizzandolo con le motivazioni che lo hanno reso possibile. Molte persone sono più propense di altre alla vendetta, e chi ha una struttura nevrotica della personalità, chi ha un nucleo paranoideo con scarso controllo degli impulsi, come coloro che credono che tutto il mondo trami alle loro spalle, hanno una predisposizione innata alla ruminazione di tipo ossessivo, e l'unico balsamo lenitivo è dato dalla programmazione e dalla concretizzazione del pensiero vendicativo, anche a prescindere dai "costi" dell' operazione e dalle sue conseguenze. A vendetta realizzata infatti, dopo un primo momento di soddisfazione, il benessere tende a scemare molto rapidamente, poiché essa non riesce quasi mai ad equiparare i conti, crea delle ferite profonde o lascia detriti ingombranti in una spirale inarrestabile che non arriva mai a riparare il danno sofferto. Il percorso mentale capace di far tacere il risentimento, la rabbia, il desiderio punitivo della persona che ha perpetrato la presunta offesa riguarda un complesso processo di elaborazione distintivo delle personalità mentalmente sane, ovvero esenti da depressione, ansie, ideazioni paranoidi, psicoticismo, senso di inferiorità o di inadeguatezza, le quali non elaborano quasi mai processi di vendetta, poiché non soffrono di ostilità liberamente fluttuante o pervasiva, quella che si attiva invece nelle personalità disturbate, che non attuano modalità adattative nemmeno in reazione a stimoli banali, poiché si sentono moralmente lese parallelamente alla loro sensazione di infelicità. Il circolo vizioso della ruminazione ossessiva e rabbiosa impedisce l' accettazione della propria vulnerabilità, la consapevolezza di essere imperfetti e che nella vita si possono commettere errori, ed i soggetti vendicativi, dalla scienza considerati sempre patologici, sono privi di autocritica, della capacità di perdonare, hanno frequenti disturbi dell' umore e della qualità del sonno, che incolpano di incidere negativamente sul loro comportamento diurno, di socialità e valutazione cognitiva con le persone con le quali si relazionano. Le persone vendicative sono personalità perfezioniste prive della capacità di accettare le proprie imperfezioni, e presentano sovente forme maladattive profonde (autovalutazione di sé negativa) mentre amano apparire esteriormente come scrupolose e coscienziose, motivate a raggiungere successi ai quali aspirano autonomamente, vantandosi di essere prive di sostegno da parte di altre persone, cosa che in realtà avviene regolarmente a causa della loro alienazione sociale che emerge dal loro disadattato comportamento emotivo, cognitivo e relazionale. L'intento della vendetta è quello di far provare la stessa sensazione a colui o colei che ha provocato la sofferenza, per ripagare con la stessa moneta, e far capire di non volere più alcun rapporto con la persona colpevole alla quale si attribuisce l' intenzionalitá del male, soprattutto se quella persona è stata positiva nella loro vita, cosa che acuisce ulteriormente la sofferenza psicologica che non verrà affatto ripagata. Infatti la vendetta si attua verso le persone alle quali si è tenuto, che si sono amate, apprezzate o ammirate, e dalle quali si ritiene aver subìto un' offesa ingiusta ed insopportabile, e dalle quali non si riesce a prendere le distanze emotive necessarie, perché in qualche modo si è dipendenti o si dipende ancora da loro. Mentre il sentimento di rabbia può contenere potenziali positivi e correttivi, la vendicatività é totalmente e inutilmente distruttiva, è un' avversione anche contro se stessi che elimina i confini del pensiero razionale, facilitando l' insorgenza di condizioni emotive patologiche incontrollabili, che nascondono profondi traumi narcisistici. E soprattutto il soggetto vendicativo non "rinuncia" veramente alla persona che vuole castigare, poiché effettuando la punizione continua a tenersi psicologicamente "aggrappata" ad essa, senza elaborare l' ostilità che protende a portarsi dentro, logorando il proprio stato psico-fisico, che nasconde un passato sofferto del proprio Io. La vendetta dunque non aiuta a star meglio, non porta ad un effettivo risarcimento del torto subìto e non cancella il dolore provato nell' ingiustizia, per cui non raggiunge l' agognato sollievo, ma rischia, essendo nata da un' esperienza di fallimento, di far precipitare il soggetto vendicativo in un conflitto emotivo e sentimentale, in uno stato di forte malumore preda di passioni negative, la cui aggressività, prima rivolta verso la persona da castigare, può trasformarsi in una reale azione punitiva verso se stessi.
· Il perdono.
Melania Rizzoli per "Libero Quotidiano" il 4 luglio 2020. Definire il perdono non è semplice, perché si tratta di un complesso fenomeno affettivo, cognitivo e comportamentale nel quale le emozioni negative e il giudizio verso il colpevole vengono volutamente ridotti, ed è un processo nel quale la vittima sceglie volontariamente di ampliare il senso di comprensione e di porsi in una posizione diversa od opposta rispetto a quella istintiva vendicativa. Molto spesso alcuni atteggiamenti vengono percepiti come affronti od atti di disprezzo quando in realtà si tratta di un semplice disaccordo o malinteso, ma non tutte le persone sono disposte a perdonare, ritenendo ciò un atto di debolezza anziché di forza e di coraggio, per cui restano avviluppate in uno stato emotivo tossico e intrappolate in un concentrato di infelicità e stress cronico. Il perdono può essere definito "emotivo" quando si attiva una trasformazione delle emozioni negative, quali ostilità e rabbia, in positive quali compassione o empatia, con un calo della motivazione di rivalsa, ma assume anche un aspetto "decisionale" che coinvolge quello cognitivo, quando il soggetto violato decide di controllare i propri comportamenti impulsivi e deviarli rispetto a quelli motivazionali interpersonali che in un primo momento vorrebbe mettere in atto per vendicarsi. La capacità di perdonare però non è un sentimento comune, e soprattutto non si mantiene stabile negli anni, perché in ognuno di noi cambia nel corso della vita e si diversifica a seconda del momento vissuto. Per alcuni, per esempio, è possibile perdonare solo dopo aver ottenuto vendetta, ovvero dopo una restituzione del torto subìto, per altri invece esso avviene quando insistono regole morali, religiose o sociali che creano pressione psicologica e condizionano il soggetto nel modo di reagire ad un'ingiustizia, senza dimenticare coloro che perdonano a prescindere, per esprimere o sottolineare il proprio amore incondizionato. La capacità di perdonare non significa dimenticare il torto o minimizzare l'esperienza, e non si riferisce solo a quel comportamento di compassione o benevolenza riservato al trasgressore, ma riguarda anche l'atteggiamento che una persona può avere verso se stessa, qualora sia la responsabile di un'azione dannosa verso altri e necessiti di liberarsi di un peso morale.
FONTE DI TRASGRESSIONE. Bisogna infatti distinguere il perdono in relazione alla fonte di trasgressione, perché se è vero che si può essere vittima di un torto, è anche vero che si può essere responsabili di aver contribuito a provocarlo più o meno intenzionalmente, e quando ci si sente colpevoli del proprio vissuto il perdono deve essere rivolto soprattutto verso se stessi. Succede spesso di arrecare dolore ad altri in modo non intenzionale ed avvertire poi sensi di colpa, vergogna, rammarico od imbarazzo per l'ostilità provocata, e secondo alcuni studi queste due forme di perdono sarebbero strettamente connesse in quanto l'incapacità di perdonare gli altri sarebbe legata ad una effettiva incapacità di perdonare se stessi. A prescindere dalla fonte del perdono comunque, diversi studi scientifici hanno messo in evidenza i suoi effetti sulla salute sia fisica che mentale, e l'interesse della psicologia per il perdono é aumentata negli anni, parallelamente all'evidenza di una stretta relazione tra perdono e benessere psicologico. Saper perdonare infatti, riducendo la spirale di emozioni negative che intervengono quando si subisce un torto, significa ridurre la ruminazione, il rancore, la rabbia e tutte quelle emozioni deleterie che non aiutano a superare l'evento negativo, ma al contrario contribuiscono a peggiorare la propria salute psico-fisica. Ovviamene non tutti sono disposti a perdonare, perché la clemenza può avvenire solo dopo che vi sia stato un processo mentale capace di far tacere il risentimento, la rabbia e il desiderio di punizione della persona che ha perpetrato l'offesa. Chi é capace di perdonare, chi elabora in modo non negativo un torto subìto, per la psichiatria è associato a minori livelli di depressione e di ansia, di ideazione paranoidi, di psicoticismo o di senso di inferiorità ed inadeguatezza. Chi non riesce a perdonare ed a superare il dolore connesso infatti, in realtà non vuole evitare la ruminazione ossessiva dell'evento accaduto, una strategia questa di fronteggiamento dello stress maladattivo con cui convive, che si associa sempre alla incapacità di perdonare se stessi, si accompagna ad una tendenza depressiva, ad una alienazione sociale o peggio ad una costruzione fittizia di un super-io sproporzionato alle effettive capacità psicologiche, sociali e culturali, con una ipervalutazione di se stessi ed un perfezionismo che in realtà celano gravi carenze dell'accettazione di sè e l'incapacità ad autoperdonarsi o considerarsi imperfetti.
LO DICE LA SCIENZA. Inoltre l'incapacità di clemenza oltre a mostrare danni sul benessere psicologico ha effetti negativi anche su quello fisico, poiché é dimostrato scientificamente che le emozioni negative quale rabbia, ostilità e risentimento influiscono gravemente sulla salute, aumentando la pressione sanguigna e di conseguenza l'incidenza di disturbi cardio-vascolari, quali ipertensione e malattie coronariche, patologie riscontrate con evidenza nelle persone accumunate da un aspetto caratteriale caratterizzato da ostilità liberamente fluttuante e duratura. L'incapacità di perdonare comporta anche un cambiamento nella qualità del sonno, poiché la ruminazione ossessiva, manifesta o repressa, compromette lo stato di salute generale, diurno e soprattutto notturno, il quale può favorire uno stato depressivo profondo, in conseguenza dei sentimenti di perdita e di tristezza provati e non superati. E se da un lato cercare di empatizzare ed essere benevoli non è sempre facile in determinate situazioni per superare l'ingiustizia e interrompere il circolo vizioso del rancore, dall'altro non è altrettanto facile cambiare prospettiva, guardare la situazione con distacco, accettare di essere imperfetti, e riconoscere che nella vita si possono commettere errori. Nessuno può provocare in noi sofferenza senza il nostro consenso, e visto che non si può tornare indietro quando un fatto è già accaduto, é sempre meglio accettare la propria vulnerabilità, togliere spazio al risentimento ed usare clemenza, per acquisire la capacità di perdonare anche se stessi. Ps: Clementia, nella mitologia romana, era la dea del perdono e della misericordia.
· C’era una volta la vergogna.
Dalla parte di Pinocchio. Giulia Carcasi il 12 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. È più riprovevole essere deficienti o approfittarsi dei deficienti? Chi si lascia rovinare o chi conduce alla rovina? Chi ha un vizio o chi, per il proprio tornaconto, stimola e alimenta il vizio nell’altro? Troppo spesso quasi ci si congratula con il sopruso, minimizzandone la gravità. “Se uno è fesso…” autorizza il lesto a fregarlo. Per ogni burattino ci sono un Gatto e una Volpe che si sfregano le zampe. Come può Pinocchio dare a quei due lestofanti tutti i suoi zecchini per sotterrarli, nell’illusione che cresca un albero carico d’oro? Come si possono passare intere giornate davanti a una slot machine? Come si può pensare di risolvere i problemi drogandosi? Come ci si può far plagiare da sedicenti maghi o terapeuti e arrivare a indebitarsi per seguirne i consigli? Chi è raggirato è un “fallito”, chi invece si arricchisce a danno degli altri “è stato abilissimo”. L’incapacità è più vergognosa della mancanza di coscienza? Una preda facile è da discriminare più del carnefice? Per assurdo, chi gestisce la perdizione degli altri si sente migliore delle proprie vittime. Si definisce “imprenditore” chi propina slot machine; si definisce “un buon padre di famiglia” chi, attraverso il malaffare, permette ai propri figli di condurre una vita sana e agiata, mentre devasta i figli degli altri. “Se uno è tanto scemo da cascarci…” è la frase che lava via ogni scrupolo e cerca di giustificare ciò che giusto non è. Ci dimentichiamo che, con tutte le sue debolezze da burattino, Pinocchio ha comunque in sé il seme dell’umanità che gli permetterà di diventare un bambino in carne e ossa, mentre il Gatto e la Volpe animali nascono e animali restano.
C’era una volta la vergogna. Maria Pia Ammirati il 5 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. C’era una volta la vergogna, sentimento diverso dal pudore che di per sé prevede una mediazione culturale. La vergogna no, è ancestrale. Tant’è che imporpora le guance anche quando non vorresti, la vergogna è schietta come reazione immediata a qualcosa che ha effetti pubblici, riverberi sociali. Nonostante questo, ci si può vergognare anche in privato ripensando a qualcosa che ci ha messo in difficoltà davanti ad altri, o di fronte a un’azione tanto più grande di noi. La nostra è un’epoca senza vergogna e quello che una volta era oggetto di tale sentimento oggi non ha più senso. Vediamo per esempio come, nonostante la mascherina ci tolga parte della nostra anima e personalità, il resto del corpo lo esibiamo con spavalderia, basta fare un giro sulle spiagge. O anche un giro sulla tv dove non esistono limiti alla promozione di pannolini, assorbenti e lubrificanti. Cose che fatichi anche a chiedere, a tono basso, al banco del farmacista e che la pubblicità invece si diverte a far diventare un gioco di società. In tempi non così lontani il senso del privato, del corpo, persino dei pensieri era sacro e quella sacralità dettava anche i termini del buon gusto e dell’educazione. Insomma funzionavano bene i limiti che ognuno sapeva imporsi, limiti della libertà di azione ed espressione che si taravano sul rispetto dell’altro. E la vergogna era un calmiere di velleità e spavalderie, mia madre non avrebbe mai mangiato al ristorante in costume e mio padre avrebbe preteso di indossare camicia e pantaloni, ma il tempo passa e bisogna accettare che i costumi cambino, che il topless sia sdoganato, che i tatuaggi non siano solo per ex galeotti, che dire “ciclo mestruale “ in pubblico non faccia più gridare allo scandalo. Ma il senso della vergogna è anche tema vasto che vela e copre questioni più delicate di un tanga brasiliano. Prendiamo il caso della torta di compleanno per un bambino fatta preparare con pistole e proiettili, pistola di cioccolato sì, ma ordinata da una famiglia non in odore di santità. Quella stessa che, in altri tempi, avrebbe trovato nella vergogna la giusta copertura.
· Etica dell’onore.
Etica dell’onore. Luigi Iannone il 17 maggio 2020 su Il Giornale. Bisogna concedere parecchio all’immaginario per definire in maniera precisa che cosa sia e/o rappresenti, il termine "onore". Quella sorta di provvisoria etica di frontiera, quel relativismo contemporaneo che ha addomesticato le menti e che contraddistingue la nostra epoca, garantisce un cambiamento radicale di valori che hanno perso o tendono a modificare del tutto il loro significato originario. E, così, ci sono parole come queste che ci spiazzano tanto da sembrare addirittura nuove, assumendo i tratti dei più sofisticati neologismi. Ma il terrorismo verbale, fenomeno irrefrenabile che si nutre di dosi esponenziali di mieloso buonismo, questa volta non è l’unico responsabile della cacciata del termine dai nostri orizzonti culturali e civili perché è la complessiva dimensione della modernità che, nel farci condividere una serie di pseudo-valori e nel farci accettare formati culturali unificanti, deprime e annulla sia l’individuo che il senso della comunità. E l’onore, bisogna ricordarlo, è legato sia all’individuo che alla comunità in una sorta di interdipendenza che, però, almeno in passato lo connotava e lo qualificava in maniera positiva. Al contrario, se tutto è diluito nel globale non vale la pena di sacrificarsi. Oggi siamo di fronte a meccanismi impersonali che ci fanno perdere la consapevolezza del reale significato delle parole, cosicché ci sembra più utile rincorrere obiettivi immediati e concreti: «Nel formicaio – scriveva Jean Cau – nessuno ha un onore. Vi sono soltanto delle regole funzionali. Delle leggi. Quanto meno la morale è affare di ciascuno, tanto più si moltiplicano le leggi. Direi che il numero delle leggi è inversamente proporzionale al senso dell’onore di coloro che le subiscono. E la pace uccide l’onore, il quale come tutte le virtù muore se ogni tanto non viene posto al cimento supremo. Sì, ogni virtù ha bisogno, spasmodicamente di venire esaltata». Certo nel definire questo termine c’è il rischio che si possa da una parte scadere nella retorica e dall’altra assistere inermi all’ennesimo "complesso di minorità" rispetto alle sensibilità attuali e alla capacità soggettiva di ogni persona di interpretarlo correttamente, ma resta il fatto che esso, se ben inteso, può rappresentare anche una particolare dimensione della libertà. Per definirlo, bisogna innanzitutto sgombrare il campo da ogni ipotesi di collegamento con stili e contenuti del nostro tempo sempre più caratterizzato dalle nuove forme del pensiero debole anche perché, come ci ricorda Veneziani, «il senso dell’onore è il blasone dell’etica comunitaria». E noi, che viviamo in un’epoca dove non prevalgono né forme, né contenuti di un’etica comunitaria, dobbiamo essere eccessivamente ottimistici per rintracciarne i segni. E poi la convinzione che tutti gli uomini abbiano nascosto, in un angolo della loro anima, questo senso dell’onore da tirar fuori all’occorrenza, quello «stimulo ardente» come lo definiva Guicciardini, è una pretesa oltre che una convinzione azzardata. L’onore indica il codice morale di un individuo e di un gruppo e deve essere maneggiato con cura. Un utilizzo sbagliato può fargli assumere una vocazione che non gli si addice. Non è un sentimento e non va affrontato in maniera contraddittoria, nonostante su di esso permangono interpretazioni fluide come i suoi sinonimi moderni, “salvarsi la faccia” o “pretendere rispetto”, che tendono a farne oscillare continuamente il significato. L’onore era uno dei principi ispiratori delle società tradizionali e intercettava vari livelli e classi sociali. Si costruiva grazie a una cultura di riferimento, all’ambiente sociale, alla storia e alla geografia. Nel senso che su di esso hanno influito i luoghi e il periodo storico. E questo non è certamente il suo tempo. Una parola, dunque, essenzialmente legata alle società tradizionali, dove forte era il senso comunitario e che, pur tra tante declinazioni, riusciva a mantenere un profilo chiaro. Oggi di quel codice d’onore, che era poi il codice morale dei nostri cavalieri feudali, restano solo dei cascami. Certamente, il ritorno a queste tradizioni nelle forme che i nostri sistemi hanno assunto sarebbe impensabile, oltre che improponibile, e il fatto che si è definitivamente voltata pagina lo aveva compreso già Edmund Burke quando nelle sue Riflessioni ammoniva che al tempo dell’antica cavalleria sarebbe seguito quello dei sofisti, degli economisti e dei calcolatori. Ma sul fatto che l’onore desse un significato trascendente alla vita lo avevano confermato, seppur implicitamente, anche Marx ed Engels che avevano così spiegato la forza e la longevità di questi archetipi: «[…] durante il tempo in cui l’aristocrazia era dominante, i concetti di onore, fedeltà, eccetera erano dominanti, durante la dominazione della borghesia lo erano i concetti di libertà, equità, eccetera». La sfida che però si presenta è quella della multiformità dei significati e degli utilizzi attuali di questo concetto e, certo, non possiamo rimettere in gioco statiche inquadrature interpretative, visto che non sono mancati nel corso dei secoli punti di vista diversificati. Nell’Etica nicomachea, Aristotele scrive che l’onore è il premio della virtù; Erasmo da Rotterdam («l’onore alimenta la virtù») e Tommaso d’Aquino («l’onore è il premio di qualsiasi virtù») lo legavano alla buona reputazione, quella che, per esempio, acquisivano in battaglia i cavalieri medievali. Così come è stato anche legato al risentimento più pratico per un torto subito o per un affronto, come ci ricorda Machiavelli nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio: «[…] la roba e l’onore sono quelle due cose che offendono più gli uomini che alcuna altra offesa, e delle quali il principe si debbe guardare: perché è non può mai spogliare uno, tanto, che non gli rimanga uno coltello da vendicarsi: non può mai tanto disonorare uno, che non gli resti uno animo ostinato alla vendetta». Tuttavia, nei tempi moderni è la perdita di un senso etico condiviso ad aver provocato un processo di dissoluzione e di corruzione del termine e ad averlo portato su traiettorie meno omogeneamente in linea con quanto descritto finora: il campo si è ristretto dall’onore mafioso al cursus honorum (anche se «il titolo di studio – dirà Marcel de Corte – non tiene conto dei fattori esistenziali alla vita, carattere, volontà, onore, dovere, senso morale e estetico. Il titolo di studio giudica soltanto dell’intelligenza formale e rimane tutt’altra cosa dall’uomo nella sua interezza»). Il nostro immaginario si limita a poche declinazioni e anche «in politica – scrive Veneziani – è rimasta solo la grottesca eredità di un aggettivo tramutato in sostantivo: l’onorevole. Una forma di pomposo ossequio fuori posto e fuori tempo. Nel linguaggio corrente dell’onore sono rimasti in giro due sgradevoli succedanei: l’onorario, eufemismo sussiegoso per un compenso che si preferisce chiamare in modo ipocrita; e le onoranze, che evocano le s pese funerarie». Ma in passato l’onore non era mai scaduto in queste diverse forme di riduzionismo, mentre era sempre stato in relazione a un’etica che fondeva individuale e collettivo. D’Annunzio ha coltivato l’onore della Patria e lo ha fatto in stretta relazione al suo senso estetico che apparteneva alla sua sfera soggettiva. E a Fiume, con qualche migliaio di legionari che ne condividevano i furori ideali, lo sperimentò. Così come accadde per il nazionalismo o per la Resistenza, che pur in tutte le loro variegate sfumature si sono sempre abbeverati alla fonte dell’onore. Certo, anche in questo caso, a fronte di problemi e situazioni nuove, la reale comprensione del termine e della sua ‘applicazione’ si gioca sul filo del rasoio, in un rimando di interpretazioni e re-interpretazioni con tutte le conseguenze che ne possono derivare: «Patria, sacra; sangue versato per essa, santo – scrive Federico Chabod –. Ed ecco che da allora, effettivamente, voi sentite parlare di martiri per l’indipendenza, la libertà, l’unità della patria: i martiri del Risorgimento in genere, e in ispecie i martiri dello Spielberg, di Belfiore, eccetera. Gran mutare del senso delle parole! Per diciotto secoli, il termine di martire era stato riservato a coloro che versavano il proprio sangue per difendere la propria fede religiosa; martire era chi cadeva col nome di Cristo sulle labbra». E proprio il pessimo uso fatto dalla storiografia moderna delle macerie belliche dell’ultimo secolo ne ha inficiato il valore e il reale significato. Ciò favoriva anche la nascita del senso di appartenenza a un gruppo politico dove si fortificheranno un nuovo senso dell’onore, della dignità, del sacrificio. Ma andando indietro nel tempo potrebbe essere un’interessante operazione intellettuale giungere a una comprensione più profonda del fenomeno controrivoluzionario e poi reazionario, attraverso solo la nota distintiva dell’onore da salvare. Il pensiero cosiddetto reazionario, che non ha mai avuto diritto di cittadinanza nella nostra cultura, annovera intellettuali come Giacinto de’ Sivo che accettano il rischio dell’incomprensione e della galera per salvare l’onore personale e collettivo. Con simile ottica si muove Spengler che elogia la sentinella di Pompei, che per non essere stato sciolto dalla consegna resta al suo posto ad attendere la fine. Gianfranco De Turris, nel suo Manualetto di autodifesa per il 2000 e oltre, mostrava tutta la sua attenzione verso una auspicabile «severa disciplina» che potesse far ritrovare «nella propria coscienza e nella propria cultura il seme dei valori perenni, allo scopo di recuperare la Tradizione in modo rivoluzionario ed innovativo». Onorare la tradizione diventa, dunque, un fatto rivoluzionario, socialmente è l’unica trasgressione possibile. Siamo, tuttavia, spiritualmente fiaccati dalla modernità e perciò sacrificare qualcosa per dei principi diventa pratica complicatissima. L’onore è scaduto, si è laicizzato ed è stato relegato in un angolo, al pari di ogni altra sensazione o sentimento esclusivamente personale; slegato dalla cultura, dagli ideali e, quindi, da una prospettiva comunitaria che lo poteva qualificare positivamente. Brano tratto da Manifesto antimoderno (Rubbettino editore, pp.80-87)
· La Cultura di Destra.
Maurizio Cecchetti per “Avvenire” l'1 gennaio 2020. I nazisti pensavano, e pensavano anche in termini estetici affidandosi spesso ad artisti capaci. È un vecchio e logoro luogo comune della sinistra antifascista sostenere che la cultura di destra non è mai esistita, tanto più se si parla di nazismo e fascismo, che sarebbero incapaci di produrre idee e pensieri degni di essere considerati cultura (magari kitsch). Lo stesso, caso mai, si potrebbe sostenere per il sovietismo e lo stalinismo, ma si tratta appunto di stereotipi funzionali alle diverse ideologie. Arte e potere: è una coppia consenziente ma dialettica che incarna una delle linee portanti del Novecento (a inaugurare l'epoca, però, fu David con le sue scenografie per la rivoluzione francese). Oggi sappiamo - per esempio riguardo all' Italia sotto il fascismo -, che la cultura, anche al soldo del regime, produsse anche cose pregevoli e questa "contraddizione" è stata ampiamente studiata negli ultimi quarant' anni, superando le censure ideologiche. Dalla mostra sugli Anni Trenta tenutasi a Milano nel 1982 fino a quella allestita da Germano Celant alla Fondazione Prada nel 2018 ( Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943) è assodato che il nostro Paese fu in Europa quello di punta per l' arte tra le due guerre. Che il nazismo pensasse l' aveva presto capito Alfred H Barr, il fondatore del MoMA, quando nel 1933 udì il Ministro del Reich per la Propaganda e l' Informazione del Popolo, Goebbels, che invitava i cineasti tedeschi a prendere lezioni dal cinema italiano fascista e da quello sovietico (fece l' elogio delle qualità propagandistiche della Corazzata Potëmkin). A questo mirava la cultura nazista: a produrre opere di propaganda: «Non vogliamo - spiegò Goebbels - in alcun modo porre fine all' industria del divertimento, legata al bisogno quotidiano di rimediare ai momenti di preoccupazione e noia. Nessuno è obbligato a pensare soltanto ad argomenti molto seri da mattino a sera. L' arte è libera e deve restarlo almeno finché sia conforme a determinate norme». Togliete dalla memoria il fantasma del nazismo e potrebbe sembrare il discorso di un ministro di qualche democrazia occidentale a sostegno dell' entertainment e tuttavia attento alle questioni della sicurezza. La storia si ripete? Quasi mai, ma a volte insegna. Queste considerazioni e altre di Barr sono raccolte in un volumetto uscito lo scorso anno - Degenerata! I nazisti all' assalto dell' arte moderna - che può servire a comprendere il punto decisivo della questione: tutti i regimi hanno usato la cultura per arrivare alle masse, e l' hanno adattata ai propri pensieri e fini. Meritoria dunque è l' iniziativa di un museo olandese - il Design Museum Den Bosch di Hertogenbosch - che fino al 1° marzo presenta una rassegna che studia il Design del Terzo Reich, mostra premiata dal pubblico che ha ormai superato le ottantamila presenze. Sono esposti materiali di design grafico, come manifesti, volantini, emblemi, assieme a filmati, oggetti d' arredo, radio, libri, fotografie. All' ingresso della mostra c' è l' immancabile Maggiolino, che la Volkswagen ha continuato a produrre per decenni anche dopo la guerra (bello ma scomodo come un' automobile nata dall' esperienza dell' esercito e dei mezzi militari anfibi). Grandi fotografie delle parate naziste, altre che celebrano il dirigibile Hindenburg prima della tragedia del 6 maggio 1937 quando esplose e portò alla morte 35 delle 97 persone a bordo (tre anni dopo i cantieri degli Zeppelin vennero smantellati). Sono in mostra anche poster dei primissimi anni Trenta come quello di Ludwig Hohlwein, stampato a Monaco verso il 1934, che invitava a fare sacrifici Nicht spenden, opfern, con uno stile grafico che trattiene qualcosa delle forme d' avanguardia sperimentate al Bauhaus ma an- che di certa cartellonistica italiana; sempre di Hohlwein - che predilige tre colori: bianco rosso e nero - un manifesto con una figura virile, simbolo ariano, e invita a fare la carità alla Winterhilfswerk, un ente di assistenza nazista che veniva in soccorso della popolazione durante i mesi invernali. Analogamente il poster per le Olimpiadi di Berlino del 1936, disegnato da Franz Würbel, mostra la quadriga della porta di Brandeburgo a Berlino e sullo sfondo l' immagine solare di un atleta ariano doc. Lo stesso Würbel aveva disegnato manifesti che idolatravano la purezza della razza, mostrando magari una ridente famiglia tedesca, padre madre e quattro figli, con lo slogan « Gesunde Eltern, Gesunde Kinder! » (Genitori sani, bambini sani!). Come osserva lo storico Klaus Wolbert, autore di studi sull' arte del periodo nazionalsocialista, in una corposa monografia dedicata alla Scultura programmatica nel Terzo Reich (Allemandi, pagine 408, euro 150) l' eugenetica fu il fondamento pratico del nazismo: «La classificazione dei corpi secondo criteri razzisti, eugenetici ed estetici furono costitutivi sia dei programmo che del mantenimento del sistema politico del nazionalsocialismo». Il canone antropometrico nazista non era meno spietato delle soluzioni adottate per cancellare dalla faccia della terra l'entartete Menschlichkeit, l'umanità cenciosa e degenerata, metodo la cui estetica si rivelò nella mostra di Monaco del 1937 dove si stabiliva, a contrario, il canone nazista radunando tutto ciò che di corrotto e brutto c' era nelle forme dell' arte moderna. La pulizia etnica, prima ancora che nei paesi conquistati e nella soluzione finale per ebrei, malati, zingari, omosessuali e quelle categorie umane che inquinavano il modello ariano, fu sistematica ancor prima nel proprio paese (si ricordi però che l' eugenetica come strumento clinico precede il nazismo, i primi a praticarlo sui disabili gravi furono gli americani negli anni Venti, e lo stesso Salvador Allende, nella tesi di laurea in medicina discussa nell'anno fatale, il 1933, dedica all' eugenetica per i disabili considerazioni che possono sconcertare). Senza voler sminuire l'orrore prodotto dall' operato nazista, si deve essere coscienti di come all' epoca questi pensieri aleggiassero nelle mente di tanti. Wolbert passa in rassegna i diversi esempi di scultura monumentale che enfatizzano il corpo umano: a differenza degli italiani, i tedeschi guardano alla Grecia (il mito panellenico era caro ai nazisti assieme, ed è curioso, a quello dei Nibelunghi). Le figure femminili rappresentate sono spesso giunoniche, corpi votati alla riproduzione della specie (ben altra è la femminilità che incarna un eros al tempo stesso platonico e moderno nelle foto "olimpiche" di Leni Riefensthal). È la donna vista da scultori come Georg Kolbe, Anton Hiller, Adolf Wamper, e dal più noto artista del nazismo, Arno Breker, il campione dell' arianesimo eroico. Il maschio nazista è un idolo scolpito che più dei nudi virili greci marca le diverse componenti anatomiche, talvolta rendendole dure come corazze, vedi i Camerati di Jusef Thorak. Ovviamente l' eroismo ha simboli propriamente tedeschi: il monumento al Genio della vittoria di Adolf Wamper, presenta una figura virile che eleva la spada verso il cielo, mentre ai suoi piedi c' è l' aquila. Ormai l' immaginario classico rielaborato e ricaricato diventa il linguaggio dello Stato nazista. Arno Breker rielabola lo spirito di sacrificio e sofferenza del Laocoonte in un altorilievo, Cameratismo , pensato per un Arco di Trionfo, nel quale eroicità muscolare e retorica del sacrificio per la patria aspirano a emulare la grande arte tragica del passato. L' importanza dello studio di Wolbert risiede soprattutto nell' analisi del "dopo", cioè di quella fase post bellica e lungo la seconda metà del Novecento, dove l'"ideale classico" manipolato dal nazismo ha dovuto essere liberato dalle distorsioni simboliche e "denazificato" (qualcosa del genere era successo negli anni Cinquanta in Italia con le opere d' arte dove comparivano simboli fascisti, come l' affresco di Sironi sull' Italia delle arti e delle scienze nell' aula magna del rettorato della Sapienza, restaurato da poco e riportato allo stato iniziale, coi simboli fascisti scoperti. Si può cancellare la storia con una mano di vernice? No, la storia ha il difetto di essere già accaduta. E a questo non si rimedia con la censura.
· Le Figure Retoriche.
Vi ha detto «ti amo da morire» e gli avete creduto? Forse è meglio se ripassate le figure retoriche. Che differenza c’è fra essere un coniglio e essere astuti come una volpe? Fra un collo di bottiglia, le gambe del tavolo e gli affari di cuore? Ecco un piccolo campionario tratto dal libro «Parlare per immagini» di Andrea Tarabbia (Zanichelli). Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 da Orsola Riva su Corriere.it.
Metafora. Paese che vai, metafore che trovi. Sapete come dicono gli inglesi «Non fare il coniglio?». «Don’t be a chicken». Idem i francesi: «Ne fais pas la poule mouillée», letteralmente la gallina bagnata. Buffo no? In italiano se io dico che uno è un pollo non intendo affatto dargli del fifone ma dell’ingenuo, dello sciocco credulone. Se però fosse una donna le darei semmai dell’oca. E così via. Queste metafore tratte dal mondo animale sono solo alcuni esempi dell’infinita varietà di immagini (o tropi) di cui è infarcita la nostra lingua e che spesso usiamo senza neppure rendercene conto. Ecco allora per chi volesse fare un ripasso a volo d’uccello (!) delle principali figure retoriche della nostra lingua, un campionario tratto da un agile manualetto della Zanichelli intitolato «Parlare per immagini». L’autore, Andrea Tarabbia, ha vinto il premio Campiello 2019 con il romanzo «Madrigale senza suono».
Similitudine. Che differenza c’è fra una metafora e una similitudine? «Qualcuno sostiene che la metafora sia una similitudine a cui abbiamo tolto il “come”», scrive Tarabbia. Perciò: «Sei astuto come una volpe» è una similitudine, «sei una volpe» è una metafora. In inglese si può dire sia «sly as a fox» che «smart as a whip» (intelligente come una frusta) o «sharp as a tack» (appuntito come un chiodo).
Catecresi. Cos’è una catacresi (con l’accento sulla e)? «Nella catacresi - spiega Tarabbia - va in scena uno dei due possibili sensi attraverso cui i tropi si mostrano: il senso estensivo» (l’altro è quello figurato). Qualche esempio? La gambe del tavolo, i piedi di un albero, il collo di bottiglia.
Metonimia. La metonimia (con l’accento sulla i) «è una figura che designa, per esempio, la causa per l’effetto, il contenente per il contenuto (“Stendere la lavatrice”), l’autore per l’opera (“Leggere Leopardi”) e così via. Quindi quando parliamo di «affari di cuore» usiamo una metonimia, perché - come spiega Tarabbia - «anche se sappiamo che non è vero, siamo ormai tutti convinti che il cuore contenga il sentimento dell’amore».
Sineddoche. La sineddoche è una «parente stretta » (!) della metonimia: «designa la parte per il tutto, il singolare per il plurale, il genere per la specie e via dicendo» (Tarabbia). Esempi? «Il lavoratore» per dire «tutti i lavoratori» o «il rettile» per dire una specie particolare di serpente.
Antifrasi. Sapete cos’è l’antifrasi? E’, letteralmente, un parlare al contrario: dire una cosa intendendo l’esatto opposto. O, come dice più incisivamente Tarabbia, «l’antifrasi è, per così dire, un’ironia aggressiva». Un esempio? Due amiche in un negozio: una delle due si prova una camicia che le sta malissimo e l’altra, con uno sguardo che non lascia dubbi su come la pensi veramente, le dice: «Ti sta proprio una meraviglia!». L’amica afferra la sfumatura ironica si toglie la camicia e la restituisce alla commessa.
Litote. Un’altra parente dell’ironia, «la litote nega il contrario di quello che vuole dire». Intervistato sul tonfo dei laburisti britannici alle ultime elezioni, lo scrittore satirico Alan Bennett ha commentato così: «Jeremy Corbyn (leader del partito, ndr) è una persona perbene ma certamente non è uno degli uomini più intelligenti di Inghilterra». Si può anche usarla al contrario: dire di un tale che non è stupido intendendo che è molto intelligente.
Perifrasi. Ovvero: l’arte di girarci attorno, come quando scriviamo «operatore ecologico» anziché netturbino o «settima arte» invece di cinema. O «millenaria insistenza a voler rimanere abbarbicati alla meravigliosa crosta terrestre» al posto di vita umana (copyright, Carlo Emilio Gadda).
Antonomasia. «Figura retorica particolare - scrive Tarabbia -, a metà strada tra la sineddoche e la perifrasi, ha regalato alla lingua espressioni ormai scolpite nell’uso comune» come l’«eroe dei due mondi» per Garibaldi o «il pibe de oro» per Maradona.
Iperbole. L’iperbole «è la figura dell’eccesso - scrive Tarabbia - serve per amplificare le cose o per rimpicciolirle a dismisura». Siamo iberbolici quindi sia quando chiediamo «un goccio» d’acqua che quando giuriamo di amare qualcuno «da morire».
Ossimoro. L’ossimoro, unendo una parola con il suo opposto, dà luogo a un’immagine potente che dischiude orizzonti di senso altrimenti impensabili: dalle «convergenze parallele» di Aldo Moro (in riferimento alla prospettiva di un possibile compromesso fra la Dc e il Pci: un’intuizione politica che, per così dire, sfuggiva alle regole della geometria euclidea) giù giù fino alla «realtà virtuale» di oggi.
· Data Palindroma.
02.02.2020 data palindroma. Tra leggende e giochi di cifre. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 da Corriere.it. Cos’hanno in comune «i bar arabi», «i cibi libici» e «i due feudi»? Sono tre frasi palindrome, che possono essere lette da sinistra a destra e viceversa. È uno dei giochi linguistici più antichi del mondo, se si pensa che il primo virtuoso sarebbe stato il poeta greco Sotade, III secolo a.C. Ma se con le parole il gioco è pressoché infinito (George Perec ne ha scritto uno di 5.556 lettere, Gabriele De Simon è arrivato a 6.093), con le date è più raro. Ce ne toccherà una domani 02 02 2020. In 10.000 anni i giorni palindromi sono 366. E negli anni bisestili solo 108. Aspettando il 29 02 2092 (non prendete impegni) conviene consolarsi con le parole. Guido Pistorio ha pubblicato l’anno scorso Ogni mare è ramingo. 484 palindromi ad uso quotidiano. Ne ha scelti 484 perché è un numero palindromo, anzi essendo il risultato di 22 per 22 è palindromo al quadrato. Per non sbagliarsi l’ha fatto con la casa editrice siciliana «Il Palindromo». Prima di lui Marco Buratti, docente di geometria all’università di Perugia, ne aveva selezionati 222 in E poi Martina lavava l’anitra miope (Liberilibri). Se vi piace l’enigmistica li conoscete bene. Non risulta che nelle date palindrome sia successo niente di particolare, ma d’altronde anche la paura dell’anno mille ha creato una quantità di leggende false nei posteri; nel 999 non ci pensavano proprio. Per cui, buon 02 02 2020: «È corta e non è sadica e non è acida se non è atroce».
02/02/2020: una domenica con data palindroma, combinazione bellissima e piena (per chi vuole) di significati. Il 2 febbraio 2020 è così particolare che la data resta palindroma anche se si scrive all'americana, con l'anno all'inizio. È una sequenza di numeri particolare, e questo non vuol dire assolutamente nulla. Stefano Bartezzaghi l'1 febbraio 2020 su la Repubblica. Zero due, zero due; due zero, due zero. Da sinistra a destra, da destra a sinistra, avanti e indietro. 02/02/2020. Accorgersi che una data come quella del 2 febbraio 2020, quando è espressa nella forma a otto cifre, è un palindromo è bello, ma non ha il benché minimo effetto. Le date si possono scrivere in moltissimi modi e quindi sono molti i modi che hanno per essere o non essere dei palindromi. In questo caso è così particolare che funziona anche se si antepone l'anno: 2020 / 02 / 02. Come in un codice binario innovativo alterna infatti lo zero e il due (anziché l'uno), pare un alfabeto di sole due lettere in cui si finisca per pronunciare sempre la stessa parola. Ma sappiamo bene che le cifre non sono solo due: sono dieci. Nel loro continuo combinarsi prendono e cambiano configurazioni, come i frammenti colorati che possono incantare in un caleidoscopio. Ma che cosa vuol dire che la data è un palindromo? Sarà un giorno fortunato, sfortunato, particolare, come gli altri? Ognuno avrà al proposito la sua idea e, come al solito, ha diritto ad averla. Proprio perché li si sente particolarmente vicini, però, a coloro che pensano che si tratti di un'evenienza del tutto indifferente (tanto è vero che in un altro modo di computare l'anno o esprimere le date il palindromo non c'è) andrà fatta un'osservazione, in via del tutto amichevole e anzi solidale. Viviamo in un mondo che non fa altro che cercare di dare senso ai numeri e, anzi, di trarre dai numeri il senso della vita. È scientifico, dicono, ciò che si esprime con un numero. Tanti contagiati dal coronavirus, tanti disoccupati in meno o in più, tanti cittadini che credono che un leader vincerà o perderà, tanti investitori che pensano che un'azione calerà di valore, tanti giocatori che notano che un certo numero non viene estratto da tante settimane... Debiti, crediti, meriti, tutto quantificato, ordinato in classifiche e ranking, esibito come se un numero portasse con sé un'evidenza di senso. "I numeri sì che non sono ambigui!". si sospira con sollievo, ripetendo il proverbio più cretino di tutti, che non è quello della gatta frettolosa né quello della donna al volante. Ce n'è uno che batte persino questi, ed è quella della matematica che non è un'opinione. Ora, eccovi qui una data che è un palindromo: pura espressione ricorrente di una combinatoria di nove cifre, a cui prima o poi càpita fatalmente di dare vita a configurazioni ricorsive, simmetriche, belle da vedere come una nuvola che pare un cammello. Care amiche e cari amici, vorrei dire sorelle e fratelli, voi che pensate che si tratti di una combinazione priva di senso, voi che a ragione diffidate dei valori mistici, delle attribuzioni superstiziose, delle suggestioni esoteriche delle coincidenze, proprio voi non pensate che una data che è un palindromo sia eccezionalmente significativa appunto per questo? È una sequenza di numeri particolare, e questo non vuol dire assolutamente nulla. Non provate anche voi lo stesso mio sollievo?
Francesco Musolino per “il Messaggero” il 2 febbraio 2020. Amo Roma è un grande classico. E volendo rimanere sul contesto geografico che ne dite di Roma domina l'animo d'amor o del più enigmatico In amor io diffido i Romani? Se vi chiamate Anna oppure Otto, ne siete già consapevoli. Anzi, Anna e Otto onorarono Otto e Anna. Avete notato qualcosa di strano? Provate a rileggere al contrario tutte queste frasi, concedetevi un sorriso di stupore. È giunta la data a lungo attesa: due febbraio duemilaventi, anzi, 02-02-2020 il giorno più amato dai linguisti, dai matematici e dagli appassionati di enigmistica. Oggi si celebrano i palindromi, un termine derivante dal greco antico, che può essere percorso da entrambi i sensi. Un gioco la cui origine riporta le lancette indietro sino al III secolo a.C. con i versi del poeta greco Sotade. Emblematico è il Quadrato del Sator, un'iscrizione latina (detta anche latercolo pompeiano) composta da cinque parole Sator, Arepo, Tenet, Opera, Rotas) la cui giustapposizione dà luogo ad un palindromo. Il quadrato si trova in tutta Europa, fra cui i sotterranei della basilica di Santa Maria Maggiore ma il suo significato resta oscuro.
LE ASCENDENZE. Sin dalla notte dei tempi ci affidiamo a numeri e lettere per codificare il mondo e leggere la nostra realtà. Non stupisce che quando apparvero i primi esempi di palindromi nel Medioevo, si fece in fretta ad attribuirgli un significato mistico, persino ascendenze diaboliche. Nel corso del tempo come ricorda la Treccani la poesia figurata, da Rabano Mauro a Guillaume Apollinaire, fece ricorso ai palindromi che successivamente persero la sfumatura cabalistica divenendo un gioco per matematici, linguisti ed enigmisti.
NUMERI PALINDROMI. Ma c'è anche chi riuscì a creare veri capolavori: lo scrittore George Perec, l'autore di La vita istruzioni per l'uso, ne coniò uno da oltre cinquemila lettere, celebre quello di Primo Levi («eroina motore in Italia / ai Latini erotomani or è») ma il primatista assoluto è il triestino Gabriele de Simon con il suo Vangelo palindromo da 6093 caratteri. I palindromi sono un modo per dimostrare il proprio estro e talvolta persino per sedurre l'amata. Così, Arrigo Boito, nell'atto di donare un anello a Eleonora Duse, le scrisse queste righe: «È fedel non lede fe'/ e Madonna annod'a me». E ancora, in una lettera a lei indirizzata, il letterato-compositore che era solito anagrammare il proprio nome in Tobia Gorrio, aggiunse: «Le parole son fatte per giocare». Ma tornando alle date, le ricorrenze sono assai più difficili. In 10.000 anni i giorni palindromi sono appena 366. Dopo il 02 02 2020 ci toccherà attendere il 12-02-2021. E da lì in poi, nel prossimo secolo capiterà altre trenta volte, sino al 29.12.2192 e spingendoci avanti con la fantasia e il calcolo speriamo che l'umanità possa festeggiare la prima data utile nel terzo millennio, il 10.03.3001. Proprio nell'essenza dei palindromi c'è il significato dell'intenso rapporto padre-figlia del romanzo Caos Calmo di Sandro Veronesi con cui vinse il Premio Strega nel 2006 (e il prossimo luglio scopriremo se riuscirà a fare il bis con Il Colibrì). Claudia, la figlia del protagonista, afferma che la maestra ha spiegato alla classe i palindromi con un esempio classico («I topi non avevano nipoti, si legge anche al contrario») per poi ritornarvi nelle ultime pagine: «in matematica ci sono certe operazioni reversibili e certe altre irreversibili». Il sottinteso è che lo stesso discorso valga anche per la vita vissuta. Pensateci. Quante volte vorremmo semplicemente poter risalire la corrente come i salmoni, poterci rimangiare l'ultima parola detta e proprio come Bill Murray nel celebre Ricomincio da capo (1993), vivere ancora e ancora il giorno della marmotta solo per imparare a suonare il piano ed essere capaci di dire Ti amo? Matematica a parte, non c'è proprio da stupirsi se i palindromi sono capaci di far breccia nella nostra fantasia. Arrivare in fondo e poi tornare indietro senza smarrire il senso delle cose, poter vivere la vita diritto e al rovescio sarebbe una meraviglia. Eppure, come ricorda Stefano Bartezzaghi, c'è anche chi nutre un'immaginaria paura dei palindromi. Si chiama aibofobia. E ovviamente, anche questo è un palindromo.
· Il 2020 è bisestile, la leggenda dietro al 29 febbraio.
Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile, che cosa significa quel giorno in più. Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 da Corriere.it. È difficile in questi giorni così drammatici, guardare con distacco, i proverbi che associavano l’anno bisestile alle peggiori sfortune: «anno bisesto, anno funesto»”, «anno bisesto basta che passi presto»… e così via. Tradizioni che si ritengono legate ai cicli della terra e alle coltivazioni. E ripetere che non vi è alcuna evidenza scientifica e statistica non serve a nulla. D’altra parte i nostri nonni qualche memoria «a sostegno» dei proverbi l’avevano, come il terremoto di Messina nel 1908, o per restare più vicini quello nel Belice del 1968 o in Friuli nel 1976. Del tutto inutile elencare i terremoti avvenuti in anni non bisestili, che sono ovviamente un gran numero. Per sdrammatizzare un po’ e cercare di strappare un sorriso possiamo ricordare che per la cultura anglosassone quello bisestile è considerato al contrario un anno fortunato. In Irlanda in particolare chiamano il 29 febbraio il «leap day», giorno del salto. In quel giorno le ragazze possono chiedere al fidanzato di sposarle. Secondo alcuni era prevista anche una penitenza per quegli uomini che decidevano di rimanere scapoli a tutti i costi: dovevano regalare alle fidanzate dodici paia di guanti, uno per mese, per coprire la mano «orfana» di anello. Prima del 1582, era in vigore il calendario giuliano, introdotto da Giulio Cesare nel 46 a.C. e che «eccedeva» per 12 minuti ogni anno. Quella eccedenza sarebbe stata eliminata dal calendario gregoriano, varato da papa Gregorio XIII, nel 1582, quando infatti sparirono dieci giorni e chi andò a dormire il 4 ottobre si svegliò il 15. L’anno solare ha una durata di 365 giorni 5 ore 48 minuti e 46 secondi quindi non corrisponde ad un numero intero di giorni. L’anno bisestile serve a correggere questo scostamento. Bisestile, o bisesto, è una parola di origine latina. Per la precisione dal latino tardo bisextus «due volte sesto», secondo l’uso romano di contare due volte negli anni bisestili il sesto giorno prima delle calende di marzo, cioè il 24 febbraio. Calcolo facile siccome le calende (ricordate la parola calendario con cui abbiamo aperto questo 2020) identificavano il primo giorno del mese. Quindi accanto a questo sesto giorno se ne aggiungeva un altro, per questo detto «bisesto». Il calendario giuliano, decisione mantenuta poi in quello gregoriano, ha stabilito che questo giorno «doppio» cadesse oltre l’ultimo giorno del mese, quindi il 29 febbraio. L’unica differenza è che il calendario gregoriano per avvicinarsi sempre di più alla durata dell’anno solare introduce un’altra piccola variante: non considera bisestili gli anni secolari se non siano multipli di 400. Per capirci sono bisestili gli anni 1600, 2000, 2400... mentre non lo sono gli anni 1700, 1800, 1900, 2100, 2200 e così via. Quindi, per avvicinarsi il più possibile all’anno solare ci sono 97 anni bisestili ogni 400 anni. Ma uno scarto rimane lo stesso, pari a circa 26 secondi. Quindi nell’arco di 3.323 anni ci troveremo con un giorno in più. Evenienza di cui si occuperanno, se ne avranno voglia, i nostri trisnipoti nel 4905. Il 29 febbraio è stato senz’altro un giorno straordinario. I nati in questo giorno possono festeggiare il compleanno solo ogni quattro anni, ma potranno consolarsi facendo parte di una ragguardevole schiera. Tra i tanti, sono nati il 29 febbraio papa Paolo III (1468, nato Alessandro Farnese), il musicista Gioachino Rossini (1792), il pittore francese Balthus (1908). Nella storia non sono molti gli episodi che lo ricordano, ma uno riguarda il nostro Risorgimento. Il 29 febbraio 1848 Ferdinando II re delle due Sicilie accettò che venisse promulgata la Costituzione palermitana, nel tentativo di placare la rivolta scoppiata il 12 gennaio proprio a Palermo. Fu il primo episodio in un anno colmo di rivoluzioni e rivolte popolari, avviando quell’ondata di moti rivoluzionari che sconvolse l’Europa e che viene definita primavera dei popoli. La rivoluzione siciliana portò alla proclamazione di un «nuovo» Regno di Sicilia indipendente, che sopravvisse fino al maggio del 1849.
Il 2020 è bisestile, la leggenda dietro al 29 febbraio. Federico Dedori il 28/02/2020 su Notizie.it. È di nuovo 29 febbraio, il 2020 è bisestile, la leggenda dietro a questa rara data. I giorni dell’anno normalmente sono 365 ma ogni quattro anni 366 perché? La vox populi ha sempre diffidato di questo periodo. L’anno solare è il tempo che la terra impiega per girare intorno al sole e ritornare allo stesso punto di partenza. Girando anche su se stessa il periodo di tempo dell’anno solare è formato dall’alternanza del giorno e della notte. Possiamo quindi dire che la terra per girare intorno al sole ci mette 356 giorni ma non è vero, infatti l’anno solare dura teoricamente 365 giorni e quasi 6 ore. Nell’antichità questo problema è stato quasi sempre ignorato. A cercare di risolverlo fu per la prima volta Giulio Cesare con il suo Regifugium Cesare, riformando l’antico calendario, dove aggiunse un giorno ogni quattro anni. Febbraio ha una storia oscura fin dalla sua introduzione con Numa Pompilio, successore di Romolo, februarius è il momento dell’anno dedicato ai morti e agli dei inferi. Con il provvedimento di Cesare il punto di partenza dell’orbita solare della terra veniva superato anche se di poco. Fu con Papa Gregorio XIII che si decise allora di eliminare dal calendario 11 giorni. Così nell’anno della riforma gregoriana del calendario, nel 1582, dopo il 4 ottobre si passò direttamente al 15 ottobre. Da tutti questi calcoli e credenze deriva la preoccupazione e superstizione che nutriamo ancora oggi verso il febbraio con ventinove giorni.
Curiosità. Esiste anche il 30 febbraio: gli svedesi infatti stabilirono che il 1712 dovesse essere un anno “doppiamente bisestile”, ovvero con il 29 e il 30 febbraio. Per ricordare velocemente quali sono gli anni bisestili occorre tenere presente le annate nelle quali si tengono le Olimpiadi.
Storia del 29 febbraio: cos’è l’anno bisestile e perché cade ogni quattro anni? Pubblicato sabato, 29 febbraio 2020 da Corriere.it. Il 2020 è un anno bisestile. Significa che i giorni non sono 356, ma uno in più: oggi, il 29 febbraio. L’anno bisestile cade ogni 4 anni: l’ultimo che abbiamo vissuto è il 2016, il prossimo sarà il 2024. Ma che cosa significa questa definizione? Per capirlo, bisogna innanzitutto distinguere tra «anno civile» e «anno solare». Il primo, anno civile, è quello che vediamo sul calendario. Ovvero quello che dura, appunto 365 giorni. Mentre l’anno solare, il periodo che serve alla Terra per fare un giro completo intorno al Sole, è sempre uguale: 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45 secondi. Da ciò si deduce che, ogni anno, avanziamo circa 6 ore. Che poi vengono raggruppate per formare un giorno di 24 ore. Ogni quattro anni. Ed ecco l’utilità dell’anno bisestile e dell’introduzione del 29 febbraio nel calendario. C’è però un altro problema: anche con l’aiuto degli anni bisestili, avanziamo ogni anno qualche minuto. Non sono infatti 6 ore precise quelle che avanziamo, ma «circa» 6 ore. Ecco allora che per aggiustare il tutto si è deciso di rendere bisestili anche alcuni dei primi anni di secolo. Non tutti: sarebbe troppo. Soltanto quelli divisibili per 400. Il 2000 è stato un anno bisestile, ad esempio. Il 1900, no. Questo complesso calcolo per rendere il calendario civile il più possibile coerente con l’anno solare è stato inizialmente creato da Giulio Cesare nel 46 avanti Cristo. Anche prima di lui c’erano stati diversi tentativi di mettere ordine, soprattutto tra gli astronomi, ma è con il calendario giuliano che si porta la durata dell’anno da 355 a 365 giorni, viene eliminato il mese «aggiuntivo» di 20 giorni — ma era di durata variabile — per pareggiare i conti e viene data una regola un po’ più precisa. C’è anche da aggiungere che ai tempi ogni mese era diviso in calende, idi e none. Il giorno aggiuntivo viene inserito «il sesto giorno prima delle calende di marzo», che sarebbe il 24 febbraio. Negli anni bisestili, questo durava 48 ore al posto che 24. Quindi c’erano due giorni prima dei sesti giorni prima delle calende. Da qui il nome «Bisextus», bisestile. Il calendario è rimasto invariato per secoli. Si crede che solo nel Medioevo si sia iniziato a fissare il giorno in più, ogni 4 anni, il 29 febbraio. Mentre ad accorgersi del piccolo avanzo di pochi minuti e a volerlo correggere è stato Papa Gregorio XIII alla fine del XVI secolo. Per ovviare all’errore di tutti gli anni precedenti, nel 1582 impone una riforma che prevedeva di passare dal 4 ottobre direttamente al 15 ottobre. E poi aggiunge un nuovo anno bisestile ogni inizio di secolo dei secoli divisibili per 400. Nei secoli l’anno bisestile ha assunto le sfumature culturali più varie. Sono molti a considerarlo un anno sfortunato - solo superstizione, dura di più ma per il resto è uguale agli altri - tanto da essere nato anche il detto «anno bisesto, anno funesto». Questo perché febbraio, per gli antichi romani, era il mese dedicato ai morti. Quindi già di per sé poco allegro. Ma ci sono anche tradizioni popolari più curiose. Come quella irlandese, che voleva che le donne potessero dichiararsi agli uomini solo il 29 febbraio. Se l’uomo rifiutava, doveva però comunque dare qualcosa in cambio alla amata rifiutata: una moneta, un paio di guanti o un bacio. Mentre in Francia, dal 1980, c’è un giornale che esce solo il 29 febbraio, chiamato Le Bougie du Sapeur. I profitti vanno tutti in beneficenza. Ci sono persino dei protagonisti della storia che sono nati il 29 febbraio, come Papa Paolo III e Gioacchino Rossini. Quando festeggiano queste persone nate in un giono così particolare? Sicuramente non ogni quattro anni, ma il 28 febbraio o il primo marzo. Esistono anche due club che riuniscono ogni 4 anni tutti i figli dell’anno bisestile: il Club Mundial de los bisiestos, che si dà appuntamento a San Sebastian. E lo statunitense The honor Society of Leap Year Day Babies. Infine citiamo l’unico caso di 30 febbraio: in Svezia, nel 1712, si è aggiunto anche questo giorno in più.
Lucia Esposito per "Libero" il 29 marzo 2020. Eccolo qui, il 29 febbraio. Il giorno in più che si presenta ogni quattro anni con la sua zavorra di superstizioni e paure. Quest' anno cade di sabato e si affaccia in un mondo ostaggio del Coronavirus, in preda alla paura di un contagio globale. Una coincidenza, ovviamente - mica siamo superstiziosi - che tuttavia rafforza la credenza secondo cui l' anno bisestile sia portatore di sfighe di ogni tipo. Il 29 febbraio è l' essenza stessa dell' anno bisesto: è il giorno introdotto allo scopo di pareggiare i conti con le sei ore che avanzano ogni anno. Fu voluto da Giulio Cesare che chiese, su consiglio di Cleopatra, una consulenza all' astronomo Sosigene di Alessandria. Questi invitò l' imperatore ad inserire nel suo calendario un dì in più ogni quattro anni subito dopo il 24 febbraio che era il sexto die ante Calendas Martias, il sesto giorno prima delle calendi di marzo. Quel giorno diventò il bis sexto die (da qui il termine bisestile). Per gli antichi Romani febbraio era il mese dei riti dedicati ai defunti, quello in cui si svolgevano le Terminalia dedicate a Termine, dio dei Confini, e le Equirie, gare che celebravano la conclusione di un ciclo cosmico. Eventi tutt' altro che felici e da qui deriva l' idea che l' anno bisestile sia foriero di sventure. Molti proverbi rafforzano l' idea che gli anni più lunghi siano anche i più esposti ai capricci del caso e sconsigliano di avviare imprese e perfino di unirsi in matrimonio (Quando l' anno vien bisesto non por bachi e non far nesto; anno che bisesta non si sposa e non s' innesta). Ci sono detti ancora più tragici come: anno bisesto, anno funesto; bisestile chi piange e chi stride; e pure anno bisesto che passi presto. Modi di dire che fanno venire voglia di chiudere gli occhi e risvegliarsi tra quattro anni.
IL PASSATO Andando indietro nel tempo si scopre che: in un anno bisestile, il 1908, il terremoto distrusse Messina; nel 1968 la terra tremò nel Belice; nel 1976 in Friuli e nel 1980 in Irpinia; nel 2004 lo tsunami devastò il sud-est asiatico. Per il 2012 i Maya avevano previsto addirittura la fine del mondo, evidentemente ci è andata bene. Il 2016 è stato funestato dagli attentati a Bruxelles, Orlando e Nizza, seguiti dal terremoto in centro Italia. Ma chi crede a queste coincidenze dimentica tutte le sciagure - sia naturali che causate dagli uomini - di cui sono pieni i giornali e i tg tutti i giorni di ogni anno. Basti pensare al terremoto dell' Aquila del 2009, all' attentato alle Torri Gemelle del 2001, per non parlare dello scoppio della seconda guerra mondiale
E per il 2020? «La grande peste nella città marittima non cesserà prima che morte sarà vendicata del giusto sangue per preso condannato innocente, della grande dama per simulato oltraggio», lo scrive Nostradamus nella centuria 2:53 del suo libro di profezie. Per molti la "grande peste" di cui parla l' astrologo sarebbe l' epidemia di Coronavirus. E poco importa che il chiaroveggente indichi una città di mare. Ecco trovata la spiegazione: Wuhan non è bagnata dalle acque ma una delle ipotesi che circolano è che il virus abbia trovato nel mercato del pesce della città cinese il suo punto di partenza. La predizione è talmente vaga che, se si vuole, un collegamento con il virus lo si trova sempre. Nostradamus per il 2020 ha fatto altre quattro previsioni: considerato che siamo solo all' inizio di quest' anno bisestile, ecco che cosa possiamo aspettarci. La Gran Bretagna dovrebbe avere un nuovo re, ma il chiaroveggente non precisa se Elisabetta muoia o ceda volontariamente lo scettro. Nella Corea del Nord dovrebbe verificarsi un cambiamento di potere e in questa rivoluzione la Russia dovrebbe svolgere un ruolo di primo piano. Infine, dovrebbe arrivare pure un devastante terremoto in California. Facciamo tutti gli scongiuri, dimentichiamo Nostradamus e abbracciamo l' idea del Nord Europa secondo cui gli anni bisestili portano, invece, prosperità e fortuna. Nei Paesi anglossassoni il 29 febbraio è l' unico giorno in cui sono le donne a poter chiedere la mano al fidanzato e non viceversa come vuole la tradizione. Fu San Patrizio a concedere questo onore alle signore dopo le pressioni di Santa Brigida. Se un uomo riceve una proposta il 29 febbraio è incastrato: deve per forza dire sì. Quest' obbligo è dovuto alla regina Margaret di Scozia che, nel XIII secolo, impose una tassa salatissima per i fidanzati che rifiutavano la proposta del 29 febbraio. Ancora oggi, in alcuni paesi nordeuropei i maschi che respingono una fanciulla nel giorno bisestile devono risarcirla regalandole abiti. E chi nasce il 29 febbraio? Leggenda vuole che sia fortunato. Forse perché anziché di ripiegare sul 28 febbraio o sul primo marzo, può scegliere di festeggiare il compleanno ogni quattro anni. E nascondere la sua vera età.
È di nuovo 29 febbraio, il 2020 è bisestile: la leggenda nera del "sesto bis". Superstizione: la vox populi non ha dubbi. E ha sempre diffidato di questa eccedenza periodica. Marino Niola il 28 febbraio 2020 su La Repubblica. Anno bisesto, anno dissesto. In materia la vox populi non ha dubbi. E ha sempre diffidato di questa eccedenza periodica. Una sporgenza del tempo che riequilibra l' anno sul piano astronomico ma lo sbilancia su quello simbolico. Fa quadrare il conto delle stagioni ma introduce nel calendario uno stato di eccezione. Questa cattiva fama dell' anno più lungo viene da molto lontano. Dai tempi dei romani. E non è una semplice questione di misura, non dipende da un giorno in più o in meno. Ma dalla reputazione magica del mese in cui quel giorno supplementare viene fatto cadere. Perché febbraio non è solo il mese più corto. è anche il più compromesso con le potenze delle tenebre. Sin dai tempi di Numa Pompilio, il mitico successore di Romolo che lo aggiunge al calendario, februarius è il momento dell' anno dedicato ai morti e agli dei inferi. è l' ultimo mese dell' anno, quello in cui la società romana celebra i suoi riti di purificazione, chiamati februa - di qui il nome febbraio. Tra questi rituali, due in particolare spiegano l' aura sinistramente sacrale che circonda quest'ultima frontiera del calendario. I Feralia - all' origine dell' aggettivo ferale - che il ventunesimo giorno del mese aprono il varco al ritorno dei morti, e il Regifugium che rievoca la cacciata dei re e la fondazione della repubblica. Questa festa ricorre il 24. La data, detta anche "giorno sesto" perché precede di sei giorni le calende di marzo, segna simbolicamente la fine dell' anno. I giorni successivi sono tempo morto, un vuoto temuto e nefasto che dura fino al primo marzo. E proprio alla fatidica data del Regifugium Cesare, riformando l' antico calendario, aggiunge un giorno ogni quattro anni. Deve però fare i conti con la nota predilezione delle potenze infere per i numeri pari. I giorni di febbraio devono dunque restare ventotto. Il fondatore dell' impero salva allora capra e cavoli raddoppiando il giorno sesto. Nasce così il bisesto. Ovvero il sesto bis. Da questo antico groviglio di simboli, di credenze, di calcoli, di superstizioni deriva quella legittima suspicione che nutriamo ancora oggi nei confronti del febbraio con ventinove giorni. Non temiamo certo di urtare la suscettibilità di Proserpina e Plutone. Ma continuiamo ad attribuire un surplus di significato a questa anomalia del tempo. A questo zoppicamento che richiede di essere corretto con un artificio che faccia camminare il calendario con passo regolare, mettendogli una stampella per riallineare l' incedere dei giorni e delle stagioni. Non è un caso che i popoli più diversi rappresentino l' andatura difettosa del tempo come uno zoppicamento che va corretto. Come se l' anno di tanto in tanto andasse in asincrono e fosse necessario scongiurare questa ferale aritmia con una sorta di ortopedia simbolica. Dalla danza claudicante della Cina tradizionale ai saltellamenti descritti negli antichi testi talmudici, fino ai salterelli rituali dell' Europa moderna. In tutti i casi si scongiurava il pericolo di un passo irregolare dell' anno mettendolo in scena attraverso un esorcismo ritmico. Sostituendo i cicli della natura con quelli della tecnologia, i tempi astronomici con quelli elettronici, ci siamo liberati dalle stagioni dei nostri padri ma non dalle loro superstizioni. Semplicemente abbiamo tradotto le antiche credenze popolari in inquietudini postmoderne. E nonostante il tempo non ci basti mai, non siamo contenti di avere in agenda quella pagina in più. Fosse almeno festivo, il giorno bisesto sarebbe meno indigesto. (questo articolo è stato già pubblicato sull'edizione di Repubblica del 30 dicembre 2007)
· I Collezionisti di…
Carlo Cavicchi per "repubblica.it" il 5 luglio 2020. C’è gente che ama collezionare quadri, chi francobolli chi ancora farfalle. E ci sono anche dei fortunati che si possono permettere di mettersi in casa automobili preziose, rare, spesso introvabili. Di possessori di veri gioielli a quattro ruote ce ne sono dove meno uno se l’aspetta, ma di sicuro non è facile trovare chi possiede oltre 7 mila pezzi da sogno, tra cui una Rolls-Royce placcata interamente d’oro che era stata usata in occasione delle sue nozze. Questo fortunato ha un nome e un cognome ed è il Sultano del Brunei, uno stato tanto piccolo quanto ricco. Lui è anche il primo della lista che raccoglie i 10 privati con le più prestigiose e sontuose collezioni di auto. Personaggi famosi oppure meno noti al grande pubblico, tutti animati dal sacro furore della passione e depositari dell’invidia di tutti i normali innamorati delle auto belle, che si accontenterebbero di averne anche soltanto una nel loro garage. C’è però anche una lista dei peggiori collezionisti di oggi o di ieri che hanno accompagnato la loro raccolta con comportamenti decisamente deprecabili. Questi li elenchiamo in ordine sparso e soltanto per far capire che c’è anche un lato indegno di collezionisti con parchi auto portentosi. Inizia Reza Shah Pahlavi, lo scià di Persia, famoso per la sua polizia segreta (Savak), ma anche per le tante e preziosissime Lamborghini in garage. Anche Carlos Hank Rohn González, miliardario messicano, re del riciclaggio e del traffico di droga, non si è fatto mancare nulla, due Ferrari GTO comprese. Pablo Escobar, colombiano signore della droga, si vantava di almeno 100 supercar nel suo museo personale, meno comunque di quelle di Teodoro Nguema Obiang Man-gue, figlio del dittatore della Guinea equatoriale, oppure di Ramazan Kadyrov, presidente della povera Cecenia in miseria. Gentaccia, insomma. Meglio allora limitarsi ai più ricchi e basta.
Hassanal Bolkiah - Sultano del Brunei. Possedendo il più grande palazzo reale nel mondo, con bagni in oro e diamanti, non c’è da meravigliarsi che abbia accumulato un parco auto di circa 7.000 vetture, composto da 209 BMW, 574 Mercedes Benz, 452 Ferrari, 179 Jaguar, 382 Bentley, 134 Koenigsegg, una sfilza di Lamborghini, Aston Martin, Shelby SSC e così via. Non si contano poi le vetture uniche costruite soltanto per lui, a partire dalla Ferrari Mythos di Pininfarina.
S. H. B. H. Al Nahyan - Sceicco Emirati Arabi. Lo sceicco Hamad Bin Hamdan Al Nahyan, membro miliardario della classe dirigente di Abu Dhabi, la “Rainbow Sheik”, è piuttosto noto per la sua raccolta di sette Mercedes S, colorate ognuna in una tinta diversa dell’arcobaleno. Non contento di possedere una collezione infinita di auto dal valore inestimabile, lo sceicco si è divertito anche a personalizzare un Mercedes monster truck, un gran numero di jeep, una Dodge Wagon e qualunque tipo di auto gli passi sottomano. Ciò che lo rende unico al mondo è che ha nascosto i suoi rarissimi reperti in una vera piramide...
Jay Leno - Conduttore e autore televisivo. James Douglas Muir Leno, meglio noto come Jay Leno, è stato un comico e poi un celebratissimo conduttore televisivo che ha dato vita al “The tonight show”, andato in onda ininterrottamente sulla rete americana Cbs per 22 anni con un successo di pubblico inimmaginabile e la presenza costante delle più famose celebrità a stelle e strisce. Appassionato come pochi altri al mondo di automobili, meglio se belle automobili, ha messo insieme una collezione sorprendente almeno come era il suo “tonight show”. Si contano non meno di 200 automobili meravigliosamente conservate, tra cui una Baker Electric del 1909, una Bentley 8 litri del 1931 , una Stanley Steamer del 1909, una Rolls-Royce Phantom II del 1934, una Duesenberg Modello X del 1927, più di 22 veicoli a vapore e 25 auto che hanno ispirato una speciale collana Hot Wheels della Mattel.
Ken Lingenfelter -Imprenditore. Rivaleggiando di continuo con la collezione eterea di Jay Leno, Ken Lingenfelter, il proprietario della Lingenfelter Performance Engineering, una società famosissima per la modifica di vetture di alte prestazioni, ha messo in piedi una fantasmagorica raccolta di auto da sogno, tra cui spicca tra le 20 Lamborghini una Reventòn. Lingenfelter, che è stato anche un buon pilota di dragster, ha più di 150 muscle car americane, tra cui Chevrolet Corvette di ogni generazione e altrettante Ford Mustang. Ma possiede anche Bugatti, Porsche e altri oggetti sensazionali che conserva in un edificio di 1.200 metri quadrati in Michigan.
Mukesh D. Ambani - Imprenditore. L’uomo più ricco dell’India (nome completo: Mukesh Ambani Dhirubhai) possiede un immenso palazzo di 27 piani a Mumbai, del valore di oltre un miliardo di dollari, che lui ama chiamare Antilla e dentro cui conserva una sorprendente collezione di oltre 170 automobili europee sistemate in sei piani dell’edificio, costruito a prova di bomba. Tra i suoi gioielli si contano una Maybach 62, Mercedes S Class, Bentley Flying Spur, Rolls-Royce Phantom, Mercedes SL 500, Bentley e Bugatti, nonché un paio di Porsche. Per mantenere al meglio le sue vetture, Ambani ha al suo servizio uno staff di espertissimi tecnici e altrettanti collaudatori.
Gérard Lopez - Investitore. L’ex presidente del Team Lotus in F.1 e notissimo uomo d’affari lussemburghese è anche molto famoso per la sua straordinaria collezione di auto. Impossibile elencare le oltre cento vetture che possiede, tra cui tre invidiabili Ferrari - una 365 GT 2+2, una 330 GT e una BB512i , ma c’è pure una introvabile Jensen Interceptor FF, una 7.0 litri Lister Jaguar XJS, una Maserati Ghibli, la Renault Clio Williams usata nel 2003 per il film “Adrenalina blu - la leggenda di Michel Vaillant”, l’ultima Lotus Esprit Sport 300 e una grandiosa Cadillac Fleetwood del 1968, i cui sedili si scaldano in rapporto alla temperatura esterna.
Dmitry Lomakov - Businessman e presidente Club storico russo. Guardando verso la Russia, quello che proprio non ci si aspet-ta è di poter scoprire una collezione davvero invidiabile e come poche altre al mondo. Appartiene alla famiglia Lomakov, guida-ta dal molto schivo Dmitry. La sua passione per le auto d’epoca e tutto ciò che è di eccellenza storica è senza precedenti, da quelle parti. In un arco di 40 anni, è stato in grado di raccogliere 120 auto storiche e non si sa quante moto. Di recente, Lomakov aveva anche fatto molto scalpore per essersi assicurato in un’asta, al-la bella cifra di 8 milioni di euro, la famigerata Mercedes-Benz 770K color blu notte di Adolf Hitler, ma nella sua collezione ci sono anche la Mercedes-Benz 540K di Joseph Goebbels, la Horch 853 limousine di Hermann Goering e la Mercedes-Benz 320A di Martin Bormann. Tutti pezzi acquistati negli anni per ricordare, a suo dire, la vittoria della Russia sui nazisti.
Jay Kay - Musicista. Oltre a collezionare cappelli, il popolarissimo frontman dei Jamiroquai Jason Luiz Cheetham (più conosciuto come Jay Kay) ha anche una attrazione non troppo segreta per le automobili. Questo cantante di origine inglese, vincitore anche di un Grammy, ha accumulato una sontuosa raccolta di almeno 68 vetture (ultimo dato conosciuto), tra cui tantissime Porsche, ma anche Ferrari, Rolls-Royce, Lamborghini, Mercedes, Bugatti, Maserati, Chevrolet e Aston Martin, tralasciando le altre. Possiede anche una Mercedes 600 appartenuta a suo tempo alla celebre stilista francese Coco Chanel.
Ralph Lauren - Stilista. Magnate della moda e dello stile esemplare, Ralph Lauren è conosciuto soprattutto per il suo brand “Polo”, ma la sua collezione di auto tutte rosse rimane sempre uno spettacolo fenomenale. Velocità, stile e bellezza sono tra le più alte forme di vanità e questa combinazione eccentrica è perfettamente sintetizzata nell’epica raccolta di Ferrari, Alfa Romeo, Bugatti, Mercedes, Bentley, Jaguar, McLaren F1 e molte altre vetture, per un totale di oltre 60 capolavori. Questa collezione stupefacente è per il 98% di colore rosso, e le auto sono sistemate su piattaforme bianche appoggiate a loro volta su una intrigante moquette nera all’interno di un garage a New York.
Nick Mason - Musicista. Leggendario ex batterista dei Pink Floyd, Nick Mason, ha una certa preferenza per le auto sportive italiane, ma soprattutto ama addentrarsi sui modelli e sulle marche che hanno un significato storico nel mondo automobilistico. Alcune di queste vetture sono davvero degne di nota; una Bugatti T35, una Aston Martin LM18, una Ferrari 213 T3, una McLaren F1, una Porsche 962 e naturalmente la strepitosa Ferrari 250GTO che era arrivata terza assoluta alla 24 Ore di Le Mans nel 1962. Ma dell’elenco lunghissimo di bolidi gran turismo e monoposto fa parte anche l’Austin Seven, che in gioventù fu la sua prima auto.
· Ladri di Cultura.
Allarme editoria: ladro di libri un italiano su tre. Sono i dati sulla pirateria contenuti nella prima indagine nazionale, condotta da Ipsos per l'Associazione Italiana Editori. Un fenomeno molto diffuso: ogni giorno gli italiani compiono circa 300mila "furti" di volumi di varia, professionali e soprattutto universitari. Un danno al sistema Paese stimato in un miliardo e 300 milioni euro. Emanuele Coen il 23 gennaio 2020 su L'Espresso. Un popolo di santi, eroi, navigatori. E pirati consapevoli, senza scrupoli, convinti di farla franca. Pronti a indignarsi al mattino per la scomparsa di una libreria e impegnati il pomeriggio a scaricare da siti Internet illegali testi digitali, ebook e audiolibri. Ogni giorno gli italiani compiono circa 300mila atti di pirateria di libri di varia (saggistica e narrativa), universitari e professionali. Nell’ultimo anno, più di un italiano su tre ha compiuto almeno un atto di pirateria riguardante il mondo del libro - il 36 per cento della popolazione sopra i 15 anni - uomini e donne in sostanziale equilibrio. È pari a 528 milioni di euro il fatturato che la pirateria sottrae ogni anno al settore editoriale librario, di cui 324 milioni e 29 milioni di copie in meno vendute solo per la varia, ma la perdita per il sistema Paese complessivo è molto più grave: un miliardo e 300 milioni di euro, stimata in base ai modelli Istat. Un danno pari al 23 per cento del mercato complessivo, escludendo il settore scolastico e l’export. Cifre colossali: in un anno il fisco perde 216 milioni e vanno in fumo nella filiera 3.600 posti di lavoro, 8.800 se si tiene conto anche dell’indotto. Una fotografia impietosa, quella che emerge dalla prima indagine nazionale sui danni che la pirateria infligge al mondo del libro e all’economia, condotta da Ipsos per l’Associazione Italiana Editori (Aie) e realizzata su un campione di 4mila interviste, cittadini italiani di età superiore ai 15 anni, 466 liberi professionisti e 452 studenti universitari. I risultati sono stati presentati per la prima iniziativa de “Gli Editori”, l’accordo tra l’associazione degli editori di libri e la Fieg, editori di giornali, uniti su un tema fondamentale. Un settore segnato da mille contraddizioni: se negli ultimi cinque anni hanno chiuso 2.300 librerie sfiancate dalla concorrenza digitale e dalla guerra degli sconti, paradossalmente è lievitato il numero di titoli pubblicati: 78.875 nel 2018, in crescita rispetto al 2017 secondo il Rapporto Aie sullo stato dell’editoria in Italia 2019. Nell’ultimo anno un italiano su quattro ha scaricato gratuitamente almeno una volta un ebook o audiolibro da siti o fonti illegali su Internet, il 61 per cento dei professionisti, otto studenti universitari su 10. È proprio questo il settore che registra il picco di comportamenti illegali, in diverse forme: studenti che scaricano gratis da Internet articoli o altro materiale, ricevono gratis un eBook da compagni, stampano un libro da un formato elettronico, acquistano riassunti cartacei in copisteria. È allarmante constatare, inoltre, che l’incidenza della pirateria è particolarmente alta tra i lettori forti di libri cartacei (45 per cento), tra quelli di ebook (68 per cento), e tra quelli di audiolibri e podcast (66). Il consumo illegale è diffuso in tutto il mondo editoriale: le copie (libri ma anche ebook) perse nel settore universitario sono 4 milioni, pari a un fatturato di 105 milioni di euro; nel settore professionale – libri, ebook e banche dati comprese – sono pari a 2,9 milioni di copie, con una perdita a valore di 99 milioni di euro. Se si guarda al mancato fatturato per canale di vendita, le librerie fisiche perdono ogni anno 247 milioni di euro, gli store online 239 milioni, 42 milioni sono persi dalle librerie e dagli store online che trattano anche l’usato. Uno degli aspetti più inquietanti riguarda il grado di consapevolezza di chi trasgredisce la legge. L’84 per cento della popolazione sopra i 15 anni si rende conto che questa attività è illegale; il 66 per cento, i due terzi, ritiene poco o per niente probabile che reati di questo tipo vengano scoperti e puniti. E quasi un italiano su quattro pensa che gli atti di pirateria siano poco o per niente gravi in relazione alla necessità di perseguirli legalmente. L’ampiezza del fenomeno, ammonisce l’Aie, impone un’azione di contrasto che passa attraverso la repressione dei fenomeni illegali, l’educazione degli utenti, le detrazioni fiscali per gli acquisti di libri, il sostegno alla domanda di cultura attraverso strumenti come la 18App, che però andrebbe riportata alla dotazione originale. Il bonus cultura per i diciottenni, se pur confermato dall’ultima manovra, è stato tagliato: i fondi previsti per il 2020 sono ora 160 milioni, 80 in meno rispetto a quelli del 2019. E così la card cultura, finora di 500 euro, è scesa a 300. Il budget si è via via assottigliato.
Fuori le mamme dalle librerie! Mandateci i figli, a prendere un libro. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Orsola Riva. «E vengono tutti questi genitori stanchi, in #libreria, a comprare #libri per i figli grandi, che poi sentono al telefono, per chiedere conferma, per essere sicuri - ma perché non vengono loro, i figli, che cazzo fanno, dove sono mentre mamma va a comprargli libri?». C’ha ragione da vendere, Emiliano Gucci, scrittore e libraio part-time di Prato, autore di questo post su Twitter . Ma la domanda andrebbe posta prima di tutto a noi, madri e padri, che abbiamo dimenticato com’era bello essere figli di genitori che magari si facevano un po' più i fatti loro ma ci lasciavano fare i nostri. Che se entravano in libreria per comprarci un libro era per farci un regalo, non certo un commissione. Perché ai libri di scuola ci pensavamo noi. Genitori che dei nostri voti si interessavano solo quando glieli portavamo a casa (bei tempi quando non c’era il registro elettronico!). Ma anche in quel caso, mantenevano la giusta distanza. Eri andato bene: bravo, avevi fatto il tuo. Certo non gonfiavano il petto per questo. Eri andato male, allora ti toccava pedalare. Ma era un tuo problema. Genitori che quando si era tutti quanti a casa, noi stavamo in camera e loro in salotto e se noi stavamo in salotto voleva dire che loro erano fuori a cena. Che quando uscivamo con gli amici ci chiedevano una sola cosa: a che ora torni? Punto e basta. L’importante era che fossimo puntuali. E noi, puntualmente, guardavamo l’orologio quando era già troppo tardi e allora scappavamo a casa a rotta di collo perché sapevamo che la libertà ha un prezzo. Mentre adesso che siamo genitori ci siamo ridotti a fare da servi ai nostri figli senza renderci conto che così non li rendiamo liberi. Tutto il contrario.
Un Decalogo per salvare le librerie. Amazon. Lettura in calo. Una legge che non c’è. Con decine di chiusure in poche settimane, da Torino a Ragusa, è allarme nazionale. Ma cosa si può fare per proteggerle? Lo abbiamo chiesto a Stefano Mauri, editore e distributore. Stefano Mauri il 31 gennaio 2020 su L'Espresso.
1. Fai il libraio perché ami la cultura e i libri, ma la libreria è anche un negozio, e ci sono saperi che devi conoscere: come vanno fatte le vetrine, come attrarre i lettori, come impostare i percorsi in libreria, e poi l’illuminazione, l’altezza, l’esposizione dei libri. Attenzione all’ubicazione del negozio o al costo dell’affitto: possono essere irrimediabilmente sbagliati.
2. Ci sono saperi che devi conoscere se hai la responsabilità di una azienda. “Devi” sapere che effetto avrà sul bilancio ogni decisione. Non sempre ci si azzecca, non sempre si fanno cose che hanno un ritorno positivo sul bilancio - si tratta pur sempre di imprese culturali - ma bisogna averne contezza.
3. Il fatto che esistano variabili imprevedibili non è una scusa per non studiare bene i dati invece disponibili. Che peraltro sono sempre di più. Fortuna e sfortuna si alternano, ma quel 10% che puoi spostare esaminando i dati, sul lungo periodo può farti sopravvivere o morire.
4. I libri sono scritti, pubblicati e venduti da persone. Sono le persone che fanno la differenza. E se l’editore deve credere in quello che fa e farlo con competenza, il libraio forse ha il compito più difficile: deve essere sempre ben disposto e propositivo verso i lettori, saperli prendere e consigliare.
5. L’innovazione tecnologica non è solo una minaccia ma anche una opportunità. Sia per amministrare bene la società che per rivolgersi all’esterno. Lo sanno bene molti giovani librai che hanno aperto librerie il cui spazio fisico è piccolo, ma lo spazio virtuale costruito sui social è enorme. E magari è Glovo a consegnare i libri ai clienti più pigri.
6. Se non hai passione per i libri meglio cambiare mestiere. Come sanno i librai con offerta limitata ma ben selezionata.
Peppe Aquaro per il “Corriere della Sera” il 31 gennaio 2020. Le nostre città? Eterni lavori in corso, con vie e piazze che cambiano continuamente. E addio, molto spesso, persino ai principali riferimenti riconoscibili da sempre. Della partita non fanno parte parrocchie ed edifici scolastici di quartiere, ma altri contenitori, altrettanto «sacri» e mete di pellegrinaggi quotidiani: le edicole dei giornali. Intorno alle quali, per fortuna, più di qualcosa si muove. M-Dis, il principale operatore in Italia nell' ambito della diffusione e distribuzione nazionale sia di pubblicazioni destinate al grande pubblico sia di stampa specializzata, definisce le edicole «Presidi di civiltà». Ma anche nuove opportunità di business. Che non è sempre una parola arida e fredda, se serve a dare nuova linfa ad una professione-istituzione come è quella dell' edicolante. Già dal 2014 qualcosa è cambiato, grazie all' avvio di una piattaforma, primaedicola.it, community formata oggi da più di 13 mila edicole collegate, sulla quale poter rintracciare, in poco tempo: arretrati, prenotazioni ed abbonamenti. E se prima era il solo edicolante a doversi avventurare in una richiesta estenuante per un arretrato, adesso la procedura è cambiata: al cliente finale, per esempio, avvisato con un sms o una mail, basta un «salto cliccato» su Google Maps per individuare l' edicola più vicina nella quale ritirare il proprio prodotto editoriale. «Le edicole ormai non sono soltanto rivenditori di contenuti editoriali: negli ultimi due anni, su 4 mila edicole aderenti a primaonline.it, sono stati consegnati 150 mila ordini dei clienti di importanti negozi online», osserva Andrea Liso, ad di M-Dis, la società di distribuzione pronta a rafforzare, nel nome dell' evoluzione delle edicole, il proprio hub centrale di riferimento, dopo aver siglato un accordo con Amazon. «Siamo partiti lo scorso agosto con alcune edicole tra Milano e Torino, e con 200 consegne. Abbiamo allora capito che, estendendo il servizio a livello nazionale, avremmo potuto solo migliorarci: tramite il servizio HubCounterPrimaedicola, nel periodo natalizio abbiamo consegnato 80 mila pacchi, ed oggi viaggiamo ad una media di più di 12 mila pacchi a settimana», spiega Liso, il quale sa bene che il segreto è nel Dna stesso della filiera della logistica editoriale: lavorando di notte, i pacchi delle aziende arrivano in edicola, nelle stesse ceste dei quotidiani e dei periodici, alle prime luci del giorno. Naturalmente, si spera che, aumentando i volumi delle richieste dei clienti, anche per i rivenditori di giornali possa esserci un guadagno maggiore. Inoltre, spazio all' edicolante pronto a fornire certificati dell' anagrafe comunale: a Torino sono già 60 le «edicole-sportello». Infine, a proposito di un futuro al presente per gli edicolanti, parlando di quotidiani, «Accadde domani» potrebbe essere il titolo perfetto per un altro progetto per le edicole: il Corriere della Sera ha infatti lanciato un concorso per ridisegnare l' edicola di domani. Obbiettivo affidato alla creatività di sette grandi architetti. Ne verrà scelto uno dal quale sarà sviluppato un prototipo da esporre alla Design Week 2020, a Milano, dal 21 al 26 aprile.
Quei libri sul marciapiede abbandonati dalla scuola. La rivolta di bimbi e genitori. Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Elisabetta Andreis. Centinaia di libri ammassati sul marciapiede di fianco al bidone dell’immondizia, vicino all’ingresso di una scuola materna. Volumi di ogni argomento e fattezza, colorati, per lo più in buone condizioni. Eppure destinati al macero. A depositarli lì era stato lo stesso asilo, che non riusciva a gestire una biblioteca con quel materiale. Qualcuno aveva quindi pensato di sgomberare gli scaffali e chiamato l’Amsa perché passasse a raccogliere «la montagna di carta da smaltire». Ma non aveva fatto i conti con i bambini che in quella scuola sono cresciuti ed evidentemente molto ben educati. Quando ieri mattina si è parato davanti ai loro occhi il desolante spettacolo — libri abbandonati per strada, come se non avessero un valore —, loro hanno detto no. La piccola rivolta ha finito per coinvolgere anche gli alunni e genitori della vicina primaria. In un’ora, con il passaparola, in tantissimi sono accorsi e hanno fatto a gara per prendere i volumi e portarseli a casa, da leggere. La «massa critica e d’azione», come si è autodefinito con ironia il gruppo improvvisato, è riuscita ad anticipare l’Amsa: quando il furgoncino della monnezza è arrivato, sul marciapiede non ha trovato quasi più niente. Alla scuola materna Guicciardi, nel quartiere Dergano/Bovisa, ieri ne parlavano un po’ tutti, ed è stata anche una lezione di vita. Otto sezioni per circa 200 bambini, molti italiani di seconda generazione. «Tutti con in testa un concetto chiaro: la cultura di carta non è una cosa vecchia, da rottamare — sottolinea Fabrizio Montesanto, papà e socio di un locale vicino, Mamuska, dove si promuove il bookcrossing —. I libri restano supporti preziosi, simbolo da preservare anche con i nativi digitali». Racconta una mamma, Michela Finizio: «Accompagnavo mio figlio a scuola, si è girato verso di me incredulo, quasi spaventato. Cosa diavolo ci facevano, abbandonati per strada? Non ha neanche cinque anni ma ha subito capito che non era giusto. È stata un’immagine brutta, un messaggio diseducativo». La responsabile Maria Stella Brenna, reduce da qualche giorno di malattia, non ne sapeva nulla mentre l’assessore all’Educazione Laura Galimberti annuncia un’indagine interna e sottolinea: «La policy del Comune di Milano va in senso assolutamente contrario. I libri che non servono a un istituto devono essere messi a disposizione di altre scuole e delle famiglie, certo non buttati — dice —. In questo caso la risposta della comunità scolastica di fronte a un gesto così leggero, frutto probabilmente di un fraintendimento, è stata forte e immediata». Alcuni genitori ricordano la scena del film Fahrenheit 451 di François Truffaut dove i libri vengono bruciati tutti, senza distinzione, perché considerati residui del passato da eliminare il più in fretta possibile. «Quello che è successo è un paradosso per due motivi — insiste Finizio —. Primo, proprio in questa scuola le maestre sono particolarmente attente a evitare lo spreco, educano alla necessità di buttare via il meno possibile. Secondo, quante volte hanno chiesto a noi famiglie di portare da casa libri da lasciare in classe? Quello che è successo non si spiega».
Lo sconcerto viene anche dalla biblioteca di quartiere, quella di via Baldinucci, che ha riaperto due mesi fa, dopo un anno e mezzo di lavori di ristrutturazione, e già ha recuperato 250 «clienti» al giorno, in particolare bambini che vengono a leggere o prendere i libri in prestito. «Nessuno ci ha chiesto se potevano servirci. Li avremmo selezionati e presi con gioia», dice la responsabile Monica Achille. Sempre lì nel quartiere, vicino a piazzale Maciachini, sta per aprire una piccola biblioteca condominiale, per iniziativa degli stessi residenti. Sospira Achille: «Tutti quei libri avrebbero fatto comodo anche a loro».
· La caccia ai tesori delle navi perdute.
Enrico Franceschini per “la Repubblica” il 30 marzo 2020. La caccia ai tesori delle navi perdute è vecchia come la marineria. Ma un altro tipo di pirateria sommersa minaccia alcuni dei più famosi vascelli affondati nella Seconda guerra mondiale: la rottamazione sistematica di quello che è rimasto, portando via tutto, come farebbe un avvoltoio con la carcassa di un animale. In inglese si chiama "wrecking", dalla parola "wreck", che vuol dire naufragio ma pure relitto o rottame. Sciacalli o spazzini del mare, come vengono definiti questi corsari dell' acciaio, stanno cercando di fare a pezzi l' incrociatore Repulse e il cacciatorpediniere Prince of Wales, colpiti dall' aviazione giapponese lungo le coste della Malesia nel dicembre 1941, pochi giorni dopo l' attacco nipponico contro la base americana di Pearl Harbour. «È come la dissacrazione di una tomba perché in quelle navi giacciono i resti e le anime dei nostri soldati», afferma il deputato Luke Pollard in un' interrogazione rivolta al ministero della Difesa, esortandolo a intraprendere iniziative diplomatiche, e se necessario un' azione di recupero, per mettere fine a questa pratica. Il governo di Londra ammette che entrambi i bastimenti hanno già sofferto danni considerevoli. Essendo affondati in acque basse, in prossimità della riva, i due relitti hanno cominciato a essere smontati pezzi per pezzo dalla popolazione locale e da specialisti di queste imprese, che poi rivendono il metallo e altri materiali sui mercati dell' Estremo Oriente. Un commercio che può risultare lucrativo in qualche caso o perlomeno assicurare la sussistenza alla povera gente del posto. La demolizione di navi naufragate o affondate in operazioni belliche, infatti, fiorisce per lo più presso le comunità costiere di regioni economicamente non avanzate. Fino al 19esimo secolo era estremamente sviluppata, anche perché i velieri di un tempo potevano talvolta custodire veri e propri tesori in lingotti, gioielli e valori. Una leggenda mai del tutto provata sosteneva che le imbarcazioni venivano appositamente attirate su scogli o bassifondi, per poi depredarle. Oggi è perlopiù la materia di cui sono fatte le navi militari dell' ultimo conflitto mondiale ad attirare i pirati di carcasse. Un recente esempio è quello dell' incrociatore britannico Exeter, affondato nel 1942 in prossimità dell' isola di Java, con la perdita di 54 uomini e la cattura di altri 654 da parte del Giappone, completamente spogliato di quanto era a bordo e dell' intero scafo. Il deputato Pollard chiede che il suo governo si attivi per recuperare almeno le ancore della Repulse e della Prince of Wales, considerate i simboli delle navi. Replica il sottosegretario alla Difesa James Heappey: «Abbiamo sollevato la questione con i nostri interlocutori in Malesia e in Indonesia. Lo sciacallaggio dei relitti militari è illegale ». Per ragioni di spesa, il recupero delle ancore non sarà possibile. Ma sono state rimpatriate le campane di entrambe le navi e ora sono esposte al museo della Royal Navy a Portsmouth.
· Per tutti Kalashnikov, per i tecnici AK-47.
Matteo Sacchi per “il Giornale” il 5 aprile 2020. Può un’arma fare la storia? L’Avtomat Kalashnikova obraztsa 1947 goda - per tutti Kalashnikov, per i tecnici AK-47, per i soldati russi amichevolmente il Kalash - certamente sì. E sotto diversi profili: strettamente militare, politico, sociale e addirittura in termini di folklore e di cultura di massa. Tutte sfaccettature che racconta lo scrittore ed esperto di armi (è un ex membro delle forze speciali Usa) Gordon L. Rottman nel suo saggio appena tradotto in Italia e in arrivo a breve per i tipi di Odoya: AK-47 kalashnikov, fucile d’assalto. Come spiega Rottman nessuna arma leggera è stata prodotta in così tanti esemplari nel corso degli ultimi settant’anni. Giusto per stare sui numeri più banali, in tutto il mondo sono stati prodotti, in più di venti Paesi, più di 78 milioni di veri Kalash. E stiamo parlando solo di prodotti sovietici o russi o su licenza. Senza includere nel conto le copie non autorizzate. Il celebre avversario dell’AK-47, l’M-16 americano, arriva a stento agli 8 milioni di esemplari prodotti. Insomma quello realizzato dal team di progettatori, guidati dall’allora sergente capo Mikhail T. Kalashnikov (1919-2013), è stato anche un successo commerciale senza eguali. Niente tecnicismi ma andiamo alla radice fattuale di questo successo. Già a partire dalla Prima guerra mondiale ingegneri e comandi militari iniziarono a ragionare sulla necessità di avere armi a braccio con un alto volume di fuoco per spazzare le trincee avversarie o fermare gli attacchi in massa, le mitragliatrici erano pesanti e troppo statiche. Nacquero le pistolemitragliatrici, come il mitra Thompson americano. Mancavano però di potenza, spesso erano complesse da manutenere e con gittata limitata. I tedeschi risolsero parzialmente il problema, durante la Seconda guerra mondiale, creando il primo vero fucile d’assalto, lo Sturmgewehr 44 progettato da Hugo Schmeisser. Potente poco meno di un vero fucile poteva scatenare una valanga di fuoco sino alla distanza di 400 metri. I soldati sovietici provarono sulla loro pelle che razza di incubo fosse la nuova arma. Vinta la guerra dove spedirono Hugo Schmeisser? Dritto alle dipendenze di Kalashnikov che nel frattempo aveva surclassato coi suoi prototipi tutta la concorrenza interna ai laboratori di sviluppo sovietici. Il risultato di questa collaborazione forzata fu un’arma che riprendeva tutti i pregi di quella tedesca ma ci aggiungeva qualcosa di molto russo. Ovvero una progettazione semplificante e tutta mirata all’eliminazione della possibilità di inceppamento. Il Kalash non è il fucile più preciso del mondo (rileva verso l’alto nel fuoco a raffica), non è il più potente, e dopo decenni inizia a mostrare pesanti limiti di peso e di ergonomia. Ma senza dubbio è un’arma che continua a funzionare in condizioni estreme e anche se sottoposta a maltrattamenti che farebbero inceppare qualsiasi altro fucile. Questo è proprio dovuto al tocco di Mikhail T. Kalashnikov. Tanto per dire riprogettò il grilletto una settantina di volte per evitare inceppamenti (c’è un motivo se era considerato un eroe dai sovietici e continua ad essere considerato un eroe anche dai post sovietici). Lo stesso avvenne per moltissime parti dell’arma, pensate tutte per costare poco ed essere riproducibili con strumenti tecnici minimi. A questa filosofia di base ne fu subito associata un’altra che spiega perché sfogliando il libro di Rottman vi possa capitare di vedere i membri di una tribù africana, in tutto simili a cacciatori dell’età della pietra, andare alla guerra con un’altra tribù impugnando il Kalash. Ad addestrare all’uso base dell’arma basta circa un’ora. Per il tiro sino a cento metri e il fuoco di saturazione non esiste niente di più semplice da usare. Gli americani erano soliti dire che Dio ha inventato gli uomini ma Samuel Colt li ha resi uguali. Kalashnikov ha portato il lavoro di Colt all’estremo. E da qui si scivola rapidamente nel sociologico. Non esiste nessun altro fucile che sia finito dentro una bandiera. L’AK-47 sventola assieme ai colori del Mozambico o nella bandiera degli Hezbollah, è presente anche su alcune monete. Lo usano i narcos ma anche i militari che cacciano i narcos, i bracconieri africani ma anche i guardiacaccia che cercano di fermarli. Nelle infinite varianti sviluppatesi dal modello originale persino i soldati Usa si sono trovati ad utilizzarlo in più di un’occasione con imbarazzante successo. In tempi di Guerra fredda sarebbe stato impensabile ma ora anche il Kalash è stato de-ideologicizzato come molte altre cose. Alla fine per dirla in modo pop anche molti ex nemici condividono il senso della battuta memorabile di Ordell Robbie (Samuel L. Jackson) nel film Jackie Brown (1997): «Ak-47. Il meglio del meglio che ci sia sulla Terra. Quando senti il bisogno di fare piazza pulita una volta per tutte degli scarafaggi che ti circondano, non accettare imitazioni». Però alla fine anche pensando a tutti i bambini soldato che se lo sono trovati per le mani giustamente Rottman, e lo scrivente con lui, preferisce una riflessione dello stesso Mikhail T. Kalashnikov: «Preferirei aver inventato una macchina che la gente potesse usare e che aiutasse i contadini nel loro lavoro, come per esempio un tagliaerba». I tagliaerba russi, così come le loro automobili però non sono mai andati di moda. Invece i servizi segreti per capire se in certi Paesi stanno per partire insurrezioni monitorano solo l’andamento dei prezzi dell’AK-47 sul mercato nero.
· La paura della “Rete”.
Noi, i social e la tirannia dei like. Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Candida Morvillo. Per molti di noi che sono su Instagram, siamo ormai a sei mesi di astinenza da conta dei like. Possiamo vedere quanti ne abbiamo noi, ma non quanti ne hanno gli altri. Ci è stato tolto il brivido della competizione. Da luglio, infatti, l’Italia è tra i Paesi inclusi dal social in un test per decidere se nascondere i like, ovvero se liberarci dalla schiavitù di controllare a quanti piacciamo o di pesare gli altri per i cuoricini collezionati. Il test coinvolge il 90 per cento dei 23 milioni di italiani presenti su Instagram ed è in corso su smartphone e tablet, non su desktop. Non risultano rivolte né qui né altrove, però ieri, il New York Times scriveva che il capo di Instagram Adam Mosseri ha incontrato lo staff «per discutere i dettagli segreti di un progetto critico: il Project Daisy». Il dilemma è pari a quello celebre della margherita, è il «m’ama o non m’ama?» e urge una decisione. La sperimentazione, partita a maggio in Canada, è stata poi estesa a Italia, Australia, Brasile, Irlanda, Nuova Zelanda e quindi ad altri Paesi. L’obiettivo dichiarato è «aiutare le persone a concentrarsi su foto e video e non sui like, affinché si sentano libere di esprimersi». Tradotto: non vadano in ansia da prestazione. Il Nyt la mette sul melodrammatico e descrive un Mosseri provato da una puntata della serie distopica Black Mirror, quella in cui i personaggi valutano gli altri su una scala da 1 a 5: «Non finisce bene e Mosseri non può smettere di pensarci», si scrive, come se l’ambascia fosse tutta per gli adolescenti frustrati perché la foto con l’hoverboard ha ottenuto solo il cuoricino della mamma. È probabile, però, che a fronte di utenti che crescono e post che diminuiscono, la paura sia che chi ha pochi like pubblichi meno e abbandoni per stress da scarsa popolarità. In parte, le stories hanno contenuto la fuga: spariscono in fretta e non c’è contatore. Resta allo studio se e come limitare i like pubblici, se tenere una soglia in migliaia. Curiosità: Justin Rosenstein, l’ingegnere che portò i like su Facebook, nel 2017, è uscito dai social e s’è pentito dell’invenzione: «Il “mi piace” m’ispirava ottimismo, ma si è rivelato uno pseudopiacere», confessò. Non mancano i motivi per tenersi i like. Come dice lo psichiatra Tonino Cantelmi, docente di Cyberpsicologia all’Università europea di Roma, «Instagram è il più narcisistico fra i social e, se non saprà più stimolare il narcisismo digitale, sarà soppiantato da altri social». Cantelmi, in uscita per Franco Angeli con «Amore Tecnoliquido», spiega: «Il nostro cervello è plastico e si è già adattato. Viviamo la mutazione antropologica più grande dall’avvento della scrittura e non si torna indietro. Bisogna imparare ad accettare anche le umiliazioni digitali». La novità non spaventa chi sui like ha creato imperi. Dice Elena Dominique Midolo, Ceo di ClioMakeUp, sette milioni di follower: «Per i big player non cambia nulla: gli inserzionisti guardano più l’engagement. Il like nascosto, semmai, tocca gli emergenti: come per strada la gente è attratta dal capannello, così sui social mette il like dove ce ne sono già tanti». I like sono desueti anche per Marco Montemagno, imprenditore e divulgatore tech con tre milioni di follower: «Sono stati introdotti quando non c’erano miliardi di persone sui social. Ormai, sono incentivi a contenuti estremi». Il suo motto è: «Se i contenuti funzionano, lo misuri da come reagisce la community. Io non conto i like, ma Lavorability, il libro che ho autoprodotto per dimostrare che grazie ai social si può essere indipendenti, è il più venduto online». Il «m’ama non m’ama» incalza e per Mosseri è più che un tema di coscienza... Prima, era il supervisore del feed di notizie di Facebook e, se è stato Mark Zuckerberg a rispondere al Congresso Usa delle accuse di disinformazione, internamente, fu messo sotto torchio lui. Poi, è passato a Instagram, acquisita da Facebook nel 2012. E ora non può permettersi di sbagliare.
Candida Morvillo per corriere.it il 21 gennaio 2020. Per molti di noi che sono su Instagram, siamo ormai a sei mesi di astinenza da conta dei like. Possiamo vedere quanti ne abbiamo noi, ma non quanti ne hanno gli altri. Ci è stato tolto il brivido della competizione. Da luglio, infatti, l’Italia è tra i Paesi inclusi dal social in un test per decidere se nascondere i like, ovvero se liberarci dalla schiavitù di controllare a quanti piacciamo o di pesare gli altri per i cuoricini collezionati. Il test coinvolge il 90 per cento dei 23 milioni di italiani presenti su Instagram ed è in corso su smartphone e tablet, non su desktop. Non risultano rivolte né qui né altrove, però ieri, il New York Times scriveva che il capo di Instagram Adam Mosseri ha incontrato lo staff «per discutere i dettagli segreti di un progetto critico: il Project Daisy». Il dilemma è pari a quello celebre della margherita, è il «m’ama o non m’ama?» e urge una decisione. La sperimentazione, partita a maggio in Canada, è stata poi estesa a Italia, Australia, Brasile, Irlanda, Nuova Zelanda e quindi ad altri Paesi. L’obiettivo dichiarato è «aiutare le persone a concentrarsi su foto e video e non sui like, affinché si sentano libere di esprimersi». Tradotto: non vadano in ansia da prestazione.
Stress da scarsa popolarità. Il Nyt la mette sul melodrammatico e descrive un Mosseri provato da una puntata della serie distopica Black Mirror, quella in cui i personaggi valutano gli altri su una scala da 1 a 5: «Non finisce bene e Mosseri non può smettere di pensarci», si scrive, come se l’ambascia fosse tutta per gli adolescenti frustrati perché la foto con l’hoverboard ha ottenuto solo il cuoricino della mamma. È probabile, però, che a fronte di utenti che crescono e post che diminuiscono, la paura sia che chi ha pochi like pubblichi meno e abbandoni per stress da scarsa popolarità. In parte, le stories hanno contenuto la fuga: spariscono in fretta e non c’è contatore. Resta allo studio se e come limitare i like pubblici, se tenere una soglia in migliaia. Curiosità: Justin Rosenstein, l’ingegnere che portò i like su Facebook, nel 2017, è uscito dai social e s’è pentito dell’invenzione: «Il “mi piace” m’ispirava ottimismo, ma si è rivelato uno pseudopiacere», confessò.
Narcisimo digitale. Non mancano i motivi per tenersi i like. Come dice lo psichiatra Tonino Cantelmi, docente di Cyberpsicologia all’Università europea di Roma, «Instagram è il più narcisistico fra i social e, se non saprà più stimolare il narcisismo digitale, sarà soppiantato da altri social». Cantelmi, in uscita per Franco Angeli con «Amore Tecnoliquido», spiega: «Il nostro cervello è plastico e si è già adattato. Viviamo la mutazione antropologica più grande dall’avvento della scrittura e non si torna indietro. Bisogna imparare ad accettare anche le umiliazioni digitali».
L’«engagement». La novità non spaventa chi sui like ha creato imperi. Dice Elena Dominique Midolo, Ceo di ClioMakeUp, sette milioni di follower: «Per i big player non cambia nulla: gli inserzionisti guardano più l’engagement. Il like nascosto, semmai, tocca gli emergenti: come per strada la gente è attratta dal capannello, così sui social mette il like dove ce ne sono già tanti». I like sono desueti anche per Marco Montemagno, imprenditore e divulgatore tech con tre milioni di follower: «Sono stati introdotti quando non c’erano miliardi di persone sui social. Ormai, sono incentivi a contenuti estremi». Il suo motto è: «Se i contenuti funzionano, lo misuri da come reagisce la community. Io non conto i like, ma Lavorability, il libro che ho autoprodotto per dimostrare che grazie ai social si può essere indipendenti, è il più venduto online». Il «m’ama non m’ama» incalza e per Mosseri è più che un tema di coscienza...Prima, era il supervisore del feed di notizie di Facebook e, se è stato Mark Zuckerberg a rispondere al Congresso Usa delle accuse di disinformazione, internamente, fu messo sotto torchio lui. Poi, è passato a Instagram, acquisita da Facebook nel 2012. E ora non può permettersi di sbagliare.
Simone Canettieri per “il Messaggero” il 21 gennaio 2020. «Verificare l'uso che il governo cinese fa dei dati sensibili degli utenti italiani iscritti su Tik Tok». La richiesta è stata inoltrata due settimane fa dai membri della maggioranza che fanno parte del Copasir al presidente Raffaele Volpi. E l'esponente leghista ha dato via libera al procedimento. Ora l'Agenzia per le informazioni e la sicurezza esterna (Aise) e il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) indagheranno - attraverso un'istruttoria - sul social network che spopola tra gli adolescenti (e non solo). Si tratta di un'applicazione - a portata di smartphone - che permette di pubblicare e dunque condividere brevi video musicali. Clip spesso scanzonate. Tik Tok è cinese: è tenuta a riferire al governo i dati degli iscritti: foto e video finiscono in un database a disposizione della autorità politiche. Nel mondo sono più di 1,5 miliardi le persone che si divertono con questo social, in Italia superano i sei milioni. Anche la politica sta provando (senza entusiasmi) a capire il fenomeno. Forse perché la platea è composta in gran parte da adolescenti, molti dei quali ancora minorenni, e quindi non appettibili elettoralmente (almeno per ora, anche se il trend sta alzando l'asticella verso i ventenni). Il pioniere è stato Matteo Salvini: lo scorso novembre il leader della Lega ha aperto il suo account. E così è diventato un tiktoker (seguito da 167mila profili). L'ultima performance l'altro giorno da un palco dell'Emilia Romagna (selfie con un gruppo di «amici indiani: dedicato a chi ci vuole male», con il pezzo Riptide di Vance Joy), ma anche il Primo dell'anno (con la celebre parodia con la fidanzata Francesca dello schiaffetto di Papa Francesco a una fedele troppo invadente). Anche Giorgia Meloni, leader di Fratelli, è stata tentata da questo social (forte del tormentone Io sono Giorgia), ma dopo una rapida apparizione sembra non essere attiva. D'altronde il campo è davvero impervio: anche perché su Tik Tok tra più attivi ci sono ragazze e ragazzi che ancora vanno alle medie. Quindi il rischio di non essere capiti o peggio ancora trollati (traduzione: presi in giro) per i politici c'è, eccome. Ma adesso lo scenario cambia totalmente. Perché il caso prende tutta un'altra piega. E ha fatto irruzione due settimane fa all'interno del Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza pubblica. In ballo - è stato rimarcato dai parlamentari che compongono l'attuale maggioranza - c'è «la sicurezza dei nostri dati, intesa come Paese, che finiscono nella disponibilità del governo cinese visti gli accordi che ha con Tik Tok. Dunque non si tratta di una banale questione di privacy». Un affare così complesso, e dalle ricadute così grandi, che il presidente del Copasir Raffaele Volpi non ha potuto fare altro che dare mandato ai Servizi segreti di aprire un'istruttoria. Dove porterà non si sa. Ma questa mossa si lega, in un certo senso, alle mosse che il governo italiano dovrà prendere sulla questione 5G, l'infrastruttura digitale del futuro: un tema molto caro a Pechino, ma non a Washington. Un dossier che aveva trovato, ai tempi del governo gialloverde, una sponda importante nel M5S, in pieno flirt sulla via della Seta, grazie alla generosa apertura dell'allora titolare del Mise (nonché vicepremier) Luigi Di Maio. Anche in questo caso, in ballo c'è la gestione dei dati. Così si spiega il pressing di Huawei e Zte e dall'altra la frenata dell'alleanza atlantica. Anche questo tema è stato sollevato lo scorso dicembre e sempre dal Copasir. Un motivo per offrire al governo il destro per restringere nella gara che ci sarà sulla gestione del 5G le maglie sulla possibilità dell'ingresso cinese. Non proprio un gioco da ragazzi. Come appunto sembra non essere nemmeno Tik Tok.
Da corriere.it l'1 febbraio 2020. Da oggi, 1 febbraio, Whatsapp smette di funzionare su alcuni dispositivi, quelli che hanno i sistemi operativi più vecchi. Dopo i cellulari Windows Phone e Windows Mobile, che hanno perso l’app di proprietà di Facebook a inizio 2020, a vedersi costretti a cambiare telefono (o ad abbandonare le chat) sono da oggi gli utenti dotati di uno smartphone con sistema operativo iOS 8 (uscito nel 2014 insieme all'iPhone 6) e Android 2.3.7, ultima versione del cosiddetto Gingerbread uscito nel 2010. Così, insomma, tanti altri telefoni si aggiungeranno alla vittima più nota di WhatsApp, quel BlackBerry che aveva fatto furore in passato ed è stato abbandonato lo scorso anno.
Gli aggiornamenti. Da tempo la app consiglia — per motivi di sicurezza — di aggiornare i sistemi operativi alle release 4.0.3 e successive (Android) e iOS 9 e successive (iPhone). Da oggi questo «consiglio» diventa un obbligo: sui cellulari che supportano al massimo Android 2.3.7 e gli iPhone che supportano al massimo il sistema operativo iOS 8 non si potrà più creare un nuovo account, né riverificare un account esistente.
WhatsApp, in arrivo i messaggi che si autodistruggono. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Alessandro Vinci. Dopo Telegram, Snapchat e Messenger, anche WhatsApp avrà i messaggi che si autodistruggono. Se ne parla da tempo, ma questa volta i tempi sembrano finalmente maturi. Ne sono certi gli esperti di WaBetaInfo, che analizzando le modifiche presenti nelle versioni beta 2.20.83 e 2.20.84 per Android (le cui date di rilascio non sono state ancora fissate) hanno scoperto l’imminente novità. Fino a qualche mese fa si pensava che l’opzione sarebbe stata riservata ai gruppi in un’ottica di «pulizia interna» dai contenuti superflui, invece verrà introdotta anche nelle chat private. La nuova funzionalità è ancora in fase di sviluppo, ma gli screenshot emersi parlano chiaro: accedendo alle informazioni di un contatto o di un gruppo sarà possibile selezionare una voce, «delete messages», che consentirà all’utente di «scegliere per quanto tempo i nuovi messaggi devono durare prima che vengano cancellati». Cinque le possibilità: per un’ora, per un giorno, per una settimana, per un mese o per un anno. Una volta selezionata la durata prescelta, accanto all’orario di invio dei successivi messaggi apparirà l’icona di un orologio. Spazio dunque agli ultimi aggiustamenti, poi prenderà ufficialmente il via l’iter che porterà il tool prima nella versione beta e poi su oltre due miliardi di smartphone in tutto il mondo. Quella dell’autodistruzione dei messaggi è solo l’ultima novità a coinvolgere WhatsApp, una piattaforma in continuo mutamento. Tra le ultime, l'annuncio del lancio di Payments e l’introduzione della dark mode. Ma se nel 2017 l’arrivo delle Stories era stato chiaramente ispirato (per usare un eufemismo) da Snapchat, in questo caso il «rivale» di riferimento è senza dubbio Telegram, che della segretezza e del rispetto della privacy fa da sempre i suoi punti di forza. Anche per questo già nel 2016 il team di sviluppo aveva provveduto a introdurre in app la crittografia end-to-end, una chiave privata che consente di far visualizzare i contenuti delle chat soltanto ai partecipanti alla conversazione. Ora un nuovo passo per consolidare una supremazia che appare ormai sempre più inscalfibile.
Aggiornamento WhatsApp, addio su oltre 70 milioni di Android: cosa fare. Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessio Lana. In un colpo solo WhatsApp scompare da milioni di dispositivi. Con il nuovo anno la chat di proprietà di Facebook, grazie a un nuovo aggiornamento, ha abbandonato i sistemi operativi più vecchi: per Android si parla della versione 2.3.7 Gingerbread, per Apple invece di iOS 8. Sono entrambi molto vecchi — il primo è uscito nel settembre 2011, il secondo invece nel giugno 2014 — ma sopravvivono ancora in tanti telefoni, decine di milioni. Che ora dovranno però fare a meno di WhatsApp. Stando a Google, Gingerbread copre ancora lo 0,3 per cento di tutti i dispositivi Android. Considerando che in totale sono 2,5 miliardi, il calcolo è presto fatto: il robottino verde numero 2.3.7 gira ancora su 75 milioni di device, più dell'intera popolazione italiana. Apple invece non offre dati ufficiali circa la diffusione dei suoi sistemi operativi ma, stando alle stime, iOS 8 dovrebbe essere sparito dalla circolazione. Gli analisti hanno calcolato che nessuno ormai lo usa più e il successivo iOS 9 è presente solo sullo 0,1 per cento di tutte le macchine della Mela. L'addio di Whatsapp è un’operazione di routine. Per mantenere alti gli standard di sicurezza, con il passare del tempo i software abbandonano il supporto per i vecchi sistemi operativi concentrandosi sulle nuove versioni. Il vero problema per l'utente però è che non c'è soluzione. Da una parte infatti possiamo tentare di aggiornare il sistema operativo ma se ancora oggi abbiamo a bordo del telefono Gingerbread o iOS 8 significa che il nostro dispositivo non supporta versioni successive. E allora, se non si vuole rinunciare alla chat, c'è solo una cosa da fare: cambiare telefono e prendere un prodotto più recente. Dopotutto se ne trovano anche sotto i cento euro .
WhatsApp ha due miliardi di utenti Più di Instagram, meno di Facebook. Pubblicato giovedì, 13 febbraio 2020 da Corriere.it. WhatsApp ha festeggiato il traguardo dei due miliardi di utenti a livello globale, un deciso passo in avanti rispetto a quota 1,5 miliardi raggiunta a inizio 2018. L’app di messaggistica è il secondo servizio posseduto da Facebook ad aver superato questa asticella, dopo il social stesso che conta 2,5 miliardi di persone iscritte. Lanciata ormai ben 11 anni fa, il punto di svolta per WhatsApp è stato proprio nel 2014 quando è stata acquisita dalla società di Mark Zuckerberg per 19 miliardi di dollari. Una storia però condita anche di difficoltà, come l’abbandono dei due fondatori dell’app Brian Acton e Jan Koum o l’attacco subito nel 2019 attraverso un malware della società di cybersicurezza israeliana Nso Group con cui si potevano prendere di mira gli smartphone di precisi obiettivi. Come riportato anche dalla stessa app di messaggistica, la costante di WhatsApp è stata invece la presenza della crittografia end-to-end che permette di avere comunicazioni sicure con gli altri utenti e non possibili da violare esternamente. Diversi governi in tutto il mondo hanno provato a spingere per superare la criptazione dei messaggi, ma su questo aspetto la società è sempre stata inflessibile. Nel frattempo WhatsApp si sta sviluppando anche oltre la semplice possibilità di mettere in contatto tra loro le persone, offrendo anche strumenti per l’ambito business per mettere in contatto attività e clienti. Interessante è poi il progetto per permettere pagamenti tramite app: sarebbe in arrivo WhatsApp Pay che è stata già testata in India, paese in cui il servizio conta il maggior numero di utenti attivi in tutto il mondo, oltre quota 400 milioni.
Tik Tok, allarme del Garante della privacy: «Serve una task force». Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it daValentina Santarpia. Allarme rosso sul social network Tik Tok, usato da migliaia di ragazzini in tutta Italia: a lanciarlo è il Garante per la protezione dei dati personali, che ha chiesto al Comitato europeo per la protezione dei dati personali (Edpb), che riunisce tutte le Autorità privacy dell’Unione, di attivare una specifica task force. In considerazione della «delicatezza e della rilevanza di questo tipo di piattaforme», usate sopratutto da giovanissimi, il Garante segnala la necessità di procedere in maniera «forte e coordinata». Nella lettera inviata al Comitato, il Presidente dell’Autorità Garante, Antonello Soro, sottolinea come siano già pervenute all’Autorità italiana «alcune segnalazioni in merito alle possibili vulnerabilità che presenta questa app per smartphone e come anche altre Autorità, come l’Ico inglese e l’Ftc americana, abbiano già proceduto ad avviare indagini autonome». Soro ha chiesto che la questione venga posta all’attenzione della prossima riunione plenaria, che si terrà a Bruxelles il prossimo 28-29 febbraio, del Comitato (Edpb) che riunisce tutti i Garanti privacy europei. In America sono state già avviate indagini: il Comitato per gli investimenti esteri statunitense sta verificando se l’applicazione rappresenta un pericolo per i dati dei cittadini Usa e la Federal Trade Commission l’ha multata per 5,7 milioni di dollari proprio per una storia legata alla privacy dei minori . In un anno l’app di Bytedance, società cinese valutata 75 miliardi di dollari, è cresciuta vertiginosamente- si stimano 2,4 milioni di utenti- ed è diventata un contesto da presidiare anche se non si è un teenager, dopo essersi imposta a livello globale come (unica) potenziale erede di Facebook e Instagram con 1,4 miliardi di download.
Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 21 gennaio 2020. Dalla Cina al resto del mondo. Con un miliardo e mezzo di utenti Tik Tok è il social network del momento e, dopo aver conquistato l'Asia, gli Stati Uniti e tutti i 150 paesi in cui è attivo, da un anno sta spopolando anche in Italia. Gli iscritti italiani all'applicazione cinese sono infatti triplicati negli ultimi 3 mesi raggiungendo quota 6,4 milioni e sancendo, anche nel Belpaese, il passaggio della piattaforma da punto di ritrovo adolescenziale a fenomeno di massa. Così a postare i tipici mini-video di 15 secondi o meno in cui si balla, si canta, si imitano dialoghi di film, si mettono in piedi scenette buffe e si fanno battute, non sono più solo ragazzini. A crescere in maniera esponenziale è stata infatti la parte più adulta degli utenti italiani (+258% per la fascia 25-34 anni), con il risultato che la mossa di Matteo Salvini, primo ed unico politico a sbarcare sul social qualche tempo fa, non pare più troppo assurda. In pratica seguendo i vari adolescenti Luciano Spinelli ed Elisa Maino - rispettivamente 7,2 e 4,4 milioni di seguaci - si è generato una sorta di effetto domino che sta portando aziende e celebrities ad iscriversi e fare un uso sempre maggiore del social. Fiorello, Michelle Hunziker, Rovazzi o Chiara Ferragni ad esempio hanno grande successo anche come tik toker, al pari di aziende e brand come Nike, Vodafone o XFactor che hanno utilizzato l'app per le proprie campagne pubblicitarie. La maggiore diffusione però, porta anche maggiori criticità. Le accuse mosse nei confronti del social nato nel 2016 dopo l'acquisizione dell'app musical.ly da ByteDance, azienda cinese proprietaria della piattaforma, sono sempre di più e sempre più preoccupanti. A rincorrersi non sono solo le classiche critiche mosse a tutti i social network, e cioè di essere progettati per creare assuefazione tra i propri utenti, di non essere abbastanza attenti alla sicurezza dell'app oppure di gestire la privacy in maniera approssimativa per avvantaggiarsi dei dati degli iscritti. Negli ultimi mesi le accuse sono diventate più pesanti. In molti ad esempio sostengono che i video postati (236 al minuto solo in Italia) siano utilizzati dall'azienda cinese per migliorare i sistemi di intelligenza artificiale e di video-sorveglianza su cui Pechino sta costruendo una leadership tecnologica. Allo stesso modo Tik Tok è al centro delle polemiche anche per la mancata possibilità di certificare i profili. L'assenza delle spunte blu infatti porta al moltiplicarsi di account che diffondono fake news nascondendosi dietro i volti dei politici di tutto il mondo. Non solo, c'è anche chi accusa ByteDance di trasferire e trattare i dati dei propri iscritti in Cina - pratica non consentita dal regolamento Ue per la privacy - oppure di tutelare in maniera inadeguata i minori iscritti. Nonostante il divieto infatti, sono milioni i bambini con meno di 13 anni che utilizzano la piattaforma - addirittura il 50% degli iscritti mondiali ne ha meno di 16 - e, spesso, sono in completa balia degli eventi. Non è un caso che in Italia si siano moltiplicate le indagini e gli arresti della Polizia postale con l'accusa di pedopornografia legata all'uso dell'applicazione. Così come non lo è che Tik Tok stia finendo sotto la lente d'ingrandimento dei tribunali di tutto il mondo. Lo scorso anno ad esempio l'app è stata bannata temporaneamente in India perché incentiverebbe violenza e pornografia ed è stata oggetto di un'indagine nel Regno Unito per la mala gestione dei dati dei minorenni. Tuttavia, complice il clima creato dalla guerra commerciale in corso con la Cina, sono gli Stati Uniti i più agguerriti. Dopo avergli comminato una multa da quasi 6 milioni di dollari per delle mancanze sulla gestione della privacy, ora l'autorità che indaga sugli investimenti esteri sta analizzando l'acquisizione di musical.ly da parte di ByteDance e la chiacchierata possibile influenza del governo cinese sui contenuti diffusi. Ma a scendere in campo è stato anche l'esercito americano che ha appena bandito l'uso dell'app sugli smartphone forniti dal governo considerandola «una cyberminaccia». Valutazione quest'ultima, che sembra preoccupare sempre più le autorità mondiali.
Da ansa.it il 3 gennaio 2020. Niente Tik Tok per i militari statunitensi. L'Esercito a stelle e strisce ha infatti vietato l'uso dell'applicazione cinese, popolarissima tra i giovani in tutto il mondo, sugli smartphone forniti dal governo. TikTok "è considerata una cyberminaccia", ha spiegato il tenente colonnello Robin Ochoa, portavoce dell'Esercito, al sito Military.com. "Non ne consentiamo l'uso sui telefoni del governo". Fino a un paio di mesi fa, TikTok è stato tra i social usati dal reclutamento dell'Esercito americano per raggiungere i ragazzi della Generazione Z. In seguito - riferisce sempre Military.com - sia il Dipartimento della Marina che quello della Difesa hanno lanciato un allarme sulla app. TikTok attualmente è sotto indagine da parte del Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti, che si occupa di analizzare le implicazioni, in termini di sicurezza nazionale, degli investimenti stranieri in Usa. L'indagine è volta ad appurare se il governo cinese possa raccogliere i dati degli utenti della app o esercitare un controllo sui contenuti pubblicati.
Tik Tok triplica gli utenti in Italia, ma i dubbi sulla privacy restano. Le Iene News il 18 gennaio 2020. Tik Tok invade lo spazio virtuale in Italia e segna un record: è passato da 2,1 milioni di utenti unici a 6,4 milioni in tre mesi. Con Nicolò De Devitiis vi abbiamo raccontato tutti i segreti dell’app che fa perdere la testa a milioni di giovani, tra cui i dubbi sulla privacy. È l’app del momento, conquista milioni di giovani e vola anche in Italia: Tik Tok ha triplicato gli utenti negli ultimi tre mesi, passando da 2,1 milioni a 6,4 milioni di iscritti. L’app cinese insomma continua nella sua sfida a Facebook e Instagram. In questi mesi ha raggiunto la più alta crescita nel panorama di internet italiano coinvolgendo giovani tra 25-34 anni e segnando un incremento del 258%. I dati sono stati comunicati da ComScore e si riferiscono al periodo che va da settembre a novembre 2019. Con Nicolò De Devitiis vi abbiamo raccontato come funziona l’app e tutti i segreti dietro Tik Tok nel servizio che potete vedere qui sopra. Ma come mai ha spopolato così tanto tra i ragazzini? “Su Tik Tok non serve essere una modella alta 1 metro e 80, sei una ragazza normale che va a scuola e ha i suoi classici problemi adolescenziali”, ci ha detto Giulia, la 16enne popolare su Tik Tok grazie ai suoi 3 milioni di follower. È molto facile usarlo: basta ripetere, a rallentatore, il testo della canzone selezionata e poi ci pensa l'app a rimetterlo a velocità normale. Il genio che ha messo in moto il social network del momento è stato il miliardario cinese Zhang Yimingun che due anni fa si è comprato Musical.ly per un miliardo di dollari. Musical.ly, come Tik Tok ti dava la possibilità di creare dei piccoli video da 15 secondi. In realtà di Tik Tok ne esistono due: uno in Cina, sotto il totale controllo delle leggi del governo cinese, e uno che ha invece i server negli Stati Uniti e a Singapore, proprio per rimanere staccato dalla possibilità di ingerenza del governo. La formula dunque funziona, la privacy invece? Resta ancora capire, dopo l’allarme hacker in cui hanno inserito video non autorizzati ed estratto dati sensibili: “Ed è vero che sono quasi tutti ragazzini, ma significa comunque che conosceranno tutte le abitudini e i consumi dei prossimi cittadini del mondo”, ha spiegato Montemagno.
Un miliardo di utenti su TikTok: così (seppure bandita) arriva la politica. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Martina Pennisi. L’applicazione cinese è il nuovo parco giochi degli spin doctor digitali. Gli organizzatori avevano vietato gli spot e i dibattiti su attualità o proteste, ma i video virali...Un post su TikTok che invita a votare Elkisabeth Warren: l’hashtag con il nome della candidata alle primarie del Partito Democratico totalizza poco meno di 5 milioni di visualizzazioni sul social cinese. Andrea ha 11 anni. Irrompe in cucina con lo smartphone nella mano destra e il tablet nella sinistra. Li sventola davanti alla madre, vuole convincerla a fargli aprire un profilo su TikTok, l’unico social network agognato da tutti i suoi compagni di classe. Lei è irremovibile, fino ai 16 anni non se ne parla. «Puoi continuare a guardare i video, ma niente profilo», sentenzia, borbottando che «è tutta spazzatura». È a questo punto che Andrea inizia a piagnucolare: «Ma c’è anche Salvini, quello che sta in televisione». Benvenuta (o no?), politica su TikTok. Ormai la chiacchieratissima applicazione cinese è il nuovo parco giochi degli spin doctor digitali: alcuni ci si sono già avventurati, altri si limitano a osservare cosa sta succedendo. Il perché è ovvio: con i suoi video da pochi secondi, in cui i ragazzini cantano, ballano e si inventano nuovi linguaggi e meme, l’app ha superato il miliardo di utenti attivi mensilmente, candidandosi come inedita rivale dei social di Zuckerberg. Piace agli elettori di domani, come Andrea, ma anche a chi già oggi può esprimere la sua preferenza alle urne: in Italia, i 18-24enni la preferiscono a Facebook e Instagram (ma non a Youtube). Poco importa, dunque, se i cinesi di ByteDance — la casa madre di TikTok — siano stati fra i primi del settore a bandire le pubblicità politiche e, secondo documenti pubblicati online da un sito tedesco, facciano di tutto per abbattere la visibilità dei contenuti inerenti al dibattito di attualità o di protesta, augurandosi che vengano sommersi dal flusso di coreografie o sketch simpatici: stanno accadendo due cose fuori dal loro controllo. Primo: per i politici il “purché se ne parli” inizia a valere anche su TikTok. Secondo: i ragazzini iniziano ad aver voglia di dibattere di ambiente, diritti e persino elezioni con questo nuovo linguaggio. Un esempio è la 17enne americana Feroza Aziz, diventata famosa per il finto tutorial di bellezza con cui è riuscita ad attirare l’attenzione dei follower e ad aggirare la paventata, applicata e poi smentita censura di TikTok per parlare della repressione degli uiguri in Cina. Un altro è quello di Alex Jackson, adolescente britannico che in un video ha “sparato” con le dita alle ragioni per cui votare Boris Johnson: «Dice solo bugie, scegliete Labour», concludeva nei giorni precedenti al voto del 12 dicembre. Il controcanto nella campagna elettorale glielo ha fatto (anche) Adam Cooper Hill, che si presenta con occhiali da sole, cappellino a visiera e l’immancabile colonna sonora dance (Stereo Love, di Edward Maya e Vika Jigulina) e sbeffeggia i laburisti perché “troppo aggressivi”. Dati alla mano, poche ore prima delle elezioni l’hashtag #borisjohnson stracciava quello #jeremycorbyn di più di due milioni di visualizzazioni. Nuovo social, vecchi equilibri, con la destra che sembra muoversi meglio e più rumorosamente? Negli Stati Uniti è così, senza alcun profilo ufficiale dei candidati alla Casa Bianca ma solo con citazioni più o meno spontanee. L’hashtag #Trump2020 vola oltre i 450 milioni di visualizzazioni, mentre per #Bernie2020 o #Warren2020 è una questione di decine di milioni o milioni. Pete Buttigieg è diventato Mayo Pete, invece di Mayor Pete: troppo bianco e insipido per essere credibile. Lui e anche la coreografia della sua campagna, sulla canzone High Hopes, accennata in modo annoiato per prenderlo in giro. Una mano tesa ai democratici è arrivata dall’esilarante account del Washington Post gestito dal 28enne Dave Jorgenson, che in un’intervista ha paragonato l’app alle vignette «presenti sui giornali da 300 anni». Andrew Yang, Beto O’Rourke, Julian Castro e Cory Booker sono comparsi in efficaci sketch di un account — quello della testata — che ha come priorità lo svecchiamento del suo marchio. Su TikTok il WaPo si sta muovendo molto bene ma per i ragazzini rimane, come nella descrizione, parte della strana categoria dei «giornali, che sono come degli iPad ma di carta». Insomma, il Washington Post è un buon alleato dei politici, ma procede a tentoni come loro mentre cerca di catturare l’attenzione della generazione Z. In Italia la situazione non è molto diversa dagli Usa: «Colpisce che i primi a sbarcare sull’app siano stati Giorgia Meloni, a sua insaputa (con il video-tormentone da più di 18 milioni di visualizzazioni “Io sono Giorgia”, che alla leader di Fratelli d’Italia ha regalato visibilità di rimbalzo anche sugli altri media, ndr ), e Matteo Salvini, che ha aperto un profilo ufficiale», riconosce Lorenzo Pregliasco, cofondatore di Quorum e YouTrend. Il leader della Lega ha racimolato più di 85 mila follower in un mese e molti (molti) commenti scettici. Il tentativo di far diventare virale l’hashtag ironico #colpadiSalvini (per esempio: «Piove? È colpa di Salvini»), rivisitazione dell’analoga campagna del 2011 dell’ex sindaco di Milano, non ha avuto grande successo: quasi tre milioni di visualizzazioni, ma raccolte praticamente solo dai suoi video. «La differenza fondamentale è che Pisapia non fece nulla. Nel suo caso fu un movimento spontaneo, dal basso verso l’alto, nato da una dichiarazione infelice della sua avversaria Letizia Moratti. Se la strategia parte dall’alto, invece, può funzionare ma è difficile che si propaghi nello stesso modo», dice Dino Amenduni, consulente politico e socio di Proforma. Starà facendo ragionamenti di questo tipo lo staff di Matteo Renzi che, a quanto risulta, è interessato a TikTok e sta studiando una modalità efficace per aprire e gestire il profilo dell’ex premier e fondatore di Italia Viva. Non è una sfida da poco. Spiega Amenduni: «Secondo gli ultimi dati Censis, il 90 per cento delle persone ritiene che i politici dovrebbero stare meno in televisione. Questo dato si può interpretare come una reazione alla propaganda e all’ipercomunicazione. TikTok, come le altre piattaforme, va presidiata solo se si riesce a essere credibili e coerenti con i propri obiettivi». Chiaro. Andrea, 11 anni, avrà tempo per fare queste valutazioni. Per ora, osserva sullo schermo dello smartphone quel buffo signore che gioca a palla o mangia la carbonara: «C’è pure Salvini, quello che sta in tv».
DONALD TRUMP Il presidente americano non ha un profilo ufficiale, ma l’hashtag #Trump2020 ha oltre 450 milioni di visualizzazioni.
ELIZABETH WARREN L’hashtag con il nome della candidata alle primarie del Partito Democratico ha poco meno di 5 milioni di visualizzazioni.
MATTEO SALVINI Il segretario della Lega ha un proprio profilo su TikTok, l’hashtag #colpadisalvini ha raccolto 3 milioni di visualizzazioni.
ANGELA MERKEL La cancelliera tedesca non ha un account TikTok, ma è entrata nelle tendenze con una serie di video parodia.
FEROZA AZIZ La diciassettenne americana è diventata famosa per il finto tutorial di bellezza con il quale ha denunciato la repressione degli uiguri in Cina.
ALEX JACKSON Adolescente britannico che in un video ha “sparato” con le dita alle ragioni per cui votare Boris Johnson.
Elisa Maino, che ha 4,5 milioni di follower su TikTok, dice a 7: «I messaggi seri non stonano».
La politica in formato TikTok?
«Funziona se si hanno affinità con il mezzo. Se si sanno usare in modo intelligente corpo e gesti, che su questa piattaforma sono il vero veicolo dei messaggi. Non se si vuole essere “giovanili” a tutti i costi: i giovani, quelli veri, se ne accorgono e rifiutano l’ atteggiamento».
Filippo Sensi, ex portavoce della presidenza del Consiglio con Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, oggi deputato molto social, noto in rete come @Nomfup, coglie potenzialità e rischi della app cinese in irresistibile ascesa.
«Molti vi approdano per raccogliere dati, provare a raggiungere l’ambitissima fascia 16-24 anni e fare “rumore bianco”. Aprono un profilo affinché i loro video vengano ripresi dai media tradizionali».
Rischiano però un effetto boomerang: «Quello che accadde a Mario Monti con il cagnolino Empy regalatogli da Daria Bignardi, un vero e proprio cortocircuito». Ma chi tra i politici di casa nostra potrebbe fare bene su TikTok? «In questo momento le Sardine, perfette perché sono un movimento che unisce Rete e piazza. Scommetterei su Mara Carfagna, Pippo Civati e la giovane Elly Schlein. Sono curioso di vedere soprattutto se e come la useranno le istituzioni, dall’Unione Europea alla presidenza della Repubblica, e le grandi testate di informazione». (Micol Sarfatti)
L'app del momento? Tik Tok! Ma è allarme hacker. Le Iene l'8 gennaio 2020. Scoperta una falla che attraverso la messaggistica della popolarissima app cinese avrebbe consentito agli hacker di inserire video non autorizzati o di estrarre dati sensibili. Con Nicolò De Devitiis vi abbiamo raccontato tutti i segreti dell’app che fa impazzire milioni di giovanissimi. È allarme hacker per la famosissima app cinese Tik Tok, di cui vi abbiamo raccontato i segreti nel servizio di Nicolò De Devitiis che potete rivedere qui sopra. È stata la società Check Point Research a scoprire una falla che permetterebbe agli hacker di caricare video non autorizzati, cancellare quelli esistenti e addirittura estrarre in modo non autorizzato dati degli utenti iscritti. La famosa app cinese, che ha provveduto a riparare la “falla”, ha spiegato che per potersi proteggere dal pericolo di intrusioni occorre aggiornare l'applicazione. Un modo per impedire che attraverso il sistema di messaggistica del sito si possa inserire un “codice dannoso”, o reindirizzare l’utente verso un falso sito Tik Tok, per portare a compimento truffe o sostituzioni di persona. Con Nicolò De Devitiis vi abbiamo raccontato dell’invenzione del miliardario cinese Zhang Yimingun, che due anni fa per l’incredibile cifra di un miliardo di dollari si è comprato il sito Musical.ly. Ma cos’è Tik Tok? Un portale che dà la possibilità di creare dei piccoli video da 15 secondi. È molto facile: basta ripetere, a rallentatore, il testo della canzone selezionata e poi ci pensa l'app a rimetterlo a velocità normale. Ma come mai ha spopolato così tanto tra i ragazzini? “Facebook oramai lo usa mia nonna” ci dice Giulia, la 16enne popolare su Tik Tok grazie ai suoi 3 milioni di follower. E oramai sembra quasi un lavoro! Giulia infatti ha tutti gli attrezzi del mestiere: “Questo è il mio Ring Light, uno specchio illuminato per fare venire il video al meglio”. Cosa ha di diverso dagli altri social? “Dopo tanti anni dove hai sempre gente di successo, con la piscina, sono ricchi...Tik Tok invece è un po' nuovo!” commenta Marco Montemagno, imprenditore digitale. “Su Tik Tok non serve essere una modella alta 1 metro e 80, sei una ragazza normale che va a scuola e ha i suoi classici problemi adolescenziali”, aggiunge Giulia. Come funziona? “Sono azioni: non è quindi un qualcosa che guardo e basta” ci dice Matteo Flora, il fondatore di una società che si occupa di reputazione digitale. E usarlo è anche molto facile: “Ci sono dei formati facilmente copiabili: delle mossette che tutti fanno uguali”, continua l'esperto. Ma la cosa che sembra più attirare i ragazzi è l'elevato numero di visualizzazioni che si riesce a raggiungere: “Quando tu produci contenuti su Instagram il numero di persone che raggiungi è molto piccolo, su Tik Tok questo fa 2 milioni di visualizzazioni”, ci spiega Montemagno. Un ottimo luogo, quindi, per guadagnare denaro. “Io sponsorizzo trucchi, prodotti per capelli e vestiti...”, ci spiega Giulia. Ma quindi guadagna tanto? Lei “non lo sa perché sono cose che gestiscono i genitori” ma noi possiamo dirvi che su Tik Tok si guadagna esattamente tanto quanto sugli altri social. Se quindi un tempo era la Silicon Valley, con i suoi Facebook, Google, Amazon e YouTube a dominare, oggi “la Cina si sta prendendo il mondo e questo potrebbe essere un problema” spiega Montemagno. “Siccome il governo cinese è dichiaratamente repressivo e censura contenuti, potrebbe decidere di applicare lo stesso approccio anche all'interno di Tik Tok all'estero”. Perché ora sono diversi? Perché in realtà di Tik Tok ne esistono due: uno in Cina, sotto il totale controllo delle leggi del governo cinese, e uno che ha invece i server negli Stati Uniti e a Singapore, proprio per rimanere staccato dalla possibilità di ingerenza del governo. Insomma, il tema della censura è complesso. La privacy invece? “Il grande problema è che non si sa cosa facciano con l'immensa quantità di dati di tutti gli iscritti”, spiega Montemagno. “Ed è vero che sono quasi tutti ragazzini, ma significa comunque che conosceranno tutte le abitudini e i consumi dei prossimi cittadini del mondo”, aggiunge Flora. Ma, quindi, qual è la ricetta che funziona sui social? “Non c’è una formula, ma c'è una ricetta che funziona con dei pubblici: più si abbassa l'età, più è breve il contenuto che le persone utilizzano”, continua Flora. E c'è qualcosa che funziona sempre? “Sì, le emozioni”.
Gabriele Porro per "ired.it" il 20 febbraio 2020. Su TikTok è diventata virale la Skullbreaker Challenge, un gioco pericoloso diffuso tra i ragazzi che potrebbe causare gravi danni fisici a chi lo subisce. Questa nuova “sfida” rientra a pieno titolo tra quelle diventate virali grazie a piattaforme come YouTube, TikTok o Instagram. nelle quali i partecipanti lasciano da parte il buon senso per guadagnare qualche like o visualizzazione online. In passato internet è stato spettatore di sfide, come la Tide Pod Challenge, che consisteva nel masticare una capsula di detersivo, o la BirdBox Challenge, che prevedeva di compiere azioni da bendati, che hanno avuto conseguenze anche gravi su alcuni partecipanti. Ora è il momento della Skullbreaker Challenge, che già dal nome non promette nulla di buono. La traduzione letterale è “spacca cranio”.
In cosa consiste la sfida. La sfida vede due complici sfidare la vittima a imitare i loro movimenti e a compiere un salto. In un primo momento i due complici si mettono ai lati della vittima e saltano contemporaneamente. In seguito sfidano la vittima dello scherzo, posta al centro, a fare lo stesso. Nella fase aerea del salto i due complici colpiscono con un calcetto all’altezza dei polpacci il povero malcapitato. Nulla di eccessivamente violento ma sufficiente a far cambiare il baricentro della vittima e a farla cadere al suolo di schiena. La caduta, che a quel punto non si può più controllare a causa dell’inaspettato cambio del punto di equilibrio, fa impattare violentemente la vittima al suolo, facendole sbattere la schiena e la nuca.
Conseguenze sulla vittima. Una caduta del genere potrebbe causare gravissimi danni a chi subisce lo scherzo. Un colpo alla nuca come quello che si prende cadendo in questo caso può causare lo svenimento immediato per via dello scuotimento del cervello. Inoltre, la violenza del colpo causa gravi traumi cranici che possono portare a danni cerebrali permanenti. Infine la caduta sulla schiena può causare traumi alla colonna vertebrale, che nei peggiori casi possono portare alla paralisi del soggetto.
Scrive a Dagospia, il 3 marzo 2020, un portavoce di TikTok: “La sicurezza e il benessere dei nostri utenti sono una priorità assoluta per TikTok. Come è specificato nelle nostre Linee Guida della Community, non consentiamo contenuti che incoraggiano, promuovono o esaltano sfide pericolose che potrebbero causare lesioni. Monitoriamo attivamente questa tipologia di contenuti e i nostri team rimuovono quelli associati a queste challenge che violano le nostre linee guida. Prendiamo inoltre ulteriori provvedimenti, laddove vediamo evidenti e seri rischi che potrebbero derivare da determinate ‘sfide’ lanciate dagli utenti. Ad esempio, ora appare una nota informativa sotto l’hashtag #Skullbreakerchallenge, che ricorda agli utenti di non imitare o incoraggiare la partecipazione ad acrobazie e/o comportamenti rischiosi che possano causare gravi lesioni o la morte”
Silvia Natella per "leggo.it" il 3 marzo 2020. Si chiama "Salt Challenge" ed è una nuova moda su Tik Tok, il social network che va per la maggiore tra i giovanissimi. Una mania pericolosissima secondo gli esperti e che consisterebbe nell'ingerire un'enorme quantità di sale da versare direttamente in bocca. Il tutto davanti a un cellulare pronto a filmare e condividere sulla piattaforma. Ed è allarme soprattutto per gli adolescenti, più inclini ad accettare sfide e a emulare i cattivi esempi. Per un selfie o un video a volte si è disposti a tutto e si sminuiscono le conseguenze. Circolano numerosi filmati in cui i ragazzi mangiano tanto sale svuotando i contenitori. L'alimento riempie le loro bocche fino a farli tossire o vomitare. Ed è così che poi si invita altri a fare lo stesso. La challenge è rischiosa e può portare a una grave disidratazione. Il Mirror riporta il parere di un medico, il dott. Simran Deo, il quale elenca tutti i pericoli legati a questa moda: «Come medico consiglio vivamente alle persone di non partecipare a questa attività. Mangiare troppo sale fa male alla salute nell'immediato e nel futuro. A breve termine, a seconda di quanto viene ingerito, mangiare troppo sale può essere velenoso. Questo perché aumenta i livelli di sodio nei nostri corpi portando sete intensa, confusione, nausea e vomito. In casi estremi può anche portare a convulsioni, a un coma o può persino essere fatale, poiché gli alti livelli di sodio fanno gonfiare il cervello all'interno del cranio. Recentemente è stata denunciata un'altra mania scoppiata su Tik Tok: si tratta della Skullbreaker Challenge, nata in America Latina. È uno "scherzo" di due ragazzi ai danni di un terzo, che viene convinto a fare un semplice saltello ma che viene poi sgambettato dai due amici lateralmente e finisce a terra, battendo violentemente testa e schiena. Un gioco crudele che ha fatto delle vittime.
Black Market, l’anima nera del Web dove comprare armi, droghe e documenti falsi. Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonio Castaldo e Milena Gabanelli. Le connessioni criptate sono uno spazio di libertà, ma anche un modo per commettere reati. Una ricerca dell’Usenix del 2015 stima in 150-180 milioni di dollari all’anno il fatturato illegale del Dark Web: armi, droga (che occupa il 58% del mercato con più di 26 mila tipi di sostanze diverse), carte di credito, conti correnti, codici bancari, passaporti e documenti falsi, farmaci, pornografia, gioielli falsi, pericolosi virus informatici. Si chiamano black market e si trova di tutto: sono una sorta di Amazon dell’illegalità, utilizzati da narcos e terroristi per ogni necessità. I dati scambiati vengono criptati tra un nodo e l’altro, rendendo impossibile identificare sia l’acquirente che il venditore. Ponendosi a metà strada tra domanda e offerta, il black market fa da garante su pagamenti che avvengono con moneta virtuale tra soggetti anonimi. Chi acquista, rigorosamente in bitcoin o con l’ancora più blindato monero, deposita il proprio denaro virtuale presso il market. Ma la transazione non viene completata fino a quando l’acquirente non comunica l’avvenuta ricezione del pacco. Solo in quel momento il gestore rilascia il pagamento diretto al vendor, trattenendo una commissione tra l’8 e il 4 %, tariffa scontata per i partner più affidabili. I banditi digitali sono dunque difficilmente smascherabili. Serve alta competenza informatica, tecnologia sofisticata, e fiuto investigativo. Quando questi requisiti coincidono, allora qualche risultato arriva. Una recente indagine del Nucleo Frodi tecnologiche e privacy della Guardia di Finanza, guidato dal colonnello Reccia, ha consentito di smantellare uno dei 25 principali black market presenti sulla rete del web clandestino: il nome che gli era stato dato sfruttava la popolarità di un noto leader politico italiano, era il Berlusconi Market. Nato nel 2017, il Berlusconi Market vantava ben 103 mila annunci ed era il quarto in ordine di grandezza tra i principali 25 esistenti. È stato chiuso lo scorso 7 novembre con l’arresto del presunto gestore, un ragazzo di 19 anni, e di due complici di 25 e 26 anni. L’organizzazione è interamente italiana, per la precisione pugliese. La modalità con cui i segugi informatici sono riusciti ad arrestarli è stata delle più «classiche». Hanno ordinato l’acquisto di modeste dosi di cocaina, e poi hanno passato al setaccio migliaia di pacchi di posta. «La nostra indagine è partita da un vendor chiamato nel giro G00d00 – racconta il colonnello Reccia – che riceveva richieste di acquisti da Usa, Australia, Europa. Individuata la regione di provenienza dei suoi pacchi, la Puglia, con la collaborazione del Centro Meccanizzato Postale di Bari siamo riusciti a localizzare la zona di Barletta: il mittente spediva da lì». Gli investigatori hanno dovuto simulare quattro acquisti, prima di poter risalire esattamente alla cassetta postale dove erano stati imbucati. A questo punto è stata piazzata una telecamerina mirata che ha immortalato G00d00 mentre imbucava pacchetti sospetti. Era un ragazzo di 26 anni, figlio di una coppia di professionisti. Analizzando tablet, cellulari, pc e messaggi whatsApp, sono risaliti al presunto gestore del Black Market, uno studente del Politecnico di Torino di appena 19 anni, Luis Di Vittorio, originario di Putignano, in provincia di Bari. Nella ricostruzione degli inquirenti, il suo nickname era Vladimir Putin, mentre quello dell’intermediario era Emmanuel Macron. Sul Berlusconi Market, bloccato su richiesta della procura di Brescia che ha coordinato le indagini, era possibile acquistare a meno di 5 mila euro un passaporto Usa, e a un prezzo leggermente inferiore un passaporto italiano, tedesco, olandese o francese. Un Ak 47 costava 700 euro, 230 una bomba a mano, ma erano disponibili anche revolver e pistole di vario tipo, fucili e mitragliatrici. La droga più trattata era la metanfetamina, seguita da Cannabis, Mdma e Cocaina. Un sesto del fatturato era costituito da dati bancari e banconote false, che si acquistavano a pacchetti: 650 euro per 100 pezzi da 50 euro. Gli acquirenti provenivano in gran parte da Olanda e Germania.Uno studio dell’università di Oxford dell’aprile 2018, posizionava Berlusconi Market al quarto posto dopo il più «antico» Dream Market, Tochka e Wall Street. Quando il Dream Market, all’inizio del 2019, ha chiuso i battenti per motivi ignoti, Putin e Macron commentavano non sapendo di essere intercettati: «Dream Market sta per chiudere, serve una full immersion», ovvero lavorare duro per conquistare il mercato del concorrente. Nei mesi successivi i vendor del sito appena disattivato sono in gran parte transitati nella piattaforma dello studente italiano, facendo schizzare il numero degli annunci oltre quota centomila. L’operazione italiana è unica nel suo genere. Ad oggi solo tre gestori di market mondiali sono stati arrestati. Il primo è stato Ross Ulbricht, informatico americano di 35 anni condannato all’ergastolo per aver fondato e gestito Silk Road, un grosso black market chiuso nel 2013. Nel 2017 è stato catturato il 24enne Alexandre Cazes, canadese, che gestiva Alpha Market e Hansa Market, chiusi in un’operazione congiunta di Olanda, Germania e Fbi. Cazes si è suicidato poco dopo l’arresto. Possedeva 3 gigantesche ville e 4 Lamborghini. E poi c’è il giovane informatico nato a Putignano, che al telefono con la fidanzata, sospettando indagini sui propri soci, si era lasciato andare a uno sfogo: «Se mi devono condannare per tutti i crimini che ho fatto, devono prendere la chiave e la devono buttare! Sostituzione di persona! Documenti falsi! Spaccio internazionale! Tutto! Si spicciano prima a dire cosa non ho fatto».
· L'Era Digitale.
Riccardo Luna per “la Repubblica” l'1 gennaio 2020. La mattina del 31 gennaio 2010 ero ad Oslo. L' elegante sede dell' istituto che ogni anno assegna il Nobel per la Pace era spolverata da una neve leggera. Avevo con me i documenti necessari per proporre una candidatura clamorosa e avevo scelto l' ultimo giorno utile per farlo: nel mio zaino c' erano duecento firme di parlamentari italiani che avevo raccolto personalmente; l' appoggio di una personalità che quel riconoscimento lo aveva già vinto, l' attivista iraniana Shirin Ebadi che dal primo giorno, con Giorgio Armani e Umberto Veronesi, sosteneva la candidatura; e un breve documento che spiegava perché avevo deciso di proporre Internet per il premio Nobel per la pace. Quel momento segna forse l' apice della tecno-utopia: la convinzione che la rivoluzione digitale avrebbe automaticamente creato un mondo migliore; che fosse sufficiente portare la banda larga ovunque per creare posti di lavoro e crescita economica; che bastasse dare a tutti accesso a tutte le informazioni perché le persone si informassero davvero; che la possibilità di contattare chiunque in qualunque momento avrebbe fatto emergere le cose che abbiamo in comune, piuttosto che quelle che ci dividono. Quella campagna, che a rivederla oggi appare quantomeno ingenua, ebbe un impatto incredibile: ogni giorno arrivavano video di appoggio da ogni angolo del mondo, dal Perù alla Corea del Sud. Eravamo tutti felici di essere connessi. Internet ci mostrava ancora solo il suo lato migliore: la prima arma di costruzione di massa. Ponti invece di muri. Il 7 ottobre 2010 il Nobel per la Pace venne assegnato a Liu Xiaobo, uno scrittore cinese che aveva definito Internet «un dono di Dio». Era come aver vinto.
Dieci anni dopo è cambiato tutto. Gli utenti della Rete sono passati da due miliardi (nel 2010) a quasi quattro e mezzo. Viviamo attaccati ad uno smartphone e ci prende il panico quando si scarica. Ci siamo abituati al fatto di poter comprare ogni cosa con un clic ed averla a casa il giorno dopo. Abbiamo tutta la musica, i libri e i film del mondo conservati in app facili da usare e a prezzi accessibili. Eppure è come se la tecnologia avesse perso la rotta. O l' innocenza. È diventata qualcosa da cui difendersi: difendersi dai robot che ci rubano il lavoro, dall' intelligenza artificiale che pensa per noi, dai social dove le nostre vite sono trasformate in profili psicologici accuratissimi che ci rendono inermi davanti al rischio di essere manipolati. Difenderci da noi stessi, dalla nostra incapacità di staccare: stare offline ogni tanto è diventato il nuovo status symbol. Tutto questo non è successo per caso. O all' improvviso. Sono stati gli anni in cui si è attuata ed è stata smascherata la sorveglianza digitale di massa, gli anni di Edward Snowden e di Cambridge Analytica; i social media che dovevano portare la democrazia laddove non c' era ("la primavera araba"), l' hanno messa in crisi dove aveva secoli di storia (il Regno Unito, gli Stati Uniti). Le bugie e l' odio non sono certo nati con il web ma è stato tale lo smarrimento per quello che stavamo vivendo in Rete che abbiamo inventato espressioni nuove per spiegarlo: fake news e hate speech. La Silicon Valley, dove la rivoluzione digitale è stata immaginata e realizzata fin dagli anni '70 come una sorta di guerra di liberazione, è diventata la roccaforte dei nuovi cattivi da espugnare. Non per tutti certo, ma sicuramente non è più la terra promessa. Nelle classifica delle aziende dove i giovani sognano di lavorare, Google e Facebook da quest' anno non sono più nelle prime dieci posizioni, Amazon non c' è mai stata. Tra i loro dipendenti si fa strada l' idea che servano istituti antichi, come i sindacati, per ritrovare la strada perduta. Tra i politici avanza la convinzione che servano nuove regole per arginare il potere che in pochi hanno accumulato. È come la caduta degli dei dell' Olimpo. Steve Jobs, che pure della trasformazione digitale delle nostre vite è forse stato l' architetto principale, è morto nel 2011; ma anche gli altri non stanno tanto bene. Il caso più clamoroso è quello di Mark Zuckerberg. Nel 2010 ha appena 26 anni e la sua epopea diventa un film di successo: The Social Network. Nove anni dopo quello che ci resta sono i suoi balbettii imbarazzati mentre i membri del Congresso americano gli chiedono conto degli errori fatti da Facebook con i nostri dati personali. Dove ha sbagliato? Negli studi che si iniziano a fare su cosa sia andato storto in questi anni, emerge un dettaglio importante: l' introduzione del tasto "like" è del 2009. Sembrava una innovazione innocente, un modo per evitare il ripetersi di commenti positivi tutti uguali; si è rivelata diabolica. Non solo perché ha creato una nuova élite digitale, gli influencer. Ma perché è diventato lo strumento per profilarci meglio. Il modello di business del web come lo conosciamo. È stato il "like" il frutto proibito che abbiamo colto e che ci ha fatto cacciare dal paradiso universale dove credevamo di stare? Lo diranno gli storici. Quello che già si può dire è che questa idea che il software possa da solo e automaticamente migliorare il mondo non è solo sbagliata: è sciocca. Ma ancora più sciocca è questa sensazione diffusa per cui si stava meglio prima, quando non c' era la tecnologia, quando non c' era Internet. Il mensile Wired, che è nato a San Francisco nel 1993 e che la rivoluzione digitale l' ha raccontata e a volte addirittura guidata, questo rischio lo ha visto benissimo qualche mese fa. È successo qualche mese dopo aver messo in copertina una foto ritoccata di Zuckerberg, come se fosse stato preso a botte. La copertina è del maggio scorso: a titoli cubitali dice «In Defense of Tech». In difesa della tecnologia. Dentro lungo saggio di Paul Ford chiude così: «Amo il mondo che abbiamo creato in questi anni, ma non posso negare che il miracolo è finito e ci resta un sacco di lavoro da fare».
I 10 oggetti hi-tech più attesi del 2020. Smartphone ma anche pc con lo schermo pieghevole, due nuove console per i videogame, le tv 8K e le altre frontiere in arrivo. Marco Morello l'1 gennaio 2020 su Panorama. Non sarà un’invasione, comunque ci attende un incremento di oggetti hi-tech dallo schermo pieghevole, non solo smartphone ma anche pc. Prepariamoci a un’ondata di divertimento, con due su tre delle principali console pronte al salto di generazione, più a prendere confidenza con la prossima sigla che tiene sotto l’ala i televisori dai pannelli sorprendenti. Già, l’8K. E poi ancora: più fotocamere sui telefonini, il 5G a caccia di una consacrazione, i soliti noti che sanno comunque farsi aspettare. Ecco i dieci gadget tecnologici, a oggi, più attesi di questo nuovo anno. E il motivo per cui vale la pena dedicargli un qualche conto alla rovescia.
Surface Duo. Sì, che poi basta prendere il G8XTHINQ di LG e c’è già uno smartphone con due schermi affiancati, che permette di svolgere operazioni in multitasking. Senza aspettare il Natale 2020, traguardo quantomai remoto ora che stiamo ancora digerendo i panettoni del 2019. Ma Microsoft che torna nell’arena dei telefonini con un oggetto sulla carta sensatissimo, dal design davvero curato, peraltro gemello in scala ridotta del Surface Neo (sempre due display, ma da 9 pollici), fa venire voglia di approfondire, saperne di più, metterci le mani sopra al più presto.
ThinkPad X1 Foldable. Esperienza, quella tattile, già fatta con una certa soddisfazione da Panorama.it per il pc di Lenovo con lo schermo che si piega in due. A un primo approccio, pare davvero centrato, utile, poter scegliere un oggetto che sta in mano come un’agenda, si apre come un libro o completamente o con un angolo di 90 gradi, su cui far apparire una tastiera virtuale o agganciarcene sopra una reale. Chi sostiene che c’è troppo immobilismo nel mondo della tecnologia, già così deve tacere.
Galaxy Fold 2. Diciamolo: con il suo Razr, Motorola ha dimostrato che per i telefonini lo schermo pieghevole ha più effetto wow se ne abbatte l’ingombro, ne minimizza lo spazio nelle tasche. Samsung, che con il suo Fold ha sdoganato il prodotto facendolo debuttare sul mercato, pare pronta al salto di qualità (e di forma) con l’arrivo di un dispositivo a conchiglia, analogo al Razr. I bene informati parlano di un prezzo aggressivo, paragonabile agli altri top di gamma della casa coreana. Se così fosse, il boom dei foldable, scorte e disponibilità permettendo, potrà considerarsi un fatto ovvio.
iPhone 12. Per il traguardo della dozzina del gioiello della Apple, sempre e comunque oggetto di tentazioni nonostante i non troppi scossoni sul piano formale, giungono spifferi di cinque declinazioni con schermi di varia taglia e prezzi per più portafogli. Ma il dato più interessante e francamente auspicabile, sarà la presenza a bordo di un modem per il 5G. La rete mobile superveloce di nuova generazione che in Italia non è esattamente decollata (ci vuole tempo, è evidente), anche per un difetto di domanda e curiosità da parte del pubblico, che satollo delle velocità del 4G non ne ha capito in pieno il potenziale. Ecco, diciamo che il termine latenza non è diventato lessico comune. La forza ecumenica dell’iPhone, innanzitutto sul piano della comunicazione, la sua capacità di far apparire come splendente e nuovissimo quel che del tutto inedito non è, potrebbe essere l’incentivo giusto per affermare o quantomeno rendere desiderabile il 5G.
P40 Pro. Le cinque telecamere sul retro mostrate dai primi render circolati in rete, sette in tutto contando anche quelle posizionate sul davanti, rilevano fino a un certo punto. Sul piano della cattura delle immagini i telefoni Huawei hanno pochissimi rivali e un miglioramento di qualche tipo è dato per scontato. Dopo la decisione di portare comunque sul mercato il Mate 30 Pro nonostante l’assenza delle app targate Google, la reale attrattiva sarà capire e seguire quale strategia metterà in piedi il colosso cinese, che intanto va rafforzando il suo ecosistema di app con incentivi agli sviluppatori. Già a febbraio, se ne saprà molto di più di quella che, oltre a una telenovela, è un gioco di forze contrapposte.
Xbox Series X. Il Natale che verrà sarà decisamente cruciale per Microsoft, quantomeno sul piano dell’hardware. Oltre che per i Surface con doppio schermo, anche per capire quale accoglienza verrà riservata al pubblico alla console orgoglio di casa, accompagnata da un blockbuster di gran peso come Halo Infinite. Il colosso di Redmond ha definito la prossima Xbox la più veloce e potente di sempre e non ci sono dubbi che sarà così. Ma il mercato dei videogame sta intanto abbracciando la strada del cloud (sebbene l’avvio di Stadia di Google non sia stato esattamente trionfale) e vira verso la fruizione in mobilità sugli smartphone, complici persino i form factor degli schermi doppi e pieghevoli che sembrano fatti apposta per ospitare intrattenimento. Insomma, sarà rilevante capire che posizionamento tenterà di dare Microsoft alla sua ultima creatura. Un lavoro che va fatto decisamente prima dell’uscita.
PS5. Si prenda il discorso fatto qui sopra e lo si applichi in maniera identica alla prossima PlayStation. Voci circolate in queste ore parlano di primi dettagli svelati durante una conferenza al Ces, la fiera mondiale della tecnologia di Las Vegas in programma tra pochi giorni. Anche se non sarà così, Sony lavorerà per costruire un hype degno del marchio, già fortissimo di suo. Titoli come Death Stranding hanno dimostrato (come se poi ce ne fosse bisogno) che i videogiochi hanno una potenza narrativa prodigiosa, che sono il medium più completo e rotondo nella galassia dell’intrattenimento. Rinforzarne i muscoli lato hardware vuol dire ampliare ulteriormente le possibilità creative nella sfera dei contenuti.
TV 8K. Quello dei televisori è un mondo bizzarro. Sono oggetti massicci, ingombranti, con tassi di sostituzione molto meno spediti rispetto agli smartphone. E meno male, sennò sai che disastro sul piano ambientale. Eppure, mentre ancora il 4K è ben lungi dal prendere piede, l’8K sgomita per diventare standard, nonostante ci sia poco o pochissimo da guardare. Nella mischia ci si stanno buttando un po’ tutti, al CES ne vedremo delle belle, LG ha da poco mostrato il suo splendido OLED, gli analisti parlano di un mercato globale da 27 miliardi di dollari entro i prossimi 4 anni. Insomma, questione di tempo. Sebbene nel 2024, poco ma sicuro, si starà già parlando di 16K o 32K.
iPad Pro. Dopo tutte questo raccontare delle sorti progressive della tecnologia, tra smartphone che diventano tablet e pc che si piegano con una certa disinvoltura, può ragionevolmente far sorridere questo innesto nella rassegna della solita, solida tavoletta della Apple. Di nuovo, come per Huawei, non lo facciamo per dare conto di cosa succederà sulle fotocamere (per la cronaca, dovrebbero essere tre e della stessa forma di quelli degli iPhone 11 Pro e 11 Pro Max, evviva), ma perché è su questo oggetto che Cupertino sta concentrando molti dei suoi sforzi evolutivi. Forse più di quanto sta facendo su pc e melafonini. L’ossessione dell’azienda californiana è che l’iPad possa, a tutti gli effetti, sostituire un computer tradizionale. Renderlo superfluo. Dopo le interessanti novità lanciate nel 2019, varrà la pena scoprire come questo intendimento sarà perseguito e irrobustito nei mesi a venire.
Il prossimo indossabile. Prima domanda: toccherà ai soliti orologi evoluti e dintorni fare tendenza, o sarà qualcosa di diverso, da qualche altra parte se non sul braccio? D’altronde, non dimentichiamolo, il 2019 è stato l’anno degli auricolari senza fili, a partire dagli AirPods Pro. E poi: a cosa porterà l’acquisto di Fitbit da parte di Google, quali ricadute pratiche avrà lato prodotto? Staremo a vedere. Se possiamo scegliere cosa avrebbe parecchio senso, sarebbe uno smartwatch con schermo pieghevole. Pc, tablet e smartphone ci sono già, quello è il tassello mancante.
· Quando si scriveva con la penna.
Ti ricordi di quando scrivevamo con la penna? Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 2 marzo 2020. Il mondo digitale e l’oblio del corsivo. La gran parte degli studenti americani non è in grado di scrivere o leggere una lettera in caratteri minuscoli. Una mutazione culturale e cognitiva dagli effetti incalcolabili. Qual è l’equivalente tipografico dello scarabocchio? Difficilmente i modernisti che hanno liquidato l’apprendimento del corsivo nelle scuole per sostituire penne e matite con tastiere elettroniche e altri devices potrebbero rispondere a questa domanda. La scrittura manuale non è soltanto una sofisticata funzione dell’intelletto ma anche lo specchio distintivo della nostra personalità: non esistono due scritture umane identiche, il tratto non mente al di là del positivismo farlocco di molti grafologi, negli intrichi stilosi dell’inchiostro si annida la voce travisata dell’io che può rendersi illeggibile o presentarsi in modo sfacciato. E a differenza delle impronte digitali la scrittura manuale è evolutiva, dall’infanzia alla vecchiaia accompagna le mutazioni di una vita modificandosi nel corso del tempo, prima incerta, poi sempre più definita fino a diventare rarefatta, quando non abbiamo più le forze. Un’abilità preziosa che gli esseri umani rischiano di perdere per sempre. La proliferazione di pc, tablet, smartphone e altri dispositivi e la possibilità di connettersi in ogni luogo tramite le reti wi-fi sta infatti rendendo obsoleta la stesura di un testo a mano, attività sempre più eccentrica e riservata alle vecchie generazioni o ai giovani cultori di una pratica un tempo essenziale e oggi sempre più relegata nel girone delle arti laterali, delle curiosità storiche. La gran parte degli studenti americani, ad esempio, ha serie difficoltà nello scrivere una lettera in corsivo: un tempo questa condizione era definita semi-analfabetismo, oggi è la conseguenza di una evoluzione pilotata in modo ideologico e burocratico dai tanti esperti dei dipartimenti di pedagogia Di fronte a questa dissipazione iniziano ad alzarsi voci preoccupate, non solo tra intellettuali e scienziati. La senatrice repubblicana dello Stato della Louisiana Beth Mizell è riuscita a far approvare un progetto di legge per reintrodurre l’apprendimento del corsivo nelle scuole: migliaia di neodiplomati nei licei della sua circoscrizione appena assunti da imprese locali non sono stati in grado di leggere documenti manoscritti in corsivo: «È inammissibile che i giovani sappiano scrivere a malapena la propria firma perché non ricevono più l’insegnamento elementare da anni». Come fanno notare da tempo i neuroscienziati, il progressivo oblio della scrittura manuale ha delle conseguenze sul funzionamento stesso del nostro cervello. Quando la penna scivola sul foglio compiamo un gesto selettivo, non potendo cancellare il solco dell’inchiostro, nella scelta dei vocaboli siamo più precisi e creativi: «Dire che nell’epoca del computer scrivere a mano non serve più è un mito senza fondamento. Al contrario le nostre ricerche mostrano che i giovani più abili nella scrittura in corsivo hanno una disposizione maggiore a concettualizzare gli argomenti e a risolvere i problemi. Le scansioni cerebrali mettono in luce un’attività neurale più elevata, usare una penna provoca molti benefici cognitivi, per esempio la conservazione più a lungo termine delle informazioni e con uno sforzo decisamente minore», spiega Virginia Berninger dell’Università di Washington, una specialista dell’apprendimento infantile che saluta la legge promossa dalla senatrice Mizell. È vero che fin dalla sua nascita la scrittura a mano ha corteggiato la velocità nell’idea di risparmiare tempo. Nei geroglifici egiziani viene accelerato l’uso dei legati per fluidificare la stesura; i sumeri per rispondere a questa esigenza di sintesi passano dal sistema pittografico al cuneiforme cercando di evitare, nei limiti del possibile, curve e ridondanze grafiche. Nel Medioevo molte parole vengono accorciate, le fioriture servono ad abbellire gli accenti ma senza occupare spazio orizzontale sul foglio. Siamo portati a credere che la scrittura in corsivo sia la più naturale per il suo incedere “senza staccare la penna dal foglio” ma non è così: i caratteri minuscoli sono stati una lenta acquisizione, greci e romani scrivevano nei laboriosi caratteri maiuscoli, tutti aste e gambe. Di mano in mano, poi, la scrittura è diventata “corsiva” ha letteralmente corso in avanti seguendo la stessa logica evolutiva della specie. «Che la mia mano corra veloce come la lingua, gli occhi, la mia memoria vivente: tutta la letteratura, tutta la “psicologia”, tutta la cultura sarebbero differenti se la mano non fosse più stata lenta del pensiero», sosteneva Roland Barthes nel Dégré zéro de l’écriture ripercorrendo la corsa parabolica della mano per tenere testa ai lampi improvvisi della mente. L’invenzione della stampa nel Rinascimento è servita a liberare gli scriba dal penoso compito della compilazione ammanuense e a diffondere la scrittura nell’involucro formattato del libro, ma le nostre corrispondenze private, i documenti amministrativi, tutti gli scambi tra umani sono sempre avvenuti sul filo della penna. Con la seconda rivoluzione industriale e l’avvento di macchine da scrivere e stampanti i caratteri tipografici entrano a far parte della nostra vita quotidiana come elementi funzionali e indispensabili alla vita sociale e alla cittadinanza, ma in privato si continuava ancora a scrivere a mano. È solo con la rivoluzione digitale e la popolarità dei dispositivi elettronici domestici, personal computer, lap-top e telefonini di ultima generazione che la scrittura manuale viene scaraventata fuori dalla nostra vita, oggi non si scrive più: si digita e lo facciamo ovunque. È accaduto in fretta, con brutalità, un “salto” nel vuoto della scrittura digitalizzata dove l’individualità umana viene sepolta dalla somiglianza uniforme dei caratteri. Ma soprattutto una mutazione culturale e cognitiva dalle conseguenza ancora incalcolabili.
· Le Scoperte utili ed inutili.
Andrea Federica De Cesco per "corriere.it" il 9 agosto 2020.
Il pompon sul cappello. Molti oggetti di uso quotidiano sono contraddistinti da dettagli apparentemente inutili. In realtà spesso questi particolari non sono frutto del caso, ma rispondono a scopi precisi. Per esempio il pom-pon che compare su molti cappelli di lana. Si penserà che sia un'aggiunta puramente estetica invece, in origine, aveva un suo preciso obiettivo. I marinai francesi li avevano aggiunti ai loro berretti per evitare di farsi male alla testa sui soffitti delle navi in caso di maltempo.
I margini nei fogli. Anche i margini dei quaderni hanno una loro inaspettata origine. Penserete siano stati aggiunti per inserire commenti o correzioni al testo, scritto solitamente da studenti e bambini. Invece no: i margini sono inizialmente stati applicati sulla carta da lettere per proteggere il lavoro di scrittori professionisti e non dalle morsicate dei ratti, abitante comune nelle case a quell'epoca. In questo modo, i roditori avevano carta da mangiucchiare prima di arrivare ai testi, ed evitavano ai proprietari di perdere ciò che avevano scritto.
Il buco sul bastoncino del lecca-lecca. Un'altra domanda che ci accompagna sin dall'infanzia è lo scopo di quel piccolo buchino alla fine del bastoncino del lecca-lecca, che si vede solo quando abbiamo finito di mangiare il dolce da passeggio. Il suo è un obiettivo più che altro di produzione. Sarebbe stato aggiunto per evitare che il caramello, caldo e fuso, finisca lungo tutto il bastoncino di plastica prima che si indurisca nello stampo.
L'ordine delle lettere sulla tastiera. Oggi tutti noi, o perlomeno nella maggior parte dei Paesi del mondo, utilizziamo la cosiddetta tastiera QWERTY. Il nome deriva dalle prime lettere che troviamo in alto a sinistra, ma vi siete mai chiesti perché sono state poste proprio in quest'ordine? Bisogna tornare indietro alle vecchie macchine da scrivere. In origine, i tasti erano disposti in ordine alfabetico, ma i dattilografi andavano troppo veloce: finivano per mandare in tilt i «bracci» della macchina, che si incrociavano e si incastravano. Così i produttori hanno pensato di sistemare le lettere in modo casuale, per rallentare intenzionalmente il lavoro. Ed ecco la nascita della tastiera QWERTY.
Il mini taschino dei jeans. Il taschino rettangolare cucito all'interno della tasca destra dei jeans è troppo piccolo persino per metterci le chiavi di casa. A svelarne la funzione è stata la regina stessa dei jeans. Come ha spiegato in un post sul suo blog l'azienda californiana Levi’s, il taschino fu introdotto a fine Ottocento come «watch pocket»: i cowboy lo usavano per riporre gli orologi da tasca e le pepite d’oro. Negli anni il taschino ha perso la sua funzione originale per ospitare altri oggetti, dai preservativi (come suggeriva uno spot del 1995 per i jeans 501) ai bigliettini da cui copiare durante i compiti in classe.
I bottoni sul mini taschino dei jeans. A indossare i jeans 150 fa erano soprattutto operai e minatori, che lavorando sottoponevano la stoffa a uno sforzo tale da ritrovarsi puntualmente con i pantaloni scuciti o bucati. Nel 1971 la moglie di un lavoratore, decisa a porre rimedio alla situazione, andò da un sarto, Jacob Davis, e gli chiese di creare un paio di denim che non si disintegrassero così facilmente. Lui ebbe un'idea: fissare alcuni «chiodi» a forma di bottone (il loro nome tecnico è «rivetti») nelle aree più delicate, quelle che entravano maggiormente in contatto con le superfici o si danneggiavano a causa dei movimenti. Davis poi contattò l'imprenditore tedesco Levi Strauss e, insieme, iniziarono a disegnare i nuovi modelli di pantaloni dotati di rivetto.
Il tessuto «extra» che vendono con i vestiti. Il pezzetto di stoffa che spesso viene venduto insieme ai vestiti tecnicamente è un campione di tessuto pensato per testare la reazione dei detersivi per bucato su quel tessuto particolare. Così, ad ogni lavaggio, possiamo controllare che il colore non si sbiadisca rispetto a quello originale.
La fessura sul manico delle pentole. La fessura sul manico delle pentole, in apparenza un banale vezzo di design, in realtà serve per riporre il mestolo o qualunque altro utensile con cui mescoliamo il cibo.
Il foro nel mestolo per gli spaghetti. Oltre che essere utile per fare passare l'acqua nel momento in cui assaggiamo la pasta per verificarne la cottura, il foro nel mestolo per gli spaghetti ha la funzione di dosatore. La quantità di spaghetti che ci entra corrisponde alla porzione standard per una persona.
Il collo lungo delle bottiglie di birra. Il collo lungo e stretto, utile per impugnare più saldamente la bottiglia e per evitare di scaldare il liquido con il calore delle mani, è tipico delle birre chiare, carenti di schiuma e con una bassa data di scadenza. Le birre scure e maggiormente alcoliche si trovano invece in bottiglie scure dalla forma più larga e dal collo basso. Queste differenze favoriscono una diversa ossigenazione e una diversa fermentazione in base al tipo di birra.
La rientranza sul fondo delle bottiglie di vino e di champagne. Questo tipo di bottiglia garantisce una maggiore resistenza meccanica alla pressione dei gas contenuti nello spumante e nel vino. Inventato nel IV secolo per lo champagne, grazie alla sua particolare conformazione il fondo «a campana» può essere realizzato anche con un vetro sottile. Ormai è comune a tutte le bottiglie di vino e spumante, con l'eccezione dello champagne francese Louis Roederer di tipo «Cristal», creato nel 1876 per lo zar Alessandro II. Lo zar chiese che la bottiglia avesse il fondo piatto e fosse trasparente (motivo per cui venne realizzata in cristallo) poiché temeva che qualcuno potesse usare il fondo a campana per nascondervi una bomba.
Il piccolo disco all'interno del tappo delle bottiglie di plastica. Il suo scopo è sigillare per bene la bottiglia ed è usato soprattutto per le bevande frizzanti, in modo da impedire la fuoriuscita del gas.
L'anellino sul retro delle camicie. Inventato negli Stati Uniti nel 1960, serviva per appendere le camicie - specialmente negli spogliatoi delle palestre, dove solitamente non c'erano armadietti e appendiabiti. Oggi ha più che altro una funzione decorativa.
Il piccolo buco nei finestrini degli aeroplani. Viene chiamato «foro di respirazione» e svolge un’importante funzione di sicurezza. Il tipico finestrino del passeggero è composto da tre pannelli. Quello più vicino al passeggero serve solo a proteggere il pannello di mezzo. I due pannelli più importanti sono quello esterno e quello di mezzo, che contiene il forellino. Quando un aereo prende quota, grazie ai sistemi di pressurizzazione la pressione all'esterno scende molto di più che dentro la cabina. Lo scopo del forellino del pannello di mezzo è riequilibrare la pressione fra la cabina e i due pannelli più interni, cosicché la differenza di pressione sia quasi tutta a carico del pannello più esterno, che è il più resistente. Nel caso il pannello esterno si rompa, quello in mezzo ne assume le funzioni. Il forellino serve anche a rilasciare l’umidità dell’aria compresa fra i pannelli e a impedire che si formino nuvolette o ghiaccio fuori dal finestrino, permettendo la vista.
La parte blu della gomma per cancellare. A chiarire la funzione della parte blu delle gomme Pelikan è stata l'azienda stessa, che presentando il prodotto ha scritto che la porzione di gomma blu serve per cancellare «inchiostro/inchiostro colorato/penne a sfera e pastelli». Ma la spiegazione non ha convinto molti. L'idea più diffusa è che la famigerata parte blu funzioni solo sulle superfici particolarmente spesse.
Il buco sul tappo delle penne Bic. Oltre a prevenire la perdita di inchiostro, il foro evita che i bambini (o gli adulti) che abbiano inavvertitamente ingoiato il tappo della penna soffochino. È dal 1991 che le norme di sicurezza prevedono che le penne abbiano quel buchino sul cappuccio.
I buchini sui lati delle All Stars. Secondo i progettisti, la principale funzione dei due buchini è fare ventilare il piede, evitando che sudi troppo. Ma un tempo i fori venivano usati anche per infilarci un secondo paio di stringhe, in modo da permettere un'allacciatura della scarpa più aderente. La Converse iniziò a produrre le All Stars nel 1917 con l'obiettivo di entrare nel mercato delle scarpe per il basket.
La freccia vicino alla spia della benzina. Niente di più semplice, e di più utile (soprattutto quando si usa una macchina a noleggio in un Paese straniero): serve a indicare su quale lato dell'auto si trova il tappo della benzina.
Le lineette in rilievo sotto la F e la J della tastiera dei computer. Queste righe, oltre che ai non vedenti, servono anche a chi sa scrivere senza guardare la tastiera e fungono da punto di riferimento per disporre le dita correttamente. Il tatto percepisce il rilievo su questi tasti, riservati agli indici, e il cervello è guidato nel disporre le restanti otto dita sul tasto convenzionalmente loro assegnato.
Il buchino nel righello. Più semplice di qualsiasi spiegazione che ci si possa immaginare. Serve — banalmente — per appenderlo al muro.
Il buchino accanto alla fotocamera dell'iPhone. Il foro in questione è un microfono con la funzione di registrare l'audio durante i filmati e consentire la cancellazione attiva del rumore. Grazie a questo microfono l'iPhone è inoltre in grado di riconoscere la nostra voce in maniera più chiara, interpretando meglio i comandi vocali utilizzati con Siri.
La cavità nel coperchio della confezione di Tic Tac. Ha la funzione di raccogliere una singola caramellina alla volta, così da non doversene versare una quantità imprecisata nella mano.
Il foro sul fondo dei lucchetti. In genere i lucchetti vengono utilizzati per fissare o mettere in sicurezza oggetti che si trovano all’aperto. Il foro che si trova in prossimità della fessura per le chiavi serve a far drenare l’acqua piovana e i vari residui di sporcizia rimasti incastrati. Viene usato anche per lubrificare il lucchetto attraverso olio di vaselina introdotto con una siringa.
Il secondo foro sulla linguetta delle lattine. Per utilizzarlo bisogna girare la linguetta verso l'apertura. Serve per infilarci la cannuccia con cui bere.
La rigatura intorno al perimetro delle monete. Quando le monete erano fatte d’oro e d’argento alcuni raschiavano via dai bordi un po’ di materiale per rubarlo. Per evitare questo inconveniente (a causa del quale le monete, perdendo il loro peso corretto, diventavano inutilizzabili) si è iniziato a creare monete con un particolare zigrinatura sui bordi, così da poter vedere subito quali erano state contraffatte e quali no. Oggi il motivo della rigatura è aiutare le persone non vedenti a distinguere fra le varie monete.
La forma esagonale delle matite. Lo scopo di questa particolare forma — tipica soprattutto delle matite utilizzate a scopi professionali — è garantire un’impugnatura perfetta. Così che la mano non scivoli durante la produzione del disegno.
I sacchettini di silicagel. Questa bustina piena di palline di silicio che troviamo spesso nelle scatole di scarpe, nelle borse e in molti altri oggetti serve per assorbire l’umidità che si potrebbe creare nella scatola stessa.
I disegni sulla carta igienica. Servono semplicemente per aderire meglio alla pelle e ottenere una maggiore pulizia.
La parte zigzagata della forcina. La parte zigzagata è la parte inferiore della forcina, quella che va rivolta verso il cuoio capelluto, in modo che la forcina stessa trattenga meglio i capelli.
Segnali stradali, due secoli di storia. Pubblicato venerdì, 10 luglio 2020 da La Repubblica.it. Allargare il tema dell’auto in un momento di ampie discussioni attorno alla mobilità. Con questo spunto il Museo Mercedes di Stoccarda ha organizzato una serie di iniziative che trattano altrettanti temi legati all’auto e alla sua evoluzione. Ai primi di luglio è stata inaugurata una sezione che raccoglie tutte le curiosità legate alla segnaletica stradale, dalla nascita alla unificazione dei simboli, fino alla manutenzione e alle nuove tecnologie. Una storia lunga più di quella dell’auto che è iniziata con le prime indicazioni che nel 1880 in Inghilterra erano dedicate agli utenti delle due ruote. Da allora il tema dal “comunicare” con gli utenti della strada in modo chiaro e univoco ha prodotto accordi internazionali (il primo del 1909 fra i principali Paesi europei per una serie di cartelli comuni) e quindi dato il via alla progressiva standardizzazione. Dalle città alle autostrade, fino ai circuiti dove proprio lo squadrone Mercedes diretto da Alfred Neubauer ha introdotto nel 1929 le segnalazioni fra il box e i propri piloti. L’arrivo delle nuove tecnologie ha cambiato la forma e i modi della comunicazione stradale ma non ha toccato i classici “cartelli” ai quali siamo abituati e la cui evoluzione ha riguardato comunque i materiali e i dispositivi per migliorarne la visibilità. Proprio Mercedes, fin dagli anni Cinquanta aveva allestito una speciale versione dell’Unimog equipaggiato con un quanto occorre per la pulizia e la manutenzione dei segnali stradali. Il simbolo dell’esposizione è un modernissimo pannello che proibisce l’ingresso ai mezzi a motore; quasi una contraddizione in termini ma anche lo spiraglio di un futuro che ci attende.
Alberto Mingardi per “l’Economia - Corriere della Sera” il 7 luglio 2020. Sono tanti i prodotti del futuro per cui il futuro non è mai arrivato. La Segway ha fermato la produzione del suo Personal Transport, quella sorta di biga a motore che sembrava destinata a rivoluzionare la mobilità. Magari il Segway Pt era una soluzione, ma col passare del tempo è diventato meno chiaro che problema volesse risolvere. Così, lo strano veicolo è finito fuori produzione per il più banale dei motivi: non lo comprava nessuno. «La fine della corsa del Segway ci ricorda che l’innovazione dipende dall’entusiasmo liberamente espresso del consumatore - ci dice Matt Ridley -. Il Segway era stato salutato come il futuro dei mezzi di trasporto individuali, ma non ha mai convinto le persone normali della sua utilità. È il consumatore il giudice ultimo del valore di una innovazione». Non è detto però che il lavoro fatto sia andato perduto. La Segway ha accumulato esperienza nel settore dei «trasportatori personali a due ruote» e di questi fanno parte i monopattini elettrici per i quali, invece, i consumatori mostrano molta attenzione. Da poco ha presentato una nuova poltrona mobile che assomiglia a quelle usate dai nostri pigrissimi nipoti nel cartone animato Wall-E. «Il fallimento è solo l’occasione per ricominciare in modo più intelligente», diceva Henry Ford. Matt Ridley, giornalista scientifico, a lungo a l’Economist , autore, nel 2010, di un saggio che fece epoca, L’ottimista razionale. Come evolve la prosperità (Torino, Codice Edizioni, 2013), ha appena pubblicato How Innovation Works: And Why It Flourishes in Freedom (New York, Harper Collins, 2020). A scorrere la sua bibliografia (a partire da Il gene agile , Milano, Adelphi, 2005), parrebbe che per la prima metà della sua vita si sia occupato di biologia e nella seconda invece si stia occupando di economia. Lui risponderebbe che in realtà non ha mai cambiato mestiere. L’innovazione è per Ridley un fenomeno che obbedisce alle logiche della selezione naturale: o meglio, del procedere per tentativi ed errori «che è la versione umana della selezione naturale». «La ricombinazione è la principale fonte di variazione su cui si basa la selezione naturale, per l’innovazione biologica. Il sesso è il mezzo con cui avviene la maggior parte della ricombinazione. Il maschio offre i suoi geni a un embrione e così fa la femmina. Questa è una forma di ricombinazione, ma quello che succede dopo è ancora più importante. Quell’embrione, quando si tratta di produrre spermatozoi e cellule uovo, scambia parti del genoma del padre con parti di quello della madre in un processo noto come incrocio. Mescola il mazzo genetico, creando nuove combinazioni da passare alla generazione successiva. Il sesso fa sì che l’evoluzione sia cumulativa».
La nascita. L’innovazione accade, sostiene Ridley, quando a fare sesso sono le idee. La storia della ferrovia ha inizio quando l’idea di utilizzare binari per far scorrere carrelli, utilizzata nelle miniere di carbone inglesi, si accoppia con quella della macchina a vapore. Richard Trevithick inventa la prima locomotiva a vapore nel 1804, ne costruisce un’altra nel 1808, poi perde interesse, non riesce a trovare acquirenti per i suoi progetti, morirà senza il becco di un quattrino. Trevithick aveva cominciato a lavorare giovanissimo per la stessa miniera per la quale lavorava il padre: fu lì che scoprì di avere doti per l’ingegneria, che era un mestiere che si imparava a bottega. In miniera comincia anche la carriera di George Stephenson, un altro autodidatta. «Un ricco quacchero, mercante di lana e filantropo, Edward Pease, voleva costruire una ferrovia trainata da cavalli, anziché un canale, per portare carbone, lana e tele da Darlington a Stockton». Costruire una infrastruttura del genere richiedeva una atto del Parlamento e dunque un certo investimento in avvocati per procurarsi la necessaria autorizzazione. Pease ottiene la nuova infrastruttura e incontra Stephenson che, incuriosito dal progetto, propone di aggiungere alle carrozze a cavalli anche dei convogli con locomotiva a vapore. Nasce così la prima linea ferroviaria della storia, fra le proteste dei proprietari terrieri, spaventati dal rumore di queste «macchine infernali» che potevano raggiungere persino i 18 chilometri all’ora. La metà della velocità di un cavallo al galoppo, destinata a restare, per qualche anno ancora, la più elevata mai raggiunta da un essere umano.
La narrazione. «L’innovazione è il fatto più importante del mondo moderno, ma è anche uno dei meno compresi». Per Ridley, il guaio è che per capire l’innovazione, esattamente come per l’evoluzione, bisogna rinunciare all’idea di un disegno intelligente. Le storie riunite da Ridley nel suo libro suggeriscono che l’innovazione è un processo graduale ed evolutivo, che viene erroneamente descritto in termini di «rivoluzioni, eroiche scoperte e improvvise illuminazioni». Questa descrizione la dobbiamo «alla natura umana e ai sistemi per la protezione della proprietà intellettuale»: l’una e gli altri accentuano, vuoi per il gusto del racconto vuoi per interesse, i contributi del singolo innovatore, dimenticando concorrenti e predecessori. È «naturale», per l’appunto, che chi inventa il Segway lo presenti come il veicolo del futuro, non un anello di una più vasta catena di cambiamenti. L’innovazione è uno sport di squadra, solo che i membri della squadra non sanno di giocare insieme. Alcuni vivono in epoche diverse. Molti di essi non sono scienziati di professione. Ridley ribalta il modello lineare che vede prima la fase della scoperta scientifica e poi quella delle applicazioni. Ogni tanto capita l’esatto contrario. Le innovazioni prendono piede semplicemente perché funzionano e si trasmettono, si riproducono e «fanno sesso» con altre idee, prima ancora che si capisca chiaramente perché funzionano. Lady Mary Wortley Montagu vede a Costantinopoli che le donne turche si pungono con aghi intinti nel pus delle pustole vaiolose. Si contrae così una forma attenuata di vaiolo, che tuttavia conferisce una immunità permanente. L’innovazione «spesso precede la comprensione. A una persona ragionevole nel diciottesimo secolo l’idea di Lady Mary che l’esposizione a un tipo di malattia mortale potesse proteggere contro quella stessa malattia doveva sembrare folle. Non aveva base razionale. Fu solo nel tardo Ottocento che Louis Pasteur cominciò a spiegare perché la vaccinazione funzionava». Le conoscenze a nostra disposizione, oggi, sono assai maggiori che in passato ma l’innovazione resta, spiega Ridley, l’avventura dell’impredicibile. Gli inventori di Yahoo e Google non volevano realizzare un motore di ricerca, i creatori di Instagram credevano di stare sviluppando una app per il gaming. Roy Plunkett stava facendo delle ricerche su un nuovo gas refrigerante e inventò il teflon per incidente. Le novità nascono dal caso e dalla libertà di sperimentare. Noi invece tendiamo a raccontarle sulla base del solito modello lineare, dal quale dedurre che abbiamo bisogno di più investimenti in ricerca. Forse, ma senza la libertà di provare e di sbagliare le risorse servono a poco.
Andrea Cionci per "lastampa.it" il 15 aprile 2020. La borraccia militare in senso moderno risale alla seconda metà dell’800, eppure i Romani l’avevano già inventata. Una di queste è stata appena rinvenuta, in straordinarie condizioni conservative, presso la cittadina di Seynod, nella Francia sud-orientale. Artefici della scoperta, gli archeologi dell'Istituto Nazionale per la Ricerca Archeologica Preventiva (INRAP). Sul sito dovrebbe sorgere un centro commerciale, o qualcosa del genere, ma fin dalle prime indagini sono emerse le testimonianze di un luogo sacro romano dotato di due o tre piccoli templi dei quali sono rimaste solo le fondamenta in pietra. In due di questi, il pavimento della cella (lo spazio chiuso del tempio) e il vestibolo possono essere chiaramente identificati e riferiti alla prima metà del IV secolo. Tuttavia, il sito doveva essere più antico: il ritrovamento di ceramiche della fine del I sec. fanno datare a quell’epoca la prima costruzione del santuario. Oltre ai templi, sono emerse 42 tombe dalle dimensioni molto diverse: la maggiore è larga più di due metri, la più piccola solo un metro e mezzo. All'interno di alcune di queste sono state trovate monete, ceramiche e figurine. Tra i diversi oggetti votivi, è spuntata una “laguncula” in metallo del IV sec. d.C. che apparteneva quasi sicuramente a un legionario. "Si tratta di un ritrovamento eccezionale per lo stato di conservazione – spiega l’archeologo Carlo Di Clemente - ne esistono solo pochissimi altri esemplari rinvenuti da scavi. La “laguncula” era la fiasca recipiente, solitamente in rame, bronzo o altre leghe, che ogni legionario portava con sé per conservarvi la sua razione quotidiana di cereali, che avrebbe poi consumato assieme ai compagni del suo “contubernium”, la più piccola unità dell'esercito romano (8 soldati). L'approvvigionamento alimentare dell'esercito romano era estremamente efficiente: per una legione (circa 5000 uomini) occorrevano attorno alle 12 tonnellate di cereali al giorno." Il contenitore, dalla forma molto graziosa, è composto da due dischi di ferro uniti da piastre in bronzo dal contorno lobato come quello di una foglia di quercia. Di bronzo è fatto sia il manico incernierato che il tappo, una volta collegato alla fiasca da un cavetto metallico, sempre in lega di rame, di cui è rimasto un frammento. Sia il tappo che la base sono decorati con cerchi concentrici. L’interno era rivestito di cera o di pece per impermeabilizzare il recipiente e, non a caso, sono state individuate tracce di questo materiale. Ancor più interessante come si siano conservati i resti del contenuto organico della borraccia. Secondo le prime analisi si tratta di semi di miglio (Panicum miliaceum, cereale largamente consumato dai Romani) more, con tracce di latticini. Forse aveva trasportato anche olive, data la presenza di acido oleanoleico. La laguncula era quindi anche una sorta di gavetta, dato che poteva contenere cibi solidi. Per l’acqua, infatti, i legionari avevano in specifica dotazione l’otre. Spiega lo storico militare e archeologo sperimentale Flavio Russo: “Questo era una fiasca realizzata in pelle di capra ed aveva il vantaggio di non rompersi con le cadute o gli urti. Il pelo esterno, se bagnato, consentiva di rinfrescare il contenuto per la sottrazione di calore prodotta dall’evaporazione. Il suo utilizzo giunse perfino alla Grande Guerra dove veniva chiamato “ghirba”. Per estensione, “salvare la ghirba” cominciò a significare, nel gergo militare, salvarsi la vita. L’otre svolgeva anche un’ utilissima funzione: se riempito d’aria, costituiva un vero e proprio salvagente che consentiva al legionario di guadare i corsi d’acqua. Gli otri di pelle, se utilizzati in massa, potevano anche servire per realizzare ponti galleggianti”. Tornando alla laguncula, stupisce come sul mercato degli accessori per la rievocazione storica questa borraccia sia già da tempo presente, riprodotta con caratteristiche del tutto simili a quella antica ritrovata. Questo ci consente di apprezzare come doveva presentarsi “nuova”. Sicuramente era un oggetto di un certo valore, come tutti quelli metallici, all’epoca, al quale il legionario doveva tenere particolarmente. Forse proprio per questo fu lasciata in una delle tombe. Magari, l’estremo omaggio di un commilitone, di un amico, di un fratello? Non è solo un ritrovamento archeologico: la ruggine e il verderame che ricoprono la laguncula evocano una storia di dolore e di affetto che non sapremo mai.
Il collare che fa parlare il cane e il computer che si controlla con la mente: gli oggetti più folli e geniali del CES 2020. Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 da Paolo Ottolina, inviato a Las Vegas, su Corriere.it. Il collare che fa parlare il cane e il computer che si controlla con la mente: gli oggetti più folli e geniali del CES 2020. Robot che giocano a tris, suole mutanti che si adattano al terreno e una stampante per tatuaggi temporanei: così le start-up provano a impressionare il pubblico. Il CES di Las Vegas è una foresta di oltre 4.000 espositori in cui inoltrarsi per scovare le idee che cambieranno il futuro. Ma accanto alle vere tendenze già in atto, dall’intelligenza artificiale al 5G fino ai veicoli elettrici a guida autonoma, ci sono le intuizioni bizzarre. Oggetti sorprendenti, a volte geniali, più spesso inverosimili e in alcuni casi, pensandoci bene, assolutamente inutili. Computer che si comandano con la mente (più o meno), collari che fanno “parlare” il vostro cane, lettiere per gatti che si autopuliscono, macchinette automatiche per tatuaggi temporanei: ecco che cosa abbiamo visto finora.
Nextmind. I computer collegati direttamente al nostro sistema nervoso, in grado di recepire ordini impartiti dalla mente, li abbiamo visti finora solo in pochi, pionieristici laboratori. E nella fantascienza, tipo quella della serie Black Mirror, dove di solito le cose finiscono male. NextMind, una startup “neurotecnologica”, ha portato al CES il suo prototipo di dispositivo in grado di far funzionare un software con il solo pensiero. Si indossa una di calottina, si calibra la macchina e poi, per ora, si riesce (più o meno) a muovere il personaggio di un videogame da destra a sinistra cattura i dati dei segnali elettrici generati dall’attività cerebrale dell’utente, utilizza algoritmi di machine learning, trasforma i segnali in comunicazione con il computer, ma un domani, dicono gli inventori, con qualsiasi oggetto tecnologico.
Inupathy. Chi ha un cane ha imparato a capire le sue esigenze e le sue emozioni, ma se non siete certi di quello che il vostro animale domestico vi vuole dire ecco Inupathy: un collare che registra il battito cardiaco dell’animale e lo traduce in “parole”. O meglio, in colori associati a stati d’animo. Ad esempio il verde significa “benessere”. Ma probabilmente il vostro cane sta scodinzolando e non c’è bisogno di un collare smart da 400 dollari.
Osé, Onda e Baci. Tre nomi italiani per tre sex toys “smart” premiati in fiera. L’anno scorso Osé era stato privato del suo premio per “oscenità”, poi il riconoscimento era stato restituito dopo mesi di furiose polemiche.
Tali. Uno “smart helmet” che garantisce connessione alla rete, interazione con lo smartphone e più sicurezza grazie a un sistema di luci led che si attivano con le frenate.
Wello. Un triciclo elettrico alimentato da pannelli solari, velocità fino a 40 km/h, con possibilità di gestire e controllare da remoto una flotta di veicoli.
Wahu. Una delle 3 start-up italiane che quest'anno hanno ricevuto il prestigioso Innovation Award del CES, Wahu nasce dentro e-novie la "fabbrica di aziende" di Milano. L'idea è quella di una suola smart capace di mutare assetto e di adattarsi a diversi terreni. "Oggi lo fa attraverso un'app, ma è già in grado di rilevare il tipo di terreno. Domani riuscirà a farlo in maniera proattiva. Pensiamo di sfruttare Wahu inizialmente per attività specifiche, quali escursioni in montagna su terreni diversi, roccia, neve o ghiaccio" ci spiega Patrizia Casali, 27 anni, ingegnere biomedicale uscita dal Politecnico di Milano.
Prinker. Una stampante per tatuaggi, cancellabili: dallo smartphone si manda l'immagine desiderata, poi si appoggia Prinker al corpo e il tatuaggio è fatto. I tattoo resistono all'acqua ma si cancellano con un po' di sapone, al massimo durano 36 ore.
Wayzn. Avete un animale domestico e vivete in una casa con porte-finestre a scorrimento? Wayzn rileva l'attività di cani e gatti attraverso un collare e apre/chiude gli infissi quando vogliono entrare o uscire.
iKuddle. All'Unveiled, l'esposizione che anticipa il CES vero e proprio mettendo in mostra idee premiate o assai originali, aveva molte start-up dedite al "pet tech", la tecnologia per gli animali domestici. iKuddle è un altro esempio: un'ecosistema di oggetti smart per cani e gatti. Ci sono la lettiera che si svuota da sola, il dispenser di cibo e la fontanella automatizzati.
Oxicool. L'onda verde guidata da Greta Thunberg è arrivata fino al CES. Oxicool è un condizionatore che promette di ridurre del 90% l'impatto ambientale di questi elettrodomestici, usando solo acqua corrente (che viene riciclata) per creare il fresco. Peccato che l'unità esterna sia un cubo di quasi 2 metri per 2.
Flying Gondola. Un'idea made in Japan di un veicolo volante personale, una sorta di drone per il trasporto di persone.
Y Brush. Perché impiegare 2 minuti a lavare i denti quando puoi metterci 10 secondi - dicono i creatori di Y Brush - usando questo spazzolino elettrico a forma di Y che pulisce tutta la dentatura allo stesso tempo?
Pix. Uno zaino per farsi notare: ha decine di led sul retro, i disegni o le animazioni (in stile grafica 8 bit), si possono personalizzare o creare tramite un'app. Prezzi da 150 dollari.
Smardii. Sì, è quello che sembra: un pannolone connesso.
Motion Pillow. Un cuscino smart, in grado di adattare forma e durezza alle abitudini e alle preferenze del proprietario.
Waver. Un drone giapponese in grado di muoversi sulla terra, in aria e a pelo d'acqua, con sensori in grado di creare scansioni tridimensionali dei fondali di un bacino d'acqua.
Qoobo. Un gatto-cuscino robot con coda semovente: se lo accarezzi fa le fusa come un gatto vero (ma non graffia, d'altronde non ha le zampe).
Pollen Robotics. Tra i tanti robot del CES 2020, questo di Pollen Robotics forse è quello più papabile per un ruolo nella prossima trilogia di Star Wars. Per ora sa giocare a tris.
Luca Tremolada per ilsole24.ore.com l'1 gennaio 2020. La rivista “Time” ogni anno seleziona 100 invenzioni. Noi ci accontentiamo di 10, magari guardando anche ai settori che secondo noi alimenteranno prossime innovazioni nel corso del prossimo anno. Molti di questi oggetti sono appena nati. Vanno presi per quello che sono, finestre sul futuro.
1) Impossible Burger 2.0. La carne non carne, l’hamburger vegetariano che prova a imitare il sapore dell’originale. Impossibile Burger non è più solo a una trovata di moda che ammicca a vegetariani e vegani ma sta assumendo la forma di una catena di ristoranti vera. Dopo l’accordo con Burger King stanno studiano piatti fake di pesce e pollo.
2) Osso Vr. Questi sono anni di digitalizzazione estrema della sanità. Le tecnologie per l’healthcare stanno conoscendo una fase di fortissima sperimentazione sia nella ricerca e nella diagnosi medica sia nella relazione tra dottori e pazienti. Osso Vr è una delle tantissime innovazioni che stanno provando a trovare spazio. Si tratta di un sistema di realtà virtuale per chirurghi. Non siamo all’operazione chirurgica a distanza. Il casco virtuale proietta una sala chirurgica dove l’apprendista chirurgo impara dal collega più anziano vedendo come opera. È già stata utilizzata nei Paesi in via di sviluppo.
3) OrCam MyEye 2. Anche le tecnologie al servizio dei disabili stanno generando finalmente prodotti commerciali. OrcCam MyEye 2 è un dispositivo pensato per ipovedenti e non vedenti. Si tratta di una piccolissima telecamera da fissare sopra la stanghetta degli occhiali. Legge attraverso tecniche di image recognition codici a barre, volti e altri marker digitali. Li riconosce e le racconta con “la voce”. È disponibile in 48 Paesi.
4) Casper Glow Light. Siamo dalle parti delle tecnologie per il sonno, che lo aiutano e lo monitorano. In questa caso è buona la prima. La lampada da camera Glow collegata ad una app, è progettata per emettere una calda luce a Led che si attiva quando la capovolgi, quindi si attenua gradualmente mentre ti rilassi. Al mattino, Glow si attiva lentamente all'ora prestabilita per svegliarti delicatamente. Un movimento a spirale regola la luminosità, mentre una vibrazione produce una luce leggera.
5) Postmates Serve. Non poteva mancare, più che una invenzione è un segno dei tempi. È un robot per le consegne a domicilio. Può trasportare fino a 20 kg e avrebbe una autonomia di 45 km che non è tantissimo se ci pensiamo bene. Non è ancora un prodotto commerciale ma è già stato impiegato per consegnare cibo e pasti a casa. Nel mondo sono numerose le sperimentazioni di funzionamenti di questo tipo. Ad oggi però non esiste ancora un distributore di cibo completamente robotico.
6) OR Black Box. È una scatola nera che registra tutto quello che avviene in sala operatoria. Sviluppata dal chirurgo di Toronto Teodor Grantcharov registra i dati per tenere traccia di qualsiasi cosa vada storta e migliorare la sicurezza generale. La Black Box è operativa in Europa dal 2017 e uscirà negli Stati Uniti il prossimo anno.
7) Walnutt SPECTRA X. Andrebbe provato ma questo skateboard promette di essere in grado di accorciare la curva di apprendimento per imparare a usarlo. Gli skateboard elettrici sono una novità ma non sono accessibili per tutti. Nel senso che non sono facili da usare come una bicicletta o uno scooter. La startup di Hong Kong Walnutt dice di stare usando algoritmi di Ai per controllare e suggerire la postura corretta quando si corre e inoltre stabilizza la tavola per aiutare i principianti.
8) Watergen GENNY. Anche questo andrebbe provato. Loro sono una società israeliana, Genny è una macchina che estrae l’umidità dall’aria per creare acqua potabile attraverso un sistema di filtri brevettato. Il funzionamento pare quello di un deumidificatore, ma più sofisticato. Un'unità Genny promette di produrre sette galloni sono con l’energia solare. Non è chiaro però quanta energia serva. Il prodotto però non sembra destinato solo ai Paesi in via di sviluppo.
9) BrainRobotics AI Prosthetic Hand. Si tratta di una mano robotica. A differenza di altre protesi simili, la mano di BrainRobotics dice di utilizzare sistemi di intelligenza artificiale per interpretare meglio i comandi che riceve da chi la indossa. Il sistema ha inoltre otto sensori che rilevano i movimenti dei muscoli del polso, gestendo i movimenti delle dita e del palmo. Siamo ancora in laboratorio, il prodotto è in fase di test.
10) LightSail 2. Lanciato a giugno il satellite LightSail 2 usa l’energia solare come combustibile. Apparentemente è una vela argentata. Bellissima da vedere e da immaginare libera nello spazio.
La Felpa col Cappuccio. Alba Solaro per “Il Venerdì” il 27 dicembre 2019. Una mattina dello scorso novembre, Catherine Dorion, 37enne parlamentare del partito democratico Québec Solidaire, si è presentata in aula con indosso una felpa arancione col cappuccio. Se fosse arrivata in mutande probabilmente avrebbe scandalizzato di meno, ma era già da un po' che i parlamentari più conservatori sbuffavano di fronte alle sue t-shirt, i berretti di lana, le Doc Martens. L' hoodie (non esiste una parola italiana per indicare la felpa col cappuccio) però era diverso. Non era semplicemente troppo informale. Rappresentava una sfida; e così sulla non proprio ignara Catherine è caduta una pioggia di accuse, l' invito a dimettersi in anticipo, il caso è finito sui giornali e ha fatto il giro del mondo. Tutto per una semplice felpa. Che tanto semplice non è, se si è pure meritata una mostra. The Hoodie, inaugurata questo mese al Het Nieuwe Instituut di Rotterdam (fino al 12 aprile 2020), è un tour artistico-politico e multimediale nella storia dell' indumento più controverso e carico di simboli degli ultimi decenni. Negli Usa non si entra in parlamento con le braccia nude; fino a tre anni fa in Inghilterra i deputati avevano l' obbligo della cravatta; in Italia lo scorso luglio si è polemizzato sulle parlamentari troppo scollate. Ma nel caso dell' hoodie il problema non è il dress code; è il significato che gli viene attribuito. Per questo Catherine Dorion è finita al centro di una rissa politica. «La mia non voleva essere una provocazione, stavo solo cercando di essere me stessa» si è difesa, ma intanto era già partita la campagna di sostegno militante sui social con un hashtag inneggiante all' autodeterminazione: #MonCotonOuateMonChoix (la mia felpa, la mia scelta). Nei paradigmatici strati di questo pezzo di cotone c' è spazio per tutti. La felpa nera dei blackblockers è anche quella che indossa l' idraulico che viene a ripararti il rubinetto o il rider che ti porta la pizza a casa; quella che mette Kim Kardashian per andare a fare shopping, e che ha protetto battaglioni di graffitari in azione. Ed è il modello glitterato con 3 mila cristalli neri Swarovski e 15 mila paillettes, griffato Vuitton, che Timothée Chalamet (l' attore di Chiamami col tuo nome) ha indossato alla première inglese di The King, portandone in primo piano anche l' aspetto gender fluid. È tutto cominciato con la Champion, che negli anni Trenta ha lanciato il modello universalmente noto - la felpa grigio chiaro - per proteggere operai e atleti dal freddo. In quasi un secolo di storia, il modello è rimasto praticamente identico. È quella la sua forza: l'hoodie è quanto di più basico ci sia: una tela vuota sulla quale scrivere di volta in volta la storia che si vuole. Lo avevano adottato i giovani giocatori di baseball o football nelle università americane, che poi lo regalavano alla fidanzata, come ci hanno mostrato milioni di film. L'anno zero del suo ingresso nella cultura pop è il 1976. Esce Rocky nelle sale ed entra nell' immaginario collettivo Sylvester Stallone che in tuta e felpa con cappuccio grigio prende a pugni dei bei quarti di bue per allenarsi alla sfida mondiale - si riannoda così anche il cordone ombelicale con le origini working class della felpa. Ma il boom vero nasce da un' altra parte; nella wasteland del Bronx, tra i ragazzini figli di immigrati caraibici o ispanici che organizzano bloc parties fuori dai campetti di basket, improvvisano break dance sui marciapiedi, affrescano con le bombolette i vagoni della metropolitana. Sull' altra costa, in California, lo adottano gli adolescenti delle gang di skaters come i mitici Z-Boys che setacciavano le ville dei sobborghi alla ricerca di piscine vuote dove esibirsi. Sono loro a strapparlo al mondo del puro sportswear per farne un protagonista delle sottoculture giovanili, metterlo sulle copertine dei dischi - come i Wu Tang Clan con l' album d' esordio - o nei video, come il rapper LL Cool J in Mama Said Knock You Out (1990). «L' hoodie è entrato e uscito continuamente nella mia vita di adolescente e di adulta» racconta Lou Stoppard, la curatrice della mostra di Rotterdam. «In Inghilterra intorno alla metà degli anni 2000 c' era stata un' ondata di panico sociale, l' hoodie era diventato il nemico n.1, i ragazzini che lo indossavano facevano paura. Le istituzioni avevano risposto con l' Asbo (anti-social behaviour order) che vietava di indossare l'hoodie in certi luoghi pubblici e certi orari. Per esempio nei centri commerciali». È di quegli anni anche la campagna politica Hug a Hoodie (abbraccia un hoodie), che si rivelò un boomerang mediatico quando nel 2007 David Cameron andò a visitare uno slum di Manchester e finì fotografato con alle spalle il 17enne Ryan Florence che, felpa e cappuccio su, fa il gesto di sparargli alla testa. «Lo sguardo dei media è sempre stato doppio. Da un lato l' hoodie messo all' indice come emblema di sovversione, microcriminalità. Dall' altra le riviste di moda che lo indicavano come un capo chiave, il segno di quanto profonda fosse l' influenza dello streetwear sui brand di lusso». L' evoluzione ulteriore è quella connessa alle nuove tecnologie: è diventato un classico della Silicon Valley da quando Mark Zuckerberg ha cominciato a metterlo ovunque per rimarcare la sua storia da ex studente; è diventato il capo cyberpunk per eccellenza, addosso a Mr Robot come all' eroina hacker di Millennium Lisbeth Salander; per i ribelli di Anonymous è l'arma di protezione contro l' invasione sociale della privacy e le telecamere di sorveglianza. In mostra questo dualismo si riproduce nelle creazioni di brand come Vetements e Rick Owens messe accanto a opere d' arte, i video, le foto di Lucy Orta, David Hammons, Cambell Addy. Una delle installazioni realizzate appositamente è il video dell' artista serbo-olandese Bogomir Doringer; un collage di immagini forti per dissezionare il modo in cui gli stereotipi legati all' hoodie sono stati formati e alimentati dai media. «Un aspetto importante» spiega Soppard «include esempi di tweet pubblicati in risposta alla morte di Michael Brown nel 2014. Per evidenziare il ruolo dei media, i giovani di colore hanno iniziato a utilizzare l' hashtag IfTheyGunnedMeDown online, pubblicando coppie di loro immagini; alla cerimonia di laurea, al lavoro o ad un matrimonio, accanto alle foto che i media avrebbero probabilmente usato se fossero stati uccisi. In questi, indossano spesso catene d' oro e cappellini da baseball. Fumano o posano con l' alcol. In molti casi indossano una felpa con cappuccio». Ne portava una anche Trayvon Martin, la sera del 26 febbraio 2012 a Sanford, in Florida. Trayvon, 17 anni, aveva accompagnato il padre a trovare la fidanzata in un quartiere residenziale. Robert Zimmerman, un vigilante, gli sparò sostenendo che il ragazzo aveva un atteggiamento sospetto. Al telefono con il 911 disse che indossava «un hoodie scuro», come se questo bastasse a spiegare tutto. Da quella tragedia la felpa emerse come un nuovo simbolo. Ci furono cortei ribattezzati Million Hoodie March, copertine come quella di Ebony magazine con Spike Lee e altre celebrities in felpa. A Rotterdam c' è un' opera di Devan Shimoyama, forse la più bella; si chiama February II ed è un grande hoodie a braccia aperte, tutto fatto di fiori di seta. Per non dimenticare Trayvon.
· Fenomeno Panini.
Panini, la tradizione delle figurine che non si arrende al tempo. La multinazionale presenta l'album 2020 della Serie A. Fatturato vicino al miliardo, nuovi business per un mercato che resta vivo. Giovanni Capuano il 9 gennaio 2020 su Panorama. "Celo, manca", una tradizione che non si arrende al tempo anche se si adegua alle nuove tecnologie e tendenze. L'album Calciatori Panini della Serie A, che esce come da appuntamento subito dopo la sosta di Natale, rimane uno dei punti di contatto tra vecchie e nuove generazioni con il suo milione abbondante di collezionisti distribuiti tra i ragazzini di elementari e medie e gli adulti nostalgici di un tempo. Un business che si è costruito un suo spazio anche nell'era dell'esplosione dell'elettronica e del digitale. E' vero che le figurine si sono evolute con il passare delle stagioni e oggi, accanto a quelle da appiccicare sull'album ci sono le versioni da collezione, cartonate e sempre più particolari nel loro design. Così come è realtà l'utilizzo massiccio di tutte le piattaforme multimediali per distribuire i prodotti avvicinandosi alle generazioni di nativi digitali. Però i numeri della Panini, autentica multinazionale che da oltre mezzo secolo anima i "Celo, manca" degli italiani (e non solo) testimoniano come esista un mercato che non flette e, anzi, cresce. Con un'avvertenza: la grande stagionalità di un prodotto che vive di eventi e che, dunque, essendo legato allo sport ha dei picchi negli anni pari (Mondiale ed Europeo) e dei bassi in quelli dispari.
Panini, un miliardo di fatturato. Panini è ormai un colosso mondiale che non si occupa solo di collezionismo e figurine. Fattura quasi un miliardo di euro (ultimo dato disponibile quello del 2018), ha filiali in 12 paesi in giro per il mondo e oltre 1.200 dipendenti. Ha affrontato il cambiamento del mercato diversificando sia prodotti che licenze, continua ad aggredire nuovi obiettivi (anche nel settore dell'entertaiment), è appena tornato in possesso dei diritti della Premier League e si appresta a vivere l'Europeo del 2020.
Solo in Italia i collezionisti sono oltre un milione, poco meno della metà nella fascia d'età adulta. Quella che ha iniziato negli anni Settanta e Ottanta e vive l'album ormai come una tradizione da tramandare. Nel primo mezzo secolo di vita, solo per i calciatori Panini ha mandato alle stampe 25 miliardi di figurine. Messe in fila una dopo l'altra fanno 12,5 milioni di chilometri, 312 volte la circonferenza della Terra e 33 la distanza tra la Terra e la Luna. Un'enormità.
· Fenomeno Sneakers.
Fenomeno sneakers: fino a 25 mila euro. Ecco i modelli più costosi (oggetti di culto). Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 da Federica Bandirali su Corriere.it. Da quelle nate dalla collaborazione tra Nike e Virgil Abloh alle scarpe dedicate a «Ritorno al Futuro». Vanno subito esaurite, comprate e ri-vendute sul sito di reselling.
Dalle collaborazioni con artisti del mondo della musica e dello sport alle versioni più attese con brand dallo stile inconfondibile: sono molte le motivazioni che spingono sempre più persone nel mondo a diventare veri e propri collezionisti di sneakers. Una passione che può diventare molto ma molto cara sopratutto se si pensa che alcuni modelli riescono ad aumentare il loro valore nel tempo sino a diventare dei veri e propri pezzi da avere nel guardaroba senza essere utilizzati. StockX, la piattaforma di reselling in cui vendere e acquistare sneaker, capi e accessori di streetwear, ha selezionato i modelli cult che hanno aumentato il loro valore di anno in anno diventando dei veri oggetti cult della prima decade che si è appena conclusa.
Nike Yeezy 2 Red October’s. Uscite senza preavviso all'inizio del 2014, sono andate sold-out in una manciata di minuti, senza nemmeno il bisogno di alcun tipo di pubblicità o annuncio da parte di Nike. Design ricercato, lacci dorati e silhouette tutta rossa, le Yeezy 2 «Red October» sono entrate nella storia per essere il frutto dell’ultima collaborazione tra Kanye West e Nike. Il modello è andato a ruba sul sito Nike al prezzo retail di 245 dollari, ma nel mercato del reselling hanno rapidamente raggiunto cifre a tre zeri, arrivando a un valore di mercato che oggi supera i 6mila dollari.
Adidas Yeezy Boost 350 Turtledove. Il secondo modello nato dalla collaborazione tra Kanye West e Adidas, anche questo andato esaurito online in pochi minuti, è caratterizzato da un design minimale ma studiato in ogni singola parte. La Air Yeezy Boost 350 Turtledove ha avuto il merito di reinterpretare le due principali tecnologie sviluppate da Adidas negli ultimi anni (la tomaia e la suola Boost), per un risultato finale in perfetto equilibrio tra performance e moda che ha spopolato nel corso degli ultimi dieci anni e che arriva oggi a valere oltre 1.200 dollari al paio. Un successo così grande che ha portato le Turtledove ad aggiudicarsi anche il «premio« di sneaker più copiata, costringendo di fatto il brand a un aumento di produzione e alla nascita di nuove linee affini.
Jordan 1 Retro High Off-White Chicago. Soprannominate «The Ten», sono il frutto dell’attesissima collaborazione tra Nike e Virgil Abloh, considerato dalla critica il designer del decennio per il suo linguaggio creativo. Il modello si basa sull'originale «Chicago» Air Jordan 1, presentando però forme oversize, e tomaia decostruita. Da un prezzo iniziale di 190 dollari, il loro valore arriva oggi a superare ampiamente i 3 mila dollari al paio.
Jordan 1 Retro Fragment. Tra le collaborazioni d’eccellenza di Nike non poteva mancare Fragment, il brand di Hiroshi Fujiwara, dj e designer giapponese che mixa uno stile streetwear alla cultura hip hop. Il design combina il color blocking della punta nera con accenti in blu royal, lasciando vedere il marchio Nike Air. Il loro valore oggi oscilla tra i 4 e i 6 mila dollari.
Nike MAG Back to the Future 2016. Senza ombra di dubbio uno dei modelli più costosi mai realizzati, questa riedizione del 2016 delle iconiche scarpe di Ritorno al Futuro è stata presentata ufficialmente il 21 ottobre 2015, esattamente a trent’anni di distanza dal famoso viaggio nel tempo di Marty McFly. Il primo paio è spettato non a caso a Michael J. Fox e il ricavato dell’asta di tutti gli 89 modelli messi in vendita (6,75 milioni di dollari) è stato devoluto alla Michael J. Fox Foundation. Ad oggi è praticamente impossibile portarsi a casa uno dei modelli in circolazione a meno di 25 mila euro.
Adidas 3D Runner Black. Prima che la suola 4D rivoluzionasse le calzature più moderne, Adidas aveva lanciato la versione 3D facendo impazzire gli amanti delle sneakers e collezionisti da tutto il mondo. La 3D Runner incorpora un’intersuola stampata in 3D, che presenta un motivo a trama di diamante che offre una maggiore stabilità nelle zone ad alto impatto. Le 3D sono ancora oggi tra i modelli più ricercati dai collezionisti più esperti, con un valore di rivendita che si aggira sui 2.800 euro.
Asics Gel-Lyte III Ronnie Fieg «Salmon Toes». Realizzate per celebrare l’apertura del primo negozio di Kith a New York nel 2011, le Gel-Lyte III «Salmon Toe» sono il simbolo del binomio Ronnie Fieg-Asics, una delle coppie più solide nel mondo sneaker. Il designer di origini giamaicane e fondatore del brand Kith ha collaborato per la prima volta con ASICS proprio per rilasciare questa versione di Gel-Lyte III, in cui ha audacemente scelti di abbinare un doppio color blocking blue e rosa salmone in punta su una tomaia in pelle scamosciata. Le Salmon Toes sono andate sold-out in pochissimo tempo e ancora oggi, a quasi dieci anni di distanza, sono vendute a più di mille euro.
· Il Pac-Man.
Alessio Lana per corriere.it il 23 maggio 2020. Pac-Man, nato da una pizza (più o meno). Anche i beniamini videoludici invecchiano e dopo i 35 anni di Super Mario tocca a Pac Man raggiungere la veneranda età di 40 anni. È nato infatti il 22 maggio 1980 e a quanto racconta l'ideatore Toru Iwatani, l'ispirazione arrivò durante una cena, quando tolta una fetta da una pizza gli apparì la forma di quello che diventerà il simbolo universale dei videogame. Come ogni leggenda però anche questa è in parte da sfatare: Iwatani stesso qualche anno dopo aveva fatto chiarezza affermando che «In giapponese il carattere per la bocca è un quadrato. Non è tondo come una pizza e io ho deciso di arrotondarlo». Ecco insomma il vero papà di Pac-Man, un kanji, e questa è solo la prima curiosità con cui vogliamo celebrare una vera icona pop.
Pac-Man, il nome. Il nome con cui lo conosciamo arrivò in realtà solo a cinque mesi dalla nascita. In Giappone infatti era noto come Pakku-Man, derivato da «paku-paku», frase onomatopeica che ricorda il chiudere e aprire la bocca continuamente. L'onomatopea è la stessa che accompagna il movimento del personaggio sullo schermo, quel suono che tutti abbiamo ascoltato almeno una volta. Negli Stati Uniti era arrivato invece come Puck Man, parola che suonava troppo simile alla nota parolaccia inglese con la F, e quindi si visò verso un più elegante Pac-Man.
Pac-Man, un eroe «per le donne». Pac-Man era nato con un obiettivo ben preciso: contrastare i giochi dell'epoca, tutti shooter «violenti e di guerra tipo Space Invaders», disse Iwatani, «Non c'erano giochi per tutti e tantomeno per donne... Io volevo qualcosa che fosse comico e potesse andare bene anche per loro». E infatti nel 1982 ecco comparire per la prima volta «Ms. Pac-Man», arcade sviluppato da Midway con una versione femminile dell'omino giallo. Il Rossetto, un neo sulla guancia e il fiocco in testa caratterizzavano la nuova grafica del personaggio. Il gioco non fu solo un clone ma al tempo divenne l'arcade più giocato di sempre con ben 115 mila cabinati distribuiti nelle varie città statunitensi.
Pac-Man, un successo planetario. L'arrivo di Pac-Man fu un vero terremoto nel mondo videoludico. Nel giro di 15 mesi dall'uscita statunitense, la Namco/Bandai aveva venduto più di 100 mila cabinati mentre i giocatori avevano speso oltre un miliardo di dollari in monetine da un quarto di dollaro. Il Guinness dei primati l'ha riconosciuto come l'arcade più diffuso di sempre – dal 1981 al 1987 sono stati installati 293.822 cabinati – e nel 2010 ha incoronato Pac-Man come il personaggio dei videogame più iconico di sempre. Il 94 per cento degli americani lo riconosce al primo sguardo, perfino più di Super Mario che si è dovuto accontentare del 93 per cento.
Pac-Man, la musica da Buckner & Garcia ad Apex Twin. Per molti quel «paku-paku» è un mantra, per altri è musica. A soli due anni dall'uscita del videogame, nel 1982 negli Usa viene pubblicato «Pac-Man Fever», album del duo Buckner & Garcia, che parla appunto della febbre innescata dal gioco. Il brano fu un successone tanto da entrare nella celebre Billboard Hot 100 ma c'è chi ha fatto di meglio. Il celebre Aphex Twin non ha resistito alla musichetta psichedelica del gioco e nel 1992 l'ha remixata nell'EP Pac-Man, pubblicato sotto il nome di Power Pill, pillola energetica, una follia techno che mostra un altro aspetto dell'omino giallo nella cultura popolare, il rapporto con la droga. Quel mangiare pilloline bianche che lo rendono più forte dei fantasmini era un accostamento irresistibile per la rave culture degli anni '80 e '90.
Pac-Man, le celebrazioni. Il Covid ha bloccato molte celebrazioni per questo 40esimo compleanno ma Pac-Man è stato comunque festeggiato da un nuovo brano musicale, Join The Pac, realizzato dal Dj giapponese Ken Ishii e accompagnato da un video musicale diretto da Yuichi Kodama. Sono poi state realizzate diverse collaborazioni con marchi di moda.
· Gli Hot-Pants.
Sophia Gnoli per "d.repubblica.it" l'11 maggio 2020. Potevano sembrare una tendenza passeggera ma dopo che Gigi Hadid ha calcato la passerella di Chanel con un paio di ridottissimi pantaloncini anche l’ultimo dubbio è stato fugato. Per quegli strani meccanismi che regolano i ritmi della moda, se per una stagione le minigonne cadono in disgrazia, ecco che puntualmente, da cinquant’anni a questa parte, si riaffacciano loro, gli hot-pants. Era il 30 settembre 1970 infatti, quando il quotidiano americano della moda Women’s Wear Daily pubblicò un articolo che annunciava l’avvento di shorts dalle dimensioni micro, battezzandoli allusivamente “hot pants”. Non passò molto che quegli esigui calzoncini, incollati sul di dietro Donna Jordan (avvenente modella americana) con sopra la scritta “chi mi ama mi segua”, venissero immortalati da Oliviero Toscani - suo amore dell’epoca - in una delle pubblicità più scandalose di sempre, quella dei jeans Jesus. Ben prima che assumessero questo nome, ispirato a un immaginario hard core, gli hot pants però esistevano già. Raggiunsero la popolarità grazie ad Alice Marble, la campionessa di tennis americana che negli anni Trenta iniziò a sfoggiarli sul campo da gioco. Poi sono arrivati stuoli di pin-up, da Rita Hayworth, divenuta poi famosa con film come Gilda (1946) e La signora di Shanghai (1948) e Betty Grable. Celebre per le sue gambe da ‘urlo’ (pare assicurate per un milione di dollari) e soprannominata per l’appunto The Legs, la Grable s-vestita da invisibili shorts furoreggiava su calendari, cartoline e manifesti vari all’epoca della Seconda guerra mondiale, trasformandosi nell’indispensabile supporto dei sogni proibiti per migliaia di giovanotti al fronte. Da noi la consacrazione di questo indumento sarebbe arrivata nel secondo dopoguerra con una Silvana Mangano appena diciannovenne. In quel capolavoro del neorealismo che è Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, le sue “calze nere strappate, i pantaloncini stretti a metà coscia, la maglia aderente a modellare il seno di Afrodite della risaia” ha scritto Vasco Pratolini “rivelarono un personaggio e di una bella ragazza fecero, una volta di più un’attrice; ma forse tradirono il suo avvenire, fissarono il tipo”. Fu così che Silvana divenne la capostipite insuperata di una serie di ‘mondine’ in shorts, dalla Sophia Loren di La donna del fiume (1954) alla Elsa Martinelli di La risaia (1956). Di lì a poco, insieme alla vestaglietta, questi micro pantaloncini si trasformarono in uno degli indumenti prediletti del guardaroba delle protagoniste del neorealismo. In seguito, in accezione meno ruspante, a renderli una sorta di manifesto di emancipazione ci sono state Brigitte Bardot e Jane Birkin che, passeggiando per le strade di Saint Tropez con i glutei fasciati da microscopici shorts, contribuirono a far cadere i tabù del perbenismo anni Sessanta. Oggi, a differenza di allora, più che un grido di libertà, indossarli non è altro che uno dei tanti ritorni della moda. Da seguire con una certa prudenza perché se la vita non è democratica, la moda lo è ancor meno.
· La “Gran Moda”.
Laura Asnaghi per “la Repubblica - Album Moda” il 20 febbraio 2020. Margaret Thatcher usava la sua borsetta come "un'arma segreta". Nelle trattative più ardue la piazzava ben in vista sulla scrivania per dimostrare che faceva sul serio e non si sarebbe mai arresa. Winston Churchill è stato spesso ritratto con la sua despatch box color rosso mentre varcava la soglia della Camera dei comuni. La sua era una borsa antesignana della 24 ore, sobria e rigorosa. Invece la regina Elisabetta I per proteggere il sigillo reale usava una special bag portata da un funzionario. Le borse, oggetto di culto di ieri e oggi, sono accessori carichi di significati. «Politici e privati. Ogni borsa ha una storia a sé. Racconta chi siamo, la nostra appartenenza sociale e segna un'epoca», ricorda Lucia Savi, la trentenne italiana che ha curato la mostra Bags: Inside Out che il 25 aprile apre al Victoria and Albert Museum di Londra, un racconto che si snoda attraverso 300 borse, scelte in un anno e mezzo di lavoro. «È stata una full immersion appassionante», sottolinea Savi, «che svela come le borse sono una magnifica ossessione non solo per le donne ma anche per gli uomini e che la fascinazione per questi oggetti parte da lontano». Non a caso, la mostra inizia dal '500 e arriva ai giorni nostri, celebrando, tra l'altro, il fenomeno delle It bags esploso a partire dagli anni 90, e puntando i riflettori su borse che hanno segnato la storia della moda come la Kelly di Hermès, omaggio a Grace Kelly, la Lady Dior, borsetta dedicata alla principessa Diana, e la mitica Baguette di Fendi, che in una famosa scena di Sex and the City viene rubata a Sarah Jessica Parker. Oggi le borse sono uno status symbol e c'è chi ne colleziona a più non posso seguendo i trend di stagione. «La borsa ti permette di dare un twist nuovo al tuo guardaroba», spiega Lucia Savi che, personalmente, ha come borsa preferita quella della nonna. L'esposizione, che si candida a essere una delle più ricche, complete e interessanti sul fronte delle borse, è strutturata in modo rigoroso e parte spiegando che "the bags" hanno una funzione e servono a portare qualcosa: soldi, piccoli segreti femminili, documenti ma anche oggetti speciali. Come la sacca per la maschera antigas creata, durante la Seconda guerra mondiale, per la regina Mary. Ma è nella sezione successiva che decolla il tema, certamente più appealing, "Status e Identity", legato alle borse come la Kelly, la Lady Dior ma anche l'abbagliante Monogram miroir, la Speedy bag disegnata da Marc Jacobs per Louis Vuitton, resa popolare da donne come Paris Hilton e Kim Kardashian. Ma le borse non hanno solo un dité frivolo ed estetizzante. A volte diventano manifesti politici a sostegno di una causa. «Tra i pezzi storici abbiamo esposto la borsa in seta del 1825 emblema di chi lottava contro la schiavitù», racconta Savi. «Un altro pezzo fondamentale, dei giorni nostri, è certamente la sacca con la scritta "I am not a plastic bag" disegnata da Anya Hindmarch, che segna la nascita di una nuova cultura ecologista». Sotto i riflettori londinesi non poteva mancare lo zaino, in plastica riciclata, pescata dai fondali marini, firmata da Stella McCartney, la stilista inglese super green. La borsa affascina, scatena amori e tanta curiosità. «E così abbiamo pensato di svelare come nascono, qual è il processo artigianale che c'è dietro queste creazioni», spiega la curatrice, che nella terza e ultima sezione met-te in scena procedimenti e materiali che, grazie alla maestria degli artigiani, si traducono in borse. Con tanto di attrezzi, schizzi, prototipi, provenienti da molti brand internazionali, tra cui anche quelli di Mulberry, storico brand del lusso inglese che ha sponsorizzato l'esposizione. Come tutte le mostre legate alla moda, anche questa del V&A non mancherà di far sognare e divertire guardando le creazioni più fantasiose. Come la borsetta da sera Chanel, del 2014, a forma di "cartone da latte Co-co", firmata da Karl Lagerfeld. Oppure la borsa con il manico a forma di spilla da balia che Gianni Versace realizzò nel 1994, nello stesso periodo in cui lo stilista furoreggiava con i suoi abiti super sexy "cuciti" solo con le sue safety-pin. Sul fronte delle borse la creatività non ha limiti. Di Prada, che con il nylon ha realizzato modelli iconici, è esposta la limited edition fatta in collaborazione con l'architetto giapponese Kazuyo Sejima. Di Thom Browne c'è la borsa a forma di cane, omaggio a Hector, il suo bassotto. E poi spazio ai marchi amati dai giovani, come Off-White e l'espressione dell'alta pelletteria di Valextra. Tutto rigorosamente esposto nelle teche di Bags: inside out.
Quirino Conti per Dagospia l'11 febbraio 2020. Chi non ricorda l’entusiasmo orgiastico – naturalmente però sempre molto ironico – che zampillò dalle migliori testate nazionali all’apparire di Rocco Siffredi e della sua monumentale (da monumentum) attrezzatura? Identicamente a quello – comunque più colto ma assai meno documentato – per le doti a sua volta sregolate del bellissimo Michael Fassbender. Tanto che, divenuta la dote del primo un luogo comune come i trulli pugliesi o i cipressi toscani, da subito iniziò a essere accolto (con sottili risatine di assenso e più loschi mugugni tra il goloso e il pudico), persino dalla televisione più accorta; e dalla pubblicità, come un Mulino Bianco. Mentre il tedesco era costretto ogni volta a spiegare le ragioni coltissime del suo smisurato snudamento; bastando all’altro, all’abruzzese, presentarsi ridanciano in video con moglie e figli, naturali destinatari delle lucrose rendite di una così grande impresa familiare. Fino a che non comparve Achille Lauro, che di tutte queste volumetrie fece da subito merce da norcineria. Lui, il solo, l’unico, dopo i grandi Porporino e Senesino, a poter inalberare con orgoglio e mollezza un’assenza tanto desiderabile. Come solo nel Rococò per angeli paffutissimi, ma anche più anticamente su eroici kouroi che, bellissimi e forti, dunque coraggiosi e valorosi, dovevano all’aggraziata modestia dei loro sessi la garanzia di un valore morale intemerato. E la Moda ebbe finalmente il suo modello, dopo i primi sparuti esemplari da Riccardo Tisci per Givenchy, quelli da John Galliano per Margiela, e ora il deflagrante ermafroditismo degli interpreti di Gucci. Ai quali nei composit non si richiede più altezza e spalle ma l’evidenza di un vuoto inguinale consolante e poetico. Altro che Bolle con il suo antistante zaino, e quei giovanottoni che da Armani e Versace dovevano forzosamente usare pantaloni vasti e dal cavallo alle ginocchia per un alluso contenuto di smisurate proporzioni. E la Moda ebbe finalmente la sua modernità, in carne e ossa (si fa per dire). Mentre maschi sempre più indolenti gratificavano le proprie compagne di una grazia sconosciuta fino a oggi: con un nuovo genere quale solo la pittura ha da sempre descritto. Meno che a Mantova con quel millantatore di Giulio Romano. Che però, del resto, ora si dice non più troppo gradito dopo l’apparizione malandrina di Lauro. Consolazione un po’ per tutti: per i concisi di natura – così tanto tartassati fino a ora – e per le loro signore, non più obbligate all’elogio fasullo del proprio partner. Perché divenuto davvero (finalmente) di gran moda.
Anna Franco per “il Messaggero” l'8 febbraio 2020. La vita è un susseguirsi di alti e bassi. Mentre le donne scendono dallo stiletto a favore di scarpe spianate, gli uomini salgono sui tacchi. Magari con plateau per rendere più facile l'operazione, ma aggiungendo almeno 6 centimetri sotto il tallone. I 30 secondi in cui il modello tedesco Leon Dame ha calcato la passerella spring/summer 2020 di Maison Margiela sono diventati virali sui social e il video è rimbalzato ovunque su Internet. Il corrispettivo parigino di Jennifer Lopez col Jungle Dress da Versace, pochi giorni prima, a Milano. Il motivo? Il ragazzo ha chiuso la sfilata calzando un paio di stivali aderenti in vernice nera dotati di un notevole tacco a spillo. La sua falcata era volutamente ondeggiante proprio a causa di questo difficile orpello. A gennaio le stagioni della moda si sono aperte con Pitti Uomo che ha salutato il ritorno di Stefano Pilati (ex direttore creativo di Saint Laurent e Zegna) e della sua nuova creatura Random Identities. Un debutto attesissimo che ha visto incerti solo i modelli, un po' persi tra la nebbia in pedana e i cuissard in pelle scamosciata. Tutti, rigorosamente, con tacco largo e plateau. Eppure queste calzature, disponibili da meno di un mese, sono già esaurite nei numeri più alti, quelli che in genere sono acquistati dagli uomini. Evidentemente, lo stilista ha indovinato il trend affermando di volersi «affrancare dalle convenzioni di genere e stagionalità». Ma se Pilati è uscito in passerella con un paio di stivali piatti, Hedi Slimane, alla guida di Celine, si è presentato tacchettato come i suoi modelli per i saluti finali della collezione estiva. Calzavano tutti una sorta di texani rialzati, indifferentemente sotto i jeans o il completo gessato. Haider Ackermann ha sottolineato l'attuale idiosincrasia tra uomo e donna partendo dai piedi. Ai primi spettavano calzature appuntite e con tacco. Alle seconde rimanevano solo delle ballerine rasoterra. E non pensate di uscire fuori dal trend il prossimo inverno. Rick Owens ha già sottolineato che senza zeppe (possibilmente metallizzate) e tacchettoni non si è nessuno. Marc Jacobs insegna: il suo Instagram è pieno di scatti in cui il designer americano posa, con naturalezza e studiata teatralità, con ankle boots dotati di platform e rialzi vari. Probabilmente, stando alle foto, ne ha una scarpiera piena in ogni gradazione di colore. Esibizioni da passerella? Forse. Ma gli attori Sam Smith e Jared Leto e il cantante Harry Styles sono stati visti spesso, non solo sul red carpet, con tanto di tacchi. E non è una questione di altezza, visto che il primo arriva di suo a 1,88 e gli altri due a 1,80 e 1,85. Insomma, non avrebbero bisogno di alcun supporto. «È l'atto finale della risposta alla cosiddetta grande rinuncia del 1800, quando gli uomini, che prima non disdegnavano gli ornamenti, decisero di affidarsi a colori più compassati e al classico completo inamidato per dare un'aura più severa alle loro professioni, sulla scia di un maschilismo nemmeno troppo latente - afferma Patrizia Calefato, docente di Sociologia della cultura e della comunicazione all'università di Bari - Adesso, invece, si sono riscoperti nuovi modi di abbigliarsi, anche guardando a mondi fuori da quello occidentale. Si gioca con i confini della sessualità, al di là che si sia etero o omosessuale. Ma è anche un ritorno al passato: nel 1700, a Venezia, gli uomini portavano i tacchi. Le uniche donne a fare altrettanto erano le prostitute di alto bordo». Proprio così: ai soldati persiani del XV secolo questi supporti erano utili per tenere fermi i piedi nelle staffe e nel 1673 Luigi XIV notificò che solo lui e la sua cerchia di nobili potevano calzare tacchi con la suola rossa. Insomma, Christian Louboutin non ha inventato nulla. «All'epoca avere centimetri sotto al tallone era una regola di stile, il punto di vista dominante nella società - afferma Romana Andò, preside del corso di laurea magistrale in Fashion stylist a La Sapienza di Roma - Poi, David Bowie and company negli anni Settanta sono tornati a questa moda, come sfida e controcultura alla visione di massa. Oggi direi che il fenomeno ha una dimensione più individuale, di ribellione contro un'identità stabilita a priori. Col gender fluid, invece, si può sperimentare una personalità diversa». Agli uomini, intanto, si può consigliare di frequentare un corso di portamento, come facevano le donne negli Anni Cinquanta.
Silvia Cutuli per “il Messaggero” il 7 febbraio 2020. Il Coronavirus non c'entra. Le mascherine chirurgiche di cortesia indossate per non trasmettere virus e batteri già da qualche stagione stanno contagiando la moda, che le vuole però griffate. Come a dire che la sindrome cinese ha solo amplificato la visibilità di un accessorio finora improbabile, sulla cui utilità mista a carica sovversiva - per il fatto di nascondere parte del volto - ragionano ora designer e stilisti. È un post-disastro climatico quello messo in scena dalla francese Marine Serre: per sopravvivere alla crisi ecologica si indossano maschere antigas, poco fashion forse, ma perfette per combattere la battaglia ambientalista della stilista. L'inglese Samuel Ross del marchio giovane A Cold Wall ha consegnato agli ospiti e ai modelli della sua sfilata una sorta di kit di sopravvivenza con tanto di maschere antigas funzionanti. I giovani designer delle inquinate metropoli asiatiche uniscono l'utile al dilettevole. La bacheca Instagram del giovane stilista Zhijun Wang è una vetrina di mascherine ricavate dall'assemblaggio di pezzi delle sneaker di maggiore successo. «L'anonimato ha a che fare con la libertà», dichiara Myss Keta, la cantante dal volto velato di cui sin dal debutto sulla piattaforma Youtube nel 2013, non si conoscono i connotati e l' identità e che ieri si è esibita a Sanremo con il suo accessorio feticcio. «La maschera fa diventare altro rispetto a te, è come se diventassi quel personaggio», spiega Myss Keta. Datemi una maschera insomma e farò la vostra fortuna. La riprova arriva all'indomani del red carpet di Billie Eilish ai Grammy Awards: look griffato Gucci, mascherina nera di tulle compresa. Nonostante il modello in questione fosse un pezzo unico personalizzato dal direttore creativo Alessandro Michele in persona, nelle successive 24 ore le ricerche online di mascherine hanno avuto un incremento del 42%, come ha registrato il motore di ricerca globale di moda lyst.it Guida la classifica la face mask di Off-White, seguita da Nike, Louis Vuitton e Marcelo Burlon. Ma quando credevamo di averne viste di tutti i colori, ecco che sulla passerella p/e 2020 del marchio americano Area fa la sua comparsa l'erede estiva della mascherina: più succinta da lasciare scoperta la bocca e tempestata di cristalli, al pari di una finta e preziosa barba gioiello.
· La Peluria. Spettinati sopra e sotto.
Storia spettinata dell’umanità. Forbici e spazzola, il mondo preso per i capelli. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud l'1 novembre 2020. Quanta storia abbiamo tra i capelli? Quanti secoli di miti, simboli e mode ci spazzoliamo ogni giorno senza saperlo? Sono questi i due punti di domanda che prendono per mano il lettore di “Fuori di testa! Storia spettinata dell’umanità”, edito da Donzelli, traduzione di Adelina Galeotti. A firmarlo Louise Vercors e Pierre d’Onneau. “Riccia naturale, Louise Vercors non esce mai senza aver controllato il tasso di umidità: al di sopra del 50% indossa berretti, baschetti, cappelli da pioggia, foulard, fasce. Quando non sbraita sulla fortuna della gente con i capelli lisci che può cambiare taglio come si cambia la camicia, pubblica libri (“Sommes-nous seuls dans l’Univers?”, 2000), insegna grammatica e si interessa di chiome, ufo e dinosauri”. “Pierre d’Onneau è graphic designer, illustratore e insegna Tecniche tipografiche. Dopo aver studiato Arti decorative a Parigi, ha fondato un proprio studio di design dove crea poster, loghi, brand e illustrazioni per libri”. Vengono presentati così Louise e Pierre”. Biografie sintetiche ma perfettamente in linea con le pagine che si leggono tutto d’un fiato di “Fuori di testa! Storia spettinata dell’umanità”. Del resto, del fatto che capelli, barba, baffi accompagnino le nostre quotidianità e le nostre esistenze ne abbiamo avuto la misura anche nei mesi scorsi. A primavera inoltrata – alla fine del lockdown per la pandemia da coronavirus – ad una messa a punto resa necessaria dalle chiome scompigliate nel tempo sospeso trascorso nelle nostre case, sono ricorsi in molti. Piega, colore, taglio per sentirsi in ordine forse anche con se stessi e ricominciare a prendersi piccoli pezzi della vita di prima. Un colpo di forbice, spazzola e asciugacapelli, per ricomporre l’immagine che gli altri avevano di noi e noi di noi stessi davanti allo specchio spietato di quei giorni sghembi, quando divenne virale anche il fuorionda del presidente della Repubblica. Iconico il gesto e le parole. Mattarella rimette in ordine il ciuffo imbiancato e rivolgendosi al suo portavoce, dice: «Giovanni non vado dal barbiere neanche io». Lasciamo il fuorionda del presidente e addentriamoci nelle pagine della Storia spettinata dell’umanità, per come raccontata da Vercors e d’Onneau. Una sorta di antologia delle chiome che include i capelli faraonici e quelli reali, le parrucche e il frisè romano, i capelli malefici e quelli di Medusa trasformati in serpenti. E ancora: lo scalpo, la treccia e la riga del potere; i capelli religiosi e quei tagli entrati nella storia del Costume come segno di rivolta. Così che più che “peli che ricoprono il capo umano” – come vengono indicati dal dizionario – i capelli diventano i testimoni di mutamenti sociali, di modi e maniere. Pagina dopo pagina, “Fuori di testa!” propone esempi e storie illustrate che compongono il puzzle di questa narrazione. Spettinata, fin dal principio. “Nella Bibbia, Sansone era un nazir, un uomo destinato a servire Dio. Per raggiungere un livello di santità assoluta doveva rispettare certi obblighi, tra cui quello di non tagliarsi né i capelli né la barba. MAI”. Il resto è legato al segreto tradito da Dalida. E poi c’è Gilgameš, il leggendario re mesopotamico: fu grazie alla sua chioma, e dunque alla sua potenza, che riuscì a strangolare un leone a mani nude. Ma, ci fu anche un tempo lontanissimo in cui “rapare i capelli era infatti una pena così umiliante da essere riservata ai nemici o alle donne infedeli”. Prova ne è la storia nel 511 di Clodoveo, il re dei Franchi e del suo regno diviso dopo la morte tra i suoi quattro figli. Nel Medioevo erano fluenti e innocenti le capigliature delle donne più giovani che – in segno di verginità – portavano i capelli sciolti fino al matrimonio. Non solo capelli, però, ma anche parrucche. “L’accidentale perdita di capelli di Luigi XIV lanciò la moda della parrucca in tutta Europa. […] Durante il regno del re Sole, le parrucche, fabbricate con veri capelli, o con crini di cavallo per i più squattrinati, divennero imponenti e monumentali, dapprima bionde, poi brune e infine incipriate con farina d’amido. Bisognerà attendere la Rivoluzione del 1789 perché il tupè venga abbandonato. Persino un rivoluzionario come Robespierre rifiutò di togliersi la parrucca «incipriata in stile Ancien Régime», e lo fece solo nell’istante in cui fu decapitato!”. Nel XVIII secolo trionfa, invece, il pouf inventato da Léonard Autié. “[…] Esiste il pouf sentimentale, il pouf alla cancelliera, il pouf a destra, il pouf a sinistra, l’arricciatura a quattro anelli, la cuffia a spoletta… Il pouf era costituito da un cuscino sormontato da vari artifici e oggetti cari alla persona che lo indossava. Per far colpo su un amante patito di astronomia, una dama non esitava a mettersi sulla testa il Sole, la Luna e gli altri pianeti del sistema solare! Gli inconvenienti di questo tipo di acconciatura? Le bestioline! […]” . Saltellando nella storia (e nelle pagine del libro) insieme a Louise e Pierre, arriviamo alla riga del potere. “Alcuni ricercatori hanno condotto studi molto seri sulla riga dei governanti al potere. La maggior parte di loro la porta a sinistra, come John F. Kennedy. Le donne preferiscono la riga a destra. È la tradizione. Questa differenza pare corrisponda all’abbottonatura della camicia, che per gli uomini va da sinistra verso destra, e per le donne da destra a sinistra. […] ”. Fa differenza anche il colore dei capelli. Biondi, neri e rossi non è proprio la stessa cosa per chi li porta (e non solo). Prendiamo il rosso: “[…] nel medioevo il rosso era considerato un colore maledetto. Le donne dai capelli rossi suscitavano disprezzo ed erano associate al diavolo, alle streghe o alle prostitute. Nel 1199 papa Innocenzo III ne mandò al rogo ventimila. Nel XIII secolo il re Luigi il Santo costrinse le prostitute a tingersi i capelli di rosso per distinguerle dalle dame rispettabili. Nel corso dei secoli, tutti i traditori della storia sono stati raffigurati con i capelli rossi […].” Per fortuna poi sono arrivate Rita Hayworth soprannominata l’atomica, Nicole Kidman, Scarlett Johansson! Colori e tagli: entra in gioco il colpo di forbice. Basti pensare a quanto rumore fece il taglio alla maschietta della leggendaria Coco Chanel. Un taglio ai capelli, ma sopratutto un taglio alle regole – nel caso dimadamoiselle – fatto con classe indiscussa. A proposito di capelli alla maschietta “Fuori di testa” non dimentica Giovanna d’Arco entrata nell’immaginario collettivo con i capelli corti a caschetto.
Come dire: donne, uomini, miti, eroi ed eroine – sotto i colpi di spazzola, di penna e di matita di Vercors e d’Onneau – diventano protagonisti di quello spettacolo di arte varia messo in scena nei secoli da Sua signoria l’Umanità.
DAGONEWS l'1 novembre 2020. È un dibattito che appassiona tutte le donne, ma anche molti uomini che hanno una preferenza. Radersi il pube completamente sì o no? Tracey Cox ci svela perché non dovreste vergognarvi se siete tra quelle che preferiscono non radersi. Intanto i peli pubici hanno uno scopo. Aiutano a regolare la temperatura corporea, trattengono lo sporco e l’umidità e mantengono la zona della vulva idrata. Circa la metà di tutte le giovani del Regno Unito toglie i peli e un sondaggio dello scorso anno ha rilevato che l'80% delle donne di età compresa tra i 18 ei 65 anni rimuove alcuni o tutti i peli pubici. Tra le donne più giovani c’è chi non sa che esiste un’alternativa, tipo lasciare almeno una "pista di atterraggio". Secondo molte donne, la colpa di questa moda che impone di presentarsi davanti a un uomo completamente glabre è dell'industria del porno dove avere genitali senza peli viene considerato "sexy". Eppure molti uomini preferiscono l'aspetto naturale al quale molte donne si oppongono. «Direi che la maggior parte dei ragazzi vuole che restino dei peli – ha detto un’estetista – Sono le donne a volerli togliere completamente». Uno studio su 1.000 uomini ha rilevato che il 63% preferisce che le donne sfoggino i peli pubici ("anche se non molti"). Tuttavia basta non farsene un cruccio. Si tratta esclusivamente di una scelta personale e non esiste un giusto o sbagliato. Ad alcune donne non piace avere i peli pubici e si sentono "più pulite" senza. Altre scelgono di depilarsi in base alle preferenze del partner. La verità è che depilarsi non è mai una passeggiata. È fastidioso, costoso e sicuramente in molte hanno rivisto la loro posizione dopo essere rimaste tappate in casa per mesi durante il lockdown. Se al ritorno si pensava ci sarebbe stato l’assalto all’estetista, in realtà questo non si è verificato. Inoltre ci sono nuovi dati che collegano la rimozione dei peli pubici all’aumento del rischio di alcune malattie sessualmente trasmissibili come herpes e HPV. Insomma, un motivo in più per cambiare abitudini e salutare il ritorno del cespuglio.
· Il Nome dei Marchi.
VI SIETE MAI CHIESTI COSA SIGNIFICANO I NOMI DEI MARCHI? Mary Hanbury e Emily Cohn per "it.businessinsider.com" il 22 settembre 2020. Con le tue Nike ai piedi prendi al volo un cappuccino da Starbucks, mentre vai a fare shopping da Gap, per poi concederti un gelato Häagen-Dazs. Tutti questi marchi fanno parte delle nostre vite. Ma sai cosa significano veramente i loro nomi? Ve lo diciamo noi.
Pepsi deriva del termine medico per indigestione. Secondo il sito della società, l’inventore della Pepsi, Caleb Davis Bradham, avrebbe voluto fare il medico, ma lasciò l’università a causa di problemi in famiglia e diventò farmacista. La sua invenzione originale, nota come “Brad’s Drink”, era composta da un insieme di zucchero, acqua, caramello, olio di limone e noce moscata. Tre anni dopo, Bradham ribattezzò la propria bevanda, che secondo lui aiutava la digestione, “Pepsi-Cola”, dalla parola dispepsia, che significa difficoltà di digestione.
Google deve il suo nome a un errore di pronuncia. Il nome di Google deriva da una sessione di brainstorming alla Stanford University. Il fondatore Larry Page stava progettando un immenso sito di dati insieme ad altri studenti laureati, come abbiamo già raccontato. Uno dei suggerimenti era “googleplex“, cioè uno dei più grandi numeri descrivibili. Il nome Google deriva dalla pronuncia sbagliata da parte di uno studente. Page registrò così la sua società.
McDonald’s ha il nome di due fratelli che gestivano un ristorante di hamburger. Raymond Kroc, il fondatore di McDonald’s, vendeva macchine per frullati e frappè quando incontrò la prima volta i fratelli Dick e Mac McDonald’s, proprietari di un ristorante che serviva hamburger a San Bernardino, in California. La rivista Money sostiene che i fratelli McDonald comprarono molti frullatori da Kroc e che lui rimase così colpito dal loro ristorante in cui si servivano solo hamburger che diventò il loro agente e organizzò un franchise in giro per gli Stati Uniti. Anni dopo, comprò i diritti per usare il nome McDonald’s.
Adidas non è un acronimo per “All Day I Dream About Soccer”. Se pensate questa cosa, vi sbagliate. Secondo quanto sostiene il LA Times, il marchio di abbigliamento sportivo deve il proprio nome al suo fondatore, Adolf Dassler, che iniziò a realizzare scarpe sportive al ritorno dalla Prima Guerra Mondiale. Il marchio unisce il suo soprannome, Adi, alle prime tre lettere del cognome.
“Un genio sussurrò Rolex”, all’orecchio del fondatore. Hans Wilsdorf, il fondatore della Rolex, voleva un marchio dal nome pronunciabile in qualsiasi lingua. “Ho provato a combinare le lettere dell’alfabeto in ogni modo possibile”, ha detto Wilsdorf secondo la Rolex. “Selezionai alcune centinaia di nomi, ma nessuno sembrava quello giusto. Una mattina, mentre ero su un autobus a Cheapside nella City londinese, un genio ha sussurrato ‘Rolex’ al mio orecchio”.
Zara deriva da Zorba, il suo nome originale. Il fondatore di Zara, Amancio Ortega battezzò in origine la sua società con il nome del film del 1964 “Zorba il greco”. Ma non durò a lungo. Il New York Times riferisce che il primo negozio, inaugurato a La Coruña nel 1975, fu aperto a due isolati di distanza da un bar chiamato Zorba. Ortega aveva già realizzato lo stampo per le lettere quando il proprietario del bar gli disse che i due nomi uguali avrebbero creato confusione. Alla fine, sempre secondo il NYT, Ortega ridispose le lettere per realizzare la parola più simile che gli venisse in mente: Zara.
ASOS è un acronimo per AsSeenOnScreen. Il negozio online britannico è stato fondato come AsSeenOnScreen (cioè "come si vede nello schermo") nel 1999 ed è diventato asseenonscreen.com. L’abbreviazione ASOS — che si pronuncia ACE-OSS — si diffuse rapidamente e il sito fu abbreviato in asos.com.
IKEA non è una parola svedese. IKEA non è una parola svedese che non capisci.Il fondatore Ingvar Kamprad scelse il nome del marchio combinando le sue iniziali, IK, con le prime lettere della fattoria e del villaggio dove crebbe nel sud della Svezia: Elmtaryd e Agunnaryd.
Starbucks deve il suo nome a un personaggio di “Moby-Dick”. In un’intervista rilasciata al Seattle Times, il cofondatore di Starbucks Gordon Bowker raccontò l’aneddoto di come scelse il nome. Inizialmente passò in rassegna un elenco di parole che iniziavano con “st” perché pensava suonassero potenti. “Capitò che qualcuno tirò fuori una vecchia mappa della Catena delle Cascades e del Mount Rainier sulla quale era segnalata una vecchia città mineraria chiamata Starbo”, ha detto. “Chiaramente, non appena ho letto Starbo, mi è venuto in mente il primo ufficiale del Pequod [che si chiama Starbuck], la baleniera del romanzo Moby-Dick di Melville”.
Gap fa riferimento al gap generazionale tra adulti e ragazzi. Il primo negozio Gap ha aperto nel 1969 per vendere jeans. Il nome alludeva al divario generazionale tra adulti e ragazzi.
Häagen-Dazs ha un suono danese, ma è completamente inventato. Reuben Mattus, un immigrato ebreo polacco, ha battezzato la propria impresa produttrice di gelato Häagen-Dazs per rendere omaggio alla Danimarca, secondo quanto riportato in un’intervista rilasciata alla rivista ebraica Tablet Magazine. Ma in realtà il nome non significa niente. “L’unico Stato che salvò gli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale è stata la Danimarca, per cui ho scelto un nome danese completamente inventato e l’ho registrato”, ha detto Mattus. “Häagen-Dazs non significa niente. [Ma] attira l’attenzione, soprattutto per la dieresi”.
Nike è la dea greca della vittoria.
Il Gatorade è stato pensato per la squadra di football americano dei Florida Gators. Un team di medici dell’Università della Florida ha sviluppato una bibita sportiva per i Florida Gators, giocatori di football americano che faticavano a giocare con il caldo.
Amazon prende il nome dal fiume più lungo del mondo. Quando Amazon fu lanciata nel 1995, il fondatore Jeff Bezos aveva pensato a un nome diverso. Brad Stone, nel suo libro sull’azienda, riporta che Bezos avrebbe voluto chiamare la sua libreria online Cadabra. Ma il primo avvocato di Amazon, Todd Tarbert, riuscì a convincerlo che il nome aveva un’assonanza troppo stretta con cadaver (cadavere). Sembra che a Bezos piacesse anche il nome Relentless, e se oggi visiti il sito Relentless.com sarai reindirizzato sul sito di Amazon. Finalmente Bezos decise per Amazon, dal Rio delle Amazzoni il fiume più lungo al mondo (in competizione con il Nilo), e incluse un’immagine del fiume nel primo logo della società.
Audi è un imperativo latino. La casa automobilistica tedesca, nata nel 1909, fu fondata da August Horch, che aveva già fondato una fabbrica di auto a cui aveva dato il proprio nome. Il nipote di un suo collega che gli suggerì di tradurre il cognome in latino. La parola tedesca horch è legata al verbo horen (ovvero “udire, ascoltare”) che in latino si traduce col verbo audire. Audi è l’imperativo di audire quindi significa “ascolta!”.
Nutella: inglese+italiano. Il nome della crema spalmabile, che prima si chiamava Supercrema Giandujot, cambiò in Nutella unendo la parola inglese nut (nome generico della frutta a guscio) con il suffisso -ella, che dava un senso di italianità. Un’idea decisamente brillante…
· Le Righe diaboliche.
Alba Solaro per “il Venerdì - la Repubblica” il 27 giugno 2020. l 30 giugno di sessant' anni fa Genova si riempì di magliette a strisce. Un grande corteo antifascista attraversò la città per protestare contro il governo Tambroni e scacciare il Movimento sociale italiano (Msi), che per il 2 luglio aveva indetto il suo congresso proprio lì, nella città medaglia d'oro della Resistenza. Finì con scontri, barricate, jeep incendiate; il comandante della Celere volò nella fontana di Piazza De Ferrari; i manifestanti scapparono nei caruggi, protetti dagli abitanti dei vicoli che dalle finestre gettarono di tutto sulla polizia. I contestatori, studenti e giovani operai, vestivano un'unica divisa: una maglietta a righe bianche e blu, o bianche e rosse, neanche fossimo in una pellicola della nouvelle vague. Le avevano comprate per poche lire alle svendite dei grandi magazzini; erano la versione proletaria della marinière indossata da Brigitte Bardot sulle pagine dei rotocalchi, delle t-shirt dei fichissimi surfer californiani. Fu così che quella passò alla storia come L'estate delle magliette a strisce, come si intitola un libro di Diego Colombo (mentre nella sua autobiografia Fausto Bertinotti è Il ragazzo con la maglietta a strisce). Fu un'estate violenta: le manifestazioni si moltiplicarono, la polizia usò le armi, e il 7 luglio a Reggio Emilia rimasero uccisi cinque giovani; quelli a cui è dedicata la canzone di Fausto Amodei che conosciamo tutti. La generazione delle magliette a strisce, così lontana dall'estetica militante del Pci e dei partiti, anticipava molto di quello che stava arrivando: il corto circuito fra culture giovanili e consumi, l'immaginario che metteva insieme i beatniks, i juke box, l'antifascismo, il sogno di una vita che non girasse solo intorno al lavoro. Le righe dunque sono trasgressive? Beh, quel giorno a Genova di sicuro lo furono.
Stoffa diabolica. Il fatto è che le righe sono diaboliche. Proprio nel senso di demoniaco: qualche secolo fa erano addirittura un marchio di infamia. Lo spiegava lo storico francese Michel Pastoureau in un bel libro purtroppo mai ristampato, La stoffa del diavolo (Melangolo, 1993). In Europa nel Medioevo, scrive Pastoureau, se vestivi a strisce non eri "normale": nella migliore delle ipotesi eri un pazzo, un saltimbanco, un eretico, una prostituta, un boia, un lebbroso. Le righe ti bollavano come un infame, un reprobo. Non certo perché qualcuno si era svegliato storto una mattina e aveva deciso così. Le ragioni sono tante. Nel Levitico si legge «Non indosserai una veste che sia tessuta di due». E non stiamo parlando di lino misto seta, ma dello sguardo medievale, attento alla lettura per piani: le immagini venivano considerate a partire dallo sfondo per poi arrivare al primo piano. E le righe rendono quasi impossibile questa lettura, creano un ostacolo visivo a stabilire quale sia effettivamente il colore di fondo: è il bianco o il blu? Nasce così la fama di stoffa ingannevole, truffaldina come il gioco delle tre carte. Nel 1310 un ciabattino di Rouen, membro del basso clero - racconta sempre Pastoureau - era stato condannato a morte perché sorpreso in vesti rigate. Tanti documenti d'archivio raccontano storie simili. Nel 1254 Luigi IX di Francia tornò dalla Terrasanta con un gruppo di monaci carmelitani avvolti in mantelli rigati bianco-scuri come quelli del profeta Elia. In strada li deridevano e li insultavano per quelle vesti; li chiamavano "i frati barrati", ma solo dopo anni e molti sforzi, papa Bonifacio VII riuscì a convincerli a togliere le barre alle loro cappe. Attenti alla zebra Provate a pensare ai quadri di Bosch e Bruegel: spessissimo c'è un personaggio vestito a righe che attrae lo sguardo su di sé. Nei dipinti medievali i cavalli degli eroi sono sempre immacolati; la zebra invece era finita nei bestiari satanici. Zebra era anche il modo con cui i prigionieri dei campi di concentramento nazisti chiamavano la loro divisa. Qualcuno forse ricorda un'incresciosa buccia di banana su cui scivolò qualche anno fa la catena di abbigliamento Zara: aveva messo in vendita una maglietta da bambini a righe con una vistosa stella gialla che doveva fare effetto sceriffo, e invece ricordava in modo inquietante i pigiami rigati dei piccoli ebrei; dopo un po' di segnalazioni di media israeliani, Zara rimosse dal catalogo la maglietta. Certo oggi i detenuti non vestono più come Chaplin in Charlot avventuriero, con le fasce bianche e nere che in caso di fuga non permettono di mimetizzarsi. Ma come siamo arrivati da lì al glamour senza età delle righe che mettono d'accordo tutti, Pablo Picasso ottuagenario e le tutine dei neonati? È stata una lenta marcia, iniziata con l'imporre divise a righe ai domestici, per poi passare alla carta da parati delle dimore neoclassiche. Finché le strisce non hanno fatto la rivoluzione. Letteralmente: nel 1789 i sanculotti francesi si distinguevano dall'aristocrazia (che amava il bianco) per gli abiti a strisce bianche rosse e blu come la bandiera. Ricorda qualcosa? Sì, pochi anni prima, nel 1777, il vessillo americano a stelle e strisce aveva sventolato per la prima volta a Cooch' s Bridge, durante la Guerra d'indipendenza. Non più reprobe, ma per sempre ribelli, le righe sono giunte fino a noi cariche di un simbolismo tanto irresistibile quanto elusivo. Possono essere anarcoidi, confondere lo sguardo (tutte quelle sovrapposizioni dell'optical art!); oppure portatrici di ordine nel disordine - pensate alle righe del pettine, dell'aratro. Suggellano il bon ton borghese e al tempo stesso la vocazione bohémien delle controculture. O il vagabondare dei marinai. Nel 1868 il granduca Konstantin Nikolaevich Romanov, figlio dello zar Nicola I, riceveva a San Pietroburgo l'equipaggio della fregata General Admiral felice della nuova uniforme a righe orizzontali. Dai mari alle passerelle Dieci anni prima, la maglia dei pescatori bretoni era entrata ufficialmente nel guardaroba della Marina francese, con lo scollo a barchetta, le maniche a tre quarti e 21 righe blu su sfondo bianco: secondo la leggenda quante le vittorie di Napoleone. Se ne innamorò Coco Chanel durante una vacanza in Bretagna nei primi anni Dieci, quando erano a righe anche i castigati primi costumi da bagno, e gli scostumati completi gessati dei gangster. Si può dire che da allora tutti abbiamo avuto almeno una maglietta a righe, noi come Andy Warhol e Jean-Paul Sartre, James Dean e Audrey Hepburn, Patti Smith e Kurt Cobain, i giocatori di rugby e Querelle de Brest. Chanel, sempre lei, diceva che «non si è mai troppo ricchi o troppo magri». Jean Paul Gaultier potrebbe aggiungere che non si hanno mai troppe righe negli armadi. Lo stilista francese con la marinière probabilmente ci va pure a dormire, gli ha ispirato decine di capi, l'ha fatta indossare persino alla boccetta di un profumo. Ama le righe nella consapevolezza che quelle fasciano da sempre il torace dei marinai, e non quello degli ufficiali. Lo scorso febbraio, quando ha presentato a Parigi la sua ultima collezione, le ha spalmate ovunque, dai collant delle modelle alle maniche a sbuffo di top concettuali. Era il suo grande addio alle scene. Ma poi è arrivato il Covid-19. E Gaultier non ha resistito: le ha messe su una mascherina griffata, da cui sboccia una maxi bocca rossa pronta ai baci.
· Il Mastercheff dell'800.
Pasquale Chessa per “il Messaggero” il 30 ottobre 2020. Nella storia degli anni Ottanta, affluenti e progressivi, che si concludono con la caduta del Muro di Berlino, fra Gorbaciov e Reagan, Craxi e Berlinguer, Eco e Kundera, ci restituisce l' aria del tempo anche un cuoco, Gualtiero Marchesi, che nel 1985 ottenne la sua terza stella Michelin con un piatto stratosferico: Riso oro e zafferano. Chi lo assaggiò allora, ricorda sublime l'accostamento del risotto alla milanese con l' oro zecchino commestibile...Sono 238 le ricette d' autore censite dai sette curatori del sontuoso libro, in un tripudio di suggestioni di sapori perduti e ritrovati, intitolato Quando un piatto fa la storia. Bella questione! Una volta mangiato, di un piatto non rimane che il ricordo. Diventa storia quando il ricordo si stratifica nella memoria collettiva, anche di quelli che non l' hanno mai assaggiato. Come il gelato di Procopio Cutò (1686), un siciliano che l' aveva imposto alla Francia del Re Sole. Piluccando attraverso i secoli e i continenti non sfigura la Pizza Margherita di Raffaele Esposito (1889) insieme ai mitici Vol au vent di Marie-Antoine Carême (1800), il cuoco di Talleyrand, e la Pesca Melba (1893) di Auguste Escoffier. Così come non confliggono la supertecnologica Spuma di Fumo (1997) del catalano Ferran Adrià e l' umile Cavolfiore al forno (2006) dell'israeliano Eyal Shani. «Nessuna società è mai sopravvissuta senza il cemento sociale rappresentato dall' organizzazione dell' agricoltura, della cucina e della gastronomia», ci dice Jacques Attali in un densissimo saggio dedicato al Cibo. Già testa d' uovo del presidente socialista Mitterrand e poi del gollista Sarkozy, l' economista e politologo Attali riesce a vincere la scommessa di scrivere «una storia globale, dalle origini al futuro». Fin dai primordi, la scoperta della ruota o della leva, l' innovazione dell' agricoltura o dell' allevamento si spiegano con la necessità dell' uomo di mangiare per vivere. Così anche le guerre e le migrazioni, gli imperi e le nazioni. Dall' antropologia alla dietologia, alla meteorologia all' astrologia, dalla storia delle religioni allo studio dei costumi sociali, dall' economia domestica all' economia industriale la storia del cibo contiene in sé tutte le storie dell' umanità: «Il modo di mangiare influenza da sempre la storia e la geopolitica». La civiltà dell' alimentazione, il suo affermarsi e il suo decadere, dalla tavola rinascimentale alla tavola calda, vive sulla sovrapposizione fra il mangiare e il parlare. Un esempio? Per Attali c' è una relazione di causa ed effetto fra le discussioni ai tavoli delle prime trattorie di Parigi e la rivoluzione francese. La medesima equazione funziona per la scoperta dell' America o per l' industrializzazione. Il passato per Attali non serve solo per capire il presente ma ci consente di prepararci al futuro. Quando ci racconta la scoperta della Diploptera punctata, nuova specie di scarafaggio che secerne un latte altamente nutritivo, risponde da economista alla questione fondamentale per la sopravvivenza del pianeta terra quando dovrà dare da mangiare a nove miliardi di umani. Dalla necessità di inventare nuove forme di cibo, dalla veganizzazione delle diete del futuro prossimo, dalla commestibilità di insetti e vermi, dalla voracità del capitalismo alimentare, la vera spia della inquietudine sui tempi venturi è la crisi attuale della convivialità. Al di là dell' estetica culinaria Attali raccontando il passato ci interroga sul futuro: dipende da come mangeremo!
Rocco Moliterni per la Stampa il 28 giugno 2020. «La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa disperare ma dà anche piacere, perché quelle volte che riuscite o avete superata una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria»: queste parole di Pellegrino Artusi sembrano scritte oggi per quelli che durante il lockdown si sono cimentati con imprese più o meno impossibili come fare il pane o la pizza in casa e hanno spedito agli amici via WhatsApp fior di foto con le mani in pasta. Eppure Artusi, di cui ricorre il 4 agosto il bicentenario della nascita, le ha scritte più di un secolo fa, nella prefazione al suo libro La scienza in cucina e l'arte di mangiare bene, che sta alla gastronomia italiana come I promessi sposi alla nostra letteratura. Se infatti Manzoni dopo essersi «sciacquato i panni in Arno» con il suo romanzo codifica la lingua dell'Italia unita, Artusi, approdato a Firenze in età matura dalla natìa Forlimpopoli, fa lo stesso con la cucina, creando un ricettario che realizza a tavola l'Unità del Paese da poco raggiunta. Parliamo di uno straordinario successo editoriale (non solo per l'epoca) se si pensa alle 35 edizioni e alle oltre 280 mila copie vendute nell'arco di qualche decennio: viene pubblicato per la prima volta (con 475 ricette) nel 1891, quando Artusi ha già settant' anni. L'autore, che morirà nel 1911, fa in tempo a vederne l'«imprevedibile» e crescente successo. Imprevedibile più per gli editori dell'epoca che per Artusi stesso: lui crede a tal punto nel suo lavoro, frutto di ricerche e di sperimentazioni di decenni, che, visti i tanti rifiuti di un mondo editoriale che non gli dà credito in quanto «parvenu» (aveva pubblicato solo un saggio su Foscolo, altra sua passione, passato quasi inosservato), decide di farlo uscire a sue spese presso la tipografia Landi di Firenze. «Qui è bene a sapersi», scrive nella prefazione a una delle tante edizioni, «che gli editori generalmente non si curano più che tanto se un libro è buono o cattivo, utile o dannoso: per essi basta, onde poterlo smerciar facilmente, che porti in fronte un nome celebre o conosciutissimo, perché questo serva a dargli la spinta e sotto le ali del suo patrocinio possa far grandi voli». Ma paradossalmente a non credere in lui e nel libro sono all'inizio anche i suoi concittadini di Forlimpopoli. Ne manda due copie a una lotteria di beneficenza in sostituzione del suo saggio su Foscolo: «Non l'avessi mai fatto, perché mi fu riferito che quelli che le vinsero invece di apprezzarle le misero alla berlina e le andarono a vendere dal tabaccaio». En passant da questa parole traspare l'ironia che gli fu di aiuto per superare altri momenti difficili. Di famiglia agiata (i suoi erano proprietari terrieri e commercianti) aveva deciso di lasciare Forlimpopoli dopo un terribile episodio: la banda del brigante Passatore che imperversava nello Stato Pontificio una notte rapinò e saccheggiò la sua casa e fece violenza a una delle sorelle che non si riprese più. Per prudenza del suo libro Artusi stampa solo mille copie, poi altre mille, poi fa una terza edizione di duemila, e ancora la quarta e la quinta di tremila ciascuna. A questo punto La scienza in cucina prende il volo, le copie si moltiplicano, anche perché a ogni ulteriore edizione l'autore aggiunge nuove ricette fino ad arrivare a quasi mille. C'è da dire che a dargli una mano nella promozione è anche l'interesse che mostra per il volume, e l'invito che ne fa ad acquistarlo nelle sue conferenze pubbliche, Paolo Mantegazza, uno dei primi divulgatori del darwinismo in Italia nonché mille altre cose: fisiologo, patologo, igienista oltre che senatore del Regno. Mantegazza intuisce la modernità dell'Artusi, una modernità che rende l'opera e il suo autore ancora attuali. Tanto attuali che il giallista Marco Malvaldi, l'autore della celebre serie dei «Delitti del Barlume», ha fatto di Artusi anche una sorta di detective, protagonista del romanzo Il borghese Pellegrino (tra i personaggi anche il professor Mantegazza) da poco uscito da Sellerio, dopo averlo già messo al centro, cinque anni fa, di un altro giallo dal titolo Odore di chiuso. Quali sono gli elementi di questa modernità? Artusi anticipa cose che oggi ci sembrano scontate ma che a fine Ottocento non lo erano. Il marketing innanzitutto: individua un segmento di mercato ben preciso e a quello si rivolge. Sono le donne e le massaie della nuova borghesia italiana con le quali instaura un dialogo fitto di corrispondenze e incontri: si dimostra interessato a quello che oggi definiremmo il feedback. Chiede non solo il giudizio sulle ricette del suo libro ma anche di inviargliene di nuove: lui le proverà e se funzioneranno le pubblicherà nelle successive edizioni. Insomma riesce a creare anche senza Facebook quella che oggi chiameremmo una «community» della cucina. Artusi segue un metodo che definisce scientifico: tutte le ricette vengono provate e riprovate nella cucina di casa che nulla avrebbe da invidiare a quella di Masterchef o delle altre mille odierne trasmissioni televisive dedicate al «food». Come fidi scudieri aveva il cuoco romagnolo (di Forlimpopoli anche lui) Francesco Ruffilli e la governante toscana Marietta Sabatini: a entrambi lasciò tra l'altro i diritti del suo bestseller. Scapolo e senza eredi (amava le belle donne anche se non si sposò mai), lasciò gli altri averi alla città natale, che lo ricorda ogni anno con una grande kermesse, la Festa artusiana. Quest' anno si sarebbe dovuta celebrare ad agosto la XXIV edizione, che prevedeva come clou una notte bianca del cibo il giorno della nascita del gastronomo. Il Covid ha rotto le uova nel paniere e non si sa ancora se e come si riuscirà a festeggiare. Del resto anche in vita Artusi ebbe a che fare con virus e vibrioni: una sera a Livorno mangiò un minestrone che gli diede tutta la notte forti dolori di stomaco. Tornato a Firenze scoprì che nella città labronica era scoppiato il colera e che il padrone della casa dove aveva dormito ne era rimasto vittima. Archiviò la cosa scrivendo una nuova ricetta di minestrone.
· Cinema: Trucco ed Inganno.
Cinzia Romani per “il Giornale” il 22 marzo 2020. Due mezze patate in bocca e fu subito Il Padrino. Ma quello era Marlon Brando, l' attore inarrivabile che non aveva bisogno di aiutini. Era lui la maschera, lui il volto. Per sembrare qualcuno, non gli occorrevano ore e ore di trucco prostetico, sotto le mani dei maghi del silicone. Un' icona fatta e finita da Madre Natura. Bastava che apparisse imbronciato sotto a un berretto e sopra una t-shirt e l' aura erotica gli si disponeva intorno. E ha funzionato così anche per gli altri ultimi grandi del cinema, da Bob De Niro a Al Pacino, fino a Marcello Mastroianni, che per il ruolo del radiofonico gay, nel film di Scola Una giornata particolare, si limitò a schiarire i capelli con un tono di castano più caldo. Parlavano la sua mimesi, le mosse, l' intero suo corpo e, fosse vivo oggi, da buon ciociaro pigro e scafatissimo, riderebbe del trucco prostetico, dei calchi di gesso e dell' ambaradam cosmetico avanzato che, assieme a una certa bravura, ha fruttato l' Orso d' argento a Elio Germano, al FilmFest di Berlino. Dove l' attore ha trionfato calandosi nella difformità plasticea del pittore Ligabue nel film di Giorgio Diritti Volevo nascondermi: orecchione a sventola, guancione contadinesche, zigomi da tartaro. Lunghe sessioni di trucco con l' équipe che aveva già lavorato con Pierfrancesco Favino per il ruolo di Buscetta, ne Il traditore, capitanata da Lorenzo Tamburini (David di Donatello per Dogman). Ma è Germano che fa Ligabue, o è il silicone che indossa, a renderlo così simile all' artista mattocchio? «Quel genio di Flavio Bucci fece Ligabue con niente: solo sguardo, tensione e movimento», osserva il veterano Giancarlo Giannini, commentando l' attuale tendenza a forzare i propri connotati per colpire gli spettatori. Per il non dimenticabile interprete di Mimì metallurgico l' utilizzo eccessivo del trucco rimanda al televisivo Tale e Quale Show. Lo stesso discorso vale per Pierfrancesco Favino, che resta un interprete di vaglia, nonostante (e forse proprio per) le impressionanti trasformazioni cui si è sottoposto, incarnando il pentito di mafia Buscetta, diretto da Bellocchio ne Il traditore e poi Bettino Craxi, diretto da Amelio in Hammamet. «Qui il trucco durava cinque ore al giorno, ma lo vivevo come il tipico rituale del teatro No giapponese: grazie al trucco superavo il ponte verso l' oblio di sé», spiega Favino, che nel ruolo del leader socialista ha stregato pubblico e critica: più vero del vero, anche grazie agli artisti prostetici. Come il saronnese Andrea Laenza, che in Tunisia si svegliava all' alba, per provare sul viso di Favino il volto di Craxi da lui creato. Mani sudate, colore ovunque, camici sporchi, ma molta soddisfazione. E sono sempre di più i truccatori professionisti che sfruttano gli effetti digitali e si organizzano nella «Prosthetic Renaissance», compagnia in cui operano i migliori artisti del settore e che lavorano per HBO, Warner, 20Th Century Fox, Disney, Paramount, Scorsese. Quest' ultimo ha alzato l' asticella con The Irishman, pretendendo il ringiovanimento digitale dei suoi attori-feticcio De Niro e Pacino e spillando ai produttori 160 milioni di dollari per l' operazione autoriale. «Nulla è vero, tutto è permesso», scriveva Joseph von Hammer-Purgstall nella Geschichte der Assassinen (Storia degli assassini), opera che colpì profondamente Friedrich Nietzsche. E se adesso tutto è protesi, dal cellulare al computer, non è dato stupirsi di visi e corpi rifatti, composti più da plastica che da carne. Gli attori, però, che secondo Mario Monicelli per esser bravi non devono sembrarlo, vivono nel mondo parallelo della chirurgia plastica, approfittando a mani basse del silicone al platino medico. Materiale usato negli interventi al seno: è dalla medicina che proviene l' uso delle protesi. L' attore è malato e necessita di interventi simil-chirurgici? «Per creare effetti dentro la storia, che sembrino naturali e reali, la prostetica da film è fondamentale», dice Matteo Garrone, che per realizzare il suo Pinocchio ha insistito sul make-up in 3D. A tali mezzi, che negli USA hanno rango da categoria Oscar, ricorre anche Paolo Sorrentino, che creò un Giulio Andreotti-Topo Gigio, dotando Toni Servillo di enormi padiglioni auricolari ne Il Divo. Forse gli attori sentono l' inconsistenza di quanto li circonda e vogliono personalizzarla con la plastica.
· Il Doppiaggio.
Il giorno in cui Hollywood cominciò a parlare in italiano. Novant'anni il primo film doppiato in Usa: protagonisti un Corsaro di Catania, la prof della Callas e comici guai. Massimo M. Veronese, Domenica 02/08/2020 su Il Giornale. Constance era bellissima e il sonoro, appena nato, esaltava la sua parlantina disinvolta e seducente. Peccato sia arrivato poco di lei ai posteri al contrario delle dive che le contendevano la scena negli anni Trenta, Bette Davis, Joan Crawford, Claudette Colbert. Lew Ayres invece veniva dai night della California, a farlo ricco e famoso è il primo dottor Kildare, vent'anni prima di Richard Chamberlain. É così bello che Jane Wyman, per lui lascia il marito, attore lui stesso: Ronald Reagan. Constance e Lew fanno solo un film insieme, un film senza storia ma che fa la Storia, Common Clay, in italiano Tu che mi accusi, storia strappalacrime di una giovane cameriera che si innamora del padrone di casa. Ma è il film che fa del primo agosto del 1930, novant'anni fa, il giorno in cui il cinema americano comincia a parlare italiano. Cinema che parla solo da tre anni, ma che fuori dai confini balbetta. Per le grandi major americane, la Paramount, la Metro Goldwin Mayer, la Twenty Century Fox, il parlato è una tragedia, soprattutto per l'export. Con il muto bastava cambiare lingua alle didascalie e si arrivava dappertutto, ma adesso che i divi del cinema devono fare sullo schermo quello che fanno gli spettatori nella vita di tutti i giorni, cioè parlare, è una catastrofe che spedisce le Norma Desmond sui viali del tramonto e consegna alla pensione le Lina Lamont di Cantando sotto la pioggia dalla voce morbida come una motosega. In Italia poi c'è un problema in più: il regime che italianizza tutte le parole straniere non vuole pellicole che parlino un'altra lingua. E il mercato italiano per gli Usa è il più redditizio d'Europa. I primi esperimenti hanno lo stesso effetto ridicolo delle comiche di Hal Roach. Fanno doppiare i film in tutte le lingue del mondo agli stessi attori, ripetono le scene dieci volte, in tedesco, spagnolo, italiano, francese, con il gobbo a scandire la pronuncia delle parole. Ne escono vivi, ma per caso, solo Stanlio e Ollio. Il loro italiano maccheronico dagli accenti spostati è talmente esilarante che diventa un valore aggiunto, il loro marchio di fabbrica, l'unica traccia rimasta, ma indelebile, di quegli esperimenti falliti. Laurel e Hardy si esprimono in originale in un inglese perfetto, solo da noi fanno ridere anche per come parlano. Ma alla fine degli anni Venti tra Hollywood e New York vive un gruppo di italiani che tentano di sfondare nel cinema, sono attori, musicisti, registi, scenografi. Alla Fox c'è Guido Trento, romano di San Francisco, che come tanti paisà durante la guerra verrà internato nei campi di concentramento del Montana; alla MgM il mantovano Augusto Galli, che lascia l'Italia per accompagnare una sorella dal padre che vive a Pasadena e poi non torna più. O la ballerina Francesca Braggiotti, che sposerà il governatore del Connecticut John Davis Lodge e verrà scelta da Ike Eisenhower come madrina della corsa alla Casa Bianca. A Hollywood vivacchia anche Alberto Rabagliati che ha vinto un concorso in Italia della Fox che cerca il sosia di Rodolfo Valentino. Forse e lì, pensano la major, che bisogna puntare per far parlare i divi, sugli italiani d'America, anche se dell'Italia hanno l'accento dialettale scorretto dallo slang broccolino. Il battesimo del doppiaggio ha come padre un catanese di Hollywood, Franco Corsaro, e come madre Luisa Casellotti, sorella di Adriana a cui Walt Disney appaltò la voce di Biancaneve, quella vera, in inglese. Corsaro, amico di Tyrone Power, Orson Welles e Marlon Brando, entra dalla porta di servizio in una serie di film leggendari. Casablanca, Vacanze romane, Per chi suona la campana, Il Padrino. Luisa Caselotti, nata nel Connecticut, invece viene dal canto: la madre Maria è soprano, il padre Guido maestro di canto. Vengono da Udine, lei sa ballare e cantare, sposerà l'impresario di Maria Callas, Richard «Eddie» Bagarozy, sarà lei a farle per anni da allenatore vocale. Cambia tutto quando la Paramount apre uno stabilimento di doppiaggio a Joinville, in Francia, dopo un anno e mezzo tutte le major decidono di spostarsi in Europa: la prima in Italia è la Casa Cines Pittaluga che apre nell'estate del trentadue, il direttore è Mario Almirante, il papà di Giorgio, leader dell'Msi, i primi doppiatori vengono tutti dal teatro. Gli americani investono 800 milioni di dollari del piano Marshall per fare parlare i loro film nella nostra lingua, nasce lì la scuola dei doppiatori italiani, la migliore del mondo, e comincia una discussione che non è finita mai, doppiaggio o lingua originale? Pensare che all'inizio parlavano come Stanlio e Ollio. Qui diventarono perfetti. «L'italiano - diceva Ennio Flaiano - è la lingua parlata dai doppiatori».
· Il Fotoromanzo.
Che bello, torna il fotoromanzo. Sfida l'Italia dello smartphone. Con "Sogno" riecco gli storici sceneggiati della Lancio. Che travolsero il Paese e sconfissero anche i comunisti. Massimo M. Veronese, Lunedì 03/08/2020 su Il Giornale. É stato per decenni l'appuntamento fisso della settimana come la messa la domenica mattina e i pasticcini da portare a pranzo, il Netflix di carta di milioni di mamme, nonne e fanciulle innamorate. Il fotoromanzo, tornato in edicola in questi giorni dopo anni con Sogno, la rivista che lanciò Sophia Loren, Ornella Muti e Franco Gasparri, è stato, appena nato, il fumettone rosa che raccontava i sogni ritrovati della piccola borghesia, uscita a pezzi dalla guerra, il gemello diverso dei melodrammoni che spopolavano al cinema con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. Si intitolavano Come fuscelli nella tempesta, Anime incatenate, Una donna per l'uomo che amo. Il primo fu Grand Hotel, sedici pagine, 12 lire, la metà di un quotidiano, a fumetti. Centomila copie stampate, ristampate 14 volte in pochi giorni, nove, dieci lettori per ogni copia venduta. Tre anni dopo Silvana Mangano in Riso amaro, dopo aver ballato un boogie woogie con Vittorio Gassman, si mette a sfogliare una copia di Gran Hotel. Il fotoromanzo è ormai un divo del cinema, a cui lavorano i grandi illustratori dell'epoca come Walter Molino. E le copertine con ragazze sempre giovani e eleganti al mare o a i monti, e più tardi in Lambretta o in Vespa, anticipano l'Italia che verrà. È un caso unico in Europa e all'estero un po' ridono di quest'italietta tutta cuore, lacrime e malafemmene. Ma il fotoromanzo, invenzione tutta italiana, sbarca ovunque. Dopo Cino Del Duca, il papà di Grand Hotel, arrivano Mondadori con Bolero e Rizzoli con Sogno. Fanno soldi a palate anche se trattati dagli snob con ironia se non addirittura disprezzo per quello che viene considerato un sottoprodotto culturale. Per la Chiesa e i comunisti sono dei nemici mortali: i primi temono corrompano i costumi, i secondi che distraggano dalla lotta di classe. Ma sei lettori su dieci dei fotoromanzi sono operai e operaie. Racconta Anna Bravo nel libro Il fotoromanzo: «Nel 1953 alla Mazzonis di Torino, fabbrica combattiva, 500 operaie di cui 300 sindacalizzate, l'Unità vende 30 copie, Grand Hotel 300 e Bolero 200». Anche il Sessantotto, che lo considera un prodotto reazionario e antifemminista, viene seppellito da una risata. Per questo il Pci, non potendolo vincere, scende a patti con il diavolo e per le elezioni del 1953 lancia un fotoromanzo più noioso dei discorsi delle sardine che intreccia l'amore alla lotta di classe. Famiglia Cristiana risponde con fumetti che raccontano coppie devote, sante patrone di mogli infelici e ragazze madri. Anche la Bibbia diventa fotoromanzo. Qui, si diceva, nasce Sofia Loren. Quando passa il provino ha 16 anni, parla quasi solo napoletano, ma il fisico e la faccia sono quelli giusti. Poi arriveranno la Lollobrigida, la Cardinale, Gassman, Walter Chiari, la Carrà, Arbore, Mike Bongiorno persino Giorgio Albertazzi e Ottavio Missoni. Il boom è degli anni Settanta quando le case editrici vendono 8 milioni di copie al mese. Ci sono 14 testate della Lancio, 5 della Rusconi, 3 di Mondadori. Si crea uno star system di divi più amati di quelli del cinema. Franco Gasparri, il principe dagli occhi verdi, in un'inchiesta del 1975 risulta il più amato dalle italiane, davanti persino a Mastroianni, Per Claudia Rivelli, Katiuscia, Michela Roc, si creano file chilometriche davanti agli stabilimenti dove girano. Poi la tv privata, con i suoi Dallas e le sue telenovelas, li ripone piano piano nel cassetto. Ritrovarli, nell'era dello smartphone, sembra quasi un Sogno.
Nicolas Lozito per il Messaggero il 23 luglio 2020. Guarda chi si rivede in edicola: il fotoromanzo. Così tanto amato in passato e poi così improvvisamente dimenticato, da domani potremo tornare a leggere gli storici sceneggiati della Lancio in una nuova versione della rivista Sogno: un' operazione nostalgica in cerca di vecchio e nuovo pubblico, sull' onda lunga della riscoperta del vintage: se i vinili battono Spotify, forse il fotoromanzo può battere Instagram. Per capire e soprattutto far capire alle nuove generazioni la portata del fenomeno fotoromanzi bisogna partire dal luogo più insospettabile: il MoMA di New York, uno dei musei più importanti al mondo. Tra le sale è esposta una copertina di un fotoromanzo italiano. Anno 1950, lire 25, ritrae una ancora semisconosciuta sedicenne: Sofia Lazzaro, dalla bellezza violenta e aggressiva, diventata poi famosa, grazie proprio ai fotoromanzi, con un altro cognome: Loren. Sogno, insieme al concorrente Grand Hotel,era una delle più diffuse riviste nel secondo dopoguerra. La forma narrativa era ibrida e tutta made in Italy: fotografia e nuvolette dei fumetti, la cui paternità è da dividere tra Cesare Zavattini e Damiano Damiani, entrambi all' opera dal 1947. C' è molto cinema nei primi fotoromanzi, chiamati anche film statici. Per farli si usavano i fermi immagine degli sceneggiati tv: La principessa Sissi con Romy Schneider è uno dei più letti degli Anni '50. All'epoca il settore vendeva più di un milione e mezzo di copie: un successo che portò a produzioni ad hoc (i primi nel capannone di via Romanello da Forlì a Roma), e giovani attori e attrici che si facevano fotografare nelle scene e nelle mimiche più diverse (ci è passato anche Mike Bongiorno). C' è tanta sperimentazione e artigianato nei primi fotoromanzi: storie semplici, d'amore e di rivincita, di emancipazione e di scoperta, che conquistano soprattutto il pubblico giovane e femminile. A metà Anni '70, con le prime riviste interamente a colori, si arriva a 8 milioni di copie, ma lettrici e lettori sono molti di più: le studentesse si scambiano le riviste, consumano le pagine, discutono sottovoce delle trame più disinibite, aspettano le nuove uscite come oggi noi attendiamo la nuova puntata di una serie televisiva. Sono gli anni di Franco Gasparri, Michela Roc, Roberto Mura, Max Delys. Claudia Rivelli e la sorella, che all' inizio si fa accreditare come Francesca Rivelli, per poi diventare la più famosa di tutte: Ornella Muti. I personaggi dei fotoromanzi superano i divi del cinema: un altro immancabile nome è quello della bellissima Katiuscia, idolo di tutte le ragazzine d' Italia, dai contratti miliardari e dalla parabola troppo veloce, che l' ha cacciata nel tunnel delle droga (ora ne è uscita, ha 63 anni e produce stampe su legno di personaggi dei fumetti). Inesorabile dopo la vetta, inizia la discesa: nonostante negli Anni '80 si affermino attori importanti, come Massimo Ciavarro, e molti altri compaiano agli esordi (da Caterina Balivo a Simona Ventura), la tv privata e le soap opera sconfiggono definitivamente il fotoromanzo, che scompare quasi del tutto dalle edicole. «Quando ero ragazzo, e lavoravo nell' edicola con mio padre, i fotoromanzi erano il prodotto più venduto», racconta Roberto Gregori, dell' edicola Gregori che si trova fuori dall' uscita della metro Lepanto a Roma ed è della sua famiglia dal 1910. Tiene in mano una copia di Grand Hotel, fino a ora l' unica rivista che punta su fotoromanzi contemporanei: «Ogni settimana ne vendiamo qualche copia, soprattutto a signore anziane», spiega. Il rilancio di Sogno è un' idea di Mario Sprea, classe 1934, storico sceneggiatore: «Il nostro è un atto romantico. Con il coronavirus ho ritrovato, quasi per caso, i miei vecchi lavori e abbiamo deciso di scommetterci. Non perché ci sono affezionato, ma perché sono storie ancora attuali. Certo, ci sono le cabine telefoniche, ma tutto il resto è come oggi: gli stessi amori, le stesse crisi esistenziali. Un' Italia che vuole conoscersi e riconoscersi». Una fotografia alla volta. Un fumetto alla volta. E una conclusione sempre senza fine: Continua nella prossima puntata.
· L'Arte e la Conoscenza.
Nicoletta Orlandi Posti per “Libero Quotidiano” il 10 ottobre 2020. Costanza Piccolomini era bellissima. Apparteneva a una nobile famiglia senese ed era andata in sposa giovanissima (aveva 17 anni) a Matteo Bonucelli, uno scultore lucchese trapiantato a Roma che collaborava con il famoso Gian Lorenzo Bernini alla fabbrica di San Pietro. La sua grazia e sensualità in poco tempo vennero notate dal famoso artista che se ne innamorò perdutamente al pari del fratello Luigi, architetto. Da parte sua Costanza non si faceva problemi a concedersi a entrambi, finché una mattina all'alba venne sorpresa proprio dal Maestro mentre si trovava in intimità con il consanguineo. Fu un risveglio drammatico per Costanza che Bernini immortalò per l'eternità nel busto di Medusa, conservato ai Musei Capitolini. L'espressione della Gorgone, l'orrido mostro con i bellissimi capelli biondi che si stanno tramutando in serpenti, è la stessa che lo scultore deve aver visto sulla faccia dell'amante smascherata dal tradimento: sorpresa, impaurita, angosciata. Sotto le sopracciglia aggrottate si riconoscono le palpebre un po' gonfie di Costanza. E sono sue le labbra semiaperte pronte a gridare, il bell'ovale del volto, il collo pieno. Ma il freddo marmo esposto a Roma non la racconta questa storia. Chi si ferma ad ammirare la Medusa di Bernini, così come le tante donne protagoniste dei capolavori della storia dell'arte, ignora chi sia la musa e il perché di quei ritratti. Ecco allora che diventa fondamentale, per chi vuole comprendere, il nuovo libro di Lauretta Colonnelli Le muse nascoste (Giunti, 240 pagine, 29 euro): l'autrice con un lungo lavoro di indagine è andata alla ricerca di quelle donne e ne ha ricostruito le vicende biografiche, il rapporto con l'artista, le ragioni e i segreti della loro presenza, riportando alla luce storie di amore e complicità ma anche casi di violenza e di negazione. Una serie di ritratti intensi e appassionanti, con un ricco apparato di immagini. Un atto di giustizia e di attenzione per quelle muse indispensabili eppure dimenticate. Come Josephine Verstille Nivison, detta Jo, promettente pittrice che si annullò per fare la moglie, la vestale del marito Edward Hopper e soprattutto la modella: è il suo corpo della donna al bancone del bar in Nighthawks, ed è sempre lei, quasi sessantenne, nuda con la sigaretta in mano davanti a un letto sfatto in Morning in the Sun. Poi c'è la signora di mezza età, alta poco più di una bambola, che Andrea Mantegna dipinse sulle pareti della Camera degli Sposi a Mantova. Si chiamava Lucia ma il suo nome è stato trovato solo nel 2017 in una busta conservata nell'archivio Gonzaga. E ancora Michelina Terreri, la modella bambina di Balthus; o Nan, la sorella di Grant Wood, che venne ritratta - con suo grande rammarico - nelle vesti della contadina bruttina e triste di American Gothic, il suo capolavoro. Più famosa è invece Simonetta Cattaneo, maritata Vespucci, amante di Giuliano de' Medici, fratello del Magnifico. Sandro Botticelli, pittore di corte, ne replicò all'infinito il volto nelle Veneri, nelle Grazie, nella Primavera codificando il concetto di bellezza dei neoplatonici: i tratti sereni e pensosi del viso, gli occhi scintillanti di luce interiore, i lunghi capelli biondi, la morbidezza sensuale delle forme, la regalità del portamento, l'eleganza dei gesti. Val la pena sottolineare che l'incredibile ricerca di Lauretta Colonnelli - condotta attraverso i documenti storici, le cronache del tempo, il racconto di sé che le donne hanno lasciato nelle pagine di lettere e diari - è iniziata dal collare nero indossato da Marguerite in tutti i ritratti che le fece il padre, Henri Matisse, a partire dal 1907. Alcuni storici dell'arte lo avevano interpretato come un omaggio all'Olympia di Manet, la Colonnelli ha invece scoperto che quella striscia di tessuto nero copriva una profonda cicatrice e il ricordo di un episodio drammatico. Affetta da difterite Marguerite un giorno ebbe una forte crisi tanto che le fu praticata una tracheotomia d'emergenza sul tavolo da cucina, mentre il padre la teneva immobile. E come se non bastasse, durante la lunga convalescenza in ospedale, contrasse il tifo. Fortunatamente le condizioni migliorarono poco per volta e il rapporto con il padre diventò sempre più forte. «Fu con questo ritratto che Matisse cambiò il suo modo di dipingere», spiega Laura Colonnelli narrando anche del lento ritorno alla vita di Marguerite che nel 1945, alla fine della guerra, riemerse da sei mesi di prigionia nel campo di concentramento di Ravensbrck sfigurata dalla torture della Gestapo. Matisse non seppe mai cosa accadde, lei evitò di raccontarglielo. Ma parlavano i suoi occhi. Il Maestro allora ricominciò a ritrarla. A ogni nuovo disegno i suoi lineamenti ammaccati e contratti sembravano placarsi. Nell'ultimo della serie il viso di Marguerite appare finalmente in pace. Da leggere assolutamente.
Viaggio nell'Italia che fu (con Dante come guida). Giulio Ferroni racconta i nostri borghi e le città muovendosi sulle tracce del grande poeta. Paolo Bianchi, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. Quando ho preso in mano il tomo di un accademico fra i massimi esperti di Dante, Giulio Ferroni, L'Italia di Dante - Viaggio nel paese della Commedia (La Nave di Teseo, pagg. 1.234, euro 30) ho mentalmente reso grazie ad Aurora, la sfolgorante allenatrice della palestra, per avermi così tanto incalzato negli ultimi mesi. Mi ha reso capace non solo di aprirlo, ma anche di spostarlo qua e là per la scrivania. Ammetto che in un primo tempo avevo temuto la mattonata sulle gonadi, poi mi sono immerso nella lettura e ho cambiato idea, a tu per tu con quello che, credo, sia stato lo spirito dell'impresa: aiutarci a rileggere la Divina Commedia attraverso i luoghi geografici evocati da Dante, e poi mettendone il testo a confronto con l'oggi, giocando a ping pong con i segni del paesaggio com'erano e come li vedeva il poeta e come sono adesso, visti da Ferroni. In settecento anni e con l'unificazione dell'Italia in un solo Stato dotato di una lingua nazionale ormai unica, che pure ha in comune con l'allora vulgaris eloquentia decine di migliaia di termini, non solo lo scenario, ma anche il modo di descriverlo è cambiato. Essendo il libro un diario così corposo su viaggi e spostamenti compiuti da Ferroni nel corso degli anni 2014, 2015, 2016, e per quanto ordinato in ordine cronologico, può essere divertente da consultare anche saltando di qua e di là, o andando a cercare i posti che già si conoscono, giusto per metterli a confronto con la versione ferroniana, oppure lasciandosi semplicemente incuriosire dalla forza evocativa dei toponimi. Eccone qualcuno preso a caso fra migliaia: Pomarance, Pietramala, Diamante, Fluminimaggiore, Zappolino. Solo a leggerli, vien voglia di andarci. La ricchezza storico-artistica-culturale e paesaggistica del nostro Paese è capillarmente dissezionata in questa Baedeker densa di particolari, di aneddoti, di considerazioni anche personali dell'autore. Il tutto in equilibrio «tra persistenti tracce di ciò che era allora e segni di tutto ciò che è passato su di essi nel tempo». Un esempio che riguarda da vicino chi scrive: a Biella in tutte le scuole si studia la vicenda di fra Dolcino, l'eretico a capo della setta degli Apostolici, citato nel Ventottesimo canto dell'Inferno. Molti fatti sono avvenuti lì vicino, in luoghi che tutti i biellesi conoscono, la Valsessera, Trivero, la panoramica Zegna, Còggiola. Un posto reale è sempre qualcosa di più e di meno di come lo si immagina tra le pagine di un libro, nelle quali di solito lo si idealizza. Il monte Rubello, dove Dolcino e la sua amante Margherita furono catturati nel 1307 per poi essere suppliziati in modi alquanto orrendi, è ancora lì da vedere, insieme alla rielaborazione del rifugio che li ospitò. Non una vetta imprendibile, se perfino Maometto nell'Inferno avverte fra Dolcino di sbrigarsi a rompere l'assedio. Tutti noi italiani siamo passati migliaia di volte nei luoghi che hanno a che fare con quanto sapeva e ci raccontava padre Dante. Con il suo diario di viaggio lo studioso perciò compie due operazioni: ci fa ripassare la storia e ci riporta alla geografia presente. Anzi, alla società. Per dire, nei luoghi dove spadroneggiava l'Ezzelino da Romano evocato da Cunizza nel Nono canto del Paradiso, oggi campeggiano scritte come «Sud=zavorra». E Firenze? La città che «seco mi tenne in la vita serena», dice Dante nel Sesto canto dell'Inferno, quella verso cui ha sentimenti contrastanti e l'amarezza di un amante esiliato. La città «piena d'invidia sì che già trabocca il sacco», è oggi soffocata dalle gabbie turistiche, ma è pur sempre la città del Battistero (l'antico «Batisteo» ricordato da Cacciaguida nel Paradiso), il cuore medievale di un nucleo urbano pronto per il suo epocale Rinascimento. Come si fa a non essere d'accordo con Ferroni quando sostiene che «tornare a Dante è anche un po' sfuggire all'inessenzialità e all'inconsistenza di tanta letteratura di oggi, alla sua subalternità al mercato, ai modelli mediatici»? Dante, fondando una lingua letteraria, definisce anche i confini della nazione che l'Italia è divenuta poi, nella sua «turbinosa consistenza linguistica, geografica, politica, morale». Insomma ci fa ripensare a quanto è grande questa nostra piccola Italia, e alla concretezza, alla tangibilità del territorio, altro che mappe di Google, altro che occhi satellitari che rendono tutto astratto, uniforme, illusorio, altro che navigatori che segnalano strade, e non panorami. Se il tempo è passato e la velocità è aumentata, non per questo lo spazio si è ridotto. Questo libro così on the road fa venire voglia di rileggere Dante. Fra l'altro per una felice coincidenza mi capita sotto mano uno strano libro, davvero sorprendente, Dante, Commedia. Una decodifica in prosa narrativa fatta da Alessandro Nava (Manzoni editore, pagg. 500, euro 30), una traduzione dell'intera Commedia nell'italiano di oggi, senza note, come fosse un romanzo. Appassionante. Permette di rendersi conto di quanto questo capolavoro sia fluido, quanto divertente, quanto vicino a noi. Chi crede nelle giornate di (memoria, donne, terra, vita, pace e via dicendo, non si salva più una casella del calendario) avrà da quest'anno anche la possibilità di concentrarsi sul Dantedì, il prossimo 25 marzo. Fra le tante celebrazioni della giornata di Dante alcune sanno di rancido accademismo, o di chiacchiere in libertà, come succede quasi sempre in questi casi, ma altre si salveranno, soprattutto quelle legate al territorio. Nel libro si avverte molto, fra l'altro, il senso della resistenza delle culture locali, dei campanilismi, dei particolarismi, oggi più che mai in un mondo forse solo apparentemente dominato dalla lingua comune, più o meno fluida, più o meno gergale, della rete.
Solo un italianista in fondo può permettersi di spiegarci la geografia dell'Italia. Una geografia che il poeta toscano conosceva bene, in un tempo in cui le mappe erano già accurate e la toponomastica non troppo lontana dall'origine etimologica. La conosceva sia per esperienza personale, sia per studio, sia per virtù della sua immaginazione strepitosa. La Commedia, dopotutto, è il viaggio per eccellenza.
Roberta Scorranese per il Corriere della Sera il 3 marzo 2020. Un Davide elegante e sinuoso, seduto, con la testa di Golia che giace ai suoi piedi. Fino a poco tempo fa la firma di questo dipinto era nascosta - offuscata dagli strati del tempo - proprio nella spada, ma un restauro firmato da Simon Gillespie a Londra l' ha portata alla luce: quel soggetto biblico, datato 1639, è di Artemisia Gentileschi. Non solo: sarebbe stato eseguito proprio durante quel breve - e in parte ancora oscuro - soggiorno londinese nel quale l' artista romana (1593-1654) raggiunse il padre Orazio, ormai anziano, impegnato nella decorazione di un soffitto in una residenza della Corte. La notizia arriva a poche settimane dall' inaugurazione della grande mostra che la National Gallery dedica alla pittrice e proprio a Londra si dipana questa storia affascinante, che comincia nel 1975, quando il dipinto apparve per la prima volta in un' asta da Sotheby' s. All' epoca venne attribuito a Francesco Guerrieri, un apprezzato allievo di Orazio, ma quando, nel 1996, il connoisseur Gianni Papi vide una riproduzione fotografica in bianco e nero del quadro cominciò a pensare ad Artemisia. Oggi la nuova attribuzione è firmata proprio da Papi, importante studioso dei caravaggeschi, in un articolo in via di pubblicazione su The Burlington Magazine. Al Corriere Papi racconta: «Il proprietario, che vuole restare anonimo, acquistò il quadro nel 2018 in un' asta della Hampel Fine Art a Monaco. Mi chiese di studiarlo. Poi partì anche il restauro. Subito ho riconosciuto la mano di Artemisia: il color ocra dell' abito di Davide, per esempio. E la stessa figura centrale di Davide rimanda ai famosi autoritratti di Artemisia. Ma dietro c' è una grande quantità di documenti che attribuiscono alla pittrice più di un quadro con un soggetto simile». Poi, nei laboratori di Gillespie, ecco la scoperta della firma, ben leggibile da vicino sulla spada con cui il guerriero ebreo decapita Golia, il gigante filisteo che terrorizzava il suo popolo. «Artemisia», si legge e Papi commenta: «Quello di Londra potrebbe essere addirittura appartenuto alle collezioni di Carlo I». Tracce di questa ipotesi ricorrono in un testo di Horace Walpole, autore del XVIII secolo: «Il re Carlo I d' Inghilterra aveva diverse opere di Artemisia Gentileschi e la migliore era David con la testa di Golia». Il dipinto non entrerà nella mostra alla National Gallery, ma sarà visibile nel Simon Gillespie Studio, a Mayfair, durante quasi tutto il periodo dell' esposizione, da aprile a giugno. E poi, naturalmente, si stanno facendo le prime ipotesi sul destino di un' opera come questa, che potrebbe essere ceduta in commodato d' uso dal proprietario a qualche museo pubblico. Di certo colpisce il tempismo di questa ri-attribuzione, che arriva in un momento in cui Artemisia è molto popolare: oltre alla mostra londinese, da poco sono state restaurate alcune sue lettere indirizzate all' amante Francesco Maria Maringhi, mentre il Nationalmuseum di Stoccolma ha acquistato una sua Santa Caterina . Si parla della «rivincita» tardiva di una delle pochissime pittrici del Seicento passate alla storia. Papi provoca: «Chiamiamola pittore e non pittrice : va confrontata con i grandi artisti del suo tempo, non con le donne». Grandi artisti che, manco a dirlo, erano tutti maschi.
Un Dantedì “digitale”: ecco tutte le iniziative per la giornata di Dante. La prima giornata nazionale dedicata a celebrare il poeta ai tempi del coronavirus: chiuse scuole, università e musei, tutti gli eventi si sono trasferiti sul web, in radio e in tv. Ecco cosa non perdere. Lara Crinò il 25 Marzo 2020 su La Repubblica. E quindi uscimmo a riveder le stelle: così si chiude l'Inferno dantesco. Versi che in tempi di coronavirus risuonano in modo singolare, come un appello alla speranza e insieme alla nostra comune identità di italiani. E così la prima edizione del 25 marzo come Dantedì (il 25 marzo 1300 è designato come inizio del viaggio dantesco nell’Aldilà), ossia la giornata nazionale dedicata al poeta istituita dal ministero dei Beni Culturali, non è stata annullata. Si è invece trasferita online e sui media, in un momento in cui tutte le istituzioni culturali del paese, dalla scuola all’università, dalle accademie ai musei, sono chiuse. Gli appuntamenti sono moltissimi e tutte le iniziative sono identificate dagli hashtag ufficiali #Dantedì e #IoleggoDante. Eccone alcune.
Nei musei. Sul canale YouTube del MiBACT, un video di 40 minuti – aperto da un appello di Carlo Ossola, presidente del Comitato Nazionale per le celebrazioni dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, vede alternarsi italianisti e dantisti che raccontano la vita del sommo poeta e la Divina Commedia. Il presidente dell'Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, spiega come il senso di questa festa sia di unire dantisti e dantofili, come li definiva Giosuè Carducci, ossia studiosi e appassionati amatoriali, mentre lo storico della letteratura Luca Serianni evidenzia quanto sia forte la sua impronta sulla nostra identità, dal momento che ogni italiano ne conosce a memoria almeno un verso. Sempre sullo stesso canale sono pubblicate le letture dantesche e le iniziative di varie istituzioni museali. Gli Uffizi di Firenze hanno invece pubblicato sul loro sito un’ esposizione virtuale dedicata a Dante, intintolata Non per foco ma per divin’arte. Immagini dantesche dalle Gallerie degli Uffizi: una scelta di 11 opere appartenenti alla collezione delle Gallerie, tra dipinti, disegni e sculture dal Quattrocento all’Ottocento che raccontano la figura, i personaggi e la fortuna dell’Alighieri nella storia dell’arte. Tra queste l’affresco di Andrea del Castagno raffigurante il Poeta e scene dalla Divina Commedia come La Selva oscura di Federico Zuccari, oltre a capolavori di Cimabue, Giotto, Botticelli e Pio Fedi. Sulla pagina Facebook del museo è disponibile il video del tour archeologico sotto il piano stradale della fabbrica vasariana. Anche il Museo e Real Bosco di Capodimonte partecipa alle celebrazioni citando versi della Divina Commedia abbinati alle opere della propria collezione, con gli con gli hashtag ufficiali #Dantedì e #IoleggoDante. Tra le immagini selezionate quelle dei dipinti riferiti ai sette vizi capitali (Lussuria, Superbia, Accidia, Gola, Invidia, Avarizia e Ira) del fiammingo Jacques de Backer, presenti in Collezione Farnese, o il busto di Dante in marmo di un ignoto del XIX secolo, esposto nella mostra Depositi di Capodimonte.
Le iniziative online delle scuole. Letture e declamazioni online, video e performance dedicate. Ma anche lavori interattivi e laboratori digitali. Così la scuola ha celebrato Dantedì. Molti istituti hanno istituito, alle 12 in punto, lezioni a distanza, letture di versi e approfondimenti. Per Dantedì il Ministero dell'Istruzione ha lanciato nei mesi scorsi anche un concorso. Video, disegni, fumetti, storyboard, audio-letture, opere artistiche, coreografie: sono oltre 300 gli elaborati giunti dalle varie scuole. Sulla sua pagina Facebook la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, ha condiviso il video, realizzato dai ragazzi dell'Istituto Vittorio Gassman di Roma, con la sua terzina preferita: Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.
Dante in tv e alla radio. Un giorno con Dante e tutte le sue voci, da quella di Vittorio Gassman a quelle di Giorgio Albertazzi, Roberto Benigni e di un'inedita Samantha Cristoforetti. Ma anche le voci dei suoi studiosi, dei ricercatori e persino quella dell'uomo che fu a lungo il custode della sua tomba, a Ravenna. Per tutto il giorno, sulle reti tv Rai, si alternano 20 “pillole” di terzine dantesche tratte dalle Teche Rai e interpretate da grandi nomi del teatro e non solo, che sono disponibili anche su RaiPlay. Sempre su RaiPlay, inoltre, Rai Teche propone la ripubblicazione integrale della lettura della Divina Commedia da parte di Vittorio Sermonti e la Vita di Dante, di Vittorio Cottafavi, una miniserie in 3 puntate del 1965 interpretata, tra gli altri, da Giorgio Albertazzi e Loretta Goggi. Il Sommo Poeta arriva anche in prima serata, alle 21.10 su Rai Storia, con Dante e l'invenzione dell'Inferno e l'introduzione del professor Alessandro Barbero. È invece il Dante guerriero, meno conosciuto, il protagonista (22.10, sempre su Rai Storia) delle Cronache del Medioevo, dove si ricorda lo scontro tra la coalizione dei guelfi fiorentini e quella dei ghibellini guidata da Arezzo. Alle 22.40, ancora Rai Storia recupera il Diario di un cronista di Sergio Zavoli con l'incontro del 1965 tra lo stesso Zavoli e Antonio Fusconi, guardiano della tomba del poeta a Ravenna e prossimo alla pensione, che ricorda la sua esistenza interamente dedicata dal 1920 a quel monumento funebre. Il Dantedì della Rai si chiude alle 23.10 - ancora su Rai Storia- con Lezioni di Storia. Dante Alighieri, una patria lontana in cui la storica Chiara Mercuri si sofferma sulla figura del poeta esiliato e sul suo rapporto con questa condizione. Oltre alla programmazione su Rai5 e Rai Storia, infine, Rai Cultura propone sul proprio portale web uno speciale con i commenti a singoli canti e temi della Divina Commedia da parte di dantisti, filologi e critici letterari, la lettura dei suoi versi da parte di interpreti d'eccezione, lo storico sceneggiato Rai del 1965 Vita di Dante e approfondimenti di esperti sulla sua biografia, le sue opere, la sua epoca.
Dantedì, le voci degli studiosi: guarda il filmato. E alle 12 l’invito a leggere i versi della «Commedia». Pubblicato mercoledì, 25 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Il 25 marzo del 1300 iniziava il viaggio ultraterreno dell’Alighieri nell’aldilà (data concordata dagli studiosi) attraverso il capolavoro senza tempo della Commedia. E in quella stessa data inizia il viaggio del Dantedì, la prima giornata nazionale che omaggia il grande poeta. L’idea è nata il 18 giugno 2017 in un corsivo del giornalista e scrittore Paolo Di Stefano sul «Corriere» (leggi qui il suo commento), in vista delle celebrazioni, nel 2021, del settimo centenario della morte di Dante (nel 1321). Con il linguista Francesco Sabatini veniva così coniato il termine «Dantedì», che ha poi dato il nome alla Giornata istituita dal Governo su proposta del Ministero per i Beni e le attività culturali (Mibact). Dario Franceschini, ministero per i Beni e le attività culturali e per il turismo«Il 25 marzo si celebra il primo Dantedì, una giornata che in questa prima edizione non potrà che essere esclusivamente digitale — dichiara il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini —. Le tantissime iniziative nate spontaneamente sul territorio sin dal primo annuncio della giornata, avvenuto lo scorso 17 gennaio, con la sua istituzione decisa dal Governo, così come quelle promosse dalle istituzioni, si sono spostate sulla Rete. Oggi più che mai è necessario ricordare in tutta Italia e nel mondo il genio di Dante con una lettura individuale e al contempo corale della sua opera, con un forte coinvolgimento delle scuole, degli studenti in questi giorni impegnati nelle lezioni a distanza, delle istituzioni culturali, della Rai e del “Corriere della Sera” da cui è partita questa iniziativa. Dante ricorda molte cose che ci tengono insieme: Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia».
Per l’emergenza coronavirus tutte le iniziative hanno assunto forma virtuale. Dalle 11, sul canale YouTube del Mibact e su corriere.it sarà trasmesso un filmato realizzato per la giornata dantesca. Il Mibact e il Ministero dell’Istruzione invitano poi gli italiani, alle 12, a leggere l’Alighieri e a riscoprire i versi della Commedia. Partecipano gli studenti nelle lezioni a distanza, e poi tutti i cittadini che lo desiderano. Pillole, letture in streaming, performance proseguiranno online per tutto il giorno. Gli hashtag ufficiali sono #Dantedì e #IoleggoDante. Per celebrare la Giornata, l’Associazione degli Italianisti (Adi, presieduta da Gino Ruozzi), con la sua sezione didattica Adi-SD e il Gruppo Dante (diretto da Alberto Casadei), organizza sempre il 25 marzo, alle 12 e alle 15, in accordo con Mibact e Ministero dell’Istruzione, la lettura online in contemporanea nelle scuole superiori del Canto XXVI dell’Inferno, in particolare il discorso di Ulisse. E per l’occasione la mostra Ulisse. L’arte e il mito dei Musei San Domenico di Forlì, ora chiusa per il coronavirus, mette a disposizione un video sul canale YouTube FondazioneCrfo. Su dante.noi.it è invece online il materiale di circa quaranta scuole che hanno seguito il percorso didattico Perché Dante è Dante?. E con il Ministero dell’Università e della ricerca, l’Adi ha accordato il suo patrocinio alle iniziative online degli atenei; tra questi: le Università di Bologna, Catania, Napoli Federico II, Perugia per Stranieri, Pisa, Roma Sapienza, Sassari. Altre attività coinvolgeranno il Centro per il libro e la lettura e la Fondazione Pordenonelegge che alle 12.30, alle 15 e alle 17 pubblicherà sui social le videolezioni inedite dei dantisti Alberto Casadei e Giuseppe Ledda e della scrittrice e poetessa Laura Pugno. L’Accademia della Crusca, su iniziativa del presidente onorario Sabatini, invita a un flashmob dalla finestra di casa (alle 18) per leggere l’incipit della Commedia e pubblica sul suo canale YouTube le letture di oltre 50 tra accademici e personalità della cultura e dello spettacolo. Anche il flashmob proposto dalla Società Dante Alighieri parte alle 18 e invita a superare l’isolamento leggendo alla finestra due terzine del V Canto dell’Inferno, in cui Paolo e Francesca dimostrano che l’amore vince tutto. Partecipano tra gli altri lo scrittore Gianrico Carofiglio, il critico Giulio Ferroni, il critico d’arte Claudio Strinati, il poeta Davide Rondoni. Al Dantedì prendono parte anche Rai e Rai Teche, in collaborazione con Mibact e ministero dell’Istruzione, con l’iniziativa Dante per un giorno: le principali reti televisive manderanno in onda pillole d’archivio di grandi attori che leggono passi dalla Commedia, da Vittorio Gassman a Roberto Benigni, con un’inedita Samantha Cristoforetti. Tra le altre iniziative, infine, la Soprintendenza archivistica e bibliografica della Lombardia (Sab), propone alcuni straordinari manoscritti danteschi del Trecento, in un viaggio virtuale (dalle 12 alle 20) sulla pagina Facebook della Sab e sul suo sito.
Roma, riemerso sarcofago del VI secolo a. C.: forse la tomba di Romolo. Pubblicato lunedì, 17 febbraio 2020 su Corriere.it da Natalia Di Stefano. All’inizio del Novecento gli studi di Giacomo Boni, archeologo e architetto e senatore del Regno d’Italia, avevano consentito di ipotizzare la presenza di un «heroon» — tomba dell’eroe — dedicato al fondatore della città di Roma proprio nel Foro Romano, a pochi metri dal Lapis Niger e dal Comizio. Oggi, a un anno di distanza dall’avvio delle indagini archeologiche che seguono la documentazione di Boni, a cura del Parco archeologico del Colosseo, gli scavi alla Curia-Comitium hanno regalato una scoperta di portata «eccezionale», come annunciato dalla direttrice del Parco Alfonsina Russo. Al di sotto della scalinata di accesso alla Curia, realizzata negli anni Trenta del secolo scorso da Alfonso Bartoli, è riemerso un ambiente sotterraneo con all’interno un sarcofago in tufo lungo circa 1,40 metri, associato ad un elemento circolare (probabilmente un altare) e scavato nel tufo del Campidoglio, che dovrebbe dunque risalire al VI secolo avanti Cristo. Non un luogo qualsiasi: «Il contesto ubicato al di sotto della scalinata di accesso alla Curia — spiegano dal Parco archeologico del Colosseo — risulta evidentemente preservato per il suo stesso significato simbolico dalla sovrastante Curia e coincide con quello che le fonti tramandano essere il punto «post rostra» (dietro i Rostra repubblicani) dove si colloca il luogo stesso della sepoltura di Romolo (secondo la lettura di un passo di Varrone da parte degli Scoliasti di Orazio, Epod. XVI). Non è un caso che in asse con l’ambiente sotterraneo si trovi il Lapis Niger, la pietra nera indicata come luogo funesto perché correlato alla morte di Romolo». Una serie di elementi, dunque, lasciano intendere che potrebbe trattarsi del sarcofago del primo Re di Roma. Ma per avere maggiori dettagli sulla scoperta si dovrà attendere venerdì, quando la direttrice Russo e l’équipe di archeologi e architetti impegnati nelle ricerche hanno fissato la presentazione ufficiale dello scavo e delle prospettive di valorizzazione di questo «monumentum».
Roma, sepolcro di Romolo: il mistero del sarcofago ritrovato. Pubblicato lunedì, 17 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Conti. A caccia di Romolo. Il Direttore del Parco Archeologico del Colosseo, Alfonsina Russo, parla di «eccezionale scoperta» emersa dagli scavi alla Curia-Comitium nel cuore del Foro Romano. Potrebbe trattarsi della Tomba di Romolo? Stiamo ai fatti ufficiali. Come spiega una nota del Parco Archeologico, si tratta del frutto delle indagini archeologiche programmate. Di fronte alla Curia-Comitium, si legge, «è emerso un ambiente sotterraneo con all’interno un sarcofago in tufo di circa 1,40 metri di lunghezza, associato a un elemento circolare, probabilmente un altare. Il sarcofago è stato scavato nel tufo del Campidoglio e dovrebbe pertanto risalire al VI secolo avanti Cristo». Si tratta di scavi decisi anche in base alla documentazione di Giacomo Boni all’inizio del ‘900 «che aveva consentito di ipotizzare la presenza nel Foro Romano, a pochi metri dal Lapis Niger e dal Comizio, di un heroon dedicato al fondatore della città di Roma». Un heroon era un santuario monumentale dedicato a un eroe.Torniamo alla scoperta: «Il contesto coincide con quello che le fonti tramandano essere il punto post rostra, ovvero dietro i Rostra repubblicani, dove si colloca il luogo stesso della sepoltura di Romolo. Non è un caso che in asse con l’ambiente sotterraneo si trovi il Lapis Niger, la pietra nera indicata come luogo funesto perché correlato alla morte di Romolo». Tutto questo verrà spiegato, annuncia la direzione del Parco, venerdì durante una conferenza stampa. Insomma il sarcofago e l’altare, stando alla nota, sarebbero legati al culto di Romolo. Venerdì verranno illustrati gli scavi e le prospettive di valorizzazione. Alfonsina Russo lo aveva già annunciato nel dicembre scorso presentando i piani della sua direzione: «Siamo impegnati a tutelare con attenzione tutto il Parco Archeologico del Colosseo con l’area dei Fori. Ora siamo pronti a partire con nuovi e importanti progetti. Penso alla campagna di scavi sulle pendici meridionali del Palatino e nell’area sulla quale affaccia la Curia Iulia, la sede del Comizio, ritenuto nella leggenda sede della tomba di Romolo».Tutto bene? Ci sono molti «ma». Il primo, molto autorevole, arriva da Andrea Carandini, grande archeologo, per anni impegnato negli scavi sul Palatino, già professore di Archeologia e storia dell’arte greca e romana a La Sapienza e autore con Paolo Carafa dell’accuratissimo The Atlas of Ancient Rome: Biography and Portraits of the City (Princeton University Press, 2017). Sostiene Carandini: «Penso sia sbagliato che lo Stato proceda a scavi così importanti e non li pubblichi, mettendoli a disposizione per un dibattito scientifico. Gli annunci clamorosi, a mio avviso, servono a ben poco. In questo caso sarebbe più giusto parlare di un ritrovamento di ciò che era noto, non di una nuova scoperta. Opera meritoria, ne sono molto contento. Ma è bene sottolineare che il corpo di Romolo, quando venne ucciso, venne sparso a pezzi per tutta la città. Si potrebbe eventualmente parlare di una ricostruzione, di un luogo dedicato al culto molto tempo dopo la sua scomparsa». E qui Carandini apre un’altra pagina: «Vorrei ricordare che Paolo Carafa, nella sua opera Il Comizio di Roma dalle origini all’età di Augusto, del 1997, spiega bene dove le fonti collochino il luogo della morte di Romolo e della sua possibile sepoltura. Ovvero di fronte alla Curia Hostilia, il più antico luogo di riunione del Senato Romano, che oggi di fatto coincide con la Chiesa dei Santi Luca e Martina. Lì davanti venne ucciso Romolo». Un giallo archeologico che risale al 716 avanti Cristo, anno in cui morì Romolo. Almeno su questo, nessuna discussione.
Da repubblica.it il 17 febbraio 2020. Un ambiente ipogeo, sotterraneo, con un sarcofago in tufo associato a quello che sembra essere stato un altare. E' la nuova straordinaria scoperta fatta a Roma, all'interno del Foro Romano, accanto al complesso della Curia-Comizio. Lo annuncia il direttore del parco, Alfonsina Russo, che venerdì 21 febbraio presenterà la scoperta alla stampa. Il ritrovamento, anticipano dal Parco Archeologico del Colosseo, è avvenuto nell'ambito delle indagini archeologiche programmate e a distanza di circa un anno dall'avvio degli studi sulla documentazione prodotta da Giacomo Boni all'inizio del '900, che aveva consentito di ipotizzare la presenza nel Foro Romano, a pochi metri dal Lapis Niger e dal Comizio, di un heroon dedicato al culto del fondatore della città di Roma. Il sarcofago, realizzato con il tufo del Campidoglio, misura circa 1,40 metri di lunghezza e dovrebbe risalire al VI sec. a.C. "Il contesto - spiegano dal Parco Archeologico del Colosseo - ubicato al di sotto della scalinata di accesso alla Curia, realizzata negli anni '30 del secolo scorso da Alfonso Bartoli, risulta evidentemente preservato per il suo stesso significato simbolico dalla sovrastante Curia e coincide con quello che le fonti tramandano essere il punto post rostra (dietro i Rostra repubblicani) dove si colloca il luogo stesso della sepoltura di Romolo (secondo la lettura di un passo di Varrone da parte degli Scoliasti di Orazio, Epod. XVI)". Non è un caso, fanno notare gli esperti, "che in asse con l'ambiente sotterraneo si trovi il Lapis Niger, la pietra nera indicata come luogo funesto perché correlato alla morte di Romolo".
Isaac Scher per it.businessinsider.com il 22 febbraio 2020. Per anni, c’è stata una controversa teoria sulla famosa tomba di 3.300 anni fa del re Tutankhamon: i resti della regina Nefertiti sarebbero contenuti proprio dietro le sue pareti. Un’équipe di scienziati guidata da Mamdouh Eldamaty, ex ministro egiziano delle antichità, di recente sembra aver confermato la teoria. I ricercatori hanno esaminato la tomba con un radar che penetra nel terreno e hanno scoperto uno spazio precedentemente sconosciuto vicino a dove è sepolto Re Tut. L’area scoperta è alta circa 2 metri e lunga 10. La teoria della sepoltura di Nefertiti è stata avanzata per la prima volta nel 2015 da un egittologo britannico che ha affermato che potrebbero esserci camere segrete dietro la tomba del Re Tut. La teoria è stata sostenuta da una ricerca iniziale più tardi quello stesso anno. Tre anni dopo, in quella che è stata una svolta scientifica, un diverso team ha trovato prove che confutano la teoria. Usando il radar, Franco Porcelli e il suo team hanno trascorso tre anni a esplorare l’area intorno alla tomba del faraone e hanno concluso che lì non c’era nulla. “Forse è un po’ una delusione”, aveva detto a NPR nel 2018. Ma mercoledì 19 febbraio, la squadra di Eldamaty è entrata anch’essa nella diatriba. La rivista scientifica Nature ha visto i dettagli del nuovissimo e inedito rapporto del suo team, che mostrava ulteriori prove di un recinto segreto che potrebbe contenere i resti di Nefertiti. Il team ha presentato le sue ricerche al Consiglio supremo delle antichità egiziane all’inizio di febbraio. La scoperta rivoluzionaria è “davvero esaltante”, ha detto Ray Johnson, un egittologo dell’Università di Chicago che non faceva parte del gruppo di ricerca. “Chiaramente c’è qualcosa al di là della parete nord della camera di sepoltura“, ha detto a Nature. La tomba del Re Tut fu scoperta per la prima volta circa un secolo fa nel 1922. Il faraone morì misteriosamente a 19 anni nel 1323 a.C. dopo aver governato per 10 anni. (Gli esperti ritengono che sia morto di cancrena, anche se in precedenza pensavano che fosse stato assassinato.) Anche se alcuni sono entusiasti della nuova scoperta, altri rimangono scettici. La tecnologia utilizzata dalla squadra di Eldamaty non è affidabile, secondo Zahi Hawass, ex ministro delle antichità egiziano. “Non ha mai consentito alcuna scoperta in nessun sito in Egitto”, ha detto a Nature. La posizione della tomba di Nefertiti è stata a lungo un mistero. Se i suoi resti fossero scoperti, sarebbe una svolta scientifica significativa, secondo Nicholas Reeves, lo scienziato britannico che per primo ha avanzato l’ipotesi che la regina fosse sepolta vicino alla tomba del Re Tut. Per gran parte della storia, Nefertiti è stata conosciuta come la grande moglie reale del faraone Akhenaton. Ma alcuni egittologi credono che sia stata promossa a coreggente con Akhenaton e abbia governato l’Egitto con lui prima della sua morte. Altri teorizzano che Nefertiti possa aver governato, ma mentre era travestita da uomo. In ogni caso, Reeves ha detto a Nature: “Se Nefertiti fosse sepolta come un faraone, potrebbe essere la più grande scoperta archeologica di sempre”.
Giulia Silvia Ghia per huffingtonpost.it il 4 febbraio 2020. Ho donato alla library della Columbia University di New York i due volumi dedicati alla tecnica e lo stile di Caravaggio nelle 22 tele conservate a Roma. “Caravaggio: la tecnica e lo stile. Saggi e Schede”, edito nel 2016 da Silvana Editoriale, grazie al lavoro di un team di esperti tra cui la sottoscritta, è ancora una pietra miliare degli studi tecnici su questo artista. Ricordo quando nel 2009 si partì con questa avventura, grazie al contributo economico di uno sponsor da me individuato, particolarmente appassionato a Caravaggio. Potemmo così raccogliere tantissimo materiale nuovo e soprattutto confrontabile su quanto prodotto dal Merisi nei quadri custoditi a Roma. Personalmente curai tutta la parte dedicata all’anamnesi conservativa di ogni tela e al rapporto dei materiali costitutivi con le fonti e con l’invecchiamento del tempo. Una ricerca durata 7 anni, che ha avuto il pregio di far emergere la necessità di osservare l’opera d’arte nei suoi molteplici aspetti. Il dato documentario insieme a quello storico artistico non può bastare a valutare un opera, è necessario comprendere il procedimento creativo, i materiali costitutivi nonché sapere quanti interventi conservativi ha subito e quanto di originale è rimasto. Tutti questi dati devono poi essere contestualizzati con la produzione artistica contemporanei per comprendere pienamente cosa si ha davanti e quindi l’unicità di un artista rispetto ad un altro. Oggi su Caravaggio si sa moltissimo. Ma le recenti giornate di studio a Napoli a seguito della mostra “Caravaggio a Napoli” magistralmente curata da Cristina Terzaghi, hanno dimostrato che molto c’è da lavorare sul contesto, sugli altri artisti caravaggeschi, per assaporare pienamente la portata rivoluzionaria del pittore lombardo su cui non si smette mai di avere sorprese. In poco più di 100 anni su questo artista sono stati prodotti oltre 3000 pubblicazioni, un numero che devo dire scoraggia chiunque si appresti a questi studi. Stando dentro ad alcune di queste migliaia di pagine pubblicate e dunque muovendomi in questi contesti, non riesco ad abituarmi all’accanimento che vedo tra storici dell’arte, studiosi, restauratori e diagnosti, spesso “l’un contro l’altro armati”, sugli studi di quest’artista. Si vedono allora fiorire più di un progetto di digitalizzazione dei materiali caravaggeschi, come l’Archivio Diagnostico Digitale che fa capo alla Biblioteca Hertziana e consultabile solo dagli studiosi che la frequentano e il Caravaggio Research project che fa capo alla Galleria Borghese in partnership con la Getty Fondation. Tutto questo forse fa sorridere, ma immaginiamo quanto potremmo distinguerci noi italiani se riuscissimo a lavorare in una sinergia costruttiva superando le sterili divergenze personali e professionali. Ora la biblioteca della Columbia University è la più fornita al mondo di libri di storia dell’arte e di architettura e fino a ieri era priva di questa importante pubblicazione. Essere indicizzati in questa biblioteca significa essere collegati in tutto il mondo: in un network di biblioteche senza confini. Ma vi è un incredibile paradosso. All’alba della notizia che l’università di Yale ha cancellato il corso di storia dell’arte in quanto troppo Europa oriented, alla Columbia University nessuno studia Caravaggio. Per una questione di politically correct la storia dell’arte deve affrontare le influenze da tutto il mondo. Così l’Italia è rappresentata dal Rinascimento, mentre il ’600 è fiammingo e il personaggio di spicco è Rembrandt. Pensare che a Brera, esattamente un anno fa, La Cena in Emmaus di Caravaggio, una delle opere più significative del museo e La Cena dei pellegrini di Emmaus di Rembrandt, straordinario dipinto del maestro olandese proveniente dal Musée Jacquemart-André di Parigi, furono messi in dialogo ed era lampante quanto Caravaggio vi fosse in Rembrandt, certamente influenzato dalle novità caravaggesche portate nelle fiandre da connazionali come Gherardo delle Notti. L’Italia ha un potenziale che raramente riesce a far fruttare dentro i propri confini per mancanza di coraggio e del coordinamento di persone empatiche nei posti strategici.
Ritrovato il presunto cranio di Plinio il Vecchio. Apparterrebbe al celebre ammiraglio e naturalista Plinio il Vecchio il cranio ritrovato un secolo fa tra Ercolano e Stabia e custodito all’Accademia di Arte Sanitaria. Francesca Rossi, Venerdì 24/01/2020, su Il Giornale. Abbiamo studiato la figura di Plinio il Vecchio (23 d.C.-79 d.C.) in relazione all’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C e alla sua opera Naturalis Historia. Ora potremmo avere di fronte persino una traccia del suo passaggio terreno rappresentata dal cranio conservato all’Accademia di Arte Sanitaria. Come riporta La Stampa, nel 1900 l’ingegnere napoletano Gennaro Matrone fece eseguire degli scavi nel suo terreno vicino alla spiaggia di Stabia. Vennero rinvenuti 72 scheletri. Tra questi ve ne era uno che recava ancora su di sé un gran numero di insegne militari d’oro. Il quotidiano racconta che l’ingegnere avvertì le autorità della scoperta, ma la sua segnalazione non venne presa in considerazione. Un diplomatico francese lo avvertì della possibilità che quello scheletro appartenesse proprio a Plinio il Vecchio. Matrone se ne convinse e mise questa ipotesi nero su bianco. La comunità scientifica accolse la notizia con un atteggiamento a metà tra l’ironia e lo scetticismo. L’ingegnere conservò comunque il cranio privo della mascella superiore e la spada dell’uomo misterioso, ma vendette le insegne d’oro a dei collezionisti. In seguito i reperti rimasti vennero affidati al Museo dell’Arte Sanitaria di Roma. Nel 2010 l’archeologo Flavio Russo scrisse e pubblicò l’opera “79 d.C., rotta su Pompei”, dove riprese l’ipotesi dell’appartenenza del cranio a Plinio il Vecchio. Fu il quotidiano La Stampa a dare maggiore eco a questo studio e all’idea di Russo di sottoporre i denti del cranio a una analisi isotopica per capire la storia dell’uomo a cui appartenevano. Dagli esami effettuati venne fuori che tra i sei e i sette anni il “proprietario” del cranio visse in una zona situata tra l’Appennino Centrale e la Pianura Padana (Plinio il Vecchio era originario di Como). Tuttavia l’età non corrispondeva. L’uomo in questione era morto a 37 anni, Plinio il Vecchio a 56. Ed ecco la sorpresa in cui nessuno sperava più. Il cranio e la mandibola appartengono a due persone diverse. Visto che al teschio mancava la parte corrispondente al massiccio facciale, Matrone lo aveva “ricostruito” a modo suo, aggiungendovi la mandibola di un uomo di 37 anni. Non solo. Le analisi hanno evidenziato che la calotta cranica apparterrebbe proprio a un soggetto di 56 anni di provenienza italica. Naturalmente le indagini dovranno proseguire, ma le recenti scoperte hanno rivoluzionato quel che credevamo di sapere sul cranio oggi attribuito a Plinio il Vecchio. Quest’ultimo fu un personaggio storico molto importante, amante della conoscenza e curioso di natura. Quando avvenne la tristemente celebre eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., Plinio il Vecchio, capo di stato maggiore della Marina romana, volle andare a vedere di persona cosa stesse accadendo tra Pompei ed Ercolano. La sete di sapere era più forte del pericolo. Quando stava per partire, però, ricevette una richiesta d’aiuto dalla vedova di un suo collega, così pensò di andare a salvare le persone bloccate nell’area di Ercolano e Stabia. In questo modo avrebbe condotto le sue rischiose ricerche e aiutato chi era in pericolo di vita. Purtroppo Plinio il Vecchio si sentì male durante il viaggio e morì, forse per aver inalato polveri e gas mortali. Conosciamo i dettagli della sua fine grazie a Plinio il Giovane, (61 d.C.-114 d.C. circa) il nipote che lo accompagnò nella spedizione fatale. I nuovi studi sul presunto cranio dello studioso sono stati coordinati dal giornalista e storico dell’arte Andrea Cionci con la collaborazione del Cnr e delle Università di Roma La Sapienza, di Firenze e di Macerata. A proposito della scoperta Cionci ha dichiarato all’Ansa: “Le probabilità che si tratti del cranio di Plinio il Vecchio sono molto, molto alte, anche se in archeologia non ci sono mai certezze assolute” e ha aggiunto: “Abbiamo la certezza che dagli studi condotti finora non è emerso nulla che potesse contraddire l’attribuzione a Plinio”.
Silvia Stucchi per “Libero quotidiano” il 9 gennaio 2020. Se anche voi vi deliziate di aneddoti e indiscrezioni, la Storia pettegola di Roma, (Newton Compton, 384 p., 12,90 euro) è il libro che fa per voi: qui, infatti, Giulia Fiore Coltellacci raccoglie, come recita il sottotitolo, "curiosità, indiscrezioni e dicerie nelle vicende della Città Eterna". Che la storia romana sia terreno fertile per il pettegolezzo lo sappiamo dalle fonti classiche: Svetonio (vissuto tra I e II sec. d. C.) con le Vite dei Cesari ci ha lasciato dodici biografie, da Giulio Cesare a Domiziano, all' insegna dell' aneddotica. Ma anche per la storia repubblicana le fonti sono impietose. Cominciamo dagli Scipioni, una famiglia che diede a Roma grandi glorie, in primis l' Africano, vincitore di Annibale, ma anche tanti scandali. Aulo Gellio (II sec. d. C.) riferisce che l' Africano era considerato un "uomo divino": addirittura, si diceva che la madre lo avesse concepito in seguito alla visita notturna di un serpente magico (come si dice anche di Alessandro Magno). Già dopo la conquista di Cartagena, invece di approfittare del successo, si dimostrò magnanimo, o meglio, capace di mosse astutamente mediatiche: lasciò tutti di stucco, restituendo illibata al padre la ragazza più bella della città, catturata per lui dai soldati. Pure, il poeta Nevio, che aveva il dente avvelenato con i nobili, narra un episodio assai meno glorioso della giovinezza di Scipione, che il padre una notte andò a recuperare in un lupanare da due soldi, tirandoselo dietro per l' orecchio, coperto solo da un mantelluccio. Ma l' episodio, boccaccesco ante litteram, non è nulla se pensiamo al vero scandalo che coinvolse gli Scipioni. Spesso a un fratello maggiore responsabile e brillante ne segue uno più scapestrato. L' ASIATICO Il fratello minore dell' Africano, Lucio Cornelio Scipione, fu detto Asiatico per la vittoria sul re Antioco, ma senza il fratello maggiore non avrebbe combinato granché: il Senato, infatti, gli affidò la spedizione in Asia solo perché l' Africano l' avrebbe accompagnato come legato (in pratica come baby-sitter). Ma la vittoria portò anche tante rogne: il bottino, enorme, spaventava gli avversari politici che montarono una campagna denigratoria. In verità, era prassi informare Senato ed Erario delle somme incassate; ma chiedere questo all' Africano equivaleva a mettere in dubbio l' onestà d' un eroe. Egli, indignato, rifiutò di fornire i documenti richiesti; e durante il processo, mentre Lucio era sul punto darne lettura, fu interrotto dall' Africano che gli strappò di mano i documenti (riconfermando che il fratello contava come il due di picche) riducendoli a pezzi. Catone riuscì a far condannare Lucio per frode, ma a salvarlo fu il tribuno Tiberio Sempronio Gracco, cui, in segno di riconoscenza, l' Africano diede in sposa la figlia Cornelia. Se poi pensiamo a Cesare, scopriamo che, pur sprovvisti di periodici come Novella 2000, i nostri maiores sguazzavano felici nel pettegolezzo: le intemperanze amorose del conquistatore delle Gallie erano così note che persino durante il trionfo i soldati intonarono un carmen, cioè una canzonaccia da caserma, in cui ricordavano l' affaire giovanile del loro generale con Nicomede re di Bitinia; Trionfa Cesare che sottomise i Galli, non trionfa Nicomede che sottomise Cesare: sui fatti il divo Giulio mantenne sempre un elegante riserbo, ma gli avversari lo chiamavano, ridacchiando, "la regina di Bitinia"; e Cicerone, un giorno, gli si rivolse così: «Cesare, lasciamo perdere. Sappiamo tutti i benefici che hai avuto da Nicomede e che cosa gli hai dato tu!». Qualche volta, però, l' austerità non paga: sempre Svetonio narra che la donna che Cesare amò più di ogni altra fu Servilia, madre di Bruto, e sorellastra di Catone, futuro Uticense. Plutarco (50-125 d. C.) narra che nel 63 a.C., in Senato, dopo la scoperta della Congiura di Catilina, durante una accesa discussione, a Cesare fu recapitato un messaggio. Catone lo accusò di aver ricevuto notizie dai nemici: e allora, Cesare, imperturbabile, lesse pubblicamente il messaggio: parole d' amore di Servilia. Dopo gli exploit di Augusto, un camaleonte della politica, e quelli di Nerone, il volume ci guida attraverso la poco encomiabile famiglia dei Costantinidi (Fausta, moglie di Costantino, e colpevole di adulterio col figliastro Crispo, perì soffocata - o lessata - nei bagni imperiali) sino ai fasti sanguinosi dei Borgia (ma Lucrezia, ricordiamolo, da duchessa di Ferrara condusse vita encomiabile morendo quasi da santa), per arrivare a due clamorose vicende di cronaca nera tra XVI e XVII secolo: quella di Beatrice Cenci, decapitata per avere ucciso il padre violento, e di Artemisia Gentileschi, pittrice geniale, che osò portare in tribunale il suo violentatore Agostino Tassi. Dunque, il pettegolezzo è il sale della storia: essa, scriveva Oscar Wilde, in fondo è solo pettegolezzo, mentre lo scandalo non è altro che un pettegolezzo reso noioso dalla morale.
Tutto, ma proprio tutto, quello che hai studiato sull’evoluzione di "homo sapiens" è falso. Nuove scoperte lo confermano. Luigi Bignami su it.businessinsider.com l'8/1/2020. E’ ormai passato tanto tempo da quando si pensava all’evoluzione dell’uomo come una linea retta che si sviluppava dagli australopitechi al sapiens in una successione continua. Oggi sappiamo con certezza che specie di australopitechi sono convissute con le prime forme di Homo e che forme di Homo molto antiche sono convissute con forme molto più moderne. E su su fino ad aver imparato che il sapiens ha convissuto a lungo con altre specie come il neanderthal, il denisova, il florensis ed altri. Ma con scoperte sempre nuove anche le ultime ipotesi sull’evoluzione e la migrazione del sapiens stanno traballando. Fino a pochi anni or sono infatti, si ipotizzava che il sapiens fosse “nato” in Africa orientale circa 200.000 anni fa. Quindi rimase in quel continente per circa 140.000 anni per poi iniziare l’emigrazione verso l’Asia e l’Europa. E questo lo portò ad incontrare i neanderthal. Ma pochi anni or sono si è scoperto che la fuoriuscita dall’Africa avvenne una prima volta circa 120.000 anni fa e poi circa 60.000 anni or sono. Ma ecco i colpi di scena degli ultimi anni: il sapiens è molto più antico di 200.000 anni. A retrodatare l’origine è una scoperta del 2017 avvenuta in Marocco. Nella Regione di Jebel Irthoud infatti, sono state trovate ossa di sapiens risalenti a circa 315 mila anni fa, ben 100 mila anni più vecchie del sapiens fino ad allora ritenuto il più antico. La scoperta ha scombussolato gli scienziati perché è avvenuta in un’area dell’Africa ben diversa dall’Africa orientale dove erano stati ritrovati i fossili precedenti. Cosa significa tutto ciò? Che molto probabilmente l’Homo sapiens non si è evoluto in un’area ben definita del continente africano, ma in più aree molto diverse tra loro. Ed è così che negli ultimi mesi si è arrivati ad ipotizzare che non ci fu un unico sapiens a staccarsi da altre specie, bensì gruppi di sapiens diversi che si sarebbero evoluti in Africa simultaneamente in zone differenti. E’ dunque possibile che a varcare il Medio Oriente siano stati gruppi di sapiens arrivati dal Marocco piuttosto che dall’Africa centrale. E ancora non è detto che quei sapiens non siano arrivati in Europa passando per lo stretto di Gibilterra. Al momento però, non si hanno prove in tal senso. Ma quando avvenne la prima migrazione dei sapiens dall’Africa al Medio Oriente? Un teschio fossilizzato che risale a 210.000 anni fa è stato recentemente trovato in Grecia e questo sposta indietro ancora di più la prima migrazione. A tutto questo si aggiunge il fatto che una volta in Medio Oriente e in Europa il sapiens si incrociò più volte con il neanderthal e i denisoviani, una specie che visse in Siberia e in Tibet. A conferma vi è il fatto che il DNA dei denisovani si trova nel 5 per cento del genoma degli uomini moderni in Asia e nel Pacifico. Chi è dunque, il sapiens?
Scoperta in Franciacorta. I vini con le bollicine esistono dal Medioevo. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 da Corriere.it. Ci voleva un esperto di Medioevo, un cacciatore di documenti d’archivio, per smentire uno dei luoghi comuni del made in Italy: quello che vuole la Franciacorta del vino come una zona creata dal nulla da qualche imprenditore di mondi lontani, dal tessile alle costruzioni. Gabriele Archetti, medievista con cattedra alla Cattolica di Milano e trono al Centro studi longobardi, ha dimostrato che la zona spumantistica bresciana diventata famosa in tutto il mondo ha origini ben più lontane di quelle ufficiali che fanno risalire al 1961 la genesi nelle pionieristiche bollicine di Franco Ziliani (Berlucchi). Con carte processuali, frammenti di Statuti locali, pergamene monastiche ed echi cartacei di vite religiose, Archetti dimostra che dal lago d’Iseo alle porte di Brescia la vite era la coltura prevalente già prima del Mille. Nei registri degli aristocratici e nei volumi contabili dei monasteri si trovano le tracce dei vitigni che nel XII secolo arrivarono dai Balcani e dall’Oriente: Schiava, Groppello, Vernaccia, Trebbiano, Marzemino, Malvasia. Mescolate assieme, le uve generavano i «nostrani», vini «albi e vermigli», ovvero bianchi e rossi. Fin qui la sorpresa è relativa: non è strano che «in quel passato di cenobi, pievi, castelli e borghi medievali», come scrive Archetti, prosperassero vigne di qualità. La vera domanda era: è mai esistita una tradizione di vino «frizzante», qualcosa da paragonare alla leggenda dell’abate Pierre Pérignon indicato come l’inventore dello Champagne alla fine del Seicento? La risposta (degli archivi) è sì. Lo si scopre leggendo Le origini del Franciacorta nel Rinascimento italiano, il libro firmato da Archetti (con la prefazione di Andrea Grignaffini), voluto e pubblicato dal Consorzio Franciacorta (non è in vendita, ma è richiedibile al Consorzio stesso). La pista dell’indagine storica è stata aperta dal Libellus de vino mordaci, un trattato cinquecentesco del Girolamo Conforti, il medico bresciano convinto che «la natura non ha donato nulla di più utile del vino all’uomo». Perché all’epoca il vino serviva a nutrirsi e a lenire affanni, ed era talvolta meno dannoso dell’acqua impura. Conforti tratta per la prima volta le qualità del vino «vivace». Cinquecentesco è anche il volume di Agostino Gallo, anch’egli bresciano, che ottenne un grande successo editoriale con Le tredici giornate della vera agricoltura et de’ piaceri della villa, che celebra il Cisiolo, un bianco da uve nere (proprio come il Pinot nero che si usa oggi sia per i Franciacorta sia per gli Champagne) che piaceva agli aristocratici lombardi e piemontesi, perché i vini restavano «piccanti per più mesi et alquanto dolci», e si potevano bere a lungo crescendo «in bontà quando è passato l’anno». Costava il doppio del rosso nostrano. Il vescovo di Brescia lo conservava nelle botti della cantina attigua alla cattedrale.
Grignaffini, Brescianini e Archetti Gallo è stato il primo, spiega Archetti, «a codificare un vino non fermo (seppure non in bottiglia), della stessa tipologia destinata ad avere un grande successo dal diciottesimo secolo», grazie al monaco Pérignon. Mettendo assieme i documenti raccolti, Archetti ricostruisce il destino fortunato del Franciacorta. E lo fa ricostruendo «un’originale tradizione enologica che di sicuro dal Tredicesimo secolo — ma verosimilmente molto prima — ha permesso di produrre abilmente vini non fermi ed effervescenti, di colore bianco, più pregiati e ricercati rispetto ai nostrani rubei». Il Franciacorta ha quindi un antenato medievale: era «frizzante, amabile, dall’aspetto paglierino, resistente nel tempo e stimato». Conforti, insomma, aveva visto giusto a elogiare, un secolo prima dei francesi, quei vini vivaci per i quali aveva coniato il termine «mordaci». Significa, riflette Grignaffini, che quei vini «mordevano la lingua con una certa inusitata prestanza e finanche piccantezza. Il frizzante era giudicato straordinario e, dunque, in qualche modo taumaturgico e medicamentoso». Dopo questo studio, ammonisce Silvano Brescianini, presidente del Consorzio, «non si può più accettare la falsa leggenda sulla Franciacorta del vino costruito a tavolino, mezzo secolo fa, da un gruppo di imprenditori. Il nostro vino arriva dal Medioevo e ha resistito ai secoli in cui c’erano i carri trainati dai buoi e durante la vendemmia si cantava per sopire la fame». Le prove sono negli archivi. E nei libri degli scrittori come Gabriele Rosa, mazziniano, che nell’Ottocento proclamò: «Nessun visitatore delle plaghe più belle e felici dell’alta Italia, nessuno de’ buoni gustai dei vini di questa parte del bel paese, ignora il nome e il sito della Franciacorta».
"Nel David Michelangelo osservò la vena giugulare prima della Scienza". Scolpì il movimento della vena con occhio clinico. Secondo uno studio pubblicato su Jama Cardiology, l'artista fu il primo a capirne il funzionamento. La Repubblica il 02 gennaio 2020. C'è un dettaglio nel David di Michelangelo sfuggito a 500 anni di osservazioni e che conferma il genio del grande scultore, pittore, architetto e poeta italiano, in grado col suo 'occhio clinico' di anticipare la scienza. Se in molte sculture, e nella fisiologia quotidiana delle persone, la vena giugulare dalla parte superiore del busto attraverso il collo non è visibile, infatti, nel capolavoro del Rinascimento esposto a Firenze è chiaramente "distesa" e in rilievo sopra la clavicola di David. Come accadrebbe in ogni giovane in salute che si trova ad un livello di eccitazione perché deve affrontare un avversario potenzialmente letale - in questo caso, Golia. Un particolare che indica come lo spirito di osservazione abbia portato Michelangelo a scolpire qualcosa che poi sarebbe stato descritto nel dettaglio 100 anni dopo, cioè la meccanica del sistema circolatorio. L'artista, con la sua curiosità, sarebbe stato uno dei primi a osservare come funzionava questa vena. A rilevarlo è un articolo di Daniel Gelfman, del Marian University College of Osteopathic Medicine di Indianapolis, pubblicato su Jama Cardiology. Il medico americano che ha visto la statua quest'anno durante una visita in Italia è stato il primo a notare questo dettaglio. La distensione della vena giugulare secondo quanto spiega l'esperto può verificarsi anche con problematiche come "elevate pressioni intracardiache e possibili disfunzioni cardiache", ma il David è giovane e in ottime condizioni fisiche. Solo in un altro contesto - uno stato di eccitazione temporanea - si distingue bene. "Michelangelo, come alcuni dei suoi contemporanei - scrive Gelfman - aveva una formazione anatomica. Mi sono reso conto che deve aver notato una distensione venosa giugulare temporanea in soggetti sani che sono eccitati". "All'epoca della creazione del David - osserva - nel 1504, l'anatomista e medico William Harvey non aveva ancora descritto la vera meccanica del sistema circolatorio. Ciò non avvenne fino al 1628". Anche nel Mosè vi è lo stesso particolare anatomico, mentre la vena giugulare di Gesù nella Pietà non è distesa o visibile (anche in questo caso anatomicamente corretta nel contesto). Per i cardiologi uno dei messaggi importanti che arrivano da questo articolo è che anche i medici devono avere spirito di osservazione quando visitano i loro pazienti. Nell'era odierna delle scansioni e degli esami del sangue ad alta tecnologia, spiega Marcin Kowalski, dello Staten Island University Hospital, "mi stupisce sempre quando gli studenti di medicina sono in grado di diagnosticare le malattie con la semplice osservazione. Spero che l'arte dell'esame fisico non scompaia dal repertorio dei nostri giovani medici".
DAGONEWS il 27 dicembre 2019. La pronunciata vena giugulare sul collo del David di Michelangelo rivela che lo scultore era a conoscenza di alcuni dettagli del sistema circolatorio un secolo prima dei medici. Sulla maggior parte delle sculture, la vena giugulare non è normalmente visibile. Eppure nell'opera del maestro del Rinascimento la vena è gonfia e visibile sopra la clavicola del David. Una caratteristica anatomicamente realistica, dato che la scultura raffigura l'eroe biblico in uno stato di eccitazione, in procinto di combattere con Golia. Sorprendente è che Michelangelo abbia associato una giugulare gonfia all'eccitazione fisica 124 anni prima che questo fosse documentato dalla medicina. E ci sono voluti altri 515 anni dalla conclusione dell’opera prima che qualcuno si accorgesse del dettaglio a dir poco sbalorditivo. A rilevarlo è stato il cardiologo Daniel Gelfman del Marian University College of Osteopathic Medicine di Indianapolis, negli Stati Uniti, che ha sottolineato: «Mi sono reso conto che Michelangelo deve aver notato una tensione giugulare in soggetti sani, ma in stato di eccitazione. Al momento della creazione del David, nel 1504, l’anatomista e medico William Harvey non aveva ancora descritto la meccanica del sistema circolatorio. Ciò non avvenne fino al 1628». Il David non è l’unico dei lavori di Michelangelo in cui è presente una vena giugulare pronunciata. Lo stesso dettaglio anatomico può essere individuato nel Mosè che fu commissionato da Papa Giulio II nel 1505: nell'opera il profeta è raffigurato di ritorno dal Monte Sinai dopo aver ricevuto i Dieci Comandamenti e aver trovato gli israeliti che adoravano il falso idolo del vitello d'oro. La rabbia del profeta è anche visibile nell'espressione della scultura e nel braccio sinistro teso. Un sentimento che spiegherebbe la presenza della giugulare pronunciata che, invece, non è presente nel Gesù Cristo della Pietà.
Tutta la potenza del bronzo barocco tra eros e sacro, in mostra a Palazzo Pitti-Uffizi a Firenze. Carlo Franza su Il Giornale il 29 Dicembre 2019. "Plasmato dal fuoco" con oltre 170 opere racconta per la prima volta l’arte e la storia dei maestri fiorentini del metallo nel ‘600 e ‘700. In mostra anche la Venere al Bagno del Giambologna, mai esposta finora al grande pubblico; così i Medici esportarono il gusto di Firenze in tutta Europa”. Tutta l’energia dell’arte barocca imprigionata nel metallo, grazie alla potenza viva della fiamma: è questo, in sintesi, il concetto di Plasmato dal fuoco. La scultura in bronzo nella Firenze degli ultimi Medici, mostra accolta fino al 12 gennaio 2020 al Tesoro dei Granduchi, negli spazi al pianterreno di Palazzo Pitti. Le opere sono oltre 170, con molti prestigiosi prestiti da musei internazionali, quali i Musei Vaticani, il Louvre, il Victoria and Albert di Londra, l’Hermitage di San Pietroburgo, il Getty di Los Angeles, la National Gallery of Art di Washington, la Frick Collection di New York e molti altri. Nelle sei sale al piano terra della reggia, la narrazione parte da un piccolo nucleo di opere di Giambologna: dal lavoro di questo fiammingo, eletto artista di corte da Francesco I de’ Medici, parte la grande stagione della bronzistica fiorentina, culminando nella seconda metà del ‘600 con artisti celebri anche fuori dal territorio toscano e nazionale come Giovan Battista Foggini e Massimiliano Soldani Benzi. L’esposizione, curata dal direttore degli Uffizi Eike Schmidt insieme a Sandro Bellesi e Riccardo Gennaioli, offre per la prima volta un racconto completo ed esaustivo della scultura in bronzo nel capoluogo toscano, che conobbe il suo apice nel tardo Seicento e primo Settecento, al tempo degli ultimi granduchi di casa Medici. La scultura in bronzo, insieme al commesso in pietre dure, diventa moneta corrente per doni diplomatici con le altre corti europee, materia di scambi di natura tecnica e mercantile, oggetto di commissioni importanti da parte delle teste coronate e della nobiltà del continente. Tante le novità della rassegna, a cominciare da Giambologna: dell’artista si può ammirare un’inedita, squisita Venere al Bagno (di collezione privata) realizzata per Enrico IV di Francia ma mai esposta fino ad oggi al grande pubblico. Sempre del Giambologna, il San Giovanni restaurato per l’occasione; da segnalare inoltre il grande ritorno da Roma di un gruppo di copie delle statue antiche della Tribuna del Buontalenti, realizzate in bronzo dal Foggini con la probabile collaborazione di Pietro Cipriani. Sono state riscoperte al Ministero dell’Economia e delle Finanze proprio durante le ricerche per la mostra, quasi 150 anni dopo che Quintino Sella le aveva portate con sé a Roma. Un altro grande ritorno è quello dei gruppi scultorei un tempo accolti proprio in Palazzo Pitti negli appartamenti dell’Elettrice Palatina: originariamente 12, furono lasciati in eredità da Anna Maria Luisa de’ Medici a parenti, amici e istituzioni, ma nei secoli sono stati poi dispersi in varie collezioni e musei. Adesso, ben 11 sono stati raccolti e riuniti per essere esposti all’interno di questa mostra, compreso l’ultimo riconosciuto nel 2006 nelle collezioni reali di Madrid. Di Soldani Benzi, maestro straordinario e versatile, si può ammirare il bronzo con l’incontro tenerissimo tra Gesù bambino e San Giovannino; e ancora confrontare la sua versione del Fauno danzante con quella di Foggini e quella realizzata in porcellana di Doccia: si vuole infatti ricordare l’importanza della Manifattura locale di porcellane, nel preservare e tramandare, in modo seriale ma sempre con risultati altissimi, le forme e i modelli di questa grande stagione scultorea fiorentina. La tecnica eccelsa raggiunta dai maestri fiorentini del bronzo si può ancora apprezzare negli ostensori, nei meravigliosi e ricchissimi oggetti sacri, e nei due Cristi Crocifissi del Giambologna e di Pietro Tacca - il celeberrimo autore del Porcellino nonché allievo prediletto del Giambologna. I visitatori diventeranno familiari con i nomi di Giuseppe Piamontini, Giovacchino Fortini, Antonio Montauti, Agostino Cornacchini, Lorenzo Merlini, Girolamo Tacciati, Giovan Camillo Cateni e Pietro Cipriani, e altri emersi dagli archivi in occasione della mostra, come Francesco Formigli, figura fino ad oggi poco nota a cui è stato possibile attribuire su base documentaria ben tre opere. Completano l’esposizione la raccolta di 42 disegni di Soldani Benzi, uno straordinario blocco di fogli acquistati dagli Uffizi solo un anno e mezzo fa, e alcuni dipinti, tra i quali anche tele del Dandini e del Bimbi, posti in dialogo con la plasticità delle sculture. Sottolinea il direttore degli Uffizi Eike Schmidt: “ È un piacere straordinario poter per la prima volta esplorare come merita questo capitolo di storia dell’arte tra Firenze e l’Europa, che dal tardo Cinquecento in poi è stato cruciale per la magnificenza della corte medicea. Attraverso i doni diplomatici, le sculture di bronzo hanno determinato l’affermazione del gusto fiorentino su una platea internazionale e inoltre, all’interno di una rete socio-economica più vasta, sono state occasione di scambi di artisti e artigiani, di opere e di idee e del sapere tecnico”. Carlo Franza
La sfera del «Salvator Mundi» è cava: il mistero svelato dal sistema «Maya». Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 su Corriere.it da Stefano Bucci.Il mistero di Leonardo da Vinci (1452-1519) continua ad affascinare. E questo nonostante si siano appena concluse le celebrazioni per i 500 anni della morte. A suscitare e interesse (e non solo nella comunità degli artistici e dei critici) e ancora una volta il Salvator Mundi (1499 circa) l’opera più cara al mondo acquistata nel 2017 da Christie’s a New York per 450, 3 milioni di dollari, ma forse anche la più misteriosa di Leonardo (forse più ancora della Gioconda): misterioso l’autore (che potrebbe anche non essere Leonardo), misterioso l’acquirente ( a lungo si è pensato potesse essere un emiro saudita per poi scoprire che sarebbe stato acquisito dal Dipartimento di cultura e turismo degli Emirati Arabi Uniti di Abu Dhabi), misterioso il luogo dove sia attualmente conservato (forse un caveau, forse un panfilo). Il «Salvator Mundi» Un articolo pubblicato sul numero del 2 gennaio della MIT Technology Review, la rivista del Massachusetts Institute of Technology, riporta l’attenzione sul Salvator Mundi grazie alla ricerca del team della University of California guidata da Marco Liang che avrebbe scoperto come la sfera di vetro che Cristo tiene nella sua mano sinistra e che rappresenterebbe la sfera celeste) non sarebbe una sfera solida ma bensì cava con un raggio di 6,8 centimetri ma uno spessore di 1,3 millimetri e che Leonardo l’avrebbe raffigurata a una distanza dal corpo del Salvator Mundi di 25 centimetri mentre il punto di vista dell’artista sarebbe stato a 90 centimetri dal soggetto. A aiutare Liang e colleghi sarebbe stata Maya, un sistema di modellazione e animazione a 3D. Un ruolo fondamentale in questa affermazione le pieghe delle vesti del Cristo: quattro hanno una disposizione a ventaglio che converge al centro della sfera (che potrebbe far pensare a una struttura solida) mentre Leonardo ha offuscato questa parte del dipinto in cui la quinta piega entra nella sfera suggerendo che fosse ben consapevole del modo in cui una sfera cava distorce le linee rette che le passano dietro. D’altra parte, i numerosi appunti di ottica lasciati dall’artista nei suoi taccuini dimostrano l’attenzione sempre dimostrata da Leonardo ai problemi della visione (un’attenzione condivisa da molti suoi contemporanei, da Parmigianino a Jan Van Eyck). Il team di Marco Liang non è il primo a suggerire che il globo sia vuoto (già il biografo di Leonardo Walter Isaacson nel 2017 aveva formulato un’ipotesi molto simile) ma certo è che grazie a Maya i ricercatori della University of California sono i primi a dimostrare scientificamente che nella mano sinistra del Salvator Mundi c’è una rappresentazione fisicamente realistica di una sfera vuota e non più, come si credeva, solida. Ed è l’ennesimo mistero di Leonardo.
Dagoreport il 7 maggio 2020. Stanno per ripartire le iniziative per il Cinquecentenario dalla morte di Raffaello: le Scuderie del Quirinale riapriranno la mostra sul pittore di Urbino che chiuderà ben oltre il previsto del 2 giugno. Anche il Vaticano si attrezza in vista del 18 maggio con nuovi orari di apertura. E da oggi Mondadori manda nelle riaperte librerie la sua prima uscita post lockdown: “Un amore di Raffaello” del critico d’arte Pierluigi Panza. E’ un romanzo sugli anni passati da Raffaello con la leggendaria Fornarina, che al secolo farebbe Margherita Luti, figlia del fornaio di Trastevere, entrata in convento dopo la morte del pittore: e questo è un documento certo. Ma cosa passò quegli anni il divino Raffaello che, fin dalla sua morte (Venerdì Santo del 1520), fu ritenuto quasi un santo, un “nuovo Cristo”? I documenti diretti sulla sua vita dell’artista sono relativamente pochi e raccolti dallo scomparso studioso John Sherman, e sono insufficienti a una ricostruzione. Panza, allora, parte dall’assunto di Vasari (“Era Rafaello persona molto amorosa et affezionata alle donne, e di continuo presto a i servigi loro”) e ricostruisce l’altro Raffaello sulle basi di a quadri, affreschi, lettere e delle fonti dell’epoca, collocandolo negli ambienti da lui frequentati, facendogli vivere ciò che lì si viveva. Ed ecco, allora, l’altro Raffaello. Conosce la Fornarina quando ha giù firmato un contratto di matrimonio con la nipote del cardinale Dovizi da Bibbiena, il numero 1 del Vaticano. Ma non ha molta voglia di sposarla, piuttosto ha voglia di far festa con le modelle, si inventa di tutto per evitare le nozze: è anche pronto all’acquisto della porpora cardinalizia! Porta le amanti ai carnevali, minuziosamente descritti, e alle feste dove si recita una commedia del cardinale Bibbiena stesso, “La Calandra”, nella quale si invita “gli uomini a farsi donna”. In quel mondo passano tutte le cortigiane: la Divina Imperia, dipinta come “Galatea” da Raffaello, Giulia la Bella (Giulia Farnese) amante di mezzo papato e dipinta nella “Dama con il liocorno” e poi ci sono la Ferrarese e “Matrema-non-vuole”, che sarebbe Mamma-non-vuole: Lucrezia Corgnati, la più contesa che usa stratagemmi per far alzare il prezzo. Molte prestano il volto alle Madonne. Vannozza Caetani, invecchiata, gestisce le locande intorno a Campo dei Fiori nel cui retrobottega si concedono le “prostitute a candela”, le cosiddette Fiammette: stavano con il cliente il tempo necessario a una candela per spegnersi. Raffaello e la sua bottega di una cinquantina di artisti e artigiani frequenta anche questa Roma. E quando il banchiere Agostino Chigi lo obbliga a dipingere la Loggia di Amore e Psiche alla Farnesina in onore della sua ultima amante veneziana, che diventerà sua moglie (Francesca Ordeaschi), chiama Giovanni da Udine, si montano i cavalletti e si vede la Francesca nuda da sotto, un Mercurio con il piccolo membro pendulo, una melanzana a forma di grosso membro che penetra un molle fico tagliato, una zucca aperta in due…Presto, la morte se li prenderà tutti (Sifilide? Avvelenamento? Febbri?), ma questo modo di fare non certo un caso a bottega. Due tra gli allievi di Raffaello, Giulio Romano e Marcantonio Raimondi, incideranno una serie di stampe chiamate “I modi” che sono un autentico kamasutra e serviranno in più edizioni per illustrare i “Sonetti lussuriosi” dell’Aretino.
Indagine su Raffaello (e sui giovani nel mercato dell’arte di oggi). Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 su Corriere.it da Roberta Scorranese. Nell’aprile di cinquecento anni fa moriva Raffaello Sanzio, gettando l’intera Roma nella disperazione: non moriva solo l’artista più famoso e conteso dai potenti della capitale, ma se ne andava anche un uomo capace di infondere una bizzarra felicità in tutte le sue figure. Una felicità orizzontale, fresca, accessibile a chiunque: tutti conoscevano e amavano le sue madonne tenere e le sue donne dolcissime. È anche per questo dono quasi sovrannaturale che la sua pittura è stata spesso associata alla giovinezza, come un talismano contro i veleni del suo tempo. È questo il cardine del supplemento speciale «Arte» del «Corriere della Sera», in edicola e nella Digital Edition gratis con il quotidiano domenica 12 gennaio: partendo dall’anniversario della morte di Raffaello, il grande evento dell’arte 2020, il supplemento imbastisce un’inchiesta sui «giovani» e sul loro peso nel sistema delle mostre e delle gallerie, facendo parlare galleristi, curatori, manager e persino una «art-sharer» (cioè una curatrice che si è inventata un lavoro attraverso i social) under quaranta. Certo, ci si chiederà se questo limite d’età rientri nei parametri della giovinezza: in Italia sì e i pareri di mecenati e critici lo confermeranno. Il supplemento ospita poi una serie di interventi firmati da specialisti ed esperti, come il «ritratto» di Raffaello fatto da Antonio Forcellino, studioso dell’arte rinascimentale e restauratore di opere come il «Mosè» di Michelangelo. Il critico e curatore Carlo Vanoni scrive un racconto dedicato alla Madonna Sistina, una delle storie più emblematiche dell’arte nel nostro Paese: dipinta da Raffaello per il complesso conventuale di San Sisto a Piacenza, venne venduta a metà ‘700 ad Augusto di Polonia e finì a Dresda, dove tuttora si trova. Ma Piacenza quest’anno si «aggancia» a Parma nelle iniziative per l’anno della Capitale della Cultura e così, a San Sisto, una mostra virtuale ripercorrerà le vicende del quadro, il cui nome a molti non dirà nulla ma di certo tutti conoscono i due famosi angioletti in basso, una delle tante icone raffaellesche. Assieme ad Arturo Carlo Quintavalle, il supplemento fa il punto sulle iniziative di Parma 2020, perché questo dorso vuol essere anche una «guida» degli appuntamenti dell’anno. Un anno che segna anche il centenario della morte di Modigliani e il ritratto dell’artista livornese è firmato da uno dei protagonisti della street art, Daniele Nicolosi, in arte Bros. Mentre quello di Michelangelo (che verrà celebrato con una mostra dal Palazzo Ducale di Genova) è affidato ad uno scrittore che frequenta i territori dell’arte, Giovanni Montanaro. Dalla «storica» esposizione romana dedicata ai marmi della collezione Torlonia all’esposizione torinese su Mantegna (raccontato dallo scrittore Vladimiro Bottone) fino alla rassegna di Tomás Saraceno a Palazzo Strozzi e a quella su Marcello Rumma al Madre di Napoli, queste ventotto pagine vorrebbero essere un vademecum per un anno che non perde di vista nemmeno gli appuntamenti più «di nicchia». E infatti la parte centrale è una doppia pagina da staccare e conservare nella quale si danno consigli su luoghi ed esposizioni da Nord a Sud. Ma l’arte è raccontata anche nelle tante interviste che costellano il dorso «Arte»: lo scrittore spagnolo Javier Cercas racconta la sua originale curatela di una mostra di fotografie di Henri-Cartier Bresson; Ferdinando Scianna parla di quella indimenticabile esperienza che visse quando fece dei ritratti a Jorge Luis Borges in visita in Sicilia e l’artista iraniana Shirin Neshat si racconta a partire dalle sue opere attualmente in mostra al Maxxi di Roma. Infine, da collezionare sarà anche la copertina: un’opera di Mirco Tangherlini che prova a raccontare, in un’immagine, la giovinezza di Raffaello.
Quel Raffaello "in love" era cotto della Fornarina. Nel romanzo di Pierluigi Panza la modella è dipinta come una donna molto moderna. Vittorio Sgarbi, Domenica 14/06/2020 su Il Giornale. Nel mio ultimo articolo su Raffaello, per Il Giornale mi interrogavo sulla sua morte e sui suoi amori, indagando nelle molte contraddizioni, attraverso le reticenti ammissioni di Giorgio Vasari. Vasari dice: «Il quale Raffaello, attendendo in tanto a' suoi amori così di nascosto, continuò fuor di modo i piaceri amorosi, onde avvenne ch'una volta fra l'altre disordinò più del solito; perché tornato a casa con una grandissima febbre, fu creduto da' medici che fosse riscaldato; onde, non confessando egli il disordine che aveva fatto, per poca prudenza, loro gli cavarono sangue; di maniera che indebilito si sentiva mancare, là dove egli aveva bisogno di ristoro». Ora, uno scrittore innamorato e curioso, Pierluigi Panza, cui sta stretto l'abito di critico d'arte, affronta l'argomento nell'unico modo possibile: la fantasia, che talvolta soccorre anche lo studioso, ma che è propria del narratore. Così, il suo libro Un amore di Raffaello (Mondadori) non è un romanzo, anche se l'evidenza dei protagonisti lo rende tale, ma la ricostruzione di giornate, istinti, pensieri di donne, turbamenti dì Raffaello. Ecco come si presenta Ghita, Benedetta Luti, detta la Fornarina: «Nascere donna è un inganno del destino al quale non si può sfuggire: peggio del peccato è la donna e peggio della donna non so cosa ci sia, perché dicono che sia la porta del diavolo». È di lei che si innamora Raffaello. Vedete come Panza umanizza i suoi personaggi: «Nei giorni dopo la processione stavo dietro la tenda della finestra per vedere se il pittore passava. E quando passava mi affacciavo. Lui alzava lo sguardo. Allora arrossivo, andavo in confusione e mi ritraevo. Non c'era modo di parlargli». Ed eccola interpretare la parte della Madonna sistina, fresca, semplice, di disarmante bellezza: «Non avevo mai creduto veramente in me stessa, ma in quel momento sentii che stavo diventando qualcosa, qualcosa di diverso dalla figlia del fornaio di Trastevere. Ero a lato del cavalletto sopra il quale era posato il quadro. Lui prese il pennello, lo intinse nella chiazza di colore chiaro che aveva mischiato sulla tavolozza che stringeva in mano e lo passò più volte alla base del mento della Vergine. Mi piace quella fossetta sorrise». Poi l' avvertimento di uno sguardo: «Riprese a osservarmi. Questa volta lo tradì uno sguardo languido. Gli piacevo. O, almeno, questo era ciò che sentivo. Sarebbe stato meglio di qualsiasi indulgenza se si fosse avvicinato, sfiorandomi la mano o la spalla, sconsacrando quella distanza che c'era tra lui e la sua pudica modella, così che potessi abbandonarmi senza timore». È così Panza: capace di dare parole a un ritratto intimo e misterioso, nel quale trova le emozioni, i sentimenti semplici, traducendoli in un racconto psicologico: «Restai immobile. Ero attraversata da brividi. Con i peli del pennello mi sfiorò le mani, poi le guance lisce. Poi se lo mise nella tasca del grembiule e mi sfiorò con i polpastrelli. Una lama mi trapassò le viscere. Mi accarezzò il viso, più volte, prima che le sue labbra si incollassero alle mie, le stesse che aveva dipinto. Per dipingere bene le labbra devo sentirle rise. Era la prima volta che baciavo un maschio e lo facevo con amore. Mi prese tra le braccia, mi sollevò leggermente da terra accostando il suo viso al mio e, di nuovo, mi baciò. Poi mi strinse. Finsi di ritrarmi. Ma non volevo». Inizia così la storia d'amore che Panza ricostruisce con una puntualità minuziosa, raccontando di abbracci e di amplessi, di carezze e di baci, di sottomissione e di devozione, di impulsi ed emozioni, di paure e di desideri. La vita di Raffaello passa attraverso i pensieri della Fornarina. Con i suoi occhi vediamo il Cardinale Bernardo Dovizi da Bibiena, Fedra Inghirami, Papa Leone X. Viaggi, amici, avventure, cardinali. E poi, fuori dal Vaticano, gli affreschi mirabili delle Sibille per la chiesa di Santa Maria della pace, subito dopo il trauma della visione di Michelangelo nella cappella Sistina. Chi sono le Sibille? Le cortigiane di Roma. La vivacità del racconto di Panza ci fa credere che tutto sia vero. Il punto di vista della Fornarina consente di trovare in ogni quadro una luce nuova. Ecco La Velata, ancora lei; e la bella interpretazione formale di Panza che si sovrappone alle riflessioni istintive della donna. Molto vivido il dialogo tra Raffaello e la Fornarina sulla promessa sposa Marietta, nipote del Cardinal Bibiena. Attraverso i pensieri di Ghita, Panza scioglie ogni incertezza sulle parole di Vasari sul pittore che «non poteva molto attendere a lavorare per l'amore che portava ad una sua donna»: «Ero stata rapita dal proprietario di quella villa per costringere Lello a fermarsi lì e proseguire i lavori. Avevo preso una gran paura; ma ora che tutto era passato mi sentivo lusingata. Mi avevano presa perché lui tornasse a dipingere anziché darsi per malato. Il mio timore si era trasformato in piacere e in quel momento ogni cosa mi sembrò diversa da come avevo creduto potesse essere». Poi c'è l'intimità, la vita di cortigiana, la certezza di essere amata più della minacciata moglie Marietta, i dettagli sulla cura del corpo, sui bagni, sui capelli lavati e sulle belle mani, i dialoghi con le altre donne, il confronto con loro, la sublimazione del ruolo di cortigiana, la preghiera, la fede. Il racconto di Panza è denso e vivo, anche se si muove in un mondo piccolo in cui le donne hanno un ruolo sotterraneo ma determinante, necessario. Poi la confessione, perfino melodrammatica: «Ero cresciuta. Non mi illudevo più, cercavo di convincermi che le mie ambizioni dovevano essere diverse da quelle di Marietta. Con Lello avevo conosciuto un'altra Roma, non quella delle strade fangose intorno al porto, dei vicoli di Trastevere. Avevo visto il palazzo del papa, le feste nei giardini e le tavole imbandite, le sculture che non capivo, le commedie, il carnevale, ma soffrivo di quel suo troppo amore per le altre femmine. Soffrivo per Marietta la sposa, capivo che non sarei mai stata moglie...». Vero e verosimile in Panza si confondono come in ogni narratore. La figura di Fornarina si costruisce lentamente e appare centrale nell'esperienza di Raffaello. Bella la descrizione delle taverne di Roma la sera, e delle locande della Vacca e di vicolo del Gallo, del Biscione a Tor di Nona, del Leone piccolo e del Leone grande. Raffaello artista passa in secondo piano, e Panza illumina il mondo umano e le scene delle sue giornate, oltre la pittura. Intanto, con il racconto della vita, c'è anche la descrizione delle opere. Ed ecco Ghita di fronte al profeta Isaia nella chiesa di Sant'Agostino: «Lo sguardo del profeta era cattivo, sembrava mi richiamasse. Era una figura vigorosa e non pareva dipinta da Lello, piuttosto da Michelangelo. Lello l'aveva fatta apposta così per dimostrare che era anche capace di dipingere a quella maniera, che tuttavia considerava priva di grazia». Arriva poi la morte: è quella di Marietta; e con essa l'inattesa pietà: «Fui sorpresa nel provare per lei un senso di commiserazione. L'avevo odiata, spiata, cercato a lungo un suo ritratto per sfregiarne il volto: non lo avevo trovato. E ora che se ne era andata, la sentivo come una sorella, una sorella che lasciava prima del tempo il campo di battaglia. Adesso che lei non c'era mi scoprivo più sola». Il momento in cui Fornarina entra definitivamente nella vita di Raffaello è quello del celebre ritratto in cui lui parla con la pittura e lei risponde con le parole di Panza: «Intorno al mio braccio sinistro, ben in vista, aveva dipinto un bracciale come segno di sua appartenenza. Era un bracciale blu e oro, come i colori del copricapo orientale. Mi aveva detto, un giorno, che anche lo stemma della sua famiglia aveva un fondo blu. Aveva usato il lapislazzuli o lo smaltino veneziano. Con un pennello dai crini finissimi stava scrivendo sul bracciale il proprio nome: RAPHAEL VRBINAS. Ero legata a lui. Quel bracciale, stretto intorno alla carne del mio braccio, mi faceva sua. Ero come una cortigiana, una schiava, è vero, ma dell'amore, e quel quadro così osceno mi faceva anche sposa. Sua sposa. Quando osservai l'anello che mi aveva dipinto all'anulare sinistro non potei trattenere le lacrime, e piansi». È il punto più alto dell'amore. Poi torna la morte. Ed è quella di Raffaello, descritta con sintesi e pudore da Vasari. Fornarina perde tutto, la descrizione delle ultime ore ha la cadenza del Requiem mozartiano. Ma il dialogo tra il corpo morto di Raffaello e il Cristo della Trasfigurazione allontana qualunque residuo di pettegolezzo e anche di mortificazione per lei, fra le tante donne con le quali Raffaello aveva potuto avere commercio. Degli amori terreni non resta più nulla. La Fornarina è destinata al convento, i piaceri della vita sono calore di fiamma lontana: «La mia vita è finita, la bellezza di Roma è finita. E con la bellezza è finito il mondo». Oltre il tempo restano, in quel teatro della morte, le parole di Vasari: «Poi confesso e contrito finì il corso della sua vita il giorno medesimo che nacque, che fu il venerdì santo d'anni XXXVII, l'anima del quale è da credere che come di sue virtù ha abbellito il mondo, così abbia di sé medesima adorno il cielo. Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de' Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l'anima di dolore a ogni uno che quivi guardava».
Isabella Bossi Fedrigotti per il “Corriere della Sera” il 4 maggio 2020. Se Gustave Flaubert si è messo nei panni di Madame Bovary, Pierluigi Panza non si è messo solo nei panni della Fornarina, al secolo Margherita Luti, leggendaria modella e amante di Raffaello Sanzio, ma si è proprio personificato in lei, raccontandola in prima persona. E bisogna riconoscere che gli è riuscito: per duecento pagine del suo nuovo romanzo Un amore di Raffaello (Mondadori) egli «è» una ragazza del popolo innamorata del giovane artista più acclamato del momento senza che il tono stoni, senza che il prolungato monologo suoni artefatto. Il libro esce in occasione dei 500 anni dalla morte del pittore - ritrattista di innumerevoli Madonne, di santi, di Papi e cardinali, ma anche di personaggi meno in vista, senza escludere se stesso - avvenuta il 6 aprile del 1520, di Venerdì Santo, giorno del suo compleanno, essendo nato (a Urbino), secondo quel che riferisce la tradizione, il 6 aprile del 1483. Trentasette brevi anni di vita sono stati i suoi, eppure vastissima la produzione. Figlio d' arte, giovanissimo allievo della bottega del Perugino, da Urbino si spostò a Siena e poi a Firenze e già a 17 anni poteva vantare svariate commissioni prestigiose. Inevitabile che finisse a Roma, dove lavorò soprattutto per due Papi, Giulio II e Leone X, entrambi mecenati esigenti, oltre che per il superricco banchiere Agostino Chigi cui decorò la villa Farnesina. Il romanzo di Pierluigi Panza si concentra, seguendo il racconto della Fornarina, sul periodo romano di Raffaello, gli anni della gloria, della fama internazionale, dei committenti che facevano a gara per accaparrarsi le sue opere. Gli anni dell' amore, dell' unico vero grande amore del pittore, che pure si tramanda essere stato un instancabile don Giovanni, peraltro a lungo promesso sposo, senza mai andare a nozze, della nipote del cardinal Bibbiena. Racconta, dunque, la bella Margherita, figlia di un panettiere di Trastevere, di avere, all' alba dei suoi 15 anni, scambiato uno sguardo con Raffaello, lui di passaggio, con gli amici di bottega, nella stradina del forno paterno, lei, come vuole tradizione, affacciata alla finestra. Sguardo ovviamente fatale che stravolge la vita della Fornarina diventata in breve tempo prima soltanto modella e poi anche amante del maestro. La leggendaria Fornarina si diceva, laddove il termine sta senz' altro a indicare la mitica popolana romana che seppe conquistare uno dei più corteggiati artisti del momento, ma anche, alla lettera, una figura frutto forse dell' immaginazione, della quale non c' è certezza che visse veramente. Tutto nasce intorno a quel quadro, dipinto tra il 1518 e il 1519, che raffigura una avvenente ragazza nuda, intitolato appunto La Fornarina. Si disse fin da subito che la giovane senza veli doveva essere l' amata del pittore e si continuò a ripeterlo nei secoli, tanto che l' amore tra Raffaello e la figlia del fornaio divenne uno dei più famosi della storia dell' arte, celebrato da artisti d' ogni tempo. E si sa che in questo modo le leggende si possono facilmente trasformare in assoluta verità. Pierluigi Panza sceglie di attenersi alla storicità della bella fanciulla, ma il suo è un romanzo ed egli è perciò libero da qualsiasi vincolo. Con scioltezza scivola dentro i panni di Margherita Luti e racconta i giorni, i mesi, gli anni della sua relazione con Raffaello, evocando le gelosie, le paure, i pianti, le speranze, le rabbie, le umiliazioni come anche i felici tempi dell' appagamento. Ovviamente la narrazione non si limita a riportare patimenti e gioie sentimentali dei due: non si tratta, insomma, di un romanzo d' amore ma del romanzo della vita di Raffaello, degli ultimi, artisticamente più significativi dieci anni della sua vita. La Fornarina è, infatti, un tipo assai sveglio, curiosa e attenta agli accadimenti intorno a lei. Osserva e riporta quel che vede e quel che sente, racconta i palazzi e le feste, i monumenti e le chiese, la grande politica e le chiacchiere di strada, la bottega del pittore e i suoi frequentatori, apprendisti, amici, collaboratori, servi e amministratori. Soprattutto, però, si sofferma sulle opere del maestro - i ritratti, le Madonne, gli affreschi, gli arazzi. E mano a mano che le tratteggia esse compaiono nelle pagine, filo conduttore iconografico che aiuta il lettore a orientarsi nella costellazione dei molti lavori romani del pittore. È il romanzo che diventa biografia o è la biografia che diventa romanzo? Conta che l' autore abbia trovato il modo di narrare Raffaello con la passione e la precisione di uno storico dell' arte e con la verve di uno scrittore.
Tomaso Montanari per il Venerdì- la Repubblica il 10 aprile 2020. Il venerdì santo, di notte, a hore 3, morse il gentilissimo et excellentissimo pittore Rapahelo di Urbino, con universal dolore de tutti, et maximamente de li docti È stato sepolto alla Rotonda, ove fu portato honoratamente L' anima sua indubitatamente se n' è ita a contemplare quelle celesti fabbriche che non patiscono oppositione alcuna, ma la memoria et il nome restarà qui giù in terra et ne lo pensiero e nelle menti de li huomini dabbene longamente. Molto menor danno, al mio giudizio, benché altrimenti par al volgo, ha sentito il mondo de la morte de missier Agostino Gisi, che questa notte passata è mancato». Così scrive da Roma il colto Marco Antonio Michiel a Antonio di Marsilio, a Venezia, l' 11 aprile 1520. Raffaello era morto la notte tra il 6 e il 7 aprile, e tutti notarono che se n' era andato di venerdì santo: oggi, venerdì santo di cinquecento anni dopo, lo veneriamo come uno degli spiriti maggiori che abbiano illuminato questa terra. Il divino Raffaello moriva lo stesso giorno di Cristo. E la sua missione, pensavano i contemporanei e pensiamo noi, non era poi così diversa: portare a compimento la creazione, salvando gli uomini. Il suo corpo veniva deposto al Pantheon: come si addiceva ad un dio. La sua opera e il suo nome, come diceva Michiel, vivono nelle nostre anime. E sono ispiratissime le righe finali: pochi giorni dopo Raffaello, muore Agostino Chigi, abilissimo banchiere, spregiudicato affarista, grande mecenate (anche dello stesso Sanzio). Un uomo più utile di Raffaello, pensa la massa: sbagliandosi, nota Michiel. Che parla anche a noi: perché se tutti oggi conoscono almeno il nome di Raffaello e quasi nessuno quello del Chigi, tutti però pensano che le banche siano molto più importanti dei musei e dei monumenti. Tra le mille opere solennissime e grandiose di Raffaello, ho scelto questo piccolo pezzo di carta, mal tagliato e così evidentemente fragile. Accanto a uno studio di angeli per il soffitto della Sala di Eliodoro in Vaticano e a un altro per la Basilica di San Pietro, ce n' è uno per una Danae, sulla sinistra. Nelle mani dell' incisore Marc' Antonio Raimondi e poi in quelle di Veronese, quella giovane donna diventerà una Sant' Elena che sogna la Croce di Cristo. Ecco cosa ha fatto Raffaello: ha saputo creare un mondo di figure. Un mondo perfetto e sterminato, dove generazioni di artisti hanno abitato, per secoli. Figure eterne, aperte a ogni lettura. Così, in questa donna che, addormentata accanto a una finestra spalancata sulla primavera, sogna il sole e la libertà, noi oggi, in questo tempo difficile, leggiamo una dolcissima allegoria dell' Italia: anzi, dell' umanità, questa volta unita.
Da ansa.it il 18 luglio 2020. Stroncato da una polmonite aggravata da un errore medico: potrebbe sembrare un episodio di cronaca legato a Covid-19, e invece è l'ultima ricostruzione della misteriosa morte di Raffaello Sanzio, elaborata a 500 anni di distanza dagli esperti dell'Università di Milano-Bicocca. La loro analisi, basata su testimonianze dirette e indirette dell'epoca, porta a escludere malaria, tifo e sifilide come cause del decesso, arrivando a puntare il dito contro la pratica del salasso che avrebbe ulteriormente indebolito il Divin pittore già provato dalla febbre. I risultati sono pubblicati su Internal and Emergency Medicine, la rivista della Società italiana di medicina interna (Simi). Per cercare una soluzione al giallo della morte di Raffaello, i ricercatori hanno confrontato le informazioni contenute ne 'Le vite' del Vasari con testimonianze di personaggi storici coevi del pittore e presenti a Roma in quel periodo, come quella di Alfonso Paolucci, ambasciatore del duca di Ferrara Alfonso I d'Este o alcuni documenti riscoperti nell'Ottocento dallo storico dell'arte Giuseppe Campori. "Il decorso della malattia unito ad altri sintomi indurrebbe a pensare a una forma di polmonite", spiega Michele Augusto Riva, ricercatore di Storia della medicina dell'Università di Milano-Bicocca. "Non possiamo affermarlo con sicurezza né possiamo ipotizzare se sia stata di origine batterica o virale come l'attuale Covid-19, ma tra le varie cause è quella che più corrisponde a quanto ci viene raccontato: un decorso acuto ma non immediato, la mancanza di perdita di coscienza, assenza di sintomi gastroenterici e febbre continua". A peggiorare il quadro clinico ci sarebbe stato anche un errore medico: la pratica del salasso, assolutamente sconsigliata in caso di febbre polmonare. "Vasari ci dice che il pittore nascose ai medici di essere uscito spesso nelle notti precedenti per scorribande amorose. Non conoscendo la condotta del paziente e non potendo inquadrare meglio l'origine della febbre - ipotizza Riva - i medici avrebbero sbagliato a insistere con il salasso".
Lettera di Pierluigi Panza a Dagospia il 20 luglio 2020. Michele Augusto Riva, un ricercatore della Bicocca, con altri ha pubblicato su “Internal and Emergency Medicine”, la rivista della Società italiana di medicina interna (Simi), intitolato “The death of Raphael: a reflection on bloodletting in the Renaissance”. L’articolo è pubblicato con tutta l’armamentario pseudoscientifico stile Anvur, ovvero a più mani, in inglese, in rivista per-review, con codice DOI ECC. Ma, sotto il vestito, nulla. L’Ansa, certamente senza leggere l’articolo e a cascata la solita ridda di giornali e siti hanno ripreso (cioé copiato uno dall’altro) una dichiarazione abbastanza lasca dell’autore secondo la quale, studiando le fonti dell’epoca (!) si desume che Raffaello sarebbe morto forse di polmonite e a causa dei salassi. Come dire: forse aria fritta. L’aspetto abbastanza comico è che gli autori del saggio “scientifico” (!) citano in bibliografia cinque “fonti” sulle quali hanno basato le loro considerazioni (non hanno fatto anali autoptiche sui resti). Sono Vasari, ma nemmeno nell’editio princeps ma in una edizione inglese del 1913 tanto che, sulla base di questa, la citazione da Vasari sulla morte di Raffaello risulta approssimativa. E poi una pagina da Campori (1863) due da Portiglotti (1920) e poi il catalogo di De Vecchi (1966) e una citazione erudita da Fracastoro (1591). Questo vuol dire che gli autori, oltre ovviamente a non aver visto manoscritti noti ne trovati dei nuovi, non hanno neppure consultato l’opera in due volumi, di mille pagine che raccoglie tutti gli scritti da documenti d’archivio su Raffaello, ovvero la monumentale raccolta di fonti su Raffaello alla quale John Shearman dedicò tutta la vita. E dove si trovano numerosi, e non solo uno, pareri di eruditie ambasciatori sulla morte di Raffaello dalla somma dei quali, ovviamente, non si può dedurre nulla di certo sulle ragioni della morte. I salassi erano pratica ovvia all’epoca e se ne accenna in una fonte, giá edita appunto in Shearman ecc. ecc. Chi ha dimestichezza con le fonti dell’epoca sa benissimo l’approssimazione dei termini, la difficoltà di ricondurli a qualcosa di scientifico. Insomma, più che scienza è Aria fritta. Dico questo non per prendermela, in specifico, con l’autore (massimo rispetto) ma con i metodi universitari e giornalistici. Le riviste, anche di classe A, valutano con per-review farlocche, i revisori guardano gli apparati e dei contenuti nulla sanno, tanto più dei medici che finiscono col dover valutare fonti di storiografia artistica. Le agenzie di stampa, invece, poiché l’osservazione sarebbe basata su pubblicazione scientifica (che non conoscono né leggono) la sparano subito come verità affermativa. Così si creano grotteschi cortocircuiti stile quelli dei virologi: scoperto come è morto Raffaello!!! Signori, come sia morto con esattezza Raffaello le fonti manoscritte del 500 non sono in grado di dircelo. I resti sono già stati riesumati due volte, forse mischiati, con analisi pseudo autoptica nel 1833, con tanto di misurazione del corpo (alto poco più di un metro e sessanta). Adesso non si leggono le fonti, sarebbero inutili analisi autoptiche, ma si dá per scientifico ciò che è solo procedura Anvur! Ragazzi: guardiamo i quadri di Raffaello e godiamoceli; raccontiamo la sua leggenda come a partire dal Vasari (troppo amore, nuovo Cristo...) senza travestirla da scienza da filologi imparaticci. Pierluigi Panza
Raffaello e Castiglione: tutta l'arte del "Cortigiano". Lettere, oggetti, dipinti... Un percorso per riscoprire il rapporto tra due grandi del nostro Rinascimento. Vittorio Sgarbi, Domenica 19/07/2020 su Il Giornale. La mostra di Baldassarre Castiglione e Raffaello in palazzo ducale di Urbino (Baldassarre Castiglione e Raffaello. Volti e momenti della vita di corte, fino al primo novembre), si apre con il ritratto di Luca Pacioli, il grande teorico della geometria e della prospettiva con la sua Summa de Arithmetica del 1494, quando Raffaello aveva appena iniziato a dipingere. Immagino che il padre l'avesse messo con la grande passione, del figlio e sua, in bottega a sei o sette anni, che quindi ci siano dei suoi interventi dentro i dipinti del padre non riconoscibili. Nel 94 comincia già a dar segni della sua autonomia nelle prime opere che gli vengono attribuite a Città di Castello, e sicuramente a 11 anni entra nella bottega di Perugino e intanto studia quel capolavoro che è la Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni e Proportionalità sicuramente nata anche nello spirito di Piero della Francesca che è il suo maestro primo e vero. Con un padre così possessivo e prima di andare a Perugia, adolescente a Urbino, l'opera fondamentale, per lui è la pala di Piero della Francesca per la Chiesa di San Bernardino (ora a Brera), teorema di tutti i suoi pensieri. Sappiamo che lo zio era il custode della chiesa, quindi il bambino che, quando l'opera arriva, intorno al 70-72, non era ancora nato, già a 8-9 anni poteva andare in meditazione davanti a quella meravigliosa immagine per capire quello spazio sublime che lui trasporterà nell'opera sua più importante, la Scuola di Atene, dove c'è una solenne e grandiosa architettura che è un'espansione dell'architettura di Piero della Francesca nella Pala di Urbino. Quindi Urbino è comunque, attraverso quell'opera, la fonte di irradiazione di tutta la sua visione del mondo, la teoria prospettica di quello che si vede nella Pala è nel libro di Luca Pacioli. Lo vediamo nel capolavoro di Capodimonte, prestito difficilissimo, a fianco del suo libro Luca Pacioli, con un'ottima riproduzione di un tempio romano. Baldassarre Castiglione arriva a Urbino nel 1504, l'anno in cui Raffaello dipinge il suo primo grande capolavoro a Città di Castello, lo Sposalizio della vergine, ora Brera. Aveva cinque anni più di Raffaello e veniva dalla corte di Mantova, nato nella bella proprietà di Casatico. All'età di dodici anni fu inviato, sotto la protezione del parente Giovan Stefano Castiglione alla corte di Ludovico il Moro signore di Milano, ove studiò alla scuola degli umanisti Giorgio Merula per quanto riguarda il latino e di Demetrio Calcondila per il greco. Qui conobbe Leonardo, attivissimo a fianco di Ludovico, nella musica, nella pittura, nella ingegneria. Castiglione si appassionò alla letteratura italiana, coltivando Petrarca, Dante, Lorenzo il Magnifico ed il Poliziano. Nel 1499 tornò a Mantova al servizio di Francesco II Gonzaga, marito di Isabella d'Este. Lo seguì prima a Pavia e poi nuovamente a Milano dove assistette all'entrata trionfale di re Luigi XII di Francia il 5 ottobre 1499. Rientrato a Mantova, Baldassarre si prestò a servire il suo signore come funzionario marchionale. Nel frattempo Guidobaldo da Montefeltro, che aveva sposato Elisabetta Gonzaga, torna a Urbino riconquistata grazie al nuovo papa Giulio II. E Castiglione, per l'interesse della duchessa, ottenne di essere dispensato dal servizio alla corte gonzaghesca per trasferirsi a Urbino. Così, nel 1504, iniziò forse il periodo più fruttuoso e più felice della sua vita. Scrive Luigi Russo: «A Urbino il Castiglione s'incontrò con un comitato di persone egregie, quali innanzitutto le due nobili dame, la duchessa Elisabetta Gonzaga e madonna Emilia Pio, cognata della prima, e poi con uomini d'ingegno come Ottaviano Fregoso... Federico Fregoso poi arcivescovo di Palermo, Cesare Gonzaga, cugino del Castiglione, Giuliano de' Medici, il minore dei figli di Lorenzo il Magnifico». E ancora Ludovico di Canossa e il cardinale letteratissimo Pietro Bembo. Alla corte urbinate, oltre alle missioni diplomatiche e alle imprese belliche, il Castiglione poté interpretare la vita cortigiana dedicandosi alla letteratura e al teatro. Si occupò nel 1506 dell'allestimento prima dell'egloga Tirsi, nel 1513 de La Calandria, l'opera teatrale dell'amico e futuro cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena, «in prosa, non in versi; moderna, non antiqua; vulgare, non latina». La stessa messinscena, in collaborazione con il più celebre scenografo del suo secolo Girolamo Genga, introduce la cosiddetta scena di città con una scenografia prospettica e dove appaiono, per la prima volta, quinte praticabili con vedute della città di Roma dove la commedia è ambientata. Molte furono le ambascerie in Inghilterra, in Francia, a Roma di Castiglione, fino ad assumere l'incarico di podestà di Gubbio. Castiglione partecipò anche alle imprese belliche del papa guerriero, per esempio l'assedio della Mirandola o la presa di Bologna da parte delle truppe urbinati. Così gli fu concesso il 2 settembre 1513 il Castello di Nuvilara nel Pesarese, con il titolo di conte. Nel 1513 raggiunse Raffaello a Roma, alla corte di Leone X, come ambasciatore del Duca Urbino. Sempre a partire dal 1513 Castiglione iniziò la stesura del Cortegiano. Purtroppo, la politica del nuovo pontefice, lo costrinse a nuovi destini. Leone X, infatti, desideroso di elevare la sua famiglia, dichiarò decaduto il duca Francesco Maria a favore del nipote Lorenzo II. L'installarsi dei nuovi signori, la fuga del duca a Mantova e la dichiarata fedeltà alla causa roveresca da parte del Castiglione lo costrinsero a lasciare Roma per far ritorno nei suoi vecchi domini di Casatico, e proseguire la sua attività di cortigiano alla corte dei Gonzaga, ritornando a Roma nel 1519 su incarico di Federico II Gonzaga presso Leone X, all'ultimo anno di pontificato. Rimasto vedovo nel 1520, Castiglione si fece prete per provvedere ai suoi bisogni materiali. Mandato a Roma al conclave che elesse Adriano VI con la speranza che venisse nominato pontefice il cardinale Scipione Gonzaga, Castiglione servì Federico Gonzaga, come cortigiano e comandante militare.
Fu Clemente VII, nel 1524, a elevarlo a Nunzio apostolico in Spagna presso l'imperatore Carlo V. La missione non era delle più facili, in quanto il giovane imperatore era in lotta con il re di Francia Francesco I per la supremazia in Italia. Sconfitto il re di Francia nella battaglia di Pavia del 1525, Clemente VII, che si era alleato con i francesi, fu invaso dalle truppe spagnole e tedesche con il sacco di Roma del 1527. Castiglione fu accusato ingiustamente dal papa di non aver saputo prevedere l'evento. Gli ultimi anni li dedicò alla stampa del Cortegiano, uscito a Venezia per interesse del Bembo nel 1528. Muore l'anno dopo a Toledo. In mostra, con i libri della sua biblioteca, e il manoscritto del Cortegiano, troviamo alcuni oggetti di collezione e d'uso che potevano essere tra quelli di Castiglione. Un'armatura da torneo viene dal museo di Torino e allude all'impegno militare, cioè alla corte con tutte le sue connessioni ai diversi mondi. Poi gli abiti, nella meravigliosa ricostruzione della collezione Bertoli ispirata all'abito di velluto nigro indossato da Beatrice d'Este nel ritratto di Bartolomeo Veneto. Poi, medaglie di Gian Cristoforo Romano, con le effigi di Isabella d'Este e di Francesco II Gonzaga. Il rapporto con Raffaello gira intorno alla lettera che Baldassarre Castiglione scrive per conto di Raffaello che lo ispira, a Leone X esortandolo alla conservazione dei monumenti antichi. Molti documenti vengono dall'archivio Castiglioni venduto dagli eredi allo Stato, nel 2017. Le notevoli lettere di Castiglione furono per la prima volta date alla stampa nel Settecento dal Serassi. In esse egli appare al centro di un mondo, di una quantità di personalità che hanno costituito il nostro Rinascimento. Ed ecco le Prose della volgar lingua, del 1525, il libro in cui si stabilisce la grammatica della lingua italiana che è la lingua toscana di Petrarca e di Boccaccio; Raffaello era morto da 5 anni. Poi, a partire dalla mattonella con l'impresa dei Gonzaga, della Bottega di Antonio Fedeli della fine del Quattrocento, inizia l'esposizione degli oggetti, una vera e propria Wunderkammer, con almeno 70 oggetti meravigliosi, provenienti da collezioni straordinarie che rappresentano il gusto delle corti: marmi antichi, marmi moderni, bronzi, bronzetti, cofanetti in avorio e in pastiglia, medaglie, di cui abbiamo le fonti, come ha indicato Elisabetta Soletti, che li registrano, come i libri ricordati nel testamento, di proprietà di Baldassarre Castiglione. Sono le vestigia della condizione del Cortegiano: Doti fondamentali su cui si deve poggiare il cortigiano per Castiglione sono la grazia e la sprezzatura. La grazia del cortigiano, propria di una specifica classe aristocratico-nobiliare è essenziale alla vita di corte in quanto «la grazia, le maniere gentili e amabili sono dunque le condizioni che permettono al gentiluomo di conquistare quella universal grazia de' signori, cavalieri e donne». Come scrive Maria Teresa Ricci, «la grazia appare dunque come una specie di abilità che ha per scopo di piacere e convincere. Il cortegiano, come l'oratore, deve saper commuovere, persuadere, convincere gli altri. Egli deve essere in grado di dare sempre una buona opinione di sé».
UN MISTERO CHIAMATO RAFFAELLO. DAGOREPORT il 29 dicembre 2019. La direttrice dei Musei Vaticani, Barbara Jatta, ha dichiarato che l’Accademia dei Virtuosi del Pantheon presieduta da Pio Baldi (ex dirigente del ministero al quale si deve la scelta di costruire il Maxxi), d’accordo con il cardinale Ravasi, in occasione del cinquecentenario intende lanciare il progetto “Enigma Raffaello” e aprirne la tomba per riesumare il cadavere. Abbiamo chiesto cosa ne pensa a Pierluigi Panza, del quale in primavera la Mondadori pubblicherà un libro intitolato “Un amore di Raffaello” sulla vita sentimentale segreta dell’artista e della Fornarina nella lasciva Roma del Cinquecento. “Non sarebbe la prima volta. Il pittore Carlo Maratta, che restaurò gli affreschi di Raffaello in Vaticano, nel 1674 fece aprire a sue spese la tomba ed estrasse il cranio per essere utilizzato come modello per il busto eseguito dal Naldini conservato all'Accademia di san Luca. Poi murò anche l’epitaffio della non-moglie di Raffaello. E non fu nemmeno la sola volta”.
Cioè
“Gli stessi Virtuosi del Pantheon riaprirono la tomba nel settembre del 1833. Fu trovato uno scheletro e anche il teschio. Ci sono pure le misure: era alto un metro e 64, basso di statura. La tomba fu poi riaperta nel 1930; sempre che quello lì fosse poi Raffaello davvero”.
Perché?
“Pirro Ligorio dice che, 16 anni dopo la sua morte, nel sepolcro con Raffaello fu messo pure Baldassarre Peruzzi. Altre cronache dicono che Annibale Carracci fu sepolto dove era Raffaello, quindi c’è molta confusione non solo sotto il sole, anche nell’Al di là … Inoltre mentre la cassa di abete era, ovviamente, perduta i Virtuosi del 1833 dissero che lo scheletro fosse con le braccia composte sul petto, che è un po’ impossibile date le inondazioni del Tevere e con tutti i denti bianchi, ma Raffaello pare soffrisse di prognatismo, dunque anche questo è un po’ strano. Comunque, un atto notarile disse che quello fosse il corpo di Raffaello, sebbene fossero state trovate anche altre ossa. Per non dire..”
Non dire che?
“C’è la tesi di un vecchio Commissario alle Antichità di Roma secondo la quale Raffaello era sepolto in Santa Maria presso Minerva. Inoltre, il calco del cranio conservato a San Luca è diverso dalle immagini di quello scoperto nel 1833. Infine, a inizio Novecento venne scoperto un pertugio a lato della cosiddetta Tomba di Raffaello che custodiva un altro scheletro acefalo. Dopo il ritrovamento del Maratta, il cranio di Raffaello fu anche confuso con quello di un povero cistercense, Desiderio Adjutorio , al quale fu restituito il suo nel 1893”.
Ma quante copie di crani di Raffaello ci sono?
“Oh diverse! Un calco del presunto cranio di Raffaello fu fatto fare dal Maratta come modello per il Naldini. Uno lo aveva commissionato Goethe, che lo esibiva sulla scrivania e arrivò nella collezione del frenologo Gall e oggi è a Torino. Poi c’è quello, in teoria, sepolto. Ma se si confronta quest’ultimo con altri crani coevi, tipo quello di Giovanni dalla Bande Nere, è un po’ sospetto. Nel museo di Ingres a Montauban esistono pure dei frammenti di ossa di Raffaello prese dal pittore francese mentre era a Roma”.
Ci sono misteri anche sulla morte?
“Eterne teorie complottistiche, nessuna comprovabile al 100%, né quella nata con il Vasari della morte per eccessi amorosi tantomeno quelle dell’avvelenamento. Si parlò di avvelenamento anche per la morte di due grandi protettori di Raffaello, il cardinal Bibbiena e Papa Leone X; ma nulla è provato. Al massimo gli scienziati troverebbero del piombo e definirebbero l’ipotesi compatibile. Compatibile è la formula pilatesca usata oggi dagli scienziati per non compromettersi mai. Compatibile non vuol dir niente. Comunque, nell’immediatezza della morte, tutte le fonti studiate dal compianto John Shearman, non parlano di veleno, ma di febbre acuta”.
Eppure, pochi giorni dopo la morte di Raffaello muore anche il suo protettore, Agostino Chigi, nel pieno delle sue forze?
“Nel pieno delle sue forze? A quanto ne so, Chigi aveva già fatto testamento da alcuni mesi, anche se è vero che cinque sei mesi prima della sua morte stava bene, visto che aveva concepito un figlio. Di certo si suicidò la vedova di Chigi un anno dopo; ma questo era quasi una consuetudine”.
Morte amorosa, dunque?
“Anche Simon Fornari, nel 1549, riconduce la morte all’eccessivo libertinaggio. Nell’Ottocento il Passavant, sulla base di considerazioni sommarie, parla di affaticamento. Veramente Raffaello con la sua sterminata bottega era richiesto da tutti e serviva tutti: difficile che qualcuno volesse ucciderlo. Non credo Sebastiano Del Piombo. Forse lo si pensa perché Baldassarre Peruzzi pare sia morto avvelenato”.
Piaceva a tutti o apparteneva a sette segrete?
“Il suo fu uno dei funerali più seguiti dell’epoca; in Vaticano lo si riteneva un nuovo Cristo. E’ noto l’episodio che alla morte di Raffaello, il Venerdì Santo, si crepò il soffitto delle Logge vaticane e per tutti fu un chiaro parallelismo con la volta del Tempio di Gerusalemme che si aprì alla morte di Cristo. La storia delle sette segrete deriva dall’interpretazione che si dà al suo ultimo quadro, la Trasfigurazione, legandolo alla Visione di Ezechiele. Ma i soggetti gli erano suggeriti dal superiore degli agostiniani, Egidio da Viterbo, non credo che Raffaello e la sua bottega comprendessero a fondo i significati. Comunque, queste cose sono ben studiate da Stefania Pasti”.
Tutto finto?
“No, ma tutto un romanzo. Ho dei dubbi anche sulla totale romanità del sarcofago donato da Gregorio XVI dove attualmente si troverebbe; sembra ritoccato nel Settecento. Su Raffaello si può romanzare poiché le fonti sono davvero poche. Pochi tasselli di un grande mosaico di bellezza da inventare”.
La doppia vita di Raffaello è nel "Doppio ritratto". L'opera, messa in relazione con le notazioni del Vasari, svela il segreto del grande artista. Vittorio Sgarbi, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. Resta un mistero la morte di Raffaello. O si vuole che resti tale. In mancanza di documenti dobbiamo risalire alla Vita del Vasari. Il quale inizia in modo molto rassicurante, e tale da sembrare garantire un modello di vita in tutto coerente con l'opera, differenziando il grande artista dalla immagine già stereotipata (e ben prima del genio sregolato e maledetto di Caravaggio) dell'artista originale e irregolare, ed escludendo vizi, peccati ed errori, come nell'arte, nella vita. Sembra una cifra che vale, con piccoli e ininfluenti nei (non certo vizi) per l'intera esistenza di Raffaello: «E nel vero, poi che la maggior parte degl'artefici stati insino allora si avevano dalla natura recato un certo che di pazzia e di salvatichezza che, oltre all'avergli fatti astratti e fantastichi, era stata cagione che molte volte si era più dimostrato in loro l'ombra e lo scuro de' vizii che la chiarezza e splendore di quelle virtù che fanno gli uomini immortali, fu ben ragione che, per contrario, in Raffaello facesse chiaramente risplendere tutte le più rare virtù dell'animo, accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia et ottimi costumi, quanti sarebbono bastati a ricoprire ogni vizio quantunque brutto et ogni macchia ancor che grandissima. Laonde, si può dire sicuramente che coloro che sono possessori di tante rare doti, quante si videro in Raffaello da Urbino, sian non uomini semplicemente, ma, se è lecito dire, dèi mortali». Dei mortali, e dunque senza peccato. Possiamo immaginare che Raffaello, nato nel 1483, già tra gli 8 e i 9 anni fosse nella bottega del padre, per imparare, con passione, il mestiere; e che verso i 14-15 anni fosse, adolescente già tecnicamente preparato, nella bottega di Perugino. Dunque verso il 1496-97, quando il maestro manda a Fano la armoniosa pala per la Chiesa di Santa Maria Nuova. Da lì in avanti, il racconto di Vasari è ricco di illustrazioni di opere ma avarissimo di fatti della vita, come se Raffaello non avesse altro che dipinto (e la quantità di opere sembra confermarlo). Non mancano riferimenti a Michelangelo e, in particolare, al Bramante, amico di entrambi i grandi maestri, fino a metterli in relazione e in competizione. Vasari fa riferimento ai committenti illuminati, i due Papi Giulio II e Leone X, e poi ad Agostino Chigi, che sembra il solo che comprende, se non condivide, le debolezze di Raffaello. Un altro amico, il Cardinal Bernardo Dovizi da Bibbiena, sembra invece avere l'obiettivo di dargli, con la motivata riluttanza di Raffaello, famiglia. Vasari suggerisce: «dico che, avendo egli stretta amicizia con Bernardo Divizio cardinale di Bibbiena, il cardinale l'aveva molti anni infestato per dargli moglie e Raffaello non aveva espressamente ricusato di fare la voglia del cardinale, ma aveva ben trattenuto la cosa, con dire di volere aspettare che passassero tre o quattro anni; il quale termine venuto, quando Raffaello non se l'aspettava, gli fu dal cardinale ricordata la promessa et egli vedendosi obligato, come cortese non volle mancare della parola sua e così accettò per donna una nipote di esso cardinale. E perché sempre fu malissimo contento di questo laccio, andò in modo mettendo tempo in mezzo, che molti mesi passarono, che 'l matrimonio non consumò». Fin qui il Raffaello rispettabile e rispettoso, benché diffidente. Poi, nell'esaltato racconto della multiforme produzione artistica di Raffaello, Vasari si lascia scappare il primo indizio (lo «scuro dei vizi»), che porterà alla tragica conclusione. Così da lui apprendiamo che, diversamente dal compiacente e intrigante Cardinal Bibiena, il grande amico Agostino Chigi è consapevole complice dei vizi di Raffaello, al punto da aiutarlo, come un pusher del sesso, per consentirgli di lavorare meglio. Vasari ci dà elementi indiziari molto rarefatti, per intendere caratteri e passioni di Raffaello: «Fu Raffaello persona molto amorosa et affezionata alle donne, e di continuo presto ai servigi loro. La qual cosa fu cagione che, continuando i diletti carnali, egli fu dagl'amici, forse più che non conveniva, rispettato e compiaciuto. Onde facendogli Agostin Ghigi, amico suo caro, dipignere nel palazzo suo la prima loggia, Raffaello non poteva molto attendere a lavorare per lo amore che portava ad una sua donna; per il che Agostino si disperava di sorte, che per via d'altri e da sé, e di mezzi ancora, operò sì che appena ottenne che questa sua donna venne a stare con esso in casa continuamente, in quella parte dove Raffaello lavorava, il che fu cagione che il lavoro venisse a fine». Nient'altro; ma sufficiente per capire la desolante e disarmata conclusione. Essa è tanto improvvisa quanto eloquente, e non lascia dubbi di interpretazione: «Il quale Raffaello, attendendo in tanto a' suoi amori così di nascosto, continuò fuor di modo i piaceri amorosi, onde avvenne ch'una volta fra l'altre disordinò più del solito; perché tornato a casa con una grandissima febbre, fu creduto da' medici che fosse riscaldato; onde, non confessando egli il disordine che aveva fatto, per poca prudenza, loro gli cavarono sangue; di maniera che indebilito si sentiva mancare, là dove egli aveva bisogno di ristoro». Due elementi utili sfuggono al resoconto compunto e reticente di Vasari: «attendendo in tanto ai suoi amori così di nascosto» e «una volta fra l'altre disordinò più del solito». Ecco: quando erano iniziati questi stravizi, questi disordini amorosi, «fuor di modo»? La ritrosia (o l'autocensura) di Vasari si è trasmessa, come una parola d'ordine, a tutta la critica, anche in tempi spregiudicati e irrispettosi dei miti come i nostri. La morte di Raffaello resta avvolta nel mistero, e pochi hanno osato collegarla a malattie veneree, cui perfino Vasari sembra fare oscuro (e doloroso) riferimento. Ma, a questo punto, ci aiutano le opere. Difficile, infatti, riconoscere e ritrovare quel giovinetto gracile, pallido, spirituale, quale si presenta Raffaello nell'Autoritratto degli Uffizi, non giovanilissimo se accogliamo la cronologia, tra 1506 e 1508, proposta nel catalogo della mostra delle Scuderie del Quirinale, quindi a circa 25 anni, nell'uomo ancor giovane del misterioso capolavoro, ora al Louvre, il Doppio ritratto in cui si rappresenta, per l'ultima volta (dopo la comparsata alla Hitchcock nella Scuola di Atene), Raffaello, con un amico, in intima confidenza. Nel rispettare le più recenti proposte cronologiche, quest'ultimo autoritratto sarebbe di soli dieci anni posteriore a quello canonico degli Uffizi, in cui rispecchiamo l'immagine ideale di Raffaello, come è descritto psicologicamente nell'apertura della Vita del Vasari, esempio preclaro delle «più rare virtù dell'animo, accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia e ottimi costumi». È vero che Vasari adombra una sorta di Dr. Jekyll e Mr. Hyde, quando aggiunge che tutte queste magnifiche e innaturali attitudini sarebbero bastate «a ricoprire ogni vizio quantunque brutto et ogni macchia ancora che grandissima». Dunque Vasari, pur sommamente reticente, sembra volerci offrire la chiave di lettura di una vita peccaminosa, e alimentare, con infinita prudenza, il sospetto che il virtuoso Raffaello avesse una doppia identità o una natura misteriosa, una sorta di bipolarismo. Fino a farne un simile di Caravaggio e di Pasolini, con una morte indecorosa. Ma l'impresa artistica è così grande che è parso sempre inopportuno dare spazio, altro che marginale, alla narrazione delle debolezze umane e alle pericolose inclinazioni sessuali di Raffaello. Di esse ci parla in modo eloquente, e inequivocabile, proprio quest'ultimo autoritratto, dove Raffaello appare irriconoscibile, quasi sfigurato, a soli 35 anni, rispetto all'immagine ideale che tutti conosciamo. «Quantum mutatus ab illo»! Raffaello ci guarda, in questo estremo dipinto, come per confidarci un segreto. Una confessione. Si è lasciato crescere la barba, i capelli sono più scuri, l'occhio da limpido si è fatto torbido. E il suo volto appare carnale, gonfio, lontano da ogni idealizzazione: un ritratto nel quale egli sembra volere esprimere in se stesso la sensualità propria degli amici pittori veneziani: Giorgione (quello estremo del Ritratto Terris di San Diego), Lorenzo Lotto (quello del Giovane con la lucerna di Vienna), Tiziano (il supposto ritratto di Ariosto: piuttosto quello, di poco prima, del Museo di Indianapolis, che non quello più noto di Londra), e ancora Sebastiano del Piombo, che ha lavorato con Raffaello alla Farnesina per il comune amico Agostino Chigi, nel momento dei più caldi, sopra ricordati, furori erotici di Raffaello. D'altra parte, sempre in un breve giro d'anni, tra 1515 e 1518, sembrano abbastanza evidenti i rapporti fra il ritratto d'uomo conturbante e vizioso di Sebastiano e l'autoritratto terminale di Raffaello. Il grande maestro aveva trovato nei colleghi veneziani quella intensità di vita e di caldi sensi fino ad allora a lui sconosciuta, e l'aveva condivisa ed emulata, dopo il vivo ma ancora classico ritratto di Baldassarre Castiglione, per confessarci il suo segreto, per parlarci di quello che era riuscito a tenere nascosto, e che, alla fine, per incontinenza, per eccessi e sregolatezza, l'aveva condotto alla morte. Fra le soffocate parole di Vasari e il dissoluto autoritratto non possiamo avere dubbi sulle ragioni della morte (e le passioni della vita) di Raffaello. Doppio autoritratto, doppia vita. Raffaello il caldo. All'opposto di Marziale: «Lasciva est nobis vita, pagina proba est». E quale pagina! La più gloriosa della storia dell'arte, che nessuna vita perduta può permettersi di offuscare. Così conclude, spudoratamente, Vasari: «Ora a noi che dopo lui siamo rimasi, resta imitare il buono, anzi ottimo modo, da lui lasciatoci in esempio e come merita la virtù sua e l'obligo nostro, tenerne nell'animo graziosissimo ricordo e farne con la lingua sempre onoratissima memoria». E ancora: «l'anima del quale è da credere che, come di sue virtù ha abbellito il mondo, così abbia di sé medesima adorno il cielo».
· La Storia da conoscere.
Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 21 dicembre 2020. Nella vita quotidiana, i Romani erano incredibilmente abili e rivoluzionari ma al contempo avevano alcune convinzioni e facevano cose abbastanza bizzarre. Il sito medium.com ha pubblicato le sette credenze più strane.
IL SANGUE DEI GLADIATORI CURA L’EPILESSIA. Nonostante avessero fatto passi da gigante nel campo della medicina, i Romani credevano che bere il sangue di un gladiatore, o mangiarne il fegato, potesse curare l’epilessia. Quando un gladiatore veniva ucciso, il suo sangue era regolarmente venduto. Nel 400 d.C., quando i combattimenti dei gladiatori furono proibiti, i romani iniziarono a comprare il sangue di chi era stato giustiziato, in particolare di chi era stato decapitato, convinti che curasse comunque le crisi epilettiche.
MANCINI. Nel corso della storia, essere mancini ha comportato un bel po’ di problemi e nell’antica Roma, non era diverso. Se una persona era mancina, veniva considerata inaffidabile o sfortunata. La parola “sinistro” derivava dalla parola latina “sinistra” ed era associata al male. Inizialmente i romani non avevano problemi con il lato sinistro delle cose, ma alla fine fecero loro il pensiero greco che considerava fortunato il lato destro.
FALLO PORTAFORTUNA. I Romani usavano il fallo, o oggetti a forma di pene, come portafortuna. Erano presenti nelle case come ornamento, li indossavano come collane e li usavano persino come campane eoliche. Pensavano che fossero simbolo di buona salute, fortuna e allontanassero gli spiriti maligni.
URINA. I Romani prendevano molto sul serio l’utilizzo dell’urina. L’imperatore Vespasiano nel I secolo d.C. applicò persino una tassa sull’urina poiché veniva usata per lavare il bucato. Ciò la rendeva simile a quello che attualmente è un detersivo, una sorta di candeggina. L’ammoniaca presente nelle urine sbiancava i vestiti, veniva prelevata dai bagni pubblici e successivamente tassata per il suo utilizzo. I romani la usavano anche per pulire e sbiancare i denti. Si dice che fosse l’ammoniaca a dotarli di un sorriso bianco perla.
BAGNI PUBBLICI. I Romani nel trattamento delle acque reflue erano all’avanguardia e utilizzavano l’acqua sotterranea per spostare gli escrementi lontano dai bagni pubblici. I bagni di epoca romana erano luoghi di incontro pubblico e concludevano affari mentre facevano i bisogni. Nell’area c’era solo una fila di posti a sedere con i buchi che corrispondevano alla rete fognaria. Data la mancanza di carta igienica utilizzano il tersorium, una spugna marina infilata a un bastone che veniva condivisa. Veniva lavato in una grondaia da cui scorreva continuamente acqua e poi usato da un’altra persona con buona pace dell’igiene.
IGIENE PERSONALE. I Romani avevano molta cura dell’igiene personale ma non usavano il sapone bensì oli profumati e sabbia fine. Ne ricoprivano il corpo e poi il mix – una sorta di odierno scrub – veniva tolto con uno strigile. Uno strumento di metallo con un’estremità curva e un manico che raschiava dalla pelle l’olio e la sabbia.
TINTURE PER CAPELLI. Per tingere la chioma i Romani avevano tecniche diverse, utilizzavano aceto, bacche o gusci di noci frantumati. Il ccolore bruno-rossastro veniva ottenuto utilizzando un mistura ottenuta dall’albero dell’henné. Per il colore nero, uno degli intrugli più bizzarri era composto da sanguisughe e aceto. La miscela veniva lasciata fermentare e dopo due mesi applicata sui capelli (fonte: medium.com).
Silvia Lambertucci per ANSA il 21 novembre 2020. A vederli così, il sangue che sembra pulsare ancora nelle vene di quelle mani poggiate sul petto, le dita piegate, il cotone della tunica arricciato sul ventre, sembra quasi che il tempo non sia mai passato. Sono i corpi pressoché integri di due uomini, un quarantenne avvolto in un caldo mantello di lana e il suo giovane schiavo già piegato dalle fatiche della vita, la nuova emozionante rivelazione di Pompei, frutto di uno scavo andato avanti anche in queste settimane più dure della pandemia e che l’ANSA ha potuto documentare in esclusiva. “Una scoperta davvero eccezionale - sottolinea entusiasta il direttore Massimo Osanna, da settembre 2020 alla guida anche della direzione generale dei musei pubblici - perché per la prima volta dopo più di 150 anni è stato possibile realizzare calchi perfettamente riusciti e precisi delle vittime e delle cose che avevano con sé nell’attimo in cui sono stati investiti e uccisi dai vapori bollenti dell’eruzione”. Un giallo ancora in parte da dipanare, chiarisce l’archeologo, perché saranno probabilmente gli scavi dei prossimi mesi a dirci dove questi due uomini fossero diretti e, chissà, forse anche a chiarire di più quale fosse il loro ruolo nella grande e fastosa residenza dove sono stati ritrovati. Ma intanto arriva il plauso del ministro della Cultura Franceschini, che parla di scoperta “stupefacente” e ne sottolinea l’importanza “per l’intero patrimonio culturale”. Teatro della nuova scoperta è la villa suburbana di Civita Giuliana, la lussureggiante tenuta di epoca augustea con le terrazze che arrivavano fino al mare nelle cui stalle - era il 2017 - gli archeologi del Parco trovarono i resti di tre cavalli di razza, uno addirittura bardato con una raffinata sella in legno e bronzo e scintillanti finimenti, quasi fosse stato preparato per l’uscita imminente del suo padrone, con tutta probabilità, ipotizza Osanna, “un comandante militare o un alto magistrato”, forse un esponente dei Mummii, blasonata famiglia romana dell’epoca imperiale, visto che sempre nella stessa villa sono stati ritrovati i resti di un muro affrescato con il nome graffito di una bimba, la piccola “Mummia”, appunto. Tant’è, raffinata e signorile un pò come la celeberrima Villa dei Misteri o come la Villa di Diomede che ispirò tanta letteratura degli ultimi secoli da Théophile Gautier a Sigmund Freud, la Villa del Sauro Bardato poteva vantare una posizione strepitosa, subito fuori dalle mura della città, con rigogliose terrazze digradanti dalle quali si poteva godere la vista incantevole del golfo di Napoli e di Capri. Articolata in decine di ambienti diversi com’era uso delle abitazioni più ricche, disponeva accanto agli ambienti di rappresentanza e alle stanze da letto più signorili, “di un efficiente quartiere di servizio, con l’aia, i magazzini per l’olio e per il vino e ampi terreni fittamente coltivati”. I primi scavi qui risalgono al 1907-1908 ad opera del marchese Giovanni Imperiali, allora proprietario del terreno. Solo che dopo aver scavato il marchese fece interrare di nuovo quegli ambienti senza lasciare una adeguata documentazione. Gli scavi attuali, interamente finanziati dal Parco di Pompei con 2 milioni di euro, sono figli di un’operazione congiunta con la Procura di Torre Annunziata, il procuratore Pierpaolo Filippelli, e i carabinieri per bloccare i tombaroli, che qui hanno lasciato ampie tracce della loro certosina attività. Dopo l’indagine nelle stalle da gennaio 2020 si sta scavando intorno al lunghissimo criptoportico edificato sotto ad una delle grandi terrazze. “Abbiamo avuto anche fortuna” racconta Osanna, “perché il vano nel quale abbiamo ritrovato i corpi dei due uomini era sfuggito sia agli scavi dei primi del Novecento, sia ai tombaroli”. Un ambiente intatto e per questo particolarmente prezioso. Le ultime settimane sono state febbrili. “Abbiamo avvertito la presenza di vuoti nella coltre durissima di materiale piroplastico e da lì la sorpresa dei resti umani”, sottolinea ancora emozionato Osanna. C’erano le condizioni ottimali per provare a ottenere il calco delle vittime, seguendo la tecnica messa a punto a metà Ottocento da Giuseppe Fiorelli. L’ultimo tentativo era stato fatto negli anni Novanta del Novecento, purtroppo senza grandi successi. Stavolta l’esperimento è pienamente riuscito. “Ha funzionato anche per quello che i due si stavano portando appresso, che si è rivelato essere un manufatto in lana, forse un altro mantello, forse una coperta”. E i primi studi sembrano aver già individuato il momento della fine, nel secondo giorno dell’eruzione, la mattina del 25 ottobre di quel fatidico 79 d.C. Resta il giallo dell’identità. Il direttore annuisce e allarga le braccia, cita il precedente della Villa di Diomede, dove i primi scavi, alla fine del ’700, restituirono proprio negli ambienti del criptoportico i resti di molte persone, uomini, donne, bambini che probabilmente in quegli ambienti sotterranei si sentivano al riparo dal cataclisma. Chissà, forse l’uomo col mantello e lo schiavo che era con lui stavano cercando di raggiungere il resto della famiglia, dopo aver vigilato fino all’ultimo all’esterno. Il mistero per ora resta aperto. Osanna, che fra qualche mese lascerà le consegne al prossimo direttore, invita alla pazienza: “Adesso è fondamentale proseguire gli scavi - conclude - Ci vorrà tempo, ma alla fine anche la tenuta del Sauro Bardato, come pure la Villa di Diomede i cui lavori si concluderanno in primavera, potrà aprire al pubblico con tutte le sue affascinanti storie”. E in tempo di pandemia, sorride, “anche il proseguire di restauri, scavi e studi è una luce accesa sul futuro”.
Fabio Sindici per "lastampa.it" il 23 novembre 2020. Uomini in fuga. Abbattuti da una morte repentina, avvolti nel fiato rovente del flusso piroclastico che viaggia rapidissimo dal Vesuvio, una mattina del 79 d.C.. Le ceneri del vulcano hanno fissato in un fermo immagine i corpi dei due fuggiaschi nell' istante della fine: uno, il più giovane, un ragazzo intorno ai vent' anni, sembra riposare supino, la testa reclinata, le gambe distese, una mano sul petto, l' altra sul bacino; la posizione dell' altro, più anziano, robusto, un uomo tra i trenta e i quarant' anni, è più drammatica, le gambe divaricate, il capo quasi rovesciato, le braccia ripiegate. I corpi, o meglio, le «ombre» dei corpi, colpiti come la maggior parte delle vittime dall' ondata piroclastica della seconda fase dell' eruzione, sono stati appena ritrovati nella villa di Civita Giuliana, poco fuori le vecchie mura di Pompei, dove, dal 2017, si svolge una delle più importanti campagne di scavo del Parco Archeologico. Massimo Osanna, direttore generale della Soprintendenza di Pompei, l' ha definita «una scoperta eccezionale». Non solo per le condizioni quasi intatte dei due pompeiani. Ma per i dettagli che vengono rivelati. Entrambi gli uomini, infatti, avevano con sé delle vesti o delle coperte di lana, forse la prova definitiva che porta a una nuova datazione di uno dei giorni più tragici del mondo antico: dal 24 agosto, come si era supposto in base a una lettera di Plinio il Giovane che faceva riferimento a nove giorni prima delle Calende di settembre, al 24 ottobre, come si desume da diverse prove archeologiche, dalla frutta secca carbonizzata nei bracieri a un' iscrizione graffita a carboncino che porta la data del 17 di quel mese. L' eruzione dovrebbe essere arrivata qualche giorno dopo. Gli indumenti di lana che i fuggitivi avevano con sé confermano l' ipotesi di una data autunnale. Sugli involucri di ceneri che hanno coperto i resti decomposti sono stati eseguiti dei calchi con una tecnica messa a punto per la prima volta dall' archeologo Giuseppe Fiorelli intorno al 1870, una colata di gesso liquido all' interno delle cavità. Un procedimento che, per la prima volta, è stato eseguito alla perfezione grazie alle più avanzate tecniche calcografiche oggi a disposizione. «Per la prima volta dopo più di 150 anni dal primo impiego della tecnica è stato possibile non solo realizzare calchi perfettamente riusciti delle vittime, ma anche indagare e documentare con nuove tecnologie le cose che avevano con sé nell' attimo in cui sono stati investiti e uccisi dai vapori bollenti dell' eruzione», spiega Osanna. Si seguono le linee delle vene sulle mani dei due compagni dell' ultima ora. Si possono osservare le ricche pieghe della tunica corta del più giovane, forse uno schiavo, come si è ipotizzato per alcuni schiacciamenti delle vertebre lungo la colonna, che fanno pensare a lavori pesanti. Un mantello è fermato sulla spalla del più anziano, le sue sono vesti da adulto, più elaborate. Padrone e schiavo o padre e figlio, in fuga insieme dal disastro? La villa suburbana di Civita Giuliana, una delle più lussuose della città, paragonata da Osanna per la ricchezza dei suoi ambienti e delle sue decorazioni alla celebre Villa dei Misteri, continua a suggerirci segreti sul punto di essere svelati. La primavera scorsa si era discusso di un graffito, probabilmente dalla mano di una bambina, interpretato come «Mummia». Un riferimento alla prestigiosa gens dei Mummii, anche se di origine plebea, che vantava, tra i suoi membri, Lucio Mummio, il conquistatore della Grecia? «La villa, di epoca augustea, è appartenuta sicuramente a un generale o a un magistrato di alto rango» precisa Osanna. Il direttore generale dei Musei dello Stato fa riferimento alla bardatura da parata di un sauro, anche questo, insieme ad altri due destrieri, ucciso dal magma piroclastico. A questo animale la casa deve il nome con il quale è nota: la «villa del sauro bardato». Di due cavalli è stato possibile realizzare il calco, la cementificazione delle pareti di una galleria scavata dai tombaroli che collega il criptoportico con le stalle, ha impedito di realizzare il terzo. Una «trincea» di tombaroli quasi sfiora il sito dei due uomini ritrovati, l' uno accanto all' altro, proprio nel criptoportico. Sopra di questo, una terrazza di copertura guardava verso i campi; dall' altro lato, altre terrazze digradavano, in un belvedere, verso il mare, miraggio di salvezza per molti degli abitanti di Pompei.
Chi era l'imperatore africano Musa Keita I: l'uomo più ricco di sempre. Il mondo è stato pieno di milionari, ma nessuno ha mai raggiunto le ricchezze accumulate nel XIV secolo dal sovrano del Mali Musa Keita. Davide Bartoccini, Giovedì 10/12/2020 su Il Giornale. Si chiamava Musa Keita, ha vissuto sul continente africano a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, e può essere considerato ancora oggi l'uomo più ricco del mondo. In cima alle liste degli uomini più ricchi del mondo si sono succeduti nei secoli J.D. Rockfeller, J.P. Morgan, i banchieri della dinastia De Rotschild, fino ad arrivare al magnate dei personal computer Bill Gates e al ceo di Amazon Jeff Bezos; ma mai nessuno nella storia più o meno recente ha eguagliato, e tanto meno superato, l'imperatore del Mali Musa Keita I. Considerato, ancora oggi, la persona che ha accumulato più ricchezza materiale nella storia che si tramanda a memoria d'uomo. Il Time lo ha ricordato come il “più ricco di quanto chiunque possa descrivere”; e secondo gli storici, sebbene sia difficile quantificare precisamente l'entità del "suo patrimonio”, non c'è alcuno dubbio riguardo l'affermazione che il sovrano del Mali - ma anche dei territori che oggi sono conosciuti come stati di Mauritania, Senegal, Gambia, Guinea, Burkina Faso, Niger, Nigeria e Ciad - si stato l'essere umano con più "oro" del mondo. Paragonato al leggendario re Mida, Musa Keita, nono imperatore del Mali nonché re di Timbuktu, è nato nel 1280 e si è stabilito sul trono nel 1312, quando il Mali, e le terre sulle quali si espandeva il dominio delle dinastie Kolonkan e Laye, era considerato il più grande produttore di oro del mondo fino a quel momento conosciuto. Le leggenda vuole che il mansa Keita I, succeduto ad Abubakari II, fosse un filantropo, studioso del Corano (fece erigere tra le grandi opere commissionate, oltre a scuole e biblioteche, la moschea di Djinguereber a Timbuktu) e che possedesse un esercito di oltre 200mila uomini - un'armata di dimensioni titaniche per la sua epoca. Fu tuttavia l'oro elargito in Egitto durante un suo pellegrinaggio di 6.500 chilometri verso la Mecca, abbia causato una profonda e duratura crisi dovuta all'inflazione, a renderlo famigerato. Secondo le cronache infatti, l'imperatore africano intraprese un lungo viaggio con un seguito di "decine di migliaia di guerrieri" e un'intera corte di araldi con servitori al seguito. La carovana, che si prolungava a perdita d'occhio, si muoveva a dorso di cavalli e cammelli, trasportando con se una grande quantità di lingotti d’oro: che oltre ad essere impiegati per pagare ogni tipo di spesa, vennero donati ai poveri del Cairo, causando un’inflazione di massa che sarebbe perdurata per almeno un decennio. Questo viaggio leggendario permise a Keita I di essere conosciuto in tutto il mondo arabo e musulmano, venendo anche raffigurato nell’Atlante catalano del 1375 - ossia 43 anni dopo la sua morte - che venne sempre considerato come uno dei mappamondi più autorevoli nell’Europa medievale. Un continente, quello europeo, che in quell'epoca di grande prosperità per l'Africa, doveva sopravvivere a guerre, pestilenze e alla cosiddetta "grande carestia". A quel tempo il regno del Mali si estendeva per oltre 3.200 chilometri di lunghezza, contenendo al suo interno innumerevoli ricchezze che, secondo le analisi, potrebbero essere quantificate approssimativamente a 400 miliardi di dollari attuali - il doppio di quelle accumulate dal rais libico Muammar Gheddafi e 100 miliardi in più dell'ultimo zar di tutte le Russie Nicola II Romanov. L'attuale patrimonio di Bezos, il magnate del commercio elettronico considerato da Forbes per il secondo anno di seguito l'uomo più ricco del mondo, è quantificato in 184 miliardi di dollari, per capirci. Il patrimonio di Musa era tanto grande che nemmeno il dissennato figlio Maghan - succedutogli nel 1337 - riuscì ad intaccare. Nonostante sia passato alla storia come il più dissoluto dei sovrani del Mali. E non sono stati pochi, nella storia, i figli capaci di dissolvere le ricchezze accumulate dai loro ricchissimi padri.
ANSA il 16 novembre 2020. Oltre 100 sarcofagi dell'antico Egitto, inviolati e sigillati, contenenti mummie ben conservate, alcune accompagnate da ricchi ornamenti, sono stati scoperti in una necropoli faraonica nella località di Saqqara, vicino alla piramide di Djoser, poco a sud del Cairo. Lo annuncia la soprintendenza archeologica egiziana, che parla anche del ritrovamento di 40 statue dorate. I ritrovamenti per lo più sono sepolti da poco meno di 2.500 e risalgono perciò all'epoca delle dinastie dal IVI al IV secolo avanti Cristo e alla dinastia dei Tolomei (IV-I sec. a.C.). Gli archeologi, fa sapere il Cairo, citato dai media internazionali, hanno finora aperto uno dei sarcofagi, trovando la mummia al suo interno ben conservata, ancora avvolta nelle bende, sottoponendola ai raggi-x per verificarne lo stato di conservazione. Il sito di Saqqara è parte della necropoli dell'antica capitale del primo Regno egizio, Menfi, che comprende anche le Piramidi di Giza ad Abu Sir e dichiarato Patrimonio mondiale Unesco negli anni Settanta. Saqqara ancora non ci ha svelato il grosso del suo contenuto", ha dichiarato il ministro egiziano al Turismo e alle Antichità, Khaled El-Anany, in un conferenza stampa. "E un tesoro enorme. Gli scavi sono in corso e ogni volta che scopriamo il vano di una tomba, troviamo anche l'entrata a un altro", ha spiegato El-Anany, aggiungendo che, quando saranno stati esaminati, i ritrovamenti troveranno il loro posto nel Grande Museo del Cairo.
Benjamin Brimelow per it.businessinsider.com il 16 novembre 2020. Nell’autunno del 1940, gli inglesi affrontarono una terribile situazione nel Mediterraneo, dove la grande flotta italiana rappresentava una grave minaccia. Per neutralizzarla, la marina britannica lanciò un audace attacco aereo contro le navi italiane mentre erano in porto. Il successo del raid a Taranto permise agli inglesi di dominare il Mediterraneo e diede ai giapponesi un’idea per un attacco simile agli Stati Uniti un anno dopo. All’inizio della primavera del 1941, gli strateghi militari giapponesi erano al lavoro per pianificare il loro blitz nel sud est asiatico. Gli strateghi, in particolare l’ammiraglio Isoroku Yamamoto, sapevano che questa espansione era possibile solo se i Paesi occidentali, in particolare gli Stati Uniti, non fossero stati in grado di resistere. Il Giappone doveva garantire che la flotta del Pacifico della Marina degli Stati Uniti non potesse interferire. I funzionari giapponesi decisero di attaccare a sorpresa le navi della Marina americana a Pearl Harbor, mettendole a tappeto e guadagnando tempo per raggiungere gli altri obiettivi. Sebbene ambizioso, Yamamoto aveva buone ragioni per credere che l’attacco avrebbe avuto successo: poco più di un anno prima, gli inglesi avevano condotto un attacco simile alla marina italiana nel porto di Taranto. L’operazione britannica – il primo attacco navale effettuato solo con aerei della storia – paralizzò la marina italiana dimostrando che gli attacchi con siluri contro le navi in porto erano possibili. Anche la campagna del Nord Africa contro i nazisti era ben avviata, ma la resa della Francia alla Germania a giugno significava che la Gran Bretagna non aveva più il sostegno della marina francese. L’Italia invase anche la Grecia nell’ottobre di quell’anno, facendo ulteriore pressione sugli inglesi. (I tedeschi si unirono al fianco dell’Italia in Grecia all’inizio del 1941, costringendo alla fine a una ritirata britannica). La piccola forza mediterranea della Royal Navy affrontò la Regia Marina italiana, allora la quarta marina più grande del mondo. Gli inglesi erano a corto di risorse e rifornire Malta, un’isola strategicamente situata nel mezzo del Mediterraneo, si stava rivelando difficile. Particolarmente preoccupante per gli inglesi era la flotta italiana nel porto di Taranto, nell’Italia sud-orientale. Comprendeva tutte e sei le corazzate italiane, 16 incrociatori e 13 cacciatorpediniere. Nonostante la superiorità numerica, la Regia Marina rifiutò di incontrare gli inglesi in un decisivo scontro su larga scala. Ciò costrinse la Royal Navy a operare sempre come una singola unità, temendo che se le sue forze si fossero divise, sarebbero potuto essere eliminate. Gli inglesi decisero che dovevano portare la lotta direttamente contro gli italiani. Un’operazione unica nel suo genere. Gli inglesi selezionarono Taranto come potenziale bersaglio prima ancora che la guerra fosse iniziata, decidendo che un raid aereo notturno sarebbe stato l’attacco più efficace. Il piano prevedeva che le portaerei HMS Illustrious e HMS Eagle e le loro scorte salpassero con un convoglio verso Malta per ingannare gli italiani. Le portaerei sarebbero quindi salpate fino a un punto a 170 miglia da Taranto, dove 32 aerosiluranti Fairey Swordfish – un vecchio biplano rivestito in tessuto e considerato ampiamente obsoleto – si sarebbero lanciati in due ondate per attaccare le navi da guerra italiane con siluri e bombe. Lo Swordfish fu modificato con l’aggiunta di un altro serbatoio di carburante, che prese il posto di uno dei tre membri dell’equipaggio. Alcuni portarono anche razzi per illuminare l’area per altri piloti. Sarebbe stata la prima volta che le navi nemiche venivano attaccate in porto da aerosiluranti, cosa considerata impossibile a causa delle acque poco profonde del porto e delle centinaia di mitragliatrici e cannoni antiaerei che di solito erano presenti. L’attacco era previsto per il 21 ottobre ma fu ritardato da un incendio a bordo di Illustrious. Anche il sistema di alimentazione di Eagle subì guasti che gli impedirono di partecipare all’attacco. L’attacco fu riprogrammato per l’11 novembre, con la forza britannica in partenza da Alessandria il 6 novembre. Con Eagle fuori causa, la forza d’attacco fu ridotta a 21 Swordfish, cinque dei quali furono trasferiti da Eagle. La prima ondata di 12 aerei arrivò poco prima delle 23:00. Gli inglesi furono aiutati anche da un colpo di fortuna, dato che gli italiani avevano rimosso alcune delle loro reti antisiluro a causa di un’esercitazione di artiglieria programmata. Le reti rimanenti non raggiungevano il fondo del porto, il che significava che i siluri britannici potevano passare sotto di loro. La metà gli Swordfish trasportava siluri e l’altra metà bombe. Dopo che i razzi furono lanciati, dal porto esplose la contraerea, ma gli Swordfish volavano all’altezza delle onde, costringendo gli italiani a rischiare di sparare alle proprie navi. La prima ondata colpì due corazzate con siluri. Anche un certo numero di incrociatori e cacciatorpediniere furono colpiti con bombe, e anche un vicino impianto di stoccaggio del petrolio e una base di idrovolanti furono attaccati. Uno Swordfish fu abbattuto e il suo equipaggio catturato. La seconda ondata di nove aerei arrivò quasi un’ora dopo. Silurarono una terza corazzata e colpirono una di quelle danneggiate in precedenza. Un altro Swordfish fu abbattuto, uccidendone l’equipaggio. Altri aerei che trasportavano bombe colpirono diverse altre navi, causando danni di vario grado.
Una flotta paralizzata e un’idea per il Giappone. L’attacco paralizzò la marina italiana. Tre corazzate – Littorio, Caio Duilio e Conte di Cavour – giacevano sul fondo del porto. Littorio e Caio Duilio avrebbero impiegato mesi per essere riparati, mentre il Conte di Cavour non tornò mai più in servizio. Anche due incrociatori e due cacciatorpediniere furono danneggiati, oltre 50 marinai furono uccisi, 600 furono feriti e l‘impianto petrolifero fu distrutto. In sole due ore, una manciata di aerosiluranti britannici obsoleti disattivò metà delle corazzate italiane. Gli altri furono costretti a operare dai porti più a nord, rendendoli meno pericolosi per la Royal Navy, che ora dominava il Mediterraneo. Il primo ministro Winston Churchill disse al Parlamento in un discorso che l’attacco aveva “suscitato reazioni sulla situazione navale in ogni parte del globo”. Pochi giorni dopo l’attacco, il tenente Takeshi Naito, assistente addetto aereo presso l’ambasciata giapponese a Berlino, arrivò a Taranto per indagare. Una delegazione militare giapponese più numerosa lo seguì in primavera e redigendo un ampio rapporto. Poco più di un mese prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, Naito incontrò la Cmdr. Mitsuo Fuchida, che avrebbe guidato l’attacco aereo alla base americana. Discussero a lungo di Taranto. Dopo la guerra, Naito ha ricordato “il problema più difficile [a Pearl Harbor] è stato il lancio di siluri in acque poco profonde. La Marina britannica ha attaccato la flotta italiana a Taranto, e devo molto per questa lezione di lancio in acque poco profonde”. Anche la Marina americana aveva un esperto a Taranto. Il tenente John Opie, un assistente addetto navale presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Londra, che fu effettivamente a bordo di Illustrious come osservatore durante l’attacco. Opie scrisse rapidamente un rapporto e chiese persino di visitare Pearl Harbor per discutere di ciò che aveva appreso. Ma le sue richieste furono ignorate e nel dicembre 1941 il Giappone condusse la propria Taranto, affondando o danneggiando 19 navi della Marina americana e uccidendo più di 2.000 americani a Pearl Harbor.
Il primo combattimento tra jet della storia nei cieli della Corea. Paolo Mauri su Inside Over il 15 novembre 2020. Il sole splendeva nell’azzurro del cielo coreano quell’8 novembre del 1950 quando il tenente Russell J. Brown, pilota dell’Usaf, l’allora neonata aviazione americana, divenne il primo pilota della storia ad abbattere un velivolo in un combattimento tra caccia a reazione. La guerra di Corea era cominciata da pochi mesi, e le forze aeree della coalizione guidata dall’Onu spadroneggiavano nei cieli della penisola non trovando praticamente nessuna opposizione se non dall’attività della contraerea. Una supremazia che però non sarebbe durata ancora a lungo, perché, poco prima dei fatti che stiamo per raccontarvi, una freccia d’argento era comparsa nell’azzurro cielo della Corea: una freccia con le stelle rosse dipinte sulla fusoliera. A fine ottobre di quel primo anno di guerra, infatti, stavano cominciando ad arrivare rapporti allarmanti (e allarmati) di piloti che si erano trovati ad incrociare “aerei sconosciuti” molto più veloci: allora, nelle forze aeree della coalizione, si volava sugli F-51 (i Mustang della Seconda Guerra Mondiale), sui Sea Fury, sugli F9F-2 Panther, e sugli F-80, lo Shooting Star che è stato il primo caccia a reazione ad entrare in servizio negli Stati Uniti ed il cui sviluppo è stato portato a termine a tempo di record dalla Lockheed nel 1943, sull’onda dei primi jet costruiti dalla Germania e dal Regno Unito che stavano prendendo parte attiva a quel conflitto (il Messerschmitt 262 ed il Gloster Meteor). Quella freccia argentata aveva un nome, che divenne epico per i duelli aerei che ingaggiò durante quella guerra con un altro caccia a reazione, più moderno rispetto allo Shooting Star, l’F-86 Sabre. Si chiamava Mig-15 e per una strano scherzo del destino – ma forse il destino c’entra poco e molto invece la miopia politica – la sua partecipazione a quel conflitto non sarebbe forse mai avvenuta se non fosse stato per un inaspettato regalo degli inglesi, che nell’immediato dopoguerra riponevano ancora molta fiducia nell’Unione Sovietica. Londra, infatti, che allora era all’avanguardia nelle costruzioni aeronautiche soprattutto per quanto riguarda i propulsori, vendette a Mosca come gesto di “buona volontà” un totale di 55 motori a getto della Rolls Royce tra il 1946 e il 1947: i Nene tipo I e II. L’accordo era che i motori non fossero usati per “scopi bellici”, ma l’Unione Sovietica, attraverso procedimenti di retroingegneria messi in atto da Vladimir Yakovlevich Klimov, produsse nella fabbrica numero 45 di Mosca il propulsore a getto Klimov Vk-1 che andò ad equipaggiare proprio i Mig-15 che combatterono in Corea. Il caccia, con ala a freccia, era pesantemente armato e molto veloce per l’epoca: montava due cannoncini da 23 millimetri ed uno da 37 ed era in grado di volare a 1031 Km/h a 5500 metri di quota. Sarebbe diventato un incubo per i bombardieri pesanti statunitensi, i B-29 che stavano effettuando una delle campagna di bombardamento a tappeto più pesanti della storia quando il generale Douglas McArthur, ai primi di novembre del 1950, convinse il presidente Harry Truman che per fermare il dilagare delle truppe cinesi in Corea era necessario distruggere i ponti sul fiume Yalu, che segna il confine tra i due Paesi, e le installazioni che sostenevano l’avanzata del nemico. In un disastroso giorno di ottobre del 1951, i Mig riuscirono ad abbattere ben sei Superfortress, ma la supremazia dei piloti sovietici sarebbe durata poco perché sempre più Sabre stavano affluendo in Corea. Aerei sovietici e piloti sovietici. Perché oggi sappiamo che durante quel conflitto buona parte dei Mig era pilotata da personale sovietico, con qualche cinese e nordcoreano addestrato dai russi. Mosca, infatti, già a marzo del 1950, quindi prima delle ostilità, aveva trasferito 40 Mig-15 da Kubinka (base aerea nei pressi della capitale russa) alla Cina che andarono a formare, insieme ad altri giunti successivamente, il 64esimo Corpo di Aviazione da Caccia divenuto operativo proprio tra ottobre e novembre. Ma gli F-86, in quell’inizio di novembre, ancora non erano arrivati in Corea, e soprattutto i duelli aerei si svolgevano ancora (e si sarebbero svolti per tutta quella guerra) come nell’ultimo conflitto mondiale e in quello precedente: a colpi di mitragliatrici e cannoncini. L’era dei missili aria-aria ancora doveva cominciare: il primo, il celeberrimo Aim-9 Sidewinder, entrò in servizio nel 1956, ovvero tre anni dopo la fine della guerra lungo il 38esimo parallelo. Anche per quanto riguarda quest’arma il destino ha giocato un brutto scherzo “all’Occidente”. Il primo utilizzo in combattimento di missili aria-aria nella storia ci fu il 24 settembre 1958, quando i piloti di Taiwan li schierarono contro i più capaci jet cinesi. I caccia cinesi tipo Mig-17 erano superiori agli F-86 taiwanesi per quanto riguarda le prestazioni, ma il vantaggio si annullò proprio grazie al Sidewinder. Durante un combattimento aereo, però, uno degli Aim-9B che colpì un Mig-17 non esplose ma rimase incastrato nella cellula dell’aereo, consentendo al caccia cinese di tornare alla base con il missile intatto. L’arma fu successivamente passata all’Unione Sovietica dove gli ingegneri, così come fecero per il Rolls Royce Nene, la copiarono determinando la nascita del missile aria-aria R-3, noto anche come K-13 o AA-2 “Atoll” in codice Nato. Torniamo ora a quel giorno di novembre del 1950. I caccia americani, gli F-80C, erano decollati la mattina per effettuare una missione di mitragliamento di posizioni di artiglieria antiaerea in un aeroporto presso il villaggio di Sinuiju, prima che i B-29 conducessero il loro attacco che sarebbe dovuto avvenire verso mezzogiorno. Il generale George Stratemeyer, comandante delle forze aeree dell’Estremo Oriente, ordinò una serie di attacchi B-29 contro quattro città nordcoreane lungo il fiume Yalu, in quello che sarebbe diventato, di lì a poco, il “corridoio dei Mig” o “Mig alley”, tra il 4 e il 7 novembre. Tuttavia, il bombardamento di Sinuiju del 7 novembre, aveva dovuto essere posticipato di un giorno a causa del maltempo. Quella mattina quattro sezioni di quattro F-80C erano decollate per effettuare una missione che avrebbe dovuto essere senza storia, proprio per via della pressoché inconsistente opposizione aerea dell’aeronautica avversaria, che allora volava principalmente sui vecchi Yakovlev Yak-9. Qui, invece, comincia la nostra storia. Qui il tenente Brown passò alla storia. Brown volava in coppia col maggiore Evans Stephens, comandate dello stormo, e la loro sezione di quattro effettuò il passaggio di mitragliamento per ultima quel mattino. Completata la manovra di attacco i due piloti richiamarono in cabrata sino ad una quota di 20mila piedi (circa 6mila metri) per coprire la seconda coppia, composta dal sottotenente Ralph Giel e dal tenente Richard Escola, nella loro passaggio. Quando Brown e Stephens raggiunsero la posizione di copertura, in quota, iniziarono a scrutare in tutte le direzioni, alla ricerca della presenza di possibili aerei nemici: quando il gruppo aveva iniziato l’attacco all’aeroporto, quattro caccia Yak erano apparsi sul lato cinese del fiume Yalu, ed ora i due piloti li stavano cercando, ma dei caccia nemici non v’era più traccia. In quel momento Stephens individuò 12 MiG-15 avvicinarsi alla loro posizione da sud e da una quota più bassa (circa 5400 metri), a gruppi di quattro, ad una distanza di circa 30 miglia dal lato coreano del confine. A quel punto i piloti americani, dopo aver modificato i reticoli di mira per il combattimento aria-aria, si gettarono nella mischia, esattamente come avveniva durante la Seconda Guerra Mondiale ma ad una velocità molto diversa. Lasciamo ora che sia lo stesso tenente Brown a raccontare quello che accadde in quella fase iniziale del combattimento aereo, il primo tra caccia a reazione, che durò sessanta secondi ma che tanto bastarono a farlo entrare nella storia dell’aviazione. “In effetti (i Mig n.d.r.) stavano facendo looping e tonneau! Mi sono detto che doveva essere davvero una folle guerra se il nemico può provare figure acrobatiche volando proprio davanti a te! Improvvisamente si è scatenato l’inferno! Stephens mi urlò di rompere a sinistra (virare bruscamente n.d.r.). Un istante dopo due velivoli d’argento luccicante si sono buttati su di me col sole alle spalle. Mentre mi sorpassavano ho dato tutta manetta e mi sono attaccato alla coda di uno di loro, cercando di mettermi in posizione per fare fuoco. Mentre cercavo di avvicinarmi al caccia nemico, il mio F-80 vibrava in malo modo perché stavo oltrepassando la velocità di Mach 0,8 (stava cioè andando in overspeed provocando turbolenze nel flusso d’aria lungo la sua fusoliera e superficie alare, potenzialmente catastrofiche). Quelli erano decisamente dei Mig, e ho potuto dare un’attenta occhiata ai jet comunisti quando abbiamo toccato il fondo (della picchiata n.d.r.) e abbiamo cominciato la richiamata”. A quel punto, mentre il tenete diceva a sé stesso “dannazione devo beccarlo”, i due caccia si trovavano a una distanza di circa 1000 piedi (300 metri) l’uno dall’altro e sebbene non riuscisse a guadagnare terreno sul Mig-15, Brown prese la mira e sparò una prima serie di colpi. Poi altre tre brevi raffiche. Il tenente non capì se riuscì a colpire il Mig, perché il suo pilota lo capovolse puntando verso il basso in una seconda picchiata. Brown però non mollò la sua preda. Lo seguì ancora in un tuffo che portò l’F-80C ad una velocità indicata di circa 965 Km/h, la sua velocità massima, che però fu insufficiente a colmare la distanza sul caccia di fabbricazione russa che continuò progressivamente a guadagnare terreno. A quel punto il tenente sparò altre quattro raffiche ravvicinate, e questa volta vide distintamente fiamme rosse uscire dal lato destro della fusoliera del MiG, vicino alla sezione del motore. Brown allora pensò “o adesso o mai più” e tenne premuto il grilletto sparando quasi tutti i colpi che gli rimasero. Il Mig-15 a quel punto prese fuoco, trovandosi a soli 600 metri dal suolo, ed esplose in una palla di fuoco. Il tenente tirò in fretta l’F-80 fuori dalla sua picchiata mentre l’aereo vibrava pericolosamente per la velocità e l’accelerazione di gravità. Russel J. Brown era entrato nella storia. Come in tutte le storie di duelli aerei, però, esistono versioni discordanti di quanto accadde quella mattina dell’8 novembre nel cielo coreano. I registri sovietici non riportano la perdita di Mig-15 in quel giorno. Il tenente Kharitonov, della 72esima Unità di Aviazione da Caccia delle Guardie, riferì di essere stato attaccato da un F-80 in circostanze che suggeriscono potesse trattarsi dello scontro riportato da Brown, tuttavia Kharitonov riuscì a eludere il caccia americano dopo essersi gettato in picchiata. Quello dell’8 novembre potrebbe addirittura non essere il primo combattimento tra caccia a reazione della storia se diamo per buoni i resoconti sovietici: un pilota sempre di Mig-15, il tenente Khominich, anche lui della 72esima Unità delle Guardia, affermò di aver abbattuto un F-80 americano il primo novembre del 1950, ma i registri statunitensi indicano che il caccia era stato abbattuto dal fuoco antiaereo. Misteri di guerra in un periodo in cui contava più la propaganda e la disinformazione della verità, però possiamo dire almeno che, da parte americana, ci sono due testimoni oculari a confermare l’abbattimento, mentre da parte sovietica esistono solo singoli resoconti non confermati. Sia come sia, in quei primi giorni di novembre iniziava una nuova era dell’aviazione militare, un’era cominciata ancora utilizzando il cannone e la mitragliatrice e proseguita col missile, che molto probabilmente giungerà alle armi ad energia diretta a poco più di 100 anni da quel primo, traballante volo, effettuato a Kitty Hawk da due visionari. A noi, al di là dei resoconti di parte, piace però pensare che sia stato il più lento e obsolescente F-80 a vincere una gara impari contro il Mig-15, che dopo pochi mesi diventerà, insieme al già citato F-86 Sabre, il protagonista delle battaglie aeree nella guerra di Corea.
Rinvenuto un teschio di due milioni di anni fa: è di un ominino, nostro vecchio "cugino". Sandro Iannaccone La Repubblica il 10 novembre 2020. Appartiene alla specie Paranthropus robustus, specie simile e coeva all'Homo erectus. Ma che, per qualche ragione, si è estinta prima. È una scoperta che, per dirla con le parole dei suoi autori, "getta nuova luce sul tema dell'evoluzione umana". Si tratta del rinvenimento e dell'analisi, in Sudafrica, di un teschio datato circa due milioni di anni fa e appartenente a un ominide della specie Paranthropus robustus, considerata molto simile all'Homo erectus, una dei diretti antenati dell'Homo sapiens. Le due specie, dicono gli archeologi, hanno vissuto più o meno nello stesso momento, ma Paranthropus robustus si è estinta prima. I responsabili della scoperta, un team di archeologi dell'Università di Pisa e de La Trobe University di Melbourne (e di altri istituti di ricerca), ne hanno raccontato i dettagli sulle pagine della rivista Nature, Ecology and Evolution. Il reperto fossile, chiamato DH 155, in realtà, era stato scoperto nel 2018, non troppo lontano dallo scheletro di un bambino appartenente alla specie Homo erectus portato alla luce nel 2015 e, soprattutto, da altri resti ossei della stessa specie, risalenti a circa un milione e 800mila anni fa. "La maggior parte dei fossili", ha spiegato alla Bbc Angeline Lecce, una degli autori del lavoro, "è rappresentata da un piccolo frammento osseo, magari solo un dente. Aver trovato un intero teschio è una circostanza molto rara. Ci sentiamo molto fortunati". Gli archeologi hanno passato gli ultimi due anni a mettere insieme e analizzare tutti i frammenti del teschio - "È stato come lavorare con del cartone bagnato", ha commentato Jesse Martin, un altro degli scienziati coinvolti nella scoperta - prima arrivare finalmente alla conclusione che si trattasse di un esemplare di Pitanthropus robustus. Secondo le teorie al momento più accreditate, si crede che due milioni di anni fa fossero tre le specie a convivere (e competere) in Sudafrica: una appartenente al genere Australopithecus (quello della celebre Lucy, per intenderci), una appartenente al genere Paranthropus e una appartenente al genere Homo. L'analisi degli scienziati ha svelato che Paranthropus robustus era dotato di denti grandi e cervello piccolo, al contrario di Homo erectus, e che si cibava prevalentemente di vegetali, tra cui tuberi e cortecce. Per capire cosa rende così interessante questa scoperta abbiamo chiesto lumi a Giovanni Boschian, un altro degli autori del lavoro, docente del Dipartimento di Biologia all'Università di Pisa. "Si tratta di un mirabile esempio di microevoluzione", ci ha spiegato. "Abbiamo confrontato le caratteristiche del teschio con quelle degli esemplari della stessa specie che erano stati rinvenuti a circa dieci chilometri di distanza, più "giovani" di circa 200mila anni: in questo modo abbiamo potuto capire cosa fosse successo, a livello evolutivo, in una finestra spaziale e temporale relativamente molto breve". L'analisi degli scienziati ha mostrato che effettivamente qualcosa era cambiato: rispetto ai suoi discendenti, DH 155 appariva più complessivamente più "deboluccio" e fragile. Il che porta a pensare che i cambiamenti ambientali, tra cui soprattutto l'aridizzazione e il raffreddamento del clima, abbiano guidato la rapida evoluzione di Paranthropus, rendendolo via via più adatto alla sopravvivenza. E forse condannandolo, alla fine, all'estinzione: "Non sappiamo con certezza perché Paranthropus si estinse, mentre il genere Homo continuò a evolversi fino al sapiens", conclude Boschian. "Forse è avvenuto proprio a causa dell'eccessivo adattamento e specializzazione, che lo hanno reso inizialmente più adatto all'ambiente in cui viveva ma poi più esposto ai cambiamenti successivi".
Stefania Cigarini per "Leggo" l'8 ottobre 2020. Roma restituisce uno splendido tassello della sua storia millenaria e lo fa all'Aventino, dove una domus romana rinvenuta all'interno del complesso residenziale privato Bnp-Paribas Real Estate, in piazza Albania, verrà aperta al pubblico - primo caso per un sito archeologico - a cura dei condòmini stessi. La sovrapposizione delle storie della domus - dall'VIII secolo aC al III secolo dC - oltre ad essere visibile, sarà esaltata dal racconto e dal videomapping ricostruttivo a cura di Piero Angela e Paco Lanciano, formidabili cantori della Capitale dell'antichità. Dallo scavo sono emersi mosaici (su sei successivi livelli temporali), materiali d'uso quotidiano di grandissimo interesse (in fase di studio alla Soprintendenza di Roma) e strutture interessantissime: dai primi terrazzamenti nel banco di tufo dell’Aventino, ad una torre di guardia edificata tra VI e III secolo aC, fino a una sontuosa residenza, che dall’età tardo repubblicana a quella medio imperiale ha subito continue trasformazioni. A Piero Angela il progetto (presentato il 6 ottobre 2020 in loco) piace in modo particolare proprio perché si tratta di "archeologia delle persone, di pietre che parlano" riferendosi ai tanti periodi e stili di vita che le vestigia ritrovare raccontano. Per Daniela Porro, soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma, si tratta di "un felice caso di collaborazione tra Pubblico e Privato". Per Piero Bernardo Cocco-Ordini, a.d. Bnp-Paribas Real Estate, oltre ad essere stata una "collaborazione virtuosa" quella con la Soprintendenza, l'operazione domus Aventino è una dimostrazione della "vocazione del gruppo a valorizzare", in Francia come in Italia (presto a Milano), il contesto storico e sociale degli immobili di cui si occupa. Gli archeologi Roberto Narducci e Letizia Rustico si sono occupati di studiare e organizzare la cosiddetta Scatola Archeologica che contiene queste meraviglie e che le preserva per la vista del pubblico. Da novembre 2020 il sito sarà aperto al pubblico con visite guidate inizialmente programmate due volte al mese e gestite da una cooperativa che si occuperà anche delle prenotazioni e del ticketing; oneri e onori dell'operazione spetteranno al condominio. Sono anche in pubblicazione due volumi sugli scavi. Le indagini archeologiche a seguito del cambiamento di destinazione d’uso degli edifici della Banca Nazionale del Lavoro risalenti al 1952, si sono svolte dal 2014 al 2018. Tra i plinti di fondazione del vecchio complesso sono riemerse le significative tracce di un paesaggio urbano del passato, posto lungo il versante meridionale del colle e prospiciente un’area pianeggiante dove passava in antico il vicus Piscinae Publicae, oggi viale Aventino.
Alix Amer per leggo.it il 4 ottobre 2020. Sepolti più di 2.600 anni fa e mai più aperti, 59 sarcofagi di legno riportati alla luce dagli archeologi nell’area di Saqqara, a 30 chilometri dal Cairo in Egitto. Le tombe sono state trovate all’interno di tre pozzi profondi oltre 11 metri. Un luogo di sepoltura attivo per più di 3.000 anni e patrimonio mondiale dell’Unesco. Oggi il ministro del turismo e delle antichità, Khaled Al-Anani, ha presentato la scoperta record alla stampa. Durante gli scavi sono state trovate 59 bare, dozzine di mummie e una statua di bronzo ben conservate, il tutto collocato in tre pozzi nell’antica area di Saqqara. «Ci sono nuove scoperte archeologiche in corso e saranno annunciate a breve - ha sottolineato il ministro - Mentre i sarcofagi e le mummie già portate alla luce saranno trasferite al Grand Egyptian Museum (GEM), per essere sistemate accanto alla scoperta del nascondiglio di Al-Asasif all’interno del museo». E ha poi aggiunto che le bare sono in buono stato di conservazione, così come le mummie che «sembrano state imbalsamate ieri». I sarcofagi, sigillati più di 2.600 anni fa, risalgono al tardo periodo dell’antico Egitto, dal VI o VII secolo aC. Negli ultimi anni gli scavi a Saqqara hanno portato alla luce manufatti, serpenti mummificati, uccelli, scarabei e altri animali. Studi preliminari hanno indicato che «i sarcofagi appartenevano probabilmente a sacerdoti, statisti anziani e figure di spicco nell’antica società egiziana della 26a dinastia», ha detto Al-Anani. «Questa scoperta include il maggior numero di bare in una singola sepoltura dalla scoperta del nascondiglio Al-Asasif - ha aggiunto il ministro - all’inizio è stato individuato un pozzo sepolcrale con una profondità di circa 11 metri, e al suo interno sono state trovate più di 13 bare chiuse da oltre 2.600 anni, impilate l’una sull’altra. La settimana seguente la missione è riuscita a scoprire un altro pozzo con 14 bare, e così si è arrivati a 27, fino a quando è stato scoperto un terzo pozzo e siamo arrivati a 59». Durante la conferenza, il ministro ha aperto uno dei sarcofagi davanti ad ambasciatori stranieri, professionisti del settore e media. «L’Egitto è unico nella sua diversità, la scorsa settimana i ministri hanno partecipato alla Giornata mondiale del turismo a Sharm El Sheikh sulle spiagge, e oggi siamo in un’area archeologica a testimoniare l’edificio più antico della storia. Solo in Egitto si può assistere a tutti i tipi di turismo, quindi qui possiamo combinare viaggi nella storia e cultura balneare», ha concluso il ministro.
L'epopea di Gonzalo Guerrero: il conquistador diventato Maya. Salpò dalla Spagna per trovare fortuna nelle Americhe, ma si trovò schiavo del popolo che i conquistadores avevano soggiogato: per questo divenne uno di loro, difendendoli dai "bianchi" come lui. Davide Bartoccini, Giovedì 08/10/2020 su Il Giornale. Nel regno di Castiglia, da dove era partito insieme ai soldati di ventura, agli esploratori e ai cadetti che in nome di Dio e del re sognavano di conquistare terre e potere, venne soprannominato "il Rinnegato". Perché Gonzalo Guerrero, spogliatosi di ogni armatura e abito che gli potesse ricordare il vecchio mondo, nel Nuovo Mondo tagliava la gola ai conquistadores che volevano imporsi sulle civiltà mesoamericane. Come quella dei Maya: che lo resero schiavo e poi "capo", consegnandolo alla storia come una leggenda. Nato in Andalusia approssimativamente nell'ottava decade del XV secolo, quando Cristoforo Colombo scopre l'America, è arruolato come archibugiere nelle truppe comandate dal Gran Capitano Gonzalo Fernández di Cordova che per conto dei regnanti cattolici muovono alla conquista di Granada. Dopo aver cercato e trovato battaglia a Napoli, altro campo dove gli spagnoli si espandevano, sceglie - come molti - la via di oltre oceano, per raggiungere quel Nuovo Mondo che promette agli avventurieri europei enormi fortune e ricchezze. Terre che possono essere conquistate con la lama di spade e alabarde, a spese degli indigeni che non hanno ancora mai veduto con i loro occhi uomini vestiti di ferro. Uomini che possiedono armi capaci di sputare "fuoco" e cavalcano animali possenti con tanta sintonia da sembrare una bestia sola. Si imbarca così, nel 1511, su una caravella armata da Pedro di Alvarado diretto in Sud America, quando una violenta tempesta si abbatte sulla spedizione mentre era a largo dei Caraibi. La burrasca fa colare a picco il vascello, lasciando in vita appena 20 anime che, riparate su una scialuppa, patiscono un calvario di oltre due settimane alla deriva, trascorse a sfamarsi con la carne dei cadaveri e a idratarsi bevendo la propria urina e il sangue dei morti. La maggior parte di loro moriranno di stenti prima ancora di raggiungere le coste dello Yucatan, dove quei naufraghi provati troveranno ad attenderli gli indigeni. I Cocomes (così si chiamava la dinastia Maya locale) li fanno prigionieri e li chiudono in gabbie di minuscole dimensioni per nutrirli come oche all'ingrasso e poi sacrificarli cibandosi di loro in opulenti banchetti per onorare gli dei. Solo Guerrero e Gerónimo de Aguilar rimangono in vita e, gelati nel sangue all'idea del macabro epilogo delle loro vite - essere sgozzati e mangiati ancora tiepidi da quegli uomini nudi, con i volti disegnati, che indossano vistosi copricapi di piume - decidono di fuggire nella giungla. Sarà una libertà fugace, dato che verranno catturati da un'altra tribù, quella degli Xiues Tutul, che li offrono come schiavi al sacerdote della città-stato di Mani. Sarà proprio la lotta fratricida che vede i Cocomes e gli Xiues Tutul a riscattare la vita dei due conquistadores. Notati per le loro qualità guerresche, vengono liberati e nominati consiglieri di guerra a servizio del capo tribù. Attraverso la strategia della "falange macedone", che rese conquistatore ineguagliabile nella storia Alessandro Magno, Gonzalo Guerrero si guadagna il plauso dei suoi padroni, battaglia dopo battaglia. Messo da parte l'elmo morione e spogliatosi della corazza, si presta alle mutilazioni tribali e alla pratica del tatuaggi rituali dei Maya. Diventando di fatto uno di loro. Sposa la principessa Zazil Há e ha una prole numerosa. Decide addirittura di sacrificare la sua primogenita agli dei. Rinnegando la cristianità e l’unico dio per cui i suoi fratelli spagnoli si erano immolati cacciando i musulmani dall’Andalusia al fianco di San Giacomo detto "Santiago Matamoros", e nel nome del quale erano poi partiti alla volta delle Americhe. Trascorrerà quasi un decennio prima che il nuovo Gonzalo, il conquistadores pagano, debba trovare sulla sua strada un uomo vestito di ferro come lo era lui quando era partito dalla Spagna. Si tratta degli emissari di Hernán Cortés che hanno ricevuto notizia di “uomini bianchi dalle lunghe barbe che vivevano tra gli indigeni”, e che pensando a dei naufraghi, vogliono trarli in salvo. Entrati contatto con De Aguilar, gli propongono di riunirsi ai loro compatrioti per tornare in Spagna al termine della spedizione. Ma Guerrero non è di queste intenzioni. Tacciato di eresia, considerato un traditore apostata e un rinnegato - ma soprattutto un avversario "pericoloso", data la sua conoscenza delle strategia di guerra adottare dai conquistatori spagnoli - viene braccato senza successo degli uomini di Cortés. Ma gli spagnoli trovano un nemico agguerrito: un condottiero che conosce le tattiche degli spagnoli ma combatte nudo e con le orecchie bucate ai lobi come vuole la sua "casta". Un'anomalia del sistema che va cancellata. Una spedizione comandata dal capitano Davila nel 1531 si spingerà fino a Chetumal - dove si suppone la "tana" del "rinnegato" Guerrero - per cercare il traditore. Ma non raggiunge alcun risultato: lì non era né Guerrero, né le miniere d'oro che interessano a Davila: molto più del traditore che andava in qualche modo redento. Tra le rovine della città abbandonata vengono trovati e catturati alcuni indios che ingannano gli spagnoli affermando che l'uomo che veniva dal "vecchio mondo" ma che ha deciso di combattere con loro, era morto per cause naturali. Ciò è sufficiente per mettere fine alla "caccia" al rinnegato, che invece è vivo e vegeto, e continua a combattere per il suo nuovo popolo contro gli uomini che vengono dal mare come lui. Questo almeno fino a che una freccia scoccata dalla balestra di un soldato agli ordini del capitano Lorenzo di Godoy non lo colpisce all'ombelico. Attraversandolo da fianco a fianco mentre conduce in battaglia i suoi fedeli guerrieri.
La figura di un gatto di 37 metri trovata nelle Linee di Nazca. Riccardo Bruno su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2020. Un gatto di 37 metri era disteso sulla collina da oltre duemila anni, eppure era sfuggito fino ad oggi anche agli occhi esperti degli archeologi. È stato rinvenuto quasi per caso durante i lavori di ristrutturazione nel parco naturale peruviano che racchiude le Linee di Nazca, giganteschi disegni di animali stilizzati che dal 1994 sono Patrimonio dell’Unesco.
La civiltà Paracas. La figura del gatto — con orecchie appuntite, occhi a sfera e una lunga coda a strisce — era nascosta sotto la vegetazione in un zona poco accessibile. «Stava per scomparire perché si trova su un pendio soggetto ad un’erosione piuttosto estesa, e questo ha fatto sì che fosse nascosta per molti anni» ha dichiarato Johny Isla, un esperto del ministero della Cultura peruviano. Studiando i tratti stilistici è stato ipotizzato che il geoglifo risalga all’epoca della civiltà Paracas Tardio, tra il 200 e il 100 prima di Cristo. Sarebbe dunque anteriore alle altre immagini presenti nel parco.
Gli altri animali. Le Linee di Nazca sono oltre 13.000 e formano più di 800 disegni. Si trovano su un altopiano arido che si estende per una ottantina di chilometri tra le città di Nazca e di Palpa, a circa 450 chilometri a sud della capitale Lima. Tra le immagini stilizzate, una balena, un pappagallo, un colibrì, un condor, un ragno di 45 metri e una lucertola di più di 180.
Da "tg24.sky.it" il 20 ottobre 2020. Le linee di Nazca (Perù), un sito patrimonio mondiale dell'Unesco dal 1994 che ospita geoglifi creati oltre 2mila anni fa, continuano a riservare piacevoli sorprese. Nelle scorse settimane, durante i lavori di manutenzione in un punto panoramico per i visitatori, è stato scoperto un nuovo geoglifo a forma di gatto. Come riporta la Cnn, secondo le stime degli archeologi, lo stile dell’opera, trovata su una collina nell’area della Pampa de Jumana in Perù, suggerisce che sia stata creata tra il 200 a.C. e il 100 a.C., nel tardo periodo della civiltà Paracas. "Rappresentazioni di questo tipo di felino si trovano spesso nell'iconografia della ceramica e dei tessuti nella società di Paracas", precisa il ministero della Cultura del Paese, in un comunicato dedicato alla scoperta.
La scoperta nel dettaglio. La figura del gatto, come precisa la fonte, “era appena visibile e stava per scomparire a causa della sua posizione su un pendio abbastanza ripido e degli effetti dell'erosione naturale”. Durante i lavori di pulizia del sito, gli archeologi hanno scoperto una serie di linee di larghezza variabile da 30 a 40 centimetri che unite ricreano la figura di un gatto. “Il geoglifo mostra una figura felina di profilo, con la testa rivolta in avanti”, ha precisato Johny Isla, archeologo responsabile del sito di Nazca. “È abbastanza sorprendente che stiamo ancora trovando nuove opere, ma sappiamo anche che ce ne sono altre da trovare", ha aggiunto. L'antico geoglifo a forma di gatto, che misura 37 metri di lunghezza, si unisce a una serie di altri disegni zoomorfi trovati nel paesaggio della regione nel secolo scorso, comprese le raffigurazioni di un colibrì, una scimmia e un pellicano.
Linee di Nazca: patrimonio dell'Unesco. Le linee e i geoglifi coprono un'area di circa 450 chilometri quadrati e furono creati tra il 500 a.C. e 500 d.C., secondo l’Unesco, che ha aggiunto il sito alla sua lista del patrimonio mondiale nel 1994, descrivendolo come uno dei "più grandi enigmi dell'archeologia". "Sono il gruppo di geoglifi più eccezionale in tutto il mondo e non hanno eguali per estensione, grandezza, quantità, dimensione, diversità e antica tradizione rispetto a qualsiasi opera simile al mondo", precisa l’Unesco. "La concentrazione e l'accostamento delle linee, nonché la loro continuità culturale, dimostrano che si trattava di un'attività importante e di lunga durata, circa mille anni".
Fra gli eroi del passato un piccione (femmina). Portò un messaggio per 265miglia, nonostante le ferite e salvò 194 soldati. Meritò la Croix de guerre. Viviana Persiani, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. Va bene gli uomini, immortalati da gesta eroiche e non solo, ma non scordiamoci di tanti animali che hanno avuto un ruolo importante nella storia del mondo. Chi ha mai sentito parlare di Cher Ami? Questo leggendario piccione ha compiuto una impresa così eroica che il suo corpo è stato imbalsamato ed è visibile, allo Smithsonian Institution. Il volatile era stato regalato da un gruppo di amatori alla divisione Signal Corps dell'Esercito degli Stati Uniti d'America che, durante la Prima Guerra Mondiale, operava in Francia. Il 3 ottobre del 1918, per il maggiore Charles Whittlesey e i suoi 500 uomini sembravano finite le possibilità di salvezza. Situazione disperata: senza cibo e munizioni, i membri appartenenti al «Battaglione Perduto» della 77ª divisione parevano inesorabilmente perduti. Non solo i tedeschi, ma anche il fuoco amico degli alleati, ignorando la loro posizione, aveva ridotto il gruppo a 194 superstiti. Rimanevano solo tre piccioni, nella speranza di mandare messaggi al centro operativo. I primi due vennero abbattuti dai tedeschi. Toccava a Cher Ami volare con l'astuccio legato alla zampa e il disperato messaggio: «Ci troviamo lungo la strada parallela alle coordinate 276,4. La nostra artiglieria sta effettuando uno sbarramento proprio sopra di noi. Per l'amore di Dio, fermatevi». Il piccione viaggiatore venne preso di mira dai fucili tedeschi. In un primo momento, riuscì ad evitare le pallottole, ma poi fu colpito al petto, all'occhio, alla zampa. Eppure nonostante le ferite, Cher Ami riuscì a volare, per 265 miglia, mettendoci solo 65 minuti per consegnare il messaggio. Grazie alla sua impresa, i 194 uomini si salvarono, così come anche il piccione viaggiatore, curato immediatamente, pur perdendo la zampetta, sostituita da una protesi di legno. Al suo arrivo in America, Cher Ami (che era un esemplare femmina, ma lo si scoprì solo durante l'imbalsamazione), considerata eroe di guerra, venne insignita della Croix de guerre e della medaglia Oak Leaf Cluster. Morì nel 1919. Un altro animale che, per motivi diversi, è riuscito a guadagnarsi un posto nell'olimpo degli immortali è il cavallo Marengo (il cui nome deriva dalla famosa omonima battaglia), appartenuto a Napoleone Bonaparte. Lo stallone arabo dell'imperatore, che non era completamente bianco come afferma la leggenda, era arrivato, dall'Egitto, in Francia, nel 1799, quando aveva 6 anni. Pur essendo di piccola taglia, dimostrò di essere un cavallo coraggioso e veloce, tanto che accompagnò il famoso condottiero durante le battaglie di Austerlitz, Jena, Wagram e Waterloo, finendo per essere ferito almeno otto volte. A seguito della sconfitta Napoleone lo abbandonò al suo destino. Che non fu infausto. Catturato da William Petre, venne portato in Inghilterra e venduto al tenente colonnello Angerstein delle Guardie dei granatieri. Morì a 38 anni e il suo scheletro (senza uno zoccolo, utilizzato dagli ufficiali come tabacchiera) è oggi esposto al National Army Museum di Chelsea, Londra. A proposito di cavalli, come dimenticare Bucefalo e il suo sodalizio con Alessandro Magno. Talmente affini, che il cavallo, recalcitrante alla monta, si lascio cavalcare solo dal re macedone. Alessandro ci riuscì con uno stratagemma; aveva capito, infatti che l'animale si spaventava nel vedere i movimenti della sua ombra. Decise così di rivolgergli il muso verso il sole, riuscendo a domarlo. Per vent'anni, il cavallo partecipò a tutte le conquiste del suo illustre proprietario fino a quando, durante la battaglia dell'Idaspe, Bucefalo fu ferito a morte. Ciò non gli impedì di servire fedelmente il suo Alessandro, conducendolo alla vittoria. Stremato, il cavallo morì alla sera, venendo sepolto con tutti gli onori militari che si devono agli eroi. Tanto che, sul luogo della sua sepoltura, venne fondata la città di Alessandria Bucefala (odierna Jhelum, città del Punjab, provincia del Pakistan).
Da lastampa.it il 30 agosto 2020. Il mistero delle quattrocento porte in pietra scovate in Arabia Saudita grazie a Google Earth, potrebbe presto essere svelato. Il condizionale è d'obbligo, ma dalla loro scoperta, nel 2017, decine di ricercatori e archeologi si sono dati da fare per trovare un «perché» a quelle grandi formazioni che sembrano essere fra i monumenti più antichi al mondo. Quando sono state scoperte, sono state subito chiamate <porte> per la loro forma rettangolare allungata delimitata da bassi muretti in pietra. Oggi si preferisce definirle «mustatilis», parola araba che significa semplicemente rettangolo. Qualunque nome gli si voglia dare, queste enormi strutture in pietra risalgono almeno al 5000 avanti Cristo e rappresentano «una delle prime forme su larga scala di costruzione di strutture monumentali in pietra in tutto il mondo». Non esiste un mustatilis uguale all'altro: le dimensioni variano anche di molto, dai 15 metri agli oltre 600 di lunghezza. I ricercatori hanno scoperto che sulle basi si trovano delle «piattaforme» decorate con disegni geometrici mai visti prima e diversi da ogni altre reperto rupestre. Al loro interno sono stati trovati pochi reperti e manufatti, il che suggerisce che le strutture non erano dei «recinti» e non avevano uno scopo funzionale, essendo i limiti molto bassi e senza punti di accesso. Il che fa pensare che fossero dei luoghi rituali, da tenere isolati, anche se non si è ancora capito il motivo. Analizzare i luoghi, per ora, non è bastato per identificare la loro funzione: le porte si trovano un po' ovunque, anche sulle pendici di un vulcano e in zone aride e sterili, anche se ai tempi potevano essere molto diverse da come le conosciamo oggi. L'unica cosa su cui i ricercatori sembrano concordare è che le porte siano una «manifestazione della crescente territorialità, indotta da fattori come la competizione per i pascoli negli ambienti difficili e imprevedibili dell'Arabia», una presa di coscienza di limiti e proprietà privata. Non ci resta che aspettare le prossime pubblicazioni scientifiche per saperne qualcosa di più.
Alberto Fraja per "Libero Quotidiano" il 23 agosto 2020. Dite la verità. Quanti di voi, novelli Muzio Scevola, rosolerebbero la mano pur di dare per certe verità storiche che tali non sono? Per esempio: gli antichi egizi costringevano gli schiavi a tirar su le piramidi a suon di scudisciate, Galileo disse "eppur si muove" e Vespasiano è l'eponimo inventore dei bagni pubblici. Spiacente, ma non è così. Per due ragioni. La prima sta nella imprecisione della storiografia diventata disciplina scientificamente affidabile piuttosto di recente. La seconda nella circostanza che nella narrazione dei fatti antichi la propaganda in usum serenissimi Delphini ci ha sempre messo lo zampino. Di qui il fiorire di bugie e luoghi comuni. «Anticamente si spaziava con disinvoltura dalla storiografia alla propaganda, fino alla agiografia - commenta lo storico Emilio Gentile -. Chi scriveva di storia usava generi letterari mescolati tra di loro con fini celebrativi oppure denigratori». Segue selezionato campionario di panzane storiche spacciate per verità rivelate. Dante era uno scrittore e un poeta. Non è così. La letteratura e l'arte cara alla musa Calliope rappresentarono per il sommo verseggiatore una sorta di secondo lavoro. L'Alighieri trascorse, infatti, parte significativa della sua vita ad esercitare il mestiere del dottore. Lo provano la regolare iscrizione, a partire dal 1295, all'arte dei medici e degli speziali. Fonti certe attestano che tra il 1285 e il 1287 frequentò Taddeo Alderotti, docente all'università di Bologna e figura di punta nell'ambiente medico del tempo. È uno dei luoghi comuni sull'antico Egitto più duri a morire: nella costruzione delle piramidi gli schiavi erano costretti a spostare enormi blocchi a suon di frustate e privazioni. Fesserie. Le tombe dei faraoni vennero edificate da operai specializzarti ben pagati e ben nutriti. Lo dimostrano gli scavi archeologici della piana di Giza che hanno portato alla luce le tombe di quei manovali che 4500 anni fa edificarono Cheope e Chefren. Quegli scavi hanno dimostrato che lavorare al cantiere delle estreme dimore dei faraoni garantiva un ottimo vitto (le maestranze venivano quotidianamente rifornite di 21 vitelli e 23 montoni), un eccellente salario e la permanenza in comodi villaggi con tanto di scuole. Non solo: se il padrone faceva le bizze, gli operai scioperavano. Lo prova un papiro conservato al museo egizio di Torino che riporta le proteste avvenute nel 29esimo anno di regno di Ramses II. E veniamo a un classico della leyenda negra anticattolica: nel Medioevo si bruciavano le streghe. Falso. La caccia alle povere donne sospettate di sortilegi e di intrattenere rapporti intimi con il diavolo iniziò intorno al 1430 toccando il suo culmine tra il '500 e il '600. Non solo. Ad accanirsi contro queste poveracce, condannandole a supplizi orribili, non fu, o lo fu solo in minima parte, l'Inquisizione. A calarle in numero consistente nella tomba furono soprattutto i tribunali protestanti. Eccoci a Galileo. Cosa sta scritto sui libri di storia? Che al grande scienziato fu promesso di conservare la ghirba purché abiurasse al suo eliocentrismo. Se questo fosse vero risulterebbe difficile pensare che Galilei pronunciasse la famosa frase "eppure si muove" (la terra). E infatti non andò così. Questa sorta di sentenza fu inventata di sana pianta nel 1757 dal giornalista Giuseppe Baretto che scrisse una biografia-panegirico dello scienziato pisano dipingendolo molto più audace e temerario di quanto in verità non fosse. E Nerone? Vogliamo parlare del più denigrato degli imperatori? Prendiamo l'incendio di Roma del 64 d.C. Lo storico Dione Cassio racconta che l'imperatore, mentre l'Urbe arde, sale sul Palatino e comincia suonare la lira. Svetonio gli attribuisce la responsabilità del rogo: lo fece - scrive - per lasciar spazio alla Domus Aurea. Balle. Quando il fuoco infuriò distruggendo tutte o quasi le regiones capitoline Nerone era fuori città. Avvertito del dramma, accorse a Roma per coordinare i soccorsi e per salvare il salvabile.
Bronzi di Riace, chi erano costoro? Teorie, leggende e mito. Facevano parte di un gruppo di cinque statue ed erano biondi. È solo l'ultima ipotesi sull'identità e l'origine delle statue trovate nel 1972 nel mare della Calabria. Alessia Candito il 17 agosto 2020 su La Repubblica. Alti quasi due metri, cesellati così finemente da sembrare vivi, pronti a scendere dai piedistalli su cui da decenni fanno bella mostra di sé, i Bronzi di Riace rimangono un mistero. E misteriosa rimane ancora la mano o più probabilmente le mani che hanno dato loro forma, così come la loro reale identità. Re, guerrieri, sacerdoti, strateghi, eroi, fondatori di antiche città o atleti delle prime Olimpiadi. Nel corso dei decenni le statue simbolo del museo archeologico di Reggio Calabria hanno stregato studiosi di ogni angolo del globo, determinati a dare un nome e una storia alla statua A, il Giovane con la folta capigliatura e barba riccia e la bocca socchiusa che lascia intravedere i denti d'argento, e la statua B, il Vecchio, con il capo e le braccia forse orfane di un copricapo e armi. Nell'Antica Grecia nessuna statua era anonima, tutte raccontavano un mito o una storia. Ma quella dei Bronzi, ritrovati nel mare di Riace marina nel 1972 - forse vittime di un naufragio, forse abbandonate in mare per alleggerire una nave nel corso di una tempesta o secondo alcuni, "affogati" dai primi cristiani perché simboli pagani- rimane ancora un mistero. Al pari dell'individuazione, persino oggetto di diverse inchieste della magistratura, che più volte ha cercato di capire se i trafficanti di opere d'arte abbiano avuto un ruolo nella scoperta e nel recupero delle due statue. In quasi cinquant'anni, innumerevoli sono le ipotesi, teorie e congetture avanzate per ricostruire la loro storia. L'ultima, del professore reggino Daniele Castrizio, che da anni li identifica nei fratelli Eteocle e Polinice, li vuole parte di un gruppo più complesso di cinque elementi, che ricostruisce il duello finale fra i due per il trono di Tebe. Per il docente, insieme ai due guerrieri c'era la madre Euryganeia, con le braccia allargate e disperata mentre cerca di dissuadere i figli dal duello, e fra loro Antigone e l'indovino Tiresia. Ed avevano occhi ambrati e colore dorato, divenuto nero lucido con il restauro di epoca romana. Negli anni, più volte è stata proposta la teoria secondo cui le statue originarie fossero tre, di cui una sottratta e venduta sul mercato nero. Altri studiosi invece, sulla base di ricerche storiche, storiografiche e letterarie hanno letto nelle due statue altre storie e altri miti. C'è chi vede nel "Giovane" orgogliosi eroi del mito greco come Agamennone o Aiace e nel "Vecchio" uno stratega, forse Milziade, o uno degli eroi eponimi ateniesi, secondo alcuni Philaios, eroe della battaglia di Salamina, secondo altri Ippotoonte o Eneo. Una suggestiva ma poco accreditata teoria ipotizza che in realtà si tratti della medesima persona, Euthymos di Locri, antico pugile realmente esistito, più volte vincitore delle Olimpiadi nel pugilato, raffigurata in periodi diversi della sua esistenza. Altri ancora hanno visto nelle statue sovrani e sacerdoti, addirittura i fondatori di alcune città in Sicilia, cioè Gela, Agrigento e Camarina, o un guerriero e un profeta, morti entrambi nella battaglia contro Tebe. Teorie diverse basate su studi più o meno accurati, che nel tempo hanno sempre più fatto ricorso alla tecnologia per "far parlare" le due statue. Ma una risposta univoca ancora non c'è. E il mistero che ancora li avvolge forse non fa che aumentare la magia di quegli antichi uomini - venerati da legioni di studiosi ma anche diventati protagonisti di fumetti e discutibili réclame - che ancora paralizza e incanta chi li "incontri" al Museo di Reggio Calabria.
I due guerrieri ritrovati 48 anni fa furono realizzati ad Argos: la prova nell'argilla utilizzata per i modelli. La nuova ipotesi di Daniele Castrizio, docente di Numismatica greca e romana all'Università di Messina, che svela dettagli e colori: in età greca le statue erano dorate, in epoca romana nero lucide. La Repubblica il 16 agosto 2020. I Bronzi di Riace ripescati nelle acque di Riace nell'agosto del 1972 in origine erano cinque e non due. Facevano parte di un gruppo statuario che rappresentava il momento subito precedente al duello fratricida fra Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone, del mito dei Sette a Tebe collegato con quello di Edipo. E' la la nuova ipotesi sull'identità dei Bronzi, noti come A e B e ritrovati 48 anni fa, elaborata da Daniele Castrizio, professore ordinario di Numismatica greca e romana all'Università di Messina e membro del comitato scientifico del MArRC, il Museo Archeologico di Reggio Calabria dove le due statue sono esposte al pubblico. La ricostruzione del professor Castrizio, basata su fonti letterarie e iconografiche, troverebbe conferme anche negli ultimi risultati delle indagini su patine e argilla. Castrizio da più di venti anni studia le statue di Riace e collabora con i Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio nelle indagini sulla presunta sparizione di elmi, scudi, lance e di altre statue del carico di Riace. I sorprendenti risultati saranno resi noti a settembre con la pubblicazione degli atti del primo convegno internazionale su "I Bronzi di Riace e la bronzistica di V a.C.", organizzato dal Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell'Università di Messina nel 2018.
I tre misteri dei Bronzi. "I Bronzi di Riace erano biondi e dorati e furono realizzati ad Argos, nel Peloponneso greco, entrambi nella metà del V secolo, a poca distanza temporale l'uno dall'altro, nella stessa bottega ma da maestranze diverse. Si è capito che B corregge gli errori di A, che rimane comunque la statua perfetta nella tecnica di fusione del bronzo tra quelle arrivate sino a noi dall'antichità", spiega l'archeologo Castrizio all'Agi illustrando i dati ottenuti dalle analisi dei materiali. Grazie al salto recente compiuto dalla tecnologia, si scioglie finalmente uno dei tre misteri che da 48 anni accrescono il fascino intorno ai due 'guerrieri' e che sono un rompicapo per archeologi, scienziati e non solo. Almeno tre i grandi misteri il primo dei quali riguarda come si mostravano i Bronzi in antico, dove quando e da chi furono realizzati; il secondo relativo a chi rappresentassero e quanti fossero; il terzo: come e perché finirono nelle acque di Riace. Ad alcune di queste domande la scienza è ora finalmente in grado di rispondere, mentre nelle acque di Riace hanno preso a indagare i sonar in cerca del relitto e delle ipotetiche altre statue. Una certezza ormai conclamata è che i due guerrieri furono realizzati ad Argos: la prova è l'argilla con cui furono creati i modelli poi utilizzati per gli stampi in cera nei quali fu colato il bronzo.
La provenienza di argilla e bronzo. La terra è argiva e Massimo Vidale, professore di archeologia dell'Università di Padova, è sulle tracce delle cave. "Siamo già a questa fase avanzatissima - commenta Castrizio -. Fino a pochi anni fa, non sapevamo quasi nulla e si brancolava nel buio delle ipotesi, ora siamo addirittura a circoscrivere il punto preciso in cui fu prelevata la terra". Le analisi di Vidale danno nuovi elementi: "I due bronzi, per i quali a livello stilistico si erano proposte datazioni diverse e con scarti anche di 50 anni, sono praticamente coetanei - spiega il professore reggino -: siamo nella metà del V secolo, l'argilla è la stessa per entrambi e proviene da due cave in due luoghi molti vicini. La bottega non poteva che essere ad Argos dove era attivo Pythagoras di Reggio, il bronzista considerato da Plinio tra gli eccelsi, con Fidia, Mirone e Policleto, nella cui bottega lavorava il nipote Sostrato, che ne proseguì l'opera".
Dorate e nere: così le statue in origine. Novità anche sulla provenienza del bronzo: "La lega contiene rame acquistato in due parti diverse del mondo, dalla penisola iberica e da Cipro", e sull'evoluzione tecnica: "B corregge A - spiega Castrizio -; per esempio, in A l'elmo era fissato con una barra di ferro, mentre in B i maestri hanno capito che conveniva deformare la scatola cranica. Sulla spalla di B, inoltre, c'è un gancio assente in A e che serviva per fissare con un altro punto l'attacco dello scudo che forse in A si era visto creare un effetto vela a causa del vento". Accortezze e migliorie anche nella realizzazione del costato: "Mentre A era modellato tutto a mano, pensiamo al lavoro 'folle' di realizzare i riccioli dei capelli singolarmente, in B, per simulare le costole, i maestri inserirono nel modello dei salsicciotti d'argilla". Novità assoluta dei nuovi studi intorno ai Bronzi è il loro colore. In età greca le statue apparivano bionde e dorate, in età romana erano nero lucide. Perché? "Il nero lucido è il colore che assumono dopo il restauro che subirono quando furono trasferite a Roma - spiega l'archeologo -. I Bronzi in origine erano esposti probabilmente ad Argo, ma dopo la conquista della Grecia e le spoliazioni del 146 a.C. di Lucio Mummio, furono portati nella capitale e qui esposti almeno fino al IV d.C..
In questo periodo, B ricevette un nuovo braccio destro e un nuovo avambraccio sinistro realizzati su calco dei vecchi; ad A furono sostituiti invece elmo e scudo. Per uniformarli, essendo i materiali diversi dagli originali, furono colorati di nero, con una pittura allo zolfo le cui tracce sono state notate sulle natiche di A da Koichi Hada, professore dell'Università Cristiana di Tokio, e confermate dalle prove trovate da Giovanni Buccolieri, docente di Fisica applicata ai Beni Culturali dell'Università di Lecce". Ma i bronzi in origine erano a colori e Castrizio spiega: "Assodato che labbra e capezzoli erano di rame per imitarne il colore naturale e i denti d'argento, alcune novità riguardano gli occhi di calcite, un quarzo trasparente e lucido, con dentro del vetro rimasto solo nella statua B. Il colore degli occhi dei Bronzi era ambrato, colore ispirato agli occhi dei leoni. Si è inoltre scoperto che i Bronzi sono le uniche statue al mondo ad avere la caruncola lacrimale, realizzata con una pietra rosa posta fra occhi e naso". Al colore dorato si è arrivati grazie a una serie di prove eseguite dalla squadra di studiosi giapponesi che hanno commissionato a una nota fonderia di Firenze la 'ricostruzione' del bronzo dei guerrieri con le esatte percentuali della lega. "Sulla coscia di A, in alcune parti - fa notare il numismatico -, si vede un colore abbronzato, segno di quel dorato pallido originario, ottenuto con l'uso del bitume, che per reazione restituisce un colore simile alla pelle umana". Perché biondi? "Non è raro nelle statue antiche. Anche il Kouros di Reggio o la Testa di Basilea hanno capelli e barba bionda. Nelle statue crisoelefantine, fatte cioè d'oro e d'avorio, era normale. Nel Museo di Napoli abbiamo una Afrodite di marmo con resti di colore nei capelli: è bionda".
Le origini mitologiche. Un biondo, precisa Castrizio, "non biondo Marylin, ma fulvo, con del rosso. In greco biondo è xanthos che in latino è fulvus". A questo punto restano due misteri: chi rappresentassero e perché finirono nel mare di Riace. Qui le ipotesi di Castrizio prendono forza grazie a fonti letterarie e confronti iconografici. E ne fornisce la ricostruzione grafica e fotografica elaborata da un suo collaboratore, Saverio Autellitano. "Il fatto che fossero biondi avvalora la mia ipotesi sulla loro natura eroica e mitologica. La mia idea è che A e B siano Polinice ed Eteocle, fratelli di Antigone, che si sfidano a duello per il trono di Tebe. Publio Papinio Stazio, nell'XI libro della Tebaide, li descrive in modo preciso, perché li vede a Roma, forse esposti in una esedra sul Palatino". Li avrebbe visti anche l'apologeta cristiano Taziano che nel II d.C. ne parlerebbe nel Catalogo delle Statue. Ma la svolta è la Tebaide di Stesicoro di Metauro che racconta la scena alla quale è ispirata l'iconografia del gruppo statuario.
Destinazione Costantinopoli. Secondo Castrizio, i Bronzi erano esposti ai lati di un gruppo che vedeva al centro la loro madre Euryganeia, con le braccia allargate e disperata mentre cerca di dissuadere i figli dal duello, e fra loro Antigone e l'indovino Tiresia. "Le parole di Tiresia - spiega - irritano Polinice, cioè A, che digrigna i denti, ecco perché sono d'argento e la sua bocca è aperta. Nel testo di Stazio, che vede le statue ma non conosce la storia di Stesicoro, e quindi scambia Tiresia per Creonte, si legge di un Polinice 'hostile tuens' che guarda cioè in modo ostile Eteocle, B, quando gli vede sulla testa la kynè, la cuffia del potere militare e politico. Mentre B tiene basso lo sguardo, A lo tiene davanti a sè con l'occhio sinistro lievemente strizzato, come ci siamo accorti di recente e le misurazioni confermano".
I dubbi sul ritrovamento. Se le statue erano cinque, che fine hanno fatto le altre presunte tre? Nei quasi 50 anni dal ritrovamento, avvenuto a 10 metri di profondità e a 300 dalla riva, che segnò una pagina epocale per tutta l'Italia c'è una storia parallela, fatta di cause in tribunale, denunce e, per alcuni, anche di depistaggi. Una storia sulla quale sono attive le indagini dei carabinieri e su cui in qualche modo anche la Soprintendenza vuole vederci chiaro, avendo autorizzato di recente indagini mai eseguite prima d'ora nel punto in cui, nell'anno del ritrovamento dei Bronzi, una nave americana segnalò la presenza di qualcosa in fondo al mare, a molti metri dal punto in cui poi furono recuperate le statue. Da un primo esito, risulterebbe che al largo della costa di Riace ci sarebbero 16 echi sonar indicanti masse di metallo, forse il relitto della nave che trasportava un carico di statue da Roma. Secondo Castrizio, i Bronzi assieme ad altre opere d'arte erano in viaggio verso Costantinopoli nel IV d.C., perché Costantino voleva adornare con esse la sua nuova capitale, Costantinopoli. Un evento avverso avrebbe costretto i marinai a disfarsi di buona parte del carico oppure fece affondare la nave.
Aylin Woodward per "it.businessinsider.com" l'8 agosto 2020. La storia sull’origine di Stonehenge ha confuso gli archeologi per secoli. Il misterioso monumento, eretto in due momenti diversi 5.000 e 4.500 anni fa nella pianura di Salisbury nel Regno Unito, presenta due distinti tipi di lastre di pietra a semicerchi. I ricercatori hanno rintracciato un tipo di pietra, le pietre di ardesia grigio-blu più piccole, in un sito nel Galles. Ma l’origine dei massi di arenaria di 9 metri di Stonehenge, chiamati sarsen, è rimasta un puzzle irrisolto fino ad ora. Secondo uno studio pubblicato mercoledì 29 sulla rivista Science Advances, i costruttori di Stonehenge hanno trascinato la maggior parte di questi sarsens da 22.700 kg da una zona boschiva nel Wiltshire. L’area, chiamata West Woods, è a più di 15 miglia (25 chilometri) dal monumento – “il che è davvero pazzesco se ci pensate”, ha detto a Business Insider David Nash, l’autore principale dello studio. Ha aggiunto: “I nostri risultati suggeriscono che la maggior parte dei sarsen di Stonehenge condividono una chimica comune, motivo per cui sosteniamo che provengono dalla stessa area”. I risultati potrebbero aiutare gli archeologi a capire come i costruttori hanno trasportato le pietre giganti a sud.
“Siamo gli eroi dell'archeologia”: il mondo dei tombaroli. Le Iene il 24 novembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, dopo aver raccontato i troppi misteri sul ritrovamento dei Bronzi di Riace, ci fanno entrare nel mondo dei tombaroli, che per vivere trafugano reperti archeologici. Li seguiamo “all’opera” e ci facciamo raccontare come funziona questo lucrosissimo mercato. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti , nel servizio in onda questa sera a Le Iene su Italia1, tornano a parlare di reperti archeologici, dopo l’inchiesta sui troppi misteri nel ritrovamento dei Bronzi di Riace. Solo qualche giorno fa i carabinieri hanno smantellato un traffico di beni archeologici dalla Calabria al resto del mondo, arrestando 23 persone e recuperando reperti per un valore di diversi milioni di euro. Antonino Monteleone ci porta all’interno del mondo dei tombaroli, ovvero chi quelle opere le recupera materialmente per poi venderle al mercato clandestino di opere d’arte antiche. Un mestiere assolutamente illegale, ma molto redditizio. Li incontriamo e li seguiamo, durante una delle loro “scorribande”. “Sono tombarolo da quando so piccolo, 14 anni”, ci racconta uno di loro. “È una passione, cioè questa è la storia nostra, ti viene naturale, per me è stata na chiamata!”.
“Si guadagna bene?”, chiede Antonino Monteleone.
“Sì, prima
era… c’era molto più guadagno, adesso la crisi sta pure qua… “. L’uomo rifiuta
con forza la definizione di “bandito dell’archeologia”: “Beh io invece penso
che siamo gli eroi dell’archeologia, perché tutto quello che viene trovato è
grazie a noi, non agli archeologi”.
Quando gli facciamo notare che, però, ciò che lui trova non può essere visto in
un museo, risponde: “Eh, perché nessuno me dà la possibilità di farlo vedere al
museo. Perché se qualcuno me dicesse a me “scavame una tomba e porta al museo
che te pago la roba” io non c’ho problemi… perché me devi fà fare il bandito, io
non lo voglio fà il bandito”.
Bronzi di Riace: “Ho venduto io l'elmo scomparso”. Le Iene il 18 dicembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti intervistano in esclusiva un uomo che dice di avere trafugato e venduto al Getty Museum di Malibù uno degli elmi sottratti alle celebri statue, ritrovate ufficialmente dal sub romano Stefano Mariottini il 16 Agosto del 1972: “L’ho venduto per 23mila dollari, convinto che poi avrei venduto anche i bronzi”. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano a occuparsi del ritrovamento di 50 anni fa dei due Bronzi di Riace, una vicenda ancora piena di misteri. Nei documenti originali redatti all’epoca dallo scopritore ufficiale, Stefano Mariottini, e dal responsabile delle operazioni di recupero, l’archeologo professor Pietro Giovanni Guzzo si parla letteralmente di “un gruppo di statue”, di uno scudo, di un elmo, che poi però non sono mai stati rinvenuti dai sommozzatori dei carabinieri di Messina. Vi abbiamo anche raccontato di alcune testimonianze, che parlano di ripetuti tentativi di trascinare via qualcosa di pesante dal fondo del mare da parte di una barca a motore proprio nei giorni del ritrovamento e addirittura di uno scudo e di una lancia che sarebbero stati portati via dalla spiaggia da alcune persone, a circa 700 metri dal punto dove furono tirate su le due statue. Vi abbiamo infine fatto ascoltare le dichiarazioni di un uomo, che racconta di aver saputo della storia di una statua che sarebbe stata trafugata in Calabria e portata in una villa a Roma, dove sarebbe stata comprata da un mercante d'arte che poi l'avrebbe a sua volta venduta ad un emissario del Getty Museum di Malibù, in California. Ma fin qua si è trattato di racconti di seconda mano. Adesso invece vi facciamo ascoltare la testimonianza diretta clamorosa di un uomo, che se fosse vera metterebbe in discussione la storia ufficiale di uno dei ritrovamenti archeologici più importanti di tutti i tempi. Era il lontano 1981 quando il settimanale Oggi raccontava di un mercante clandestino di reperti archeologici che ammetteva: “Ho venduto io al museo Paul Getty uno degli elmi sottratti agli eroi”. Una storia riportata qualche tempo prima con diversi articoli anche sul quotidiano il Messaggero, dal collega Mimmo Calabrò, oggi scomparso, negli articoli “I guerrieri avevano elmo e scudi: sono stati rubati”, “In azione i carabinieri il museo Getty nega” e “Museo Getty prove di commerci irregolari”. Di quel presunto venditore, aveva parlato anche il giornalista del Tgr Calabria Franco Bruno, che di lui aveva raccontato: “Era sicuramente una pedina in questo grande traffico di opere d’arte. Mi fece vedere due fotografie, una con uno scudo e un’altra con la lancia… i due oggetti che sosteneva che erano stati trovati, presi dove c’erano i Bronzi e poi venduti al Getty Museum”. Insomma, stando a quella testimonianza, i reperti dei bronzi mancanti sarebbero finiti al Paul Getty Museum di Malibù, che porta il nome del noto collezionista miliardario americano Paul Getty. Un museo che più di una volta ha comprato ed esposto importantissimi pezzi di dubbia provenienza, come nel caso dei meravigliosi Grifoni di Ascoli Satriano, o dell’incantevole Venere di Morgantina, tutte opere che poi il Getty Museum ha acconsentito alla restituzione all’Italia, ammettendo il loro trafugamento clandestino. Proprio Mimmo Calabrò, prima di morire all’età di 55 anni, aveva dato al nostro autore Marco Occhipinti un nome e un numero di telefono, che era rimasto però sempre muto. Le tracce di quest’uomo misterioso sembravano perdute del tutto, fino a quando l’archeologo di Reggio Calabria Daniele Castrizio, di cui vi abbiamo già parlato, non ci parla di un personaggio che sembrerebbe corrispondere proprio all’uomo che cercavamo da anni. “Si mormora da tanto tempo di alcune anomalie che riguardano queste parti mancanti dei bronzi... mmm… C’è una storia che potrebbe riguardare lo scudo, la lancia, l’elmo”. “Per quanto riguarda l’elmo, probabilmente l’elmo del bronzo B, invece, c’era una denuncia particolareggiata da parte di una persona la quale aveva dichiarato alla stampa e poi se n’era assunta le responsabilità, di avere venduto l’elmo al Paul Getty museum”. Castrizio prosegue nel suo racconto: “Questa persona a cui avevo fatto una perizia tecnica per un processo come numismatico eravamo rimasti in buoni rapporti, mi disse ‘lei studia i Bronzi di Riace professore, avrei ancora la foto di questo… di questo elmo… solo che non sono più in grado di prenderla…’” “Non le è sembrato un mitomane?”, chiede Antonino Monteleone. “No, no, no… questa persona tutto può essere meno che un mitomane, è una persona… se dice una cosa è quella”. Castrizio nega di sapere se si tratti di un trafficante d’arte, ma ne conferma l’affidabilità: “No, è affidabile come persona, tutto quello che poi nella nostra conoscenza mi ha detto, le informazioni che mi ha dato, cioè che… sono sempre così. Io per mia natura mi sono sempre tenuto lontano da tombaroli e collezionisti per cui non ho mai approfondito… Non l’ho mai fatto, per cui a Reggio sanno che io non sono molto avvicinabile, non fornisco prezzi, non do expertise, non faccio niente… Lo definirei una persona ricca di interessi. Per me è una persona competente della materia”. Quest’uomo, spiega ancora Castrizio, “mi ha inquadrato tutta la storia in un contesto della sua vita precedente che faceva ste cose…”. Insomma, Castrizio crede al suo racconto. Monteleone gli chiede: “Uno potrebbe dire, se questo ha venduto l’elmo dei Bronzi, dov’è esposto l’elmo dei Bronzi?” “Il problema è oggi, stroncare il collezionismo internazionale. Per un collezionista internazionale prendere una statua che è stata sul palatino e mettersela nel caveau, è una soddisfazione enorme, la fa vedere agli amici. Aspetterà cent’anni o andrà in prescrizione, duecento anni, ma ha acquisito una cosa di un valore inestimabile, quindi siamo noi Stato italiano che dobbiamo cercare di verificare, di bloccare tutto quello che possiamo”. Ci mettiamo sulle tracce di questo misterioso uomo, che dice di sapere che fine ha fatto l’elmo di uno dei bronzi di Riace e dopo lunghe ricerche e appostamenti lo raggiungiamo. L’uomo conferma di essere stato intervistato dal giornalista Mimmo Calabrò, e aggiunge di più: “L’elmo l’ho venduto io!!”. E racconta che quell’elmo sarebbe andato a prenderselo da solo, nella zona di Riace. “Io già quella zona lì la facevo dalla mattina alla sera, specialmente durante l’inverno. Mariottini quando ha notato quel casino che hanno fatto quei due ragazzi in quei minuti, un morto un morto un morto, perché l’avevano preso per un morto, incomprensibile, io conoscevo già quella zona, perché durante l’inverno andavo e i pescatori mi davano le monete queste cose qui perché io le monete diciamo uscivo pazzo in quei tempi… “ “Chi è che si è immerso e l’ha preso?”, gli chiede la Iena. E l'uomo risponde: “Uno di quelli, uno dei pescatori che stavano lì...Era distaccato, era a tre quattro metri, io avevo anche le foto dei bronzi”. E prosegue, accusando il sub che ufficialmente ha ritrovato i due Bronzi: “Mariottini… ha tentato di fregarseli lui prima… ha bruciato due o tre mo..., adesso non mi ricordo sono passati più di quarant’anni, sono stato interrogato anche eh, proprio per il fatto dei cosi mi hanno interrogato”. Ad interrogarlo, spiega l’uomo, sarebbe stato il capitano Giovinazzo. “Io non è che ho parlato con i carabinieri, i carabinieri me li hanno mandati”. L'uomo dice di avere confermato a Giovinazzo il suo racconto: “Allora il ministro era, quello romano come si chiama lo voglio tanto bene… Rutelli Rutelli!! Lui era ministro dei Beni culturali, avrà fatto la sua relazione, tanto il reato era caduto in prescrizione esatto e quindi non mi potevano fare niente, però a me… diede e mi dà ancora fastidio il fatto che Mariottini risulta quello che ha scoperto, quello ha bruciato due motori d’altobordo, quando ha visto che lui con i suoi mezzi non poteva fare niente, si è messo d’accordo con un suo parente che era capitano della Finanza, per farsi, per rafforzare il fatto che lui risultasse diciamo…”. Lo scopritore ufficiale dei Bronzi, quello che incassa il premio milionario, intende dire l'uomo. Si tratta, vogliamo sottolinearlo, di circostanze e valutazioni riferite da questo testimone, che non è possibile verificare del tutto. Ma continuiamo però ad ascoltare la sua versione: “Allora i due bronzi sono stati valutati 1 miliardo, lui si è preso 125milioni, 10%, 100milioni, detratte le tasse 85, io 85 milioni un piede mi vendevo... invece vendettero all’epoca… Non ha scoperto un cazzo perché è stato un farabutto che ha tentato prima di fregarci, non ci è riuscito e poi…”. I carabinieri, racconta ancora l’uomo, gli avrebbero mostrato alcune foto: “Della persona con la quale io trattavo, mi hanno messo 9 foto di pregiudicati, hehehe, e la foto di questo qui… “ “Ma questo nella foto chi era?”. Gli chiede Monteleone. “Era quello con il quale io avevo un rapporto lì a Riace e dintorni, quando mi diceva vieni che c’è qualcosa… è uno che non c’è più, che te lo dico a fare, è morto, da almeno 15 anni… un bidello… Quando mi chiamava lui da quelle parti vuol dire che c’era qualcosa di vecchio cose… Quando c’è mare forte e che si trovano le monete… Questo era un bidello in una scuola della Locride…”. L'uomo racconta di avere venduto l’elmo a 23mila dollari:” Perché sapevo che poi avrei venduto i due Bronzi, e invece so’ rimasto con le foto perché, e ancora oggi non riesco a trovare queste foto perché mi piacerebbe darle...”. Racconta che quelle foto subacquee sarebbero del 1972. “Quindi a Mariottini gliel’hanno preso sotto al naso quest’elmo?” “Sì perché lui non, lui pensava… allora, i ragazzi combinano quel casino, Mariottini capisce e Mariottini scopre quello che scopre… nel frattempo lui si organizza, nel frattempo qualcuno di là cerca di capire quello che questo Mariottini stava combinando… qualcuno scende e prende l’elmo…” Stando dunque al suo racconto, la scoperta dei Bronzi sarebbe avvenuta con un certo anticipo rispetto all’effettiva denuncia di Mariottini e dalla data della denuncia ufficiale a quando i carabinieri arrivano sul posto tirando su i Bronzi, sarebbero passati altri 4 giorni. Il tempo sufficiente a far sparire un elmo, una lancia, uno scudo e chissà cos altro ancora? L'uomo racconta di avere portato l’elmo trafugato a Roma, al ristorante La Parolaccia, all’epoca gestito da un italoamericano, per farlo vedere a un tale di nome Jiri Frel. Un nome conosciuto, ovvero quello del famoso archeologo che tra il 1973 e il 1986 è stato curatore proprio del Paul Getty Museum. Il Bronzo, racconta ancora, sarebbe infatti finito al Junior Paul Getty Museum di Malibu, in California. “Gli americani pagavano in contanti, qualunque cifra… sai come se ne andavano da qui queste cose verso l’America? Con le navi… chi è che fermava una nave americana…” Paul Getty, racconta l'uomo, avrebbe avuto un grande potere all’epoca. “Era molto amico di Kissinger, Henry Kissinger, se tu ti ricordi il nipote di Paul Getty quando l’hanno rapito e non voleva pagare il nonno, è andato Kissinger a prenderlo… su pressione della madre, ha detto vai a pagare…”. Successe poi, dopo l’articolo di Mimmo Calabrò, che l’archeologo americano Frel fu intervistato sulla vicenda, ma negò di avere mai avuto a che fare con i tombaroli italiani. Il nostro testimone conferma che l’elmo in questione era proprio quello della statua B e così commenta l'affare concluso. “Non mi sono pentito, gliel’ho quasi regalato, perché sapevo che poi avrei venduto i due Bronzi no? Ho detto ‘dietro di questo c’è anche qualche altra cosa più importante’, senza specificare”. Insomma l’uomo racconta di essere stato sicuro che poi avrebbe tirato su anche gli stessi Bronzi. L'uomo dice di non riuscire più a trovare la foto di quell’elmo… "Sono andato a controllare un paio di volte però le cose ho visto che non erano per come le avevo lasciate quindi o sono casa casa, o sono da qualche altra parte, non lo so nemmeno io”. Racconta anche del contatto con Jiri Frel. “Me l’aveva lasciato un antiquario di Roma, perché io una volta a Roma a via del Babuino, a via dei Coronari, ero di casa… Oggi ci sono tutti quelli che non capiscono un cazzo, sono nati ricchi tutti gli antiquari… sì tutti li conoscevo, facevano il retrobottega…”. “Quando io comunicavo che avevo qualcosa, veniva lui, veniva lui con la sua segretaria, una stangona bionda…” Se quello che ci ha raccontato quest’uomo fosse vero, avremmo finalmente trovato un testimone diretto di quello che è successo ad almeno uno dei reperti dei Bronzi di Riace di cui si parla sui documenti ufficiali. Reperti che poi però non sono mai stati effettivamente recuperati dalle autorità in quel lontano 1972. E se tutto ciò che il presunto venditore dell'elmo ci ha detto fosse vero, la storia dei Bronzi di Riace, una delle scoperte più importanti dell’archeologia di tutti i tempi, sarebbe tutta da riscrivere.
Bronzi di Riace e mercato nero: ecco come lavorano i tombaroli . Le Iene il 25 novembre 2019. Nella quinta puntata dell’inchiesta sui bronzi di Riace, Antonino Monteleone e Marco Occhipinti incontrano e seguono alcuni tombaroli romani, che da anni trafugano reperti archeologici e li vendono al mercato nero. La stessa fine dei presunti Bronzi di Riace mancanti? Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci portano a conoscere il mondo dei tombaroli, ovvero le persone che scavano di notte illegalmente per trovare reperti archeologici da vendere al mercato clandestino di opere d’arte antiche. Di reperti archeologici forse trafugati vi abbiamo già parlato nel servizio sul ritrovamento di 50 anni fa dei due Bronzi di Riace, che vi riproponiamo qui sotto. Attorno al loro recupero è nato un vero e proprio giallo, ambientato nella stessa regione, in Calabria, dove recentemente i carabinieri hanno sgominato con una maxi operazione un traffico clandestino di reperti archeologici, che dal sud Italia finivano in paesi stranieri di tutto il mondo. I misteri riguardanti i Bronzi di Riace sono davvero tanti. Nei documenti originali redatti all’epoca dallo scopritore ufficiale, Stefano Mariottini, e dal responsabile delle operazioni di recupero, l’archeologo professor Pietro Giovanni Guzzo si parla letteralmente di “un gruppo di statue”, di uno scudo, di un elmo che poi però non sono mai stati rinvenuti dai sommozzatori dei carabinieri di Messina. Vi abbiamo anche raccontato di alcune testimonianze, che parlano di ripetuti tentativi di trascinare via qualcosa di pesante dal fondo del mare da parte di una barca a motore proprio nei giorni del ritrovamento e addirittura di uno scudo e di una lancia che sarebbero stati portati via dalla spiaggia da alcune persone, a circa 700 metri dal punto dove furono tirate su le due statue. Vi abbiamo infine fatto ascoltare le dichiarazioni di un uomo, che racconta di una statua che sarebbe stata trafugata in Calabria e venduta a Roma ad un emissario del Getty Museum di Malibù, in California. Con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti torniamo a parlare di reperti archeologici e lo facciamo incontrando in esclusiva e seguendo sul campo alcuni tombaroli. “Faccio il tombarolo da quando so piccolo, 14 anni. È ’na passione, cioè questa è la storia nostra, ti viene naturale, per me è stata ’na chiamata! Prima c’era molto più guadagno, adesso la crisi sta pure qua…”, racconta un tombarolo. Rifiuta l’etichetta di “bandito dell’archeologia” e dice: “Beh, io invece penso che siamo l’eroi dell’archeologia, perché tutto quello che viene trovato è grazie a noi, non agli archeologi… se qualcuno me dicesse a me ‘scavame una tomba e porta al museo che te pago la roba’ io non c’ho problemi… perché me devi fa’ fare il bandito, io non lo voglio fa’ il bandito”. l mestiere, sostiene il tombarolo, farebbe addirittura risparmiare soldi pubblici: “Comunque sia per scavà una tomba loro impiegano 100-150 mila euro quando noi magari co 4-5 ore la pulimo, allora daccene a noi 30-40 a noi ce sta bene, io sarei più contento eh…”. L’uomo racconta ad Antonino Monteleone del suo primo ritrovamento, un’urna del settimo secolo che conteneva le ceneri di un morto e un rudimentale rasoio. E poi spiega: “La squadra nostra è composta da quattro persone, poi ce stanno squadre da sei, squadre da tre, prima ce ne erano molte di più…”Monteleone gli chiede quale sia la cosa più bella che ha trovato e lui risponde di getto: “Un’idra, è tipo un boccale gigante a doppia tecnica, era de maestro”. Ma chi compra le opere d’arte trafugate? A spiegarlo è ancora il tombarolo: “Da me comprano privati, per fare un regalo così, possono spenderti millecinquecento euro… poi quando c’è un pezzo importante che vale soldi, c’è il collezionista che compra...”. Un bel guadagno, ma anche un bel rischio: “Penso che qualche annetto se me chiappano me lo fanno fa, guarda anche se c’era na pena severa, queste cose le devi provà. Io quando me c’ha portato la prima volta il mio maestro, nonché mio padre, io non mi interessava questa cosa..”. “Ti è mai venuto in mente che stavi di fatto rubando?”, gli chiede Antonino Monteleone. La risposta è netta: “Ma perché sto rubando? A chi sto rubando? Perché, a noi non ce rubano? Noi troviamo le tombe, troviamo la roba e loro vengono sempre dove abbiamo scavato noi..”. E loro, spiega ancora l’uomo, sono archeologi, carabinieri e “sta gente così che poi va a fare i recuperi… a chi rubo? Questa è roba nostra, perché è dello stato?”L’uomo ci racconta un po’ della sua vita: “Io c’ho na’ famiglia, e devo ringrazià sta terra, perché specialmente in momento di crisi se non c’avevo sto secondo lavoro, andavo a rubà. Le rapine non le faccio, non me piace fa del male alla gente, vado a piglià quello che m’hanno lasciato, che c’è de male scusa eh…”. Il tombarolo racconta che il pezzo più bello l’ha venduto a 180mila euro e che le transazioni, ovviamente, sono tutte in contanti. E ci spiega come funziona la trattativa. “So loro che vengono da me, io non vado a prende soldi… vengono a trovarti, c’hai niente? Sì, na cosetta… gliela fai vedé e ti ci metti d’accordo…”. A un certo punto, mentre stiamo parlando con questo tombarolo, si sente un rumore di elicottero. E siamo costretti a spegnere la telecamera. “So due… potrebbero esse pure carabinieri”. E racconta: “Una sera… stavamo a scavà e so passati due elicotteri e poi dopo so’ venuti subito la finanza o i carabinieri… “. Poi si sfoga con la Iena: “Di tutta ’sta storia sai che me fa girà più er cavolo? Che tutte quelle tombe che stanno a trovà le avemo trovate noi... Loro per trovà una tomba spendono 100 -200mila euro, capito? Per fa’ gli scavini col pennello e tutte le tarantelle, e poi dopo capito? Noi se dovemo fa un culo come un secchio per piacce du baiocchi, poi fanno quelli bravi, che so stati loro a trovalli, capito?”. Mentre parliamo, i tombaroli trovano alcuni reperti: “Eccolo, oh, eccolo oh, che cos’è? Questo è l’orla, vedi? Il frano ha spostato in avanti l’oggetto”. “Adesso qui intorno ci deve essere il corredo, ma queste so…”. “Ma questa che facciamo la portiamo al museo adesso?”, chiede Monteleone. La risposta è secca: “See col cazzo”. Ma di reperti, a quanto pare, ce ne sono anche altri: “Questo qui è greco… è della Grecia, di importazione… è il pozzetto vedi? Ce l’ho tutto davanti perché il morto sta là… Mo delle volte se trovano delle ossa, delle volte no… questo è bello eh, bello… eh! questo è bello davero”. Proviamo a fargli due conti in tasca. “A naso quando ti sei fatto co sta scavatina?” “Al prezzo de oggi? 1500 euro… “. “Sta necropoli so anni che gli stavamo appresso e c’ho messo parecchi anni per trovalla, però tutte le sere venimo, scavamo e trovamo, perché è piena… Cioè fino ad adesso qua c’avemo fatto 40 lavori, 40 tombe a stanza, a camera, c’hanno dato bei risultati, bella roba è scappata, vedi? Ecco un altro oggettino, te l’avevo detto che c’è sempre il compagno… Queste c’hanno sempre il compagno, sempre. Eccolo qua…”. E siamo a 1.700 euro di valore trafugato… L’uomo sembra conoscere molto bene ciò che ha ritrovato: “Un pezzo etrusco, settimo avanti Cristo… questo er dell’usanza funebre…questo qui ci beveva, ci metteva dell’acqua, mettevano la roba loro… Non si vergogna affatto del suo mestiere. “Perché me dovrei sentì in colpa? Perché tiro fori delle cose? e quelli che ammazzano la gente, quelli… ma tu che pensi del fatto che in molti musei stranieri ci sono delle opere pazzesche che potrebbero essere…”. Il tombarolo spiega alla Iena quali sono gli altri soggetti che popolano questo mondo molto particolare. “Sopra de me ce sta il commerciante… Sopra il commerciante? Che ne so io, non lo posso sape’, non lo so, io so quello più piccolo, so quello che guadagna meno de tutti…”E aggiunge: “Io penso che se ce facessero scavà tutti i giorni, penso che ce n’avemo pé fa altri 100 anni de scavi… 100 anni? Sììì, forse anche di più, cioè ce so zone dove hanno scavato i nostri nonni zii, noi c’annamo e trovamo la roba…”. Il tombarolo, che abbiamo seguito durante un trafugamento, non ha paura delle pene che lo attendono: “Se ci fosse una pena minima di 6 anni e un massimo di 20 anni sei sicuro che lo faresti ancora?”, gli chiede la iena. “Ehhh sì, perché me piace… che t’ho da dì? Se io a te ti dicessi se vai co na donna te dò 20 anni de carcere c’andresti co na donna? Hahaha ci penso, ci penso però ce vai”. E poi lancia un’ultima stoccata polemica: “Perché lo fa sparì lo Stato nostro, perché non se tiene cura de sta roba? Perché l’altri stati ce fanno i soldi co la roba nostra e noi invece no?”
FACCE DI BRONZO. Dagospia il 4 ottobre 2019. Antonino Monteleone approfondisce il giallo dei Bronzi di Riace, raccontando quella che si potrebbe rivelare una delle sparizioni più clamorose di opere d’arte dell’antichità. Nel farlo si è beccato anche un’aggressione con minaccia! Stefano Mariottini è l’artefice della scoperta archeologica più clamorosa del secolo scorso. È l’uomo che il 16 agosto del 1972 ha scoperto i famosissimi Bronzi di Riace, esposti al Museo Archeologico di Reggio Calabria. Grazie a questa scoperta il sub romano ha incassato il premio del ritrovamento di 125 milioni di lire. Ma il merito di quella scoperta fu contestato da quattro giovani del luogo. Una controversia risolta dal Giudice che ha stabilito il primato del sub romano. Nel servizio di questa sera a Le Iene, Antonino Monteleone approfondirà il giallo dei Bronzi di Riace, raccontando anche la storia di quella che si potrebbe rivelare una delle sparizioni più clamorose di opere d’arte dell’antichità. Le due statue, ammirate dai turisti di tutto il mondo, sono le uniche bellezze che si trovavano sul fondo del mare di Riace? La Iena è andata a parlare con Stefano Mariottini, ma non è sembrato molto contento di vederci. Mentre stiamo semplicemente facendo delle domande a chi ha scoperto i Bronzi, un uomo gli chiede se lo stiamo infastidendo e ci aggredisce. Come potete vedere nel video qui sopra il nostro Antonino si è beccato pure delle minacce per niente velate. Perché se uno prova a fare qualche domanda a chi ha fatto quella clamorosa scoperta non viene accolto per niente bene? Ma soprattutto, c’erano altri pezzi spariti nei momenti precedenti o immediatamente successivi al ritrovamento? Sono solo alcune delle domande sulla controversa storia del ritrovamento delle statue a cui proveremo a rispondere nel servizio di questa sera, dalle 21:25 su Italia1.
Bronzi di Riace: è stato rubato qualcosa prima o dopo la scoperta? Le Iene il 4 ottobre 2019. Affrontiamo uno dei più famosi gialli della storia dell’archeologia del Novecento con l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti: il ritrovamento dei Bronzi di Riace. Le due statue, ammirate dai turisti di tutto il mondo, sono davvero le uniche bellezze che si trovavano sul fondo del mare al momento della scoperta? Chi ha scoperto davvero i Bronzi di Riace, il più grande ritrovamento archeologico di tutti i tempi? Stefano Mariottini, il sub romano che ha riscosso il premio per il rinvenimento, pari a 125 milioni di lire, o i 4 ragazzi calabresi che avevano tra i 12 e i 16 anni e che ritengono di aver denunciato la scoperta per primi? È vero, come raccontano ancora oggi, che c’erano delle persone che stavano provando a portar via qualcosa dal fondo del mare di molto pesante tanto da fondere il motore di un’imbarcazione? Dove sono finiti la lancia, lo scudo, l’elmo e il terzo bronzo che sembra descritto nella denuncia di ritrovamento firmata dallo scopritore ufficiale Stefano Mariottini? E perché mai quando il nostro Antonino Monteleone lo raggiunge per chiedergli il perché di tante contraddizioni nei documenti ufficiali, tra quanto era stato denunciato e quanto poi è stato effettivamente recuperato, il nostro inviato viene accolto con insulti minacce e botte? Tutto questo e altro ancora cercano di scoprire Marco Occhipinti e Antonino Monteleone in questa loro inchiesta alla ricerca dell’arte perduta. Il 16 agosto del 1972 un sub romano di nome Stefano Mariottini fa una meravigliosa scoperta: il ritrovamento dei Bronzi di Riace. Per questo incassa il premio del ritrovamento di 125 milioni di lire. Anche se c’è chi sostiene che non fu il sub romano a scoprire quel tesoro, ma quattro ragazzi del posto. La questione è arrivata in un Tribunale, che ha stabilito il primato del sub romano. La paternità del ritrovamento non è l’unica controversia che si è sollevata attorno alla scoperta dei due Bronzi attualmente esposti al Museo Archeologico di Reggio Calabria. Nell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti approfondiamo infatti anche un’altra questione. Alcuni sostengono che quei due splendidi bronzi, raffiguranti guerrieri greci e realizzati nel V secolo avanti Cristo, non siano proprio tutto ciò che sarebbe stato recuperato in quel lontano 1972. “Nessuno mai aveva visto quei documenti”, dice Giuseppe Braghò, studioso appassionato di archeologia che ha dedicato gran parte della sua vita a raccontare una storia dei bronzi di Riace diversa da quella ufficiale. Lo studioso si riferisce ai documenti sul ritrovamento dei Bronzi. “Il signor Mariottini, parlando di una delle due statue dice: ‘Al braccio sinistro presenta uno scudo”, racconta Braghò. “Chiunque capisce che questa statua, da lui scoperta, al braccio sinistro presentava uno scudo”. Di questo scudo, però, non c’è alcuna traccia. E non ci sono tracce neanche di un’altra parte dell’armatura: l’elmo, elemento di cui parla l’ispettore ministeriale Pietro Giovanni Guzzo nella sua relazione. Nella denuncia, inoltre, Mariottini parla di un “gruppo di statue”, espressione non usuale per chi vuole indicare la presenza di due sole statue. E non è finita qui: la prima statua, per come è descritta dal sub nella sua denuncia di rinvenimento, sembra molto diversa per posizione di gambe e braccia rispetto ai due Bronzi che tutti conosciamo. “Mariottini mente!”, dice Braghò ad Antonino Monteleone. “Perché descrive una statua che lì non c’è”. Così Monteleone va a parlare direttamente con chi ha scritto di suo pugno quel primo documento: Stefano Mariottini. Ma lo scopritore dei Bronzi non ci accoglie molto bene: “Ho evitato qualsiasi confronto richiesto e qualsiasi intervista sull’argomento”. Quando un altro uomo si avvicina chiedendo a Mariottini se lo stiamo infastidendo, scoppia il putiferio. “Vi ammazzo tutti quanti”, dice quest’uomo avvicinandosi in maniera minacciosa alla Iena. Perché se uno prova a fare qualche domanda a chi ha fatto quella clamorosa scoperta viene accolto così? Alla fine di un’accesissima discussione in cui intervengono altre persone, proviamo a riprendere il discorso. E uno dei presenti si lascia sfuggire qualcosa: “Alla fin fine il discorso è questo: i bronzi ha detto che li ha trovati lui, i soldi se li è presi lui, che cazzo devi fare di più? Però c’erano lance e scudo.” Alla domanda della Iena su chi possa essersi presi questi reperti, risponde: “C’era altra gente prima di lui”. “Lui è stato furbo quel giorno, ha sfruttato la situazione, questo è culo!”. Insomma, anche i pescatori del luogo sanno la storia della lancia e lo scudo, ma più che essere indignati sembrano provar invidia per chi si è aggiudicato il premio e per chi eventualmente si è portato a casa quei preziosissimi reperti. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti stanno provando a raccogliere delle testimonianze inedite sul campo per risolvere questo mistero, perché se davvero ci fossero alcuni pezzi dei Bronzi mai denunciati alle autorità si potrebbero riportare a casa, al museo di Reggio Calabria. Chi sa qualcosa su questo giallo parli e non esiti a contattarci, anche perché i Bronzi di Riace sono di tutti i calabresi, sono di tutti gli italiani.
Bronzi di Riace: “La terza statua esiste, fu trafugata e venduta”. Le Iene il 28 ottobre 2019. Antonino Monteleone, nel corso della terza puntata della sua inchiesta, raccoglie le confidenze esclusive e clamorose di un uomo: “Il terzo bronzo di Riace fu portato a Roma da alcuni calabresi e venduto”. Il terzo bronzo di Riace esiste davvero ed è stato rubato e poi venduto all’estero? Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano ad occuparsi dei troppi misteri nel ritrovamento dei Bronzi di Riace. Lo fanno con una testimonianza esclusiva, che sarebbe clamorosa perché se vera accrediterebbe la storia di uno dei più incredibili trafugamenti di opere archeologiche di tutti tempi. Possibilità di cui si dice fermamente convinto Giuseppe Braghò, uno studioso appassionato di archeologia che da anni si batte per scoprire la verità sul ritrovamento dei Bronzi di Riace: “Nessuno è mai entrato nell’archivio del museo storico, di questi grandi scienziati, accademici… a nessuno è venuto in testa di andare dove? alla fonte!!! Lì ho scoperto che qualcosa non, non, qualcosa non andava…”. Antonino Monteleone ha raccolto le confidenze di un presunto testimone della compravendita di un terzo bronzo, che racconta: “A Roma c’era un’altra statua che veniva da Riace, che avevano portato su i calabresi... Una cosa bella, di bronzo… so che se la sono venduta”. Nel primo capitolo della nostra inchiesta ci siamo domandati se le due statue siano davvero gli unici reperti trovati in quei fondali o se, accanto a questi, c’erano anche uno scudo e forse un terzo bronzo, come si evincerebbe dalla denuncia del ritrovamento compilata dal sub romano Stefano Mariottini, lo scopritore ufficiale dei due bronzi. Nel corso della seconda puntata di questa inchiesta esclusiva, Le Iene avevano poi raccolto la testimonianza dello stesso Braghò, che sostiene di aver conosciuto una testimone, Anna Diano, che avrebbe visto con i suoi occhi qualcuno portare via uno scudo e una lancia spezzata in due proprio dalla spiaggia di Riace e proprio nei giorni del ritrovamento delle due statue, a circa 700 metri da dove sono stati recuperati i bronzi. Ora arriva la clamorosa testimonianza di un uomo, che al nostro Antonino Monteleone racconta di sapere che il terzo bronzo fu trafugato, portato in una villa a Roma e venduto agli americani poco dopo il suo ritrovamento. Non perdete martedì sera a Le Iene su Italia1, a partire dalle 21.15, la terza puntata dell’inchiesta sui Bronzi di Riace, con tutte le incredibili rivelazioni raccolte da Antonino Monteleone e Marco Occhipinti.
Bronzi di Riace: “La terza statua è stata venduta e trafugata”. Le Iene il 30 ottobre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, nella terza puntata dell’inchiesta sui bronzi di Riace, raccolgono la clamorosa testimonianza di un uomo che racconta: “Alcuni calabresi portarono a Roma la terza statua. Che era stata trafugata da Riace, e la vendettero negli Usa, al Getty Museum di Malibù, in California". Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano a parlare del mistero del ritrovamento dei Bronzi di Riace e lo fanno con una testimonianza inedita e clamorosa: potrebbe davvero esistere un terzo bronzo, che sarebbe stato trafugato e venduto illegalmente all’estero. Una versione questa, che ci arriva da un appassionato di archeologia, che frequenta tombaroli e mercanti d’arte a Roma e che se fosse vera potrebbe rivoluzionare la storia di una delle più importanti scoperte archeologiche di tutti i tempi. Nel primo capitolo della nostra inchiesta ci siamo domandati se le due statue siano davvero gli unici reperti trovati in quei fondali o se, accanto a questi, c’erano anche uno scudo e forse un terzo bronzo, come si evincerebbe dalla denuncia del ritrovamento compilata dal sub romano Stefano Mariottini, lo scopritore ufficiale dei due bronzi. Nel corso della seconda puntata di questa inchiesta esclusiva, Le Iene hanno poi raccolto la testimonianza dell’appassionato d’arte ed esperto dei bronzi Giuseppe Braghò, che sostiene di aver conosciuto una testimone, Anna Diano, che avrebbe visto con i suoi occhi qualcuno portare via uno scudo e una lancia spezzata in due, proprio dalla spiaggia di Riace e proprio nei giorni del ritrovamento delle due statue, a circa 700 metri da dove sono stati recuperati i bronzi. Anna Diano fu ritenuta attendibile anche dai carabinieri che la sentirono, ma che non riuscirono a scoprire nulla di più. Ora arriva questa clamorosa testimonianza esclusiva, che confermerebbe i dubbi che lo stesso Braghò aveva già avanzato: “Nessuno è mai entrato nell’archivio del museo storico, lì ho scoperto che qualcosa non andava…”
A parlarci, chiedendo ovviamente di rimanere anonimo, è un uomo che dice di sapere qualcosa del terzo bronzo scomparso. “Praticamente uno, che qui a Roma faceva sto lavoro… un mercante che pigliava la roba e poi se la rivendeva, c’aveva i clienti buoni… c’è stata una persona che conoscevo bene, a cui era capitata in mano (la statua, ndr)… sarà stato il '72-‘73 la portano dentro la villa di un dottore che sta a Casal Palocco, e portano questo compratore… era uno che comprava, pagava lui con i suoi soldi e poi se la rivendeva, agli americani, ai musei…” Antonino Monteleone gli chiede di descrivere la statua che sarebbe stata trafugata e venduta: “era la statua di un uomo a grandezza.. come me, fa conto… non era una cosa romana, ma greca, quindi importante…” “A quanto l’avrebbe acquistata?”, gli chiede la Iena e lui risponde: “a quattrocento milioni di lire”. Il terzo bronzo, spiega ancora l’uomo, sarebbe stato venduto subito a degli americani, che “venivano a cercare queste cose, le cose più belle…”.
Oggi quella statua, spiega ancora l’uomo, non sarebbe esposta, ma quando gli chiediamo degli acquirenti, non sembra avere dubbi e fa riferimento addirittura al Getty Museum di Malibù, in California. Ma è possibile che un museo di fama internazionale acquisti o esponga opere di provenienza illecita?
A risponderci è il giornalista e scrittore Fabio Isman, esperto di arte: “Ho calcolato che almeno 47 musei del mondo siano entrati in possesso, sapendolo, di materiale proveniente da scavi illegali in Italia. Anche il Louvre! Anche il British. Il Getty ha restituito una cinquantina di pezzi, ne aveva almeno 350 di provenienza italiana e dagli stessi mercanti sotto processo in Italia”.
Siamo andati allora dall’ex ministro della Cultura Francesco Rutelli per chiedergli come si ottiene la restituzione di un’opera che un museo straniero ha comprato clandestinamente. “Mi ricordo che una sera mandai a questo grande museo, Getty di Malibu, Los Angeles, una mail in cui gli comunicavo che dal giorno dopo l’Italia non avrebbe più collaborato, non avrebbe più mandato opere in prestito dai suoi musei pubblici perché loro evidentemente non volevano collaborare nel restituirci delle opere che con anni di lavoro era documentato, erano documentato state trafugate in Italia. Incluso la Dea di Morgantina, incluse decine di opere, i cervi che adesso si trovano ad Ascoli Satriano, insomma delle cose meravigliose. Quando sono arrivato l’indomani in ufficio preparandomi al braccio di ferro per dire allora annulliamo una mostra importante sul Barocco, ed altri, con una collaborazione già iniziata, arrivo in ufficio e trovo la mail del direttore del Getty che comunica "restituiamo tutto". Tutto. Ancora mi emoziono a ricordarlo. Tutto, e hanno pagato anche il viaggio”.
Dopo questa inedita e clamorosa testimonianza sulla vendita, dopo il trafugamento, del presunto terzo bronzo, stiamo lavorando a verificare altre testimonianze che potrebbero cambiare la storia di uno dei ritrovamenti più incredibile dell’archeologia di tutti tempi. Continuate a seguire a Le Iene l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sui Bronzi di Riace.
Bronzi di Riace, parla un archeologo: “Le statue erano 5”. Le Iene il 3 novembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano sul mistero del ritrovamento dei bronzi di Riace. Le Iene intervistano un archeologo e docente universitario, secondo il quale “i bronzi erano 5”. Quello con le braccia aperte, di cui parla Mariottini nella denuncia di ritrovamento, potrebbe essere la madre di Eteocle e Polinice, di cui ci parla il professor Castrizio. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti continuano a occuparsi dei troppi misteri nel ritrovamento dei bronzi di Riace, nella quarta puntata dell’inchiesta che potete vedere qui sopra. Siamo ritornati sulla questione della denuncia fatta dal sub romano Stefano Mariottini, che ha ufficialmente ritrovato le due statue, una delle quali viene da lui descritta come “a braccia aperte”. Statua che, stando alle nuove testimonianze raccolte, potrebbe essere un bronzo non ancora ritrovato, e forse trafugato e venduto a un museo americano, come vi abbiamo raccontato nell’ultima puntata dell’inchiesta. Per valutare questa ipotesi, abbiamo incontrato Daniele Castrizio, un archeologo e professore ordinario di numismatica all’università di Messina. Uno che i Bronzi di Riace li ammira e li studia da tempo, e a cui chiediamo: “Se io dicessi che i bronzi di Riace esposti al museo hanno le braccia aperte lei mi correggerebbe?” “Assolutamente. Non hanno le braccia aperte. Sono in una posizione tipica del guerriero per cui il braccio sinistro è tenuto ad angolo retto perché deve sostenere il peso dello scudo. Ed entrambi tengono una lancia”. Il professore, sulla possibile esistenza di altre statue oltre alle due ritrovate ufficialmente da Mariottini, ha le idee molto chiare: “La mia teoria è che ci siano 5 bronzi, di cui uno è la madre che divide Eteocle e Polinice con le braccia aperte”. Antonino Monteleone è quindi tornato a sentire, anche alla luce di queste nuove dichiarazioni, il sub romano Stefano Mariottini. E ha scoperto anche un’altra circostanza legata a una persona vicina a Mariottini e al momento del ritrovamento dei due bronzi, che è assolutamente incredibile.
“I bronzi di Riace erano 5 e uno aveva le braccia aperte”. Le Iene il 4 novembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano ad occuparsi dei troppi dubbi nella ricostruzione ufficiale del ritrovamento dei bronzi di Riace. Lo fanno intervistando un archeologo calabrese che sostiene che il gruppo originario era composto da cinque statue. La Iena scopre poi che un parente del sub romano Stefano Mariottini, che trovò le due statue, era stato fermato dai finanzieri, che a casa avevano trovato reperti storici mai dichiarati. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano sul caso del ritrovamento dei bronzi di Riace, nella quarta puntata dell’inchiesta de Le Iene. Lo fanno dopo che, nelle scorse puntate, avevano mostrato le moltissime incongruenze nel racconto ufficiale del ritrovamento delle due statue. Questo racconto si basa sulla denuncia di ritrovamento del sub romano Stefano Mariottini, a cui è attribuita ufficialmente la scoperta dei due bronzi e a cui è andata la ricompensa di 125 milioni di vecchie lire. Un racconto nel quale troppe cose non tornano, a cominciare dal fatto che una delle statue ritrovate viene descritta come “a braccia aperte”. Mariottini poi parla di “un gruppo di statue” invece che di una coppia e descrive nel dettaglio anche uno scudo sul braccio sinistro di una di queste. Uno scudo che però non è stato mai ritrovato. Su quante possano essere davvero le statue appartenenti al gruppo dei bronzi, Antonino Monteleone ha sentito Daniele Castrizio, un archeologo e professore ordinario di numismatica all’università di Messina, che ha una sua personale teoria. Castrizio, alla domanda secca di Monteleone, dice che, dovendoli descrivere, non direbbe mai che i due bronzi ritrovati da Mariottini siano “a braccia aperte”. “Assolutamente no. Non hanno le braccia aperte. Sono in una posizione tipica del guerriero per cui il braccio sinistro è tenuto ad angolo retto perché deve sostenere il peso dello scudo. Ed entrambi tengono una lancia”. L’archeologo racconta una storia molto diversa da quella ufficiale: “La mia teoria è che ci siano 5 bronzi di cui uno è la madre che divide Eteocle e Polinice, con le braccia aperte”. Secondo il professor Daniele Castrizio dunque i bronzi di Riace farebbero parte di un gruppo di statue. “Sicuramente c’è il bronzo della madre dei due fratelli, una donna inginocchiata con le braccia aperte nel tentativo di fermare i figli. Ho semplicemente messo i due bronzi al posto di queste due statue di questo gruppo importantissimo, i fratricidi di Pitagora. Corrisponde l’anno, corrisponde il posto, corrisponde tutto. Corrisponde la terra di fusione, quindi corrisponde veramente tutto”. E così Antonino Monteleone decide di tornare proprio da Stefano Mariottini, per chiedergli conto ancora una volta di ciò che scrisse sulla denuncia ufficiale di ritrovamento dei due bronzi. L’uomo all’inizio dice di non voler parlare e di non essere disposto a rilasciare alcuna intervista, ma di fronte all’insistenza della Iena sbotta: “L’ho scritto e allora? se l’ho scritto vuol dire che l’ho visto, una fesseria una cavolata dai… è come quello che state a fa’ qua voi, una cavolata…” E poi fa dell’ironia: “Eh e io non so un archeologo, a me sembrava uno scudo, a lei che sarebbe sembrato, un aeroplano?” “Io non mi immergo”, risponde Monteleone. “Ah e fa male, perché sott’acqua è bellissimo, non sa quello che perde… potrebbe trovare un altro bronzo, che ne so, altri cinque, dodici… fa molto male, sott’acqua glie farebbe bene, un pochetto…” Ma sulla storia del ritrovamento dei due bronzi e sul ruolo del sub Mariottini, dovete sapere ancora una cosa, che potrebbe essere solo l’ennesima “strana e casuale” coincidenza. Il sub romano aveva un parente, tale Alcherio Gazzera, che era professore di storia dell’arte in un liceo calabrese. Un uomo al quale proprio Mariottini chiese aiuto quando scoprì i Bronzi di Riace, coinvolgendolo nelle operazioni di recupero, qualche anno dopo quel ritrovamento, ebbe qualche problema con la giustizia. A raccontarcelo è Bruno Di Iacovo, il finanziere che materialmente sequestrò reperti di dubbia provenienza in casa di Alcherio Gazzera, zio della moglie di Stefano Mariottini. “Sono riuscito un po’ a ricostruire alcuni di questi rinvenimenti, facevano capo a questo professore, Alcherio Gazzera, dopodiché facemmo una serie di indagini e quindi una perquisizione a casa del professore. Abbiamo trovato circa un centinaio di monete dell’epoca greco romana, una specie di bassorilievo, raffigurante una donna con un bambino che si recava a prendere l’acqua a una fonte… e poi vari reperti diciamo”. Tutti reperti, va sottolineato ancora una volta, non denunciati alle autorità al momento del ritrovamento. Di Iacovo, però, ci tiene a precisare una cosa: “Se ero in grado in quel momento di conoscere i rapporti che potevano legare il Mariottini al professor Gazzera, quantomeno un’ipotesi investigativa l’avrei fatta”. E quando Antonino Monteleone gli fa notare che nei documenti ufficiali del ritrovamento compare il nome di Gazzera come l’uomo che mette in contatto Mariottini col sovrintendente Foti, dice: “Questo lo apprendo proprio in questo momento, l’avessi saputo subito guardi ci sarebbe stata un’immediata ipotesi investigativa, si è parlato di questo scudo, etc. etc. all’epoca in effetti non si parlò di questi reperti mancanti. Nulla fu detto”. Mariottini, su quello zio dal passato “scomodo” dice: “Alcherio essendo un esperto di…venne a vedere con la barca per riconoscere se erano effettivamente opere d’arte o se erano dei pupazzi di carnevale…” “Ok, poi 8 anni dopo gli hanno sequestrato 150 reperti..”, gli fa notare la iena Antonino Monteleone. “Ma questo è un problema di Alcherio Gazzera non lo dovete chiedere a me… Se lei per caso sua zia fa un mestiere diciamo la prostituta, lei per caso è un pappone?” Continuiate a seguire le nostre inchieste sul ritrovamento dei Bronzi di Riace, segnalandoci eventuali informazioni in vostro possesso. Noi non ci fermeremo fino alla verità.
“I Bronzi di Riace erano 5”: l'inchiesta de Le Iene arriva in Parlamento. Le Iene l'8 novembre 2019. Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini ha risposto a un’interrogazione del senatore Iannone dopo l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti: “Se ci fossero elementi nuovi rilevati dalle indagini, informerò immediatamente il Parlamento”. L’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sui bronzi di Riace smuove non solo le autorità giudiziarie, ma anche la politica. Il senatore Antonio Iannone di Fratelli d’Italia ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini (Pd) per chiedere spiegazioni sulle rivelazioni andate in onda a Le Iene. “Le sconcertanti rivelazioni, denunciate dalla trasmissione, riguardano le clamorose incongruenze tra la documentazione relativa al ritrovamento e i reperti effettivamente rinvenuti e oggi conosciuti”, ha detto il senatore Iannone. “Nelle carte si parla di ritrovamento, cito testualmente, di un gruppo di statue, presumibilmente di bronzo e non solo di due. La descrizione delle statue fatta dal subacqueo, che le scoprì, non coincide con quelle a noi note”, ricorda l’onorevole citando l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti di cui qui sopra potete vedere l’ultima puntata. “Inoltre mancherebbero, tra i reperti pervenuti, almeno uno scudo, un elmo e una lancia che sono invece citati nei documenti di ritrovamento. Dall'inchiesta televisiva sembra anche esistere un testimone oculare che parla della vendita di un terzo bronzo ad acquirenti americani”. Il ministro Franceschini ha risposto sostenendo che dal 1972 a oggi non sono mai emerse conferme circa l’ipotesi dell’esistenza di altre statue, aggiungendo però: “La Direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio del Ministero, unitamente alla Soprintendenza e al comando Carabinieri, comunque valuteranno con tutta l'attenzione necessaria gli elementi che dovessero emergere in riferimento alla trasmissione andata in onda recentemente e che siano innovativi rispetto a quanto analizzato negli anni precedenti”. Franceschini aggiunge anche altro. Le forze dell’ordine e la magistratura si stanno infatti muovendo dopo i nostri servizi: “Aggiungo che questa mattina (ieri, ndr) dovrebbe esserci stato un incontro tra il suddetto Nucleo insieme ai comandanti del gruppo della compagnia dei Carabinieri del luogo con il procuratore di Locri al fine di avviare le prime indagini riferite alla trasmissione e l'autorità giudiziaria ha già chiesto la consegna dei video delle puntate per procedere ad una disamina completa di quanto emerso nel corso del programma”, ha detto il ministro. “Ovviamente, se ci fossero elementi nuovi rilevati dalle indagini, informerò immediatamente il Parlamento”. Noi de Le Iene ci stiamo occupando del caso dei Bronzi di Riace. Nelle prime puntate abbiamo parlato delle moltissime incongruenze nel racconto ufficiale del ritrovamento delle due statue. Nel quarto episodio dell’inchiesta invece Antonino Monteleone ha sentito Daniele Castrizio, un archeologo e professore ordinario di numismatica all’università di Messina, che ha una sua personale teoria. L’archeologo racconta una storia molto diversa da quella ufficiale: “La mia teoria è che ci siano 5 bronzi di cui uno è la madre che divide Eteocle e Polinice, con le braccia aperte”. Secondo il professor Daniele Castrizio dunque i bronzi di Riace farebbero parte di un gruppo di statue. “Sicuramente c’è il bronzo della madre dei due fratelli, una donna inginocchiata con le braccia aperte nel tentativo di fermare i figli. Ho semplicemente messo i due bronzi al posto di queste due statue di questo gruppo importantissimo, i fratricidi di Pitagora. Corrisponde l’anno, corrisponde il posto, corrisponde tutto. Corrisponde la terra di fusione, quindi corrisponde veramente tutto”.
I sarsen di Stonehenge provenivano da boschi a 15 miglia di distanza. Stonehenge originariamente aveva 80 sarsen eretti in archi a forma quadrata, ma ne rimangono solo 52. Secondo l’analisi del team di Nash sugli elementi presenti nelle rocce, 50 di quei 52 sarsen condividono la stessa composizione chimica. Armato di quella traccia chimica unica, il team ha cercato altri sarsen nel Regno Unito meridionale e ha confrontato quei massi con quelli di Stonehenge. Ha trovato quelli a loro corrispondenti a West Woods, a circa 15 miglia a nord del monumento. Prima di questa scoperta, gli archeologi avevano ipotizzato che i sarsen provenissero da una regione vicina chiamata Marlborough Downs, poiché “a Stonehenge c’erano grosse pietre grigie e i sarsens a Marlborough Downs erano grossi e grigi”, ha detto Nash. West Woods fa parte di quella regione, ma i ricercatori non avevano mai cercato indizi in quel particolare punto perché la maggior parte dei sarsen erano nascosti sotto la vegetazione. Inoltre, ha detto Nash, la lontana provenienza delle pietre di ardesia grigio-blu di Stonehenge ha fornito prove del fatto che i costruttori non hanno necessariamente raccolto le rocce dalle aree più convenienti. “Dato che i costruttori si sono presi la briga di portare pietre di ardesia grigio-blu dal Galles a Stonehenge, perché avrebbero dovuto portare sarsen dal posto più vicino?” ha detto Nash. Almeno quattro dozzine di pietre di ardesia grigio-blu da 2-5 tonnellate provenivano dalle Preseli Hills del Galles, a circa 150 miglia di distanza. “Le persone che hanno costruito Stonehenge non si sarebbero preoccupate della distanza”, ha aggiunto Nash. Il motivo per cui i costruttori hanno usato i sarsen di West Woods non è ancora chiaro, ma gli autori dello studio hanno suggerito che probabilmente ha a che fare con “le dimensioni e la qualità delle pietre presenti lì”.
Tutti i sarsen potrebbero essere stati spostati allo stesso tempo. La nuova scoperta non conferma ciò per cui Stonehenge è stato usato – Nash ha detto che le teorie includono un terreno di sepoltura e cremazione e un luogo di antica guarigione. Ma sapere da dove provenivano i sarsen potrebbe almeno aiutare gli esperti a capire come i costruttori del monumento lo hanno eretto e il percorso che hanno fatto per trasportare i loro materiali da costruzione. Nash ha affermato che probabilmente i costruttori di Stonehenge hanno usato una sorta di rullo o trascinato i sarsen su una superficie scivolosa come vegetazione o terreno ghiacciato. “Non ci sono prove che abbiano usato animali per farlo, ma non lo sappiamo”, ha detto. Il nuovo studio sostiene anche l’idea che i costruttori abbiano scolpito e sollevato tutti i sarsen in posizione eretta nel cerchio di pietre di Stonehenge nello stesso momento, verso il 2.500 a.C., dopo averli trasportati in massa. “Per me, in qualche modo conferma l’idea che tutte le pietre sono state mosse in una volta, allo stesso tempo”, ha detto Nash. “È un pensiero sorprendente: quante persone dovrebbero essere coinvolte per trascinare enormi massi come parte di un grande progetto?”
Vittorio Sabadin per “la Stampa” l'8 agosto 2020. Per la prima volta, a causa dell'epidemia di Covid, nessuno è potuto andare a Stonehenge il giorno del solstizio per assistere al sorgere del Sole. Ma gli appassionati di druidi e di presunti riti celtici hanno ricevuto il giorno dopo una notizia che attenuerà la loro delusione: a poche centinaia di metri dal sito più misterioso d'Inghilterra si nasconde un altro mistero. Ricercatori delle Università di St Andrews, Glasgow e del Galles, assieme a studiosi di Birmingham e Warwick, hanno unito le loro conoscenze per studiare meglio il sito di Durrington Walls, e hanno scoperto cose molto interessanti. Intorno all'henge di Durrington, una struttura architettonica preistorica circolare protetta da un fossato, è stato individuato un cerchio di due chilometri di diametro, contrassegnato da buche circolari profonde 5 metri e larghe 10. Sono già stati individuati 20 di questi pozzi, ma è probabile che se ne trovino altri. I geologi e gli esperti di archeobotanica del gruppo di ricerca sono molto felici: grazie ai sedimenti raccolti avranno da lavorare per anni e potranno ricostruire com' era il paesaggio nella valle di Stonehenge nei quattro millenni che sono passati dalla sua costruzione. I paleontologi sono invece ancora una volta perplessi. A che servivano quelle buche? Erano le basi di un enorme recinto di protezione? E per proteggere che cosa? Chiunque abbia svolto ricerche sui molti misteri della piana di Salisbury avrà notato quante volte, nelle spiegazioni fornite dagli scienziati, ricorra la parola «cerimoniale». Sembra che gli uomini preistorici della zona non avessero altra preoccupazione che innalzare monoliti giganteschi dopo averli tagliati e trasportati per centinaia di chilometri, o scavare buche e enormi fossati circolari, o erigere tumuli che richiedevano il lavoro di migliaia di persone, solo per rispondere a esigenze rituali o religiose. Tra Stonehenge e Durrington Walls c'è il Greater Cursus, una porzione di terreno larga 150 metri e livellata per una lunghezza di tre chilometri, nel 3600 a.C., anche quella per esigenze «cerimoniali», come il più piccolo Lesser Cursus che si trova nei pressi. Lì vicino c'è anche la Robin Hood's Ball, un recinto neolitico del 4000 a.C. che visto dall'alto sembra un uovo al tegamino, realizzato anche quello... per cosa? «Cerimonie tribali». Gli scienziati che hanno trovato i pozzi di Durrington Walls appartengono a discipline diverse e mescolare gli interessi e le conoscenze ha fatto fare negli ultimi anni grandi passi avanti all'archeologia: ora è sempre più difficile catalogare come rituale e cerimoniale tutto ciò che non si capisce. Durrington Walls aveva tra il 2.800 e il 2.100 a.C. circa 1.000 abitazioni e 4.000 abitanti. Sembrano pochi, ma alla sua epoca il villaggio era una metropoli del Nord Europa, racchiusa in un cerchio di 500 metri di diametro. Solo per scavare il fossato che lo circonda, profondo 5 metri e largo 7 al fondo e 15 all'apice, sarebbe occorso il lavoro di tutti i suoi abitanti. E nel frattempo chi cacciava? Chi coltivava? Chi difendeva il villaggio e la propria famiglia? Come hanno fatto? Il radar ha rivelato che nel sottosuolo ci sono almeno 60 menhir di 4,5 metri di altezza, 30 dei quali ancora in posizione verticale. Forse era un campo simile a quello di Carnac in Bretagna, con i suoi 3000 monoliti eretti per non si sa che cosa, ma certamente non per ragioni cerimoniali. Il dottor Richard Bates, della School of Earth and Environmental Sciences di St Andrews ha riconosciuto: «L'approccio multidisciplinare ha aperto uno squarcio sul passato che ci rivela una società più complessa di quanto potessimo mai immaginare. Pratiche molto sofisticate dimostrano che queste persone erano in sintonia con gli eventi naturali in un modo che noi possiamo a stento concepire, nel mondo moderno nel quale viviamo». Gli studiosi cominciano a pensare che Stonehenge non fosse un complesso monumentale fine a sé stesso, difficile da interpretare anche a causa dei pasticci fatti più di un secolo fa dagli archeologi nel rimetterne a posto più o meno a caso le pietre. Faceva parte di un complesso più ampio che forse era sorto addirittura prima, e il cui significato ancora ci sfugge. Datare le pietre è sempre molto complicato e si presta a errori. Le date potrebbero essere sbagliate, gli esseri umani del Neolitico potrebbero avere eretto quei siti o potrebbero averli abitati solo quando sono stati abbandonati dai loro ignoti costruttori, com' è probabile anche nel caso di Durrington Walls. Al prossimo solstizio centinaia di druidi e celti contemporanei potranno tornare, si spera, a celebrare le loro cerimonie a Stonehenge, convinti che solo a quello servissero tutte quelle pietre. Ma la verità è ancora nascosta lì intorno, e mentre loro continuano a adorare il Sole che sorge, qualche scienziato dalla mente aperta un giorno finalmente la scoprirà.
Luciana Grosso per "it.businessinsider.com" il 15 giugno 2020. Perché le statue dell’antico Egitto sono tutte senza naso? Questa domanda, apparentemente banale, posta da decine di visitatori dei musei di antichità egizie, ha spinto Edward Bleiberg, sovrintendente al museo di arte egizia, classica e antica del Medio Oriente di Brooklyn, a indagare la faccenda. Dapprima, come tutti, pensava che la perdita del naso o di altre estremità da parte delle statue fosse da attribuire esclusivamente al tempo e alla cattiva sorte. Indagando meglio però, Bleiberg ha scoperto che le cose potrebbero essere più complicate di così. In particolare Bleiberg ha analizzato centinaia di immagini, geroglifici e statue, per notare che molte avevo subito, nel corso dei secoli, lo stesso identico danno: via il naso, via (spesso) il braccio sinistro. Difficile pensare che si sia trattato in centinaia di casi, di una semplice coincidenza. Così Bleiberg ha provato a svolgere qualche indagine d’archivio e di studio religioso e antropologico per arrivare alla conclusione che molte delle statue e dei disegni antichi sono stati mutilati di proposito. La ragione di questi sfregi starebbe nel fatto che si credeva che il potere di un Dio (o di un Faraone) fossero tali fintanto che la loro immagine restava intatta e visibile. Per questo, nei secoli, chiunque volesse evitare la vendetta di un Dio (o di un Faraone) che avevo offeso (in vario modo: con una guerra, un saccheggio o un furto da tombarolo) ne sfregiava l’immagine, convinto così di soffocarne il potere.
Vittorio Sabadin per “la Stampa” il 27 giugno 2020. Per la prima volta, a causa dell'epidemia di Covid, nessuno è potuto andare a Stonehenge il giorno del solstizio per assistere al sorgere del Sole. Ma gli appassionati di druidi e di presunti riti celtici hanno ricevuto il giorno dopo una notizia che attenuerà la loro delusione: a poche centinaia di metri dal sito più misterioso d'Inghilterra si nasconde un altro mistero. Ricercatori delle Università di St Andrews, Glasgow e del Galles, assieme a studiosi di Birmingham e Warwick, hanno unito le loro conoscenze per studiare meglio il sito di Durrington Walls, e hanno scoperto cose molto interessanti. Intorno all'henge di Durrington, una struttura architettonica preistorica circolare protetta da un fossato, è stato individuato un cerchio di due chilometri di diametro, contrassegnato da buche circolari profonde 5 metri e larghe 10. Sono già stati individuati 20 di questi pozzi, ma è probabile che se ne trovino altri. I geologi e gli esperti di archeobotanica del gruppo di ricerca sono molto felici: grazie ai sedimenti raccolti avranno da lavorare per anni e potranno ricostruire com' era il paesaggio nella valle di Stonehenge nei quattro millenni che sono passati dalla sua costruzione. I paleontologi sono invece ancora una volta perplessi. A che servivano quelle buche? Erano le basi di un enorme recinto di protezione? E per proteggere che cosa? Chiunque abbia svolto ricerche sui molti misteri della piana di Salisbury avrà notato quante volte, nelle spiegazioni fornite dagli scienziati, ricorra la parola «cerimoniale». Sembra che gli uomini preistorici della zona non avessero altra preoccupazione che innalzare monoliti giganteschi dopo averli tagliati e trasportati per centinaia di chilometri, o scavare buche e enormi fossati circolari, o erigere tumuli che richiedevano il lavoro di migliaia di persone, solo per rispondere a esigenze rituali o religiose. Tra Stonehenge e Durrington Walls c'è il Greater Cursus, una porzione di terreno larga 150 metri e livellata per una lunghezza di tre chilometri, nel 3600 a.C., anche quella per esigenze «cerimoniali», come il più piccolo Lesser Cursus che si trova nei pressi. Lì vicino c'è anche la Robin Hood's Ball, un recinto neolitico del 4000 a.C. che visto dall'alto sembra un uovo al tegamino, realizzato anche quello... per cosa? «Cerimonie tribali». Gli scienziati che hanno trovato i pozzi di Durrington Walls appartengono a discipline diverse e mescolare gli interessi e le conoscenze ha fatto fare negli ultimi anni grandi passi avanti all'archeologia: ora è sempre più difficile catalogare come rituale e cerimoniale tutto ciò che non si capisce. Durrington Walls aveva tra il 2.800 e il 2.100 a.C. circa 1.000 abitazioni e 4.000 abitanti. Sembrano pochi, ma alla sua epoca il villaggio era una metropoli del Nord Europa, racchiusa in un cerchio di 500 metri di diametro. Solo per scavare il fossato che lo circonda, profondo 5 metri e largo 7 al fondo e 15 all'apice, sarebbe occorso il lavoro di tutti i suoi abitanti. E nel frattempo chi cacciava? Chi coltivava? Chi difendeva il villaggio e la propria famiglia? Come hanno fatto? Il radar ha rivelato che nel sottosuolo ci sono almeno 60 menhir di 4,5 metri di altezza, 30 dei quali ancora in posizione verticale. Forse era un campo simile a quello di Carnac in Bretagna, con i suoi 3000 monoliti eretti per non si sa che cosa, ma certamente non per ragioni cerimoniali. Il dottor Richard Bates, della School of Earth and Environmental Sciences di St Andrews ha riconosciuto: «L'approccio multidisciplinare ha aperto uno squarcio sul passato che ci rivela una società più complessa di quanto potessimo mai immaginare. Pratiche molto sofisticate dimostrano che queste persone erano in sintonia con gli eventi naturali in un modo che noi possiamo a stento concepire, nel mondo moderno nel quale viviamo». Gli studiosi cominciano a pensare che Stonehenge non fosse un complesso monumentale fine a sé stesso, difficile da interpretare anche a causa dei pasticci fatti più di un secolo fa dagli archeologi nel rimetterne a posto più o meno a caso le pietre. Faceva parte di un complesso più ampio che forse era sorto addirittura prima, e il cui significato ancora ci sfugge. Datare le pietre è sempre molto complicato e si presta a errori. Le date potrebbero essere sbagliate, gli esseri umani del Neolitico potrebbero avere eretto quei siti o potrebbero averli abitati solo quando sono stati abbandonati dai loro ignoti costruttori, com' è probabile anche nel caso di Durrington Walls. Al prossimo solstizio centinaia di druidi e celti contemporanei potranno tornare, si spera, a celebrare le loro cerimonie a Stonehenge, convinti che solo a quello servissero tutte quelle pietre. Ma la verità è ancora nascosta lì intorno, e mentre loro continuano a adorare il Sole che sorge, qualche scienziato dalla mente aperta un giorno finalmente la scoprirà.
Il mistero della Mary Celeste: la prima nave fantasma. Un brigantino appare al largo delle Azzorre. Ha le vele spiegate e nessun danno apparente. Il ponte deserto. Il suo equipaggio è scomparso e a tre secoli di distanza nessuno sa spiegarne il motivo. Davide Bartoccini, Giovedì 24/09/2020 su Il Giornale. Dicembre 1872, un brigantino che batte bandiera americana viene avvistato al largo delle Azzorre, alla via, con le vele spiegate e il ponte deserto. Nessuno a governare il due alberi alla deriva verso Gibilterra. Inizia così il grande mistero della Mary Celeste: la nave fantasma. È il quarto giorno dell'ultimo mese dell'anno, e le acque dell'Atlantico che portano dritte alle porte del Mediterraneo sono placide, quando David Morehouse, capitano della Dei Gratia, posa il cannocchiale sull'occhio per scrutare l'orizzonte, imbattendosi nella nave che gli appare subito come lo spettro inquietante di una vicenda misteriosa. Sul brigantino - comparso dal nulla - non c'è più traccia di nessun membro dell'equipaggio. Otto marinai e due passeggeri, moglie e figlia del capitano, sembrano essere scomparsi nel nulla. È al cospetto di una nave fantasma. A bordo della Mary Celeste, varata undici anni prima con il nome di Amazon a Spencer's Island in Nuova Scozia, viene trovato cibo commestibile e ancora nei piatti, e viveri sufficienti a passare altri sei mesi per mare. Insieme al cibo, ci sono un'abbondante riserva di acqua ancora perfettamente potabile, gli effetti personali del capitano, dei membri dell'equipaggio, e di entrambi i passeggeri, compreso denaro e oggetti di valore. Non può trattasi di un caso di pirateria durante il quale l'equipaggio è stato brutalmente assassinato o dato, come si sul dire nei vecchi romanzi marinareschi "in pasto ai pesci". Non c'è traccia di sangue. Né di uno dei tanti casi in cui la malattia o la fame - che troppo spesso sfocia nel cannibalismo - hanno decimato l'equipaggio, costringendo i superstiti ad abbandonare una nave che non erano più in grado di governare o per non essere “contagiati". Ciò che la fa apparire davvero una nave fantasma agli occhi del primo ufficiale della Dei Gratia, Oliver Deveau, che sale a bordo per ispezionarla, sono le vele in parte squarciate, come se avessero da poco attraversato una tempesta senza essere state ammainate. Ma quello che inquieta è anche il ponte grondante d'acqua, come anche le stive, dove si affonda il corpo in quasi un metro d'acqua per scoprire che il carico di ben 1701 barili di alcol denaturato è totalmente intatto e al suo posto. È mal ridotta la bussola, che non punta più a nord, non funzionante l'orologio, e mancano il sestante e il cronometro marino, come anche l'unica scialuppa di salvataggio. Solo accedendo all'alloggio del capitano, Benjamin Spooner Briggs, i marinai entrati nella nave scoprono che l'ultima annotazione sul diario di bordo risale al 25 novembre, quando la Mary Celeste era giunta al largo dell'isola di Santa Maria delle Azzorre, avvistando terra. Cos'è accaduto in quei nove giorni resta un mistero. Nessuno riesce a capire quale sia stato il destino dell'equipaggio, che in tempi più recenti gli amanti delle teorie più estreme l'hanno addirittura collegato a uno dei famigerati rapimenti alieni. Ma allora, in secolo ancora pregno di suggestioni e superstizioni, si mormorava potesse essersi abbattuta soltanto la "malasorte" di quella nave, che aveva già patito diversi incidenti e incendi in mare, e la morte del suo primo capitano dopo solo nove giorni dall'inizio del suo viaggio inaugurale. Quando la Mary Celeste è condotta a Gibilterra dall'equipaggio del vascello canadese, viene aperta un'inchiesta estremamente approfondita per far luce sull'accaduto. Condotta da alti funzionari britannici e durata tre mesi, l'inchiesta attira l’attenzione della stampa del nuovo e del vecchio mondo a causa del mistero fittissimo che vede la scomparsa, se non il decesso, di ben dieci persone senza alcuna spiegazione. Viene anche convocato un esperto sommozzatore per scandagliare lo scafo in cerca di anomalie o segni sospetti, non trovando nulla di “strano". Sarebbe inutile citare, nel tentativo di spiegare l'arcano, il diario fasullo di tale Abel Fosdyk, personaggio mai esistito che divulgò anni dopo i contenuti di un diario basato sulla sua fervida fantasia, raccontando di un attacco di squali sopraggiunti durante un bagno imprevisto, che lo avevano visto come unico superstite, fuggito alla volta delle coste nordafricane. Antiquato caso di fake news, o antesignano modo di procurarsi denaro spacciando storie inventate per veritiere. Ma è dovere di cronaca, per quanto passata. Tra tutte le teorie - che hanno tutte previsto un abbandono della nave fantasma attraverso l'unica scialuppa dove forse era stato portato il sestante e alcune carte nautiche - quella che viene maggiormente avvalorata fu quella della combustione dei vapori dell'alcol trasportato nei barili - nove apparvero vuoti - che avrebbe indotto l'equipaggio ad abbandonare la nave per poi morire in una tempesta. Mentre speravano di raggiungere, forse, le Azzorre. La tesi induce gli inquirenti a chiudere l'inchiesta ma non verrà mai trovata traccia né della scialuppa né dei corpi di quelle dieci anime perse per sempre nell'Oceano. Pochi superstiziosi o visionari iniziano a credere al sopraggiungere del Kraken o di qualche altro mostro marino. Meno di quanti invece iniziano a sospettare di una cospirazione messa a punto dal capitano di lungo corso della nave, descritto come uomo gentile e ben visto, che avrebbe previsto l'omicidio di tutto l'equipaggio per moventi apparentemente assenti. In seguito al dissequestro, la nave avrà numerosi proprietari, che nonostante la sua oscura storia decideranno poi di impiegarla regolarmente come mercantile per il trasporto delle merci più disparate. L'ultimo viaggio della Mary Celeste finirà su una scogliera ad Haiti nel 1885, condotta lì dal suo ultimo capitano, G. C. Parker, nel tentavo di mettere a segno una truffa assicurativa mettendo in scena un naufragio. L'inganno non solo non avrà successo, ma Parker rischierà di finire sulla forca. Salvato alla condanna a morte dalla giuria, morirà tre mesi nelle galere dimenticate di una piccola isola. I suoi due complici invece, finiranno uno in un manicomio e l'altro suicida. Il relitto della Mary Celeste invece, giace a tutt'ora sui bassi fondali del reef. Con il suo carico di misteri irrisolti. Sepolti tra le assi di legno fradicio e scuro, che lasciano intravedere ancora la sagoma di una nave fantasma tra la sabbia bianchissima; di quelle che rimandano la memoria al tempo delle tetre leggende tramandate dai pirati che solcavano in lungo e i largo i sette mari.
Messico, trovata per la prima volta una nave che trasportava schiavi maya. I resti nel relitto di un'imbarcazione affondata nel 1861, oltre trent'anni dopo l'abolizione della schiavitù nel Paese nordamericano. Francesco Consiglio il 22 settembre 2020 su La Repubblica. Gli archeologi dell’Instituto Nacional de Antropología e Historia de México (Inah) hanno studiato il relitto di un battello a vapore affondato nel 1861 nel Golfo del Messico al largo dello Yucatán, e hanno scoperto che l’imbarcazione trasportava schiavi maya a Cuba, in un’epoca in cui la tratta degli schiavi era già stata abolita da decenni in Messico. Il piroscafo era stato localizzato per la prima volta nelle profondità marine nel 2017, e solo dopo tre anni di ricerche negli archivi locali e immersioni gli studiosi sono arrivati alla conclusione che quel relitto si chiamava “La Unión” ed era impiegato nella tratta di schiavi. Notizia resa ancora più importante dal fatto che è la prima volta, spiega l’Inah, che viene rinvenuta una nave impiegata per la tratta di schiavi maya in America. Affondato il 19 settembre 1861 a causa di un’esplosione delle caldaie, il relitto si trova oggi a sette metri di profondità, a circa due miglia nautiche dal porto di Sisal. Il piroscafo “La Unión” era di proprietà della compagnia spagnola Zangroniz Hermanos y Compañía, fondata nel 1854 a L’Avana e autorizzata a trasportare merci e passeggeri tra Messico e Cuba. Alcuni comandanti della compagnia erano però collusi con contrabbandieri locali e schiavisti: sul battello, che si muoveva grazie a delle grandi pale “stile Mississippi”, viaggiavano infatti non solo passeggeri di terza, seconda e prima classe, come dimostra il ritrovamento di frammenti di ceramiche e otto posate in ottone, ma anche un numero imprecisato di schiavi maya. Circa sessanta passeggeri persero la vita nell’incidente, oltre a una quarantina di membri dell’equipaggio. Non è possibile sapere invece il numero di schiavi maya che perirono in questo naufragio, poiché essi venivano classificati come “merci” e non come passeggeri. Una storia che sembra ambientata nel lontano Cinquecento, quando Carlo I di Spagna autorizzava il trasporto di schiavi africani nel Vicereame della Nuova Spagna, e non nella seconda metà dell’Ottocento. La schiavitù era infatti stata abolita nel Messico indipendente nel 1829, e l’estrazione forzata di qualsiasi individuo maya era stata espressamente vietata l’11 maggio del 1861, proprio pochi mesi prima dell’affondamento del piroscafo, da un decreto del presidente Benito Juárez. La scoperta fa quindi luce su un capitolo poco conosciuto della storia messicana, poiché prima d’ora in America si era sempre parlato di relitti di navi utilizzate per la tratta transatlantica di schiavi africani e non di schiavi maya, antica civiltà mesoamericana guidata da re-divinità, che si impose nell’America precolombiana prima di venire soggiogata dai conquistadores spagnoli, distinguendosi per avanzati livelli di matematica e astronomia. Secondo le rivelazioni dell’Inah, tra il 1855 e il 1861, il battello “La Unión”, insieme al piroscafo “México”, trasportarono dal Messico a Cuba una media di 25-30 maya ogni mese per essere utilizzati nelle piantagioni di canna da zucchero, dove la manodopera era carente. I nativi americani furono catturati durante le rivolte popolari scoppiate contro la popolazione di discendenza europea (chiamata Yucatecos), e passate alla storia come “Guerra delle Caste” (1847-1901), o furono prelevati con l’inganno e trasportati verso l’isola caraibica con l’illusione di poter vivere come liberi lavoratori. Una vicenda che è venuta alla luce anche grazie ai racconti dei “nonni e bisnonni degli abitanti di Sisal”, ha spiegato l’archeologa subacquea Helena Barba Meinecke, che hanno raccontato la tratta degli schiavi maya a bordo di moderni piroscafi durante il periodo delle ribellioni contro lo Stato messicano. Ogni schiavo era venduto come una qualunque merce “ad un massimo di 25 pesos a degli intermediari”, ha aggiunto l’archeologa, e “potevano essere rivenduti a L’Avana, gli uomini a un massimo di 160 pesos, e le donne a un massimo di 120 pesos”.
Tesori sommersi: dove sono, quanto valgono e a chi appartengono - L’inchiesta di Domenico Affinito e Milena Gabanelli del 23 settembre 2020 Fonte Corriere della Sera. Sarebbero circa 3 milioni i relitti di navi nei mari del mondo, molte affondante con i loro «patrimoni», preda di avventure. Avevano a bordo il carico più prezioso mai ritrovato, oltre un miliardo e mezzo di dollari. Sono i relitti di Nuestra Señora de la Mercedes, Nuestra Señora de Atocha, il galeone pirata Whydah e la SS Gairsoppa. Due sono stati trovati dalla Odyssey Marine Exploration, la più famosa società di cacciatori di tesori sottomarini. Secondo una stima dell’Unesco sarebbero circa 3 milioni i relitti di navi nei mari del mondo, molte affondante con i loro «patrimoni». Per difendere questi gioielli dell’archeologia dai predatori è stata varata nel 2001 la convenzione sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, firmata da 64 nazioni, tra queste non compaiono Stati Uniti e Gran Bretagna. L’Italia ha contribuito a redigerne il testo, l’ha ratificata nel 2009e solo a dicembre dello scorso anno ha annunciato la creazione di una Soprintendenza Nazionale per il Patrimonio Subacqueo che avrà la sede principale a Taranto e due sedi distaccate a Napoli e a Venezia per monitorare il Tirreno e l’Adriatico. Ad oggi, però, è ancora tutto su carta.
Cosa succede a un relitto scoperto? Quando un relitto viene individuato fino a 200 miglia nautiche dalla costa, la sua proprietà è del Paese in questione. La cosa si fa più complicata quando si trova in quelle internazionali: la nazione proprietaria della nave può rivendicarla, ma di fatto il relitto è di chi lo trova. Un bottino su cui si sono lanciate le società di esplorazione commerciale moderne – soprattutto americane, inglesi, canadesi e brasiliane — autorizzate spesso dagli Stati nelle cui acque è stato trovato il relitto che concedono loro lo sfruttamento commerciale del sito dietro il pagamento di una tassa. Che non sempre pagano: alle Bahamas il governo ha ricevuto un solo pagamento dopo che sono stati rilasciati 71 permessi di recupero in 27 anni. L’Unesco è in prima linea contro queste società perché le operazioni di sfruttamento commerciale non sono eseguite seguendo gli standard scientifici di scavo nei siti archeologici, visto che si concentrano solo sul recupero dei materiali di valore. Nel 2003 in Indonesia fu scoperto il relitto di Ciberon, il cui sfruttamento era stato dato a una società privata belga che ha raccolto 500mila pezzi di porcellana cinese del X secolo, ma ne ha distrutti la metà perché non in perfette condizioni, e venduto il resto sul mercato d’arte internazionale. Lo stesso è successo in Mozambico su diversi relitti portoghesi al largo di Ilha de Mozambique, completamente spogliati del loro carico di preziosi manufatti storici, o a Panama sul relitto del San José, un galeone spagnolo affondato nell’arcipelago di Las Perlas nel XVII secolo, dal quale sono spariti migliaia di manufatti d’argento con gravi danni alla struttura del relitto.
Chi sono i cercatori di tesori. Fino agli anni ‘90 i cacciatori di tesori erano per lo più avventurieri, spesso ex marinai britannici o americani, che saccheggiavano siti archeologici poco profondi, e gli oggetti preziosi finivano all’asta da Christie e Sotheby. Poi le nuove tecnologie e conoscenze hanno cambiato il panorama. Sono comparse le prime società e i casi si sono moltiplicati. Il più delle volte si tratta di missioni in perdita, ma i cacciatori di tesori non vivono di quanto trovano, bensì dei soldi dei loro investitori. Secondo l’Unesco queste imprese praticano spesso frodi, evasione fiscale e riciclaggio di denaro.
Il saccheggio. La Convenzione del 2001 punisce il saccheggio. Uno dei casi più controversi è stato quello del relitto della Nuestra Señora de las Mercedes, affondata nel 1804 al largo dello Stretto di Gibilterra, ritrovata e spogliata del carico nel 2007 dalla Odyssey Marine. La Spagna avviò subito una battaglia giudiziaria conclusa nel 2012: la società non aveva alcun diritto sui manufatti e doveva restituire le quasi 600.000 monete d’oro e d’argento (17 tonnellate) alla Spagna. Secondo recenti ricerche archeologiche ci sono prove di saccheggi su almeno il 60% di 22 relitti della battaglia navale dello Jutland avvenuta durante la Prima Guerra Mondiale.
Nel mondo poca collaborazione. La Convenzione Unesco ha imposto regole contro il traffico illecito e l’obbligo per gli Stati aderenti ad attuare la protezione in situ, cioè in fondo al mare, ma non esiste ancora un database generale di questi relitti. Uno dei Paesi più organizzati è la Francia che ha mappato 200mila relitti nelle proprie acque. Anche la Cina ha un team tecnologicamente avanzato del cui lavoro, però, si sa poco. Il governo americano ha mappato i relitti nelle acque di propria competenza e ha pubblicato i dati in un database che è fruibile online. Uno degli studi più importanti degli ultimi anni è l’Inventario dei naufragi spagnoli al largo delle Americhe, redatto nel 2019 dalla Direzione generale del Patrimonio Storico del ministero della Cultura spagnolo. Il documento ricostruisce la posizione, le cause e i carichi preziosi di 681 vascelli, galeoni e navi spagnole naufragate nelle Americhe dal 1492 al 1898, l’80% dei quali è inesplorato.
Quella lotta per i tesori sommersi nell'oceano. Galeoni e navi spagnole, portoghesi e inglesi che nei secoli passati naufragarono fanno gola a tanti. Roberto Pellegrino, Domenica 28/06/2020 su Il Giornale. C'erano tutti gli ingredienti per scrivere un romanzo d'avventura. Un esploratore testardo, un mare agitato nel cui ventre riposava un galeone spagnolo, affondato da quattro secoli con un preziosissimo tesoro. Era la nave della marina spagnola di Filippo IV, la Nuestra Señora de Atocha, il tipico sfarzoso galeone seicentesco. Cinquecentotrenta tonnellate d'orgoglio spagnolo, il fiore dell'Armada Invencible. Nell'agosto del 1622 era partita da Cartagena per riscuotere le tasse delle colonie spagnole nei Caraibi. Dopo Porto Bello, (l'attuale Panama), il galeone puntò su l'Avana per riunirsi, in ritardo, con la flotta delle ventotto navi reali e salpare per la Spagna. Il carico nella pancia dell'Atocha era preziosissimo: 125 dischi d'oro, 24 tonnellate d'argento in lingotti, 180mila pesos in argento, 582 barre di rame, 450 bauli d'indaco, 535 balle di tabacco, 20 cannoni di bronzo e 1200 libbre di argenteria lavorata. C'erano inoltre soldi e gioielli dei 265 passeggeri per un valore, attuale, di un miliardo di dollari. La flotta salpò dall'Avana il 4 settembre del 1622 e dopo due giorni si scatenò un violento uragano. L'Atocha finì sulla barriera corallina a Dry Tortuga, 56 chilometri da Key West. La scogliera squarciò il galeone che affondò in un attimo. Su 265 passeggeri, si salvarono soltanto cinque marinai. Dall'Avana, le autorità spagnole, inviarono cinque navi per recuperare superstiti e carico, ma la posizione e il maltempo impedirono il recupero e poche settimane dopo, un nuovo uragano sparpagliò ulteriormente i resti dell'Atocha. Nei successivi sessant'anni fu cercata invano. Il galeone e il suo carico prezioso erano scomparsi nel ventre dei Caraibi davanti alla Florida. La Santa Margherita, uno dei galeoni della flotta spagnola, invece, fu individuato e metà del carico recuperato. Nel corso dei secoli i cacciatori dell'Atocha raccolsero solo le briciole del bottino, nessuno avvistò mai la nave. Dovevano passare quasi 350 anni, quando nel 1969, Mel Fischer, ex allevatore di polli, che si era venduto la fattoria per l'impresa, con la nave Treasure Salvors iniziò a battere le acque tra Cuba e la Florida. Fischer setacciò le sabbie del fondale usando deflettori legati alle eliche della nave e un magnetometrico protonico. In quasi 17 anni di ricerche, Fischer e il suo equipaggio, trovarono alcuni indizi del galeone, ma dell'Atocha nulla. Nel 1975 il figlio Dirk, sua moglie e un sub persero la vita in un incidente marino, ma Fischer, testardo contadino di mare, non mollò. Il 20 luglio del 1985, Kane, il secondo figlio di Fischer, dalla scialuppa di soccorso gridò via radio al padre: «Abbiamo trovato la barriera corallina principale!». Così in pochi giorni, i Fischer individuarono la scogliera con i resti dello scafo del naufragio del secolo e tra i resti, c'erano preziosi per 450 milioni di dollari, la metà del tesoro. Il 20% lo dovettero dare alla Florida. L'Unesco ha stimato che ci siano almeno tre milioni di navi affondate tra il XIV e il XX secolo con 100 miliardi di beni preziosi. La maggior parte sono galeoni spagnoli, portoghesi, britannici, olandesi e francesi e i loro tesori sono rivendicati da molti Paesi e cacciatori del mare. Per il tesoro da 17 milioni di dollari del galeone spagnolo San José, affondato nel Settecento davanti a Cartagena dalle navi britanniche, si stanno accapigliando Spagna, Colombia e la società americana Odyssey (la stessa che, dopo che Robert Ballar scoprì la posizione del relitto del Titanic, raccolse le sue immagini). Nel mondo sono una ventina i cacciatori di tesori marini, un mestiere costoso e difficile che spesso non porta a nulla. Per tutelare i suoi 70mila galeoni affondati, tesori inclusi, la Spagna ha preparato una mappa in cui sono indicati i punti vietati agli estranei. L'Unesco afferma che «le navi sommerse appartengono al Paese della sua bandiera in modo che nessuno possa avvicinarsi senza il permesso delle autorità competenti». Però i cacciatori degli abissi rivendicano altri diritti. La Spagna può contare sull'antico Archivio de Indias, un registro con tutte le sue navi di proprietà fino all'Ottocento. Grazie a questo documento, nel 2012 si stabilì che la fregata Nuestra Señora de la Mercedes, affondata nel 1804 a Cadice con 600mila monete d'oro e d'argento, era di proprietà della Spagna, contraddicendo l'Odyssey che l'aveva trovata nel 2007. Non è sempre facile per un tribunale straniero riconoscere l'immunità sovrana di un galeone naufragato sulle sue coste, «dipende se il Paese proprietario abbia ratificato le convenzioni internazionali che includono questa figura», spiega a Il Giornale Pedro Maura di Meana Green Maura & Corporation, studio legale specializzato in contenziosi sui tesori marini. Colombia e Perù hanno le coste piene di galeoni affondati spagnoli e portoghesi, ma non hanno approvato le convenzioni internazionali, mentre Spagna e Portogallo sì. In assenza di regole internazionali, il tribunale usa le leggi nazionali. Molte dispute sono di stati che all'epoca del naufragio non esistevano, come il Perù che rivendicava un carico di monete d'argento coniate quando era una colonia dell'Impero spagnolo. I giudici, infatti, attribuiscono il carico al Paese che lo rivendica come patrimonio storico. E molto spesso, Odyssey (e altri cacciatori) adottano la tecnica di non rivelare mai il nome della nave affondata, ma solo gli oggetti recuperati. E ce ne sono ancora per 100 miliardi.
A caccia del mitico canale dei Faraoni come Indiana Jones. Grazie all'ambasciata e all'Istituto di cultura italiano del Cairo ci sono 20 missioni archeologiche, tra cui gli scavi per l'antica idrovia verso il Mar Rosso. Marco Valle, Domenica 28/06/2020 su Il Giornale. Un lungo, intenso amore lega l'Italia all'Egitto dei faraoni. Lo ricordano a Roma gli obelischi, a partire dal Cinquecento rialzati dai pontefici, le magnifiche collezioni dei Musei Vaticani ma, soprattutto, gli allestimenti radicalmente rinnovati nel 2015 del Museo Egizio di Torino, il più antico del mondo. Un'esposizione voluta nel 1832 da re Carlo Felice che acquisì la preziosa collezione di Bernardino Drovetti, un diplomatico piemontese arrivato in Egitto al seguito di Napoleone e considerato, al pari del suo rivale padovano Giovanni Battista Belzoni, uno dei padri della moderna egittologia. All'avventuroso veneto, al quale la sua città ha appena dedicato una splendida mostra, si deve invece la scoperta nel 1817 del tempio di Abu Simbel, il ritrovamento, nel 1818, della tomba di Sethi I nella Valle dei Re e l'apertura dell'entrata nella piramide di Chefren. Esplorazioni pioneristiche alle quali, tra Ottocento e Novecento, seguirono campagne scientifiche sempre più strutturate e fruttuose. Ricordiamo in particolare quelle di Ernesto Schiaparelli, al tempo direttore dell'Egizio, a cui si devono scoperte straordinarie come la tomba di Nefertari nella Valle delle Regine. In occasione dello sbarramento di Assuan e la formazione del lago Nasser, restano negli annali le straordinarie imprese delle ditte italiane per salvare il patrimonio archeologico minacciato dall'innalzarsi delle acque del Nilo; tra il 1960-68 Salini Impregilo spostò e mise in sicurezza i templi di Abu Simbel e tra il 1975-1980 le aziende Mazzi e Condotte d'Acque salvarono il complesso di File. Operazioni titaniche a cui contribuirono le migliori eccellenze nazionali: ingegneri, tecnici, topografi dell'Istituto Geografico Militare e tanti scienziati. Un magnifico esempio di «soft power» tricolore che tutt'oggi prosegue con successo. Con l'appoggio dell'Istituto Italiano di Cultura del Cairo e dell'ottimo ambasciatore Giampaolo Cantini, sono oltre venti le missioni archeologiche oggi operanti su tutto il territorio egiziano, da Assuan e Luxor al Delta, sul Mediterraneo e nei pressi del Canale di Suez. E proprio accanto all'idrovia progettata nell'Ottocento dal trentino Luigi Negrelli è al lavoro una missione interdisciplinare del Consiglio Nazionale delle Ricerche Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale (ISPC) impegnata nella ricerca del mitico «Canale dei faraoni» di cui parlò Erodoto e poi Strabone e, in epoca romana, Plinio il Vecchio. Si trattava di un tracciato navigabile che sfruttava le piene del Nilo e s'inoltrava dal delta sino al Cairo per proseguire verso sud e sfociare nel Mar Rosso presso l'attuale Suez. Per secoli, sebbene in modo intermittente, l'arteria liquida assicurò i traffici tra il Mediterraneo e l'Oriente sinché, dopo la conquista araba dell'Egitto, nel 767 d.C. il califfo el-Mansour ne ordinò l'interramento e se ne persero le tracce. Nel 2012 la missione, guidata dalla professoressa Giuseppina Capriotti Vittozzi e attualmente da Andrea Angelini, ha individuato nel sito di Tell el Maskuhuta, 17 chilometri a ovest di Ismailia, il luogo adatto per le ricerche. Una scelta non casuale ma basata su tecniche assolutamente innovative fornite dall'Agenzia Spaziale Italiana. Quest'inedita sinergia tra eccellenze italiane ha permesso il telerilevamento satellitare (il SatER, Satellite Remote Sensing in support to the Egyptological Research), che consente la lettura di immagini rilevate da strumenti imbarcati sui satelliti dell'ASI, i COSMO-SkyMed utilizzati anche dall'European Space Agency e dalla Scuola di Aerocooperazione del Ministero della Difesa. Come spiega la professoressa Capriotti: «Il radar imbarcato (Synthetic Aperture Radar) invia verso il suolo fasci di impulsi elettromagnetici nelle microonde durante il volo orbitale. L'interazione tra gli impulsi emessi e la superficie terrestre genera nella maggioranza dei casi la ridistribuzione dell'energia radar in varie direzioni e, quindi, anche verso il satellite stesso. L'ampiezza e la fase delle eco di ritorno degli impulsi sono misurate insieme al tempo di ritorno del segnale e costituiscono l'informazione di base. I valori di ampiezza sono utilizzati per generare immagini, nelle quali i valori radiometrici illustrano le caratteristiche di rugosità, costante dielettrica e umidità della superficie e degli oggetti illuminati, mentre i dati relativi ai valori di fase sono elaborati per estrarre informazioni topografiche tramite tecniche interferometriche. Pertanto, applicando la interferometria SAR ai dati è possibile ricostruire la tridimensionalità del terreno». Le informazioni ricevute dal cielo sono state confrontate con le prospezioni geofisiche, condotte in collaborazione con l'Università del Molise. In una sorta di gigantesca scansione di aree non ancora scavate, è stata utilizzata la metodologia elettromagnetica induttiva attraverso l'uso del Profiler. Ne è scaturita una mappa di anomalie che facevano intuire strutture sepolte. Infine nel gennaio 2016 è stata ritrovata la struttura di una fortezza grande almeno 200 per 300 metri sicuramente uno dei crocevia dell'antica idrovia, come ha confermato il materiale ceramico ritrovato munita, come racconta la docente, «da possenti muri perfettamente conservati, larghi fino a 8 metri e alti più di 6». Ma le sorprese non erano terminate: nel 2017 in una duna vicina è stato ritrovato un enorme muro, alto ancora circa 8 metri fuori terra e spesso 22 metri. Forti dei risultati ottenuti e delle tecniche impiegate, i nostri «Indiana Jones» continuano la caccia al canale faraonico. Senza mai rinunciare, come sottolinea con orgoglio la professoressa Capriotti, «all'occhio dell'archeologo, che resta sempre fondamentale in ogni scavo».
Messico, tre scheletri raccontano vita e sofferenze dei primi schiavi africani d'America. Il ritrovamento è avvenuto nella capitale nel 1992 durante i lavori per la metropolitana. Un'anomalia nei denti ha incuriosito i ricercatori: erano appuntiti artificialmente, pratica africana. L'analisi del Dna ha confermato la provenienza dal continente nel Sedicesimo secolo. Francesco Consiglio l'08 maggio 2020 su La Repubblica. In Messico un team di studiosi ha esaminato tre scheletri ritrovati in una fossa comune e ha scoperto che si tratta di tre schiavi africani del XVI secolo, probabilmente tra i primi ad essere stati trasportati dagli europei in America dopo la scoperta del continente. Le informazioni ricavate dall’analisi delle ossa hanno reso possibile la ricostruzione della loro vita, aiutando a far luce sulla storia della schiavitù africana in America. Un passato fatto di sofferenze, malattie e violenze, che collega tre continenti e vede protagonisti i conquistadores spagnoli del Cinquecento. Le ricerche sono iniziate quando Rodrigo Barquera del tedesco "Max Planck Institute for the Science of Human History" ha notato qualcosa di anomalo sui denti di tre teschi che erano stato scoperti nel 1992 in una fossa comune a Città del Messico durante gli scavi per la nuova linea della metropolitana. I denti erano stati appuntiti artificialmente, pratica che li collegava ad alcune antiche tradizioni africane, e i resti umani erano stati ritrovati nei pressi dell’ospedale reale di San José de los Naturales, costruito nel 1530 per combattere le epidemie che stavano distruggendo la popolazione indigena. Un team di studiosi ha quindi approfondito le indagini e ha condotto analisi osteologiche, genetiche e isotopiche. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Current Biology e hanno rivelato molte informazioni riguardo la prima generazione di schiavi africani trasportati in America. I tre uomini, tutti morti tra i 25 e i 35 anni, hanno vissuto in un periodo compreso tra il 1436 e il 1626, e hanno sofferto di traumi e malattie. Inoltre l’analisi del Dna conservato nei denti ha svelato che erano tutti nati in Africa, in particolare nella parte meridionale o occidentale del continente. Deformazioni ossee causate da carichi eccessivi e segni di malnutrizione, hanno confermato che si trattava di schiavi brutalizzati da un’esistenza ai limiti delle possibilità umane. L’analisi del Dna ha evidenziato inoltre che questi individui soffrirono di malattie come l’Epatite B e la Framboesia. La scoperta non è di poco conto, poiché gli studiosi hanno trovato nei segni genetici di queste patologie delle somiglianze con i ceppi africani, fatto che testimonia come i primi schiavi fossero responsabili dell’introduzione di queste malattie in America. Mentre è risaputo che furono gli europei a portare nel Nuovo Mondo a bordo delle caravelle virus mortali per gli indigeni, poco si conosce sui patogeni che viaggiarono direttamente dall’Africa. Per uno strano gioco del destino, le stragi causate dalle nuove malattie decimarono la popolazione locale rendendo necessario l’importazione massiccia di schiavi africani. Una storia, quella della tratta transatlantica degli schiavi, che iniziò nel 1518 quando Carlo I di Spagna autorizzò il trasporto dei primi africani nel Vicereame della Nuova Spagna, e che finì solamente dopo il 1860, con l’abolizione della schiavitù in gran parte dell’America. Oggi, tre di quei milioni di africani deportati con la forza dalle loro terre (tra i 10,6 e i 19,4 milioni secondo lo studio), possono raccontarsi, spiega alla Cnn il ricercatore Rodrigo Barquera: “Sapere che erano schiavi africani di prima generazione porta a una nuova prospettiva, perché sappiamo con certezza che sono stati rapiti e che hanno sofferto duramente nel corso della loro vita”.
Spagna, scoperto il campo di battaglia dove avvenne la vittoria che diede inizio al mito di Annibale. Dopo anni di ricerche, un team di studiosi ha affermato di aver scoperto il luogo dove avvenne la prima grande vittoria del generale cartaginese, sulle rive del fiume Tago. Francesco Consiglio l'1 maggio 2020 su La Repubblica. All’origine del mito dell’invincibile Annibale Barca. In Spagna, dopo anni di ricerche, un team di studiosi ha affermato di aver scoperto il luogo dove avvenne la prima grande vittoria del generale cartaginese. Un successo militare, reso possibile dal genio del condottiero, che amplificò la sua reputazione, aprendo la strada alla spedizione verso l’Italia, che portò Roma sull’orlo del collasso in quella che passò alla storia come Seconda guerra punica. I fatti avvennero nel 220 a.C., due anni prima dell'attraversamento delle Alpi con gli elefanti, sul fiume Tago tra le città di Driebes e Illana, 80 chilometri a Est di Madrid, e si trattò di un successo insperato. Il 27enne cartaginese, riportano Tito Livio e Polibio, con soli 25 mila uomini e 40 elefanti da guerra sconfisse una coalizione iberica, formata da carpetani, vettoni e olcadi (popolazioni locali sottomesse dai punici) che contava fino a 100 mila soldati. Gli storici dell’antichità parlavano di una zona non definita sul fiume Tago, ed ora gli studiosi sono riusciti a localizzare il luogo della battaglia che sancì il predominio punico sull’odierna Spagna. Si tratta dei risultati dello studio “Datos históricos, arqueológicos y geológicos para la ubicación de la batalla de Ánibal en el Tajo”, condotto da un team interdisciplinare formato da archeologi e geologi. Impresa non semplice visto che con i suoi 1008 chilometri il Tago è il corso d’acqua più lungo della Penisola Iberica. Dalle sorgenti nella Sierra de Albarracín in Aragona, il fiume, dopo aver attraversato Toledo e poi il Portogallo, si apre nel suo grande estuario e sfocia nell’Oceano atlantico, presso Lisbona. Lo studio entra nel dettaglio e spiega che le truppe di Annibale sarebbero cadute in un’imboscata mentre tornavano a Cartagena, dopo aver conquistato Helmántica, l’odierna Salamanca. Furono i carpetani approfondisce El País, “che conoscevano alla perfezione la zona” a decidere il luogo dell’agguato, spiega Emilio Gamo Pazos autore dello studio e archeologo del Museo Nazionale di Arte romana. Le truppe dei confederati iberici assaltarono i cartaginesi, ma il vantaggio iniziale dato dall’elemento sorpresa e dalla superiorità numerica venne ribaltato dall’astuzia del generale. Annibale, evitando lo scontro frontale, finse una ritirata e fece innalzare rapidamente delle fortificazioni costringendo gli attaccanti ad attraversare il fiume e a combattere in alcuni stretti guadi del Tago. Accalcati e trascinati dalla corrente d’acqua, gli iberi vennero travolti dalla cavalleria punica o calpestati dagli elefanti da guerra. Gli attaccanti si trasformarono poi in difensori, quando Annibale decise di passare al contrattacco mettendo in fuga i nemici. Gli studiosi sono arrivati alla localizzazione dell’antico campo di battaglia unendo le indicazioni fornite da Livio e Polibio, insieme ai moderni studi geologici che hanno calcolato, considerando le vie di comunicazione coeve e la necessità di spostare 40 elefanti, il percorso più logico che l’esercito di Annibale avrebbe intrapreso per tornare a Cartagena. A confermare la scoperta, il ritrovamento dei resti di alcune fortificazioni e di un fossato utilizzati probabilmente da Annibale in quell’occasione.
Alessandro Magno, una fiamma sulla terra che conquistò il mondo intero. Alessandro Magno plasmò la sua vita su quattro modelli: Dioniso, Ercole, Achille e Ciro il grande di Persia. Fino a quando non diventò egli stesso un esempio. Matteo Carnieletto, Domenica 26/04/2020 su Il Giornale. Siamo intorno al 60 a.C. e Giulio Cesare si trova in Spagna. La congiura di Catilina ha da poco sconvolto Roma e il futuro imperatore sta cercando di costruire il proprio domani. Non può sapere cosa accadrà nel giro di pochi anni. Non può sapere che arriverà a stravolgere la storia di Roma e del mondo. Ora può solo sperare e desiderare. Un aneddoto, raccontato da Plutarco, può aiutarci a comprendere meglio l’animo di Cesare: “In un momento di riposo, si diede a leggere un libro sulle imprese di Alessandro, e per parecchio tempo rimase concentrato in se stesso, poi anche pianse; gli amici, colpiti, gliene chiesero il motivo, ed egli: ‘Non vi pare che valga la pena di addolorarsi se Alessandro alla mia età già regnava su tante persone, mentre io non ho ancora fatto nulla di notevole?’”. Questo era Cesare. Ma questo, soprattutto, era Alessandro. Alessandro non era un uomo qualunque. Lo si capiva dagli occhi, uno azzurro e uno marrone, e dal suo temperamento, sempre pronto a dominare. Scrutava il cielo, inclinando il collo a sinistra e pareva interessato più agli auspici che alla terra. Non era bello. Secondo il racconto fornitoci dagli storici era piuttosto basso e tozzo, ma i suoi occhi sapevano penetrarti l’animo e indicavano un destino già segnato e plasmato da sua madre Olimpiade: annientare l’impero persiano. Plutarco ce lo descrive come impulsivo e con un cuore ardente, paragonabile alle regioni più torride della terra, “dove cresce la maggior quantità e la migliore qualità di aromi”. E proprio di aromi e profumi Alessandro amava cospargersi il capo e il corpo. Ma non solo. Amava leggere e grazie alla lettura plasmò il proprio destino, come scrive Pietro Citati nel suo Alessandro Magno (Adelphi): “Egli volle imitare qualcosa che era stato, e che molti credevano morto. Con tutta la forza della passione, pose davanti agli occhi della sua mente una moltitudine di figure divine ed eroiche, e cercò di risuscitarle e di reincarnarle nella propria vita. Il suo tentativo non fu né il primo né l’ultimo, poiché tutta l’antichità classica e cristiana visse di imitazione, ma non era mai stato condotto con tale ardore e tanta grandiosa grandezza”. I suoi modelli erano quattro: Dioniso, Ercole, Achille e Ciro il grande di Persia. Da tutti apprese qualcosa. Tutti cercò di imitare. Sua madre Olimpia lo aveva iniziato ai banchetti e alle orge. Al rapimento e all’estasi. “Da Dioniso – scrive Citati – Alessandro prese l’estrema mobilità, che lo trasformò in un re vagabondo, la cui vera reggia era una tenda: il desiderio e l’ansia di superare ogni limite, e quella furia di lacerazione, che ogni tanto irrompeva terribilmente nella sua vita”. Da Achille, Alessandro apprese due passioni – l’ira funesta e l’amicizia più disinteressata – e da Ercole, suo leggendario avo, la capacità “di sopportare con ostinata pazienza tutti i dolori del mondo; le sofferenze rapide e violente della guerra, e le sofferenze interminabili della fame, della sete, della fatica e della disperazione”. E infine Ciro, l’unico modello non greco di Alessandro. Da lui apprese “la liberalità verso le tradizioni e le religioni dei popoli dominati. Non conobbe né vincitori né vinti: né persiani né macedoni né greci né barbari; ma solo dei sudditi, che possedevano eguali diritti”. Alessandro visse solamente 33 anni. Fu una fiamma sulla terra. Ma del resto non poteva essere altrimenti. Sua madre Olimpia racconta che, prima di concepirlo, sognò un fulmine che le cadeva nel grembo, “e di lì scaturiva un fuoco ardentissimo, che lanciava fiamme verso ogni parte dell’orizzonte, e poi si spegneva”. E così fece per tutta la sua vita Alessandro: visse ardendo e bruciando in ogni luogo. Fino a spegnersi con un soffio.
· Musei. Colosseo, Uffizi e Pompei sul podio.
Edoardo Sassi per il “Corriere della Sera - ed. Roma” il 6 marzo 2020. Dopo le attese, gli annunci, le conferenze di presentazione, perfino un lancio dal palco dal festival di Sanremo e qualche polemica (le dimissioni in blocco del comitato scientifico del museo degli Uffizi di Firenze) ieri si è finalmente inaugurata (niente vernissage per via del coronavirus, solo una presentazione alla stampa comunque assiepata da centinaia di persone) la mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale, l' esposizione promossa nell' ambito delle celebrazioni per i 500 anni dalla morte dell' artista. Una mostra con ventinove quadri del genio Urbinate. E un centinaio di suoi disegni. Più un nutrito corredo con almeno altrettante opere di «contesto» e non di mano del Sanzio: archeologia, libri, autografi, plastici, arti applicate, medaglie, documenti, manoscritti, quadri e disegni di altri, collocabili in un arco cronologico che risale fino all' antichità e arriva almeno fino al XIX secolo. Il tutto impaginato con un percorso a ritroso nel tempo, che parte dalla morte dell' artista - ad accogliere il visitatore è la riproduzione della sua tomba al Pantheon, grandezza naturale - e giunge alla giovinezza del pittore. Inversione temporanea sottolineata anche nel titolo scelto, a date «rovesciate»: Raffaello 1520-1483 , a curata di Marzia Faietti e Matteo Lafranconi. Anche per l' allestimento non si è scelta una classica partizione «a blocchi» prevalenti sul modello Raffaello pittore, Raffaello disegnatore, Raffaello architetto e il resto a parte. Bensì una successione di temi e rimandi - l' antichità come fonte, in primis - con tele e tavole del Sanzio (quasi sempre solo, o con aiuti) alternate al resto. Disegni a parte - una raccolta con molte meraviglie, in cui spicca un' ampia silloge di fogli prestati dalla regina Elisabetta d' Inghilterra - l' elenco dei 27 quadri di Raffaello, già annunciato, include opere celeberrime che appartengono alla storia universale, non solo dell' arte. Tra le altre, a inizio percorso, si incontrano l' Autoritratto con amico e il Ritratto di Baldassarre Castiglione , i due prestiti del museo del Louvre. Subito a seguire, il grande e straordinario Ritratto di papa Leone X con i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi , restaurato per l' occasione, in arrivo dagli Uffizi (è il quadro il cui prestito ha causato le dimissioni del Comitato scientifico del museo). Il volto dell' altro papa legatissimo alla biografia del pittore, Giulio II, campeggia invece al secondo piano della mostra. Tante, le celebri donne e Madonne: la Madonna del Granduca , la Velata , la Fornarina , la Dama con liocorno , la Madonna Alba da Washington, quella della Rosa dal Prado o la Madonna Tempi da Monaco di Baviera. A chiudere - tanto iconico, quanto universale - l' Autoritratto giovanile.
Scontro sul “Leone X” di Raffaello a Roma, il direttore degli Uffizi: «Il Comitato si dimette? Non ci mancherà». Il Dubbio il 26 febbraio 2020. Dimissioni di massa dopo la scelta di prestare l’opera alle Scuderie del Quirinale. Le senatrici del M5s: «Gravi le parole di Schmidt». «Gli Uffizi, vanno comunque avanti con il loro grande lavoro scientifico: quel Comitato, insediato lo scorso giugno e dedito a battaglie politicizzate ed ideologiche, non ci mancherà affatto». Lo scontro ormai è a viso aperto e non ne fa mistero il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, che ha deciso di reagire a muso duro alle dimissioni in blocco dei componenti del comitato scientifico, composto da Donata Levi, Tommaso Montanari, Fabrizio Moretti e Claudio Pizzorusso. Una decisione forte, presa come forma di protesta dopo la decisione di prestare il “Ritratto di Papa Leone X” di Raffaello – recentemente restaurato da parte dell’Opificio delle Pietre dure – alle Scuderie dei Quirinale per la grande mostra dedicata all’urbinate nel 500enario della sua morte. L’opera si trova in realtà già a Roma a pochi giorni dall’inaugurazione della mostra, che prenderà il via il 5 marzo. Il Comitato scientifico aveva motivato la propria contrarietà con una lettera, datata 9 dicembre 2019, nella quale i professori avevano sottolineato come l’opera fosse stata inclusa nella lista delle 23 opere amovibili, lista che era stata approvata dallo stesso Schmidt e nella quale erano state inserite le opere considerate fragili o speciali, per il loro carattere “fortemente identitario”, come nel caso del “Leone X”. Ma sul punto il direttore degli Uffizi si è dimostrato inamovibile: «La mostra su Raffaello è un evento culturale epocale, sarà uno dei motivi di orgoglio dell’Italia nel mondo e non poteva fare a meno del Leone X – ha chiarito -, un capolavoro tra l’altro in ottima salute dopo il restauro fatto dagli specialisti dell’Opificio Opere Dure». La mostra, che sarà inaugurata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 3 marzo, darà il via alle celebrazioni per il quinto centenario dalla morte dell’artista urbinate, avvenuta il 6 aprile 1520 a Roma, all’età di appena 37 anni. L’esposizione è stata presentata ieri al Mibact da Mario De Simoni, presidente delle Scuderie del Quirinale, da Schimdt, che ha “prestato” una cinquantina di opere tra dipinti e disegni restaurati, e dai curatori Marzia Faietti e Matteo Lanfranconi. La mostra monografica, con oltre duecento capolavori tra dipinti, disegni ed opere di confronto, trova ispirazione particolarmente nel fondamentale periodo romano di Raffaello che lo consacrò quale artista di grandezza ineguagliabile e leggendaria, raccontando con ricchezza di dettagli tutto il suo complesso e articolato percorso creativo attraverso un vasto corpus di opere, per la prima volta esposte tutte insieme. «Solo nel 2019 – ha sottolineato Schmidt – le Gallerie, con i loro funzionari e i studiosi, hanno messo nero su bianco oltre 6.500 pagine di ricerche scientifiche, che sono andate a comporre una trentina di volumi, organizzato quattro convegni di studio e decine di conferenze aperte al pubblico. Anche in questo stesso momento agli Uffizi, insieme a tutti i nostri valenti funzionari ed esperti, stiamo portando avanti tanti nuovi progetti di grande valore: continuiamo e continueremo a farlo, comitato scientifico o meno». Parole che hanno alimentato una polemica destinata a durare a lungo, arrivata addirittura in Senato: «Le dichiarazioni del direttore degli Uffizi a seguito delle dimissioni in blocco dei componenti del comitato scientifico del museo fiorentino – hanno commentato con una nota le senatrici del Movimento 5 Stelle in commissione Cultura – sono inopportune e – duole dirlo – offensive. Il messaggio culturale che emerge appare francamente pericoloso, perché può lasciare intendere che il lavoro e il ruolo dei comitati scientifici sia inutile e bypassabile in ogni caso. Suggeriamo maggiore responsabilità. Segnaleremo inoltre presso le opportune sedi che è necessario sanare conflitti interpretativi sulle norme che riguardano l’uscita di beni culturali, perché c’è il rischio di esporre il patrimonio artistico italiano a scelte inadeguate se non addirittura a potenziali danni».
Laura Larcan per il Messaggero il 26 febbraio 2020. Si spengono, si fa per dire, i riflettori stasera sulla Cappella Sistina con lo smontaggio dei dieci colossali arazzi di Raffaello dalle pareti, dopo una settimana di esposizione da sindrome di Stendhal, ed ecco che altri riflettori si accendono sulle Scuderie del Quirinale. I lavori fervono negli uffici dell'istituzione del Colle per mettere a punto gli ultimi dettagli dell'attesa grande mostra dedicata al Divin Pittore nell'anniversario dei 500 anni dalla morte, pronta ad inaugurare il 4 marzo. E sembra proprio che la figura di papa Leone X de' Medici sia il trait d'union per questo passaggio di testimone.
IL PERSONAGGIO. Fu lui, raffinato e colto mecenate, a commissionare a Raffaello il ciclo degli arazzi per la Sistina con le storie dei Santi Pietro e Paolo, inaugurato il 26 dicembre del 1519 (quattro mesi prima della sua morte), ed è sempre lui il protagonista di un capolavoro assoluto dell'artista che arriverà dagli Uffizi. Sguardo intenso, vigile, acuto, il mento gonfio e un naso largo, eccolo il Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de' Medici, il futuro Clemente VII, e Luigi de' Rossi, quadro che il pontefice chiese a Raffaello in occasione delle nozze del nipote Lorenzo con Maddalena de la Tour d'Auvergne, celebrate l'8 settembre del 1518. Non potendo intervenire alla cerimonia, l'opera fu appesa nella sala del banchetto nuziale. Il quadro si aggiunge alla lista di illustri prestiti che arriveranno in forze da Firenze, visto che le Gallerie degli Uffizi guidate da Eike Schmidt fanno la parte del leone nell'esposizione.
CONTRIBUTI. Non a caso il Ritratto di Leone X si va ad aggiungere ai contributi della Velata, dell'Autoritratto, della Madonna del Granduca, del San Giovannino e di quasi quaranta disegni (ma non lasceranno l'Arno i ritratti dei coniugi Doni, la Madonna della Seggiola e la Madonna del Cardellino). E dalla Galleria Palatina potrebbe però aggiungersi alla lista, scelta dell'ultima ora, anche il Ritratto del cardinal Bibbiena Quello che è sicuro è che l'evento, che sarà presentato domani dal ministro Dario Franceschini insieme a Schmidt e al presidente di Ales Mario De Simoni alla guida delle Scuderie del Quirinale, punta a orchestrare quasi duecento opere, di cui un centinaio tra quadri e disegni di mano del Divin Pittore. E con il Ritratto di Leone X ci sarà anche in mostra la testimonianza della lettera che Raffaello scrisse al pontefice, insieme a Baldassarre Castiglione, nel 1519, con l'appello per la conservazione dei monumenti di Roma, frutto del lavoro di Raffaello come prefetto delle antichità di Roma con la nomina del papa nel 1515. Un documento che viene considerato uno dei cardini della storia della tutela archeologica. Potrebbe essere esposta la minuta dello stesso Castiglione, conservata a Mantova, oppure il manoscritto di Monaco di Baviera (noto come manoscritto B). E nella golden list delle opere figura anche il Cristo benedicente, prestito della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, un capolavoro giovanile che intreccia influenze del Perugino e di Antonello da Messina. Si attendono prestiti dall'estero. Dalla National Gallery di Londra arriva Il sogno del Cavaliere (tavola del 1503-1504), che sarebbe stata realizzata per la nascita di un giovane nobile romano, e passata non a caso nella collezione Borghese, per poi volare in Inghilterra nel Settecento.
TRASFERIMENTO. Roma per Roma, i contributi illustri non mancano. Salutata la Cappella Sistina, per esempio, l'arazzo con la scena del Sacrificio di Listra sarà trasferito alle Scuderie del Quirinale, in stretta collaborazione con i Musei Vaticani, mentre la Galleria Borghese garantisce la sua Dama con il liocorno e da Palazzo Barberini farà la sua parata la Fornarina. Sempre dall'estero, sfilano la Madonna Alba dalla National Gallery di Washington e la Madonna della Rosa dal Prado, mentre il Louvre offre i due gioielli: il Ritratto di Baldassarre Castiglione e l'Autoritratto con un amico. E a Roma si vedrà anche la Santa Cecilia dalla Pinacoteca di Bologna.
GLI APPUNTAMENTI. A tessere le fila dei prestiti, tutta l'équipe del progetto espositivo, con i curatori Marzia Faietti e Matteo Lafranconi, il contributo di Vincenzo Farinella e Francesco Paolo Di Teodoro e il comitato scientifico, dove spicca anche Antonio Paolucci. A corredo della rassegna, Raffaello potrà contare a Roma anche su altri appuntamenti. Dal 24 marzo sarà la Domus Aurea a rendere omaggio a Raffaello e all'invenzione delle grottesche: cuore dell'evento sarà la Sala ottagona e i cinque ambienti che si aprono lungo il perimetro coinvolti da istallazioni multimediali. Per l'occasione sarà aperta una nuova galleria di accesso alla reggia di Nerone. Dal 25 aprile, una rassegna di disegni e documenti nella Villa romana a Capo di Bove, poi, racconterà l'attività di Raffaello svolta sull'Appia Antica come prefetto delle antichità.
LAURA MONTANARI per repubblica.it il 26 febbraio 2020. Gli Uffizi concedono in prestito il Leone X di Raffaello alle Scuderie del Quirinale a Roma in vista della mostra che si aprirà il prossimo 5 marzo e scoppia la polemica. Si dimette in blocco il comitato scientifico degli Uffizi. In una lettera inviata al Ministero dell'università e al Comune di Firenze, cioè gli enti che li hanno nominati, Donata Levi, Tomaso Montanari, Fabrizio Moretti e Claudio Pizzorusso, spiegano di aver lavorato per mesi alla compilazione della lista delle opere d'arte considerate come inamovibili dal museo fiorentino: 23 in tutto, lista approvata dallo stesso direttore Eike Schmidt. E invece ecco di Leone X va in prestito. Secondo Montanari, Levi, Moretti e Pizzorusso, quell'opera di Raffaello non doveva muoversi da Firenze e invece Schmidt fa sapere perchè il dipinto appena restaurato dall'Opificio delle Pietre dure con un finanziamento Lottomatica può essere esposto alle Scuderie: "Rivendico pienamente il patriottismo di questa decisione, in difformità con quanto suggerito dal comitato consultivo delle Gallerie degli Uffizi: la grande mostra su Raffaello, un evento culturale epocale sarà uno dei grandi motivi di orgoglio dell'Italia nel mondo intero quest' anno, non poteva fare a meno del Leone X , un capolavoro che tra l'altro è in ottima salute e in perfetta condizione di viaggiare a Roma dopo essere stato restaurato dagli specialisti dell'opificio delle Pietre Dure. Gli Uffizi sono orgogliosi di aver potuto instaurare questa collaborazione straordinaria con il Quirinale e di poter contribuire, con tutte le nostre forze scientifiche e con una cinquantina di opere, ad una esposizione che già fin da ora è destinata ad entrare nella storia della museologia mondiale". Il direttore parla di "attacco strumentale" e aggiunge: "Appena tre anni fa il dipinto, prima del restauro, fu mandato proprio alle Scuderie del Quirinale per una mostra. Allora nessuno (e nessun comitato) ebbe niente da ridire. Ma oggi, evidentemente qualcuno aveva voglia di visibilità a spese di Raffaello e dell'orgoglio italiano". Dall'altra parte, nessuno discute l'importanza della mostra su Raffaello, nè il valore del dipinto: "Il fatto è che stamattina noi del comitato scientifico ci siamo riuniti a Firenze con il direttore degli Uffizi per discutere di un'altra lista di opere inamovibili da aggiungere a quella delle 23, ma abbiamo appreso dai giornali che il Leone X era già stato concesso in prestito a Roma, malgrado fosse inamovibile. Dunque che senso ha?" ha spiegato lo storico dell'arte Tomaso Montanari. Così i quattro hanno presentato le loro dimissioni in blocco in una lettera in cui si legge che il comitato scientifico era da mesi "impegnato nella redazione di due liste di opere inamovibili, una per quelle appartenenti al fondo principale dei vari musei delle Gallerie, l’altra per quelle fragili sul piano conservativo. Nella riunione del 21 ottobre il Comitato aveva approvato, su proposta del direttore Schmidt, una prima lista di 23 opere inamovibili per appartenenza al fondo principale (facendo propria quella redatta nel 2009 dal precedente direttore Antonio Natali). La lista comprende al n. 19 il ritratto di Leone X con i cardinali di Raffaello". Nel verbale si parla di "opere inamovibili in assoluto per motivi identitari”, obbligo che naturalmente si riferisce alle decisioni del direttore e che vale appunto “in assoluto”, cioè anche per prestiti all’interno del territorio italiano" è la lettura del Comitato scientifico dimissionario. In una riunione del 9 dicembre scorso i quattro membri del comitato avevano espresso all'unanimità parere contrario al prestito del dipinto di Raffaello alle Scuderie del Quirinale: "non si poteva che rispettare la lista approvata due mesi prima. L’ultima riga del verbale recita infatti così: “Permane il diniego del Leone X, nonostante le motivazioni addotte dal Direttore”. Oggi siamo venuti a conoscenza dagli organi di stampa che, contrariamente a quanto deciso nella riunione del Comitato del 9 dicembre, il dipinto è stato concesso in prestito e si trova già presso la sede espositiva a Roma. Siamo perfettamente consapevoli della funzione consultiva del Comitato, ma constatiamo che tenerci occupati per mesi nella discussione di liste che rimangono platealmente inapplicate vanifica l’esistenza stessa del Comitato. Pertanto oggi ci troviamo costretti a prendere atto della situazione e dunque a rassegnare le nostre dimissioni. Pensiamo che le dimissioni collettive del Comitato del più importante museo italiano renda ineludibile un ripensamento e una ridefinizione del ruolo dei Comitati Scientifici nel governo dei musei autonomi". Replica il direttore degli Uffizi: "La lista degli inamovibili fu stesa in chiara risposta all'articolo 66 comma 2 codice dei beni culturali , che disciplina l'esportazione dei beni artistici fuori dal territorio a nazionale. Roma non solo si trova all'interno dell'Italia, ma ne è la capitale". E Marco Ciatti, soprintendente dell'Opificio delle Pietre Dure aggiunge: "Dopo il restauro dell'Opificio delle Pietre Dire, il Leone X di Raffaello è in condizioni perfette, in ottimo stato di conservazione e assolutamente in grado di andare alle Scuderie del Quirinale senza rischio alcuno per la sua "salute". L'intervento di restauro è stato effettuato secondo i più avanzati criteri e metodi a disposizione, il Papa sta benissimo: se tutte le condizioni di sicurezza e tutela richieste per il suo trasferimento e la sua esposizione sono rispettate, non esiste alcuna ragionevole possibilità che gli venga recato danno". Contro il no del comitato scientifico degli Uffizi si muove anche il comitato scientifico della mostra dedicata a Raffaello, composto fra gli altri da Sylvia Ferino, Francesco Paolo Di Teodoro, Vincenzo Farinella che sottolinea come il Ritratto di papa Leone X con i cugini cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi goda "di ottima salute soprattutto dopo l’ultimo intervento dell'Opificio delle Pietre dure finanziato dalla mostra. Nulla di più corretto che presentarlo al pubblico nei suoi colori smaglianti in occasione della grande mostra celebrativa del cinquecentenario della morte di Raffaello, in una sede espositiva in diretta relazione con la presidenza della Repubblica e, dunque, luogo di tutti gli italiani. L’augurio è che quante più persone possibili possano vederlo assieme a tanti altri autografi di Raffaello". Il comitato della mostra prosegue: "La sua collocazione nella sezione che si raccoglie attorno alla Lettera a Leone X, fondamento del moderno concetto di tutela e, dunque, componente primaria del DNA dell’articolo 9 della nostra Carta Costituzionale, esalta ulteriormente il suo valore simbolico a Roma. L’intero progetto scientifico si è focalizzato fin dall’inizio attorno a quest’opera cruciale. In mostra, infatti, il ritratto di papa Leone, che aveva incaricato Raffaello di eseguire una “pianta dell’antica Roma”, eleggendolo anche “prefetto dei marmi”, è circondato da tutte le testimonianze di quell'immane lavoro sull’antico operato dal sommo Urbinate ed è posto in correlazione con il Ritratto di Baldassarre Castiglione (straordinario prestito dal Louvre), il celebre letterato, estensore, con Raffaello, della Lettera a Leone X, documento conservato all’Archivio di Stato di Mantova dopo l’acquisto esemplare da parte dello Stato italiano dell’archivio privato dei conti Castiglioni.”
Musei. Cinquantacinque milioni di visitatori nel 2019, Colosseo, Uffizi e Pompei sul podio. I dati forniti dal Mibact. In evidenza le Marche, i musei di Napoli, che incrementano al pari delle rovine della città sommersa dall'eruzione del Vesuvio e Matera. Tra i siti gratuiti Pantheon a 9 milioni. Dopo anni di crescita a doppia cifra, un 2019 di assestamento. "Complice il maltempo prolungato di primavera che ha fatto disertare i giardini storici". La Repubblica il 25 gennaio 2020. La Top 30 dei musei e dei parchi archeologici statali del 2019 regala conferme e novità, con il podio stabilmente occupato dal Colosseo, con oltre 7,5 milioni di visitatori, in leggero calo rispetto al 2018, le Gallerie degli Uffizi, con quasi 4,4 milioni di ingressi, e Pompei, con circa 4 milioni di presenze, entrambi i siti in ascesa di circa 200 mila unità. Seguono la Galleria dell’Accademia di Firenze e Castel Sant’Angelo, realtà che da molti anni occupano la cima della classifica della Top 30. Tra i primi cinque istituti, in termini assoluti da segnalare la crescita di Pompei che vede aumentare di 160.000 unità i biglietti staccati nei soli scavi.
Franceschini: "Avanti con l'innovazione". “A qualche anno dalla riforma dei musei i risultati straordinari si vedono sempre di più grazie al lavoro dei direttori e di tutto il personale. Più incassi vogliono dire più risorse per tutela e ricerca, servizi museali. Andremo avanti sul percorso dell’innovazione”, ha commentato il ministro peri beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini.
Boom Marche e musei Napoletani. Il 2019 ha visto anche importanti risultati, come il boom della Galleria Nazionale delle Marche, che con circa 70.000 biglietti in più rispetto ai quasi 195.000 visitatori del 2018 segna un +36,8%, sale di sette posizioni e entra al ventiseiesimo posto in TOP 30, dove mancava dal 2012. A seguire una crescita significativa dei musei napoletani, capeggiata dal Museo di Capodimonte, che aumenta del 34,2% i visitatori e con quasi 253.000 ingressi scala quattro posizioni in classifica e entra nella top 30. Significative affermazioni anche per Castel Sant’Elmo, che passa da quasi 225.000 a 267.000 visitatori salendo dal trentesimo al ventisettesimo posto con un +18,7% di ingressi, e per Palazzo Reale, che con una crescita di visitatori dell’11% arriva a oltre 270.000 biglietti staccati che valgono il venticinquesimo posto in classifica, due posizioni in più rispetto all’anno scorso. Bene in termini anche le Terme di Caracalla a Roma, con un aumento del 10,9% dei visitatori sul 2018, e il Castello di Miramare a Trieste, con un +10,7% di ingressi. Buon risultato anche per Palazzo Ducale di Mantova, che da 324.000 visitatori passa a oltre 346.000 ingressi, un incremento del 7% su base annua che gli permette di salire di tre posizioni e piazzarsi al diciottesimo posto in classifica. Complessivamente nei primi trenta musei e parchi archeologici statali sono no entrati nel 2019 quasi 30 milioni di visitatori (circa 700.000 ingressi in più rispetto al 2018 con un incremento del 2,4%) che rappresentano più della metà dei visitatori dell’intero sistema museale statale.
Basilicata ok, "effetto Matera". Non presenti nella Top 30, ma con un’ottima prestazione, da segnalare i musei della Basilicata, che nell’anno di Matera Capitale europea della cultura hanno visto crescere gli ingressi di circa 50.000 unità, con un tasso di incremento prossimo al 20% tanto da poter parlare di un vero e proprio “Effetto Matera” nei principali luoghi della cultura lucani.
Tornano le Domeniche Gratuite e battono la Serie A. Inoltre, dalla loro istituzione nel luglio del 2014 a oggi le domeniche gratuite, recentemente reintrodotte e rese permanenti dal Ministro Franceschini, hanno portato oltre 17 milioni di persone nei soli musei statali, con un effetto volano sugli ingressi a pagamento e con benefici importanti per i musei più piccoli che hanno beneficiato di campagne di comunicazioni nazionali. Un dato sottostimato, perché non tiene conto dei tanti ulteriori visitatori dei musei comunali che hanno aderito contribuendo a fare della #domenicalmuseo un vero e proprio evento culturale per famiglie e cittadini con numerose edizioni da record in cui la presenza nei musei è stata superiore a quella di una giornata di campionato di calcio di “Serie A”.
Pantheon da record tra i gratuiti, oltre quota 9 milioni. Tra gli istituti gratuiti, infine, da segnalare l’exploit del Pantheon, che supera quota 9 milioni di visitatori, con un aumento del 4% pari a circa 400.000 visitatori in più rispetto al 2018. Ottimo risultato anche per il Vittoriano - recentemente reso autonomo insieme a Palazzo Venezia - che cresce del 9% portandosi a oltre 3 milioni di ingressi.
Il maltempo ha frenato la crescita. Dopo anni di continua crescita a doppia cifra il numero dei visitatori dell’intero sistema museale nazionale si assesta intorno ai 55 milioni. Le prime cinque regioni per numero di ingressi sono il Lazio, la Campania, la Toscana, il Piemonte e la Lombardia. L’assestamento è stato causato anche dai numerosi fenomeni di maltempo che hanno caratterizzato l’autunno del 2018 e la primavera del 2019 e che hanno comportato la forte riduzione del numero visitatori soprattutto nei parchi monumentali e nei giardini storici: il Bosco di Capodimonte, ad esempio, ha avuto una consistente riduzione degli ingressi dovuta anche a lunghi mesi in cui ragioni di sicurezza non ne hanno permesso l’apertura e la piena fruibilità.
Musei: nel 2019 visitatori in calo, Colosseo al primo posto. Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Foschi. Si è fermato il trend di crescita del numero di visitatori per i musei e i siti archeologici italiani. Per la prima volta dal 2013 infatti il dato ha segnato una flessione: nel 2019, secondo il report diffuso dal ministero per i Beni culturali, sono stati registrati oltre 55 milioni di ingressi, sotto la soglia record dei 55,5 dell’anno precedente. Il calo è stato attribuito alle ondate di maltempo «che hanno penalizzato i parchi archeologici e siti all’aperto». Inoltre ha pesato la parziale cancellazione delle domeniche gratuite, poi ripristinate e rese permanenti con il ritorno di Dario Franceschini alla guida del ministero a settembre scorso. Al primo posto nella classifica dei siti più visitati c’è sempre il Colosseo, monumento simbolo del Paese, con 7,5 milioni di presenze, circa 100 mila in meno rispetto ad un anno fa. Al secondo posto le Gallerie degli Uffizi - per la prima volta considerate nel loro insieme, cioè con il giardino di Boboli e Palazzo Pitti che si aggiungono alla celeberrima pinacoteca - con 4,5 milioni di visite. «Siamo ai livelli della National Gallery di Washington e dell’Ermitage di San Pietroburgo», ha commentato il direttore del polo fiorentino, Eike Schmidt. Al terzo posto gli Scavi di Pompei, il numero di visitatori passato dai 3,78 milioni del 2018 a 3,93 milioni. La revisione del sistema tariffario (con il rincaro dei biglietti) ha comunque compensato la leggera flessione del numero dei visitatori: gli incassi complessivi hanno segnato un balzo del 5% (pari a circa 12 milioni di euro). Soddisfatto il ministro Franceschini: «A qualche anno dalla riforma dei musei i risultati straordinari si vedono sempre di più grazie al lavoro dei direttori e di tutto il personale. Più incassi vogliono dire più risorse per tutela, ricerca e servizi ». Nel dettaglio, più che positivi i risultati delle Gallerie Nazionali delle Marche (+36,8% ingressi) e dei musei napoletani (Capodimonte +34,2%, Castel Sant’Elmo +18,7%, Palazzo Reale + 11%), ma anche delle Terme di Caracalla a Roma (+10,9%) e il Museo di Miramare a Trieste (+10,7%). Le situazioni più deludenti riguardano la Reggia di Venaria (che perde 120 mila visitatori), la Reggia di Caserta (- 125 mila persone) e a Firenze le Gallerie del Bargello (che perdono 60 mila visitatori). Giù anche la Galleria Borghese a Roma (-40 mila presenze).
Colosseo il più visitato nel 2019. Uffizi e Pompei sul podio dei musei d'Italia. Il Corriere del Giorno il 25 Gennaio 2020. Boom per la Galleria Nazionale delle Marche, +37% in un anno. Oltre 7,5 milioni di visitatori per l’Anfiteatro Flavio, in cima alla classifica. Il ministro Dario Franceschini: “Risultati straordinari”. Da segnalare l’assenza nella Top30 del Museo Marta di Taranto, città che deve ancora capire le potenzialità di proventi economici derivanti dal turismo culturale. Il Colosseo sempre stabilmente al top della classifica con oltre 7,5 milioni di visitatori, seguito dagli Uffizi con 4,4 milioni di ingressi e dagli scavi di Pompei con circa 4 milioni di presenze, 160 mila in più rispetto al 2018. Ai piedi del podio la Galleria dell’Accademia di Firenze e Castel Sant’Angelo a Roma, sono le realtà che da molti anni occupano la cima della classifica della Top 30. La top 30 dei musei e dei parchi archeologici statali elaborata dal Ministero peri beni e le attività culturali e per il turismo offre nel 2019 delle conferme ma anche delle novità, come ad esempio il boom della Galleria Nazionale delle Marche, che registra un più 36,8 per cento e sale di sette posizioni entrando al ventiseiesimo posto della top dove mancava dal 2012. Da segnalare i musei della Basilicata non presenti nella Top 30, ma con un’ottima prestazione, che nell’anno di Matera Capitale europea della cultura hanno visto crescere gli ingressi di circa 50.000 unità, con un tasso di incremento vicino al +20% tanto da poter parlare di un vero e proprio “Effetto Matera” nei principali luoghi della cultura lucani. Si è fermato il trend di crescita del numero di visitatori per i musei e i siti archeologici italiani. Per la prima volta dal 2013, infatti, il dato ha segnato una flessione: nel 2019, secondo il report diffuso dal ministero per i Beni culturali, sono stati registrati oltre 55 milioni di ingressi, sotto la soglia record dei 55,5 dell’anno precedente. Il calo è stato attribuito alle ondate di maltempo “che hanno penalizzato i parchi archeologici e siti all’aperto“. Inoltre ha pesato la parziale cancellazione delle domeniche gratuite, poi ripristinate e rese permanenti con il ritorno di Dario Franceschini alla guida del ministero nel settembre scorso. “Risultati straordinari. Ora bisogna andare avanti sul percorso dell’innovazione ” ha commentato il Ministro peri beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini. “A qualche anno dalla riforma dei musei i risultati straordinari si vedono sempre di più grazie al lavoro dei direttori e di tutto il personale. Più incassi vogliono dire più risorse per tutela e ricerca, servizi museali. Andremo avanti sul percorso dell’innovazione”. Nel 2019 nei primi trenta musei e parchi archeologici statali sono entrati complessivamente quasi 30 milioni di visitatori (circa 700.000 ingressi in più rispetto al 2018 con un incremento del 2,4%) che rappresentano più della metà dei visitatori dell’intero sistema museale statale. La revisione al rialzo del sistema tariffario con il rincaro dei biglietti ha comunque compensato la leggera flessione del numero dei visitatori: gli incassi complessivi hanno segnato un balzo del 5% (pari a circa 12 milioni di euro). Soddisfatto il ministro Franceschini: “A qualche anno dalla riforma dei musei i risultati straordinari si vedono sempre di più grazie al lavoro dei direttori e di tutto il personale. Più incassi vogliono dire più risorse per tutela, ricerca e servizi “. Tra gli istituti gratuiti, da segnalare l’exploit del Pantheon, che supera quota 9 milioni di visitatori, con un aumento del 4% pari a circa 400.000 visitatori in più rispetto al 2018. Ottimo risultato anche per il Vittoriano – recentemente reso autonomo insieme a Palazzo Venezia – che cresce del 9% portandosi a oltre 3 milioni di ingressi. Le situazioni più deludenti riguardano la Reggia di Venaria (che perde 120 mila visitatori), la Reggia di Caserta (- 125 mila persone) e a Firenze le Gallerie del Bargello (che perdono 60 mila turisti). Giù anche la Galleria Borghese a Roma (-40 mila presenze) ed il Museo Marta di Taranto, città che deve ancora capire le potenzialità di proventi economici derivanti dal turismo culturale.
Pompei, la turista restituisce i reperti che aveva rubato 15 anni fa: "Due tumori, disgrazie in famiglia. Chiedo perdono agli Dei". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2020. La "maledizione dei reperti rubati a Pompei". Una turista canadese di 36 anni ha fatto recapitare in forma anonima i "souvenir" trafugati dal sito archeologico campano nel 2005 con una inquietante motivazione: le hanno portato sfortuna. Una tremenda sfortuna. La sua storia ha sconvolto il mondo e oggettivamente ha fatto traballare anche i più razionali e meno scaramantici. Nel pacco rispedito a Pompei c'erano due tessere di un mosaico, un pezzo di ceramica, un paio di frammenti di un'anfora. E una lettera, in inglese, in cui la donna spiegava le disavventure capitate da quando aveva sottratto i reperti per portarli in patria. "Ho avuto un cancro al seno due volte ed il secondo intervento si è tradotto in una doppia mastectomia", mentre la sua famiglia avrebbe patito da allora "privazioni e disgrazie". Per questo la donna ha deciso di "chiedere il perdono agli Dei".
· Arte: le 15 mostre da non perdere nel 2020.
Arte: le 15 mostre da non perdere nel 2020. Dalle celebrazioni per i 500 anni dalla morte di Raffaello alla grande esposizione dedicata al Tiepolo, anche il 2020 sarà un anno costellato da grandi mostre e da importanti eventi artistici e culturali. Rita Fenini il 10 gennaio 2020 su Panorama. Terminato l'anno dedicato alle celebrazioni di Leonardo da Vinci, il 2020 sarà tutto (o quasi) all’insegna di Raffaello Sanzio, spentosi a Roma 500 anni fa, esattamente il 6 aprile 1520. Fra le miriadi di manifestazioni in programma, all' inarrivabile genio artistico dell'Urbinate le Scuderie del Quirinale dedicheranno una "maxi mostra" monografica intitolata semplicemente "Raffaello" (dal 5 marzo al 2 giugno 2020), mentre la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia (dal 3 ottobre al 10 gennaio 2021) esporrà sette copie perugine della "Deposizione Baglioni", dipinta nel 1507 per l’altare di famiglia nella chiesa di S. Francesco al Prato e fatta rubare da Scipione Borghese nel 1608. Ma oltre alle celebrazioni raffaellite, il calendario del 2020 sarà particolarmente ricco di mostre e manifestazioni, che, da Nord a Sud, apriranno splendide finestre sull'Arte, in tutte le sue forme: eccone 15 davvero da non perdere.
1. "Donne nell'arte. Da Tiziano a Boldini " - Brescia, Palazzo Martinengo, dal 18 gennaio al 7 giugno 2020. Una mostra che documenta quanto l’universo femminile abbia giocato un ruolo determinante nella storia dell’arte italiana lungo un periodo di quattro secoli, dagli albori del Rinascimento al Barocco, fino alla Belle Époque.
2. "Georges de La Tour. L'Europa della luce" - Milano, Palazzo Reale, dal 7 febbraio al 7 giugno 2020. Un'esposizione grandiosa, evento imperdibile per chi ama la pittura seicentesca e questo grande artista, a cui Milano dedica la prima monografica italiana.
3. "Memoria e passione. Da Capa a Ghirri. Capolavori dalla Collezione Bertero" - Torino, CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia, dal 20 febbraio al 10 maggio 2020. Straordinaria mostra fotografica, con le immagini più significative della Collezione Bertero, raccolta unica in Italia per originalità dell’impostazione e qualità delle fotografie presenti. Tra le oltre 200 opere in mostra, scatti dei più grandi maestri della fotografia, da Gabriele Basilico a Gianni Berengo Gardin; da Robert Capa a Lisetta Carmi ed Henri Cartier-Bresson.
4. "Ulisse. L' arte e il mito" - Forlì, Musei San Domenico, dal 15 Febbraio al 21 Giugno 2020. Il mito di Ulisse raccontato attraverso capolavori di ogni tempo: dall’antichità al Novecento, dal Medioevo al Rinascimento, dal naturalismo al neo-classicismo, dal Romanticismo al Simbolismo, fino alla Film art contemporanea. Una mostra davvero unica nel suo genere.
5. "Raffaello" - Roma, Scuderie del Quirinale, dal 5 marzo al 2 giugno 2020. Una grande monografica, con in mostra oltre 200 capolavori tra dipinti, disegni ed opere di confronto, che riunisce per la prima volta, tutte insieme, oltre 100 opere di mano di Raffaello (determinante il contributo delle Gallerie degli Uffizi, che ne hanno date in prestito circa 50).
6. Polittico Griffoni di Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti - Bologna, Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni, dal 12 Marzo al 28 Giugno 2020. Uno dei massimi capolavori del Rinascimento italiano torna a splendere nella sua integrità a 550 anni dalla sua realizzazione e 300 dalla sua disgregazione, in un’esposizione che per la prima volta ne riunisce tutte le parti esistenti, grazie agli straordinari prestiti di tutti i Musei proprietari.
7. "Sfida al Barocco. Roma Torino Parigi 1680 - 1750" - Venaria Reale, Reggia di Venaria, dal 13 marzo al 14 giugno 2020. Oltre 200 capolavori provenienti dai più prestigiosi musei e collezioni di tutto il mondo per una mostra imperdibile, un appassionante e sorprendente percorso alla ricerca di un’identità moderna, con la sperimentazione di nuove forme e nuovi linguaggi di comunicazione elaborati tra il 1680 e il 1750 tra Roma, Parigi e Torino.
8. "Prima Donna. Margaret Bourke-White fotografa" - Milano, Palazzo Reale, dal 18 marzo al 28 giugno 2020. Milano celebra Margaret Bourke-White, tra le figure più rappresentative ed emblematiche del fotogiornalismo, attraverso una selezione inedita delle immagini più iconiche (provenienti all’archivio Life di New York) realizzate nel corso della sua lunga carriera.
9. "de Pisis" - Roma, Museo Nazionale Romano. Palazzo Altemps, dal 20 marzo al 20 giugno 2020. Dopo la tappa milanese al Museo del Novecento (autunno 2019), arriva a Roma la retrospettiva dedicata a Filippo de Pisis (1896 - 1956) che restituisce la sensibilità pittorica dell’artista ferrarese e il suo ruolo di protagonista nell’esperienza della pittura italiana tra le due guerre.
10. "Rare Pitture. Da Guercino a Mattia Preti a Palma il Giovane" - Carpi, Modena, Pinacoteca di Carpi /Musei di Palazzo dei Pio, dal 3 aprile al 21 giugno 2020. Una selezione di grandi tele del museo carpigiano, esemplificativa della pittura emiliana del tardo Cinque-Seicento, con dipinti di autori quali Ludovico Carracci, Guercino, Guido Reni, a cui si aggiungerà una serie di quadri di scuola emiliana e veneta del XVI e XVII secolo che ripropongono, talvolta attraverso copie coeve di grande qualità, le opere più celebri dei pittori di scuola bolognese, ma anche del Correggio e di Giorgione, oltre ad autentici capolavori.
11. Marc Chagall “anche la mia Russia mi amerà” - Rovigo, Palazzo Roverella, dal 4 aprile al 5 luglio 2020. Una nuova, importante esposizione monografica su Marc Chagall. Una selezione esemplare di oltre cento opere, circa 70 i dipinti su tela e su carta oltre alle due straordinarie serie di incisioni e acqueforti pubblicate nei primi anni di lontananza dalla Russia, “Ma Vie”, 20 tavole che illuminano la sua precoce e dolorosa autobiografia, e “Le anime morte” di Gogol, il più profondo sguardo sull’anima russa della grande letteratura.
12. "The Torlonia Marbles. Collecting masterpieces"- Roma, Musei Capitolini a Palazzo Caffarelli, dal 4 aprile al 10 gennaio 2021. Novantasei marmi della collezione Torlonia saranno visibili al pubblico in una grande mostra a Roma, nella nuova sede espositiva dei Musei Capitolini a Palazzo Caffarelli di Roma Capitale.
13. "Robert Doisneau" - Rovigo, Palazzo Roverella, dal 26 Settembre al 31 Gennaio 2021. A Robert Doisneau, il grande maestro della fotografia, Rovigo renderà omaggio nell’autunno 2020 attraverso una mostra originale, capace di rivelare al pubblico opere la cui vocazione è quella di catturare momenti di felicità e la vita quotidiana degli uomini e delle donne che popolano Parigi e la sua banlieue, con tutte le emozioni dei gesti e delle situazioni.
14. Pop Art - Milano, Palazzo Reale, da ottobre a Febbraio 2021 (date da definire). Partendo dal Dadaismo e dalla Metafisica - con un focus sul decennio che va dalla fine degli anni cinquanta fino a tutti gli anni sessanta - la mostra milanese ripercorre la storia di questo straordinario movimento artistico, che ha visto tra i suoi protagonisti gli artisti più conosciuti e apprezzati della nuova scena americana e internazionale, da Andy Warhol a Roy Lichtenstein.
15. Giambattista Tiepolo - Milano, Gallerie d’Italia, dal29 ottobre 2020 al 21 marzo 2021. In occasione del250° anniversario della scomparsa, una mostra che ricostruisce la vicenda del grande artista veneziano ed approfondisce i suoi rapporti con la città di Milano, tappa iniziale dell’affermazione del pittore fuori da Venezia.
· L’Arte Nera.
Francesco Bonami per “Robinson - la Repubblica” il 20 gennaio 2020. Da qualche anno il mondo dell' arte - musei, curatori e collezionisti - si è buttato sugli artisti afroamericani nel tentativo di colmare un ritardo di attenzione inspiegabile. Essere un artista nero - ancor più se donna - oggi significa essere al centro di tutte le attenzioni possibili. Se poi la qualità della propria arte è alta, l' attenzione si trasforma in una sorta di esaltazione folle. Alle aste i prezzi degli artisti afroamericani sono saliti alle stelle in un battito di ciglia. Ridurre tutto questo a un fenomeno di moda, a una correttezza politica estrema o ai sensi di colpa dell' uomo bianco nei confronti di una cultura solo poco più di un secolo fa tenuta sotto il giogo della schiavitù e ancora spesso discriminata, è assolutamente riduttivo. Quello che invece dobbiamo chiederci è come mai ci sia stato questo ritardo delle arti visive nell' abbracciare una cultura che negli altri campi - dalla musica con le rivoluzioni del jazz e dell' hip hop alla letteratura e al cinema - ha prodotto grandissimi artisti. Può darsi che il ritardo sia dipeso anche dagli artisti stessi che, come dice David Hammons, guru dell' arte afroamericana e già da tempo beniamino dei più grandi collezionisti mondiali, soffrivano di un complesso razziale che impediva di aprirsi a espressioni creative considerate strumenti non abbastanza diretti e potenti per le proprie rivendicazioni sociali. Una piccola parte del successo attuale può essere ricondotta all' effetto Obama che ha trascinato tutta la cultura afroamericana alla ribalta, portando alla Casa Bianca prima di altri molti artisti oggi super gettonati dalle migliori gallerie. In realtà, quello che spiega meglio questo fenomeno sono la natura e le caratteristiche stesse della produzione artistica. Negli ultimi anni, coccolati dal successo economico e da una grande visibilità, gli artisti "bianchi" hanno perso alcuni elementi fondanti della produzione artistica: primi fra tutti la rabbia creativa e il desiderio di rivalsa sociale. Rabbia e rivalsa che furono anche alla base del successo della generazione di artisti britannici alla fine degli anni ' 80 con un leader - Damien Hirst - arrivato dal sottoproletariato di Bristol alle porte di Buckingham Palace. Ma anche il nostro Maurizio Cattelan, sottoproletario pure lui, è riuscito a scrollarsi di dosso lo stigma sociale arrivando dove è arrivato. Tutto questo, però, si è perso per strada. L' artista bianco di mezz' età ha perso potere e sex- appeal. Di questo sgonfiamento ed imborghesimento del desiderio bianco ha approfittato l' arte afroamericana, che affonda ancora oggi le radici nella rabbia di un popolo schiacciato dall' arroganza e dal senso di superiorità della cultura e del potere bianchi. Così, quando alla rabbia si aggiungono una potenza e un successo creativo eccezionali, il fenomeno finisce di essere fenomeno e diventa un dato di fatto inconfutabile. Oggi la lista degli artisti neri interessanti, bravi e spesso bravissimi è infinita. L' Europa, ma in particolare l' Italia, invece, è rimasta ancora legata al fascino blockbuster di Jean-Michel Basquiat. Abbiamo parlato di David Hammons, il padre spirituale dei giovani artisti afroamericani. La sua arte spazia dal vendere palle di neve ai passanti per strada ad Harlem al ricoprire pietre con capelli raccolti dal pavimento dei barbieri. Ma già negli anni ' 70 stampa corpi umani direttamente sulla carta come nel bacio ( Ebony Kiss) del 1971, chiaro controcanto polemico al quadro di Klimt. La madre spirituale, invece, è Senga Nengudi, che arriva da Chicago. Le sue opere, come R.S.V.P. 1 del 1977, sono sculture che possono diventare attrezzi da performance dove il corpo gioca un ruolo fondamentale e centrale. Due recenti fenomeni sono Kerry James Marshall, anche lui di Chicago, e Mark Bradford di Los Angeles. Marshall ha lavorato per anni ai margini del mondo dell' arte nel suo studio nel south side di Chicago. Da qualche anno è diventato un fenomeno di mercato. Da Sotheby' s un suo dipinto del 1997 è stato comprato per più di 21 milioni di dollari dal rapper e produttore musicale P. Diddy: è la dimostrazione che esiste una nuova aristocrazia nera e ricca capace di fare la differenza anche sul mercato dell' arte contemporanea. Knowledge and Wonder, un enorme dipinto che Marshall aveva donato nel 1995 alla biblioteca pubblica di Chicago, è stato al centro delle polemiche quando la città aveva deciso di venderlo, visti i prezzi, ma l' artista si è opposto, obbligando il sindaco alla retromarcia. Mark Bradford, invece, è una sorta di Burri metropolitano. I suoi enormi collage, che rappresentano visioni aeree dei sobborghi di Los Angeles, vanno a ruba. Helter Skelter ( 2007) apparteneva all' ex campione di tennis John McEnroe, che lo ha venduto tramite un' asta da Phillips per 12 milioni alla fondazione del magnate immobiliare Eli Broad a Los Angeles. Tra i più giovani, c' è la pittrice di origini nigeriane Njideka Akunyili Crosby, 37 anni, che ha messo in fila i più importanti collezionisti del mondo. Per avere una delle sue opere - elaborati collage di scene familiari della borghesia nera - bisogna attendere mesi, se non anni. C' è poi Derrick Adams, che attinge con uno stile più pop dalla quotidianità suburbana nera con riferimenti alti e bassi alla storia dell' arte, alla musica e alla tv. Ellen Gallagher, invece, gioca spesso sull' ossessione per le acconciature della donna nera. Ma, oltre a chi lavora in modo più tradizionale, c' è chi come Theaster Gates, anche lui di Chicago, abbraccia il ruolo di attivista politico e sociale. La sua arte consiste principalmente nel rigenerare quartieri abbandonati della città, recuperando attività familiari e tradizionali, come il negozio di ferramenta True Value, valori veri, del 2016, divorati dagli shopping mall e dal commercio online. Non poteva però mancare anche l' aspetto spiritual e religioso così importante per la cultura nera americana. Ecco allora Genesis Tramaine, una delle ultime a salire sul treno del successo, che si definisce "pittrice confessionale": ogni settimana va in chiesa e, prima che dal pulpito inizi l' omelia del predicatore di turno, lei crea alcune opere. Una sua mostra immaginava un Gesù transgender, Your Jesus del 2018 rappresenta la sua idea di questo Salvatore un po' rasta, un po' rapper, sessualmente non identificabile. Per sintetizzare quello che stiamo vedendo accadere nell' arte afroamericana possiamo proprio usare il titolo del grande quadro di Kerry James Marshall: "Conoscenza e stupore". Due cose apparentemente in contraddizione. Se il successo dell' arte afroamericana ci stupisce così tanto, è proprio perché non la conoscevamo.
· I Pinocchio.
Marco Giusti per Dagospia il 30 dicembre 2019. Il successo del Pinocchio di Matteo Garrone e del suo bambino-burattino protagonista ci riporta a una vecchia polemica che non mi ricordavo più. Tutti noi piccoli spettatori della tv dei primi anni ’70 abbiamo amato e stravisto il celebre Pinocchio di Luigi Comencini. Geniale invenzione di Comencini fu, allora, quella di accantonare il pur prezioso burattino di legno, che ricordavamo opera di Carlo Rambaldi, infatti è esposto nella sia mostra a Roma, e di far recitare tutto il film al bambino Andrea Balestri, un piccolo attore di grande simpatia. Quel che non mi ricordavo è che non solo Comencini fu quasi obbligato a questa scelta per il poco funzionamento del pupazzo Pinocchio, ma che il pupazzo era stato malamente ricostruito da un cognato di Comencini e che ci fu una bella causa tra Rambaldi e le società produttrici della serie. Lo racconta lo stesso Rambaldi in un testo che scrisse qualche anno fa come introduzione a un altro Pinocchio, quello di Giuliano Cenci per uno studio di Mario Verger (Rapporto Confidenziale/15/11/2010). “Pinocchio è sempre stato un mio sogno. Molti anni fa, prima di andare in America, il signor Comencini venne da me dicendomi che la Rai era interessata a fare un film su Pinocchio. Mi disse anche che dovevo fare il provino a mie spese, io accettai. Io feci questo pupazzo di Pinocchio e ricordo che Renato Guttuso, con cui stavo lavorando alle scene di una Carmen, voleva comprarlo a tutti i costi. Alla fine per Comencini feci tre tipi di Pinocchio: uno da mezzo primo piano che parlava e rideva, uno che correva e un altro addirittura che prendeva il martello e lo lanciava. Mi ricordo che quando girammo i provini a Cinecittà, venne a farci visita il cognato di Comencini, Manfredoni [Paolo Manfredonia]: guardava i meccanismi che avevo creato. Venni a sapere dopo che era un ingegnere meccanico. Era sabato e seppi che, per un banale ritardo, avrei ricevuto la mia merce il lunedì successivo. Di domenica l’ingegnere Manfredoni fece tutte le fotografie di cui aveva bisogno. Tant’è che la schiena di un Pinocchio che mi è tornato indietro era quasi completamente distaccata: qualcuno l’aveva aperta per scattare foto. Dopo un po’ di tempo venni a sapere che avevano cominciato le riprese. Avevano già fatto fare i loro Pinocchi da altri. Io avevo bisogno delle foto per dimostrare che la mia idea era stata plagiata. Fortunatamente c’era il figlio di un mio amico che lavorava proprio là dentro, nella produzione, e che è riuscito a portarmi le fotografie dove si vedevano in maniera chiara tutti i congegni meccanici. Per farla breve con questi elementi mi sono rivalso in sede legale per il plagio e il giudice è riuscito anche a sequestrare la pellicola del Pinocchio di Comencini proprio due giorni prima della messa in onda dopo esser stato già annunciato sul Radiocorriere e sulla radio, e ci siamo accordati sul risarcimento con la Rai… ma la soddisfazione più grande è stata sapere da fonti sicurissime che per tutta la durata delle riprese il “loro” burattino meccanico ha sempre funzionato male! Siccome funzionava molto male Comencini pensò bene di sostituirlo con il Balestri, il bambino, ben prima della fine del film”. Dai giornali del tempo si vengono a sapere altre dettagli della storia. Nel maggio 1970 Rambaldi venne incaricato della costruzione del suo Pinocchio, che lui realizzò seguendo i disegni di Carlo Chiostri, uno dei primi illustratori del romanzo. Chiese la cifra di 2 milioni e 400 mila lire alle società produttrici, la San Paolo e la Cinepat. Gliene dettero 1 milione e 800 mila per compare tutti i diritti del Pinocchio. Rambaldi si rifiutò di cedere i diritti del pupazzo meccanico a quella cifra, fu allora che Comencini definì i provini del pupazzo disastrosi e chiese all’ingegner Paolo Manfredia, suo cognato, di fabbricarne una diversa versione. Ma i pupazzi di Manfredonia erano fotocopie di quelli di Rambaldi. Per questo, nel marzo del 1972, un mese prima della messa in onda della serie tv, l’8 aprile 1972, fece causa per plagia alle due società produttrici con istanza di sequestro del film. Al 5 aprile i giornali riportano la fine della causa legale. Rambaldi dichiarò di avere avuto soddisfazione. L’unico vero rimpianto fu che il Pinocchio che abbiamo tutti visto sui teleschermi era quello mal fatto copiato da quello suo, meno mobile e con l’occhio più piccolo e senza vita. Ma, alla fine, fu proprio il malfunzionamento del Pinocchio patacca a provocare la scelta vincente del bambino Andrea Balestri protagonista in ogni episodio del film. Sempre dal testo di Rambaldi veniamo a sapere anche un’altra storia curiosa relativa a Pinocchio, stavolta quello di Benigni. “Recentemente mi sono divertito ad immaginare un pupazzo tridimensionale del Pinocchio di Benigni. Lui neppure lo sa. Abbiamo avuto un rapido colloquio alla Melampo, la sua società di produzione, ma dopo quell’incontro Roberto non si è più fatto sentire. Il fatto è che Benigni mi aveva interpellato quando stava scrivendo la sceneggiatura del suo film. Voleva da me qualche consiglio su come fare gli effetti speciali. Ho avuto un colloquio all’inizio: mi chiese se volevo collaborare con lui. Mi chiese un consiglio per rendere credibile l’allungamento della coda dell’asino. “Ci sono vari mezzi”, risposi… “Si potrebbe anche non fare l’allungamento: basta un primo piano, l’espressione del personaggio che si guarda indietro terrorizzato, stacco, e dietro c’è la coda lunga”. Roberto si mise a ridere e ha detto “È vero, buona idea non ci avevo pensato”. Ho dato la mia disponibilità ma non mi ha più chiamato. Si vede che ha risolto, un solo consiglio magari gli è bastato. Dopo non sono stato più contattato.”
Marco Giusti per Dagospia il 13 dicembre 2019. “M’è nato un figliolo”. Devo dire che, da vecchio lettore del Pinocchio di Carlo Collodi, da fan delle illustrazioni classiche di Mazzanti, Chiostri e Mussino, della versione muta della Cines con Polidor, il primo Pinocchio dello schermo che uscì il 23 dicembre del 1911 per il Cinquantenario dell’Unità d’Italia, e soprattutto del meraviglioso Pinocchio di Walt Disney, mi sono subito commosso quando ho visto quanto rispetto e amore per i tanti Pinocchi della storia hanno messo Matteo Garrone, il suo Geppetto Roberto Benigni, la sua volpe co-sceneggiatrice Massimo Ceccherini, il suo Mangiafuoco Gigi Proietti e tutti i collaboratori e attori in questo muovo Pinocchio del Natale 2019. Da Teco Celio incredibile giudice scimmia alla lumachina di Maria Pia Timo, dal Mastro Ciliegia di Paolo Graziosi al maestro di scuola di Enzo Vetrano, dal Grillo di Davide Marotta all’Omino di Burro sulfureo e pedofilo di Nino Scardina, dall’oste di Gigio Morra al Corvo e alla Civetta dei fratelli Gallo. Garrone inserisce questi attori meravigliosi, in gran parte napoletani e toscani, dentro ambienti e villaggi che ci riportano intatta la povertà, la fame, la terra del nostro Ottocento. Sembra di percepirla davvero la fame nella scena all’osteria con un Benigni-Geppetto-Charlot in cerca di un piatto di minestra o con la ricerca di un pezzo di cacio che apre tutto il film. Come sentiamo la crudeltà di un mondo adulto e davvero lontano, ormai quasi due secoli, visto attraverso gli occhi di un bambino. Anche se, forse, la crudeltà di oggi, potrà essere diversa nei modi, ma si muove con la stessa violenza. E la scena dell’Omino di Burro che trasforma i bambini in ciuchini può essere letta davvero in maniera moderna quasi da adescamento pedofilo. Ora. Il Pinocchio più lontano, quella del Conte Antamoro per la Cines nel 1911, puntava tutto sulla strepitosa performance acrobatica-burattinesca del suo protagonista, Ferdinand Guillaume detto Tontolini e poi Polidor, e sulla derivazione dal nuovo Pinocchio illustrato ufficiale e sabaudo disegnato da Attlio Mussino, lo iniziò nel 1908, che avrebbe dovuto essere, e lo fu, il grande libro dell’infanzia dell’Unità d’Italia. Il Pinocchio più celebre, quello di Walt Disney, pensato per il mercato europeo, soprattutto italiano e tedesco e massacrato dallo scoppio della guerra, come ricordava in un celebre saggio Maurice Sendak, il più grande illustratore americano per l’infanzia, era nulla di più che l’ultimo grande sogno di Mickey Mouse, l’eroe puro e positivo che affronta il mondo con gli occhi spalancati. Un sogno che di lì a poco, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, non sarebbe mai più stato lo stesso, ma che questo Pinocchio-Mickey bambino, meno rigido dei Pinocchi illustrati italiani, conserva per le future generazioni. Il bambino robot, infine, di Intelligenza Artificiale di Steven Spielberg che riprese il progetto pinocchiesco di Stanely Kubrick, ha ancora questa energia positiva e meravigliosa ma ha una tristezza tutta nuova e moderna nata dal rapporto uomo-macchina, che era poi alla base delle letture esoteriche del romanzo di Collodi. Non so che tipo di lettura volesse darci Matteo Garrone col suo nuovo Pinocchio. E’ sicuramente più artistica, illustrativa di quella realistica del Pinocchio di Luigi Comencini, che aveva la possibilità di sfruttare i talenti più illustri della commedia del tempo, da Nino Manfredi a Franco e Ciccio. E non ne fa un piccolo eroe americano alla ricerca dell’avventura, anche se il burattino si muove in continuazione facendo scelte casuali e sempre sbagliate che gli permettono di osservare il mondo. Ma Garrone non gioca sulla fisicità e la freschezza del bambino come Comencini, tanto che lo imprigiona nella gabbia del burattino di legno in digitale, lasciandogli davvero mobili solo gli occhi, ma insiste come nessuno ha mai fatto sulle materie che costruiscono le sue immagini, sul legno stesso di cui è fatto Pinocchio, un legno che invecchia e va lucidato, sulla terra, sui campi dove si muove Geppetto e il suo figliolo, sull’acqua, dove finisce il ciuchino-Pinocchio invece di morire, sulla bellezza dei ruderi di questi poderi e case dei contadini dove ricostruisce il suo Ottocento. Non riesce, come Mazzanti e Chiostri, a fare di Pinocchio una figurina di legno sottile, lunga e puntuta, un po’ come gli alieni di Incontri ravvicinati. Puntando sul legno ne fa un Pinocchio arrotondato, un po’ sgraziato. Ma nemmeno Comencini riuscì a digerire l’idea di fare un film col Pinocchio di legno che gli aveva costruito Rambaldi e ce lo rese da subito bambino, e lì trovò trovo l’idea vincente, anche grazie a un bambino, Andrea Balestri, che aveva una vivacità straordinaria. Garrone si trova un po’ in difficoltà col suo Pinocchio quando è solo in scena, ma funziona benissimo quando recita con Benigni e con Papaleo e Ceccherini o con Gigi Proietti. E’ come se Pinocchio fosse nulla di più del nostro sguardo, bambino, sul mondo crudele degli adulti. Tutto il lato dark, ma anche comico del film, viene da questo spostamento di sguardo. Noi, come Pinocchio, facciamo scelte casuali e siamo osservatori del mondo. Questo funziona benissimo anche in certe scene meno famose e più libere, penso a quelle della scuola col maestro antipatico o al rapporto di gioco con la fatina-bambina e la lumaca. Certo, se Pinocchio è solo non ha la vivacità del Pinocchio umano di Andrea Balestri, e la tensione cala. Mentre cresce quando entrano in campo Benigni, che riesce a portarsi dietro tutta la sua umanità e antica toscanità e un Ceccherini meraviglioso, omaggiato con primi piani che ne mettono in luce l’aspetto animale e crudele, e diventa una volpe cattiva e pericolosa molto meno da vaudeville di quella disneyana, anche se il rapporto che ha col gatto-Papaleo è piuttosto simile. Insomma. E’ un film molto più complesso e difficile di quello che può apparire che ha il grande pregio di non nascondersi di fronte alle difficoltà, ma di farcele vedere con estremo candore, al punto da alternare episodi più riusciti a altri meno riusciti, e rendere così il film non compatto e perfetto come Dogman, ma con punte di messa in scena e di recitazione assolutamente strepitose che non possono lasciarci indifferenti. E davvero non capisco le accuse che ho sentito alla visione dei critici di freddezza, di inutilità, di malfunzionamento. Erano anni e anni, ad esempio, che aspettavo di vedere il Benigni della nostra giovinezza ritornare a fare Benigni, anche se da vecchio, e muoversi per un paese della Toscana che potrebbe essere la sua Vergaio, alla ricerca di un piatto di minestra o di un pezzo di legno per fare il burattino o di un abbecedario da comprare dando in cambio una giacca. Garrone riesce a liberare Benigni dagli stati di coppale con cui ha lucidato qualche anno fa il suo, ahimé, non riuscitissimo Pinocchio, ma anche in questi ultimi anni il suo personaggio pubblico. Avercelo reso vecchio e paterno, “Dì… babbo!”, mi ha commosso. Come mi ha commosso la crudeltà, tutta ottocentesca e toscana, con cui vengono abbandonati a loro stessi il Gatto e la Volpe, ormai privo anche una gamba. E allora, è vero che spesso questo bambino ricostruito non è perfetto, come non sono sempre uguali i capelli bianchi e scomposti di Benigni e non è il massimo la musica di Dario Marianelli, tanto valeva richiamare Alexandre Desplat visto che non esiste più un Nino Rota, ma devo ringraziare Matteo Garrone e il suo valido cosceneggiatore volpe Massimo Ceccherini di aver affrontato a fronte alta un corpo a corpo micidiale con Pinocchio e tutti i suoi fantasmi dove non è quasi possibile vincere. Ben lo sapeva Fellini che aveva illuso Benigni di farglielo fare, e aveva poi solo seminato i suoi film di elementi pinocchieschi. Garrone ha affrontato Pinocchio senza paura e per questo, per averci fatto vedere Benigni come da tanti anni non lo vedevamo più, per avere dato nuova vita a Massimo Ceccherini, che è uno dei maggiori talenti del nostro spettacolo, e lo sanno bene gli spettatori che hanno amato il Pinocchio teatrale che faceva con Alessandro Paci e Carlo Monni in giro per la Toscana, per averci fatto rivedere la fame e la povertà di un’Italia dimenticata, merita tutto il nostro affetto. In sala dal 19 dicembre.
Pinocchio (film 2019). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Trama. Geppetto, un povero falegname italiano celibe e con a malapena un tetto sulla testa, alla vista del teatro delle marionette di Mangiafoco, decide di costruirsi un burattino di legno per girare il paese e guadagnarsi da vivere. Si dirige quindi dall'amico e collega Mastro Ciliegia, per chiedergli un pezzo di legno da lavorare. Ciliegia, spaventato da un tronco apparentemente vivo, lo cede a Geppetto e questi inizia a costruirsi la marionetta, che chiama Pinocchio. Geppetto, durante la lavorazione, si accorge che Pinocchio è vivo e senziente e decide di prenderlo come suo figlio, ma il burattino, ora che ha un corpo con cui esprimere la sua libertà, si mette a correre fuori e torna a casa mentre il povero Geppetto lo cerca per tutto il paese. Il coinquilino di Geppetto, un centenario grillo parlante, tenta di aiutare Pinocchio dandogli dei consigli, ma il burattino, considerandolo fastidioso, gli lancia contro un martello per zittirlo. Più tardi, Geppetto ritorna e ritrova Pinocchio con i piedi bruciati, dato che si era addormentato sul fuoco, e, dopo averglieli ricostruiti, lo perdona per le sue azioni. Per poterlo istruire, Geppetto si vende la giacca per comprare a Pinocchio un libro di scuola. Il burattino, colpito da tale sacrificio, si avvia verso il suo primo giorno di scuola. Le sue buone intenzioni sono però sviate da un teatro di burattini, per cui vende il libro appena compratogli da suo padre per comprarsi il biglietto. Nel teatro, Pinocchio viene invitato sul palco dalle marionette, anche loro vive e senzienti, impazienti di conoscere il loro nuovo fratello. Furioso che il suo spettacolo sia andato a monte, il burattinaio Mangiafoco rinchiude Pinocchio nel suo carrozzone con l'intenzione di usarlo come legna da ardere per prepararsi la cena. Pinocchio supplica il circense di liberarlo per poter fare ritorno a casa dal padre sicuramente preoccupato di un suo mancato ritorno. Mangiafoco starnutendo dalla commozione decide di lasciarlo andare scegliendo di bruciare un'altra marionetta al posto suo: Pinocchio però non crede sia giusto che qualcuno paghi per un disastro da lui combinato e accetta la sua punizione. Sorpreso dal comportamento di Pinocchio, Mangiafoco lo lascia andare e, compatito per Geppetto, gli dona cinque monete d'oro da dare al falegname. Il giorno dopo, Pinocchio torna a casa, ma lungo la via incontra una volpe (apparentemente) zoppa e un gatto (apparentemente) cieco, i quali, attirati dalle monete, gli suggeriscono di provare a seminarle nel Campo dei miracoli, un luogo ove germoglieranno in un albero pieno zeppo di soldi. Pinocchio, allettato dall'idea di diventare ricco, si lascia accompagnare dai due al Campo dei miracoli, situato nel Paese dei Barbagianni. I tre, quindi, si fermano a mangiare ad un'osteria a spese di Pinocchio e, dopo essersi messi d'accordo per riprendere il cammino a mezzanotte, il Gatto e la Volpe si separano dal burattino dicendo di dover andare a trovare un parente malato. Pinocchio, quindi, riprende il cammino da solo e, ignorando gli avvertimenti del Grillo Parlante, si avventura nel bosco e ha uno spiacevole incontro con due briganti incappucciati (il Gatto e la Volpe). Pinocchio nasconde le rimanenti quattro monete in bocca e inizia a scappare, ma viene acciuffato ed impiccato ad un albero. Il burattino viene tratto in salvo da una giovane fata dai capelli turchini, che lo fa medicare da dei dottori (tra cui il Grillo Parlante) ospitandolo a casa sua. Pinocchio, una volta guarito, viene interrogato sul perché si trovasse nella foresta e non a casa o a scuola. Preso dall'imbarazzo mente e come per magia il suo naso si allunga ad ogni sua bugia, finché la Fata é costretta a richiamare uno stormo di picchi per fargli accorciare il naso. La Fata, dopo essersi autoproclamata sorella adottiva del burattino, annuncia a Pinocchio che deve raggiungere Geppetto, preoccupato per il suo non ritorno. Quando sta per tornare a casa reincontra il Gatto e la Volpe che, vedendo che il loro piano è fallito, ripensano al piano originale e lo convincono ad andare al Campo dei miracoli. Pinocchio, giunto sul posto, pianta le monete e va a prendere dell'acqua per annaffiarle. Nell'attesa, il Gatto e la Volpe rubano le monete e scappano via. Scoperto il furto, Pinocchio corre al tribunale locale per denunciare il fatto, ma siccome la giustizia non favorisce gli innocenti nel Paese dei Barbagianni viene condannato all'ergastolo, ma riesce a farsi scagionare dicendo di aver precedentemente commesso un reato, e quindi viene scarcerato. Pinocchio torna a casa ma tramite i vicini scopre che Geppetto, preoccupato della sua scomparsa ad opera di Mangiafoco, lo aveva seguito fino al porto con l'intenzione di seguirlo fino in America. Pinocchio raggiunge il porto e si butta in mare per ritrovarlo, ma non ha successo e naufraga sull'Isola delle Api Industriose. Per sua fortuna, Pinocchio viene salvato da una donna, che altri non è che la Fata Turchina divenuta adulta. Scoperto che Pinocchio vuol diventare adulto come lei gli fa promettere che, se si fosse comportato bene e avesse studiato, l'avrebbe trasformato in un bambino vero. A scuola Pinocchio, dopo essersi inserito, fa amicizia con Lucignolo, un ragazzo monello e disubbidiente che lo invita a seguirlo, una sera, verso il Paese dei Balocchi, luogo dove i bambini possono fare tutto ciò che vogliono senza scuole o adulti che gli rovinino il divertimento. Pinocchio, inizialmente combattuto, decide di seguirlo e alla fine dopo aver passato una giornata di divertimento si trasformano entrambi in asini. Il proprietario vende il ciuchino e Pinocchio viene portato in un circo dove è costretto ad esibirsi in spettacoli di acrobazia, ma un giorno, notando di sfuggita la Fata, inciampa e si azzoppa. Il direttore del circo, quindi, decide di affogarlo in mare e poi scuoiarlo per usare la sua pelle per un tamburo. Mentre è in acqua, la Fata chiama a raccolta dei pesci che divorano la pelle d'asino di Pinocchio, riportandolo alla normalità. Dopo essersi liberato del direttore, il burattino si mette a nuotare alla ricerca del padre. Lungo la rotta, però, viene divorato da un gigantesco mostro marino, il Terribile Pesce-cane. All'interno del mostro, Pinocchio incontra prima un tonno che attende il suo destino e, con sua grande gioia, ritrova suo padre (divorato dal mostro durante la sua traversata verso le Americhe). I due, approfittando dell'asma del mostro, che lo costringe a dormire con la bocca aperta, fuggono dalla sua bocca assieme al tonno, che li accompagna fino a riva. Alla ricerca di un luogo per riposare, Pinocchio e Geppetto trovano una casetta di campagna abbandonata e, con l'intento di sostenere il padre, Pinocchio l'indomani mattina, si fa assumere presso il contadino Giangio per guadagnare del latte per il padre e qualche soldo. Pinocchio incontra pure il Gatto e la Volpe, ormai ridotti male e non più falsamente invalidi, non perdendo l'occasione di sbeffeggiarli ed ignorare le loro scuse. Pinocchio, quindi, continua a lavorare e studiare sodo per aiutare il padre (rimessosi in attività) e, più tardi, la Fata gli fa visita presso la fattoria e mantiene fede alla sua promessa. Pinocchio, quel giorno, torna a casa da suo padre e gli mostra di essere diventato un bambino vero.
Produzione. Il 24 ottobre 2016 è stato annunciato che Toni Servillo è stato scelto per essere il padre di Pinocchio, Geppetto. Due anni dopo, nell'ottobre 2018, fu annunciato che Geppetto sarebbe stato interpretato da Roberto Benigni (che aveva interpretato Pinocchio in un precedente adattamento diretto da lui stesso) che disse: "Un grande personaggio, una grande storia, un grande regista: interpretare Geppetto diretto da Matteo Garrone è una delle forme di felicità.” Nick Dudman ha lavorato al trucco e alle creature del film. In seguito è stato annunciato che Mark Coulier ha lavorato al trucco per il film. Per il trucco di Pinocchio l'attore Federico Ielapi ha dovuto sottoporsi a sessioni quotidiane di 4 ore, prima di iniziare le riprese. Il film è una co-produzione Italia-Francia-Inghilterra dal budget di 11 milioni di euro. Le riprese sono iniziate il 18 marzo 2019 per 11 settimane in Toscana, presso la Tenuta La Fratta, nel Lazio e Puglia.
Pinocchio (film 2002). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Pinocchio è un film del 2002 diretto e interpretato da Roberto Benigni, che firma anche la sceneggiatura (con Vincenzo Cerami) e la produzione. Costato circa 45 milioni di euro, è il film più costoso nella storia del cinema italiano. Il film fu scelto come rappresentante dell'Italia alla 75ª edizione degli Oscar per la categoria miglior film straniero senza però riuscire ad essere candidato. È tratto dal romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi. In Italia il film è stato pubblicato in home video in luglio 2003 dalla Buena Vista Home Entertainment.
Trama. Un grosso tronco di legno, trasportato su un carro, si anima improvvisamente dopo che su di esso si è posata una farfalla protetta da una Fata. Il pezzo di legno, mosso da una misteriosa forza, inizia a saltare per i vicoli del paese, creando il panico tra gli abitanti. Il tronco ferma la sua corsa sull'uscio di casa di un vecchio falegname, di nome Geppetto, che se ne impossessa per costruirsi un burattino che gli tenga compagnia. Il burattino viene chiamato Pinocchio, e magicamente prende vita, e con grande incredulità di Geppetto inizia a parlare. Pinocchio si dimostra da subito un monello: scappa di casa e corre in strada, mettendo a soqquadro il paese. Dei danni viene incolpato il vecchio falegname, che viene condotto in carcere dai carabinieri, mentre Pinocchio fugge via. Rientrato a casa, il burattino trova un grillo parlante che lo rimprovera delle monellerie commesse, ammonendolo più volte di comportarsi bene. Pinocchio, scocciato, tenta di schiacciare il grillo con un martello, ma la creatura scompare. Stanco e affamato, Pinocchio si addormenta con i piedi sul braciere. Poco dopo rientra a casa Geppetto, che lo salva dalle fiamme con una secchiata d'acqua. Pinocchio, comprendendo i suoi errori, decide di farsi perdonare e promette a suo padre di andare a scuola e studiare: a causa delle sue condizioni economiche, il falegname si vede costretto a vendere la sua casacca per comprare a suo figlio un abbecedario. Pinocchio, mentre si dirige a scuola, vende immediatamente il suo libro per quattro soldi, con i quali entra a vedere uno spettacolo di burattini. Durante lo spettacolo, le marionette lo riconoscono come loro simile, facendolo salire sul palco e portandolo in trionfo tra le risate del pubblico. Ma il burattinaio capo, Mangiafoco, fa interrompere lo spettacolo. Mangiafoco, per punire Pinocchio, decide di bollirlo in un pentolone e mangiarselo, ma di fronte alle suppliche del burattino si impietosisce e lo lascia libero, dandogli in dono cinque monete d'oro dopo aver saputo della situazione economica di suo padre. Sulla strada di casa Pinocchio incontra però il Gatto e la Volpe, due truffatori, che lo convincono a seguirli per arricchirsi, seminando i suoi denari nel "Campo dei Miracoli". Il burattino, credulone, li segue. Durante la notte il Gatto e la Volpe si fermano all'Osteria del Gambero Rosso, dove mangiano a sazietà, lasciando pagare il conto a Pinocchio, che rimane con quattro monete. Dopo aver riposato, il burattino si dirige nel bosco da solo, in quanto scopre dall'oste che i suoi "amici" sono dovuti andare via. Ignorando i consigli del fantasma del Grillo Parlante, Pinocchio incappa nei due furfanti, travestiti da assassini, che lo aggrediscono. Dopo una rocambolesca fuga durata tutta la notte, Pinocchio raggiunge una vecchia casa, nella quale vive una fata magica, ma quest'ultima si rifiuta di aprirgli. Gli assassini, sopraggiunti, lo impiccano ad un'enorme quercia, pensando si fosse nascosto le monete in bocca. Il mattino seguente, la fata, mossa a compassione, fa liberare il burattino dal suo cane-maggiordomo Medoro, che lo porta alla casa della fata su una carrozza trainata da centinaia di topi bianchi. La fata lo fa visitare da tre medici: un corvo, una civetta e il Grillo Parlante (che si scopre essere vivo e vegeto). Il Grillo lo rimprovera nuovamente e il burattino scoppia a piangere, dimostrando a tutti che è ancora vivo. La fata cerca allora di fargli bere un medicinale molto amaro, ma utile per farlo guarire. Pinocchio si rifiuta, ma quando vede arrivare dei conigli neri con una bara si ricrede all'istante. Completamente guarito, il burattino viene interrogato dalla fata sugli ultimi avvenimenti, ma lui mente più di una volta, per questo motivo il suo naso si allunga vistosamente. Dopo aver detto finalmente la verità, il suo naso si accorcia e Pinocchio si dirige verso la casa di Geppetto, ma lungo il sentiero incontra di nuovo il Gatto e la Volpe, che lo convincono ad andare al Campo dei Miracoli a sotterrare i denari. Pinocchio si accorge troppo tardi di essere stato raggirato: dopo aver cercato invano le sue monete, si reca al tribunale del paese di Acchiappacitrulli, dove un giudice dalle fattezze scimmiesche lo fa arrestare e incarcerare come "citrullo". In cella Pinocchio conosce Lucignolo, un monello finito in carcere per furto di leccalecca, di cui uno riescono a condividerlo. In breve tempo i due diventano amici, e poco dopo la scarcerazione di Lucignolo avviene anche quella di Pinocchio, cinque mesi dopo, grazie ad un'amnistia. Il burattino torna verso la casa della fata, ma quando vi arriva trova la sua tomba. In lacrime, Pinocchio si accascia al suolo disperato, ma proprio in quel momento compare un colombo che dice di sapere dove si trova Geppetto. Pinocchio si fa guidare dall'uccello verso il babbo, che si trova in mare su una barchetta, deciso a cercare Pinocchio oltremare, non avendolo trovato in paese nei precedenti mesi. Il burattino, coraggiosamente, si tuffa nel mare in tempesta per salvare Geppetto, ma la corrente lo trascina via: al risveglio si ritrova sulla spiaggia di una cittadella abitata da arzilli lavoratori. All'interno della cittadina Pinocchio incontra di nuovo la fata, ritornata in vita grazie al suo dolore sincero, che lo conduce nella sua abitazione, ora posta al centro della città. Pinocchio, felicissimo, decide di diventare un bravo ragazzo e subito va a scuola. Il primo giorno di lezioni, ancor prima di entrare, scopre che uno dei suoi compagni, Eugenio, gli ha rubato il cappello a seguito del suo naufragio. Ne scoppia quindi una rissa tra Pinocchio, Eugenio e altri bulli, uno dei quali lancia il libro di Pinocchio contro di lui, colpendo accidentalmente Eugenio, che sviene. Tutti scappano, solo Pinocchio rimane vicino al compagno ferito ma due carabinieri, trovandolo lì, lo arrestano. Nella strada verso la prigione Pinocchio, cercando di non farsi vedere dalla fata, fugge, ma dopo essersi nascosto in un campo rimane incastrato in una tagliola per le faine. Il proprietario del campo, credendolo un ladro a causa delle manette, gli lascia la tagliola, gli mette un collare e gli fa sostituire il suo cane da guardia da poco morto. Quella stessa notte, Lucignolo, passato di lì per rubare i polli, lo riconosce e lo libera, e i due fuggono insieme. Tornato dalla fata, Pinocchio viene rimproverato e in seguito perdonato per le sue monellerie. Deciso a diventare un ragazzo bravo una volta per tutte, il burattino torna sulla retta via, e la fata organizza una festa. Pinocchio vuole invitare Lucignolo e corre a cercarlo, ma scopre che questi è in procinto di partire verso il Paese dei Balocchi, luogo senza regole e scuole. Dopo mille ripensamenti, Pinocchio decide di partire con lui. Il Grillo Parlante tenta di portarlo via da lì, ma sviene dopo esser sopravvissuto a calpestamenti, martellate e freccette. Dopo una giornata di divertimenti sfrenati, i ragazzi che si trovano al Paese dei Balocchi iniziano a trasformarsi in asini, sorte che tocca anche a Pinocchio e Lucignolo, che vengono venduti al mercato. Pinocchio finisce in una compagnia circense e deve esibirsi saltando in cerchi di fuoco. Una sera, durante uno spettacolo, distratto dalla fugace apparizione della fata, cade malamente e si spezza una gamba. Il direttore del circo ordina ai pagliacci di buttarlo in mare per annegarlo, ma il pronto intervento della fata lo salva, facendolo tornare nuovamente un burattino. Mentre Pinocchio nuota verso la riva, dove la fata lo attende, un gigantesco Pesce-cane lo ingoia. Finito nello stomaco dell'enorme creatura, Pinocchio ritrova Geppetto, divorato dal mostro durante il suo naufragio. Fingendosi un tonno, Pinocchio scopre che suo padre lo odia e rimpiange di averlo costruito, ma rivela che sotto sotto ha la forza per perdonarlo. I due si riabbracciano dopo molto tempo e, approfittando del raffreddore del mostro, i due fuggono e tornano a riva. Riportato il padre a casa, Pinocchio si adopera per aiutare il suo anziano padre a stare meglio, e per fargli avere del latte caldo ogni sera va a lavorare in una fattoria. In questa fattoria c'è anche il ciuchino Lucignolo, ormai moribondo a causa del duro lavoro. La fata è ormai decisa a realizzare il desiderio di Pinocchio di diventare un ragazzo vero, grazie al suo impegno per aiutare Geppetto. La mattina dopo, Pinocchio è diventato un bambino vero e il burattino ritorna ad essere un essere inanimato.
Produzione. Secondo Benigni, il progetto di un film in cui l'attore interpretava Pinocchio aveva avuto inizio con Federico Fellini. Il progetto risalirebbe ai tempi de La voce della luna, film che Benigni interpretò nel 1990 sotto la direzione del maestro riminese. In quell'occasione, in effetti, Fellini chiamò Benigni e Paolo Villaggio "personaggi collodiani". Benigni disse anche che in quell'occasione erano state girate alcune scene di prova mai mostrate al pubblico e che Vincenzo Cerami aveva iniziato a scrivere una sceneggiatura. Il film è stato girato nei Cinecittà Umbria Studios di Papigno, frazione di Terni. Per il film sono stati impiegati 28 settimane di riprese, 8 mesi di preproduzione e 8 di postproduzione.
Colonna sonora. La colonna sonora è di Nicola Piovani, che aveva già collaborato con Benigni per la colonna sonora del film La vita è bella. Piovani vinse un Nastro d'Argento per la colonna sonora.
Le avventure di Pinocchio (miniserie televisiva). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Le avventure di Pinocchio è uno sceneggiato televisivo tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Collodi, diretto dal regista Luigi Comencini, e trasmesso per la prima volta dalla televisione italiana sul Programma Nazionale nell'aprile 1972, suddiviso in cinque puntate, per una durata totale di 280 minuti. Fu poi replicato, sempre in cinque puntate, in occasione del decennale della pellicola nel 1982 sempre sulla Rai Tv1. Comencini realizzò una versione più lunga, di 320 minuti, suddivisa in sei puntate. Tale versione fu adattata anche in francese, da Pierre Cholodenko, per esser trasmessa nel dicembre 1972 dall'emittente Première chaîne de l'ORTF. La versione a sei puntate fu riprodotta in versione home video, quindi digitalizzata e trasmessa sulle emittenti digitali Rai Movie e TV2000. Fu commercializzata anche una versione più corta, della durata di 135 minuti.
Descrizione. L'idea nacque già nel lontano 1963, quando Comencini e Suso Cecchi D'Amico, caduti i diritti d'autore sull'opera di Collodi nel 1940, cominciarono a scrivere una nuova sceneggiatura a quattro mani. Il regista volle dare al "suo" Pinocchio una visione particolarmente delicata e poetica, restituendo una patina di sommessa malinconia all'intera vicenda, nonostante la partecipazione di alcuni attori conosciuti, più che altro, per le loro interpretazioni in ruoli comici. Secondo Paolo Mereghetti, lo sceneggiato ebbe un "cast perfettamente azzeccato", con una soddisfacente riduzione dal libro con "più realismo sociale a (lieve) discapito della componente fantastica". Gli attori protagonisti furono Andrea Balestri (Pinocchio), Nino Manfredi (Geppetto), Gina Lollobrigida (Fata Turchina), Franco Franchi (il Gatto), Ciccio Ingrassia (la Volpe), Vittorio De Sica (il giudice), Lionel Stander (Mangiafoco), Domenico Santoro (Lucignolo).
Trama. Come nel celebre romanzo, vi si narrano le disavventure del famoso burattino, anche se, a differenza della versione letteraria, nello sceneggiato Pinocchio è impersonato da un bambino vero, che solo in alcuni punti si ritrasforma in un burattino (in questa serie, Pinocchio diviene burattino o bambino per essere punito, premiato o salvato dalla Fata, fino alla fine, quando è totalmente bambino per la sua buona condotta, e il suo spirito esce dal burattino morto).
Prima puntata. Siamo a circa metà del XIX secolo, in un piccolo paesino montanaro della Toscana, dove sul finire dell'inverno giunge la carovana di un famoso burattinaio, Mangiafoco, prima di partire per le lontane Americhe nella bella stagione. Mentre i due musicisti del burattinaio, il Gatto e la Volpe fanno l'annuncio, un manifesto dello spettacolo va in faccia a Geppetto, un falegname vedovo che, ispirato dalla figura della marionetta sul pezzo di carta, decide di fabbricarsi un burattino di legno a sua invenzione, per poter viaggiare il mondo e procurarsi da mangiare, data lo scarso lavoro commissionatogli. Il vicino di Geppetto, anche lui falegname, ma benestante, decide di rifarsi la gamba del tavolo, ma il ciocco che intende usare parla e si lamenta. Per liberarsene, Ciliegia regala il legno a Geppetto, venuto a chiedergli di prestargli un tronco per la sua marionetta, ma non prima che il ciocco crei zizzania tra i due insultando e colpendo Geppetto, fingendo di essere Mastro Ciliegia. Tornato a casa, Geppetto lavora tutta la sera per costruirsi la marionetta, che decide di chiamare Pinocchio in onore di un amico. Quando Geppetto si accorge che il ciocco parla e si muove, dà la colpa alla fame e continua a lavorare, credendo di immaginarsi di interagire con la marionetta. Durante la notte, compare lo spirito della defunta moglie del falegname, reincarnatasi in una Fata, e, mentre Geppetto dorme sfinito, la Fata propone al burattino un patto preciso: quello di farlo diventare un bambino temporaneo, qualora si fosse comportato correttamente, altrimenti sarebbe ritornato di legno, fino a quando non avesse dimostrato la sua bontà in modo da essere bambino per sempre. Il giorno dopo, Geppetto si accorge di avere un bambino in casa. Dando la colpa alla stanchezza e la fame, il falegname scopre che il bambino non solo è vero, ma è anche Pinocchio. Quest'ultimo, però, esce di casa e, inseguito da Geppetto, mette zizzania in città, facendosi pure inseguire da un pescatore a cui gli aveva rubato il pranzo. Dopo che Pinocchio è stato fermato dai carabinieri, Geppetto spiega a tutti che si era intagliato un burattino e che al suo posto era apparso un bambino la mattina seguente. Credendolo pazzo (nonché non adatto a mantenere un bambino) i carabinieri arrestano il falegname e affidano il piccolo a delle lavandaie, che lo perdono non appena piove. Pinocchio torna a casa ma non trovando nulla da mangiare, trova prima un uovo tra un cumulo di sporco fuori, scoprendo che l'uovo ormai ospita un pulcino e non più un tuorlo, poi va a chiedere ai vicini, nel cuore della notte, da mangiare, ma uno di questi, non contento per lo "scherzo", gli butta addosso una secchiata d'acqua.
Seconda puntata. Pinocchio torna a casa e, accendendosi un fuoco sul camino, si asciuga davanti ad esso e scopre di non essere solo in casa: a fargli compagnia c'è anche un centenario Grillo parlante che gli fa la predica sul suo comportamento e che la Fata non sarà affatto contenta di ciò. In tutta risposta, Pinocchio gli tira addosso uno spargi-cenere, uccidendolo e rompendo il quadro della moglie di Geppetto. A quel punto Pinocchio ritorna di legno e i piedi, troppo vicini al fuoco, si bruciano. Uscito di prigione, Geppetto torna a casa, rattristito dal fatto che Pinocchio è scappato alle lavandaie e forse non è tornato a casa. Per fortuna, Mastro Ciliegia gli dice che Pinocchio sembra essere in casa, ma la porta è chiusa. Geppetto, passando dalla finestra, trova Pinocchio di legno, confondendosi ancora di più e spaventando Ciliegia, che stava sbirciando dalla finestra. Pinocchio, volendo i suoi piedi, supplica Geppetto che si comporterà bene d'ora in poi. Geppetto gli offre un'altra possibilità e Pinocchio torna normale (spaventando ancora Ciliegia, appena ripresosi). Dopo aver mangiato tre pere trovate sulla finestra (cascate a Ciliegia), Geppetto fabbrica a Pinocchio un vestito e un cappello con la carta, poi si vende la giacca per comprare un abbecedario al figlio. Tutti al negozio sono confusi, finché Mastro Ciliegia non spiega la situazione, mostrando a loro Geppetto che saluta Pinocchio, che corre verso il suo primo giorno di scuola. Arrivato dalla scuola, però, Pinocchio si distrae per la musica proveniente dal teatro ambulante di Mangiafoco e decide di vederlo, ma non avendo soldi per entrare, decide di vendere l'abbecedario per i soldi del biglietto. Pinocchio si gode lo spettacolo, che il Gatto e la Volpe narrano, finché poi, affamati e stanchi, affidano il carillon ad un bambino e vanno a mangiare. Proprio allora, le marionette si accorgono di Pinocchio e lo invitano sul palco. Pinocchio, li raggiunge, trasformandosi in burattino, proprio come Mangiafoco irrompe sul palco catturando Pinocchio, rinchiudendolo nella gabbia delle scimmie, e ordinando agli altri di riprendere lo spettacolo. Geppetto, accompagnato da Ciliegia, va a scuola a prendere Pinocchio, ma non vedendolo uscire chiede al bidello se l'abbia visto, il quale dice che non è mai entrato. Mentre Ciliegia consola Geppetto, questi si accorge che un bambino ha l'abbecedario di Pinocchio e scopre che è stato comprato dal padre del bambino da Pinocchio per vedersi lo spettacolo. Geppetto corre dal teatro di Mangiafoco, ma scopre che hanno levato le tende da un pezzo e che Pinocchio è nelle mani di Mangiafoco. Infreddolito e con il cuore a pezzi, Ciliegia gli offre un sorso presso l'osteria per dimenticare tutto. La carovana di Mangiafoco, che stava osservando la marionetta vivente, si ferma d'improvviso poiché il capo ha fame. Gatto e Volpe accendono un fuoco, ma con la neve e la pioggia dei giorni precedenti, il fuoco fatica ad accendersi. Mangiafoco decide di bruciare quindi il burattino vivente e ordina ai due musicisti (confusi) di prenderlo, ma trovano solo un bambino (trasformato in tempo dalla fata per salvarlo dalle fiamme). Geppetto, intanto, decide di seguire la carovana e salvare Pinocchio. Mangiafoco, intanto, credendo che il Gatto e la Volpe gli stiano facendo uno scherzo di pessimo gusto, gli urla contro e mentre Volpe risponde che si licenziano (contro volere di Gatto), Mangiafoco prende un fucile e il Gatto e la Volpe scappano terrorizzati. Pinocchio, ottenendo finalmente la sua attenzione, gli spiega che il burattino era lui ma che si trasforma in burattino e bambino per via della Fata. Mangiafoco non lo segue ma decide di riprendere a cucinare la sua cena e ordina al cocchiere di buttare Arlecchino nel fuoco, ma Pinocchio chiede pietà per il suo simile e si offre di buttarsi nel fuoco, anche se ciò significa non rivedere più suo padre. Mangiafoco si commuove e consente a Pinocchio e Arlecchino di non essere bruciati.
Terza puntata. Pinocchio decide di raccontare del padre a Mangiafoco e questi, impietosito e commosso, gli dona nuovi vestiti e gli regala cinque zecchini d'oro da portare a Geppetto, raccomandandosi di non perderli e di non farli vedere a nessuno. Pinocchio, sulla strada del ritorno a casa, rincontra il Gatto e la Volpe, che, ormai disoccupati, si fanno passare per mendicanti invalidi e scoperto delle monete, studiano un piano per soffiargliele. Sulle prime lo inducono ad offrigli una cena e poi lo convincono dell'esistenza di un terreno, il "campo dei miracoli", dove i suoi "miseri zecchini" si sarebbero moltiplicati su di un albero se sotterrati. Di principio, il Grillo Parlante, reincarnatosi in una gallina, cerca di avvertirlo, ma viene zittito dal Gatto. Dopo aver cenato, Pinocchio viene risvegliato dall'oste a tarda notte e parte alla ricerca del Gatto e della Volpe (già usciti dall'osteria) e questi, nel tentativo di soffiargli le monete con le cattive, si camuffano coprendosi con due lenzuola e lo inseguono per tutto il bosco. Il giorno dopo, Pinocchio è ancora inseguito e, scorgendo una casa, corre a chiedere aiuto. La casa si scopre essere abitata dalla Fata, che però si rifiuta di aiutarlo come punizione. Pinocchio viene acciuffato dal Gatto e la Volpe, che insaccano nei loro lenzuoli, poi, vedendo che Pinocchio non intende dirgli dove sono le monete, decidono di impiccarlo ad un albero. Gatto fa cadere, però, la corda e Pinocchio pare essere morto per la caduta, ma si scopre che la Fata lo ha salvato trasformandolo in burattino (sotto gli occhi stupiti dei due furfanti, che si rendono conto che Mangiafoco non si era sognato nulla) e gli da abbastanza forze da raggiungere casa sua, dove crolla all'ingresso. Dopo essere stato visitato da due medici, Pinocchio risulta essere sano, ma i due dottori sono combattuti se lasciare che resti burattino o se meriti di tornare bambino. Dopo alcune domande poste dalla Fata a Pinocchio, che ha risposto con molte bugie (motivo per cui gli si è allungato il naso), il burattino ridiventa in carne ed ossa. La Fata gli promette di farlo riunire a Geppetto, ma Pinocchio esce per andare a riprendere i soldi che aveva nascosto, ma incontra il Gatto e la Volpe, che riescono a convincerlo a seppellire i soldi al campo dei miracoli e, mentre Pinocchio corre a prendere l'acqua da annaffiare, i due dissotterrano le monete e scappano.
Quarta puntata. Pinocchio, su suggerimento di un contadino, denuncia il furto ad un giudice del posto, che però lo mette in prigione, incredulo della sua storia, ma viene liberato grazie ad un'amnistia, quattro mesi dopo. Geppetto, intanto, trova al porto da cui è partito il teatro ambulante il vestitino di Pinocchio e si convince definitivamente che Mangiafoco ha rapito il suo bambino per portarlo con sé nelle lontane Americhe. Quando esce di prigione, Pinocchio decide di ritornare alla casa paradisiaca della Fata. Sulla via, s'imbatte in un mostro dall'alito di fumo simile ad un serpente. Dopo essere cascato nel fango, scopre essere nient'altro che uno scherzo di Carnevale di alcuni bambini, che ridono a crepapelle. Abbattuto il "mostro" a calci, Pinocchio ritorna al luogo in cui si dovrebbe trovare la casa della Fata, ma non trova altro che una tomba, sulla quale c'è scritto che quest'ultima è morta di dolore, cioè che il suo spirito è tornato in cielo, poiché già era un essere morto. Dopo aver pianto per una giornata intera, Pinocchio cammina fino a che non trova una vigna e, in preda alla fame, tenta di rubare un grappolo d'uva, ma finisce imprigionato in una tagliola. Il padrone della vigna gli assegna una crudele punizione, legandolo alla catena affinché prendesse il posto dell'ormai defunto cane Melampo, ma riceve in dono la libertà dopo aver abbaiato di notte sventando un furto alle galline e così decide di andare alla ricerca di suo padre. Lo stesso contadino, però, dice di aver visto Geppetto al porto. Pinocchio corre felice al mare proprio nel momento in cui Geppetto, imbarcatosi alla sua ricerca su una zattera, sta per essere travolto dalla tempesta. I due si salutano da lontano, un attimo prima che Geppetto e la sua barca si inabissino. Pinocchio, non volendo perderlo di nuovo, si butta in mare per salvarlo, ma viene respinto sulla spiaggia dalle onde. Pinocchio, convinto ormai di essere rimasto solo al mondo, incontra Lucignolo, uno scolaro svogliato che è fuggito di casa. Pinocchio si appoggia a lui e diventa complice di un furto di otto ciambelle che i due mangiano nascosti in un magazzino abbandonato sulla strada.
Quinta puntata. Pinocchio si risveglia nel magazzino da solo, scoprendo che è stato abbandonato da Lucignolo e così ritorna in paese, chiedendo l'elemosina a diversi lavoratori, che gli rispondono la stessa cosa: "chi non lavora non mangia" e se vuole guadagnarsi anche un pezzo di pane, dovrà almeno fare qualcosa. Cedendo dalla fame, Pinocchio accetta di aiutare una donna dai capelli turchini di riempirle la caraffa e di portare la sua borsa a casa in cambio di un lauto pranzo. Sulla via, Pinocchio si accorge che la donna è la Fata e che la casa è tornata al suo solito posto. Pinocchio racconta alla Fata ciò che gli è accaduto e quest'ultima gli riferisce che Geppetto è ancora vivo e che sarà lei stessa a farlo tornare appena il ragazzo imparerà a comportarsi correttamente e così Pinocchio decide di riprendere gli studi seriamente, diventando l'alunno modello della classe, ma non prima di aver ricevuto una bacchettata sulle mani dal maestro per un lavoro non svolto come si deve. La Fata è ormai propensa al riportare Geppetto e dice a Pinocchio che organizzerà una festa per i suoi buoni voti a cui sono invitati tutti i suoi compagni e pure il maestro, ma il giorno in cui questa festa avrà luogo, Lucignolo fa ritorno in classe grazie ai carabinieri. Pinocchio, che ottiene dal maestro il permesso di sedersi accanto a lui, lo invita alla sua festa, ma il ragazzaccio declina l'invito e si fa cacciare dalla classe, scimmiottando il verso della pecora. Pinocchio, che si fa cacciare anche lui dalla classe per lo stesso motivo, lo segue e lo accompagna, scappando dalla scuola, fino al magazzino dove hanno mangiato le ciambelle, affinché accendano un fuoco per fermare il carro che lo porterà nel Paese dei Balocchi, un posto dove non ci sono scuole o regole, ma solo divertimento a volontà. Aiutato l'amico, Pinocchio torna a casa ormai tardi, quando la promessa festa è ormai finita e la Fata stava dormendo, quindi Lumaca, la cameriera, impiega diverse ore per vestirsi e aprire Pinocchio ormai zuppo dalla pioggia. Come se non bastasse il danno, Pinocchio, punito per essere scappato dalla scuola, ottiene pure la beffa con una cena finta da mangiare. Offeso, il ragazzo scappa e raggiunge Lucignolo per venire con lui nel Paese dei Balocchi e una volta raggiunto il carro, fa giusto in tempo a salire con l'amico verso il meraviglioso paese. Dopo una giornata intera a giocare e a mangiare dolciumi (anche se Lucignolo, annoiato dall'atmosfera, sembrava aver più voglia di sigari), i ragazzi vanno a dormire, inconsapevoli di cosa li aspetta l'indomani, convinti di veder realizzate diverse promesse che si riveleranno ben presto false.
Sesta puntata. Lucignolo e Pinocchio, dopo la serata di divertimenti e di illusioni nel paese dei Balocchi, si risvegliano la mattina dopo, insieme a tutti gli altri bambini, con delle orecchie da somaro e, ben presto, si trasformeranno entrambi in ciuchini, pronti per la vendita ai compratori di bestiame. Al momento della vendita, però, soltanto Pinocchio viene scelto, suo malgrado, per essere consegnato al direttore di un circo. L'ammaestratore equestre lo fa saltare e ballare durante il suo spettacolo ma, una sera, Pinocchio riconosce tra il pubblico la Fata Turchina, addolorata nel vederlo in quello stato. Sorpreso per l'incontro, Pinocchio cade fatalmente dalla gradinata degli spalti e si azzoppa gravemente. Non potendo più ballare, il circo lo rivende. A comprarlo è un suonatore di tamburi, ma prima, la Fata ha un ultimo incontro con lui: ormai delusa e non potendo più di ciò, ella rinuncia alla sua idea di trasformarlo nel bambino che Geppetto aveva da sempre desiderato, ma decide di compiere l'ultimo miracolo e farà in modo che si riunisca con il padre e allora il tamburino lo butta in mare per annegarlo e farne così un tamburo con la sua pelle. Grazie alla Fata, Pinocchio, in acqua, ritorna ad essere un burattino di legno come prima, si stacca dalla corda e nuota quindi verso il largo. Qui però viene inghiottito dal Terribile Pesce-cane, un mostro marino simile ad una balena e una volta finito nel suo ventre, ritrova Geppetto, da tempo rifugiatosi lì dentro dopo il naufragio durante il viaggio verso le Americhe. Padre e burattino finalmente si ritrovano. Non solo: Geppetto, saputa tutta la storia, si lamenta con la Fata del perché di tanta preoccupazione e di perché così tanti guai, ritenendosi lui stesso adatto ad educarlo con metodi più civili rispetto alla trasformazione in un fantoccio di legno. In tutta risposta, Pinocchio diventa definitivamente un bambino e la sua anima è uscita dal burattino. Contro la decisione di Geppetto di continuare a vivere nel ventre del Pesce-Cane, da lui ritenuta una situazione confortevole (lontano da creature malevole come Gatto, Volpe e Lucignolo), Pinocchio convince invece il falegname a scappare da quella insolita prigione, grazie all'aiuto di un enorme tonno che, generoso, li prende entrambi in groppa per riportarli fino a riva. I due arrivano finalmente su una spiaggia e, scorgendo in lontananza la casa della Fata, Pinocchio invita Geppetto a correre verso essa.
Il burattino. Inizialmente per la realizzazione del burattino era stato chiamato l'artista Carlo Rambaldi, che successivamente ha dichiarato: «La Rai mi affidò dei provini per realizzare il burattino. Ricordo che venne un uomo della produzione a trovarmi in officina. Non sapevo che fosse un ingegnere meccanico. Mi pose diverse domande sui procedimenti adottati e sui meccanismi. Poi non seppi più nulla. Dopo un po' un mio collaboratore mi spiegò che avrebbero dovuto dipingere Pinocchio. Mentre il "Radiocorriere" annunciava la messa in onda della prima puntata. Ovviamente non era il mio Pinocchio». Rambaldi fece così ricorso al tribunale. «Solo una perizia avrebbe potuto stabilire se il Pinocchio che la Rai stava per trasmettere era lo stesso concepito da me». Disse inoltre: «Comencini e i produttori del film mi chiesero se potevo mettere a punto un Pinocchio meccanico dai movimenti credibili. Dovevo farlo a mie spese perché non c'erano soldi, dietro la promessa che dopo me lo avrebbero fatto realizzare in modo più professionale. Io feci questo pupazzo di Pinocchio e ricordo che Renato Guttuso, con cui stavo lavorando alle scene di una Carmen, voleva comprarlo a tutti i costi. Di pupazzi io ne feci tre: uno che scagliava il martello, uno che camminava, e un altro che parlava e gesticolava. Girammo dei provini a Cinecittà e alla fine dissi: “Quando avrete firmato il contratto con la Rai, chiamatemi”. Invece nessuno si fece più vivo. Mesi dopo, scopro che stanno facendo il film e stanno scopiazzando le mie invenzioni. Gli ho fatto causa. E l'ho vinta.»
Colonna sonora. La celebre colonna sonora fu composta da Fiorenzo Carpi, e ha avuto molte reinterpretazioni. Fra i suoi brani si ricordano:
il tema di Lucignolo (titoli di testa)
il tema di Pinocchio o Birichinata (titoli di coda dei singoli episodi)
il tema In cerca di cibo, di carattere melanconico
il tema di Geppetto, anche interpretato come canzone da Nino Manfredi (titoli di coda dell'ultimo episodio).
il tema della Fata Turchina o Tre per tre, anch'esso adattato in forma di canzone.
Differenze tra il romanzo originale e lo sceneggiato.
Nel romanzo originale Pinocchio diviene bambino solamente alla fine della storia, dopo un periodo in cui si dimostra laborioso e diligente, mentre in questo sceneggiato, Pinocchio diviene di volta in volta bambino o burattino per essere punito, premiato o salvato dalla Fata.
Nel romanzo originale non si sa se Geppetto sia vedovo o celibe, mentre in questo sceneggiato si sa che la Fata è in realtà il fantasma della moglie defunta.
Nel romanzo originale Geppetto era calvo con una parrucca gialla come la polenta, motivo per cui era soprannominato "Polendina", mentre in questo sceneggiato i capelli di Geppetto sono naturali secondo la finzione.
Nel romanzo originale Geppetto finisce in prigione perché si temeva desse una punizione troppo violenta al burattino, mentre invece in questo sceneggiato l'anziano falegname finisce in prigione dopo che il figlio ruba un pezzo di formaggio ad un pescatore e i carabinieri non credono alla storia di Geppetto.
Nel romanzo originale le tre pere mangiate da Pinocchio erano la colazione di Geppetto durante la sua prigionia, mentre in questo sceneggiato queste vengono appoggiate casualmente da Mastro Ciliegia sul davanzale della finestra.
Nel romanzo originale Pinocchio dice la frase "lo leggerei volentieri ma per l'appunto oggi non so leggere" quando incontra un ragazzo che gli legge la scritta "GRAN TEATRO DEI BURATTINI"; invece in questo sceneggiato Pinocchio dice questa frase quando chiede al bidello dove si trova la scuola ed egli gli indica la scritta "PALAZZO SCOLASTICO".
Nel romanzo originale Pinocchio vende l'abecedario ad un rivenditore di panni usati, mentre in questo sceneggiato il compratore è un passante qualsiasi e avviene uno scontro tra il figlio e Geppetto appena questi si accorge che il bambino tiene in mano l'abecedario rilegato con la carta a fiori.
Nel romanzo originale i burattini erano tutti parlanti e animati come Pinocchio, mentre in questo sceneggiato i burattini sono manovrati e doppiati dai dipendenti di Mangiafoco (memorabile a questo proposito è la frase del gatto e della volpe "Veramente un burattino che salta da solo sul palco è una cosa piuttosto insolita. Avrà avuto le traveggole signor Mangiafoco").
Nel romanzo originale il gatto e la volpe erano due bestie fannullone che vivevano di raggiri verso il prossimo e si fingevano uno cieco e uno zoppo, mentre in questo sceneggiato il gatto e la volpe erano due imbonitori di Mangiafoco, che animavano siparietti prima del suo spettacolo e indossavano costumi da gatto e da volpe (restituiti dopo la ribellione verso il loro principale), ma dopo il licenziamento si sono ritrovati a chiedere le elemosina (fingendosi anche in questo sceneggiato uno cieco e uno zoppo).
Nel romanzo originale i personaggi minori sono quasi tutti animali parlanti, mentre in questo sceneggiato questi sono sostituiti da esseri umani, anche se in alcuni casi il loro aspetto o il loro abbigliamento ricordano in qualche modo gli animali (così per la civetta e il corvo, che erano i due medici, o per la lumaca serva della Fata). Il serpentone dalla coda fumogena, in questo sceneggiato, era un fantoccio con dei fumogeni all'interno della bocca, manovrato da dei ragazzini burloni intenti a fare uno scherzo al primo gonzo che sarebbe passato di lì. L'unica eccezione è stata fatta per il Grillo Parlante, rappresentato sotto forma di ombra sul muro e che non ricompare più dopo essere stato ammazzato con una spargicenere ed inoltre si rincarna in una gallina quando invita Pinocchio a diffidare del Gatto e della Volpe, mentre nel romanzo originale questo compito spetta ad un merlo.
Nel romanzo originale non è chiara la ragione per cui Pinocchio finisce in prigione dopo aver denunciato il furto delle monete d'oro da parte del gatto e della volpe; si può solo intuire che in un paese come "Acchiappacitrulli", come si evince dal nome, vigeva la legge di arrestare i creduloni, mentre in questo sceneggiato il giudice si dimostra incredulo alla storia di Pinocchio. Un paese dalla simile descrizione si vede nel luogo in cui Pinocchio incontra Gatto e Volpe.
Nel romanzo originale non si sa perché Geppetto voglia andare a cercare Pinocchio nel "nuovo mondo", mentre in questo sceneggiato l'idea nasce dal fatto che Mangiafoco stava per partire nelle lontane Americhe e Geppetto era convinto che il burattinaio gli avesse rapito il figlio.
Nel romanzo originale Pinocchio, benché teoricamente ancora analfabeta, era in grado di leggere quel che c'era scritto sulla tomba della Fata (è comunque possibile che abbia imparato a leggere in prigione), mentre in questo sceneggiato, non essendo ancora istruito, si è fatto aiutare da un passante.
Non è presente il cane Medoro in questo sceneggiato, così come è stata saltata la scena di Pinocchio che rifiuta la medicina amara della Fata. È assente inoltre la scena di Pinocchio che marina la scuola per andare al mare con i suoi compagni che gli inventano la scusa del pescecane per convincerlo e quindi è assente anche il Pescatore Verde, tuttavia Pinocchio, dopo essere stato castigato dal maestro per aver scimmiottato il verso della pecora insieme a Lucignolo, scappa da scuola con l'amico, che strada facendo gli parla del paese dei Balocchi e quando torna a casa, la Lumaca gli fa trovare una cena a base di cibo fasullo (come nel romanzo originale) e Pinocchio a questo punto, indispettito dallo "stupido scherzo", scappa con il ragazzaccio nel magico paese.
Nel romanzo originale non si sa nulla dei genitori di Lucignolo, mentre in questo sceneggiato compare la madre e si viene a sapere che ha un padre mediante i dialoghi. In questo sceneggiato, inoltre, Lucignolo convince Pinocchio a rendersi suo complice in un furto di frittelle; scena del tutto assente nel romanzo originale.
Nel romanzo originale la fata dapprima è una bambina, ma poi cresce appena Pinocchio la ritrova nell'isola delle Api Industriose dopo la provvisoria morte. Invece, in questo sceneggiato la Fata è adulta da principio e inoltre distribuisce la minestra ai poveri quando Pinocchio la rincontra: per far sì che Pinocchio si guadagni il pranzo, si fa portare la borsa, non la brocca d'acqua come nel romanzo originale.
Nel romanzo originale Geppetto si lascia convincere da Pinocchio ad uscire dal pescecane e i due si trovano in difficoltà una volta in mare, quindi vengono soccorsi dal tonno parlante che li aveva seguiti, mentre in questo sceneggiato il tonno è il primo a tentare la fuga e si offre di accompagnare a riva il padre ed il figlio ed inoltre Geppetto era restio all'idea di uscire dal ventre del pescecane.
Nel romanzo originale, appena Pinocchio e Geppetto escono dalla bocca del pescecane, Geppetto si ammala e Pinocchio lo assiste lavorando e studiando ed incontra strada facendo Lucignolo divenuto un asino e ormai sul punto di morire di stenti e poi ritrova il gatto e la volpe divenuti davvero due poveri disgraziati, mentre in questo sceneggiato appena Pinocchio e Geppetto arrivano sulla terraferma, si sa solo che trovano una casa e chiedono ospitalità, ma poi non si sa più nulla né di loro né degli altri personaggi.
Curiosità. La casa della Fata turchina viene erroneamente confusa con il casino di caccia borbonico del Lago Fusaro (NA); in realtà le scene furono girato sul Lago di Martignano nel Lazio.
Il pisano Balestri fu scelto tra numerosi bambini delle scuole elementari toscane, convocati dal regista per l'audizione: nonostante la tenera età, era infatti di carattere vivace e ribelle, come richiesto. Tuttavia, in molte scene Balestri eseguì numerose interpretazioni con voce eccessivamente stridula, tanto che Comencini dovette far ridoppiare Balestri da sé stesso in fase di missaggio. Nonostante l'enorme successo del 1972, Balestri seguì solo parzialmente la strada del cinema. Da adulto, fu (e viene tuttora) invitato a numerose trasmissioni e interviste, e si è occupato di un percorso video-teatrale itinerante dedicato al film di Comencini, in memoria del regista, scomparso nel 2007.
Domenico Santoro (Lucignolo) era invece un ragazzino napoletano, orfano di padre e con dieci fratelli. Lavorava in un'officina di autoriparazioni e fu scelto grazie a un documentario TV sul lavoro minorile che Comencini aveva girato un anno prima. Dato il suo spiccato accento partenopeo, fu doppiato da uno sconosciuto ragazzino di Livorno, scelto dal regista in fase di missaggio[6]. Anche Santoro non seguì la strada del cinema: dopo aver lavorato sempre con Balestri in Torino nera (dello stesso anno), di carattere più riservato, ritornò nell'anonimato a Napoli.
Ugo D'Alessio (Mastro Ciliegia), anch'egli attore di marcato accento napoletano, fu invece doppiato da Riccardo Billi, lo stesso attore che interpreta l'Omino di Burro. Billi prestò anche la voce al Grillo Parlante nella canzone "Una stella cade" nel celeberrimo film animato prodotto dalla Disney nel 1940, e recitò in un ruolo secondario nel film Le avventure di Pinocchio di Giannetto Guardone nel 1947.
Mario Adorf, che interpreta il direttore del circo in questo sceneggiato, interpretò Geppetto nella miniserie televisiva del 2013 sullo stesso soggetto, realizzata dalla regista tedesca Anna Justice e ancora inedita in Italia.
il burattino di legno utilizzato nel film fu opera di Oscar Tirelli, che se ne curò anche durante le scene. Ne furono fatti tre esemplari: uno statico, il cui originale poi acquistato da un imprenditore di Nizza, uno meccanico, utilizzato per le scene in movimento, oggi conservato negli archivi della San Paolo Film di Milano, più una testa senza occhi (per le scene del movimento meccanico degli occhi), conservata nel Teatro Prati di Roma [7], e un altro acquatico, costituito da vari pezzi divisi e impermeabili, per le scene in acqua, conservati negli archivi Cinepat di Roma.
Lo sceneggiato venne realizzato a colori, nonostante all'epoca la Rai trasmettesse ancora in bianco e nero (le trasmissioni a colori regolari della Rai inizieranno solo cinque anni dopo, il 1º febbraio del 1977).
Il design del burattino si ispira ai disegni di Carlo Chiostri, uno tra i primi illustratori del romanzo di Collodi.
La scena in cui Pinocchio scavalca il muretto della scuola per seguire Lucignolo inquadra anche un'antenna TV, anacronistica rispetto all'ambientazione temporale della vicenda.
Luoghi delle riprese. A dispetto dell'ambientazione toscana della novella di Collodi, lo sceneggiato fu girato principalmente nel Lazio, tra le province di Roma e di Viterbo:
Farnese (Viterbo) - set utilizzato per l'inizio della vicenda. Il borgo della Chiesa di Sant'Umano è la casa di Geppetto, di Mastro Ciliegia e Bottega di Teodoro. Casa Farnese, in centro paese, c'è la finta stazione dei Carabinieri. Dietro il Monastero delle Clarisse c'è sia il luogo delle scene del Lavatoio sia la casa del paesano che tira l'acqua dalla finestra in testa a Pinocchio. Via Colle S. Martino (retro del Municipio) è invece il luogo della scena del "Palazzo Scolastico" e dell'Osteria "Vendita Vino".
Ischia di Castro (Viterbo) - Il ponte dove Geppetto cerca Pinocchio, situato nel Fiume Fiora.
Isola Farnese (Roma) - L'Osteria del Gambero Rosso.
Lago di Martignano - La casina della Fata[9], la tomba della Fata.
Antemurale del Porto di Civitavecchia (Roma) - Ricostruzione (nella parte interna) del borgo dei pescatori dal quale, su una piccolissima barchetta, parte Geppetto per le lontane Americhe in cerca di Pinocchio; sull'esterno del molo, scena dell'arrivo di Pinocchio che si tuffa in aiuto di Geppetto già in balia dei marosi: ambedue vengono inghiottiti dal mare.
Colle Fiorito (Guidonia) - Il Paese dei Balocchi; le scene furono girate nei Baracconi, dei capannoni adibiti alla essiccazione del tabacco, poi demoliti a metà degli anni novanta per costruire il primo centro commerciale della zona: Piazza Italia, Centro commerciale La Triade.
Saline di Tarquinia (Viterbo) - Il paese dove Pinocchio conosce Lucignolo, ritrova la Fata creduta morta, con la sua casina sul lago, e frequenta la scuola.
Teatro Sociale di Amelia (Terni) - Il circo in cui Pinocchio, tramutato in somaro, è maltrattato dal direttore e finisce con il rompersi una zampa.
Spiaggia di Torre Astura (Nettuno) - La spiaggia dove approdano Pinocchio e Geppetto fuggiti dalla pancia del pescecane, alla fine dello sceneggiato.
Caprarola (Viterbo) - La classe degli asini.
· Il Mito di Zorro.
Il caballero mascherato che "tira" da cent'anni. Il primo, storico film con Douglas Fairbanks uscì nel 1920. E creò un filone tuttora inesauribile. Stefano Giani, Sabato 18/01/2020, su Il Giornale. Il marchio era irridente. Due tratti paralleli - entrambi da sinistra a destra - e uno obliquo a unirli, da destra a sinistra dall'alto in basso. In una parola, zeta. Campeggiava beffarda su tutto. La taglia fuori dall'osteria. Il tronco degli alberi. I vestiti. Perfino sulle natiche extralarge del sergente Garcia. Il nemico di Zorro e l'amico di don Diego de la Vega. Uno scacco che nasconde già un paio di segni particolari dello spadaccino più famoso della California. Don Diego è Zorro ma sono in pochi a saperlo. Nella trama, s'intende. E il panciuto soldatino ignora che l'uomo con cui va tanto d'accordo è il suo avversario dichiarato. Il doppio - l'uomo e il suo alter ego - s'innesta su due diversi livelli di conoscenza. A saperne di più rispetto ai personaggi della storia è lo spettatore o, se preferite, il lettore. Quale dei due, per il caballero mascherato, è indifferente. Compie cent'anni e un pugno di mesi non gli fanno certo effetto. Dalla carta alla celluloide, ovvero dal libro al cinema. A inventarlo fu un mediocre scrittore di riviste popolari e commerciali, quel Johnston McCulley che nell'agosto del 1919 pubblicò su All story weekly un romanzo breve, intitolato La maledizione di Capistrano. Fu un successo immediato perché di quel gentiluomo con i baffi, che scherzava con i potenti e li infilzava a fil di spada sotto mentite spoglie, s'innamorarono un po' tutti. Fu così che la storiella fece l'ambizioso salto. Di lì a un annetto - era novembre del Venti, giusto un secolo fa - finì sul grande schermo. Il segno di Zorro, girato presto e bene da Fred Niblo, un reuccio al botteghino, arruolò una star dell'epoca nel ruolo di don Diego e del suo eroe. Douglas Fairbanks ne consacrò la fama, sua e letteraria. La United artists - fondata quell'anno dall'attore con la moglie Mary Pickford, l'amico del cuore Charlie Chaplin e il regista David Wark Griffith - lo produsse come uno dei suoi primi film. Era ancora la stagione del muto e la serialità nessuno sapeva cosa fosse. Eppure, quei tempi non sospetti segnarono l'inizio dei sequel e nel '25 arrivò Don X, figlio di Zorro, sempre con Fairbanks protagonista. L'astuto gentiluomo e caballero, in sella al suo Tornado, faceva giustizia di soprusi e ingiustizie. Difendeva i deboli. Puniva funzionari corrotti e tirannici. Si beffava di ricchi e potenti, salvo poi mescolarsi a loro, facendosi burla degli sforzi di catturarlo. Insomma una sorta di Robin Hood americano, diventato icona di bellezza. Galanteria. Abilità. E soprattutto giustizia, nella terra dei peones oppressi dai latifondisti. Già, il fascino. La Settima Arte, sensibile al gusto di piacere, scelse i sex symbol al maschile e, dopo Fairbanks, nel 1940 toccò a Tyrone Power mettersi il mantello nero, bendarsi il viso e salire a cavallo di Tornado. E nel '75 Duccio Tessari s'inventò Alain Delon nei panni di don Diego in un anno che vantò pure due rifacimenti in chiave di parodia. Zorro, l'inafferrabile, sarebbe stato identificato in Joaquin Murrieta - bandito indomabile o accanito patriota messicano, dipende dai punti di vista - che visse tra il 1829 e il 1853 un'esistenza temeraria e turbolenta. E Murrieta riconduce ad Antonio Banderas, con Anthony Hopkins tra i protagonisti più recenti del personaggio ne La maschera di Zorro del '98 e il sequel The Legend of Zorro del 2005. Il caballero era ormai popolarissimo. Merito anche di una serie televisiva prodotta dalla Disney tra il 1957 e il 1959 con Guy Williams che bambini di varie generazioni si sono trovati in casa. Compagno fedele di tanti pomeriggi dopo i compiti e prima di cena. Quel galantuomo che si avvaleva di un maggiordomo muto ma non sordo, il fido Bernardo che origliava tutto e riferiva a gesti, aveva un cuore che batteva per la sua Lolita. Erano altri tempi. Don Diego voleva giustizia e non a caso giocava la parte del gentiluomo salottiero e quella del censore mascherato che metteva fine alle angherie. Il primo doppio della storia del cinema che avrebbe poi frequentato il tema, facendone indigestione. Zorro aveva fatto scuola. Chi ne aveva individuato un predecessore letterario in Sir Percival Blakeney, la famosa Primula rossa della baronessa Emma Orczy, non aveva potuto non notare che il cavaliere mascherato aveva messo al mondo un figlio celebre. Con Batman i punti di contatto sono molti. La crociata nel difendere gli oppressi. Il costume nero con la mantella. Tornado aveva perso la criniera ma acquistato quattro ruote. Il maggiordomo aveva preso la parola. Era un doppio. Si travestiva in una caverna. E aveva il nome di un animale. Zorro, la volpe. Batman, il pipistrello.
· Buon compleanno, Pippi Calzelunghe.
Viva Pippi Calzelunghe. Ribelle senza ideologie odiata dai sessantottini. Il personaggio inventato da Astrid Lindgren è anticonvenzionale, ma molto pro famiglia. Vito Punzi, Martedì 22/09/2020 su Il Giornale. Un doppio anniversario (settantacinque anni dall'uscita del suo libro Pippi Calzelunghe e cinquanta dalla serie televisiva, da quello ispirata) ci aiuta a ricordare come per decenni in Italia si sia parlato della scrittrice svedese Astrid Lindgren (1907-2002) come dell'inventrice di una letteratura per l'infanzia che ha la propria ragione d'essere nella critica al modello tradizionale di famiglia: l'anti-convenzionalità e l'insubordinazione di Pippi sarebbero, secondo le lettrici emancipate, i tratti con i quali la Lindgren voleva lucidamente proporre modi di essere diversi da quello tradizionalmente imposto e codificato. Si vuol forse intendere che la scrittrice volesse mettere in discussione quella prima, complessa realtà educativa e sociale che è la famiglia? O forse la si vuol abbinare a un modello che concepisce come indifferente la presenza o meno di un padre e di una madre accanto al proprio bambino? La Lindgren non ha nulla che fare con tutto questo. Proviamo a ricordare alcuni tratti della sua biografia, insieme ad alcune sue dichiarazioni poco note in Italia. Dopo la nascita della sua Karin, nel 1937, la scrittrice svedese decise di trascorrere alcuni anni da casalinga, proprio per essere accanto a sua figlia. Così commentava lei stessa alcuni decenni dopo quella scelta: «Una donna ha il diritto di avere un proprio lavoro, di essere autonoma e di guadagnare denaro, ma se ha figli dovrebbe amarli al punto di decidere di passare con loro almeno i primi anni della loro vita. Non dovrebbe pensare: che peccato, essere così legata ai propri figli!». La stessa idea del personaggio Pippi le venne nel 1941, assistendo la figlia, costretta a letto da una malattia. In Germania, dove ancor oggi è una della scrittrici più lette (a lei sono dedicate almeno un centinaio di scuole), il successo è stato enorme, fin dall'uscita del primo libro dedicato a Pippi, pubblicato nella Repubblica Federale nel lontano 1949. Un successo che pure, in varie epoche, ha pagato pesanti dazi. Cominciarono i sessantottini, quando nel contesto delle spietate critiche alla fiaba (un genere troppo lontano dalla realtà, si diceva) qualcuno arrivò ad accusare la svedese di trasformare il «bisogno di protesta proprio dei bambini in fantasticherie favolistiche, ingabbiandolo nelle pagine dei suoi libri». In tempi di cupa difesa dell'ideologia realista un mondo come quello di Bullerby non poteva essere tollerato. Ancor più violenti furono gli attacchi subiti dalla Lindgren nel 1978, quando si decise di assegnarle il prestigioso Premio dei Librai Tedeschi per la Pace. In una Germania scossa dagli omicidi compiuti dai terroristi della RAF (le brigate rosse tedesche) poteva essere tollerata solo una letteratura per l'infanzia che fosse intrisa di forte critica sociale. Per questo motivo i media dominanti arrivarono a chiedere che almeno non le fosse concesso di tenere il discorso di ringraziamento, com'era ed è tuttora secondo protocollo, nella Paulskirche di Francoforte. Qualcuno tenne duro e la svedese poté così pronunciare la sua orazione, che intitolò significativamente «Mai con la violenza». «Da dove partire?» si chiedeva allora la Lindgren. E quale poteva essere la sua risposta se non: dai bambini. Eppure non c'era nulla di ingenuo in quel suo porre al centro i piccoli. La sua infatti, alla faccia delle letture anarchiche che si sono volute applicare alla sua opera, era anzitutto una preoccupazione educativa: «Un bambino che riceva amore dai propri genitori», così un passo dal suo discorso del 1978, «e che a sua volta impari ad amarli ne guadagna un rapporto amorevole rispetto al suo ambiente e quest'atteggiamento non potrà non accompagnarlo per l'intera sua esistenza». Nessun cedimento dunque, nessuna delega a terzi (Stato, Partito o altro): La famiglia era per lei il luogo del «calore umano», della «sapienza», della «disciplina». Parte integrante della vita familiare erano per lei anche le regole da rispettare: «Un'educazione libera, non autoritaria», proseguiva la Lindgren nel suo intervento, «non significa che si debbano abbandonare i figli, che si debba concedere loro di fare ciò che vogliono. Non significa che debbano crescere senza norme, anche perché sono essi stessi a chiederle». Non è un caso dunque che per anni, in Italia, le sue opere siano risultate pressoché introvabili. Ora sono ripubblicate per i tipi dell'editore Salani, che per i settantacinque anni ha pubblicato Pippi Calzelunghe in edizione integrale e anche in audiolibro.
Buon compleanno, Pippi Calzelunghe. E tu sei più Pippi o Annika? Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Severino Colombo. Pippi Calzelunghe compie 75 anni ma, a dispetto dell’età matura, la bambina che ha rivoluzionato il mondo dei piccoli con il suo spirito ribelle e indipendente, non ha perso nulla del carattere delle origini: non è diventata più saggia, non ha smesso di fare cose matte, continua di giocare e a divertire nuove generazioni di bambini. E c’è da star certi che se oggi a qualcuno venisse in mente di regalarle una torta di compleanno lei, golosa, se la mangerebbe tutta, come ha già fatto in una delle sue celebri avventure, guadagnandosi, come ha già fatto, la disapprovazione dell’adulto di turno. Di lei la sua creatrice, la scrittrice svedese per l’infanzia Astrid Lindgren (1907-2002), disse: «Persino io trovavo Pippi un personaggio piuttosto sconvolgente». Sarà perché Pippi a nove anni abita tutta sola in una grande casa, Villa Villacolle; o perché non ha né mamma (morta) né papà (in viaggio); o, ancora, perché ha una forza eccezionale, «poteva benissimo sollevare un cavallo, se voleva. E voleva». Pippi - capelli color carota e treccine «ritte in fuori» - è libera, senza regole, senza convenzioni («Nessuno poteva dirle di andare a dormire proprio quando si stava divertendo di più o propinarle l’olio di fegato di merluzzo quando invece lei avrebbe desiderato delle caramelle»), non va a scuola, vive con una scimmietta, il Signor Nilson, e un cavallo, per ogni necessità ha una borsa piena di monete d’oro. I suoi compagni di gioco sono Tommy e Annika, due bambini normali che abitano nella casa accanto e che partecipano con un misto di entusiasmo e stupore alle incredibili avventure che lei propone loro. Come era nata Pippi Calzelunghe (in svedese: Långstrump) l’autrice l’ha ricordato in più occasioni: nel 1941 una polmonite aveva costretto a letto la figlia Karin; tra le storie che la madre inventò per tenerle compagnia quelle con al centro la bambina dal nome buffo (nome inventato lì per lì dalla figlia) ebbero molto successo; furono raccontate più e più volte e di lì a qualche tempo presero una forma scritta. Le storie scritte di Pippi furono il regalo della madre alla figlia per i dieci anni; una copia fu proposta al maggior editore svedese Bonnier, che però la respinse. Il volume uscirà nel 1945, con le illustrazioni di Ingrid Vang Nyman, per la casa editrice Rabén & Sjögren, attirando forti critiche e suscitando vivaci polemiche. «Era qualcosa di nuovo – ha ricordato Lindgren nel 1987, in un discorso tenuto a Roma in occasione degli ottant’anni -. Lei non somigliava affatto alle protagoniste dei libri per l’infanzia di quell’epoca. Molti adulti ne furono disturbati, e chiamarono Pippi “una disgustosa monellaccia”». Ben diverso fu invece l’atteggiamento dei piccoli lettori, bambini e soprattutto bambine: Pippi entrò subito nei loro cuori e alla lunga ne decretò il successo. Ricorda ancora Lindgren: «Molte bambine degli anni ’40 mi scrissero poi da adulte, per raccontarmi quale senso di liberazione avevano provato nel leggere Pippi, e quant’era bello che fosse una bambina e non un maschio». In Italia Pippi arrivò nel 1958 pubblicato dall’editore Vallecchi e accompagnata anche da noi da proteste: «Ci scrissero - ricorda Donatella Ziliotto, che per l’editore dirigeva la collana per ragazzi e che aveva curato la traduzione dell’opera – preti, maestre, genitori, trovandolo sconcertante e diseducativo». Poi nel 1988 il libro è stato pubblicato da Salani, terzo titolo della mitica collana Gl’Istrici dopo «Il GGG» e «Le streghe» di Roald Dahl; e nel 2015 in occasione dei 70 dall’uscita, Salani ha proposto un’edizione speciale con le illustrazioni originali, con interventi della stessa Lindgren e della traduttrice italiana. Dopo 75 anni le avventure di Pippi sono diventate un bestseller internazionale, tradotto in più di 75 lingue compreso lo zulù; trasposte in una serie di film e di telefilm di grande popolarità, in cui Pippi ha il volto lentigginoso, indimenticabile, di Inger Nilsson; e ancora sono diventate un musical per Broadway e un cartone animato. Insomma in molti modi il personaggio è entrato nell’immaginario di più di una generazione. Ma qual è il segreto di Pippi? Oggi come ieri vale quanto disse la stessa Lindgren: «Non ci sono messaggi nei miei libri – non in “Pippi”, né in nessun altro. Io scrivo per divertire il bambino che c’è in me e posso solo sperare che, nel fare questo, io riesca a divertire anche qualche altro bambino».
· James Bond.
«IL MIO NOME È JAMES BOND» LA VITA (VERA) DI UNO 007 DI SUA MAESTÀ.
Dal “Corriere della Sera” il 25 settembre 2020. James Bond, creatura dello scrittore Ian Fleming, è un colto ed elegante agente del controspionaggio britannico, il cui numero è 007 (il doppio 0 indica «licenza di uccidere»). Il personaggio debuttò su carta nel 1953, protagonista di Casino Royale ; seguirono altri 12 romanzi. Bond divenne universalmente famoso al cinema: il primo dei 25 film di 007 è Licenza di uccidere , del 1962. Solo ora si è saputo che in Polonia fu inviato un agente dei servizi che portava il nome James Bond nella realtà.
Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 25 settembre 2020. «Il mio nome è Bond, James Bond»: chissà la faccia degli interlocutori, quando si presentava. Anche perché, incredibile a dirsi, sotto quel nome si celava davvero un agente segreto di Sua Maestà. La storia, raccontata ieri da tutti i giornali londinesi, è quella di una vera spia degli anni Sessanta, omonimo dell' eroe dei romanzi di Ian Fleming e dei film con Sean Connery. La vicenda è venuta alla luce grazie agli archivi dell' ex regime comunista polacco, dove sono stati di recente scoperti i file relativi al James Bond in carne e ossa. Lui era arrivato a Varsavia nel 1964 col finto incarico di segretario-archivista dell' addetto militare dell' ambasciata britannica. Ma in realtà si trattava di uno 007 la cui vera missione era quella di penetrare nelle istallazioni militari polacche. A Varsavia, quando scoprirono che per i britannici lavorava un tizio di nome James Bond, avevano avuto un soprassalto: i romanzi di Ian Fleming erano già famosi nel mondo e due anni prima era uscito il film «Licenza di uccidere». Dunque, a scanso di equivoci, le autorità comuniste piazzarono Bond sotto stretta sorveglianza: e si riferivano a lui come «007». D'altra parte, le analogie col personaggio dei film non erano poche: anche il Bond in carne e ossa viene descritto dai polacchi come «loquace, prudente e interessato alle donne». La somiglianza fisica, invece, è scarsa: una foto d' archivio mostra un tipo grassottello e con un' incipiente calvizie. James Bond rimase a Varsavia meno di un anno, andò in pensione alla fine degli anni 60 per assumere il ruolo di capitano dell' esercito e morì nel 2005, a 77 anni. Gli è sopravvissuta la moglie Janette, con la quale ha parlato il Telegraph : la signora, ormai ottantenne, che aveva accompagnato il marito a Varsavia, ha confermato che era una spia e che in Polonia «faceva cose che non avrebbe dovuto fare». La vedova ha aggiunto poi che in casa comunicavano con bigliettini scritti perché sapevano di essere intercettati e che «ci seguivano dovunque». Il vero Bond era nato nel Devon, a differenza di quello fittizio che ha origini scozzesi, e suo padre era un fattore. Ha lasciato un figlio, che adesso ha 65 anni e vive in un villaggio del Somerset: si chiama anche lui James. James Bond.
James Bond è esistito davvero? Gli archivi "svelano" un mistero. Tutti conosciamo il celebre agente segreto uscito dalla penna di Ian Fleming. Ma non potevamo immaginare che all'anagrafe esistesse un vero signor James Bond e che la sua professione fosse proprio quella di "spia" al servizio di Sua Maestà. Davide Bartoccini, Giovedì 01/10/2020 su Il Giornale. Spulciando tra gli archivi dell'Istituto della Memoria Nazionale polacco, è saltato fuori un documento interessante che fa riferimento a un tale signor Bond, James Albert Bond, che è risultato essere al servizio di Sua Maestà durante la Guerra Fredda. La sua missione segreta mentre era di stanza a Varsavia era quella di "penetrare installazioni militari" e raccogliere più informazioni possibili sulla Polonia e su chiunque operasse “oltre cortina” mentre agiva sotto la copertura di segretario archivista dell’attaché militare presso l’ambasciata britannica. Secondo le informazioni svelate dall’archivio, il signor Bond, un donnaiolo nonostante il suo aspetto robusto e poco atletico, sarebbe arrivato in Polonia nel febbraio 1964 con moglie al seguito e vi sarebbe rimasto almeno un anno. Almeno prima di capire che non c’era nessuna informazione che potesse realmente “trafugare” tra le province di Bialystok e Olsztyn. Questo, sempre secondo i documenti scoperti negli archivi polacchi, perché il Dipartimento II del ministero dell'Interno, ossia il controspionaggio noto come l'acronimo di ''Samek'', lo avrebbe sottoposto, fin dal primo momento, ad un rigoroso monitoraggio. Il suo nome, del resto, destava parecchi sospetti. Nato nel 1928 a Bideford nel Devon, secondo i rapporti del controspionaggio era un uomo "loquace, prudente e interessato alle donne". Il loro però, a differenza di quello raccontato nei romanzi, non era né bello né atletico: era un uomo di 36 anni, robusto e stempiato, che poco aveva a che fare con l'ex commando con il volto segnato da una cicatrice e gli occhi di ghiaccio. Uno coincidenza curiosa, dunque, ma non l'ispirazione del ben più noto agente doppio zero, l'omonimo James Bond uscito fuori dalla penna della Ian Fleming, che già nel 1953 pubblicava il primo romanzo di spionaggio della fortunata saga: Casino Royale. Quella spia raffinata e fascinosa traeva ispirazione da un uomo che Fleming, scorbutico e visionario agente del servizio informazioni della Royal Navy, aveva notato seduto al tavolo di baccarat del casino di Lisbona. Nel pieno della seconda guerra mondiale. Avrebbe scoperto soltanto dopo che si trattava di un certo Dušan Popov: spia doppiogiochista che davanti agli occhi di Fleming scommise l'intera somma di denaro che l'MI5 gli aveva affidato per la sua missione, vincendo. Proprio come in farà , spesso, il nostro James Bond da romanzo. Questo almeno secondo una delle tante versioni in circolazione. Dato che altri sostengono, andando contro alcune affermazioni di Fleming, che il suo personaggio si rifarebbe ad un altro omonimo: tale James Charles Bond, anche lui implicato in operazioni segrete direttamente collegabili a Fleming- almeno secondo il nipote Stephen Phillips. Dopo il ritrovamento di alcuni documenti, Phillips si convinse che suo nonno, ufficiale d'intelligence della Special Operations Executive (SOE), era una spia che aveva collaborato con Fleming prima dello sbarco in Normandia. La notizia venne riportata anche dalla Bbc. L'autore ha sempre asserito che il nome dell'agente 007 fosse stato scelto guadando per caso il titolo di un libro di ornitologia che giaceva nella libreria della sua villa giamaicana, Goldeneye. Fleming cercava un nome semplice e James Bond lo era. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che proprio in quel momento - mentre Fleming pigiava convinto i tasti della sua macchina da scrivere per dare vita al suo personaggio, avvolto nel fumo delle sigarette di pregiato tabacco che adorava fumare attraverso un lungo e scenografico bocchino - dall'altra parte dell'oceano, nelle stanze segrete del sesta sezione del Military Intelligence, un vero "M" firmava gli ordini di missione di una vera spia, che rispondeva proprio al nome di Bond. James Bond.
· I Simpson.
Simpson, il messaggio nascosto. Che cosa rivela la famiglia gialla. Aristotele, Kant, Heidegger e Nietzsche spiegano la serie tv che da trent'anni ci racconta i sogni e i fallimenti di una famiglia che ci assomiglia tantissimo. Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Domenica 04/10/2020 su Il Giornale. Non fatevi trarre in inganno: è tutto maledettamente serio. Anzi, filosoficamente serio. Per capire nel profondo le creature di Matt Groening e almeno qualcuna delle innumerevoli sfaccettature della società statunitense contemporanea affidatevi a un affascinante tomo curato da William Irwin, Mark T.Conard e Aeon J. Skoble e pubblicato in Italia da Blackie Edizioni: I Simpson e la filosofia. L'intento è specificato già nel sottotitolo: capire il mondo grazie a Homer, Nietzsche e soci. Diciotto trattati, affidati ad altrettanti filosofi, vi aiuteranno a capire meglio quello che, probabilmente, è uno dei più grandi artefatti culturali degli ultimi trent'anni. Probabilmente quella che vi troverete a maneggiare è l'opera definitiva sui Simpson, una serie televisiva che ci mette davanti "glorie e bassezze di una famiglia gialla che ci assomiglia molto" e che per questo sentiamo molto vicina. I caratteri e le gesta di Homer, Marge, Bart, Lisa, Meggie e di tutti gli abitanti di Springfield diventano così l'occasione per scrivere "un'introduzione, divertente e al tempo stesso rigorosissima, all'opera di pensatori come Aristotele, Kant, Heidegger, Sartre e molti altri". Non un percorso facile perché rilancia temi che hanno a che fare con la nostra quotidianità e che portano il lettore a interrogarsi, facendo un passo oltre le divertenti avventure dei Simpson. L'obiettivo dell'opera, infatti, non è certo quello di "abbassare" il livello dei grandi pensatori ma di avvicinarli a chi solitamente non li mastica. I curatori non credono certo che i personaggi di Groening "siano l'equivalente delle maggiori opere letterarie della storia, tanto profondi da illuminare il comportamento umano in un modo sinora inedito", ma li ritengono "abbastanza profondi e certamente abbastanza divertenti da giustificare una seria considerazione". E così: studiare il carattere Homer aiuta a capire quello che Aristotele scriveva nell'Etica Eudemia. "Sfugge alla nostra indagine che cosa sia il bene e che cosa sia il buono nella vita". Tradotto con parole più esemplificative: "Se Homer Simpson se la cava piuttosto male dal punto di vista morale, come fa a essere ammirevole?". La domanda posta da Raja Halwani, assistant professor di Filosofia al dipartimento di Arti liberali della School of the Art Instiutute di Chicago, è solo una delle tante che l'opera mette a tema. La figura di Lisa, la secondogenita dei Simpson, serve a sviscerare quel rapporto di amore e odio che la società americana nutre nei confronti degli intelletuali e dell'elitarismo e a condannarlo. "Chi difende l'uomo comune dovrebbe farlo senza sminuire le conquiste di coloro che sono istruiti - spiega Aeon J. Skoble - un approccio contrario equivale a difendere il diritto di Homer di vivere da stupido criticando Lisa per la sua intelligenza". E, sebbene molti filosofi siano propensi a credere che non abbia il diritto di farlo, per Skoble è più importante sottolineare che questo atteggiamento è deprecabile perché scoraggia lo sviluppo della nazione e dei singoli individui. Il livello, insomma, è decisamente alto. Tanto da capire l'importanza di "scomodare" così tanti filosofi per spiegare un cartone animato. E non sono nemmeno così tanti se si tiene presente, come specificato anche nell'introduzione, che per realizzare un singolo episodio dei Simpson ci vogliono "trecento persone per otto mesi al costo di un milione e mezzo di dollari". Una vera e propria industria che aiuta a muovere l'economia americana e a spostarne l'opinione pubblica. Perché, si sa, a guardare questa serie tv non sono solo gli adolescenti che guardano a Bart come una sorta di "esempio cautelativo", parte integrante "della decadenza e del nichilismo che pervade la nostra società". Perché, dunque, guardare i Simpson? La loro comicità, per dirla con le parole di Nietzsche, diventa uno "sfogo del disgustoso dell'assurdo". "Come satira sociale, come commento sulla società contemporanea, raggiungono spesso una straordinaria intensità", spiega Mark T. Conrad nel capitolo su Bart e la virtù della cattiveria. "Non di rado è davvero eccellente, nella migliore accezione greca del termine. E generalmente raggiunge questa eccellenza prendendo i disparati elementi della caotica vita americana e riplasmandoli, dando loro forma, dando loro stile, forgiandoli in qualcosa di sensato e a volte di bellissimo, anche se si tratta solo di un cartone animato".
· Artisti Anticonformisti.
I geni che avevano scelto il distanziamento (a)sociale. Proust barricato, Darwin solitario, Gould intoccabile E Warhol s'invecchiava per non apparire attraente. Massimiliano Parente, Domenica 20/12/2020 su Il Giornale. Vi dico la verità: a me il distanziamento sociale piace, non ho mai amato la vicinanza dei corpi estranei, le strette di mano, i contatti fisici non desiderati. Vero anche che sono ipocondriaco, e Covid a parte ho sempre pensato che chiunque può trasmetterti qualsiasi cosa, e anche quando mi vedo mi sento comunque qualsiasi sintomo, e quando non ho sintomi penso di avere i sintomi dell'asintomatico. Anche per questo mi sono ritrovato in molte storie narrate da Brian Dillon nel libro Vite di nove ipocondriaci eccellenti (il Saggiatore), perché nulla conforta di più l'ipocondriaco che ritrovare il proprio disagio negli altri, specie se illustri. Ho trovato, insomma, molti miei parenti. Marcel Proust è da sempre stato mio fratello, oltre che lo scrittore che ho più studiato: soffriva d'asma ma della sua malattia ha fatto una barriera per tenere lontano il mondo e dedicarsi alla sua opera. Era malato, ma esagerava i sintomi per ottenere le attenzioni della mamma e in generale per tenere lontano il prossimo. Come Charles Darwin, che per me è un padre, e padre della teoria scientifica che ha cambiato per sempre la storia dell'uomo (il suo primo schizzo sull'evoluzione, disegnato su un bloc-notes nel 1837, ce l'ho tatuato sul braccio, se proprio dovevo avere un tatuaggio ho scelto il disegno più importante per la nostra specie, avendo dovuto vincere la fobia di affrontare un ago e un tatuatore).
Soffriva di tutto papà Charles, vomito nervoso, tremori, aerofagia, brividi, a tal punto che nelle lettere a Joseph Hooker disperava di riuscire a scrivere qualcosa di valore scientifico (incredibile, proprio lui, Darwin), e si sentiva «spento», «stupido», «vecchio», «fiacco». Ma, come nel caso di Proust, scrisse che «la cattiva salute, sebbene abbia annientato diversi anni della mia vita, mi ha risparmiato le distrazioni della società e del divertimento». Non voleva frequentare scienziati, voleva dedicarsi alla sua ricerca in solitudine, e non c'è niente di meglio che convincere sé stessi e gli altri di stare male. Ah, e poi il mio cugino Glenn Gould, che all'ipocondria univa la mia stessa farmacodipendenza: prendeva di tutto, indipendentemente dalle necessità, farmaci per l'ipertensione, il mal di testa, la gotta, la costipazione, vitamina C in quantità industriale, e con Glenn condivido anche l'indifferenza verso i piaceri della tavola, mangiava tutto quello che gli capitava secondo gusti ancora adolescenziali, come me. Quando un autore di un libro di ricette, nel 1973, gli chiese il suo piatto preferito per inserirlo nel volume, Gould rispose: «La mia attitudine di base è che si tratti di una scocciatura che richiede tempo. E sarei felice di potermi procurare tutti gli elementi nutrizionali necessari con la semplice assunzione di X pillole al giorno». Odiava l'esercizio fisico (quelli che lo amano mi sembrano i veri pazzi), come anche essere toccato, addirittura non gli si poteva dare la mano. Sentite questa: dovendo comprare un nuovo pianoforte dalla Steinway, Bill Hupfer, un tecnico, gli dette la mano e una lieve pacca sulla spalla, e Gould il 6 dicembre 1960 gli intentò causa civile, sostenendo di aver subito lesioni al collo, alla spalla e alla mano. Per risarcimento chiese 300mila dollari, e da allora chiunque ci pensava due volte prima di tendere la mano a Gould. Altro mio parente strettissimo non poteva essere che Andy Warhol, il genio della Pop Art. Che con il proprio corpo ha avuto problemi fin da ragazzo, diventando calvo a vent'anni e scegliendo di indossare parrucche sempre più vistose, presto grigie, come se fosse già vecchio, con una strategia ben precisa. Infatti: «Ho deciso di diventare grigio così nessuno avrebbe capito quanti anni avevo e mi avrebbero trovato più giovane dell'età che pensavano avessi. (...) Sarei stato esentato dalla responsabilità di comportarmi da giovane - potevo occasionalmente avere atteggiamenti eccentrici o senili e nessuno ci avrebbe trovato nulla da ridire perché avevo i capelli grigi. Quando hai i capelli grigi ogni mossa, invece di essere considerata normale, appare giovane e frizzante. È come avere un talento speciale». Temeva che perfino i tumori fossero contagiosi, ma c'è da dire che la sua ipocondria e paura della morte aumentò a partire da quanto successe il 3 giugno del 1968 alle 16,15. Quel pomeriggio Valerie Solanas, autrice femminista del libro manifesto Society for Cutting Up Men (Società per l'Eliminazione dei Maschi), la solita attivista contro la solita società patriarcale, entrò alla Factory e gli sparò. Mio fratello Warhol rischiò di morire, subì un lungo intervento a cuore aperto, il suo corpo pieno di cicatrici è ostentato nelle foto scattategli da Richard Avedon. Certo, scegliere Andy Warhol come simbolo della società patriarcale dimostra quanto le femministe abbiano sempre preso abbagli per bersagli, ma in compenso questa storia, dopo tutte le polemiche che ho avuto con le femministe di oggi, mi ha fatto venire una nuova fobia: quella di vedermi entrare in casa la Murgia con un mitra.
Giancarlo Politi - critico d’arte, fondatore della rivista Flash Art - estratto della newsletter il 16 dicembre 2020. ….Picasso a quell’età (aveva 88 anni) era diventato virtuoso, mangiava poco e si coricava presto, alzandosi altrettanto presto la mattina, per dipingere centinaia di ceramiche, di tutte le dimensioni, che erano già pronte per essere sfiorate dalla sua mano fatata. Non so chi fosse il regista di tutto questo, forse la moglie Jacqueline Roque, donna forte e volitiva, sempre accanto a Picasso sino alla fine. La sola donna che abbia resistito al grande artista. Anche se poi, nel 1987, si è suicidata con un colpo di pistola. Ma non sappiamo se per i traumi subiti dal Grande Maestro o per depressione per essere restata sola. Ma si sa, quasi tutte le donne di Picasso o si sono suicidate o finite in manicomio o comunque tutte pesantemente segnate da un rapporto impossibile. E comunque sempre infelici. Picasso, almeno da giovane e sino a tarda età, era di una protervia e determinazione unica. Collerico e autoritario con gli amici (Apollinaire, Braque, Matisse) e violento e possessivo con tutte le sue donne. Maschilista esasperato sin da ragazzo, frequentatore assiduo di bordelli (Les demoiselles d’Avignon nasce dalla sua frequentazione di un bordello in via d’Avignone a Barcellona) ha avuto al suo fianco ufficialmente molte grandi donne, tra cui Fernande Olivier, Marcelle Humbert, Olga Khokhlova, Dora Maar, Françoise Gilot, Marie-Thérèse Walter e ultima Jacqueline Roque. Una sua donna di grande intelligenza fu la fotografa di origine croata Dora Maar, amica di Man Ray, André Breton, Paul Eluard e di molti intellettuali e artisti parigini dell'epoca. Dora Maar era una fotografa famosa quando incontrò Picasso, di cui si innamorò perdutamente: affittò un appartamento accanto a quello del maestro, poiché il grande pittore voleva incontrarla clandestinamente, convivendo ancora con Marie-Thérèse Walter, una bellissima modella francese conosciuta a 17 anni (lui 48), mentre lui era ancora sposato con la ballerina russo-ucraina Olga Khokhlova, madre del primo figlio di Picasso, Paulo. «Io non sono stata l'amante di Picasso. Lui era soltanto il mio padrone». Dora Maar, maltrattata e continuamente umiliata da Picasso, fu ricoverata in clinica psichiatrica e trattata con elettroshock, allora in voga. Poi grazie a Jacques Lacan, psicanalista anche di Picasso, accettò la sua malattia e sopravvisse a Picasso, morendo in una casa di cura nel 1997. Famosa fu una sua asserzione: «Io non sono stata l'amante di Picasso. Lui era soltanto il mio padrone». Ma contemporaneamente alle sue donne ufficiali Picasso, senza alcun ritegno per il loro rispetto, frequentava moltissime altre donne e prostitute ed ebbe persino un’amante tredicenne per lungo tempo. Picasso lo possiamo definire un criminale? Certo Picasso è stato il Genio della pittura del secolo scorso, nessun pittore al suo livello, ma per raggiungere quello stadio ha dovuto tradire o sopraffare amici e tiranneggiare tutte le donne che hanno dato la vita per lui. Nessuno come Picasso ha voluto testardamente essere Picasso. Da giovane, appena arrivato a Parigi da Barcellona, visse alcuni anni di totale indigenza, riducendosi a dover sottrarre il latte, alla mattina presto, lasciato dal lattaio davanti alla porta o sulla finestra dei clienti. E Picasso fu arrestato e tenuto in prigione alcuni mesi per il furto della Gioconda nel 1911, ad opera di Vincenzo Peruggia, di cui si suppose che Picasso fosse un fiancheggiatore. Ma al processo fu prosciolto. Invece certamente indagato per il possesso di alcune sculture africane sottratte al Louvre da un custode troppo disinvolto e di cui se non ricordo male fu accusato di ricettazione Apollinaire, che poi se ne assunse la responsabilità, scagionando Picasso. Insomma, la vita privata di Picasso non fu proprio esemplare, anzi fu tumultuosa, costellata di incidenti con le proprie donne e amanti e con gli amici. Picasso privato si comportò più da criminale che da gentiluomo. Però venerato e idolatrato dal mondo dell’arte (soprattutto dal mercato, sempre in coda davanti ai suoi studi) che sorrise e nascose le sue malefatte. Oggi Picasso, grazie anche ai suoi stupri e alle sue relazioni continue con minorenni, sarebbe stato condannato all’ergastolo. Malgrado le coperture di tutti i suoi amici, alcuni non migliori di lui. Ma l’immenso genio resta. Anche il coccio di ceramica appena sfiorato da una sua pennellata mentre pensava ad altro e che mi regalò, aveva qualcosa di ineffabile, quasi divino. Eppure era una semplice piastrellina con un tocco di colore. Ma io non ho mai più visto ceramiche più poetiche e spirituali che emanassero un fascino ipnotico come le ceramiche di Picasso. Un solo artista, dopo di lui, mi impressionò per la facilità e felicità (ma non qualità) con cui dipingeva le ceramiche (e qualsiasi cosa vedesse): Keith Haring, alla galleria di Salvatore Ala a Milano, negli anni ottanta: in poche ore dipinse tutte le forme (centinaia di vasi, vasetti, piastrelle, animali ecc.) di cui Salvatore aveva riempito l’immensa galleria milanese. Con una velocità quasi isterica Keith, davanti a me e continuando a parlarmi, realizzava centinaia di opere, appena sfiorandole. Un vero fenomeno. Non ho mai visto nessuno come lui. Ma Keith Haring non è Picasso. Il Genio è criminale? Penso proprio di sì. Mi piace accomunare a Pablo Picasso un genio del pallone: Diego Armando Maradona. Forse, dico forse perché io non sono un esperto ma un semplice appassionato, il più grande calciatore del secolo scorso (Pelé permettendo). Ma checché se ne dica e malgrado si sia rimosso un santo (San Paolo) per dedicargli uno stadio, Maradona fu un poco di buono. Cocainomane, grande evasore fiscale, stupratore, con undici e più figli, di cui riconosciuti solo quattro o cinque, smargiasso e spaccone, secondo me fu un vero criminale. E un uomo brutto e impossibile anche da guardare. Eppure non mi meraviglierei se il suo conterraneo Bergoglio lo nominasse santo. Sono certo che presto a Napoli appariranno miracoli a lui attribuiti. Molti santi sono stati assassini e criminali nel lontano passato. Uno di più non rovinerebbe certamente la reputazione della Chiesa. Ma un Genio, in qualsiasi campo, può essere umano o normale? Albert Einstein, alla sua collega e poi moglie Mileva Maric, che pare abbia contribuito in modo determinante alla formulazione della teoria della relatività poco dopo il matrimonio, dettò le seguenti condizioni:
1) Nessuna intimità
2) Doveva ricevere tre pasti al giorno nella sua stanza
3) Non poteva rivolgersi a lui, se non richiesto
4) La sua camera da letto e il suo studio dovevano essere sempre perfettamente in ordine.
Il Genio della fisica aveva una relazione con sua cugina Elsa Löwenthal (che più tardi sposò) a cui diceva: non posso licenziare mia moglie altrimenti lo farei. Tutti gli artisti protagonisti del secolo scorso da me frequentati (Jeff Koons, Maurizio Cattelan, Damien Hirst, che se non sono geni poco ci manca) manifestano delle ossessioni e perturbazioni che non rientravano nella normalità. E su cui non voglio entrare nei dettagli. Dunque care amiche e amici, se incontrate un artista gentile, affabile, educato, siatene certi, potrà essere anche un bravo artista ma non un genio.
Da "ilmessaggero.it" il 26 novembre 2020. Chopin il grande compositore polacco sembra ormai essere pronto per diventare una icona gay. Gli archivisti e i biografi di Frédéric Chopin per secoli avrebbero deliberatamente chiuso un occhio sulle lettere erotiche che il compositore scriveva ai suoi amici. Il dibattito sulla sessualità del genio di Varsavia - sepolto in esilio a Parigi ma il cui cuore è custodito in una chiesa della capitale polacca - va avanti da tempo. Chopin, secondo le cronache del tempo, è stato legato a lungo a George Sand, scrittrice anticonformista molto promettente. Ora però arrivano nuovi dettagli sulla sua vita privata. Chopin's Men, un programma radiofonico andato in onda sull'emittente pubblica svizzera SRF, sostiene che le lettere del compositore sono state a volte deliberatamente tradotte in modo errato, enfatizzando esageratamente i legami con le donne mentre si è nascosto un suo apparente interesse per la ricerca di partner sessuali nei bagni pubblici di Parigi. Anche il Guardian riporta che il giornalista musicale, Moritz Weber, ha iniziato a fare ricerche sulle lettere di Chopin scoprendo una «marea di dichiarazioni d'amore rivolte agli uomini», a volte dirette nel loro tono erotico, a volte piene di allusioni giocose. In una di esse, Chopin descriveva le voci sulle sue relazioni con le donne come un «mantello per i sentimenti nascosti». «Non ti piace essere baciato», scrisse Chopin al suo compagno di scuola Tytus Woyciechowski in una delle 22 lettere. «Permettetemi di farlo oggi. Devi pagare per lo sporco sogno che ho fatto su di te la scorsa notte». Le lettere all'amico, che fu attivamente coinvolto nella rivolta di gennaio del 1863 in Polonia, spesso iniziano con «La mia vita più cara» e finiscono con «La mia vita più cara»: «Dammi un bacio, amante carissimo». Nel luglio del 1837, Chopin scriveva all'amico Julian Fontana a Parigi da Londra, riferendo con entusiasmo di "grandi orinatoi", luoghi dove era evidentemente possibile fare buoni incontri. Chopin è cresciuto a Varsavia ma ha dovuto lasciare la sua amata patria a vent'anni per ragioni politiche. «Il fatto che Chopin abbia dovuto nascondere parte della sua identità per molto tempo, come lui stesso scrive nelle sue lettere, avrebbe lasciato un segno sulla sua personalità e sulla sua arte», ha spiegato Weber.
Mattia Rossi per “il Giornale” il 29 ottobre 2020. Si deve concordare con Sandro Cappelletto, il prefatore: «Mozart non è stato un poeta, ma uno scrittore sì, e il suo lascito letterario sono le lettere». La ciclopica impresa portata a termine dall' editore Zecchini è l' edizione integrale dell' epistolario completo della famiglia Mozart 1755-1791: al timone delle quasi 2mila pagine di Tutte le lettere di Mozart (pagg. 1.892, euro 129) c' è Marco Murara che, per la prima volta in Italia, cura la pubblicazione in tre volumi di oltre 800 missive di Wolfgang Amadeus e dei suoi familiari - genitori, sorella, cugina, moglie - e quanti vi gravitavano attorno. Nelle pagine, come scrive il curatore, emerge un Mozart «libero, fantasioso, imprevedibile, arguto». Infatti, se da un lato non mancano lettere eleganti, come quella reverenziale a padre Giovanni Battista Martini (4 settembre 1776), o vette poetiche, come in occasione della morte della mamma (3 luglio 1778), o quelle in cui parla dei musicisti che incontra, o le accorate lettere all'«ottima mogliettina», il Mozart che colpisce è quello sopra le righe, irriverente e sboccato che scrive lettere oscene alla cugina, come il 5 novembre 1777, firmandosi «Codadiporco» e sfoderando la sua coprolalia: «Ti faccio la cacca sul naso, che ti coli sul mento. Il mio culo brucia come il fuoco! Cosa vorrà dire? Forse vuole uscire la merda?»; e poi gli immancabili peti: «La mamma mi dice: scommetto che te ne sei lasciato scappare uno. Faccio la prova, mi metto un dito nel culo, poi lo porto al naso, e Ecce provatum est, la mamma aveva ragione». Con il padre, invece, è tutto un parlare di musica, di concerti, di opere, di appuntamenti. Ma anche in questo campo Wolfgang non risparmia battute e giudizi spietati. Come il 17 ottobre 1777, quando Mozart è ad Augusta, in Sant' Ulrico, dove incontra padre Emilian, professore di Teologia, le cui competenze musicali, non furono granché apprezzate: «P.E., oh coglione, leccami il culo. Mi disse: se solo potessimo rimanere insieme più a lungo, mi piacerebbe discutere con voi dell' arte del comporre. Avremmo ben presto finito di discutere, risposi. Prendi questa, cretino».
Josep Massot per “la Repubblica” il 5 ottobre 2020. Robert Graves nacque per la prima volta a Wimbledon il 24 luglio di 125 anni fa. La seconda volta fu nella Somme, nel cimitero di Bazentin, il 20 luglio 1916. Le schegge di una granata tedesca gli perforarono il polmone e il tenente colonnello Crawshay comunicò ai suoi genitori la morte del valoroso ("gallant") capitano dei Royal Welch Fusilliers. Il poeta, invece, sopravvisse e non perse l' occasione per iniziare a porre le basi del suo mito. L' opera poetica è stata messa in ombra dalle sue memorie di espatriato, Addio a tutto questo , e da Io, Claudio, I miti greci o Ladea bianca , scritti a Deià (Maiorca). Lì frequentò la più simile a una dea contemporanea, Ava Gardner. La loro amicizia può essere ricostruita grazie alle lettere e ai diari conservati al Saint John' s College di Oxford, alla monumentale biografia di Richard Graves e all' archivio della University of Victoria (Canada). Già prima della guerra, essere un poeta affermato e uno studioso di letteratura greco-latina non gli bastava per vivere. Graves, che stava per compiere 60 anni, vedeva la sua salvezza economica nel cinema e aveva ideato dei progetti, poi non realizzati, con Ingrid Bergman e Anna Magnani. Quando Ava Gardner si stabilì nel 1954 a La Bruja, la villa che aveva acquistato a La Moraleja, i Sicre (amici dello scrittore, ndr) le parlarono di Graves, che stava finendo di scrivere I miti greci . L' attrice pensava che fosse uno scienziato in vacanza e Graves le scrisse: «Non sono un accademico, né un archeologo, né un antropologo o un esperto di mitologia comparata, ma sono uno che ha buon naso e discreto tatto, e penso di aver scoperto connessioni tra i miti invisibili a molti. Le facoltà classiche mi odieranno e riceverò molte critiche sprezzanti». Nel febbraio del 1956, Betty Lussier (moglie di Sicre, ndr) convinse l' attrice a riposarsi per qualche giorno nella casa di Graves a Deià. La scusa, come scrisse il poeta in Un brindisi ad Ava Gardner , era che «avrebbe finalmente potuto dormire, studiare la grammatica spagnola, nuotare ogni giorno e consultarmi per colmare la sua educazione disordinata con un corso intensivo di poesia inglese». La star del cinema arrivò al piccolo aeroporto di Palma di Maiorca giovedì 8 marzo 1956. Ci furono picnic e bagni di mare a Camp de Mar, passeggiate a mezzanotte, spettacoli di flamenco, tanto vino di Binissalem, poca grammatica, ancor meno ore di sonno e qualche lezione di poesia. Ava gli chiese di insegnarle a leggere le poesie e Graves le disse che «scuotere il setaccio alla ricerca di pepite d' oro può essere un lavoro molto noioso. Le poesie sono come le persone. Pochissime sono autentiche ». Un giorno le diede una copia delle sue poesie da leggere a letto e lei gli chiese quale potesse leggere per prima. Graves scelse The Portrait , ispirata dal suo ambiguo rapporto sentimentale con Judith Bledsoe: «Lei parla sempre con quella voce,/ anche agli estranei (...) È selvaggia e innocente, promessa all' amore,/ attraverso tutte le sventure». «Sei tu, pari pari», le disse. «È stata la prima settimana in cui non ho scritto niente, se ricordo bene... in cinque o venti anni», annotò Graves. Ebbe invece il tempo di lavorare con l' attrice su una sceneggiatura basata su El embrujo de Sevilla , un romanzo con un' atmosfera da corrida dell' uruguaiano Carlos Reyles. Il poeta e l' attrice non avrebbero smesso di scriversi e di vedersi, a Maiorca, Madrid, New York o Londra. La fama di Graves come erotomane suscitava la curiosità di chi gli stava intorno e lui dissipò i loro dubbi. «Sì», scrisse ai suo iamici Louise eRed, «ho avuto a casa mia Ava Gardner per una settimana l' estate scorsa. Le vogliamo molto bene e lei ha cercato di farmi del bene facendomi entrare nella sua società naufragata. Ava gioca sul sicuro; i 10 eletti erano troppo vecchi come (Adlai) Stevenson, Hemingway, Dr. Alexander, o me; o checche come Antonio, Cole Porter, Yul Brynner, Tennessee Williams, e così via». E in un' altra lettera: «Ava Gardner viene dopo Natale: lei ed io siamo molto legati. È bello non essere innamorato di lei...». Ava definì la loro relazione come «una sorta di cospirazione amorosa». Vedeva in Graves un poeta anziano, al riparo dall' attrazione fisica, che poteva colmare la sua mancanza di cultura come non poteva fare con gli altri suoi amici scrittori, Hemingway o Henry Miller. «Se potessi vivere una seconda vita, l' educazione è ciò che vorrei avere prima di tutto. La mia vita sarebbe stata diversa. Non puoi immaginare cosa volesse dire avere sapere di essere così ignorante da avere paura di parlare con la gente per il timore che anche le domande possano sembrare stupide». Graves scriveva delle poesie per lei. Le dà persino consigli su come concepire un figlio: «Prima di tutto, l' uomo. Deve essere l' uomo, non solo un uomo. Poi, il luogo: una stanza alta con spade e machete, dato che vuoi un maschio. Poi, l' ora: venerdì sera, quando la luna si avvicina alla sua pienezza. Il cibo: vino rosso e carne rossa». Nel 1962, Ava partecipò alla festa di compleanno di Graves. «Ava», scherzava lo scrittore con Sicre, «ha fatto l' amore con una guardia. È un buon segno. Ora possiamo contrabbandare e uccidere quanto ci pare». Forse si riferiva al noto aneddoto secondo il quale l' attrice, durante la festa, dopo aver bevuto un paio di cocktail con un bel caporale della Guardia Civil, lo invitò a ballare e lui, mettendosi sull' attenti, la respinse: «Mi dispiace, signorina, sono in servizio». In alcune delle sue lettere, Ava gli racconta le sue paure e le sue delusioni, come le accidentate riprese de La Bibbia nel 1964, in Sicilia, durante le quali Georges C. Scott, ubriaco, la picchiò. Alle parole di consolazione di Graves, risponde: «Molto spesso, quando sono triste, ti scrivo. Non te le mando quasi mai, ma mi sento meglio. Robert, oggi ho cercato di spiegare a qualcuno che ricevere le tue lettere compensa tutte le cose brutte di questo film. Invece di sentirmi sporca e inutile, mi sono sentita molto forte e ne è valsa la pena. Sono contenta di conoscere qualcuno che amo e ammiro e che dedica tanto tempo della sua vita piena di impegni a dirmi cose buone». Graves, a sua volta, racconta ad Ava i tormentati rapporti con le sue giovani "muse": Margot Callas, o la selvaggia e distruttiva Cindy Lee, ribattezzata Aemilia Laraçuen, che aveva pugnalato il suo primo marito senza ucciderlo. A proposito della musa seguente, la diciassettenne Juli Simmons, raccontò all' attrice che lo faceva sentire più giovane che mai: «i miei capelli neri stanno ricrescendo e le rughe si ammorbidiscono. La causa? È l'amore». Ava si recò a Londra per assistere all' ultima lezione di Graves a Oxford. Poi fecero una festa in un ristorante cinese: «Ci siamo divertiti molto», le disse. In una serie di foto del 1969, a New York,si vede Graves baciare amorevolmente Ava Gardner, mentre lei si lascia cullare tra le sue braccia, o fa le smorfie come un adolescente davanti alla macchina fotografica. La corrispondenza tra loro si interruppe quando Graves perse la ragione. La sua seconda morte, inappellabile, giunse nel 1985 e colpì profondamente Ava Gardner che, già in precarie condizioni di salute, lasciò il suo isolamento per partecipare al funerale a Londra.
Stefano Montefiori per il Corriere della Sera il 13 settembre 2020. Quattro anni di amore, tumulti e assenzio fra Parigi, Bruxelles e Londra possono giustificare una vita eterna da passare insieme e inevitabilmente immobili sotto i marmi del Panthéon? E siamo sicuri che Arthur Rimbaud sarebbe contento di riposare nei secoli accanto all' amante, Paul Verlaine, che il 10 luglio 1873 ubriaco gli sparò due revolverate? L' idea di riunire le spoglie dei due grandi poeti divide la Francia: giusto omaggio riparatore per molti, mossa inopportuna e anche un po' angosciante secondo altri. La petizione al presidente Macron per fare entrare Arthur Rimbaud e Paul Verlaine al Panthéon è nata quando l' editore Jean-Luc Barré, lo scrittore Nicolas Idier e il giornalista e saggista Frédéric Martel (noto anche in Italia per Mainstream e Sodoma , editi da Feltrinelli) si sono raccolti sulla tomba di Rimbaud in occasione della pubblicazione di una biografia sul loro idolo. Nel cimitero di Charleville-Mézières, città natale peraltro odiata dal poeta del Battello ebbro , i tre trovano una tomba squallida, in rovina, nella cappella di famiglia dove riposa anche il peggior nemico di Rimbaud, il cognato, editore e usurpatore Paterne Berrichon. Qualche tempo dopo, Martel visita la tomba di Paul Verlaine a Batignolles, in un cimitero altrettanto brutto e abbandonato. Quindi, perché non trasferire i due amanti tra i più celebri della letteratura di sempre a Parigi, al Panthéon, ovvero nella chiesa di Sainte Geneviève che dopo la Rivoluzione accoglie le spoglie dei grandi di Francia? Sulle prime la proposta accoglie molti e importanti sostegni: da nove ex ministri della Cultura - tra i quali Jack Lang, Frédéric Mitterrand e Aurélie Filippetti - alla responsabile in carica, Roselyne Bachelot, a personalità diverse come la stilista Agnès b., l' ex sindaco Bertrand Delanoë, gli scrittori Daniel Mendelsohn e Annie Ernaux fino al filosofo Edgar Morin. «Arthur Rimbaud e Paul Verlaine con il loro genio hanno arricchito il nostro patrimonio nazionale», si legge nella petizione. «Sono anche due simboli della diversità, e hanno dovuto sopportare l'"omofobia" tipica della loro epoca. Sarebbe solo un atto di giustizia farli entrare oggi al Panthéon, accanto ad altre grandi figure letterarie come Voltaire, Rousseau, Dumas, Hugo, Malraux». Ma le voci contrarie cominciano a farsi sentire. La pronipote Jacqueline Teissier-Rimbaud dice che se i due poeti entrassero insieme al Panthéon «tutti penserebbero subito "omosessuali", ma non è vero. La loro relazione rappresenta solo qualche anno della loro giovinezza». Anche l' associazione Les Amis de Rimbaud con i suoi 120 aderenti è poco entusiasta. Il presidente Alain Tourneux ricorda che «Rimbaud aveva rotto con Verlaine, non evocava volentieri quei quattro anni e voleva un' altra vita, cosa che ha ottenuto partendo per l' Africa dove ha vissuto con una giovane donna». Portare Verlaine e soprattutto Rimbaud, punk del loro tempo, nel Panthéon vorrebbe dire poi tradire la loro memoria e normalizzarli? Al contrario, potrebbero portare la loro ribellione nel luogo che ne ha più bisogno, quello dell' ufficialità e della solennità. «Potremmo trasferirli nello stesso momento ma non insieme, non come se fossero rimasti una coppia», dice Frédéric Martel. «Però Rimbaud e Verlaine meritano quel riconoscimento, e alla Francia farebbe bene. Proprio perché erano bohème ».
Antonio Riello per Dagospia il 7 settembre 2020. Saul Fletcher (nato a nel Lincolnshire nel 1967) era un artista britannico che aveva acquisito una certa fama con le sue opere fotografiche. Ma era noto soprattutto per le sue collaborazioni con il gruppo musicale Placebo e per una sbandierata amicizia con l’attore Brad Pitt. Il 22 Luglio 2020, a Berlino, dopo aver ucciso a pugnalate la compagna, Rebeccah Blum, si è tolto la vita. Una brutta storia. Uno dei tanti femminicidi-suicidi (le ragioni scatenanti sembrano tutt’ora ignote agli investigatori tedeschi) di cui la “cronaca nera” è sempre purtroppo prodiga. Questa tragedia ha una particolarità che la rende “speciale”. La (ex) gallerista di Fletcher, Alison Jacques, ha rimosso, dopo l’accaduto, ogni possibile traccia della sua collaborazione professionale con l’omicida dal sito della propria galleria. Sostiene semplicemente che vada ricordata solo la vittima, la Signora Blum (una curatrice di Arte Contemporanea di origine Americana) e che venga drasticamente istituita una “Damnatio Memoriae” digitale verso l’assassino-artista. La Collezione Pinault di Venezia ha rimosso, per le stesse ragioni, una grande opera di Fletcher in esposizione. Art Newspaper (nota rivista di settore) scrive, senza mezzi termini, che il mercato dell’Arte dovrebbe punire gli artisti “eticamente riprovevoli” facendone letteralmente svanire i lavori. Ovvero togliendoli da mostre, musei e aste. Ovvero annullandone, almeno nei desiderata, il valore di mercato. Una tesi interessante, con dei punti a favore e degli altri che lasciano inevitabilmente perplessi. Di certo il femminicidio è un reato particolarmente odioso che dovrebbe essere sempre sanzionato in maniera esemplare. E anche il ricordare (e comunque, in qualche modo, celebrare) più il nome delle vittime che quelle degli assassini ha una sua stringente ed onorevole logica. Amara considerazione: da sempre sono i nomi dei delinquenti quelli di cui ci si ricorda, i nomi degli uccisi invece vengono spesso cancellati dalla memoria collettiva (uno scandaloso paradosso). Difficile non essere completamente d’accordo su questi due punti. Il problemi nascono, come al solito del resto, quando la vita privata e la carriera si mescolano (o vengono mescolati da qualcun altro). Diversi artisti del passato non hanno avuto una esistenza propriamente specchiata, almeno per gli standard attuali. The Guardian, saccente ma autorevole quotidiano britannico, ha addirittura stilato un “lista nera” di 10 artisti con accertate tendenze criminali. Filippo Lippi non era uno stinco di santo. Mise in cinta una giovane suorina (che, ad onore del vero, comunque poi sposò). Un Michelangelo Buonarroti giovane, nel 1496, vendette un angelo al mercante Baldassarre del Milanese. Era stato appena fatto da lui, ma fece credere al compratore fosse un’antichità romana ritrovata in uno scavo. E, secondo il professor Rab Hatfield, che nel suo libro “The Wealth of Michelangelo” si occupa approfonditamente di questi aspetti della vita del grande genio del Rinascimento, in più di una occasione avrebbe fatto abbondantemente la cresta sui costi dei materiali. Insomma era un po’ imbroglione. Il Caravaggio! Il sublime pittore dell’età barocca, a Roma, nel 1606, assassinò in una rissa, un certo Ranuccio Tommasoni e dovette di conseguenza fuggire dalla capitale. Benvenuto Cellini, scultore di grande ed imperitura fama, fu addirittura un pluriomicida confesso. E non erano, i suoi, solo omicidi dettati dalla collera. La storia dell’Impressionismo è anche quella degli abusi perpetrati a danno di giovanissime modelle da parte di artisti regolarmente sposati…..una mostra alla Gare d’Orsay nel 2015 l’ha ampliamente evidenziato. E le prostitute erano una compagnia abituale degli stessi artisti. Egon Schiele, il venerato pittore austriaco, fu processato dalle autorità asburgiche per avere avuto rapporti sessuali con minori (risultò colpevole). Quello che fece passare Auguste Rodin a Camille Claudel, non gli fa certo onore, nè come artista nè come uomo. E Paul Gauguin a Tahiti si accompagnava abitualmente con adolescenti quasi-bambine….onestamente disgustoso. Il “mostro sacro” dell’Arte Contemporanea, Pablo Picasso, non ha risparmiato al gentil sesso attenzioni che oggi porterebbero, nel migliore dei casi, ad una pubblica censura. Ebbe parecchie amanti minorenni. Rubò anche delle statuette antiche al Louvre, non era uno scherzo (come qualcuno scrisse…) e se le tenne per sempre nel suo studio. Lucien Freud, eminente pittore britannico, in una recente (e mai smentita) biografia di William Feaver viene dipinto come un vero e proprio “Sexual Predator”, una sorta di Weinstein del tempo. Per non parlare (nel corso dei secoli, e comunque anche oggi) del diffuso sfruttamento di aiutanti ed assistenti (sempre sottopagati). E diversi sono stati gli artisti con rapporti piuttosto “problematici” (per usare un eufemismo) con i rispettivi apparti fiscali. Spesso sfruttatori e qualche volta evasori, non proprio un bel ritratto. Ma gli standard etici fino a che punto sono assoluti? Quanto ci entra il “politicamente corretto”? Insomma, secondo certi parametri attuali, sono tanti gli artisti, significativi o meno, che potrebbero essere valutati come “eticamente scorretti”. Li togliamo tutti dai musei? Una seria e dettagliata “Damnatio Memoriae” finirebbe per lasciare molte pagine bianche nelle Storie dell’Arte. Rimarrebbero forse solo il Beato Angelico e pochi altri….E il mercato? Investitori, aste, etc. etc.? Che conseguenze pratiche potrebbe affrontare? Esiste, tra l’altro, un’altra ambigua questione sul campo: il lato oscuro del compratore d’arte è sempre in agguato e la curiosità morbosa non dorme mai. Il mostro cattivo ha, dopo tutto, per molti un suo (ovviamente discutibile) fascino. Ad esempio esiste costante una richiesta, non disprezzabile da un punto di vista dei prezzi, degli acquerelli di Adolf Hitler. Sicuramente non sono apprezzati per la loro performance artistica, ma proprio perchè realizzati da un criminale. Etica e Mercato non hanno mai convissuto facilmente assieme e questo è, comunque lo si voglia vedere, un fatto storicamente accertato.
Vittorio Sabadin per la Stampa il 25 agosto 2020. Non sappiamo neppure se sia davvero esistito, ma ora finalmente abbiamo una certezza su William Shakespeare: era bisessuale. Lo affermano due studiosi inglesi, Stanley Wells e Paul Edmondson, dopo avere esaminato con più attenzione i 154 sonetti scritti dal drammaturgo. Già era noto che 126 dei componimenti poetici erano indirizzati al «Fair Youth», il bel giovane, e solo gli ultimi 28 a una donna, conosciuta come la «Dark Lady», la dama bruna. Una sproporzione che avrebbe dovuto insospettire da tempo gli studiosi, e infatti è accaduto: negli anni 80 del secolo scorso si pensava che Shakespeare fosse gay. Wells e Edmondson smentiscono con forza questa ipotesi: Shakespeare sposò a 18 anni la ventiseienne Anne Hathaway perché era incinta, e ebbe da lei altri due figli. No, gay no: persino quello che si raccontava su di lui a Londra conferma che le donne gli piacevano, anche se si accontentava di quelle degli strati sociali più bassi, non potendosi permettere le nobili. Uno che c'era, John Manningham, ha lasciato testimonianza della ragazza che Shakespeare corteggiò con successo durante le prove del Riccardo III. E poi l'autore di Romeo e Giulietta avrebbe mai potuto non amare le donne? Anche gli uomini, però. «Il linguaggio della sessualità in alcuni dei sonetti», ha spiegato Paul Edmondson, «chiaramente indirizzati a un soggetto maschio, non ci lasciano dubbi sul fatto che Shakespeare fosse bisessuale». La ricerca si è soffermata in particolare sul sonetto 40 e sui versi «Prendi ogni mio amore, amor mio, sì, prendili tutti: / cos' altro avrai di più di quanto avevi prima? / (...) Se quindi per amor mio, l'amor mio accogli, / non posso rimproverarti di come te ne servi; / ma biasimato sii se invece tu m' inganni / per capriccioso gusto di quel che tu disprezzi». In un altro sonetto, il 41, c'è un evidente accenno all'amore provato per una donna e un giovane: «... d'esser forzato a rompere una duplice lealtà: / la sua, che tu adeschi con la tua bellezza, / la tua, perché forte della stessa sei con me sleale». «Dormi con le donne, ma ama solo me», è un altro verso significativo del numero 20. I sonetti dedicati agli uomini parlano di gelosia, tormento, notti insonni e dolore, l'armamentario completo delle storie d'amore. Ma chi era il «Fair Youth» del quale Shakespeare si era così invaghito? L'unico indizio è una dedica a «Mr. W.H.», posta da Thomas Thorpe nella prima edizione pubblicata nel 1609 senza chiedere il permesso all'autore. Si pensa che si tratti di Henry Wriothesley, terzo conte di Southampton e all'epoca protettore del Bardo. E la «Dark Lady»? Probabilmente si trattava di una poco romantica storia con Black Luce, tenutaria del bordello di Clerkenwell a Londra. Edmondson e Wells hanno però controllato, e la parola «dark» non compare in alcuno dei sonetti di Shakespeare: si parla solo, e per una sola volta, di una donna dai capelli e dagli occhi neri. Le cose si erano complicate quando John Benson aveva pubblicato, nel 1640, la seconda edizione dei Sonetti trasformando tutti i pronomi maschili in femminili, forse per mettere fine alle chiacchiere. Sono dovuti passare 140 anni prima che il testo originale fosse ripristinato, ma intanto la versione dello Shakespeare eterosessuale cantore solo dell'amore per le donne era diventata quella prevalente. Così preferivano i benpensanti britannici, in un'epoca nella quale l'omosessualità era un reato punito con la prigione, e il poeta e critico letterario Samuel Taylor Coleridge sentenziava che nei Sonetti di Shakespeare «non c'è la minima allusione al peggiore di tutti i vizi». Aveva torto: nelle opere di Shakespeare c'è abbastanza materiale per pensarla in ogni modo. Molti sostengono che i Sonetti non siano davvero dedicati a qualcuno, ma siano un'opera letteraria fine a sé stessa. Altri credono che il «Fair Youth» fosse lo stesso Shakespeare, perdutamente innamorato di sé medesimo nella sua infinita e confessata vanità. Altri ancora ricordano che nel Rinascimento l'amicizia maschile veniva espressa con manifestazioni di affetto, condivisione del letto e dichiarazioni d'amore che oggi noi associamo alle relazioni sessuali. Tutti hanno un po' di ragione. L'importante è che il mistero continui, e che di Shakespeare si possa leggere e scrivere.
Fabio Galvano per La Stampa il 28 luglio 2020. È destino dei grandi, sovente, essere dissacrati. Ora tocca a Charles Dickens, grande tra i grandi e secondo solo a Shakespeare nell' ammirazione d' Oltremanica. Che fosse un tipo un po' bizzarro già si sapeva: non è raro che i geni giochino con la follia. Ma la biografia che gli regala un noto scrittore inglese, a 150 anni dalla morte (9 giugno 1870), va ben oltre. Già il titolo - The Mystery of Charles Dickens (ed. Atlantic) - suggerisce una rilettura con molti punti interrogativi del personaggio celebre in tutto il mondo per romanzi come David Copperfield e Oliver Twist. Ma Andrew Norman Wilson, che si firma semplicemente A. N. Wilson, è andato a scavare nell' intimo dello scrittore, per scoprirne o semplicemente metterne in risalto alcune debolezze. La misoginia, per esempio. Sigmund Freud avrebbe avuto una giornata campale per spiegarla con il suo odio per la madre Elizabeth, la quale appena dodicenne lo tolse da scuola e lo mandò in fabbrica a incollare etichette sui vasetti di lucido per scarpe quando il padre finì per tre mesi nel carcere dei debitori. «In seguito non ho mai dimenticato. Non dimenticherò mai. Non posso mai dimenticare», scrisse Dickens all' amico John Forster. Quell'odio, che secondo Wilson permea molti personaggi femminili dei suoi romanzi, lo portò - lui cantore della famiglia e dei valori familiari - ad atteggiamenti persino crudeli nei confronti della moglie Catherine, a violenze verbali (e forse non solo), a continui tradimenti, a un malsano rapporto con un' attricetta che fu a lungo sua amante, a una consumante ossessione per l' omicidio di Nancy (la prostituta di Oliver Twist) che amava replicare recitando la scena anche in pubblico con tale veemenza da uscirne visibilmente provato. Amava scherzare a proposito dei propri «istinti omicidi» e diceva di avere «la vaga sensazione di essere un ricercato». Povera Catherine. La sposò che lui aveva 24 anni e lei 19, figlia del suo capufficio al Morning Chronicle, il giornale londinese per cui lavorava. Già alla fine della luna di miele, afferma Wilson, la signora Dickens aveva capito che con il marito avrebbe spartito il letto e poco più: la ricetta per una vita miseranda. Fu una storia di continue umiliazioni: dall' accompagnarla al mercato e nei negozi, convinto che lei non ci sapesse fare, alle scenate perché magari una sedia era fuori posto e lui - amante fanatico dell' ordine - non poteva sopportarlo. Nei primi anni viaggiarono anche insieme: Stati Uniti, Italia, Francia. Poi il muro contro muro. Ma quando lei arrivò sulla quarantina, non più carina ma matronale e petulante, le insolenze divennero all' ordine del giorno. Tanto che Frederick Evans, amico ed ex editore di Dickens, cessò di frequentare la loro casa: «Non posso sopportare la sua crudeltà verso la moglie. La insulta alla presenza di ospiti, bambini e servi, bestemmiando sovente e ferocemente». Dickens arrivò anche a creare una barriera fisica in casa. Un matrimonio a rotoli, fino alla separazione da quella donna «con le più miserevoli debolezze e gelosie», come scrisse a un' amica; separazione umiliante, annunciata come fu con inserzioni su vari giornali. Chiunque avesse sposato, suggerì qualche anno dopo la figlia Katey, sarebbe stato un disastro: «Non capiva le donne». Dimostrò i suoi limiti anche con le numerose amanti, che pretendeva di controllare a bacchetta. E se da una parte sapeva offrire un volto bonario e generoso, come quando nel 1847 propose e poi organizzò un rifugio per le «donne cadute», quasi tutte prostitute recuperate dai bassifondi di Londra, la sua misoginia avrebbe trovato sfogo come elemento di controllo sessuale su tutte le donne che ebbero la ventura - o sventura - di incrociare la sua strada. Persino quando prese a praticare l'arte dell' ipnosi fu soprattutto su una schiera di avvenenti signore che si esercitò, come spinto dal desiderio di averle in suo potere. D' altra parte Dickens, padre di dieci figli, non poteva portare ai propri appetiti sessuali un' energia meno esuberante di quella che aveva accompagnato la sua carriera di giornalista, scrittore, attore, viaggiatore. Il caso più lampante del difficile rapporto con l' altro sesso fu quello di Nelly Ternan, pizzicata appena diciottenne da un palcoscenico del West End. Fu la sua amante per tredici anni. La sua schiava, si direbbe con linguaggio moderno, controllata e manipolata come Dickens cercava di fare con tutte le sue amanti. Metteva becco su tutto: sull' arredamento della casa che aveva affittato per lei a Peckham, sul suo abbigliamento, sulla sua cucina. Tutto davvero come conseguenza del suo odio per la madre, come suggerisce Wilson? Certo è che a Nelly andava bene così. Fu in quella casa di Peckham che lui si sentì male, durante la sua ultima visita settimanale. Lei riuscì a farlo arrivare a casa con una carrozza, per evitare lo scandalo. Il mattino dopo, lasciandosi alle spalle ogni complicazione e contraddizione, Dickens morì. Era il 9 giugno 1870, aveva appena 58 anni.
Ysenda Maxtone-graham per il daily mail il 24 luglio 2020. La ristampa di ‘’James e Nora’’ di Edna O'Brien (Weidenfeld £ 6,99, 80 pp) è una sorta di poema in prosa affascinante su lussuria, gelosia, ossessione ed esilio. Edna O'Brien, una delle scrittrici irlandesi più affermate, libera la sua immaginazione febbrile e il suo vocabolario disinibito sulla relazione d'amore frenetica, erotica e caotica tra James Joyce e Nora Barnacle. Nora era una ragazza semplice (non le piaceva leggere, e copiava lettere d'amore standard da libri) di cui Joyce si innamorò a Dublino nel 1904. "In questa ragazza allegra e piuttosto analfabeta", scrive O'Brien, "la cui carnosità avrebbe potuto fare appello a Rubens, Joyce doveva cercare e trovare la madre terra, scura, senza forma, resa bella alla luce della luna". Doveva essere l'ispirazione per la Molly Bloom di ‘’Ulisse’’. Una relazione durata 37 anni. Si erano dati appuntamento a Merrion Square e Nora non si prese la briga di presentarsi. Questo sembrava accendere l'ossessione di Joyce. Da quel momento, fu profondamente geloso del suo passato. "Desiderava possederla interamente", ma si rifiutava di dirle che l'amava. In seguito avrebbe scritto che, anche quando ha sentito la parola "amore", ha "avuto voglia di vomitare". Scontroso, sempre al verde e infedele, Joyce era tutt'altro che facile. Il suo odio principale, dopo un'infanzia infelice, era di sua madre. L'altro era Dublino, da cui presto fuggì insieme a Nora, terrorizzato di poter soccombere alla "malattia nazionale" dell'Irlanda, che era (come dice O'Brien) "provincialità, disonestà e vacuità". Non che gli piacessero molto alcuni dei luoghi in cui erano fuggiti, ad esempio Roma, che associava a "morte, cadaveri e assassinii". Inevitabilmente, non appena mollò Dublino, ne ebbe nostalgia, analizzando le mappe stradali del luogo e immortalandolo nella sua narrativa. Anche la nostalgia di Nora era acuta. O'Brien raffigura "questa giovane ragazza, in un corto abito marrone, con folte spire di capelli, che vive con un uomo il cui corpo potrebbe sedurre ma la cui mente non riesce a comprendere". Ciò che Nora desiderava in quei luoghi lontani (Zurigo, Trieste, Roma) era "vedere e sentire un bollitore che bolle su un piano di cottura". Il livello di spensieratezza della coppia è sorprendente. A Roma cercavano letteralmente alloggi diversi ogni notte, Nora seduta da sola in un bar o in un cinema in attesa che Joyce arrivasse con i soldi di una lezione d’inglese privata. Cercarono di evitare l'arrivo di figli ma non funzionò. Dopo Giorgio, ebbero Lucia, nata nel reparto dei poveri dell'ospedale di Trieste, mentre Joyce si ammalò di febbre reumatica in un altro reparto. La chimica sessuale tra Joyce e Nora è leggendaria. Quando tornò brevemente a Dublino con l’idea di aprire lì un cinema, Joyce scrisse a Nora lettere "franche, rabbiose e fondate sulla lussuria", come dice O'Brien. Joyce era costantemente geloso di Nora, l’immaginava mentre lanciava ‘’uno dei suoi lunghi sguardi a un altro ragazzo". Intanto si imbarcò in diverse "avventure fallite" a Roma con ragazze locali, esacerbando la sofferenza di Nora. La rappresentazione di O'Brien di com'era vivere per Nora con Joyce mentre stava scrivendo ‘’Ulisse’’ è cupamente esilarante: impiegò sette anni, 20mila ore di lavoro, "causando il caos al corpo e al cervello, ai nervi, al sudore e all'irragionevole agitazione al minimo suono". E poi elenca il numero sbalorditivo di disturbi agli occhi di cui soffriva quando terminò il più straordinario libro del ‘900: "glaucoma, irite, cataratta, nebulosa nella pupilla, congiuntivite, dissoluzione della retina, accumulo di sangue, ascessi e un decimo di vista normale". La loro esistenza era così casinista che quando Nora morì nel 1951, dieci anni dopo Joyce, non c'era spazio per il suo corpo vicino al suo nel cimitero Fluntern di Zurigo.
Estratto dell’articolo di Elena Stancanelli per la Repubblica il 10 luglio 2020. “Senza di te mi sento come un uovo crudo”. Con queste parole Goethe si rivolgeva in una a Charlotte moglie del barone von Stein. Tutti hanno scritto lettere d’amore. Solitarie e finali, come quella di Virginia Woolf al marito prima di uccidersi, infelici, erotiche, struggenti, disperatamente o moderatamente inutili. Flaubert dice a Louise Colet, poetessa francese, di sentirsi spezzato, stordito, come dopo una lunga orgia: “Mi annoio da morire. Il tuo amore mi ha reso triste”. Fuori dalla retorica, nella maggior parte dei casi le lettere d' amore non servono a niente. Marina Cvetaeva ne ha scritte di magnifiche, a uomini e donne, senza stringere nessuno tra le braccia. Amy Winehouse, il genio indiscusso dello strazio sentimentale, in una lettera al marito Blake Fielder scrive "non smetto mai di pensarti, e so che anche tu pensi a me continuamente. Vorrei che non fosse così, vorrei che ci vedessimo piuttosto, ma altrimenti sì, vorrei che fosse così, piuttosto"…Più forte della rivoluzione è l’amore. Marx, a sorpresa, si fidanza con Jenny von Westphalen, figlia del barone Ludwig e manda a ramengo le sue teorie: “L’amore non per il proletariato, bensì l' amore per te, fa dell' uomo nuovamente un uomo”. La più bella di tutti i tempi? La lettera scritta dal cantante Johnny Cash alla moglie June Carter Cash è citata ovunque, dopo un sondaggio di una compagnia di assicurazione Beagle Street. Scriviamo per convincere, riparare, esorcizzare, dimenticare o solo per giocare. Piera Degli Esposti vergò una lettera a Robert Mitchum negli anni Ottanta ma non la spedì mai. Poi, grazie a Lina Wertmüller, incontrò l' attore nel 1995 e gliela lesse: “Quando ti vedo amo di più la vita. Tutte le tue rotondità sono un inno all' abbandono e io, che non mi abbandono mai, aspetto che tu venga un giorno dall' America in via del Governo Vecchio, 22 Roma per toccarti con un dito e rendermi conto che quella meraviglia che sei per me esiste veramente”.
Jessica D' Ercole per “la Verità” il 21 giugno 2020. «Appena mi metto al lavoro, mi infilo il talismano, terrò al dito quest' anello per tutte le ore di lavoro. Lo metto al primo dito della mano sinistra, con cui tengo la carta, in modo che il tuo pensiero mi stringa, sei lì con me e adesso invece di cercare le parole nell' aria, le chiedo a questo delizioso gioiello».
Honoré de Balzac (1799-1850), padre della comédie humaine, non scriveva senza il suo anello porta fortuna, anello regalatogli dall' amata Madame Hanska (1801-1882), perché se dietro un grande uomo c' è sempre una grande donna, dietro a un grande scrittore c' è sempre una piccola mania. Un rituale, un gesto scaramantico, una strana abitudine senza i quali l' ispirazione dei grandi della letteratura mondiale viene a mancare.
L' eccentrico Truman Capote (1924-1984) era superstizioso a un punto tale che non iniziava né finiva mai di scrivere di venerdì, ed evitava ogni riferimento al numero 13. Lavorava solo sdraiato, a letto o sul divano, bevendo sherry in nuvole di fumo.
La scrittrice cilena Isabel Allende (1942) inizia un nuovo libro solo l' 8 gennaio, data nella quale cominciò a scrivere La casa degli spiriti: «Da quel grande successo, l' 8 gennaio di ogni anno mi siedo, mi isolo dal mondo e comincio a scrivere un nuovo libro. È una cabala per me». In questo giorno la Allende celebra una breve cerimonia per richiamare a sé spiriti e muse e dopo aver scritto la prima frase, «il resto viene da sé».
Spirituale era pure Jack Kerouac (1922-1969). L' autore del romanzo Sulla Strada, nottambulo incallito, scriveva solo a lume di candela, ma prima di mettere la penna sul foglio pregava. La sua vena creativa veniva stimolata anche dalla luna piena e dalla magia del numero 3 (c' è chi dice 9), tant' è che se non ripeteva alcune azioni 3 volte non trovava pace.
Alexandre Dumas padre (1802-1870) usava fogli di carta di diversi colori. Quelli blu erano dedicati ai romanzi, i rosa alle poesie e i gialli agli articoli. Era fermamente convinto che questa distinzione cromatica portasse fortuna a qualsiasi cosa scrivesse. Per trovare l' ispirazione durante la stesura dei suoi capolavori, aveva l' abitudine di andare a sedersi ogni mattina sotto l' Arco di Trionfo a mangiare una mela.
Il frutto del peccato ispirava anche Agatha Christie (1890-1976). Per scrivere non aveva rituali, le bastavano solo un tavolo e la sua Remington Home portatile n. 2, ma per ideare i crimini dei suoi gialli si sdraiava nella sua enorme vasca da bagno, con un cestino di mele a portata di mano. Il poeta tedesco Friedrich Schiller (1759-1805) le mele non le mangiava ma le lasciava marcire nel cassetto del suo scrittoio. Stando al suo amico Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), solo quel miasma era in grado di far esplodere il suo estro.
Pensieri capovolti - Marcel Proust (1871-1922) trovava l' ispirazione solo sdraiato a letto con il capo sorretto da due cuscini. La poetessa americana Maya Angelou (1928-2014), già tranviera, cameriera, cuoca, mezzana, prostituta, spogliarellista, ballerina e cantante, non solo scriveva seduta sul letto, ma per trovare la giusta concentrazione non lo faceva mai a casa sua. Era solita affittare una camera d' albergo, chiedendo al personale di non cambiare le lenzuola e di rimuovere tutti i quadri. Davanti a una parete vuota scriveva anche il cupo Somerset Maugham (1874-1965), ma solo dopo un bagno caldo.
Ogni mattina Jorge Luis Borges (1899-1986) si metteva nella vasca e meditava sui suoi sogni, chiedendosi se fosse meglio trasformarli in poesia o racconti.
Incalzata dalla sorella pittrice che dipingeva in piedi, Virginia Woolf (1882-1941), negli ultimi anni della sua carriera, decise che quella posizione avrebbe favorito la sua ispirazione e che le avrebbe dato una nuova prospettiva sul suo lavoro. Anche Thomas Wolfe (1900-1938) era solito scrivere in piedi, appoggiato al frigorifero. Lo faceva solo di notte e non prima di aver stimolato la sua creatività con l' autoerotismo. Pare senza mai raggiungere l' orgasmo.
Dan Brown (1964) ha dichiarato di superare il blocco dello scrittore appendendosi a una barra a testa in giù. Più lo fa, più si sente ispirato. Va detto che Brown si costringe a una disciplina militaresca.
Ogni mattina si sveglia alle quattro, gira una vecchia clessidra per scandire il tempo, e ogni ora si ferma per un paio di piegamenti. Per quanto strana, quest' abitudine di mettersi a testa in giù dava sollievo anche a Saul Bellow (1915-2005): riusciva ad estraniarsi completamente dal caos della vita familiare.
Il silenzio era invece fondamentale per Vladimir Nabokov (1899-1977). Per lui luogo perfetto per scrivere era l' automobile. Lolita nacque sul sedile posteriore della macchina parcheggiata in un' area di servizio durante un viaggio per gli Stati Uniti.
Mark Twain (1835-1910), prima di iniziare a scrivere, si vestiva di tutto punto: camicia bianca e completo. John Cheever (1812-1882), che povero com' era nel dopoguerra di completo ne aveva uno solo, scrisse la maggior parte dei suoi racconti in boxer.
Victor Hugo (1802-1885) scriveva nudo ma solo per evitare distrazioni.
Al tempo di Notre-Dame de Paris ordinò al suo domestico di confiscargli tutti gli abiti in modo che non potesse lasciare la casa. I vestiti, al pari delle persone, erano elementi di distrazione, per cui nelle giornate più fredde si concedeva solo il lusso di avvolgersi in una coperta. A nudo si metteva anche Franz Kafka (1883-1924), ma solo per fare ginnastica.
Una decina di minuti di movimento, prima di cenare e di dedicarsi alla scrittura spesso fino all' alba. James Joyce, che aveva problemi di vista, indossava spesso un camice bianco perché l' aiutava a riflettere la luce sulle pagine soprattutto nelle ore serali.
Theodor Seuss Geisel (1904-1991), meglio noto con lo pseudonimo di Dr. Seuss, non si metteva davanti alla pagina bianca senza un cappello in testa.
Whisky e altri vizi - Secondo W. H. Auden (1907-1973) «la routine per un uomo intelligente è segno d' ambizione». Ogni mattina si svegliava alla sei e, dopo aver giocato alle parole crociate, si metteva a scrivere ininterrottamente fino alle 18.30, quando arrivava il primo, di tanti, vodka Martini.
Il giapponese Haruki Murakami (1949) scrive tutte le mattine fra le sei e le dieci, il resto della giornata la passa a correre, ascoltare musica e a leggere.
Una giovane Toni Morrison (1931-2019), madre divorziata di due figli, si alzava tutti i giorni alle 5 e scriveva prima di svegliare i bimbi e prepararli per la scuola. Lev Tolstoj (1828-1910) di mattina non rivolgeva mai la parola ai familiari e, dopo la colazione a base di due uova sode, si ritirava nel suo studio con una tazza di tè, per non uscirne prima delle cinque del pomeriggio.
José Saramago (1922-2010) scriveva due pagine precise al giorno, non un rigo di più, Jack London (1876-1916) non più di mille battute, Arthur Conan Doyle (1859-1930) 3.000 parole, Charles Dickens (1812-1870) 2.000, ma solo se tutto attorno a sé era ordinato e tavoli e sedie erano perfettamente allineati.
Samuel Beckett (1906-1989) passava tutto il giorno chiuso in camera a scrivere e tutta la notte nei bar di Montparnasse a bere vini scadenti. Pur alzando il gomito, Ernest Hemingway (1899-1961), il cui motto era «scrivi ubriaco, correggi sobrio», era molto disciplinato.
Buttava giù la prima stesura dei suoi romanzi a matita su fogli di carta velina. Solo quando sentiva che la sua scrittura scorreva liscia passava alla macchina da scrivere. Ogni giorno annotava i suoi progressi su un grosso tabellone.
Scrisse George Plimpton (1927-2003) che lo intervistò nel 1958 per Paris Review: «Le cifre sul tabellone indicano il numero di parole tirate fuori ogni giorno, e variano da 450, 575, 462, 512, fino a 1.250 per poi tornare di nuovo a quota 512».
Il romanziere britannico Anthony Trollope (1815-1882) era convinto che la scrittura dovesse farsi nel tempo libero e che lo scrittore dovesse lavorare. Scriveva solo 3 ore al giorno ma era concentratissimo e si cronometrava in modo da scrivere 250 parole ogni quarto d' ora.
Jean-Paul Sartre (1905-1980) era convinto che la vita mondana stimolasse la riflessione filosofica. Meglio se accompagnata da molto cibo, «due pacchetti di sigarette, più di un litro d' alcool e una dose smisurata di Corydrane, una miscela di anfetamine e aspirine», spiegava la sua segretaria. William Faulkner (1897-1962) per scrivere aveva bisogno di «carta, tabacco, cibo e scotch».
Ian Fleming (1908-1964), per identificarsi in James Bond, prese ad abusare di whisky, a fumare una sigaretta dopo l' altra e ad abbuffarsi di cibo. Sembra inverosimile ma si narra che in un sol pasto abbia ingurgitato 70 baguette e 6 chili di formaggio.
Charles Bukowski (1920-1994) passava le sue giornate a bere perché pensava che non ci si dovesse sforzare di scrivere, che bisognasse soltanto aspettare. L' ispirazione per lui non era altro che un insetto sul muro: «Aspetti che venga verso di te. Quando si avvicina abbastanza, lo raggiungi, lo schiacci e lo uccidi. O se ti piace il suo aspetto ne fai un animale domestico».
Il sesso secondo Shakespeare. Sir Stanley Wells, uno dei maggiori studiosi del Bardo, invita a rileggere con attenzione i suoi sonetti: abbondano doppi sensi, metafore e giochi di parole nel nostro secolo difficili da tradurre, ma immediatamente comprensibili agli spettatori del 1600. E con una forte carica erotica. Enrico Franceschini su La Repubblica il 30 aprile 2020. Lo conoscono tutti, anche quelli che non lo hanno mai letto o visto interpretare su un palcoscenico, come il cantore dell'amore romantico. "Buonanotte, buonanotte, separarsi è un così dolce dolore che direi buonanotte finché non sarà mattino", come Romeo saluta Giulietta affacciata al balcone (ancora più bello nell'originale inglese: "Good night, good night, parting is such sweet sorrow, that I shall say good night till it be morrow"). Ma uno dei massimi esperti del Bardo di Stratford-upon-Avon esorta gli studiosi della materia a esaminare con più attenzione i suoi sonetti, uno in particolare, il numero 151, per comprendere meglio cosa passasse nel cuore del drammaturgo. E anche un po' più in basso. Sir Stanley Wells, presidente dello Shakespeare Birthplace Trust, direttore delle edizioni Oxford e Penguin delle sue opere e docente emerito di letteratura all'università di Birmingham, afferma che i versi in questione descrivono l'animo di un uomo che dà il permesso al corpo di penetrare una donna. In quanto tali sarebbero una chiave migliore per capire il mistero sull'uomo considerato uno dei padri della letteratura e del teatro mondiali, la cui identità è tuttora fonte di accese polemiche. "L'anima sussurra al corpo che in amor potrà trionfare", recita in parte il poemetto, in una traduzione classica, "la carne altro dir non ode, e levandosi al tuo nome indica solo te trionfante preda. Fiera di tal successo, s'appaga diventando il misero tuo schiavo, forte alle tue voglie, al tuo fianco prono. Non manca di coscienza che io la chiami amore, perché è colpa del suo amore se io mi ergo e cado". Per il professor Wells, come riporta stamane il Times di Londra, non ci sono dubbi: "Queste parole potrebbero essere pronunciate dal pene del poeta. Perciò considerare i sonetti come un'opera uniforme significa fraintendere la pluralità, e la promiscuità, del loro messaggio. È come cercare di mettere sotto controllo o tenere in ordine l'inevitabile confusione creata dall'amore in tutte le sue forme". Non è la prima volta che gli accademici prestano attenzione ai messaggi in codice di Shakespeare nei suoi drammi o nelle sue poesie. Il suo Globe Theatre sulla riva del Tamigi sorgeva di fianco alle case di tolleranza dell'epoca; e pur rispettando le norme del tempo, il Bardo sapeva che, per stimolare l'attenzione di un pubblico di tutte le classi sociali, non bastavano complotti, tradimenti e duelli, serviva anche il sesso. Non con la franchezza di oggi, naturalmente, ma con un linguaggio allusivo. Nei sonetti, in particolare, abbondano doppi sensi, metafore e giochi di parole, nel nostro secolo difficili da tradurre, ma con un senso immediatamente comprensibile dagli spettatori del 1600. "Chi vuole capire davvero Shakespeare, deve mettere da parte i suoi scritti più intellettuali e concentrarsi sulle pagine più lascive", conclude sir Stanley, non a caso autore di un libro intitolato "Looking for sex in Shakespeare". La convinzione che esista un Bardo erotico, dunque, accanto a quello romantico di "Giulietta e Romeo". Come dimostrerebbe una più moderna ed esplicita traduzione del Sonetto 151: "L'anima dice al corpo che è lui a trionfare in amore, e la carne non chiede altra ragione; davanti al tuo nome subito si solleva e ti indica come la preda della vittoria ottenuta; il corpo rigonfio d'orgoglio si accontenta di fare il suo duro lavoro di schiavo, di ficcarsi diritto nelle tue faccende e ricaderti al fianco. Non c'è alcuna mancanza di coscienza nel chiamare amore colei per il cui amore benedetto mi raddrizzo e affloscio".
Enrico Franceschini per repubblica.it il 2 maggio 2020. Lo conoscono tutti, anche quelli che non lo hanno mai letto o visto interpretare su un palcoscenico, come il cantore dell'amore romantico. "Buonanotte, buonanotte, separarsi è un così dolce dolore che direi buonanotte finché non sarà mattino", come Romeo saluta Giulietta affacciata al balcone (ancora più bello nell'originale inglese: "Good night, good night, parting is such sweet sorrow, that I shall say good night till it be morrow"). Ma uno dei massimi esperti del Bardo di Stratford-upon-Avon esorta gli studiosi della materia a esaminare con più attenzione i suoi sonetti, uno in particolare, il numero 151, per comprendere meglio cosa passasse nel cuore del drammaturgo. E anche un po' più in basso. Sir Stanley Wells, presidente dello Shakespeare Birthplace Trust, direttore delle edizioni Oxford e Penguin delle sue opere e docente emerito di letteratura all'università di Birmingham, afferma che i versi in questione descrivono l'animo di un uomo che dà il permesso al corpo di penetrare una donna. In quanto tali sarebbero una chiave migliore per capire il mistero sull'uomo considerato uno dei padri della letteratura e del teatro mondiali, la cui identità è tuttora fonte di accese polemiche. "L'anima sussurra al corpo che in amor potrà trionfare", recita in parte il poemetto, in una traduzione classica, "la carne altro dir non ode, e levandosi al tuo nome indica solo te trionfante preda. Fiera di tal successo, s'appaga diventando il misero tuo schiavo, forte alle tue voglie, al tuo fianco prono. Non manca di coscienza che io la chiami amore, perché è colpa del suo amore se io mi ergo e cado". Per il professor Wells, come riporta stamane il Times di Londra, non ci sono dubbi: "Queste parole potrebbero essere pronunciate dal pene del poeta. Perciò considerare i sonetti come un'opera uniforme significa fraintendere la pluralità, e la promiscuità, del loro messaggio. È come cercare di mettere sotto controllo o tenere in ordine l'inevitabile confusione creata dall'amore in tutte le sue forme". Non è la prima volta che gli accademici prestano attenzione ai messaggi in codice di Shakespeare nei suoi drammi o nelle sue poesie. Il suo Globe Theatre sulla riva del Tamigi sorgeva di fianco alle case di tolleranza dell'epoca; e pur rispettando le norme del tempo, il Bardo sapeva che, per stimolare l'attenzione di un pubblico di tutte le classi sociali, non bastavano complotti, tradimenti e duelli, serviva anche il sesso. Non con la franchezza di oggi, naturalmente, ma con un linguaggio allusivo. Nei sonetti, in particolare, abbondano doppi sensi, metafore e giochi di parole, nel nostro secolo difficili da tradurre, ma con un senso immediatamente comprensibile dagli spettatori del 1600. "Chi vuole capire davvero Shakespeare, deve mettere da parte i suoi scritti più intellettuali e concentrarsi sulle pagine più lascive", conclude sir Stanley, non a caso autore di un libro intitolato "Looking for sex in Shakespeare". La convinzione che esista un Bardo erotico, dunque, accanto a quello romantico di "Giulietta e Romeo". Come dimostrerebbe una più moderna ed esplicita traduzione del Sonetto 151: "L'anima dice al corpo che è lui a trionfare in amore, e la carne non chiede altra ragione; davanti al tuo nome subito si solleva e ti indica come la preda della vittoria ottenuta; il corpo rigonfio d'orgoglio si accontenta di fare il suo duro lavoro di schiavo, di ficcarsi diritto nelle tue faccende e ricaderti al fianco. Non c'è alcuna mancanza di coscienza nel chiamare amore colei per il cui amore benedetto mi raddrizzo e affloscio".
Svelate dopo 60 anni le lettere di T.S. Eliot a Emily Hale. Che il poeta avrebbe voluto bruciare. Secondo gli studiosi potrebbe svelare il vero rapporto tra i due: "Potrebbe essere l'evento letterario del decennio". La Repubblica l'1 gennaio 2020. Dopo essere state per oltre 60 anni chiuse nel deposito di una biblioteca, circa mille lettere scritte dal poeta T.S. Eliot all'amica e confidente Emily Hale vengono svelate. Gli studiosi sperano che il loro contenuto riveli dettagli sulla relazione tra i due, su cui si sono fatte supposizioni per decenni. Molti ritengono infatti che Hale non fosse sono una carissima amica di Eliot, ma anche la sua musa, e sperano che le nuove informazioni facciano luce anche sulle sue opere. Da giovedì 2 gennaio, studenti, ricercatori e studiosi potranno leggere le lettere alla Princeton University Library. "Penso possa essere l'evento letterario del decennio", ha detto Anthony Cuda, studioso di Eliot e direttore della T.S. Eliot International Summer School, "non conosco nulla di più atteso o importante, l'uscita di queste lettere è epocale". Hale e Eliot intrattennero una corrispondenza epistolare per circa 25 anni, a partire dagli anni '30. Si erano incontrati a Cambridge, in Massachusetts, nel 1912, ma erano diventati amici in modo stretto nel 1927, quando lui viveva nel Regno Unito e lei insegnava drammaturgia nelle università statunitensi. Nel 1956, Hale donò le lettere con in vincolo che non fossero aperte per 50 anni dopo la morte sua o di Eliot, a seconda di chi fosse morto per ultimo. Eliot morì nel 1965, lei quattro anni dopo. Secondo i biografi, il poeta le aveva in realtà ordinato di bruciarle.
Alberto Mattioli per Tuttolibri – la Stampa il 25 dicembre 2019. Nei giardini del Palais Royal, il posto più bello del mondo, Jean Giraudoux portava a passeggio il suo cane Puck e, indicandogli la finestra dell’appartamento della scrittrice, non mancava di ordinargli: «Saluta madame Colette!». Benché cattolica credente e praticante, lei apprezzava: «Ci scambiavamo da cane a donna e da donna a drammaturgo delle frasi di profonda simpatia, come sulla piazza di un villaggio». A Curzio Malaparte capitò invece una curiosa avventura sul Pont-Neuf (che in realtà è il più vecchio della città, bizzarrie parigine). Un taxi si fermò accanto a lui, ne scese un ragazzo alto ed esile, «il viso cosparso di puntini rossi», che gli chiese venti franchi, con i quali pagò il taxi e poi, intascato il resto, se ne andò serenamente, senza nemmeno salutare. Divertito, Malaparte proseguì per l’appartamento di Daniel Halévy. Qui il padrone di casa gli presentò lo stesso giovanotto che l’aveva alleggerito dei venti franchi: «E questo è Malraux!». Il futuro ministro di De Gaulle si guardò bene dal ringraziarlo, men che meno dal restituirgli la banconota. E Malaparte: «Come potrei andare a far visita a Malraux? Avrei l’aria di andargli a richiedere i miei venti franchi». Si può scrivere un saggio, un saggio vero, profondo, coltissimo, soltanto con aneddoti come questi, fatti e fatterelli, dettagli e bizzarrie, bon mots e madeleines? Giuseppe Scaraffia ci è riuscito con L’altra metà di Parigi - La rive droite che è, insieme, un esperimento letterario, una guida turistica, una storia del costume, delle arti e della letteratura e una scommessa. Iniziamo dalla fine: la scommessa. Scommessa è raccontare la Parigi del primo Dopoguerra, dal 1919 al ’39, quella degli anni folli, poi degli anni ciechi e infine degli anni angosciati aspettando il secondo Armageddon restando sempre sulla rive droite, senza Montmartre e Montparnasse. Ma, spiega Scaraffia, è soltanto dalla seconda metà degli anni Trenta che diventa «de rigueur» stare a sinistra (non solo come domicilio, a ben pensarci). Anche se Prévert aveva la sua idea, al solito sbrigativa, su questi diktat topografici: «Un piede sulla riva destra, un piede su quella sinistra e il terzo nel sedere degli imbecilli». E allora, ecco la guida turistica: arrondissement per arrondissement, le case dove vissero, crearono, amarono e talvolta morirono il vecchio Proust e il giovane Cocteau e poi Aragon e Joséphine Baker, Beauvoir e Sartre, Beckett e Céline, Drieu La Rochelle e Éluard, Francis Scott Fitzgerald e Simenon, Hemingway e Gide, Joyce e Majakovskij, Mauriac e Morand, Anna de Noailles e Victoria Ocampo, Pound e Picasso, Radiguet e Rilke, i surrealisti e i dadaisti e i futuristi, i pittori e gli scrittori (un po’ in ombra, come sempre nei libri degli intellettuali italiani, i musicisti). C’è Orwell che lava i piatti per undici ore al giorno all’hôtel Lotti e Anaïs Nin che vive su una chiatta ormeggiata al quai des Tuileries insieme con il gatto Pepé le Moko, una cameriera detta «il topo» e molti amanti. C’è Proust beccato dalla polizia all’hôtel de Marigny e schedato come «un quarantacinquenne che vive di rendita, intento a bere con tre pederasti» e Hemingway che si risposa in Saint-Honoré d’Eylau e a chi gli chiede perché avesse divorziato dalla prima moglie risponde: «Perché sono un porco». Ci sono i surrealisti che proclamano: «Il successo, puah! Quello che bisogna fare è diventare infrequentabili», e giù serate folli per passare dalla teoria alla pratica. C’è soprattutto e sopra tutti Parigi, questa città-mito di cui tutti siamo innamorati senza sapere esattamente perché. Si possono solo fare delle ipotesi: «L’aria di Parigi è una droga, fa male quando non la si ha più» (Elsa Triolet); «Essere parigino non vuol dire esserci nato, ma esserci rinato» (Sacha Guitry); «Parigi è una festa» (Hemingway, naturalmente). Dopo la grande mattanza della Prima guerra mondiale, gli anni Venti furono, in fin dei conti, l’ultima età dell’innocenza europea; sul decennio successivo si ammassarono già pessimi presagi come nuvoloni (neri, appunto) in un cielo non più sereno. Ricordò Paul Morand: «Scendevamo verso il 1939 come il 1900 verso il 1914, scivolando nell’abisso come nel piacere». Questo libro è un puzzle di innumerevoli tesserine, un aneddoto dietro l’altro, i gusti e i disgusti sessuali e gastronomici, le preferenze sull’abbigliamento, un’infinità di storielle che finiscono per comporre la storia, anzi forse perfino la Storia. Davanti agli occhi incuriositi divertiti affascinati del lettore sfila il meglio della cultura europea in una delle sue stagioni più inquiete, dunque più brillanti. Senza pedanterie, con leggerezza, come un Saint-Simon meno acido o un Proust più sintetico. E non è davvero poco.
Riccardo De Palo per “il Messaggero” l'1 aprile 2020. Ernest Hemingway nel 1932 era già un autore affermato: aveva scritto Addio alle armi ed era noto per il suo carattere senza mezze misure. Quando, il 19 novembre del 1932, si accinse a scrivere al suo editore inglese, Jonathan Cape, era veramente furente. Qualcuno aveva manomesso il suo manoscritto di Death in the Afternoon (Morte nel pomeriggio), un libro sulla tauromachia; e lo aveva fatto in maniera maldestra. «Tutto il piacere che avevo all'idea di pubblicare il libro in Inghilterra è completamente svanito. Non capisce che se un taglio o cambiamento deve essere fatto, sono io a doverlo decidere, altrimenti il libro viene stravolto»? La lettera, un inedito assoluto, è contenuta nel quinto volume della raccolta completa degli scritti epistolari di Hemingway, in corso di pubblicazione per Cambridge University Press, e anticipata dall'Observer. Sandra Spanier, accademica e curatrice dell'opera (che una volta conclusa sarà composta di ben diciassette volumi), descrive il documento come una «meravigiosa lettera», che dimostra anche quanto non andassero troppo con la mano leggera, al tempo, in fatto di editing. Lo scrittore era infuriato per la precedente lettera di Cape, datata 3 novembre, in cui aveva scritto che «aveva omesso alcune parole che sarebbero risultate inaccettabili per il pubblico inglese». La pruderie degli editori, all'inizio del secolo scorso, era una male diffuso. Ma faceva infiniti danni nei testi letterari. Laddove l'edizione americana di Morte nel pomeriggio riportava le parole go fk yourselves, (andate a farvi fottere) l'edizione inglese di Cape modificava con un go hang yourselves (andate a farvi impiccare). Non solo: la stessa parolaccia diventava, spesso e volentieri, un banale blast, e cioè scoppio, esplosione. Nella lettera, Hemingway si lamenta anche perché il termine bugger, e cioè bastardo, carogna, era stato, a sua volta, edulcorato. «Se vuole pubblicare altri miei libri, è necessario che capisca questo molto chiaramente - incalza lo scrittore - Lei non è il mio vicario. Se il Papa è il vicario di Cristo, è perché il nostro Signore non si trova qui sulla terra per prendere di persona le sue decisioni. Io non sono ovviamente Cristo, ma finché sono vivo e vegeto prenderò io stesso le mie decisioni su cosa voglio o non voglio scrivere». «Se lei decide che un libro non sarà pubblicato perché contiene certe parole, e vuole cancellarlo dal programma editoriale per quella ragione, questa è una decisione di sua pertinenza», scrive ancora Hemingway. «Se io concludo che certi termini non siano importanti, ai fini del mio lavoro, e posso cambiarli senza perdere l'effetto o il significato voluti, lo farò senza battere ciglio». Lo scrittore di Fiesta precisa però che preferirebbe «essere dannato», piuttosto che «avere un vicario che decide di dare una sforbiciata ai miei libri per compiacere le biblioteche»
Gabriella Bosco per “la Stampa” il 30 dicembre 2019. Il 30 dicembre 1959, sessant' anni fa esatti, Albert Camus scrisse due lettere d' amore. Una a Maria Casarès, la celebre attrice alla quale era legato da quindici anni. L'altra a Catherine Sellers, anche lei attrice, al cui fascino aveva ceduto più di recente. Da Lourmarin, nel Vaucluse, dove si trovava con la moglie Francine e i due figli, in procinto di partire per Parigi, nell' eccitazione causata dall' idea di un rientro che ai suoi occhi rappresentava la ripresa della scrittura oltre che le tanto attese retrouvailles amorose, prese la penna e stilò le due missive. «Ecco la mia ultima lettera, dolcezza cara», scrive a Catherine, «per augurarti l' anno del cuore, e una corona di tenerezza e di gloria». E a Maria: «Ecco qui. Ultima lettera. Giusto per dirti che arrivo in auto, rientro lunedì con i Gallimard. Ti telefonerò al mio arrivo, potremmo cenare insieme martedì». Martedì. Anche a Catherine ha dato appuntamento lo stesso giorno: «Torno e sono contento di tornare. A martedì, mia amata. Ti bacio sin da ora, e ti benedico dal fondo del mio cuore». Pensava forse di incontrarla nel pomeriggio, prima di andare a cena con Maria. Com' è noto, quel martedì non giunse mai. Il 4 gennaio, lunedì, il giorno del rientro a Parigi, l'auto guidata da Michel Gallimard, suo amico e editore, figlio del fondatore Gaston, andò a schiantarsi contro un albero. Fatto alla cui luce quell'«ultima lettera» ripetuto due volte si mette a suonare tragicamente profetico. Camus voleva dire ultima del '59, certo. Eppure. Su quell' incidente si è molto detto, molto scritto. Michel Gallimard guidava su un rettilineo di una strada larga, c' era poco traffico, sulla dinamica non venne fatta luce, nessuna indagine: esplosione di un pneumatico? Rottura di un asse? Nel 2013 un nostro connazionale, Giovanni Catelli, ha pubblicato un libro intitolato Camus deve morire (Nutrimenti) in cui argomenta a sostegno dell' ipotesi di un attentato. L'auto dell'editore sarebbe stata, secondo Catelli, sabotata a opera del Kgb che non aveva gradito certi interventi di Camus, e in particolare uno contro il ministro degli Esteri dell' Unione Sovietica. È certo che in quegli anni Camus si era fatto tanti nemici: i nazionalisti francesi, che non volevano l' indipendenza dell' Algeria; gli estremisti algerini, a cui dava fastidio la sua moderazione di fronte alla sorte dei pieds-noirs, i francesi d' Algeria, nell' eventualità dell' indipendenza; le forze reazionarie, che vedevano in lui un campione della Resistenza e della sinistra; gli stalinisti e l' Unione Sovietica, che aveva attaccato con vigore per l' invasione dell' Ungheria; la dittatura fascista spagnola, cui si opponeva con discorsi pubblici, denunciandola in ogni sede, perché l' Occidente non la accettasse nelle istituzioni internazionali. Di recente il libro di Catelli è stato tradotto in francese (per Balland), con una quarta di copertina prestigiosa firmata Paul Auster, convinto sostenitore della tesi del complotto. Tesi che tuttavia continua a venir discussa. Le prove a favore sono in genere giudicate non del tutto convincenti. Ma il movente, la difesa di un autore che dal 4 gennaio 1960 continua a mancare alla stregua di Pasolini (è quanto afferma in fin dei conti Catelli), quello ha convinto. Del resto, l' altalenante oscillare dell' opinione tra Sartre e Camus che stabilisce opposti favori a seconda dei momenti, è tornato di recente a pendere più verso Camus rispetto a decenni scorsi maggiormente sartriani. Fatto sta che in quella doppia lettera d' amore, doppiamente «ultima», Camus - che a 47 anni era molto lontano dal pensiero di morire - aveva accennato a voler parlare degli hasards della strada. Stava scrivendo il libro che non poté terminare e che sarebbe uscito postumo, Il primo uomo, in cui un suo alter ego di nome Jacques Cormery torna nell' Algeria della sua infanzia e fa i conti con i fantasmi del suo passato. E con i sentimenti. Sì, perché dopo libri capitali come Lo straniero o La peste, dopo l'Assurdo e la Rivolta, dopo il Nobel preso a 44 anni nel 1957, era arrivato per lui il ciclo dell' Amore. Nella sacca che aveva con sé in quell'auto fatale c'era tutta la parte già scritta del Primo uomo, c' erano i dossier, gli abbozzi delle due parti che avrebbero dovuto seguire. La vedova Francine decise di non pubblicare. Ma la figlia Catherine, quando venne il suo turno di occuparsi dell' eredità paterna, facendosi forte del lavoro di una équipe di specialisti, decise di darlo alle stampe (per Gallimard, nel 1994, con annesso il Carnet di Camus dedicato alla scrittura del libro - ed è la stessa figlia Catherine ad aver voluto la pubblicazione delle lettere d' amore del padre, sempre per Gallimard, lo scorso anno: per evitare che lo facessero altri «spinti da curiosità malsane». Scritto in terza persona, il testo del ‘Primo uomo’ presenta a un certo punto un «io» imprevisto, sfuggito di penna, rivelatore. Camus lo avrebbe tolto? Il protagonista si sente un mostro, per via dell' indifferenza con cui ha vissuto fino al momento in cui è tornato sulla tomba del padre, mostro fino ad allora a causa del vuoto creatosi in lui per aver vissuto senza quel padre. Camus, per poter scrivere di tutto questo deve passare per la terza persona, per l' alter ego, per Jacques Cormery, che si faccia carico sulla pagina di ciò che per l' autore è troppo faticoso - impossibile - da dire parlando in prima persona. Ma in quella certa pagina l' io si rivela, emerge in superficie. Fugacemente, poi si reimmerge. Camus e il suo doppio, il capro espiatorio testuale.
Chissà quale dei due ha scritto a Maria, quale a Catherine.
Tutte le donne di George (e il segreto di "1984"). Davide Brullo, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. Esattamente vent'anni fa, chirurgica precisione inglese si onoravano i primi 50 dalla scomparsa di Orwell , il Times Literary Supplement oltraggiò il mistero. Orwell aveva intitolato 1984 così in origine avrebbe dovuto chiamarsi The Last Man in Europe in onore della ex moglie. L'ineffabile Eileen O'Shaughnessy, infatti, aveva scritto una poesia, End of the Century 1984, nel 1934, quindici anni prima della pubblicazione del romanzo, un anno prima di flirtare col suo autore. La poesia celebrava la Sunderland Church High School frequentata da Eileen; i critici vi intuirono atmosfere distopiche; Michael Shelden, autore di Orwell: The Authorized Biography, confermò, «Orwell ha cambiato il titolo del romanzo su richiesta dell'editore americano. Rese un silenzioso tributo a Eileen, dopo la sua morte». Altri critici fecero spallucce, il mistero tornò a infittirsi in una palude di nonsense, tutti però si trovarono d'accordo su un fatto: «Eileen ha avuto una grande influenza su Orwell, soprattutto durante la scrittura de La fattoria degli animali. Diciamolo pure: di tutti gli scrittori della sua generazione, Orwell è stato quello benedetto dalla moglie più intelligente» (Shelden). Ora che Sylvia Topp ha pubblicato la biografia di Eileen (titolo aulico: Eileen. The Making of George Orwell, Unbound 2020, pagg. 560, £ 25.00), la suggestione di allora torna trionfante: il Telegraph ha lanciato la biografia con un barrito, «Come la moglie di George Orwell scrisse 1984 15 anni prima di lui». Basta un sedicesimo di verità e un chilo di idiozia per fare notizia. Eileen O'Shaughnessy, come dice la sagace biografa, è «il buco nero degli studi orwelliani». Di certo, fu l'«incontro che cambia il corso della vita di Orwell» (Guido Bulla). Ardita, smaliziata, colta, Eileen «voleva impressionare gli altri con la sua intelligenza». Orwell fu impressionato, piuttosto, dalle sue gambe e dal suo «viso da gatta». La incontrò a Londra, primavera 1935; il gancio l'ha fatto l'affittuaria di Orwell, a Hampstead. Lui era tornato dalla Birmania, schifato dal colonialismo, aveva fatto il barbone a Portobello Road e il mendicante a Parigi ho marchiato in fronte quanto scrive in 1984: «Tutto quel che faceva pensare alla corruzione lo riempiva sempre d'una sfrenata speranza». Aveva pubblicato un paio di libri Senza un soldo a Parigi e a Londra e Giorni in Birmania , sognava di diventare Jack London, aveva 32 anni. Lei aveva due anni meno di lui, era stata lettrice d'inglese a Oxford, stava fondando un'agenzia per dattilografi e seguiva un master in psicopedagogia all'università. Orwell ne fu fulminato. Le chiede di sposarlo il giorno in cui la conosce. Lei accetta. Le nozze accadono l'anno dopo, il 9 giugno 1936, tra le perplessità dei parenti di lui «Tutti adorano Eric, ma pensano che sia impossibile vivere con lui. Il giorno del matrimonio sua mamma scuoteva la testa: ero una ragazza avventata, diceva, non sapevo a cosa andassi incontro», scrive Eileen. In effetti. Orwell sceglie di abitare a Wallington, nell'Hertfordshire, in un cottage vecchio di tre secoli, «senza elettricità né acqua calda, con un bagno all'esterno, una capra da mungere e delle galline per le uova». Eileen lo segue. E lo insegue, poco dopo, in Spagna, sul fronte, protagonisti di una fuga rocambolesca lungo i Pirenei, braccati e schedati come «trotckijsti». In Spagna, per altro, i due sperimentano il rapporto aperto: Eileen si cede al comandante Georges Kopp; lui se la faceva da un po' con Lydia Jackson, confidente di lei. Un amico di Orwell, Mabel Fierz, ha confermato che «Non si credeva attraente, ma era un talentuoso donnaiolo». Gli piaceva giocare su più tavoli. «Era un grande scrittore di lettere. Lettere infinite, di molte pagine», ricorda una sua fiamma, Brenda Salkeld. Poi ci fu Celia e Ann e la segretaria del Tribune. Amava in modo disordinato, spesso astratto, «certo, sono stato infedele, l'ho trattata male, anche lei mi ha trattato male, ma, ecco, è stato un vero matrimonio, il nostro, nel senso che insieme abbiamo attraversato momenti terribili, abbiamo lottato, ecco», ammette, lui. Durante la Seconda guerra, Eileen è assunta presso i Censorship Department; Orwell, inabile alla leva, si arruola fra i Local Defence Volunteers. Insieme adottano un figlio, Richard Horatio, e lui la piange con sincerità quando muore, a 39 anni, nel marzo del 1945, durante una isterectomia. In 1984 l'amore avido, riscoperto, autentico, è rappresentato dall'audace Julia «dovrei piacerti, caro, io sono corrotta fin nel midollo delle ossa»). L'amore coniugale, invece, ha il volto burocratico dell'«ortodossa», algida Katharine. Orwell scrisse 1984 in reclusione, a Jura, nelle Ebridi. Dopo la morte di Eileen, propose le nozze a quattro donne. Sonia Bronwell, sgargiante segretaria di Horizon, più giovane di lui di quindici anni, accetta. I due si sposano il 13 ottobre del 1949. Orwell sta malissimo, muore tre mesi dopo. Dopo dieci anni, Sonia si risposa, impalma il ricco possidente Michael Pitt-Rivers, con cui rompe nel 1965. Mantenne il cognome Orwell, fu l'amante di Lucian Freud e di Merleau-Ponty, amica di Picasso e di Francis Bacon. Eileen non avrebbe apprezzato.
· Letteratura. Dal Figlio al Foglio. Il Figlio come ispirazione.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 19 marzo 2020. In principio era la Carne, poi la Carne si è fatta Verbo. Una fetta importante di letteratura non ci sarebbe stata se gli scrittori non fossero diventati padri e non avessero messo al mondo carne della loro carne. La loro opera ce lo dimostra: spesso bisogna farsi genitori per scoprirsi autori, cominciare dalla paternità biologica per concedersi una paternità letteraria. La festa del papà si può così celebrare ricordando quei grandi scrittori che diventarono "padri" due volte, cominciando dal Figlio per arrivare al Foglio. Se vogliamo, il modello supremo è Dio stesso che partorì la sua opera più bella, il Vangelo, dopo aver rivelato al mondo suo Figlio. Senza di Lui, non ci sarebbe stato il Libro.
Scendendo su un piano più profano, si può ricordare Lev Tolstoj, per cui la paternità segnò un momento di svolta. Aveva trascorso la gioventù tra feste e bagordi, «venti anni orribili di depravazione al servizio dell' orgoglio, della vanità e del vizio», li definiva. Fu l' incontro con Sof' ja Andrèevna a dargli stabilità, avviando un periodo di rinascita spirituale e di fecondità letteraria. Il 1863, l' anno in cui nacque suo figlio Sergej, coincise col momento in cui Tolstoj avviò la stesura del suo primo capolavoro, Guerra e Pace, che lo avrebbe consacrato. Un percorso umano e letterario condiviso da Alessandro Manzoni, che ebbe a sua volta una gioventù scapestrata, segnata dall' amore per il gioco d' azzardo e la trasgressione, al punto che dovette intervenire suo padre Pietro per distoglierlo da quella vita dissipata. Ma dove non poté l' autorità paterna, riuscì il fatto di diventare lui stesso padre. Conosciuta Enrichetta Blondel, Manzoni ebbe poco dopo da lei la prima figlia: alla nascita di Giulia seguì la decisione dello scrittore, fino ad allora indifferente alla religione, di battezzarla, primo segnale della conversione che lo avrebbe portato ad abbracciare la fede cattolica. La rivoluzione umana e spirituale coincise con una rivoluzione letteraria. Cominciò di lì a poco "il quindicennio creativo" di Manzoni in cui lui avrebbe composto gli Inni Sacri, le Odi civili, le maggiori opere teatrali, nonché la prima versione de I promessi sposi. Don Lisander si poneva sulla scia di un altro gigante che, molti secoli prima, aveva vissuto una conversione ancora più travagliata e cominciata con la nascita di un figlio. Il futuro Sant' Agostino era un giovane degenerato che si concedeva qualsiasi forma di licenziosità, anche sessuale, primeggiando nel peccato. Aveva conosciuto una donna, Monica, con la quale viveva in concubinato. Fu lei a dargli un figlio, Adeodato, letteralmente «dato da Dio»: nel nome un destino dal momento che, con quella nascita, iniziò il suo percorso di ravvedimento che lo avrebbe portato prima a volgersi alla filosofia, quindi ad approdare al manicheismo e neoplatonismo e infine ad aprirsi al cristianesimo. Se Agostino diventò grande filosofo, santo e padre della Chiesa lo dovette anche al fatto di essere divenuto padre di quella creatura. Ma la paternità ha segnato un momento cruciale anche nell' opera di alcuni immortali del Novecento. Si pensi a John Fante che sbloccò la sua crisi creativa grazie anche alla nascita di quattro figli: dopo pubblicò Una vita piena, racconto di una gravidanza e suo unico grande successo in vita. E si pensi a Hemingway: quel giovinastro ingenuo, che sognava di fare la guerra da eroe, mise la testa a posto e sui libri nel momento in cui trovò il suo equilibrio familiare: nel 1923 ebbe un figlio dalla prima moglie e quello stesso anno pubblicò i primi racconti. Qualche anno dopo, nel 1929, diede alle stampe Addio alle armi, uno dei suoi romanzi più celebri, pochi mesi dopo la nascita del secondogenito. All' altezza di questi mostri sacri si mette adesso il belga Eugène Savitzkaya, poeta maledetto, a lungo nella cerchia di Foucault e Guibert, milieu noto per proporre un modello umano, tra droghe e sesso estremo, e ideologico, con la critica al principio di autorità, distantissimo dall' immagine del buon padre di famiglia. Ora però lo stesso autore sforna un gioiello intriso di spirito lirico e pathos umano, intitolato Marino il mio cuor (Prehistorica, pp. 112, euro 12), ode in cui lui celebra la nascita del suo primogenito. Savitzkaya presta ascolto al linguaggio del figlio, ne segue i movimenti e le abitudini fino a immedesimarsi nella sua visione del mondo, quella di un «nano», lontanissima dal mondo dei «giganti», ma per questo molto più originale e vicina all' origine. La sua è una sorta di amorevole lettera scritta al figlio, speculare a un' altra opera degna di nota, Lettere al padre (Morellini, pp. 204, euro 15,90), in cui ventitré autori e autrici mandano missive al papà lontano, perduto, tradito o incompreso. Avvertendone sottotraccia la nostalgia ma traendone anche linfa per farne scrittura. E convincendosi che non è mai troppo tardi per diventare genitori e avere così una buona ragione per mettere al mondo un libro.
· La Cultura Contemporanea? Il trash-pop-cult berlusconiano.
GF Vip, pesantissime confessioni notturne tra Adua e Massimiliano. Si fa riferimento al suicidio di Teodosio Losito. Roberto Mallò per davidemaggio.it il 22 settembre 2020. Sembrerebbe esserci molto di più di una semplice rottura per incomprensioni caratteriali nel rapporto tra Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, attualmente reclusi nella casa del Grande Fratello Vip. Nel corso della notte, i due concorrenti si sono infatti lasciati andare a dalle dichiarazioni davvero shock sul loro passato, facendo riferimento ad un periodo in cui entrambi sono stati ’soggiogati’ da una persona cattiva (“Lucifero in persona” dice Morra) che li ha convinti a staccarsi da ogni tipo di affetto, motivo per il quale hanno dovuto affrontare poi un percorso di psicanalisi. Il sibillino discorso si è innescato quando Massimiliano, dopo averle chiesto scusa per non averla contattata nel periodo in cui soffriva di anoressia ("stavo morendo", ha detto la Del Vesco a Morra nel corso dell’ultima puntata del GF), ha parlato ad Adua in maniera enigmatica di una persona che conoscono: “Si devono raccontare ancora tante altre cose sugli inciuci dell’innominabile… mamma mia, che personaggio. (…) Io non rinnego nulla, è stata un’esperienza, molto negativa ma è stata un’esperienza e mi ha cambiato da molti punti di vista e ho raggiunto degli obiettivi lavorativi che ci (ai quali, ndDM) tenevo“. La Del Vesco si è quindi allacciata al discorso, lasciando intendere di essere stata costretta da qualcuno ad allontanarsi dai suoi cari: “Anch’io, però niente vale tutti gli anni che ho perso accanto ai miei genitori, tutti gli anni che potevo passare con il mio ragazzo, con il quale non sono potuta stare per suo volere. Niente, capito? Niente è paragonabile a tutti i successi lavorativi che ho avuto. Quegli anni, quei momenti, gli anni di vita che ho perso dei miei genitori non me li darà indietro più nessuno“. Morra ha così cercato di confortare la sua ex sulla strana questione: “Lo so. Però sai cos’è? Guarda la persona che sei, penso che tu sei (sia, ndDM) contenta della persona che sei oggi, no?! Lo devi a quello (…) Probabilmente se non avessi vissuto quello, oggi non studieresti teologia (…) “. Le confidenze sono diventate sempre più pesanti, tant’è che Adua ha detto: “Io a un certo punto non volevo più vivere. Non ce la facevo più“. La risposta di Massimiliano è stata sconcertante: “E’ stata una cosa atroce, veramente. Ma poi l’ultimo periodo è stato per me il peggiore. Era diventata una cosa improponibile ormai (…) Ho detto, mo che cazzo faccio? Ti ricordi quella sera che è successo? Quel mio gesto che (per il quale, ndDM) tu giustamente ti sei arrabbiata (…) Tutto è nato da lì, poi è stato tosto perché ricevevo delle telefonate, istigazioni (…) perché io ho detto chiudiamo il capitolo, perché ho detto basta (…) Ti ho detto la cosa del Rolex? Che tu eri stata a pensare che io… Te lo giuro su mia madre“. Interrogato dalla Del Vesco – “Ma da parte di lui?” - Morra ha proseguito: “Tu non hai idea della cattiveria di quella persona“. E la Del Vesco replica: “Io ce l’ho idea perché l’ho vissuta sulla mia pelle, ma tante cose forse il mio cervello manco ci arriva… Per questo io mi incazzo, perché vorrei… io vorrei giustizia, vorrei giustizia“. Qualcosa di più si capisce dopo, quando la Del Vesco fa riferimento – senza dirlo esplicitamente – al suicidio di Teodosio Leosito (regista con cui entrambi hanno lavorato): “Hai visto cosa è successo? (…) Io me ne sono scappata, io da lì poi di notte me ne sono scappata, di nascosto. Se rimanevo lì facevo la sua fine (…) Non lo sai quello che ho passato. Ero veramente sola. Con quella cosa che è successa, lui ha liberato me. Perché forse io ad oggi non stavo qua“. Si intuisce, mettendo insieme vari elementi tra cui la data del decesso, che il riferimento possa essere proprio al regista, quando Adua racconta di aver scoperto del suicidio il mattino dopo alle 7 da un messaggio di Vanessa Gravina. A quel punto avrebbe chiamato Losito e avrebbe risposto “lui” e quel lui – incrociando precedenti dichiarazioni di Adua al Fatto e analizzando il contesto descritto dai due – dovrebbe essere Alberto Tarallo, produttore Ares nonché compagno professionale e di vita di Losito. Sarà proprio lui la persona cattiva che avrebbe fatto del male ad Adua e a Massimiliano?
Adua Del Vesco e Morra, dettagli choc al GF Vip: parlano i fan e spunta “Lucifero”. Valentina Gambino per blogtivvu.com il 23 settembre 2020. Adua Del Vesco e Massimiliano Morra si sono chiariti nel cuore della notte. Tra una chiacchiera e l’altra, il racconto choc dell’attrice siciliana ha fatto ipotizzare della loro storia vissuta all’interno di un ambiente malsano e tossico, una sorta di “setta”. I fan, hanno fatto una minuziosa ricostruzione di ciò che hanno capito della spinosa faccenda, aggiungendo dei video interessanti che troverete alla fine del nostro articolo. Adua e Massimiliano erano in questa agenzia che creava un ambiente malsano per i suoi pupilli. Era una specie di setta dove li controllavano e gli facevano una fortissima pressione psicologica e manipolazione. Per conseguenza di questo ambiente malato non vivevano bene la loro storia perché mettevano in giro delle storie false sui due e si cercano malintesi. In particolare venivano manipolati da questa persona, Lucifero. Intanto Massimiliano ha fatto qualche tipo di sceneggiata che riguarda un telefono e che lei considera molto grave (le ha lanciato il telefono? Boh) e poi ha lasciato questo ambiente mentre lei è rimasta ancora dentro e ha sviluppato l’anoressia. Lui ha avuto un incidente stradale grave e lei avrebbe voluto riavvicinarsi a lui in quel momento, ma le è stato impedito da persone interne a questa setta che erano contrarie a una loro riappacificazione. Quando questo Lui è morto (sembra Teodosio Losito), Adua ha capito la gravità della situazione in cui si trovava e si è allontanata definitivamente anche perché, a detta sua, non era più utile, visto che era diventata così magra da non potersi alzare dal letto. Sono rimasti entrambi traumatizzati da questa storia, hanno spesso incubi al riguardo, non possono più sentire certe frasi, si sono avvicinati alla religione, lui soprattutto spirituale/buddhista e lei al cristianesimo e studiando teologia. La vera mastermind dietro tutto questo sembra questo Lucifero, Adua e Massimiliano dicono che vedendoli parlare così probabilmente si arrabbierà e che per lui vederli così felici e sereni è la punizione peggiore. Negli anni passati in quella setta non hanno potuto coltivare affetti esterni, si sono allontanati dai loro cari (Adua dice di aver disimparato a socializzare lì), hanno ripreso a vivere solo quando si sono finalmente allontanati, pur avendo avuto vantaggi professionali.
Eva Zuccari per "today.it" il 23 settembre 2020. Parole in codice, lacrime e confessioni sottovoce. Così ieri al Grande Fratello Vip Adua Del Vesco e Massimiliano Morra si sono confrontati su un inquietante episodio avvenuto nel loro passato. I due attori avrebbero trascorso un periodo turbolento alle prese con quella che sembra essere a tutti gli effetti una 'setta', manipolata da un tale indicato come “Lucifer” o l'Innominabile. E proprio sulla questione è tornata ieri pomeriggio Barbara d'Urso in occasione dell'ultima puntata di 'Pomeriggio 5', nel tentativo di fare chiarezza sull'accaduto. Nel dettaglio Barbara ha mostrato sul ledwall della trasmissione alcuni titoli di giornale che riportavano le confessioni di Morra e Adua. "Potrebbero essere stati coinvolti anche altri personaggi molto, ma molto famosi, attenzione", ha dichiarato "Questa è una cosa seria. Adua parla di una persona che si è suicidata e lei dice che questa persona faceva parte di questa sorta di setta come dicono i giornali. Lei fa capire che sarebbe potuto accadere anche a lei il suicidio. Io posso dire che c’è un’altra persona che io non dirò nemmeno sotto tortura, che mi ha raccontato la stessa cosa. Mi ha detto che era una situazione molto particolare, io lo tengo per me, non dirò altro. Però sono scioccata perché le cose di Adua e Morra sono le stesse. D'Urso, insomma, conferma ma non scende nel dettaglio e, soprattutto, lascia intendere che quanto avvenuto sia ben noto agli addetti ai lavori. "Io questa cosa la sapevo ma da un’altra persona molto famosa. Questa cosa qui è intrisa nel mondo dello spettacolo. Vi dico che però mi è stata raccontata nello stesso modo. Io sono sotto choc perché durante la pubblicità ho preso il mio telefono e mi stanno arrivando un sacco di messaggi da persone che conosco sul caso della ipotetica setta e sono incredula. Così tante persone non immaginavo. Secondo me usciranno tanti nomi". Se le indiscrezioni venissero confermate, si tratterebbe di un vero e proprio scoperchiamento del Vaso di Pandora nel mondo dello spettacolo. Le dichiarazioni di Adua e Massimiliano sono infatti molto pesanti. "Io ero succube di quella persona, sai di chi parlo vero? Ero una scema”, ha esordito ieri la 27enne siciliana in riferimento a un personaggio che li avrebbe manipolati. E lui le ha fatto eco: "Tu credi nell'energia negativa? Io sono convinto che lui sia Lucifero, è il Male supremo. Dopo questi avvenimenti l'ho percepito ancora di più", ha affermato Morra. Ma chi è l'innominabile? Al momento non è dato sapere, dato che i due si sono ben guardati dal fare esplicitamente nomi e cognomi delle persone coinvolte. L'unico nome tirato in ballo è, però, quello di un certo Teo, che è da ricondurre a Teodosio Losito, sceneggiatore delle fiction Ares (società di produzione fallita all'inizio dell'anno, che ha dato i natali a serie tv di successo come Il Bello delle Donne, L'onore e il rispetto, Il Peccato e la Vergogna, di cui gli stessi Adua e Morra erano protagonisti) morto suicida l'8 gennaio 2019. L'uomo, legato professionalmente e sentimentalmente al collega Alberto Tarallo, viene chiamato in causa da Adua in quanto unica persona che l'avrebbe aiutata ad uscire da quel momento difficile. Questa morte sarebbe stata la molla che l'avrebbe spinta ad uscire dall'anoressia: "Io non ero lì quando è successa quella cosa, l’ho scoperta il giorno dopo alle 7 del mattino. Lui mi mandò un messaggio. Io gli volevo bene e so che anche tu ne volevi a lui. Io se rimanevo facevo la sua fine. Ero veramente sola e avrei fatto quella fine lì. Lui è morto il 9 gennaio. A Natale mi accompagnò in aeroporto e mi abbracciò fortissimo, aveva bisogno di calore umano, non lo dimenticherò mai".
Giuseppe Candela per Dagospia il 23 settembre 2020. E' esploso l'AresGate sui social. Colpa o merito, dipende dai punti di vista, delle dichiarazioni di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra nella casa del Grande Fratello Vip. Ares, nome della società di produzione, ora fallita, che per anni ha realizzato le fiction trash-pop-cult in onda su Canale 5 con grandissimo successo. Accuse prima senza nomi e cognomi poi con riferimenti molto chiari. E il due più due più facile del mondo con l'incrocio di virgolettati e situazioni. "Istigazione al suicidio", ha aggiunto nel pomeriggio la Del Vesco parlando della morte di Losito. Ha raccontato della sua anoressia, di manovre psicologiche, voci false sul suo conto, amori ostacolati, età finte, rolex rubati e molto altro. Un racconto confermato in buona parte dall'ex fidanzato Morra. Così, per dover di cronaca, non si registrano al momento commenti da Alberto Tarallo che l'attrice nella casa definisce indirettamente Lucifero. Nessuna denuncia, a quanto ci risulta. Dagospia ha provato a capire qualcosa in più su quel mondo, finito improvvisamente al centro della scena, chiedendo un parere a chi per anni ci ha lavorato. "No comment", ci dice Eva Grimaldi. Ha un tono deciso ma provato, le domande aumentano ma l'attrice non sembra disposta concedere risposte: "Non voglio parlarne ore, sto molto male", aggiunge quando l'argomento si sposta sulla scomparsa di Teodosio Losito, morto suicida a gennaio 2019. Da "Il Bello delle Donne" a "Donne Sbagliate" a "Caterina e le sue figlie": fiction di successo di Canale 5 con il volto di Nancy Brilli e dietro le quinte il duo Losito-Tarallo. "Non so cosa è accaduto al Grande Fratello", precisa l'attrice. Non commenta, dunque, le parole pronunciate dai colleghi ma il mondo Ares lo ha conosciuto: "Non ho assolutamente rapporti con Alberto Tarallo. Sono stata eliminata da un giorno all'altro dalle produzioni, con loro ho realizzato solo successi. Improvvisamente ho capito che stava cambiando qualcosa, non abbiamo più lavorato insieme." La Brilli non si tira indietro: "Non era gente cui con avessi particolarmente passione a lavorare. C'erano persone che non mi piacevano, la gestione non era chiara. So che fino al giorno prima lavoravo e il giorno dopo non lavoravo più. La fiction era "Caterina e le sue figlie 2", il direttore di rete mi chiamò e mi ringraziò dicendomi che avevo alzato gli ascolti. Mai più lavorato con loro." Nessuna manovra psicologica ("Con me non è accaduto"), nemmeno imbarazzi nella villa di Zagarolo ("Ci sono stata ma quando c'ero io non c'era nulla di strano"). Qualche tentativo per un finto flirt invece la Brilli lo ha avvertito: "Mi è stato consigliato di fidanzarmi con un attore. Non mi è parso il caso". Un finto flirt tentato anche con Giuliana De Sio: "Una volta sul lancio di una fiction mi hanno chiesto di fingere un flirt, ho rifiutato e mi sono messo a ridere. Si sono anche offesi, ma ho detto: "Questo no, non ce la posso fare". Erano delle lucherinate, gli anni sessanta aleggiavano su di noi. Era tutto un modo di pensare a quel tipo comunicazione forse obsoleto." Attrice dal lungo curriculum diretta da registi di peso ma anche con titoli di successo proprio con la Ares: da "Il Bello delle Donne" a "L'Onore e il Rispetto", per citarne due. Anche lei non ha seguito gli sviluppi del Grande Fratello Vip ma su Tarallo e Losito si lascia andare: "Io non ho più lavorato con loro. Diciamo che è stata una scelta reciproca, eravamo corpi molto estranei. Il mio organismo espressivo, la mia provenienza artistica non aveva niente a che fare con quel mondo lì. C'era una distanza di visione." "Al funerale di Losito non ci sono stata perché ero in tournée altrimenti ci sarei andata. Con lui avevo un buon rapporto, non un grande rapporto perché era molto silenzioso. Ci conoscevamo da anni, come conoscevo gli altri. Ci lavoravo ma non li frequentavo. Nella loro villa ci sono stata due volte per parlare di lavoro, avevo una relazione professionale diversa, molti personaggi sono stati inventati da Alberto. Io era nata molto prima", aggiunge l'attrice. Le chiediamo se ha mai pensato che quello non fosse l'ambiente adatto: "Ho visto e pensato ma quello che ho pensato lo tengo per me. Era un mondo fatto di un linguaggio preciso che a me non apparteneva. Detto questo è anche un mondo in cui ho potuto fare anche qualche personaggio che mi ha estremamente divertito. Tripolina de L'Onore e il Rispetto, Annalisa Bottelli de Il Bello delle Donne mi divertivo a farle anche se venivano massacrate dalla critica. A me no fortunatamente. Mi assegnavano ruoli da attrice, tutto quello ruotava intorno sentivo che non mi apparteneva." Così sul finale, il discorso si allarga al suo lavoro e non all'AresGate: "Il giorno che potrò parlarne potrei scriverne un libro."
VITA, OPERE E MIRACOLI DELL’”ALBERTA”. Dagospia il 24 settembre 2020. Franco Grattarola (pubblicato in “Classix!” n°37, giugno-luglio 2013). Nonostante Alberto Tarallo sia, almeno a partire dalla seconda metà degli anni ’90, uno dei più famosi produttori di fiction televisive, è difficile, per non dire impossibile, reperire una sua foto recente. Le uniche sue immagini in circolazione, ricavate da antiche foto di scena o da frames di vecchie pellicole, lo ritraggono immancabilmente in abiti muliebri. Un alone di mistero, sicuramente alimentato dallo stesso Tarallo, rende le attuali fattezze di questo produttore più misteriose di quelle del regista Terence Malick o dello scrittore Thomas Pynchon. I lettori dei più sguaiati rotocalchi, ma anche quelli dei più paludati quotidiani, hanno avuto notizia dell'esistenza di questo sfuggente uomo di spettacolo grazie a uno scandaletto che, nell’estate 2012, ha coinvolto, oltre al nostro valente produttore, la diva Sabrina Ferilli e il neoattore Francesco Testi (ex giocatore di pallavolo e concorrente della settima edizione del Grande Fratello). Pettegolissimi gossip, fomentati peraltro da alcune incaute dichiarazioni della Sabrina nazionale, hanno addirittura favoleggiato di un triangolo tra lui (Testi), lei (la Ferilli) e l’altro (Tarallo), nato sul set della fiction Né con te né senza di te (2012), sulla cui veridicità, a causa di querele e controquerele, si pronunceranno i tribunali. Ma non è il gossip, questo novello oppio dei popoli, la chiave giusta per narrare la vita e le opere di Alberto Tarallo. Ripercorrere la sua biografia equivale, infatti, a ricostruire una parte rilevante della storia (non solo) della televisione italiana. Nato a Napoli il 23 settembre 1953, Tarallo esordisce sul grande schermo interpretando un piccolo ruolo (Bellachioma, un neghittoso modello che posa, insieme a Claudia Mori, per uno scultore) in una grande produzione come Rugantino (1973, Pasquale Festa Campanile). Ma è in virtù del sodalizio stretto con il principe attore Franco Caracciolo, figura mitologica della comunità gay capitolina ben introdotta a Cinecittà, che il futuro produttore intensifica le sue apparizioni cinematografiche. Tarallo, seguendo il solco tracciato dallo stesso Caracciolo e, prima ancora, dal “capovolto nazionale” Giò Stajano, si specializza nel ruolo del travestito. La sua filmografia en travesti annovera complessivamente sei titoli: L’uomo della strada fa giustizia (1975, Umberto Lenzi), in cui interpreta un travestito (soprannominato Liala) che aiuta un giustiziere della notte a scovare gli assassini della figlia, Labbra di lurido blu (1975, Giulio Petroni), in cui capeggia un terzetto di travestiti (gli altri due sono Caracciolo e Paolo Pazzaglia) che brutalizza la protagonista Lisa Gastoni. Un amore targato Forlì (1976, Riccardo Sesani), in cui stupisce un giovane provinciale per la sua disinibita minzione nel bagno degli uomini, Mimì Bluette fiore del mio giardino (1976, Carlo De Palma), in cui ricopre la parte di Doralice (al suo fianco il succitato Pazzaglia), La banda del gobbo (1977, Umberto Lenzi), in cui è un travestito da marciapiede (nome d’arte Ursula) costretto dal gibbuto antieroe a smerciare orologi di marca fasulli (tra i compagni di meretricio si riconosce Caracciolo), e Quel pomeriggio maledetto (1977, Mario Siciliano), in cui incarna il travestito malavitoso Mandy (suo braccio destro il solito Caracciolo). Tarallo appare inoltre in Maria R. e gli angeli di Trastevere (1975, Elfriede Gaeng), melodramma pasoliniano che lo relega nel ruolo del gay vicino di casa della protagonista (nel cast ancora una volta Caracciolo), e La verginella (1975, Mario Sequi), l’unico film che interpreta in abiti virili (un compagno di classe dell’eroina eponima). Le caratterizzazioni più rilevanti di Tarallo, fatta eccezione per L’uomo della strada fa giustizia (senza dubbio il suo ruolo più importante e la sua migliore interpretazione), sono tuttavia quelle che lo vedono parrucca a parrucca con il blasonato sodale. Più che sul grande schermo, il duo Tarallo & Caracciolo vive il suo momento di gloria sul palcoscenico dell’Alibi, storico locale gay capitolino, che per un lungo periodo è gestito con grande oculatezza proprio da Tarallo. Una cronaca coeva celebra, non senza ironia, la nascita del trasgressivo ritrovo: «Qui prima c’era un locale di travestiti, Chez Maurice. Ora, porta a porta, è sorto un locale grande e pretenzioso: si chiama «L’Alibi», è un teatro per omosessuali che funzionerà anche come ristorante, e ristorante d’un certo tipo, perché il programma già annuncia «pott flambées». L’Alibi è bianco e blu, ornato di piante finte e di animali di maiolica, ha una pista da ballo e due bar, per ora vi agisce un attore napoletano di occhio dolce ma di istinto prepotente, che si chiama Alberto Tarallo e ha al suo fianco un altro attore che chiamano principe, forse perché il suo cognome è Caracciolo»1. Non più attore, ma non ancora ufficialmente agente e produttore cinematografico, Tarallo nel 1978 prende parte, come sceneggiatore e costumista, alla realizzazione di Suor Omicidi, un thriller firmato da Giulio Berruti. Prodotto da Enzo Gallo, noto alle cronache più che altro come consorte della mancata Miss Italia Mirca Viola, il film tenta di rilanciare, con esiti sotto tutti i punti di vista disastrosi, una decaduta Anita Ekberg. Tarallo, che nel variegato cast (Alida Valli, Joe Dallesandro, Lou Castel) infila persino l’amico Caracciolo in abiti talari, durante le riprese si prodiga altresì come cicisbeo dell’ex musa felliniana (che, non a caso, sarà presente in molte sue produzioni). I goderecci e rutilanti anni ’80 non trovano impreparato l’ormai ex attore, che si ricicla con grande abilità nel campo dell’editoria per adulti. Il temuto settimanale “OP”, sulle cui colonne era apparsa una dettagliatissima inchiesta sui ricchi, ma non sempre limpidi, affari dei boss della stampa pornoerotica (che, secondo taluni, sarebbero da identificare nei mandanti dell’omicidio del direttore di “OP” Mino Pecorelli), dedica a Tarallo poche ma sarcastiche righe: «A dirigere “Playboy”, edizione italiana, ci sono tre personaggi: Gigi Reggi (direttore), Roberto Rocchi (fotografo) e Alberto Tarallo, vero art director della rivista (che gli amici chiamano simpaticamente l’Alberta). ALBERTO TARALLO
In questo giro favoloso c’è anche Mauro Mariani, tra i più noti agenti cinematografici della capitale, caro amico del Tarallo. Mariani e Tarallo sono famosi anche per le loro esibizioni esilaranti da tabarin nelle stanze della redazione di “Playboy”»2. La nuova attività editoriale non impedisce a Tarallo di associarsi con l’amico Mariani e il costruttore Defendente Marniga (fratello di un senatore socialista, successivamente coinvolto in varie tangentopoli) per produrre Cicciabomba (1982, Umberto Lenzi), un musicarello realizzato per sfruttare la fama della cantante Donatella Rettore (guest star Anita Ekberg). La lavorazione del film conosce alti e bassi, soprattutto a causa dei continui litigi tra Tarallo e Marniga, ambedue impegnati a sostenere i loro rispettivi pupilli Dario Caporaso e Gena Gas (un trans napoletano che ha anche intrapreso, senza fortuna, la carriera canora). Abbandonate momentaneamente le velleità da produttore, Tarallo trasmigra alla corte di Adelina Tattilo (grande amica del potente leader socialista Bettino Craxi), la quale edita sia periodici erotici patinati come “Playmen” sia, utilizzando prestanome e società costituite ad hoc, riviste genuinamente pornografiche. L’ex gestore dell’Alibi si occupa, in particolare, del periodico “Gin Fizz”, croce e delizia degli adolescenti anni ‘80, e di servizi fotografici destinati alla capofila “Playmen” e ad altre testate minori. Sotto le mani di Tarallo passano foto osé di attricette di sicuro avvenire, ma non solo. In un àmbito immediatamente contiguo, l’agente cinematografico Pino Pellegrino, pornosceneggiatore per Aristide Massaccesi nonché amico e collaboratore di Tarallo, convince artiste sul viale del tramonto (Lilli Carati, Karin Schubert, Paola Senatore, Marisa Mell, Tina Aumont, Patty Pravo, Gloria Piedimonte) a esibirsi in ben retribuiti servizi fotografici erotici, quando non tout court pornografici, per “Le Ore” e “Men”. Pronubo sempre Pellegrino, la Carati e la Schubert debutteranno nel genere hard, dietro adeguato compenso, sotto l’egida della E.P.P. (società controllata dalla Tattilo e dal suo ex marito Saro Balsamo). Alla fine degli anni ’80, intuendo prima di altri l’inarrestabile declino dell’editoria a luci rosa e rosse, Tarallo ritorna al suo antico amore, il cinema, come agente e produttore. Socio di Giannandrea Pecorelli (nessuna parentela con il menzionato giornalista) e Gianluca Arcopinto nella cooperativa Immaginazione, contribuisce all’ideazione di una sequela di valide opere dirette, tra gli altri, da Franco Piavoli (Nostos: Il Ritorno, 1989) e Felice Farina (Condominio, 1991). Tramite l’Europe Film, e grazie a un sostanzioso contributo statale, Tarallo produce in proprio Cattive ragazze (1992), debutto dietro la macchina da presa della presenzialista (e all’epoca craxiana di ferro) Marina Ripa di Meana (ma, secondo testimonianze attendibili, il film è stato in realtà diretto da Tarallo e dal direttore della fotografia Sergio Rubini). La pellicola, che si rivela un flop memorabile malgrado il buon cast artistico e tecnico (non mancano, ovviamente, la Ekberg e, in veste di scenografo e costumista, l’amico Paolo Pazzaglia), attira l’interesse della magistratura per i finanziamenti statali ottenuti. Schivati i rigori della legge, Tarallo nel 1996 passa al servizio di Silvio Berlusconi (antico sodale di Craxi) come produttore televisivo. Oltre a lavorare per conto di società organiche all’impero televisivo berlusconiano, quali Video 3 e Mediatrade, il vulcanico uomo di spettacolo opera in prima persona, attraverso la Ares Film (amministratore unico Teodosio Losito, sceneggiatore di fiducia e compagno di Tarallo) e la Janus International, producendo per Canale 5 una nutrita serie di fiction di successo (Il bello delle donne, L’onore e il rispetto, Il sangue e la rosa, tanto per citarne solo alcune), tutte interpretate dalla sua scoperta Gabriel Garko. Nel 2012, la factory di Tarallo approda in Rai con la già citata Né con te né senza di te, una brutta fiction premiata da grandi ascolti. Ma la storia di Alberto Tarallo, uomo invero intelligente e spregiudicato, non finisce certo qui.
DAGONEWS il 25 settembre 2020. Fermi tutti! Dagospia può svelare che Alberto Tarallo ha diffidato diffida Mediaset e promette querele. Primo effetto: la D’Urso imbavagliata. Ieri Barbarie a Pomeriggio5 non ha più nominato l’Ares-Gate dopo che aveva annunciato sviluppi e indagini dei giornalisti di Videonews. Che succede ora? Endemol avrà già informato Adua Del Vesco e Massimiliano Morra della diffida? A Mediaset calerà il silenzio sulla “setta di Lucifero”? Stasera al GFVIP Alfonsina la Pazza sfiderà gli avvocati di Tarallo o si farà un nodo alla lingua dopo aver annunciato “sviluppi clamorosi”? Ormai fiction e realtà si fondono: benvenuti a “Il disonore e il dispetto”!
Giuseppe Candela per Dagospia il 25 settembre 2020. Come Dagoanticipato Alberto Tarallo ha diffidato Mediaset e promette querele. Il caso è l'ormai noto Ares-Gate. Esploso dopo le dichiarazioni, di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra che hanno descritto quell'ambiente, solo accennando nomi ma con riferimenti chiari, come una setta, pur non pronunciando mai questa parola. Un caso esploso con forza sui social che hanno commentato a Dagospia Giuliana De Sio, Nancy Brilli ed Eva Grimaldi. Non parole precise sui racconti dei due attori ma una presa di distanza, diretta o indiretta, dalla figura di Tarallo, più che da Losito, morto suicida a gennaio 2019. A loro si è aggiunto Francesco Testi che con spirito da equilibrista ha confermato l'esistenza di un contratto che vietava, per esempio, affetti stabili, una sorta di "isolamento" dal mondo. L'argomento sembra scottare come si nota dalle reazioni di Barbara D'Urso e Federica Panicucci a Pomeriggio 5 e Mattino 5. Frenate, misurate, senza nomi e cognomi, quasi intimorite. In un solo colpo l'Ares-Gate è scomparso dai contenitori del daytime. E così proviamo oggi ad aggiungere un nuovo tassello: i rapporti tra Ares, Mediaset e la famiglia Berlusconi. La società era nata dalle ceneri della Janus International e nel 2009 Mediaset ne aveva acquistato il 30%, con produzioni di grandi successo in onda su Canale 5. Società fallita quest'anno e scomparsa da circa tre dagli schermi del Biscione. Rapporti solidi, dicevamo, tanto che nel febbraio 2018 Dagospia aveva svelato la presenza nelle liste di Forza Italia, nella circoscrizione Lazio 2, di Patrizia Marrocco. Il nome non vi dice nulla? La Marrocco è tra i soci fondatori della Ares Film, per tre anni ha ricoperto anche il ruolo di amministratore delegato. Così nel 2018, quando la società aveva ormai perso potere e appeal, è stata eletta deputata. Lei che era stata la compagna di Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, leader del partito. Alla Ares ha lavorato anche Luna Berlusconi, figlia di Paolo, come responsabile casting della società. E nelle fiction hanno recitato volti stimati professionalmente da Silvio Berlusconi: da Sonia Grey a Elena Russo, da Camilla Ferranti oltre a Manuela Arcuri. Trova spazio per esempio anche Alessandra Barzaghi, figlia di Rosanna Mani, responsabile relazioni area spettacolo di Tv Sorrisi e Canzoni. E proprio Mediaset scoperchia un mondo che sta destando attenzione. Una casualità o una manovra ad hoc? Adua e Massimiliano avevano accennato prima del reality a questo malessere? Quando la Del Vesco ai provini ha parlato dell'anoressia ha svelato a Signorini e agli autori i motivi che l'hanno portata a tutto questo? Dopo il suicidio ("Istigazione al suicidio", ha detto la Del Vesco nella casa) dello sceneggiatore Teodosio Losito, compagno di Tarallo, quest'ultimo ha mollato la Ares. Che fine ha fatto? Su Youtube spunta un video che lo vede impegnato a Malta, si descrive affascinato dal posto. E le agenzie a inizio 2020 annunciano il suo coinvolgimento in una serie thriller con Dario Argento, coprodotto dalla casa di produzione maltese Talulah, di cui Tarallo fa parte. La storia continua...
Dall'articolo di Francesco Canino per ilfattoquotidiano.it il 24 settembre 2020. (…) Nel frattempo sul caso #AresGate, com’è stato ribattezzato sui social, è intervenuto anche il conduttore del GFVip, Alfonso Signorini, che nel corso della diretta Instagram del format Casa Chi, ha detto: “Sono cose che non si sanno. Adua e Massimiliano hanno avuto un confronto veritiero, molto diretto. Stanno praticamente scoprendo un sistema, che è poi un sistema collaudato, che porterà degli sviluppi direi clamorosi. Io di più per adesso non mi sento di dire, però certamente da quello che ho sentito ieri sera si preannuncia un nuovo caso mediatico davvero importante e, lasciatemi dire, per tanti aspetti inquietante”.(…)
Fabio Fabbretti per davidemaggio.it il 24 settembre 2020. L’AresGate, scoppiato nella casa del Grande Fratello Vip con le pesanti confessioni di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, si aggiorna di continuo. Questa volta, è una voce esterna al reality a confermare quanto rivelato dai due concorrenti. L’attore Lorenzo Crespi tuona contro un mondo marcio che coinvolgerebbe non solo la Ares e che avrebbe radici ben lontane, già dagli anni ‘80: “La storia di Adua è una storia triste, orrenda, vera, che inizia verso la fine degli anni 80 inizio anni 90, coinvolge tutti, trent’anni di Mediaset, fiction, spettacoli, uomini potentissimi, politici…” scrive l’attore in un post su Instagram. Parole pesanti, condite da un allarme; Crespi auspica che la Del Vesco – una volta fuori dal reality di Canale 5 – venga aiutata e soprattutto protetta perché colui che lei ha chiamato Lucifero (chi sarà?) lo conosce bene e sa di cosa sarebbe capace: “l’unica cosa che vi chiedo è gentilmente se iniziate ad indagare fate sì che questa ragazza quando esce dal GF VIP venga messa subito sotto protezione, perché potrebbe essere in pericolo, questo signor Lucifero ne ha fatte di tutti colori ma era coperto dalla solita famiglia… la sua produzione era una lavatrice“.
Dagospia il 24 settembre 2020. Francesco Testi su Instagram. Cerco di dare il mio punto di vista su una questione che ormai ha preso piede, per cui non posso esimermi dal farlo. È il mio punto di vista proprio perché fa riferimento alla mia esperienza personale. Avere un contratto con Ares Film aveva come conditio sine qua non quella di lasciare la vecchia agenzia e di tagliare i ponti con il proprio agente, questo perché la produzione aveva una propria agenzia di riferimento. Il paradigma su cui si fondava il progetto lavorativo era l’assoluta dedizione al lavoro e l’impossibilità di avere legami affettivi stabili (visti come potenziale distrazione dal progetto). Il tutto era perfettamente chiaro e diventava una scelta consapevole (nessuno mi ha mai puntato una pistola alla tempia). La vita però, si sa, è imprevedibile. Quando ho preso una “sbandata” per una donna, sono venuto meno al paradigma: ciò che prima non mi pesava, diventava improvvisamente un’imposizione. Ne sono scaturite forti divergenze di opinione e un diradamento costante dei rapporti personali con i produttori. Come avevo accettato consapevolmente di salire sulla nave, altrettanto consapevolmente ho deciso di abbandonarla nel 2015, prima ancora che andasse in onda “L’onore e il rispetto 4”, che è stato il mio ultimo lavoro con loro. Reda, la mia compagna, ha abbandonato la nave insieme a me ed ho la fortuna di averla accanto ancora oggi. Da allora non ho più visto né sentito nessuno, fatta eccezione per l’8 gennaio 2019, quando ho portato le mie condoglianze ad Alberto il giorno del funerale di Teo. Mi sono pentito di non essere riuscito a mantenere i rapporti personali e mi chiedo tutt’oggi se, nel caso lo avessi fatto, avrei potuto accorgermi di strani segnali e fare qualcosa per aiutarlo,. Resterà sempre un mio cruccio. In questi giorni ho sentito parole forti su questo tragico evento e non solo, parole che a mio avviso andrebbero approfondite in un contesto che di certo non può essere individuato in un palinsesto televisivo. In età adolescenziale ho sofferto di una grave forma di depressione e so bene quali effetti devastanti possa avere sulla mente di una persona. Per questo mi auguro che Adua superi questo momento e possa riuscire a stare bene.
Mattia Carzaniga per rollingstone.it il 25 settembre 2020. Non guardo il Grande Fratello dai tempi della sciarpona di Katia Pedrotti, figuriamoci adesso che siamo abituati allo streaming di ogni cosa e invece lui ancora ti costringe ai tempi e alle pause pubblicitarie della tv del Novecento (ma con la durata fluviale della tv degli anni duemila, dove i programmi di prima serata raccattano punticini di share perché vanno avanti fino alle tre del mattino). Non lo guarderò nemmeno ora che è scoppiato il caso Alberto Tarallo, e non ho guardato la puntata in cui il caso è scoppiato. Meglio: ho visto solo i fotogrammi incriminati in cui Adua Del Vesco e Massimiliano Morra (li avete scoperti solo ora? Molto male) facevano appunto esplodere il merdone, ma anche quelli erano inutili. (Questo è invece un problema dei giornali degli anni duemila: spacciano per “video choc” momenti del tutto irrilevanti.) In generale, non guardo la tv da anni, e non per pose del tipo “non ce l’ho” (anche se è vero: non ce l’ho), ma appunto per quel discorso di prima dei tempi che son cambiati, e della fruizione, e del medium, ma mi fermo subito, non siamo mica a una lezione di Scienze della comunicazione. Ho guardato però a tempo debito tutte le fiction e i film prodotti da Tarallo, cioè L’onore e il rispetto, Il peccato e la vergogna, Sangue caldo, So che ritornerai (uno dei miei preferiti, chi mi conosce lo sa), eccetera. Era una stagione di kitsch generalista oggi per forza di cose tramontata: nell’epoca corrente Gabriel Garko e Manuela Arcuri non avrebbero più senso, il kitsch è certificato prodotto d’autore, i critici che demolivano le produzioni di Tarallo danno cinque stellette alle serie di Ryan Murphy (su Ryan Murphy ci torneremo). Alberto Tarallo è oggi accusato dai vip-gieffini (o almeno i commentatori credono che essi si riferiscano a lui, quando parlano di tale “Lucifero”) non tanto d’essere l’Harvey Weinstein italiano, come molti giornali hanno scioccamente titolato, bensì il produttore che costringeva i suoi attori a nascondersi quand’erano gay, e li ricattava, inventava servizi patinati su affaire inesistenti, li teneva sotto scacco in cambio di soldi, fama, sceneggiati di successo: insomma, il produttore che faceva il produttore. Questo detto in estrema sintesi. La Ares Film, da lui guidata e definitivamente sbaraccata per bancarotta poco prima del lockdown, aveva il suo parco-celebs di riferimento (appunto Garko e Arcuri, e Del Vesco e Morra, e Sabrina Ferilli, Giuliana De Sio, Francesco Testi, Alessandra Martines, Valeria Milillo, Vincent Spano, Cosima Coppola, pure revenant come Anita Ekberg e Bo Derek), e soprattutto lo sceneggiatore (una volta la parola showrunner non si usava) che era il vero architetto di quelle magnifiche impalcature narrative: Teodosio Losito, ex modello e cantante per molti compagno dello stesso Tarallo, morto suicida un anno fa. Sarebbe una saga strabordante e straziante a sé, tanto che pure prima, negli anni d’oro della Ares Film, tutti si sono concentrati su Losito, imprendibile, misterioso, pochissime foto in giro se non nessuna, e nessuna intervista. Ma Tarallo era ancora più Salinger di lui, nemmeno una pagina Wikipedia ad attestarne trascorsi e percorsi, solo la vulgata del sottobosco romano, una specie di storia omerica, ma con Pamela Prati al posto di Calipso. Era stato – riportano le cronache dal generone – attore (quasi sempre en travesti) in film scollacciati anni settanta, e poi gestore di locali per omo costretti a vivere nel buio (uno con un nome bellissimo: L’Alibi), e simpatizzante craxiano, editore pornosoft, produttore di cinema geneticamente stracult (Cattive ragazze, primo e – purtroppo – unico film da regista di Marina Ripa di Meana: il sottobosco vuole che però a dirigerlo sia stato lo stesso Tarallo), fino all’onore e al rispetto guadagnati con L’onore e il rispetto (pardon), e tutti gli altri successi Mediaset. Il caso Tarallo andrà avanti, e io non guarderò nulla, non leggerò nulla, non seguirò nulla. Vorrei invece vedere una serie kitsch di Ryan Murphy su questa storia, come la sua Hollywood che politically-correttamente riscriveva la Golden Age. Ma questa sarà una fiction all’italiana, si chiamerà Quarticciolowood, che è il quartiere dove aveva sede la Ares Film, ci saranno anche qui agenti che costringono gli attori a non fare coming out (Cristopher Leoni – andate a googlare – al posto di Jim Parsons: va bene uguale?) e dive appassite che diventano registe di successo (vada per Ángela Molina, altra habituée). E finirà benissimo: una coppia d’attori gay fugge dal set ed entra nella casa del GF ovviamente Vippissimo, e vince insieme quell’edizione, e io – con la sciarpona di Katia Pedrotti al collo – sarò sul divano a dire che sì, è tutto bellissimo, va tutto benissimo, ma com’era bello il Novecento, quando non c’era nessun Lucifero, quando avevamo l’illusione che ogni peccato e ogni vergogna fossero veri.
Ida Di Grazia per leggo.it il 7 dicembre 2020. Gabriel Garko si confessa a Non è la d'Urso: «La storia con Manuela Arcuri era vera», lei reagisce così. Più di 10 anni fa i due attori hanno avuto una relazione durata 5-6 mesi. La Arcuri ha sempre detto di essere rimasta male non tanto per la fine della storia, ma di aver scoperto che dopo tutti questi anni era tutto finto. Ospiti a Live non è la D'Urso Manuela Arcuri e Gabriel Garko. I due hanno avuto una relazione più di 10 anni fa, la Arcuri era ignara dell'orientamento sessuale di Garko ed ha sempre pensato che la loro fosse una vera relazione. «Io continuavo a credere quello che lui mi ha fatto credere - spiega la Arcuri - ma la cosa più grave per me è che ha detto che le sue storie erano finte (con Adua ed Eva Grimaldi ndr.) e studiate a tavolino. Visto che nelle sue storie ero compresa anch’io, ho pensato lo ha fatto anche con me? Ho pensato di essere stata usata, però mentre le altre lo sapevano, erano complici, io no». Gabriel Garko ammette che la storia con la Arcuri era vera: «Io con lei non mi sono comportato in maniera falsa, poi mi sono reso conto dopo “dove vado?”, Io avevo una vera storia con lei, fine. Con il mio compagno è arrivato tutto dopo. Ero talmente nauseato che andavo sui giornali per le mie storie finte che ho sempre protetto quelle vere. A me lei piaceva tanto. Non me lo ricordo perché ci siamo lasciati. Avere una relazione quando sei sotto i riflettori non è semplice». Barbara D'Urso chiede a Garko se è vero che ha avuto il Covid e lui conferma tutto: «Sì, l'ho avuto. Me lo sono beccato. Ho passato dieci giorni in quarantena. Non sono stato malissimo. L'ho curato. Sinceramente in quel momento non l'ho detto perché c'è gente che ha sofferto veramente per questo motivo. Ora lo hai detto tu e lo confermo. So che ora sono immune, così mi hanno detto. Non so per quanto. Anche se sono tranquillo, metto sempre la mascherina. Non vedo l'ora di fare un falò di mascherine quando sarà tutto passato».
Grande Fratello Vip, Gabriel Garko: "Costrizioni di un agente?", gira una voce in casa sul coming out. Libero Quotidiano il 26 settembre 2020. Al Grande Fratello Vip è stata la serata di Gabriel Garko, che rivelando il “segreto di Pulcinella”, come lui stesso lo ha definito, si è finalmente liberato di un grosso peso. La mossa spacca-share di Alfonso Signorini assume un significato tutt’altro che banale non solo per il peso del personaggio che ha fatto coming out, ma anche perché è arrivata proprio nella settimana delle rivelazioni inquietanti che Adua Del Vesco e Massimiliano Morra hanno fatto su una certa casa di produzione. Quest’ultima accomunava i due concorrenti del GF Vip a Garko, che tra l’altro in passato era stato accreditato di una relazione con Adua: ieri sera l’attore ha svelato che tra l’altro c’è stata una favola, ma fatta solo di amicizia. “Secondo me lo avrebbe fatto anche prima, se solo avesse potuto”, è stata il commento di Stefania Orlando che, pur essendo all’oscuro di quello che i social hanno definito l’Ares Gate, ha sostanzialmente inquadrato la situazione descritta da Adua e Massimiliano e fuori dalla casa. “Magari potrebbe aver subito delle costrizioni di un agente - ha aggiunto la Orlando conversando con altri inquilini della casa - magari aveva una clausola di lavoro, una volta le mettevano”. Chissà che qualche risposta in merito non possa arrivare proprio dal diretto interessato, dato che Garko sarà ospite di Silvio Toffanin a Verissimo: l’appuntamento è per sabato 3 ottobre e di sicuro sarà da non perdere.
Grande Fratello Vip, Massimiliano Morra nominato dopo Adua Del Vesco: “Si sono messi d'accordo”, strana coincidenza. Libero Quotidiano il 26 settembre 2020. “Secondo me si sono messi d’accordo”. Antonella Elia ha avanzato un sospetto sulla nomination di Massimiliano Morra, che al Grande Fratello Vip rischia l’eliminazione dopo aver ricevuto ben sei degli otto voti disponibili. Secondo l’opinionista del reality di Canale 5 si tratterebbe di una strategia degli altri uomini della casa: “Morra è quello che cazzeggia di meno, che è più introverso”. E per questo sarebbe stato nominato in massa: la strana coincidenza notata da molti telespettatori del GF Vip è che oltre a Morra sia a rischio eliminazione anche Adua Del Vesco, che invece è stata nominata dalle concorrenti donne. Una coincidenza perché gli inquilini della casa non possono sapere lo scalpore mediatico che ha suscitato il cosiddetto Ares Gate, ovvero il caso nato per via di una chiacchierata tra Adua e Massimiliano che riguardava una casa di produzione che li aveva visti coinvolti lavorativamente assieme a Gabriel Garko. Comunque appare difficile che i due possano davvero uscire nel corso della puntata di lunedì prossimo: al televoto dovranno vedersela con Francesca Pepe e Fulvio Abbate, con quest’ultimo che è il principale indiziato a lasciare la casa.
Jonathan Zacconi per davidemaggio.it il 25 settembre 2020. Mediaset ha cancellato l’AresGate dai suoi programmi. Dopo la presunta diffida che vorrebbe impedire a Canale 5 e a tutte le sue trasmissioni di parlarne, la notizia è che Mediaset ha scelto di eliminare dal suo sito, MediasetPlay, i talk di Pomeriggio Cinque e Mattino Cinque in cui è stato affrontato l’argomento. A subire il primo taglio è stata la puntata di Pomeriggio Cinque in onda martedì. Grazie all’aiuto dell’orario in sovrimpressione nel programma si può notare come sia stato tagliato il talk sulle rivelazioni di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra all’interno della casa del Grande Fratello Vip. In un attimo si passa dalle 18:18 alle 18:25, saltando i 7 minuti “incriminati” (Barbara D’Urso dice: “Parliamo ora di un’altra cosa seria – e poi continua ‘dopo il salto’ - Tommaso Zorzi“). Stessa sorte per la puntata in onda mercoledì pomeriggio in cui sono stati tagliati 8 minuti di talk, passando dalle 18:14 alle 18:22. Anche la puntata di Mattino Cinque di mercoledì ha subito un taglio: il contenitore, condotto da Federica Panicucci, ha dedicato 4 minuti all’argomento, dalle 10:16 alle 10:20, che ora non sono più visibili (Lory Del Santo in quei minuti parlava di un’attrice scomparsa). I programmi Mediaset non hanno più accennato alla vicenda che vede coinvolta la Ares Film probabilmente dopo la diffida che avrebbe fatto Alberto Tarallo. Tutto questo timore sull’argomento non fa altro che accendere sempre più i riflettori sulla vicenda, quanto mai complicata, in attesa che la verità venga svelata e resa pubblica.
Dal profilo di Gabriel Garko:
Sono sicuro che sentirete delle cose che non vorreste sentire...
Sono sicuro che molta gente giudicherà...
Sono sicuro che tante persone non capiranno....
E sono sicuro che per me sarà dura, molto dura...
Ma l’unica cosa che posso promettervi e che da me avrete solo la verità...
La dichiarazione. Gabriel Garko sorprende tutti e fa coming out al Gf Vip: “Era il segreto di pulcinella”. Redazione su Il Riformista il 26 Settembre 2020. Lacrime, abbracci e grande sorpresa per la dichiarazione di Gabriel Garko al Grande Fratello Vip 5. Nel corso della quarta puntata del reality condotto da Alfonso Signorini, il celebre attore è entrato nella casa più spiata d’Italia lasciando tutti senza parole. Quest’anno, infatti, tra i partecipanti allo show c’è la sua ex fidanzata Adua Del Vesco, alla quale ha letto una lunga lettera davvero emozionante. Sebbene il contenuto non sia stato molto esplicito, Garko (il cui vero nome è Dario Oliviero) ha parlato di un “segreto di pulcinella” con chiaro riferimento ad un “coming out”. Da anni, infatti, si vociferava sulla probabile omosessualità dell’attore, ma da lui non era arrivata nessuna conferma. Una delle sue ultime interviste rilasciate a Mara Venier nel corso della trasmissione Domenica In, aveva destato molti sospetti e curiosità per il modo vago con cui Garko parlava della sua vita sentimentale. Il clamoroso momento è arrivato solo mesi dopo nella casa di Cinecittà, dove l’attore ha dichiarato di “aver ritrovato il bambino che era dentro”. Ma i motivi sarebbero ancora più profondi. Negli ultimi giorni Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, che in passato sono stati fidanzati, hanno svelato alcuni retroscena imbarazzanti e a tratti sconcertanti del loro percorso con la Ares film, la casa di produzione delle maggiori fiction di punta della Mediaset. I due si sono aperti a confidenze molto intime che avrebbero svelato un sistema equivalente ad una vera e propria setta, tanto da far scoppiare il caso dell’Ares Gate. Tra i personaggi coinvolti ci sarebbe anche Gabriel Garko, motivo per cui ha deciso di intervenire al Grande Fratello Vip non solo per dare la sua solidarietà ad Adua ma anche per svelare il suo “segreto di pulcinella”.
LA LETTERA – Non appena ha messo piede nello studio, Gabriel Garko ha subito tenuto a spiegare che la serata non era per nulla facile da affrontare: “Ho preparato una lettera molto lunga per Adua. Ci siamo visti un mese fa l’ultima volta. Siamo rimasti molto amici. Non penso di potermi permettere, nonostante il lavoro che faccio, di gestire determinate cose, per questo ho preferito scrivere una lettera. Ci sono momenti in cui ho vissuto e momenti in cui sono sopravvissuto. Ma tutto ciò mi ha reso molto forte”. Poche parole ma intense, prima di pronunciarne altre all’interno del giardino della casa. L’attore, visibilmente commosso, non è riuscito a trattenere le lacrime mentre leggeva la lettera alla Del Vesco: “Adua, Rosalinda, tu non mi hai mai chiamato Dario. Dario è un ragazzo che ho ucciso e che voglio riportare in vita. Lo so che alcune cose che sto per dirti saranno una sorpresa per te, non perché non le sapessi ma perché lo farò qui e ora. Noi due insieme abbiamo vissuto una bellissima favola, bella ma una favola. Nelle favole c’è chi le scrive e chi le interpreta e non so chi si diverte di più. Tu ti sei divertita? Neanche io. Ti voglio dire una cosa che ho fatto anche io. Devi prenderti cura della bambina che è dentro di te e capire in quale momento della vita l’hai persa. Io ho ritrovato il bambino dentro di me, il momento in cui l’ho abbandonato e gli ho fatto percorrere mano nella mano tutta la mia vita fino a oggi. Ti dico la verità. Io al bambino, i momenti brutti non glieli ho fatti vedere. Gli ho coperto gli occhi. Non farli vedere nemmeno tu alla tua bambina. Il mio bambino si è accorto che non ero felice. Ti ricordi quando a Sanremo ti ho detto che volevo fare di testa mia, lì ho iniziato a vivere, ho detto la mia vera età, ho ritrovato il bambino dentro di me. Da allora non sono più riuscito a indossare una maschera. Qui avete avuto una sirena, la sirena canta, ti ammalia e poi non ti lascia respirare più. Il mio bambino mi ha tolto la catena, lascia che anche la tua bambina la tolga a te. Abbiamo vissuto una bella favola e la vivrei mille volte. Ma era una favola. Ora però vorrei vivere la mia vita. Con te come amica. Esiste un’altra favola che ho vissuto da solo e che tanti chiamano il segreto di pulcinella. Vorrei poter dire perché è stato un segreto. La verità scavalcherà ogni segnale di omertà”. L’abbraccio tra Adua e Gabriel è scattato non appena l’attore ha terminato le ultime parole. Ma a rompere il silenzio ci ha pensato Signorini, che ha chiesto a Garko come mai non avesse parlato chiaramente di un coming out e se questo “segreto di pulcinella” sia quello che tutti hanno interpretato. L’attore si è affrettato a dire che “nel 2020 questa cosa non vada né capita, né discussa. Io vorrei dire perchè questo è un segreto. Esco da questa casa con il mio bambino per mano”. E che ne parlerà in maniera approfondita in altra sede, che con molta probabilità sarà lo studio di Verissimo il prossimo 3 ottobre.
Da "liberoquotidiano.it" il 10 ottobre 2020. Record di insulti in diretta tra Patrizia De Blanck e la marchesa Daniela Del Secco d'Aragona al Grande Fratello Vip. Le due nobili fumantine, tra cui non è mai corso buon sangue, sono state riunite da Alfonso Signorini nel giardino della casa di Cinecittà e sono volate contumelie. "Qua dentro tu mi hai solo infamata… Dovresti evitare di utilizzare un certo tipo di linguaggio…Sei una grande buffona…", ha esordito la Del Secco. "Io ti consiglierei di rimanere qua dentro il più possibile perché fuori si è scatenato l’inferno contro di te… Dalla D'Urso parlano della tua falsa nobiltà…", infierisce ancora la marchesa. "Non ti consento di toccare la mia famiglia…!", è la pronta reazione della De Blanck, che la Del Secco colpisce ancora sul vivo: "Il figlio adottivo di Marina Ripa di Meana ha detto che non ti lavi… A Roma vieni chiamata ciavattara… Dovresti cambiare galassia…". Patrizia ha chiuso la tensione con due sole parole: "Vaffanculo stronza".
Live-Non è la D'Urso, "a chi faceva i massaggi la Marchesa D'Aragona". Prego? La testimonianza lascia basiti. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 19 ottobre 2020. Angela Mellilo tira fuori un altro dettaglio sulla vita privata, e segreta, della Marchesa d’Aragona (all’anagrafe Daniela Del Secco). L’ex concorrente del Grande Fratello Vip avrebbe un passato, chiuso sotto chiave, da massaggiatrice ed estetista. Lo rivela a Live-Non è la D'Urso, il programma di Barbara D'Urso su Canale 5, la puntata è quella di domenica 18 ottobre. “Ero amica della Pampanini. La frequentavo e facevi i massaggi alla Pampanini”, racconta la Melillo. Ma la presunta marchesa si difende: “Incontravo la Pampanini al teatro dell’Opera, dove ho un palco di prima categoria”. Ennesimo indizio, dopo quello di Andrea Ripa di Meana che ha avuto uno scontro molto accesso con la d’Aragona. Lei si difende. Ma a cosa serve? I titoli nobiliari non valgono a nulla in Italia. Lo dice la Costituzione.
DAGOREPORT 18.10.2018: MARCHESA DE CHE? Chi è davvero Daniela del Secco d'Aragona? Dopo le sue fantastiche performance a "Pechino Express", mezza Italia è impazzita per "La Marchesa", che insieme al suo domestico Gregory affronta i perigli del sud-est asiatico davanti alle telecamere di Rai2. Cercando in rete, si trova un sito, marchesadaragona.it dove la stessa Dani si racconta, pubblicando un lungo curriculum che inizia con la sua iscrizione all'Albo dei Giornalisti della Lombardia, e finisce con le sue competenze in campo estetico, passando per un'avventurosa storia familiare. Sotto a una coroncina da marchese, c'è poi un bel tariffario con una "linea dermocosmetica" targata "Aragona", prodotti creati dalle sapienti mani della stessa Dani e venduti a cifre che arrivano alla sommetta di 650 euro. Se invece uno chiede a qualche vera nobildonna romana che conosce a menadito il Libro d'Oro della Nobiltà Italiana, scopre che la simpatica Dani non è affatto una marchesa con "duemila anni di storia familiare, discendente da Settimio Severo" o "della famiglia reale" (come ha detto a un povero albergatore vietnamita per convincerlo a ospitarla gratis). Daniela si chiama sì Del Secco, come risulta anche dall'elenco dell'Ordine dei giornalisti lombardi. Ma il "d'Aragona" se lo è aggiunto lei, sfruttando una somiglianza con una vera famiglia marchionale. Eh già, perché sull'Albo d'Oro si trovano i "Secco d'Aragona", stirpe milanese, ma nessuna Daniela risulta all'appello dell'edizione 2005 (o di quelle precedenti). Eppure, da qualche anno la mitica Marchesa impazza in tutte le feste romane, accompagnata dalla graziosa figlia Ludovica. I nobili romani sanno benissimo che lei si spaccia per aristocratica, ma finora avevano chiuso un occhio, un po' indignati, un po' divertiti. Ora che però la Marchesa si è lanciata in tv come rappresentante (di quel che rimane) della nobiltà italiana, gli aristocratici "quattro quarti" si sono inorriditi, anche perché Dani dà un'immagine, tra sedicenti maggiordomi e millantati autisti, ben lontana dallo stato reale dei baroni d'oggi, quasi tutti poveri in canna. Le frasi come "bisogna cambiare 5 abiti e 5 profumi al giorno", per quanto necessarie a costruire una caricatura televisiva, hanno fatto infuriare i blasonati. Tra le famiglie più infastidite, quelle che hanno ottenuto il cosiddetto "privilegio aragonese" che comprendeva la concessione sovrana di aggiungere il "d'Aragona" al proprio cognome. Proprio infuriati (soprattutto per le telefonate di persone che chiedono conto di parentele) coloro che discendono direttamente dal Re d'Aragona Giacomo I, come certi principi romani vivi, vegeti e senza alcun legame con la mitologica Dani. Ed ecco che qualcuno con buona memoria ricorda una rubrica di televendite "ante litteram" che "La Marchesa" conduceva su un'emittente privata laziale negli anni ‘90 in cui promuoveva le sue creme di bellezza esordendo semplicemente come "Sono Daniela Del Secco...". Negli ultimi anni si è infilata in tutti gli eventi della Capitale, all'inizio senza inviti, poi piano piano è riuscita a diventare (anche grazie alle foto di Cafonal, in cui appare senza sosta) un personaggio più vero di quello che voleva imitare, tanto da finire su "Uno Mattina" (via Franco Di Mare) e su varie riviste di gossip a fare da consulente di bon ton. Ha una pagina Facebook molto seguita, dove pubblica autoscatti, ritagli di giornale, fermo immagine da Rai1, inviti ad ambasciate (tra cui quella di Francia per la festa della Bastiglia: anche il buon ambasciatore Le Roy la chiama "Marchesa Dani del Secco d'Aragona"). Ha fatto amicizia con vari stilisti della Capitale, da cui si fa vestire gratis in cambio della promozione derivante dal suo apparire su siti e giornali. Addirittura, durante un ballo dedicato a Giuseppe Verdi a Palazzo Brancaccio, ha appeso sul suo vestito da sera delle miniature di croci di guerra della Seconda Guerra Mondiale, di quelle che i decorati indossano sullo smoking, una croce per i 25 anni di presenza nell'Esercito Italiano (cosa che le valse il soprannome "la marescialla" da alcuni ufficiali presenti) e una Gran Croce da Cavaliere (non da dama) dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Non solo si trattava di croci da uomo (che potevano essere appartenute a un avo o un marito), ma era anche un mix di miniature e croci di dimensioni standard, un pot-pourri che neanche gli uomini realmente decorati appendono al loro smoking. Insomma, una giornalista/estetista/pr di se stessa che dalle televendite e dai quotidiani di provincia si è trasformata in una "Marchesa" talmente sciroccata e sopra le righe da diventare più vera della fiction. Gli autori di "Pechino Express" l'hanno capito, e l'hanno trasformata nel personaggio stracult di questa stagione televisiva.
Aldo Grasso per "Il Corriere della Sera" il 18.10.2018. Non c'è che dire: il reality «Pechino Express» ha un suo perché. Sedici concorrenti, suddivisi in otto coppie, devono raggiungere Bangkok partendo da Hanoi, nel Vietnam (Rai2, lunedì e martedì, ore 21.05). Il format è semplice: per il lungo viaggio, ogni coppia ha a disposizione un budget di due euro al giorno. Gran parte del viaggio si svolge grazie a passaggi in autostop (ottenuti attraverso la lingua dei gesti), affidandosi allo spirito di ospitalità della popolazione locale per trovare un riparo per la notte e qualcosa da mangiare. Vince ogni tappa la coppia che arriva per prima al punto d'incontro stabilito, mentre gli ultimi sono a rischio eliminazione. L'edizione di quest'anno è condotta da un ex concorrente, Costantino della Gherardesca (molto meglio del principe Emanuele Filiberto). In cosa consiste l'interesse? Il gioco è scoperto: nella difficoltà, vengono fuori i caratteri delle persone. Non sanno remare e si arrabbiano. Non sanno pescare e si prendono a male parole. Non sanno adattarsi alle difficoltà del viaggio e si accapigliano tra di loro. Per esempio, il divertimento più grande lo sta procurando Corinne Cléry, in coppia con il suo fidanzatino Angelo Costabile (si può dire toy boy?). Corinne non è per nulla materna: maltratta il povero Angelo, lo prende a schiaffoni, lo comanda a bacchetta. Da seguire anche la coppia composta dalla marchesa Daniela Del Secco d'Aragona e dal suo maggiordomo Gregory (quando la marchesa viene derubata, Costantino la consola così: «Marchesa, a volte il popolo si rivolta!»). Le altre coppie sono composte da Massimo Ciavarro e dal figlio Paolo, da Massimiliano Rosolino e Alessandra Sensini, da Niccolò Centioni e Micol Olivieri e da altri gareggianti meno noti. I posti sono meravigliosi (Vietnam, Laos, Cambogia, Thailandia) e verranno percorsi in dieci puntate.
Goffredo Cazziatoni da Castel del Monte per Dagospia il 18 ottobre 2020. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, figuriamoci i blasoni! Ecco così, come per magia, il vero “albero genealogico” della nostra adorata Daniela Del Secco, che continua ad inveire e insultare nei salotti tv chiunque osi mettere in dubbio il suo inventato titolo nobiliare che le ha permesso di sbarcare in televisione. Vediamo se riesce ad insultare e smentire anche il signor Aldo Leonini, riservato ed elegante novantenne, ascianese di nascita, che sulla rivista locale “Cultura Contadina in Toscana”, giustamente fiero delle proprie origini, si impegna a raccontare da anni in qualità di memoria storica il proprio vissuto e le proprie conoscenze affinché non se ne perda la testimonianza. Leonini peraltro è cugino in primo grado di Primo Del Secco, padre della Daniela Del Secco, “Marchesa D’Aragona per identificazione personale”. Ecco alcuni stralci del Leonini relativi all’ascendenza della signora Daniela Del Secco: “Nel percorrere tale via mi è tornato alla mente che mio zio Brandisio Del Secco (nonno della “Marchesa” ndr.), grande lavoratore ascianese, la percorse per tanti anni poiché operaio agricolo (bracciante ndr.) a quella fattoria. Faceva una vita alquanto sacrificata perché partiva da Asciano il lunedì mattina presto con qualsiasi condizione atmosferica per essere presente sul lavoro alle otto e tornava a casa il sabato sera molto tardi. La domenica anziché riposarsi si recava nelle crete di Montepollini a zappare la terra per seminare un po’ di grano. Era molto attaccato alla famiglia composta da mia zia Gesuina (Gesuina Rossi ndr.), sorella di mia madre, e tre figli, Fiammetta, Primo e Ilva, che purtroppo non sono più tra noi. La paga che riceveva ovviamente non permetteva grandi agi e per questo cercava di procurarsi almeno il grano per l’intera annata”. “Non posso non ricordare quella casa che dava sulle fonti lavatoie. Già, al primo piano abitava la famiglia Pianigiani (Migliaccino) e al secondo la famiglia Del Secco, i miei zii ed i miei cugini. Primo si trasferì a Roma quale impiegato in un’azienda di trasporti, Fiammetta sposò Attilio Amidei, calzolaio, e Ilva fu moglie di Angiolino Equatori, barbiere. Non posso non ricordare il sacrificio di mio zio che lavorò una intera vita come operaio agricolo nella fattoria di Medane. Partiva con la bicicletta il lunedì mattina presto e tornava il sabato sera piuttosto tardi”. “Ricordo quando mia madre ci diceva di rivolgerci alla nostra zia Gesuina, (era sua sorella moglie di Brandisio Del Secco e madre di Fiammetta, Primo e Natalina miei carissimi cugini) che abitava in paese, per sentire quando era disposta a darle una mano per fare il bucato. Alla fonte di Casa Panie o della Fontasciano in occasione del bucato dovevano essere in due per torcere lenzuola e tovaglie dopo averle a lungo lavate”. “Dico ciò con orgoglio perché conoscevo la volontà di mio zio come conoscevo quella dei suoi tre figli, ovvero Fiammetta, Primo e Ilva, miei carissimi cugini”. Brandisio suonava l’organetto ed era famoso in paese per la sua polka e suo figlio Primo il sax. Tutto questo, ed altro ancora, è verificabile sulla pagina pubblica di Facebook “Asciano la Voce del Garbo” dove non mancano anche sfottò di Renata Amidei e Giacomo Equatori, cugini di Daniela Del Secco, relativi alle millantate dichiarazioni relative alle origini della loro famiglia, che non solo non sono nobili, ma neppure borghesi, semmai proletarie. Alla luce di quanto sopra ci sembra quindi più intellettualmente corretto dire, come ironicamente affermato in ambito privato da veri nobili romani e non solo, che la signora Daniela Del Secco, “Marchesa D’Aragona per identificazione personale” (onesto escamotage, legale nella Repubblica Italiana per usare qualcosa che sembra un titolo nobiliare ma che però non è” – Pier Felice degli Uberti ndr.), sia “Marchesa D’Aragona per insensata panzana”. Non sarà per caso che l’arguto espediente dell’identificazione personale sia propedeutico anche alla difesa del suo ideatore (dott. Pier Felice degli Uberti, nato Pier Felice Ubertis ndr. , in passato accusato di non essere un vero nobile ? (A tal proposito si veda Storie Italiane – Rai Uno – 5/12/2018 – “Sedicente principe del Montenegro: Io vittima di un complotto”). Chissà cosa ne pensa di tutta questa storia la simpatica sorella pentastellata Paola Del Secco molto attiva sui social, che risulterebbe vivere a Fiumicino...Ricapitolando “l’albero genealogico” della “Marchesa”: la famiglia Del Secco era di Asciano, di umilissima estrazione contadina. Il nonno di Daniela era Brandisio Del Secco, bracciante e fisarmonicista amatoriale che sposò Gesuina Rossi, donna di casa e lavandaia, entrambi di Asciano. Dal loro matrimonio nacque il padre della “Marchesa” Primo del Secco, che si trasferì prima a Siena poi a Roma per lavorare in un’azienda di trasporti. Primo avrebbe sposato Elena Proietti, nata a Subiaco nel 1915: dal loro matrimonio nascono Paola, Carla e la “marchesa” Daniela Del Secco.
Dagospia il 28 settembre 2020. Dal profilo Instagram di Giada de Blanck: In molti mi hanno chiesto perché in questi giorni non mi sono espressa su mia madre. Se sono stata in silenzio è solo perché questo GF Vip è il suo percorso e non il mio. Io ho deciso di fare un altro percorso, in cui la tv non è indispensabile. Non sono certo quella persona che si approfitta della situazione per fare la prezzemolina. Non l’ho mai fatto prima e non lo farò certamente adesso. Tuttavia mi rincresce dover rompere questo silenzio per prendere le distanze da tutta la montagna di invenzioni e infamie che in questi giorni sono state tirate fuori sulla mia famiglia. Non ho intenzione di partecipare a programmi televisivi per azzuffarmi con chi, a differenza mia, si approfitta della popolarità che mia madre sta avendo al Grande Fratello Vip evidentemente per scopi diversi da quelli che invece racconta. Mia madre avrà modo di smentire tutte queste notizie false e infamanti sui suoi genitori, i miei nonni e sui titoli nobiliari, che alcuni soggetti continuano a mettere in discussione gettando fango sulla mia famiglia. Sarà facoltà di mia mamma, la contessa Patrizia de Blanck y Menocal, una volta uscita dalla trasmissione, decidere se e come tutelarsi anche nelle sedi opportune. Io ho intrapreso un mio percorso, con un legale di fiducia che mi segue, a tutela della mia famiglia, una famiglia storica internazionale, e mi dissocio totalmente sia da chi va in tv a sparlare su di noi con un sacco di informazioni false, sia dai programmi che continuano a dar loro spazio. Sono serena perché a breve tutto sarà chiarito e chi sta sbagliando in maniera vergognosa dovrà chiederci scusa e assumersene la responsabilità. A volte basterebbe studiare un po’ di più e parlare di meno a vanvera. Giada Drommi de Blanck
Da liberoquotidiano.it il 26 settembre 2020. “Ma ormai sono diventati tutti froci”. La battuta a bassa voce di Patrizia De Blanck non è sfuggita agli attenti osservatori del live del Grande Fratello Vip, seguito più che mai per questa quinta edizione che è partita decisamente con il botto. Nell’ultima puntata c’è stato il coming out di Gabriel Garko, che ha deciso finalmente di svelare il “segreto di Pulcinella”, come lui stesso lo ha definito. La sua scelta di uscire allo scoperto proprio dalla casa del reality di Canale 5 non è casuale, dato che negli scorsi giorni era scoppiato il cosiddetto Ares Gate che lo riguardava da vicino, dato che a parlarne sono stati Adua Del Vesco (sua ex accreditata) e Massimiliano Morra, due con i quali condivideva un’agenzia collegata ad una casa di produzione nominata (non esplicitamente) al GF Vip. Ma torniamo alla De Blanck, che stavolta l'ha fatta fuori dal vaso: si è lasciata sfuggire una battuta di dubbio gusto, anche se forse il suo intento era quello di sdrammatizzare, dato che il momento con Garko e Adua è stato particolarmente toccante un po' per tutto.
"Sono diventati tutti fr...". Insulti contro Garko dopo il coming out. Dopo aver svelato il suo segreto con Adua Del Vesco, in diretta su Canale5, Gabriel Garko è stato preso in giro dagli altri concorrenti della Casa. Francesca Galici, Sabato 26/09/2020 su Il Giornale. Con una lettera scandita tra lacrime e sospiri, Gabriel Garko ha leggermente sollevato il velo di omertà che da anni copre la vita privata del sex symbol della fiction italiana. Al Grande Fratello Vip, l'attore e modello ha deciso di fare mezzo passo avanti e di svelarsi, ritrovando Dario, il bambino che per troppi anni ha tenuto nascosto e che ora ha la forza e il coraggio di mostrare. Ha fatto il primo passo al Grande Fratello Vip, davanti ad Adua Del Vesco, che fino a ieri è stata considerata la sua ex fidanzata, prima che lui apostrofasse la loro relazione come una "bellissima favola". Nel dopo puntata, ovviamente le parole di Garko sono state tra i principali argomenti di discussione all'interno della Casa e non sono mancati i commenti ineleganti, che hanno fatto chiacchierare i social. Tra le prime a esprimersi su quanto detto da Gabriel Garko durante la puntata, la contessa Patrizia De Blanck già durante la diretta ha detto che quanto fatto capire da Garko non è statat una novità, visto che nell'ambiente "sapevano tutti". Lo stesso attore, per giunta, lo ha definito "segreto di Pulcinella" nella sua lettera. Con il linguaggio politicamente scorretto che distingue il suo personaggio, e che l'ha portata nella Casa come personaggio di rottura, la contessa si è però fatta sfuggire una frase che gli attenti osservatori del Grande Fratello Vip sono riusciti a cogliere, anche se pronunciata a bassa voce: "Ma ormai sono diventati tutti fr...". Caustica e lapidaria come nel suo stile, dalla contessa De Blanck un'esternazione simile ce la si può anche aspettare, considerando il personaggio e i precedenti, anche se stavolta, per molti, ha superato eccessivamente il limite. Da chi non ci si aspetterebbe mai un commento fuori luogo sulle parole di Gabriel Garko è Tommaso Zorzi. Il giovane influencer conosce molto bene le tematiche che Gabriel Garko ha cercato esporre, seppur con imbarazzo e pudore. "Adua Del Vesco e Gabriel Garko... Chi dei due porta la gonna?", ha detto Zorzi dopo la puntata, facendo il verso ai lanci del momento "ascensore" di Live - Non è la d'Urso, camminando sui suoi eleganti tacchi alti arancioni. Parole che non sono piaciute ai social, che le hanno trovate sconsiderate e irrispettose. Una mancanza di rispetto nei confronti dell'uomo, ormai quasi cinquantenne, che dopo tanti anni è riuscito finalmente a levare una maschera, sia nei confronti di un professionista affermato che non merita di essere deriso da un giovanissimo concorrente.
Gabriel Garko fa coming out. Vladimir Luxuria: "Tanti attori costretti a fingersi etero". La rivelazione dell'attore nella casa del Grande Fratello Vip ha scatenato un'ondata d'urto sul web e sono molti i personaggi noti che hanno deciso di commentare pubblicamente l'outing di Garko. Novella Toloni, Sabato 26/09/2020 su Il Giornale. Emozioni forti al Grande Fratello Vip. Alfonso Signorini lo aveva annunciato e Gabriel Garko non ha tradito le aspettative. "Sentirete delle cose che non vorreste sentire. Per me sarà dura ma sarà la verità", e così è stato. Gabriel Garko è entrato nella casa del Gf Vip per rivelare quello che per anni è stato - come lo ha definito lui stesso - il "segreto di Pulcinella". Per annunciare al mondo la sua omosessualità ha scelto la sua ex, Adua Del Vesco, alla quale ha dedicato una toccate e rivelatrice lettera. Tra sospiri e lacrime i telespettatori hano assistito a una rivelazione ancora più potente di quanto ci si potesse immaginare. Senza mai dirlo chiaramente, tra le righe, Gabriel Garko ha fatto coming out e le sue parole in diretta televisiva, dopo anni di pettegolezzi e indiscrezioni, sono riecheggiate sul web come una bomba. Il popolo social si è scatenato e molti personaggi famosi hanno pubblicamente detto la loro su una situazione che tutti conoscevano ma sul quale tutti tacevano. A mettere nero su bianco quello che Garko ha detto tra le righe è stato Vladimir Luxuria attraverso un tweet: "Gabriel Garko fa coming out: quanti attori sono costretti ancora a fingersi etero perché il loro agente li vuole sex symbol per donne minacciando altrimenti di non farli più lavorare? Meglio recitare su un set che nella vita prendendo in giro gli altri e se stessi". Un'affermazione che promette di essere come il vaso di Pandora. L'attore ha promesso di parlare apertamente nell'intervista aVerissimo (in onda sabato 3 ottobre) ma nell'attesa l'attenzione mediatica e social è tutta sulle sue dichiarazioni. Gabriel Garko ha definito una favola finta la relazione con Adua Del Vesco. Un "tendenza a ingannare il pubblico" come l'ha definita Francesca Barra, che su Twitter ha applaudito il coraggio dell'attore: "Mi dispiace per Garko perché non deve essere stato facile soffocare la verità per tanto tempo e sono felice per la sua “liberazione”! Ma spero sia la fine di una tendenza a ingannare il pubblico, magari prendendo gettoni o soldi per servizi finti".
Daniela Secli per tv.fanpage.it il 26 settembre 2020. Gabriel Garko è stato ospite del Grande Fratello Vip 2020. L'attore ed ex fidanzato di Adua del Vesco ha presenziato alla quarta puntata del reality condotto da Alfonso Signorini, trasmessa venerdì 25 settembre. C'era grande attesa da parte degli spettatori per ascoltare le sue parole. In molti si sono chiesti se Garko sarebbe intervenuto solo per salutare la gieffina, per fare delle rivelazioni sulla sua vita lavorativa o privata oppure per dire la sua versione dei fatti circa alcune confidenze tra Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, in cui i due attori parlavano di una presunta limitazione della loro libertà che avrebbero subito in passato. Non appena è entrato in studio Garko ha spiegato: "Sarà una serata non facile. Ho preparato una lettera molto lunga per Adua. Ci siamo visti un mese fa l'ultima volta. Siamo rimasti molto amici. Non penso di potermi permettere, nonostante il lavoro che faccio, di gestire determinate cose per questo ho preferito scrivere una lettera. Ci sono momenti in cui ho vissuto e momenti in cui sono sopravvissuto. Ma tutto ciò mi ha reso molto forte". Qualche ora prima di entrare nella casa del Grande Fratello Vip 2020, Gabriel Garko ha pubblicato un post su Instagram. Sebbene non svelando la natura delle dichiarazioni che avrebbe rilasciato nella casa né gli argomenti che avrebbe trattato, l'attore ha assicurato che avrebbe detto tutta la verità: "Sono sicuro che sentirete delle cose che non vorreste sentire. Sono sicuro che molta gente giudicherà. Sono sicuro che tante persone non capiranno e sono sicuro che per me sarà dura, molto dura…Ma l’unica cosa che posso promettervi e che da me avrete solo la verità". In merito a questo post, Garko ha precisato: "Questo messaggio non è riferito solo a oggi e solo a stasera, sotto alcuni punti di vista non sarà possibile. L'ultima frase la voglio mantenere ma in futuro". Nel giardino, dove poco prima Adua Del Vesco aveva incontrato il suo fidanzato Giuliano, la gieffina ha incontrato Gabriel Garko. Lo ha ringraziato per essere stato accanto a lei nel momento più buio della sua vita. L'attore le ha fatto sapere di aver scritto una lettera e ha cominciato a leggerla con la voce tremante per l'emozione, fino a sciogliersi in lacrime: "Adua, Rosalinda, tu non mi hai mai chiamato Dario. Dario è un ragazzo che ho ucciso e che voglio riportare in vita. Lo so che alcune cose che sto per dirti saranno una sorpresa per te, non perché non le sapessi ma perché lo farò qui e ora. Noi due insieme abbiamo vissuto una bellissima favola, bella ma una favola. Nelle favole c'è chi le scrive e chi le interpreta e non so chi si diverte di più. Tu ti sei divertita? Neanche io. Ti voglio dire una cosa che ho fatto anche io. Devi prenderti cura della bambina che è dentro di te e capire in quale momento della vita l'hai persa. Io ho ritrovato il bambino dentro di me, il momento in cui l'ho abbandonato e gli ho fatto percorrere mano nella mano tutta la mia vita fino a oggi. Ti dico la verità. Io al bambino, i momenti brutti non glieli ho fatti vedere. Gli ho coperto gli occhi. Non farli vedere nemmeno tu alla tua bambina. Il mio bambino si è accorto che non ero felice. Ti ricordi quando a Sanremo ti ho detto che volevo fare di testa mia, lì ho iniziato a vivere, ho detto la mia vera età, ho ritrovato il bambino dentro di me. Da allora non sono più riuscito a indossare una maschera. Qui avete avuto una sirena, la sirena canta, ti ammalia e poi non ti lascia respirare più. Il mio bambino mi ha tolto la catena, lascia che anche la tua bambina la tolga a te. Abbiamo vissuto una bella favola e la vivrei mille volte. Ma era una favola. Ora però vorrei vivere la mia vita. Con te come amica, come è sempre stato. Esiste un'altra favola che ho vissuto da solo e che tanti chiamano il segreto di pulcinella. Il problema non è svelare il segreto perché ormai è il segreto di pulcinella. Ma vorrei avere la possibilità di svelare perché è stato un segreto. E ti dico l'ultima cosa. La verità scavalcherà ogni segnale di omertà". Adua Del Vesco e Gabriel Garko si sono abbracciati in lacrime. Signorini lo ha ringraziato: "Grazie perché credo non sia facile dopo tanti anni in cui tu hai costruito una favola di carta, che non aveva un riscontro nella tua vita e nella tua realtà. Ti sono grato. Non mi sono sentito di fermare quell'abbraccio per le distanze sociali. Voi avete vissuto una favola falsa, ma da oggi inizierete a vivere una favola vera". Garko ha concluso: "Da oggi Adua sarà nella mia vita in un altro modo e non ci perderemo più. Qual è il segreto? Devo spiegarlo a te Signorini? Credo che nel 2020 questa cosa non vada né capita, né discussa". Massimiliano Morra è intervenuto e si è complimentato con Garko per il suo coraggio. Patrizia De Blanck ha spiegato che in effetti nell'ambiente lo sapevano tutti. Il 3 ottobre, l'attore sarà ospite di Silvia Toffanin dove si racconterà.
Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 27 settembre 2020. Il suo bambino interiore non ce la faceva più a sopportare la menzogna, a vivere intrappolato in quel «segreto di Pulcinella», a simulare finte storie d'amore, favole. Adesso il suo bambino interiore è felice: la verità è stata detta ed è stata pure conveniente, 60mila euro per un coming out studiatissimo e a puntate. La prima si è consumata venerdì sera al Grande Fratello Vip di Alfonso Signorini, su Canale 5, che ha fatto il colpaccio: ha convinto Gabriel Garko a entrare nella casa per confessare il suo segreto all'ex fidanzata, Adua Del Vesco, concorrente del gioco. Senza mai dire la parola gay o omosessuale, Garko era un fascio di nervi, emozionatissimo perché stava finalmente per rivelare al mondo la verità. «Il problema non è svelare il segreto, perché è un segreto di Pulcinella, ma vorrei avere la possibilità di dire perché è stato un segreto». La sua sofferenza era palpabile. L'attore di tante fiction Mediaset ha letto una lettera davanti alla ex compagna in lacrime: «Ho ritrovato il bambino dentro di me, gli ho fatto ripercorrere tutta la mia vita fino ad oggi. Il mio bambino nonostante tutto si è accorto che non ero felice. Dopo anni mi sento libero, ho voglia di vivere la mia vita con te come amica. La verità scavalcherà ogni segnale di omertà». L'attore spiega quale è stato il momento di svolta: «Ti ricordi quando a Sanremo ti ho detto che volevo iniziare a vivere? Ecco l'ho fatto. Ho detto la mia vera età, ho iniziato a vivere. Oggi non riesco più a trovare una maschera che mi stia bene...». Garko, 48 anni, da tempo lontano dalle fiction e dai ruoli da sex symbol, forse ha pensato che questo è il momento giusto. Anche perché il compenso non era da buttare via: secondo Selvaggia Lucarelli, 30mila euro per il mezzo coming out. Mezzo perché la seconda parte, quella esplicita, arriverà presto sempre su Canale 5. Meglio dividere e capitalizzare. Quando Signorini, in diretta, lo incalza per scucirgli parole più chiare, Garko lo stoppa: «Lo devo spiegare proprio a te? Non mi sembra il luogo adatto». Infatti. Alfonso spiega subito che il luogo adatto sarà lo studio di Silvia Toffanin, Verissimo, esattamente il giorno 3 ottobre. Ovviamente non gratis: altri trentamila euro - pare - per raccontare che, dietro l'immagine dello sciupafemmine, Garko ha vissuto tutta una altra storia. La Toffanin spera che l'affare Garko sia più redditizio di quanto sia stato per il Grande Fratello Vip, che nonostante il colpo e l'attesa delle ore precedenti, non ha vinto la battaglia degli ascolti contro Raiuno e Tale e quale show. Un risultato che ha stupito non poco visto l'entusiasmo con cui, ad esempio su Twitter, è stato vissuto l'evento. Vip, persone comuni, amici di Gabriel erano incontenibili. Gabriele Rossi, l'attore indicato come «amico speciale» di Garko, con cui è stato paparazzato varie volte, ha pubblicato un'immagine criptica: un burattino a cui vengono tagliati i fili e tre parole: «pace, bene, amore». Molti ritengono che simboleggi la libertà conquistata da Garko. reazioni Eva Grimaldi, storica ex fidanzata dell'attore è felice: «Evviva la libertà». Vladimir Luxuria spiega cosa c'è dietro il clamoroso gesto: «Gabriel Garko fa coming out: quanti attori sono costretti ancora a fingersi etero perché il loro agente li vuole sex symbol per donne minacciando altrimenti di non farli più lavorare?». Signorini, dopo l'intervento di Garko, ha colto l'occasione per raccontare il suo coming out. Aveva 39 anni. «Una domenica a casa dai miei a pranzo c'era anche mia zia e come piatto una gallina bollita. Ho rotto silenzio: sono innamorato. Mia madre: "Faccela conoscere". Io: "È un uomo". Mio padre, vero saggio, smorzò i toni: "L'ho sempre saputo"».
Verissimo, Eva Grimaldi: "Mi disse subito che era gay. E a letto...". Esplosiva rivelazione sulla storia con Gabriel Garko. Libero Quotidiano il 18 ottobre 2020. Tutta la verità di Eva Grimaldi, a Verissimo di Silvia Toffanin su Canale 5. Nella puntata di 17 ottobre, infatti, l'attrice si è sbottonata sulla storia con Gabriel Garko, storia costruita a tavolino, si è scoperto dopo il coming-out dell'attore. Ma davvero i due hanno solo finto? Non proprio: "Lo ho amato subito, il mio amore. Noi ci siamo amati. Due persone non devono andare a letto per avere l’amore perfetto", ha spiegato la Grimaldi. E ancora: "Io ho accettato che lui fosse il mio fidanzato". Insomma, la storia era nata a tavolino, circostanza che la Grimaldi assicura essere stata molto comune nello spettacolo soprattutto nell'epoca pre-social, "si chiama star-system", ha spiegato. Storia costruita, dove però, ribadisce la Grimaldi, c'era del sentimento vero. Tanto che riferendosi alla vicenda di Adua Del Vesco, ha aggiunto: "C’è una differenza tra le storie di Adua e Gabriel, di Adua e Morra. Io con Gabriel ci vivevo, mangiavamo nello stesso piatto". La Grimaldi, comunque, aggiunge: "Ho saputo fin da subito che era gay, me lo disse". I due, oggi, sono rimasti grandi amici.
Eva Grimaldi, la rivelazione di Lele Mora: "Ha avuto una storia con me. Tanti rapporti completi..."Roberto Alessi su Libero Quotidiano il18 ottobre 2020. Ciak si gira. Manca pochissimo e tra poco partiranno le riprese di una nuova serie Netflix. Sarà una sorta di Biopic, come si chiamano ora le serie biografiche, dedicate alla vita di personaggi noti, importanti. Un po' come quelle sulla Regina Elisabetta, Pier Paolo Pasolini e Maradona. Ciascuno nel suo settore un big. A breve, nell'elenco dei "big" dei Biopic Netflix rientrerà pure Lele Mora, così almeno racconta lui. Simpatico o antipatico, corretto o non corretto, non importa, di certo un "numero uno" come agente dei Vip. «Avevo scritto un libro sulla mia vita», ci dice Mora, «era pronto per essere pubblicato, racconta tutti i miei quarant' anni di carriera come agente. La mia storia, ricca di colpi di scena, è diventata interessante anche per una casa di produzione come Netflix. Loro mi hanno chiamato per saperne in più. Mi hanno chiesto: "Possiamo leggerlo?". "No", ho risposto. Vi mando delle bobine in cui ascoltare una voce narrante che racconta tutti gli episodi, gli intrecci della mia vita». Alla fine Netflix cosa ha risposto? «Ha detto: "Compriamo noi il libro, che però non uscirà. Ne faremo una fiction"», dice Mora. Così ora si attende una serie, in cinque stagioni, da mandare in onda nel giro di cinque anni. Sarebbero in corso i casting. Ma l'attore protagonista, quello che interpreterà Lele Mora adulto, pare essere già scelto: sarebbe nientedimeno che Anthony Hopkins, Oscar nel '92 come psichiatra cannibale del «Silenzio degli innocenti». «Meraviglioso», commenta Mora, «sono molto amico di Anthony, l'ho portato io a casa di Roberto Cavalli quando fu fatto un film che lo riguardava su Firenze, c'erano pure Ridley Scott con la moglie Giannina Facio». E chi sarà Fabrizio Corona? Col fotografo dei Vip, Mora ha sempre avuto un rapporto molto forte. Comunque in pole position per il ruolo di Corona ci sarebbe Michele Morrone, sex symbol esploso col film erotico polacco «365 giorni», distribuito sempre da Netflix. Sogno? Realtà? Vedremo. Ci saranno molti riferimenti a famosi di oggi, compresa Eva Grimaldi, di cui ora si parla in quando finta-fidanzata di Gabriel Garko. «Eva e Garko si son voluti molto bene», ci dice Mora, «ma non hanno avuto un rapporto completo, Eva però ha avuto tanti rapporti completi con me. Abbiamo avuto una vera storia, magari non d'amore, ma siamo stati insieme per un annetto. Imma ha detto che non ne sapeva niente, ma è così». Imma è Imma Battaglia, ora moglie della Grimaldi, e storica attivista Lgbt. Ce n'è quindi per tutti.
Vittorio Sgarbi a Live-Non è la d'Urso, confessione inaspettata su Gabriel Garko: “Eva Grimaldi mi ha tradito per lui”. Libero Quotidiano il 28 settembre 2020. “Se ho un aneddoto su Gabriel Garko? Ne ho diversi”. Vittorio Sgarbi ha spiazzato Barbara d’Urso, facendo rivelazioni destinate a fare scalpore per quanto riguarda il coming out del noto attore. Al Live della domenica di Canale 5, Sgarbi ha raccontato di essere stato fidanzato con Eva Grimaldi: “Era la fine degli anni ’80, l’inizio di quelli ’90 e lei era innamorata di me finché non mi tradì con Garko. Io presi atto di questa cosa, ma mi infastidiva che lei venisse da me per parlare di lui”. Poi il critico d’arte ha spiegato di essersi irritato per il fatto che la Grimaldi preferisse uno più giovane a lui: “Allora un giorno andammo da Costanzo, Garko fece vedere un calendario in cui era nudo e io dissi che era un calendario per uomini. Lui reagì con una certa irritazione, forse gli avevo rivelato una cosa che all’epoca neanche a lui era chiara”. Insomma, con una buona dose di esagerazione Sgarbi ha dichiarato di aver intuito l’omosessualità dell’attore già all’epoca, ma alla d’Urso interessava un altro tipo di scoop: “Quindi sei stato tradito dalla Grimaldi per Garko?”.
Barbara d'Urso su Gabriel Garko e Eva Grimaldi: “Abitavamo nello stesso palazzo, c'era anche Tarallo”. Libero Quotidiano il 28 settembre 2020. Barbara d’Urso ha parlato del coming out di Gabriel Garko al Live di Canale 5. Il noto attore ha deciso che a 48 anni era arrivato il momento giusto per rivelare il “segreto di Pulcinella”, come lui stesso lo ha definito al Grande Fratello Vip. Conversando in studio con Vittorio Sgarbi, che circa 30 anni fa è stato fidanzato con Eva Grimaldi prima che questa lo lasciasse per Garko, è venuto fuori un aneddoto sul passato della d’Urso: “A quel tempo Eva, Gabriel e Alberto Tarallo abitavano nel mio stesso palazzo, ci incontravamo continuamente”. Quindi la conduttrice di Mediaset ha citato il nome che era emerso in relazione all’Ares Gate, ma senza fare alcun tipo di riferimento al caso scatenato da alcune conversazioni tra Adua Del Vesco e Massimiliano Morra al GF Vip.
Roberto Alessi, Direttore Novella 2000, per “Libero quotidiano” il 27 settembre 2020. Noi lo conoscevamo bene. Lui è Alberto Tarallo, il grande produttore, quello che ora indicano, a mio parere a sproposito, Lucifero, quello della setta (setta?) di Zagarolo, indicato così dai media dopo le confidenze tra Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, al Grande Fratello Vip e un tempo star della scuderia Tarallo, che ha prodotto le fiction più amate di Mediaset come "Il bello delle donne" e "Pupetta Maresca". Adua con Tarallo ha fatto sette fiction, Morra altrettante, entrambi non hanno lavorato per nessun altro produttore. E oggi al GfVip lo accusano e vanno giù pesanti. Sì, noi lo conoscevamo bene Tarallo, mi dicono in tanti senza problemi, e alla fine, anche se ne parlano con i dovuti "ma" e "sebbene", non ne parlano certo come del capo di una setta satanica: anche se tutto può essere, non dormivamo a casa sua. E "noi" sono il mitico ufficio stampa Enrico Lucherini, che ha lavorato per la casa di produzioni di Tarallo, la Ares. Donatella Rettore, mito della musica pop italiana, amica di Tarallo da 40 anni, lo considera «un fratellone anche se ci siano persi da tanto». L'attore Francesco Testi, che mi dice che ha chiuso con lui dal 2015 perché si opponeva al suo amore per l'attrice, da anni sua compagna, bella e per bene, Reda Lapaite. Il fotografo Marco Rossi, che mi confessa che non lo incontra da decenni per scelta, ma che gli riconosce di aver lavorato tanto e bene con lui. L'elenco continua con Giovanni Ciacci («È un orrore che tutti si scaglino ora contro di lui, quando in fondo senza di lui oggi non sarebbero nessuno») e la lista continua anche con un nome mitico come Virna Lisi, che ho intervistato prima che morisse: «Ho lavorato bene, ruoli che mi sono piaciuti e che mi hanno fatta crescere, perché nel mio lavoro si cresce sempre se si fa con la mia passione», mi diceva dopo aver interpretato "Caterina e le sue figlie" e "Baciamo le mani" della Ares, fiction entrambe scritte da Teo Losito, compagno di Tarallo, morto suicida nel 2015. L'elenco dei "noi lo conoscevamo bene" si conclude con il mio nome, Roberto Alessi. Sì, perché, pur non dovendogli niente (ho sempre fatto solo il giornalista) pure io l'ho conosciuto bene, tanti anni fa, ma all'inizio degli anni Novanta l'avevo perso. Poi l'ho rivisto chiamato da lui per una proposta che non si fece mai. Presi da lui anche qualche servizio fotografico proprio con Gabriel Garko (superstar della sua scuderia, ora super ospite al GfVip) e la Del Vesco, sempre "sua", pubblicati poi da Novella 2000 con la mediazione di Enrico Lucherini, che seguiva gli artisti della Ares. Alberto Tarallo era considerato un grande produttore di fiction come "La signora della città", tratto da un romanzo firmato da Silvana Giacobini, e "L'onore e il rispetto". Ora si lega il nome di Tarallo alla parola setta (scritto dai giornali), si dice Lucifero (detto da Massimiliano Morra al Gf). Si adombra l'idea che tutto questo portò al suicidio (scritto da più parti) per Losito, ragazzo geniale, un tempo cantante, andato anche a Sanremo, poi sceneggiatore di grande successo, che ha scelto di andarsene nel modo peggiore, nel gennaio del 2019, sconfitto dal male di vivere. Tarallo lo adorava, anche se era lontano da smancerie ostentate. Eppure Morra e Del Vesco insinuano che gli atteggiamenti di Tarallo, che lo ha amato per 19 anni, abbiano inciso. Morra e la Del Vesco, entrati nella casa del Grande Fratello Vip come nemici per la pelle (erano stati insieme, poi lui s' era dato e lei lo aveva umiliano al loro primo incontro dentro alla Casa), poi, a poche ore dall'odio e dalle lacrime, improvvisamente amici, e parlando davanti alle telecamere del loro passato, hanno descritto quel mostro del loro scopritore, Tarallo, appunto, vuotando il sacco. Con Tarallo erano diventate star in tanti. Era successo a Gabriel Garko, a Pamela Prati, scoperta quando faceva la commessa, a Tinì Cansino, che aveva una figlia da mantenere e lui ne ha fatto la stella di Drive In, a Eva Grimaldi che lavava i bicchieri in un bar, e lui ne fece una celebrità, pure lei fuggita dalla scuderia di Tarallo dove la carriera era messa prima di tutto. Setta? Lucifero? Istigazione al suicidio? «Un'assurdità», mi dice Lucherini, «Andavo spesso da loro, non vivevo da loro, certo, ma possibile che non mi sia accorto di nulla?». «Ma puoi immaginare? Tarallo alle prese con le messe nere? Me lo ricordo, era un fratellone, buono, affettuoso», mi dice la Rettore. «Mi ricordo che l'ho conosciuto proprio con lei a Verona, al Festivalbar. Lui era il suo truccatore... Da truccatore era passato ad agente di Dalila Di Lazzaro. Poi un giorno mi ha parlato di "La signora della città", dal libro di Silvana Giacobini, che diventò una fiction di successo. Aveva conosciuto Losito che divenne il suo compagno e lo sarebbe rimasto per 19 anni, fino al suicidio di Teo». Con Losito Alberto creò la Ares «Tutto ciò è una vergogna», mi dice Ciacci, che prima di diventare un personaggio popolare in tv, è stato costumista e stylist, che ha conosciuto tutto "il giro" di Tarallo. «Probabilmente sarà stato tremendo lavorare con lui, pretendeva da quei ragazzi e ragazze che trovava in giro, il massimo, proibendo loro di vivere come erano abituati, e tentava di trasformarli in attori professionisti». Eva Grimaldi per ora preferisce il silenzio, che per alcuni è un assenso. Ripeto, non lo sentivo più dall'inizio degli anni Novanta... Sarà cambiato, certo, ed eravamo ormai più che scollati, visto che non ha mai voluto parlare con me (l'ho chiamato e gli ho scritto) nemmeno del suicidio di Teo... ma è possibile che quello che mi sembrava un uomo perennemente impegnato, perfino triste, quotidianamente alle prese con diete sempre traditrici, che si era creato un suo gruppo di lavoro ristrettissimo, una sorta di famiglia in cui nessuno era ammesso, sia diventato una sorta di Lucifero a capo di una setta? Magari mi ricrederò, ma ricordo che ci vuole poco per distruggere un uomo, soprattutto se è stato magari anche ingiusto come capo, e che ora conta molto meno per attori che ancora professionisti sono solo sempre meno giovani promesse.
Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 26 settembre 2020. Penso che Gabriel Garko sia una brava persona e che abbia parecchie cose da risolvere, ma che la prima cosa da risolvere non sia dirci che è gay, perché lo sappiamo e non ce ne frega niente. Il fatto che sia convinto che per qualcuno la sua storia d’amore con Adua Del Vesco sia stata una favola è un problema, al limite, ma anche qui siamo nella sfera delle questioni laterali. Il problema è che Gabriel Garko ha quasi 50 anni e ieri sera ha dimostrato di non aver capito ancora nulla di come gestire la sua vita. Sembra avere il problema – ricorrente – di chi è stato manipolato per anni e quando torna “libero” trova nuovi manipolatori che sostituiscono i precedenti. Magari meno evidenti, ma più subdoli e altrettanto invischianti. Non so bene chi l’abbia convinto a mettere in piedi quel teatrino al Grande fratello ieri sera e non so chi l’abbia convinto a fissare la seconda puntata a Verissimo – sebbene lo sospetti fortemente e sono giri da cui le persone sane stanno alla larga – ma forse è il caso che quello che qualcuno ha definito come il “coraggioso”, “eroico” Garko capisca una volta per tutte che lui è ancora parte dello stesso sistema che vorrebbe denunciare. Se è vero quello che si è raccontato, ovvero che in questa agenzia Ares di cui lui faceva parte accadevano cose terribili al momento narrate con una certa vaghezza, è anche vero che al vaso di Pandora è stato immediatamente messo il coperchio da qualcuno che decide cosa va in onda nella tv che ospitava Garko ieri sera. Sembra infatti che lui avesse chiuso un accordo per parlare al Gf di quello che accadeva nella Ares ma che sia stato silenziato come Signorini, la D’Urso e tutti gli altri a Mediaset. Ora, chi decide a Mediaset non penso occorra specificarlo. Al massimo, bisogna capire quale personaggio della famiglia sia intervenuto. Di sicuro, chi ha fatto pressioni su Mediaset ha un suo peso specifico e Ares, del resto, come scriveva ieri Giuseppe Candela, era una partecipata Mediaset. Ma torniamo a Garko. Alla luce di questa premessa, la decisione di raccontare in un programma Mediaset il presunto sistema Ares faceva già abbastanza ridere. A Signorini, poi, che è uno dei principali volti Mediaset, che dirige il settimanale della famiglia Berlusconi, che vanta amicizia con i Berlusconi. Ares è esibita perché parte di un sistema, perché era una società di Mediaset, perché Mediaset mandava in onda quei prodotti per la maggior parte agghiaccianti, con quegli attori agghiaccianti e certe sceneggiature agghiaccianti. Dunque, se proprio Garko ci voleva raccontare la sua terribile verità, quello era già il posto sbagliato. E lo era ancor di più alla luce della censura subita. Avrebbe dovuto dire: “Mi censurate? Allora sto a casa”. Invece, ieri sera ha detto: “La verità scavalcherà ogni segnale di omertà” ed era nella tv che gli ha impedito di dire la verità. E ci è andato facendosi pagare da quell’editore e da quella tv. Perché sia chiaro, Garko avrà pure voglia di liberarsi, ma lo ha fatto, secondo le mie fonti, alla modica somma di 30mila euro al Gf e 30mila a Verissimo. Poteva dimostrarci di non voler più far parte di quell’ingranaggio e di avere uno slancio onesto, senza alcun ritorno, se non quello della verità. Dice poi che il suo coming out lo farà in un programma “più consono” e già l’appuntamento in tv per svelare il segreto di Pulcinella fa abbastanza pietà. Ma che il programma più consono sia quello della TOFFANIN, è ancora più esilarante. Poteva andare in Rai o la 7, gratis. Magari dopo aver fatto una denuncia dettagliata in questura. E invece, va da chi lo zittisce. Che poi, diciamolo. Non è che Garko abbia scoperchiato qualcosa. Néè lui, né nessun altro. Adua ha detto quelle cose al Gf davanti alle telecamere senza alcuna consapevolezza di quello che stava scatenando, un po’ come Scrat quando toglie la ghianda dal ghiaccio. Il pentolone si è scoperchiato per caso, Garko se ne è sempre stato ben zitto, nonostante abbia un’età in cui un po’ di coraggio si potrebbe cominciare ad averlo. E se ne è stato zitto – assieme a tutti quelli che ora balbettano mezze verità- anche quando si è suicidato il suo amatissimo sceneggiatore Teodosio Losito. Aggiungo una cosa che ieri sera è scivolata così, senza che nessuno ci facesse caso, ma che è un messaggio gravissimo: dopo aver lasciato intendere che lui e Adua sarebbero stati manipolati e convinti a recitare un ruolo, Garko ha detto, appunto, che per rivelare “il segreto di Pulcinella” (ovvero che è gay) il Gf non è un luogo consono. E Signorini col sorriso ha annuito. Ora, non so se ci rendiamo conto: dire “sono gay” richiederebbe chissà quale contesto rigoroso manco dovesse dire “ho rifondato le Br” (ribadisco, chi se ne frega se è gay o se gli piace vedere le allodole che fanno sesso sui rami), in compenso l’eventuale esistenza di un sistema che manipolava, occultava, provocava anoressia, disagi psichici e dipendenze psicologiche, era una cosetta da reality in prima serata? Ha detto che andrà a denunciare, Garko, quindi ritiene che siano stati commessi dei reati. In che modo questo tema sarebbe da Gf mentre il suo coming out da contesti sobri? Io davvero mi domando se questo quasi cinquantenne si renda conto di essere ancora una volta mal consigliato e mal indirizzato, e che sia ora di crescere, di smettere di vivere la sua vita come fosse una fiction e di tentare finalmente di raccontare qualcosa di vero, nella maniera più coerente, meno recitata e meno paracula possibile. Perché è chiaro che della verità nella sua sofferenza c’è, ma è altrettanto chiaro che sta scegliendo la strada sbagliata – ancora una volta- per raccontarla. Infine, voglio dire un’ultima cosa. Finché Ares continuava a produrre fiction, a creare attori mediocri dal nulla a cui le Virna Lisi e Stefania Sandrelli davano credibilità, il sistema in fondo è andato bene a tutti. Ed era un sistema che viziava i suoi attori, con assistenti personali, autisti, copertine, narrazioni da grandi star. Stuoli di personaggi di serie b si facevano plasmare come soldatini di terracotta, sbiancature dei denti, chirurgia plastica, zigomo appuntito, nasi piallati. Basta vedere i volti dei Garko, di Adua, dei Morra e di altri. Si facevano cambiare i nomi, si lasciavano convincere perché ambiziosi o perché manipolati o entrambe le cose, questo non lo so. Certo è che fino al 2015/2016 quando la Ares ha iniziato la corsa verso il fallimento, questo sistema di terribili manipolazioni era qualcosa di cui non ci si riusciva a liberare. Finite le macchine con gli autisti, tutti hanno avuto un improvviso slancio di libertà. Adesso, se per Garko ed altri è venuto davvero il momento dell’Onore e il rispetto, bisogna che Garko dimostri di essere altro, rispetto al sistema. Di voler denunciare non con la letterina retorica in tv e il bambino per mano che gli tiene la busta col cachet, ma con una denuncia articolata e cazzuta alle autorità competenti, con un racconto fatto non agli stessi che gli mettono il bavaglio e che hanno foraggiato Ares per anni, ma sui suoi social o a giornalisti seri, con una narrazione asciutta, senza spettacolarizzazioni e senza un nuovo codazzo intorno di gente che ancora una volta gli dice dove, come e a quanto vendere la sua pelle. Perché in fondo chi ti usa chiedendoti di fingere una storia d’amore, non è così diverso da chi ti usa per alzare lo share. Forse è ora che Garko torni a essere di Garko. E che ci dica cosa è successo, non di chi si innamora.
Giuseppe Candela per Dagospia il 28 settembre 2020. "Sono stata in silenzio perché volevo capire fino a che punto arrivasse questa follia. Non ho mai sentito in vita mia tante falsità come in questi giorni", Manuela Arcuri rompe il silenzio. Quotidiani, settimanali, programmi televisivi l'hanno inseguita. Cosa pensa e cosa ha da dire l'attrice simbolo della Ares Film sul Tarallo-Gate? Parla per la prima volta in esclusiva a Dagospia.
Si aspettava le confessioni di Adua Del Vesco e Massimiliano Morra al Grande Fratello Vip?
"Sta scherzando? Io non posso neanche pensare che le persone non abbiano riconoscenza nella vita. Essere riconoscenti è un dovere. È una questione di rispetto, quando una persona ti dà tanto non puoi voltargli le spalle così."
Le accuse sono precise, qualcuno arriva a parlare quasi di una setta.
"Una setta? Hanno detto cose pesantissime. Le ripeto, sono senza parole."
Si è mai trovata in situazioni imbarazzanti che l'hanno fatta sentire a disagio?
"Mai, mai, mai. Per quindici anni ho lavorato con Tarallo e non ho visto queste cose."
Aveva un contratto blindato che le poneva molti limiti?
"Assolutamente no, guardi io ho solo visto tanta generosità di Alberto Tarallo. Un grandissimo produttore che ha creato attori totalmente sconosciuti che venivano dal nulla. Li ha creati, formati, gli ha dato un nome e li ha fatti lavorare."
Se le dico Lucifero.
"Ma dai Lucifero, io sono allibita."
Anche a lei hanno chiesto di mentire sulla sua età?
"No, non mi è mai stato chiesto. Anche perché ci vuole poco a scoprire la vera età di una persona."
La sua vita privata è stata condizionata, le vietavano relazioni?
"No, assolutamente. Mai. Al massimo mi davano dei consigli, come può fare qualsiasi persona con cui lavori e cerca di proteggerti. Alberto è sempre stato un uomo molto protettivo, ti voleva aiutare sotto tutti questi aspetti. Non ha mai puntato una pistola alla tempia a nessuno."
Immagino lei sia stata spesso nella villa di Zagarolo.
"Ci sono stata tante volte, non dormivo lì ma a casa mia. Io non ho mai visto nulla di strano. Alberto è stato un grandissimo produttore, ha realizzato serie con ascolti record e grazie a Dio c'ero anch'io."
Come sono i vostri rapporti oggi?
"Sono una sua grande amica perché nella vita sono una donna riconoscente, anche se non lavoriamo più insieme perché non produce più. Questa bellissima collaborazione purtroppo è finita, perché le cose finiscono una mica può reagire così male?".
Il suo rapporto con Losito?
"Bellissimo. Giuro che ascoltare istigazione al suicidio (frase pronunciata dalla Del Vesco, ndr) mi infastidisce."
Ha mai avuto dubbi in merito?
"Quello tra Alberto e Teo era un grande amore, era un'unione totale nella vita e nel lavoro. Una fusione di due persone che portavano avanti il loro lavoro con amore. Teodosio per Alberto era intoccabile."
Brilli, De Sio, Grimaldi, Testi in qualche modo hanno preso le distanze.
"Non so come sono terminati i loro rapporti, alcuni sono andati via. Non tutti lavoravano con continuità."
Brilli e De Sio hanno però ammesso che si fingevano flirt.
"Io non ho mai finto un flirt e non mi è stato chiesto."
Neanche la relazione con Garko era finta?
"Ho avuto una relazione con Gabriel durata pochissimo ma era vera. Parliamo di tanti anni fa."
Al Grande Fratello Vip, dietro cachet, ha fatto coming out. Lo ha visto?
"Sono contenta che ora sia un uomo più felice. Sono contenta se si sente più libero, magari lo avesse fatto prima."
Adua ha sofferto di anoressia, molti altri di depressione.
"E la colpa è di Tarallo? Ma guarda un po' quindi è un mostro."
Magari non è successo a lei, può escludere che qualcosa sia successo ad altri?
"Io non vivevo lì, quello che è successo tra di loro lo sapranno solo loro. Posso però dire che Alberto non è come l'hanno descritto, ma quali pressioni psicologiche...".
Mi sembra molto provata.
"Si, è vero. Perché trovo assurdo quello che sta succedendo, non volevo parlare ma non posso più stare zitta."
Lorenzo Crespi dice che Adua andrebbe protetta perché in pericolo.
"Non parlo degli altri. Rischia la vita? Mi fa ridere."
Lei che ricordi ha di quegli anni?
"Lavorativamente parlando sono stati gli anni più belli della mia vita. Alberto Tarallo mi garantiva quasi due fiction l'anno da protagonista, di storie belle che mi hanno messo alla prova e mi hanno fatto crescere come attrice. Mi hanno insegnato tanto. È stato generoso, un grande cuore. Alberto si preoccupava di farti studiare l'inglese, a sue spese sue, di farti studiare recitazione, si metteva con te a leggere il copione. Teo, il perno della sua vita, scriveva ma lui produceva e gli attori li trattava come figli. Questo sarebbe Lucifero?".
Che rapporti aveva con Patrizia Marrocco e Luna Berlusconi?
"Patrizia stava in produzione, la incontravo quando andavo lì. Rapporti normali. Luna l'ho vista pochissimo, ha lavorato alla Ares per un breve periodo. Posso aggiungere una cosa."
Dica.
"Finché c'era il lavoro era tutto rose e fiori, c'erano i soldi. Crollato lui è facile voltargli le spalle."
C'erano relazioni tra gli attori e il produttore?
"Io non ero in quella casa, non posso escludere nulla. Dico che le persone in questione sono maggiorenni, libere di scegliere. Sono grandi, grossi e vaccinati. Le dico che in qualsiasi ambiente c'è qualcuno che fa delle avances".
A lei è capitato, non alla Ares, nella sua carriera?
"Produttori, registi. Certo, è la normalità. Sta a me mettere la persona al proprio posto. Se mi vuoi io lavoro altrimenti se vuoi una relazione io me ne vado a casa. Ognuno sceglie cosa fare, se uno accetta è consapevole. Non ci nascondiamo. E non mi piace chi prima accetta delle cose e dopo anni ci ripensa."
In questi giorni ha sentito Tarallo?
"Certo, io sto facendo questa intervista solo per lui. Difendo Alberto, non si fa così. Non si gioca con la vita delle persone. Mi sembra più di una gogna. Qui non parliamo di un matrimonio inventato, qua si gioca con la vita della gente. Parliamo di un grande produttore, di una tragedia che è successa un anno e mezzo fa, una cosa delicatissima. Al funerale di Teodosio c'erano tutti. Piangevano, capisce. Sembra un film."
Sembra una fiction Ares.
"Ho detto ad Alberto che questa è la fiction più assurda che abbia mai potuto girare, ha sorriso anche lui."
Fabiano Minacci per biccy.it il 28 settembre 2020. Adua Del Vesco nel 2016 ha scritto un post contro Manuela Arcuri, ma ora ci sono dei dubbi. Il vaso di Pandora sulla Ares Film è stato scoperchiato e nonostante Mediaset abbia deciso di non trattarlo, sul web l’argomento è ancora caldo. Il portale BlogTivvu ha infatti riesumato e portato online un vecchio post pubblicato da Adua Del Vesco su Instagram nel 2016 in cui, in modo piuttosto scurrile e volgare, ha offeso una sua collega senza mai nominarla. La destinataria del post, secondo la ricostruzione che ha fatto Selvaggia Lucarelli, è Manuela Arcuri: “Cara Collega, che ti nascondi dietro un profilo falso per gettare fango su di me e sull’uomo che amo, sei stata sgamata. Dopo decine di insulti, di menzogne schifose, di cattiverie, ho deciso di reagire: ho dato mandato agli avvocati di procedere legalmente nei tuoi confronti. So che stai attraversando un periodo buio: dopo le tue ultime apparizioni televisive, la tua carriera è alla frutta. Eri penosa, grassa e cellulitica. Strano. Il tuo BOY-FRIEND non è un PERSONAL TRAINER? Magari nella sua professione non vale niente, proprio come te! Cara collega, uscita dal giro fortunato delle FICTION, non ti rimangono che i REALITY per sfruttare quel briciolo di popolarità che ti è rimasto. Hai superato i trenta già da un po’, la gelosia ti divora perché a parte ‘L’isola dei morti di fama’ non ricevi altre proposte. Il consiglio che ti do: cerca la tua felicità altrove, non invidiare quella degli altri! Un’ultima cosa: hai trovato un rimedio per il tuo alito puzzolente? Trovalo, altrimenti continueranno a chiamarti bocca di merda. A presto in tribunale, Adua”. Un post che, alla luce di quanto visto al Grande Fratello Vip, sembrerebbe essere molto distante dal linguaggio e dal carattere di Adua Del Vesco. All’epoca Selvaggia Lucarelli ha commentato così: La nuova fidanzata (ahahahah) di Garko, l’attrice Adua Del Vesco, ha scritto un post su instagram di quelli indimenticabili. La destinataria è palesemente la Arcuri, che apprendiamo essere grassa, vecchia, cellulitica e pure col fiato di un grizzly. Amo queste diatribe di alto livello, specie quando un’attrice ventunenne che si dichiara “fidanzata di Garko” accusa un’altra collega di essere falsa. Una battaglia per la verità commovente. Oggi il post firmato Adua Del Vesco contro Manuela Arcuri è tornato online e Selvaggia – a posteriori – ha così commentato: “Chissà se qualcuno la obbligava a scrivere anche questo…” Ed il dubbio, effettivamente, c’è. Il profilo Instagram di Adua Del Vesco ora si chiama semplicemente così, ma fino ad aprile il nickname è stato quello del post sull’Arcuri.
Roberta Dalmata per ilgiornale.it il 28 settembre 2020. A Live Non è la d’Urso, viene mostrato il video in cui Gabriel Garko chiese la mano di Adua Del Vesco attuale concorrente del Grande Fratello Vip. La cosa avvenne durante una delle trasmissioni di Piero Chiambretti che organizzò la cosa per gioco durante un’intervista ad Adua coinvolgendo quello che allora tutti pensavano fosse il suo fidanzato. “Alla luce di quello che è successo ora, la storia assume tutto un altro significato”, racconta Barbara ricordando anche l’intervista all’attore fatta scorso anno, “Quando già c’era nell’aria un cambiamento in lui, cosa su cui io ovviamente non ho indagato, ma lui già stava facendo il percorso che poi lo ha portato a prendere la decisione durante la puntata del Grande Fratello Vip a fare coming out”. Una rivelazione che ha commosso molti telespettatori, anche se la notizia della sua omosessualità, come lui stesso ha detto chiamandolo “il segreto di Pulcinella” circolava negli ambienti del mondo dello spettacolo ormai da anni. Proprio su questa cosa è Vittorio Sgarbi, presente in studio, a raccontare un particolare inedito di molti anni prima. Sgarbi, dando un’ulteriore “notizia choc”, rivela di essere stato fidanzato con Eva Grimaldi. Ma che questa, una volta conosciuto Gabriel Garko, se ne invaghì tanto da lasciare il critico d’arte per correre nelle braccia del bellissimo attore. “La cosa - racconta - mi ferì moltissimo, perché lei mi aveva preferito ad un uomo più giovane e più bello di me”. Poco tempo dopo, Sgarbi e Garko si incontrarono sul palco del Maurizio Costanzo Show, dove Gabriel era andato a presentare un suo sexy calendario. “Quando lo vidi, dissi subito che era un calendario fatto più per gli uomini che per le donne. Lui aveva un corpo statuario, plastico era proprio una cosa lampante. La cosa che mi stupì però fu la reazione di Garko che forse in quel momento non sapeva o non era ancora pronto e questa mia dichiarazione lo infastidì molto”, dice il critico d'arte. Intanto all’interno della casa del Grande Fratello, Adua del Vesco, quella che per anni è stata la finta fidanzata di Garko, dopo il coming out dell’attore ha in qualche modo “subito” una serie di domande da parte di tutti gli abitanti della Casa curiosi di sapere i retroscena di quello che è successo. Ma lei, ogni volta che l’argomento viene preso cerca di tagliare corto creando anche il disappunto di molti come ad esempio Fulvio Abate che al suo tagliar corto ha abbandonato la discussione alzandosi e andandosene.
Lettera di Ursula Andress a Dagospia il 28 settembre 2020. Da tempo non rilascio interviste e non mi espongo pubblicamente ma questa volta sento che devo parlare. Voglio parlare di un amico, un gentiluomo. Conosco da molti anni il signor Alberto Tarallo e conoscevo anche il suo compagno di una vita, Teodosio Losito: una coppia esemplare. Ho frequentato assiduamente la loro casa. La prassi era una buona cena e poi tutti insieme a guardare un film. Durante quelle serate ho avuto modo di conoscere anche Morra e la Del Vesco che, insieme ad altri, mi sembravano completamente a loro agio in quella situazione. Trovo ripugnante che pensando di restare sulla cresta dell'onda, certi personaggi inventino storie assurde come quelle di una setta dedita a Lucifero e altro ancora. E' ignobile che certe trasmissioni possano infangare la reputazione di una persona come Tarallo solo per ragioni di audience, ma sono sicura, anzi so per certo, che i fatti gli daranno ragione.
Da "blitzquotidiano.it" il 28 settembre 2020. Franceska Pepe ha svelato alcuni particolari del suo flirt con Vittorio Sgarbi ai coinquilini del Grande Fratello Vip, sottolineando che fra loro non c’era stato in realtà nulla. “Eravamo a Sanremo ad una mostra… A quel punto una giornalista gli ha chiesto “che bella, ma è la tua fidanzata?” e Sgarbi ha risposto “vorrei che lo fosse, comunque sì è la mia fidanzata”. “E’ stata una cosa montata ad hoc, un servizio di gossip come tanti altri – ha ribadito la modella -. Io non so neanche come si sia creato tutto questo. Era una battuta”. Ospite a Live Non è la D’Urso, Sgarbi ha però dato un’altra versione dei fatti: “Nulla di organizzato a tavolino. Venne verso di me una donna molto bella e fu totalmente libera nell’amarmi. Mi nascosi dietro un angolo con lei e la cosa diventò una parentesi affettuosa che durò fino alle sette del mattino”. “Io le chiesi di venire a dormire da me ma lei disse di no. Finì tutto lì, la incontrai nuovamente su un aereo tempo dopo, ma non ci fu nulla” ha continuato Sgarbi. “Era un’intimità così stretta che sembrava un fidanzamento – ha aggiunto il critico -. Poi ci ha incontrato una giornalista e le abbiamo detto che eravamo fidanzati. Un colpo di fulmine non legato alla mia notorietà. Lei poi mi chiese di far rimuovere quell’articolo che parlava di noi, ma alla fine le è servito per entrare al Grande Fratello…”.
Roberto D’Agostino per VanityFair.it il 30 settembre 2020. "In virtù di quell'istinto depravato che ci fa talvolta mettere il naso sotto le coperte per sentire l'odore di un peto" (Gustave Flaubert), l’Italia social-televisiva non si è persa la puntata del “Grande Fratello” dove due Vip (per mancanza di prove), Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, si sono lasciati andare a dei racconti shock sui loro esordi in cui entrambi sono stati ‘’soggiogati’’ da una persona cattiva (“Lucifero in persona” dice Morra) che li ha convinti a staccarsi da ogni tipo di affetto, motivo per il quale i due poverini hanno dovuto affrontare poi un percorso di psicanalisi, zen e teologia. Morra ha proseguito: “Tu non hai idea della cattiveria di quella persona“. E la Del Vesco replica: “Io ce l’ho idea perché l’ho vissuta sulla mia pelle, ma tante cose forse il mio cervello manco ci arriva… Per questo io mi incazzo, perché vorrei… io vorrei giustizia, vorrei giustizia“. Il “Lucifero” dietro tali sibilline confessioni si chiama Alberto Tarallo, a partire dalla seconda metà degli anni ’90 uno dei più famosi manager e produttori di fiction televisive ("Il bello delle donne’’, "L’onore e il rispetto’’, "Il sangue e la rosa’’, tanto per citarne solo alcune), tutte interpretate (con una sola espressione) dalla sua scoperta e amante Gabriel Garko. Grande seguace dello star-system di Hollywood, dove i Rock Hudson e le Greta Garbo nascondevano nell’armadio la loro omosessualità e convolavano a nozze e la lesbica Katherine Hepburn e il gay Spencer Tracy facevano coppietta felice, Tarallo si inventò la mascolinità di Garko facendolo accoppiare (nei servizi fotografici per rotocalchi familiari) prima con Eva Grimaldi, poi con Manuela Arcuri, infine con Adua Del Vesco. Naturalmente tutti personaggi che facevano parte della sua casa di produzione Ares Film, che oggi Adua liquida come “setta”. La verità è un’altra, molto più amara: il cosiddetto “Lucifero” aveva la fila di fanciulle e bonazzi davanti alla porta di Ares Film, tutti affamati come lupi della steppa di acchiappare una comparsata, di apparire in un articolo, di farsi fotografare con le tette all’aria, divorati dalla libidine di diventare famosi. Una Babilonia di scosciate stelline e di tartarugati stalloni che, davanti alle inventive ‘’sceneggiature’’ dell’Alberta (come veniva chiamato nello show-biz Tarallo) non ha mai innalzato nessuna resistenza morale, pronti a tutto pur di scardinare la porta del successo. Se qualche anima pia osservava che non si può recitare con una semi-paresi facciale, o ballare con il girello o cantare con effetto lavabo ingorgato, rispondevano: “Esticazzi! Se ce l'ha fatta lei, ce la farò anch'io!". Così, per ben tre anni la signorina sicula Adua Del Vesco, che oggi frigna di “setta”, era ben consapevole e strafelice di “recitare” il ruolo della ‘’fidanzata felice’’ del gay Gabriel Garko. Ma salvo rare eccezioni, il termine celebrità ha sempre più la durata del chewing-gum. Quando poi svanisce il sapore zuccherino, la gente lo sputa. Avanti un altro. Fallita un anno fa la società Ares Film di Tarallo, suicidatosi il suo socio e grande sceneggiatore Teo Losito, la scuderia dei Garko, Morra, Adue etc. è sparita in un cono d’ombra, come in un dopoguerra. Certo che è dura, durissima, dopo salamelecchi e aggettivi lecca-lecca, dopo fiumi di inchiostro versati, dopo infuocati entusiasmi, diventare una gallina lessa, sbattuta in un "carrello di bolliti misti", tra pollastrelle del varietà, showgirl-cotechino, soubrette che dalla zampata sono passati allo zampone di Modena. E oggi, ripescati dal luciferino Signorini, questi “celebro-lesi” balbuzienti sputano sul piatto dove hanno mangiato a quattro ganasce solo grazie al talento da Zanuck della mutua dell’Alberta, con Garko con il cappello in mano a racimolare l’ultimo sostanzioso cachet televisivo confessando che la storia con Adua era solo “una favola”. Tarallo torna, tutto è perdonato.
Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 30 settembre 2020. Francesco Testi ha lavorato con Alberto Tarallo e la Ares Film dal 2010 fino al 2015, recitando in alcune fiction di successo quali “Caterina e le sue figlie”, “Il peccato e la vergogna”, “L’onore e il rispetto 3”, “Furore”. Era destinato, secondo molti, a diventare l’erede di Gabriel Garko e ha avuto il suo momento di notorietà, poi qualcosa è andato storto. Eppure, nonostante la frattura con Tarallo ci sia stata e con qualche rancore, accetta di rispondere alle domande sul ciclone che ha travolto il suo ex agente con un certo distacco, un italiano invidiabile e senza giudizi emotivi.
Cosa c’è di vero in quello che Adua ha detto nella casa del Grande Fratello Vip e che Garko ha lasciato intendere?
«Premetto una cosa: parlo della mia esperienza, quindi quello che vale per me può non essere stato lo stesso per tutti: quasi niente».
Allora partiamo dall’inizio: tu quando sei arrivato in Ares?
«Intanto precisiamo: la Ares era una casa di produzione, poi c’era la “Numero chiuso Agency”, che ne era una sorta di costola, un’agenzia che metteva sotto contratto gli attori che recitavano nelle produzioni Ares. Io sono arrivato nel 2010».
Adua e Morra mi dicono vivessero in una dependance nella villa di Tarallo a Zagarolo, tu?
«Mi sono trasferito da Roma a Zagarolo per risparmiare sull’affitto e stare lì dove c’era la gente con cui lavoravo, ma ho affittato una mia casa e stavo per i fatti miei. Un paio di anni sono stato nella ex casa di Eva Grimaldi, che è di fianco alla villa di Tarallo. Poi mi sono comprato casa a Zagarolo».
Ma vi trasferivate tutti a Zagarolo? Descritta così, questa cittadina sembra una specie di Neverland, di parco giochi di Tarallo.
«Garko viveva lì, in una villa. Anche Ursula Andress, Rossella Falk, Angelo Frontoni. E so che la Arcuri lì aveva comprato un terreno…»
Era davvero una setta?
«Solo a sentire la parola mi viene da ridere, è una cosa ridicola».
E allora perché Adua lo ha detto e Garko ha lasciato intendere che ci fosse una forte manipolazione psicologica, ha parlato della loro storia finta come di una violenza imposta?
«Credo che la ragione vada ricercata nella loro testa. Negli anni in cui io sono stato lì a me è stato chiesto di inscenare solo una cosa, e cioè la finta scazzotatta con Morra per gelosia, cosa di cui mi vergognavo pure».
Chi l’aveva ideata?
«Lucherini, che era l’ufficio stampa di Ares Film e, come risaputo, un amante del cinema di una volta, delle paparazzate, delle storie create a tavolino. Mi sono turato il naso e l’ho fatto, ma nulla di così terribile. Era un po’ una vecchia roba alla Rock Hudson. Tarallo e Lucherini hanno sempre avuto quel riferimento lì delle produzioni americane, nella gestione degli attori e delle loro vite».
A te nessuno diceva come gestire la tua vita?
«Non ho mai subito pressioni e con me non c’era bisogno di mettere in piedi delle recite, non ne avevo bisogno. Forse, e dico forse, ha fatto comodo anche a Garko fingere di essere altro, perché ora siamo nel 2020 e ragioniamo da progressisti, che uno sia etero o gay non ce ne frega nulla. Quindici anni fa un attore bellissimo come lui, amato dalle donne, forse raccontando tutto non avrebbe avuto la stessa carriera. Forse è stata una scelta condivisa e una tutela della sua professione».
Però qualcosa deve esser successo, se Adua è diventata anoressica, no?
«Le lacrime non possono essere finte. Sarebbe interessante parlarle, perché , che io sappia, è l’unica ad aver avuto problemi così gravi, quindi qualcosa nella sua testa è scattato sicuramente. Il punto è anche capire da dove arrivava, cosa c’era a monte. Il suo percorso io non l’ho vissuto perché lei è entrata lì quando io stavo andando via. Così come del suicidio di Losito non posso dire nulla perché non lo vedevo dal 2015».
Perché Morra non ha detto ad Adua: “cosa stai dicendo? Quale Lucifero?"
«Penso che Massimiliano Morra possa avere dei semplici rancori nei confronti di Alberto Tarallo, tutto qui, ma se è per questo li ho anche io».
Perché?
«Ho cominciato ad avere problemi lì quando sono venuto meno alla regola che potevi scoparti chi volevi ma non dovevi avere relazioni fisse perché distraggono dal lavoro. Una cosa che può essere moralmente contestabile, ma a me all’inizio non ha pesato più di tanto».
In che senso?
«Perché all’inizio era quello che volevo anche io, mille donne ma mai una storia seria, quindi non l’ho mai sentita come un’imposizione. Questo finché non mi sono innamorato di Reda, la mia fidanzata. Lì è nato il problema. Il rancore ce l’ho perché, dopo che ho fatto il protagonista del primo “Furore”, non mi avrebbero proposto di fare la seguente stagione morendo la prima puntata, se non mi fossi fidanzato seriamente».
Be’, non è bello.
«Sì, d’accordo, infatti posso avere del rancore, ma non butto merda addosso perché in quel piatto io ho mangiato.
Ok, però un’agenzia non ti dovrebbe dire come devi vivere fuori dal lavoro la tua vita. Così suona come un ricatto emotivo.
«Vero, ma se non ti andava bene te ne andavi, non è che ti pressassero o ti obbligassero. Magari Adua era più fragile, io sono più freddo, sono quadrato, può essere che su alcune personalità un certo metodo abbia attecchito in modo diverso. Io non mi sono mai disperato perché non lavoravo più con loro».
Quando te ne sei andato da lì, come vi siete lasciati con Tarallo?
«Ciao e arrivederci. Ripeto, io ero uno quadrato, non mi sono mai fatto neppure scrivere le risposte alle interviste come altri, facevo di testa mia».
In agenzia ti facevano delle avances?
«Assolutamente no».
Qualcuno ha collegato la presunta storia della setta a vicende di macchine sabotate, della villa saltata in aria durante il Sanremo di Garko. Supposizioni molto azzardate.
«Se ti bevi la storia della setta, allora tutte le cose che sono accadute in quegli anni possono diventare inquietanti, ma è tutta una forzatura. Per dirti, qualcuno ha tirato fuori la storia della mia depressione associandola “alla setta” perché rilasciai un’intervista a Dipiù sul tema. Ma io mi riferivo alla mia depressione adolescenziale! Non c’entra nulla col periodo in Ares».
Tarallo ti ha contattato in questi giorni?
«No. L’ho chiamato io per chiedergli cosa stesse accadendo, lui mi ha ringraziato per le cose che abbiamo scritto io e Reda. Per difenderlo si è scomodata perfino Ursula Andress, che non parla da anni».
Avrà chiamato a raccolta gli amici perché lo difendano, nulla di male.
«Può essere. Però ti dico una cosa: quando si apre una fogna ci si trovano tante cose, spesso non attinenti all’origine della questione, che in questo caso mi pare sia “la favola” di Garko e Adua. Su quello non mi esprimo, però ad esempio lei ha detto che non vedeva più la famiglia, che l’avevano allontanata. Io quando ero con Tarallo salivo di più a casa a Verona che ora. Mia madre venne a trovarmi anche a Zagarolo».
Qualcuno insinua che chi non parla, non parla perché potrebbero esserci dei ricatti. Tu sei ricattabile?
Ma figuriamoci. L’unica rottura di coglioni è che non voglio finire in quel calderone. Io sono andato via perché ero innamorato, e ho fatto bene. Reda è la cosa migliore che mi sia capitata. Anzi, ti dico un’altra cosa che la riguarda».
Cosa?
«Reda, la mia fidanzata, è la famosa attrice su cui Lory Del Santo ha ricamato in tv dicendo che era sparita dopo che lei le aveva fatto fare un provino, cosa che ha alimentato la storia della setta, facendo intendere chissà cosa. Ha detto anche che Reda avrebbe cambiato il numero di telefono, insinuando che fosse stata plagiata da chissà chi. Il motivo per cui Reda ha cambiato numero non lo posso dire, ma sono cose riservate che non hanno anche fare con Tarallo o l’agenzia. E non c’era nessun mistero, posso garantirlo».
Guadagnavate bene con Tarallo?
«Io per un certo periodo ho guadagnato discretamente, poi certo non sono arrivato a guadagnare le cifre di Garko. Se c’è uno che si è arricchito è lui. Gabriel è stato un esperimento clamorosamente riuscito, creato da quel sistema lì. Poi, sai, quando è nato lui c’erano solo i giornali, oggi i social hanno rovinato il mercato. Tarallo e i direttori creavano copertine finte o vere, si creava il mito del sex symbol, poi la gente che ne sapeva di cosa fosse vero o no. Anche cambiare i nomi e le età, prima si poteva fare, ora no, dopo 5 minuti tutti sanno tutto».
C’è chi parla di sesso in qualche villa, di cose estreme, racconti da setta insomma.
«Vomito solo a sentir parlare di ‘sta roba. Era una vita anche noiosa. E io non ho rinunciato a nulla, neanche al mio vero nome, ho vissuto la mia vita».
Se è tutto vero, allora perché Garko è finito al Grande Fratello Vip lasciando intendere altro?
«Non lo so, però la sua narrazione ha valore almeno quanto la mia, poi puoi scegliere a cosa credere. Se non mi espongo su Adua non è perché nasconda delle cose, è che davvero io non c’ero quando è arrivata. E io non vado a prendermi il gettone di 2/3.000 euro per andare in tv a raccontare cose che non ho visto o ad esprimere giudizi su altri dell’agenzia, mi fa schifo. Sto parlando ora di me, gratis».
Magari si sono incrociate persone fragili e persone con un forte ascendente, un mix tossico.
«Questo è plausibile, ma appunto forse i problemi c’erano a monte, magari c’era una forte emotività di base. Di sicuro per Adua ci sono cose sospese, vedo che piange sempre. Tarallo, dal canto suo, ha fatto le sue mosse legali e loro lì dentro non si rendono conto del vespaio che stanno provocando».
Cosa pensi di Garko e della sua scelta?
«Non mi riguarda».
Gli stanno dicendo di nuovo come deve gestire la vita?
«Temo che si riproponga la stessa modalità del passato, col fine del guadagno».
Mi dici cosa ti ha detto Tarallo davvero?
«Gli dispiace tutta questa situazione, di essere messo alla gogna. Dice: “Io ho le spalle larghe, sono incazzato nero ma ho un’età e mi difenderò”».
Dagospia il 6 ottobre 2020. Eva Grimaldi, in un'intervista esclusiva sul settimanale Chi in edicola da mercoledì 7 ottobre, svela tutta la verità sul suo rapporto con Gabriel Garko: «La nostra storia è stata creata a tavolino quattordici anni fa. Non c'è mai stato sesso, lui aveva bisogno di me e io l'ho sempre protetto. Ma c'è un amore profondo che ci lega, ancora oggi, e che va al di là della sfera fisica... lo avrei addirittura sposato o ci avrei fatto un figlio. I suoi pianti in tv di questi giorni? Sono solo il risultato delle sofferenze represse di una vita». E la Grimaldi sul suo di percorso di vita racconta: «Ho sempre desiderato fare l'attrice e ho fatto di tutto per realizzare il mio sogno. Ho iniziato a frequentare brutti giri a Roma e assumevo anfetamine per restare magra, non mangiavo e non dormivo praticamente più e mi sono rifatta il seno otto volte. Ero dislessica e un po' balbuziente, ma ero talmente bella che nessuno ci ha mai fatto troppo caso».
Da liberoquotidiano.it il 2 ottobre 2020. Gabriel Garko, dopo il suo intervento settimana scorsa al Grande Fratello Vip dove ha fatto comin-out sulla sua omosessualità, torna a parlare dell'argomento a Verissimo (in onda domani, sabato 3 ottobre, su Canale 5 e condotto da Silvia Toffanin). "Ho avuto la mia prima vera storia d’amore con un ragazzo di nome Riccardo. Sono stato con lui undici anni. Vivevamo insieme, ma era una situazione falsata. Quando venivano a cena gli amici, poi lui alla fine della serata faceva finta di andare via per poi tornare. Quando uscivamo o andavamo in vacanza eravamo sempre in gruppo”. La Toffanin gli chiede come mai abbia deciso di fare coming out solo adesso: “Sono stato talmente tanto sul set che alla fine mi sono messo addosso un personaggio. Se hai un certo orientamento sessuale non puoi fare questo mestiere, il sistema te lo impone e quindi devi far finta di averne un altro. All’inizio l’ho preso come un gioco, poi giocando mi sono trovato dentro una macchina che mi ha incastrato e il gioco non è poi più stato così divertente. Ma oggi mi sono tolto la maschera, anzi lo scafandro". Un segreto condiviso solo con la sua famiglia: “I miei genitori e le mie sorelle non mi hanno mai giudicato per le mie scelte, anzi mi hanno sempre protetto e coperto. Prima di iniziare a fare questo mestiere ho sempre vissuto bene la mia sessualità, in casa lo hanno sempre saputo. Oggi Garko è innamorato: “Mi sto frequentando con una persona, con cui mi trovo molto bene", conclude.
Fabiano Minacci per biccy.it il 2 ottobre 2020. A distanza di un po’ di giorni dal coming out di Gabriel Garko al Grande Fratello Vip, l’attore pochi minuti fa è stato immortalato per le vie di Milano (più precisamente in Via Manzoni) in compagnia di un misterioso ragazzo. Secondo il mio lettore che ha scattato le foto, Gabriel Garko e l’altro ragazzo stavano vedendo la vetrina di una gioielleria.
Gabriel Garko ha fatto coming out su consiglio di Alfonso Signorini. Alfonso Signorini – via Casa Chi – ha parlato del coming out di Garko. “Convincerlo ad aprirsi e fare coming out non è stato facile. Però credo che lui ne avesse molto bisogno. Soprattutto dopo aver visto quello che era successo dentro la casa ha voluto fare chiarezza e liberarsi anche di un peso. Lui non riusciva più a vivere bene, a stare dentro il personaggio che si era costruito in questi anni. Si è definito un bambino ed è vero. Piange sempre in questo momento, ha sbalzi d’umore improvvisi. Deve prendere confidenza con Dario. Però mi ha fatto molto piacere una cosa. L’altra mattina, subito dopo il coming out mi ha detto "in questo ultimo mese ho ricominciato a guardarmi allo specchio, prima non ci riuscivo". Infatti c’era la voce che lui non amava gli specchi ed era vero”.
Da iltempo.it il 5 ottobre 2020. Alberto Tarallo dice la sua verità sull'Ares-gate. Il capo dell'agenzia finita al centro della cronaca dopo le accuse arrivate durante il Grande Fratello Vip dopo le conversazioni tra i due concorrenti Adua Del Vesco e Massimiliano Morra ha deciso di intervenire a Non è l'Arena, il programma di Massimo Giletti su La7. Il re delle fiction, chiamato Lucifero dai due attori lanciati dalla sua scuderia, ha detto di voler parlare anche per difendere la memoria del suo compagno, Teodosio Losito, morto suicida, la cui scomparsa è stata tirata in ballo tra le accuse di gestire la Ares come una setta. Dietro alle accuse di Adua e Massimiliano "credo ci sia rancore perché dopo la Ares non hanno lavorato molto. Credo che qualcuno abbia lavorato su questo rancore per colpire me. Ho dei sospetti, ci stiamo lavorando anche insieme al mio avvocato", ha detto Tarallo. Al centro delle accuse anche la villa di Zagarolo di Tarallo, dove vivevano in due dependance i due attori, che hanno descritto un ambiente senza libertà parlando addirittura di una setta. "I ritmi di lavoro a volte erano pesanti ma qual era la setta? L’unica volta che mi sono arrabbiato con loro è quando gli ho dato da leggere Il giovane Holden e Il piccolo principe e mi hanno preso in giro perché mi hanno detto di sì ma poi non hanno letto niente". "Mi ha stupito sapere che erano fidanzati, La storia d'amore di Adua e Massimiliano era finta, inventata da me, Lucherini e Mayer", ha detto Tarallo. "Adua mi accusa di non averle fatto vedere la famiglia? Ma se ho prestato una casa alla madre per venirla a trovare", ricorda il produttore. Giletti allora chiede perché Adua lo accusa. "Credo sia stata manipolata". E ha continuato: "Poi stata lei a insistere con Teo perché mandassi via Massimiliano". Tarallo si commuove ricordando il compagno, una relazione durata più di vent'anni. Per le parole di Morra su Losito "provo schifo, ribrezzo, perché lui è stato cacciato per una cosa che non voglio rivelare, accuse gravi da parte di Adua". "Lucifero eccetera è folklore, posso perdonare, ma non posso tollerare quello che hanno detto su Teo", continua Tarallo. Ma cosa hanno detto Del Vesco e Morra del suicidio? Adua al GfVip ha parlato di "istigazione al suicidio". "Non posso tollerarlo. So chi c'è dietro queste parole. Vergognati, fai schifo", è l'accusa lanciata da Tarallo. Il re delle fiction si è poi commosso raccontando l'ultima volta che ha visto il suo compagno. E con la voce rotta dalle emozioni ha letto la lettera lasciata da Losito prima di togliersi la vita. Parole d'amore che fanno esclamare Tarallo: "E questa persona avrei istigato il suicidio?".
Estratto dall'articolo di Francesco Canino per ilfattoquotidiano.it il 5 ottobre 2020. “Al Grande Fratello si è parlato di istigazione al suicidio», gli ricorda Giletti. Un’accusa grave e infamante, che spinge il produttore ad aprirsi a una confessione intima e spiazzante, ripercorrendo gli ultimi giorni della vita di Losito. “Provo un senso di ribrezzo acuto e doloroso. Teo era depresso da un anno, ma il suicidio è stato un lampo a ciel sereno. La mattina in cui si è tolto la vita ci siamo visti e abbiamo lavorato, negli ultimi giorni era rilassato e sembrava che il peggio fosse finito. “Ricordati che io ti amo e ti amerò per sempre”, sono state le sue ultime parole. È stata la sua ultima dichiarazione d’amore”, rivela Tarallo. Che, a sorpresa, legge poi la lettera di addio di Losito, una missiva straziante in cui lo sceneggiatore spiega l’epilogo doloroso. “È una mia scelta e tu non hai colpe. Sono io che ha rimorsi e rimpianti. È un anno che lottiamo contro i mulini a vento, ci hanno preso per il culo, hanno usato una cattiveria più estrema per farmi e farci del male e ancora non riesco a capirne il motivo. Come da prassi si è creato il vuoto intorno a me, a noi. Il carro non è più quello dei vincenti. A chi abbiamo dato tutto di noi stessi ci ha sputato in faccia e oggi giudica e siamo dei rami secchi. Che pena. Sono stanco di vivere nello squallore degli altri e sentirmi fuori luogo in imbarazzo con te o per me stesso. È una vergogna insopportabile a volte ingestibile”.
Da ilmessaggero.it. Durante l'intervista con Massimo Giletti Alberto Tarallo ha svelato: «La storia di Adua e Massimiliano era finta e studiata a tavolino da me, Enrico Lucherini e dal compianto Sandro Mayer. Adua ci ha raccontato che si era lasciata con il suo compagno, poiché era manesco e voleva che diventasse testimone di Geova è stata Adua a volere fuori Massimiliano per un qualcosa che non voglio dire. Teo ha dato molto ascolto ad Adua, bisogna capire se ha detto la verità o una bugia. Adua lo accusava di certe cose. Io penso che Adua sia manipolata. Lui (Losito ndr) comunque l’ha aiutata quando ha combattuto l’anoressia. Le consigliai di andare in una clinica, che ho pagato 900 euro al giorno. Teo si voleva caricare anche di questo peso, ma io non sono suo padre. L’ho aiutata come ho potuto con medici, ma soprattutto Teo che aveva un grande affetto per lei. Mi fa schifo Io credo che alla base di tutto ci sia un rancore, ma penso che qualcuno abbia lavorato su questo rancore un po’ infantile per architettare qualcosa contro di me.
Federico Boni per gay.it il 9 ottobre 2020. Il cosiddetto Ares Gate è nato e apparentemente morto all’interno del Grande Fratello Vip. La scorsa settimana Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, ex volti dei film e fiction Ares, società di produzione recentemente fallita che per 20 anni ha sfornato prodotti Mediaset, hanno scatenato un putiferio, parlando di una sorta di “setta” gestita da un certo “Lucifero”, che ha creato non pochi problemi ad entrambi. Apriti cielo. Sui social è esploso questo Ares Gate che riguarderebbe proprio la società gestita dal produttore Alberto Tarallo, storico compagno di Teodosio Losito, sceneggiatore suicidatosi nel 2016, con Mediaset che ha immediatamente messo a tacere qualsiasi illazione, silenziando non solo Adua e Massimiliano ma anche le altre trasmissioni che avevano iniziato a parlarne. Anche Gabriel Garko, con il suo coming out di venerdì scorso, ha fatto intendere di misteriosi personaggi che l’avrebbero costretto a fingersi eterosessuale per 20 anni, costruendo false storie d’amore ad uso e consumo dei tabloid. Garko, neanche a dirlo, è una creatura della Ares, così come Eva Grimaldi, che non ha ancora proferito parola sull’argomento. In questo intrigo che lentamente sta prendendo sempre più forma si inserisce questa mattina Mario Adinolfi, che volteggia come uno sciacallo su qualsiasi argomento che possa riguardare la comunità LGBT, solo e soltanto per avventarsi senza vergogna alcuna sentenziando con la propria solita delicatezza. “C’è un produttore gay il cui compagno si suicida. Al Grande Fratello c’è chi parla di istigazione al suicidio, lo appella come Lucifero e apre il vaso di Pandora di attori gay con relazioni etero di copertura veicolate da Chi, diretto dal gay che conduce il GF. Tutto normale?” Questo si è domandato il leader del Popolo della Famiglia, che ha ovviamente riannodato i fili dell’intera vicenda, arrivando a conclusione per lui blindate e puntualmente orrendamente veicolate. Neanche fosse Jessica Fletcher. Un grande classico, per un uomo che vive unicamente per gettare odio e immondizia sul mondo LGBT nazionale. Nel dubbio Manuela Arcuri, altro storico volto Ares, ha oggi stroncato qualsiasi illazione nei confronti del produttore Tarallo, intervistata da Giuseppe Candela per Dagospia. “Sono stata in silenzio perché volevo capire fino a che punto arrivasse questa follia. Non ho mai sentito in vita mia tante falsità come in questi giorni. Una setta? Hanno detto cose pesantissime. Le ripeto, sono senza parole. Per quindici anni ho lavorato con Tarallo e non ho visto queste cose. Guardi io ho solo visto tanta generosità di Alberto Tarallo. Un grandissimo produttore che ha creato attori totalmente sconosciuti che venivano dal nulla. Li ha creati, formati, gli ha dato un nome e li ha fatti lavorare. Ma dai Lucifero, io sono allibita. Sono una sua grande amica perché nella vita sono una donna riconoscente, anche se non lavoriamo più insieme perché non produce più. Questa bellissima collaborazione purtroppo è finita, perché le cose finiscono una mica può reagire così male? Quello tra Alberto e Teo (Teodosio Losito, ndr, suicidatosi nel 2019) era un grande amore, era un’unione totale nella vita e nel lavoro. Una fusione di due persone che portavano avanti il loro lavoro con amore. Teodosio per Alberto era intoccabile. Difendo Alberto, non si fa così. Non si gioca con la vita delle persone. Mi sembra più di una gogna. Qui non parliamo di un matrimonio inventato, qua si gioca con la vita della gente. Parliamo di un grande produttore, di una tragedia che è successa un anno e mezzo fa, una cosa delicatissima. Al funerale di Teodosio c’erano tutti. Piangevano, capisce. Sembra un film”.
Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 5 ottobre 2020. Il “Grande Fratello” (nel nostro caso addirittura Vip) è un “gioco” davvero istruttivo, meraviglioso, crudele, crudelissimo, tuttavia umanamente imperdibile, un’autentica “scuola di vita” per la resistenza all’ovvio e al banale quotidiani, alla tracotanza o all’insipiente insignificanza altrui e propria, così diremmo ricorrendo a un’immagine degna di Conrad o Melville, i “capitani coraggiosi” alle prese innanzitutto con la coscienza, appunto, dei propri limiti emotivi. Un gioco dove infatti incontri anche chi ha vocazione da caporalmaggiore. Personalmente, sono entrato nella “Casa” con timori e propositi. Uno: il terrore di uscirne nuovamente “comunista”. Due: l’intento di abbassare il livello culturale dell’intero format. Compito doveroso se giungi lì come scrittore, meglio, “intellettuale”. Compiti sovrumani, impossibili da mettere a punto. Mai però disperare. Il Gfvip, si sappia, è infatti soprattutto un master esistenziale. Dai costi e ricavi umani immensi. Dove, se sei attento, apprendi innanzitutto come praticare l’arte dell’attenzione, del silenzio doveroso e non ottuso che implica lo studio dell’altro, ma anche della non compromissione, perfino del “Boh?” liberatorio, almeno se vuoi sopravvivere, se hai una “strategia”, se desideri resistere anche davanti alle evidenze più desolanti, osservando con placidità Zen pochezza e piccinerie altrui, magari con l’obiettivo di arrivare in finale, e, metti, vincere. Una volta dentro non potrai davvero contare sulla vera vicinanza di nessuno, ognuno per sé. Spiego meglio: l’altro, chi fino a un istante prima sembrava essere tuo “amico”, alla resa dei conti delle “nomination”, come già accaduto a Cristo con Paolo, tradirà, spenderà il tuo nome, e poco importa che fino a pochi istanti prima abbia manifestato sentimenti di complicità. È accaduto a me con la contessa Patrizia De Blanck, giacimento umano romano vivente di racconti inenarrabili, dove sfolgora anche la luce della “Dolce vita”, un pezzo unico, Patrizia; un istante dopo essere “uscito dalla casa”, l’amata sembrava avermi già dimenticato, rimosso, e dire che avremmo dovuto, che so, fuggire insieme, metti, nel Principato di Monaco, un futuro comune, un levriero afgano a tenerci compagnia, lussi e sospiri. Un pomeriggio, intanto che dal nostro divano osservavamo le pietose pratiche altrui, certo che i coinquilini ritenessero inarrivabile la citazione, le ho confessato che insieme sembravamo Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. Ironia, l’immensa sconosciuta della Casa! In verità, Oscar Wilde offre la linea da tenere quando hai quasi certezza di un dialogo impossibile, come accade spesso al Gfvip: “Non discutere mai con un idiota, ti porta al suo livello e ti batte con l’esperienza”. La tragedia della coabitazione, il dramma condominiale lì sono l’essenza. Un solo cesso senza chiave, così per 20 presenze. Nella Casa trovi due distinte categorie di residenti: le anime semplici convinte di aver toccato il cielo con un dito grazie all’invito, all’esser lì, gli stessi che si aspettano ogni genere di soddisfazione professionale e mediatica. Beati loro per il candore. Subito accanto, i “revenant”, i ripescati, da immaginare come le dive del muto all’indomani dell’invenzione del sonoro, volti riesumati dal catasto televisivo, a loro volta pronti a investire fino allo spasimo nella presenza sotto il continuum delle telecamere. La percezione che si ha d’ogni singola presenza dall’interno non è tuttavia la medesima che si riceve osservando tutto da casa, dall’esterno. I balletti di un’ospite, percepiti dai residenti in modo risibile, al contrario presso il pubblico lontano, composto dalle anime più semplici, appaiono “stupendi”, accompagnati da un coro di “Oh, quant’è simpatica, ma quant’è caruccia!” L’ho già detto che per resistere occorre rinunciare alla sincerità? L’ho già detto che non è auspicabile esporsi con gli altri, salvo poi strepiti e accuse di “falsità” pronunciate da altrettanti falsoni/falsone in servizio permanente effettivo? L’ho detto che i partecipanti al nostro Gioco mostrano un ritardo culturale di decenni rispetto alle sue conquiste civili e lessicali? L’occasione del coming out di un divo del nuovo fotoromanzo seriale televisivo avrebbe potuto, pensai candidamente, suscitare una discussione sui diritti LGBTQ, invece non una parola, anzi, a chi poneva la questione è stato detto che parlarne avrebbe significato fare “portineria”, gossip. Accusare, nero su bianco, qualcuno di essere assente allo “stile”, così da parte di coloro che, in tema di eleganza, sono rimasti al muretto rionale, alle chiacchiere davanti al Punto Snai, ai simposi dal carburatorista. L’altro dato che ogni intellettuale “radical chic” rileva nella Casa mostra la pervicace pochezza subculturale che anima i presenti: un perimetro di citazioni che scivola da “Striscia” a “Paperissima”, dall’ultimo Sanremo agli spot del cornetto, “Dov’è Bugo?”, “La Luna nera!”. All’occorrenza, c’è anche la difesa dell’iconica Anna Tatangelo. Al momento della corale, nessun dubbio: “L’italiano” di Toto Cutugno o, dài, Lucio Battisti. Li osservi e a te ritorna invece in mente addirittura Karl Marx, l’XIª “Tesi su Feuerbach”: “I filosofi hanno interpretato il mondo ognuno a suo modo, ora però si tratta di cambiarlo”. Continui a osservarli concludendo che nessuno di loro probabilmente è mai stato sfiorato dall’idea che lo stato delle cose presenti debba/possa essere messo in discussione, anzi, aderiscono a tutte le merci della società dello spettacolo in modo naturale, con identficazione totale. Al momento di uscire, rivolto ai sopravvissuti al televoto, mi è accaduto di pronunciare il nome di Trotskij, rivoluzionario russo assassinato, per ordine di Stalin, da uno zio di Christian De Sica; temo abbiano pensato si trattasse di un rapper, l’antagonista di Achille Lauro. Tra molto altro, nella Casa accade di imbattersi in creature insostenibili, fastidiosi perfino nella prossemica, sorta di scimmie urlatrici pronte ad assegnarsi i galloni di caporalmaggiore, la Juventus come orizzonte interiore massimo, così da mettersi a capo del “timballo umano” (il gruppo che si raccoglie complice intorno alla “Cleopatra” della situazione) certo di praticare un ruolo egemone nelle dinamiche della Casa, pronto a reggere i flabelli alla Prescelta. Peccato che per essere una “Cleopatra” occorra possedere una propria “aura”; inutile però in questi casi citare con pertinenza il filosofo Walter Benjamin; cominciando dal caporalmaggiore urlatore, nessuno capirebbe. Personalmente, nonostante i venti contrari, l’intellettuale ha lasciato una scia di sé nella Casa: è fuori da una settimana eppure parlano ancora di lui, ne ripetono il lessico, probabilmente senza averlo mai davvero penetrato, scambiando la sincerità per “falsità”, ritenendolo frutto della supponenza culturale, parola – la Cultura - da essi pronunciata un po’ con sospetto. Che gioia, una volta fuori dalla Casa, a Milano, nei pressi di San Babila, aver incontrato, insieme ai suoi genitori, una bambina di 10 anni, Martina: “Ma tu sei Fulvio, lo scrittore!”. A dispetto di tutto, delle incomprensioni, del senso di impotenza e soffocamento, dei phon e delle spazzole lì sempre al lavoro, delle battute insignificanti, delle sedute mattutine di fitness, alla fine qualcosa ho lasciato, la sensazione che anche dentro la Casa, si possa ricorrere alla naturalezza, al lusso del paradosso e del racconto liberatorio, fuori d’ogni remora bigotta, che non ci debba mai vergognare del proprio tesoretto di idee e di informazioni, o d’aver provato, fra molto altro, a raccontare la storia di Harvey Ball, l’inventore dello “Smile”, la faccina gialla che restituisce graficamente il sorriso; sulla sua tomba, ho spiegato loro, non c’è una croce o una stella di Davide, semmai proprio la “sua” icona, tra le più significative del secolo trascorso. Un po’ meno semplice dire di “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, o della frase straziante che pronuncia il ragazzino Ettore in “Mamma Roma” di Pier Paolo Pasolini: “Riportàteme a Guidonia!” L’ho ripetuta spesso, come sogno di fuga. Infine, appena fuori, altrettanto incantevole ricevere su WhatsApp un messaggio di Rosanna Fratello. Dalla cosiddetta “prigione del popolo” Aldo Moro scriveva anche a lei, proprio a Rosanna; molti anni dopo, lei ha pensato di scrivere a Fulvio Abbate. Anche la Casa del Gfvip, fatti i doverosi distinguo, a suo modo è una cella. Non a caso, durante la permanenza ho indossato con orgoglio le t-shirt di “Made in Jail”, brand che si deve a una cooperativa di ex detenuti di Rebibbia. Per questa esperienza inenarrabile che restituisce coscienza del limite altrui e anche nostro, devo ringraziare Irene Ghergo, è da lei giunta l’offerta, così come Alfonso Signorini che, di fatto, mi sta spalleggiando nel seguito; devo a entrambi una conquista che, almeno inizialmente, mi impensieriva. Avete compreso bene, dalla Casa sono uscito nuovamente “comunista”, convinto cioè che l’esistente debba essere messo in discussione, ora e sempre. A dispetto delle scimmie urlatrici, dell’ovvio e dell’ottuso, direbbe Roland Barthes. Ora che ci penso, lì dentro ho tenuto anche uno sguardo da vero semiologo, anche quando ero chiamato nel “Confessionale” non ho mai smesso di fare caso ai segni delle nature umane, a mio modo ho vinto, nulla sarà più come prima nello sguardo verso l’altro. Grazie di tutto, Gfvip. Viva sempre Trotskij!
Ludovica Marchese per ilgiornale.it il 4 ottobre 2020. Il personaggio di Fulvio Abbate è stato apprezzato e criticato, tanto da dividere l’opinione pubblica. Sta di fatto che, andato in nomination con Franceska Pepe, Massimiliano Morra e Adua Del Vesco, Fulvio è stato il primo concorrente ad essere eliminato del reality. Ma poco importa visto che era terrorizzato al solo pensiero di rimettere piede dentro quella Casa e tornare dalle "nutrie", cioè i suoi ex coinquilini. Ultimamente infatti si sentiva sempre più lontano dagli altri concorrenti, tanto da isolarsi e guardarli provando una sensazione di "abominio" davanti a quella che lui definisce "paccottiglia pop". Ma la verità è che Fulvio non ha mai lasciato il Grande Fratello Vip. Il suo videomessaggio – così come le sue frecciatine – continuano in un certo senso a perseguitare i concorrenti, che sembrano quasi più impegnati a parlare di lui che a concentrarsi sul gioco. Per non parlare del fatto che, in qualità di ex concorrente, Fulvio sarà presente in studio il lunedì e il venerdì, il che lascia pensare che ne vedremo ancora delle belle!
Come mai hai deciso di partecipare al Grande Fratello Vip?
"Tutto nasce da una chiamata da parte di Irene Ghergo. In quel momento la cosa mi ha stupito, ma ho detto immediatamente di sì! Non tanto perché io ami scherzare tra l’alto e il pop, quanto perché credo che il talento lo si riconosce quando si ha a che fare con delle situazioni diverse, lontane dalle solite".
Quale il tuo obiettivo all’interno della Casa?
"Sono entrato con l’intenzione di stabilire un rapporto con delle persone diverse da me. Molto presto mi sono però reso conto che era piuttosto difficile, sia per le dinamiche che appartengono al comportamento umano sia per quelle relative alla dinamica del gioco. Dopotutto, il Grande Fratello non è altro che una scatola dove si è segregati come topi e, prima o poi, ci si scanna a vicenda".
Secondo te quelli come te – chiamiamoli intellettuali – partono svantaggiati in questo reality?
"Assolutamente no. Io ho partecipato senza strategie, mentre il concorrente standard del Grande Fratello è essenzialmente di due tipi: c’è quello che spera di vincere la lotteria della fama e quello che vuole tornare alla ribalta. Quest’ultimo è il caso di Maria Teresa Ruta".
Ne è valsa la pena partecipare senza pianificare alcuna strategia?
"Comunque sia andata, mi ritengo il vincitore morale del Grande Fratello Vip. Certo, l’assenza di strategie mi ha portato a scontrarmi con un contesto beota…".
Puoi essere più specifico?
"Il perimetro dell’immaginario degli inquilini andava solo da Striscia La Notizia a Sanremo e questo era davvero devastante. C’era una mancanza di cultura – ad eccezione di paccottiglia pop che si bevono come fosse oro colato – e assenza totale di ironia. Senza contare poi una non trascurabile tracotanza da parte di personaggi come Oppini, che tanto si affannava per darsi un’aria da caporal maggiore… Che dire, mancava solo Mark Caltagirone e il cast era al completo!".
E il termine "nutrie" da dove viene?
"Viene da un mio carissimo amico, Bruno Giurato. Un giorno parlavamo della difficoltà di farsi comprendere da buona parte del mondo. Fu quindi lui a chiamare ‘nutrie’ coloro che non si mostravano ricettivi. Ha ragione Oscar Wilde quando dice di non provare mai a discutere con un idiota perché ti porta al suo livello e ti batte con l’esperienza".
Poi come è proseguita la tua permanenza nella Casa?
"C’era un gruppetto che ruotava intorno alla Gregoraci. Se da lei mi aspettavo faville, nel reality l’ho vista solo in versione larva e questo, alla permalosa signora calabrese, non è andato a genio tanto da andare in giro a dire che fossi viscido. Il risultato? Mi sono trovato contro tutta la sua corte di subalterni e attendenti".
Avevi qualche alleato all’interno della Casa?
"Senza alcun dubbio la Contessa. Non appena uscito, però, mi ha svenduto subito, dimostrandomi che in realtà è fatta della stessa pasta degli altri. Ossia preoccupata come gli altri di resistere più a lungo possibile nella Casa, se non addirittura di vincere. Il problema è che i vecchi in questi format vengono decimati subito!
Scherzi a parte, lei è stata per me una grandissima delusione dal punto di vista umano. Da parte sua non accetterò mai scuse alcune, perché non ho visto in lei né senso di responsabilità né di amicizia".
Sei stato accusato di essere falso quando hai cambiato opinione su alcuni inquilini, cosa ne pensi?
"Non c’è niente di male a cambiare idea. Infatti, come ho spiegato citando il filosofo Feyerabend, la coerenza è per chi non ha idee. Il problema è che gli altri concorrenti non erano a un livello tale da comprenderlo…".
Cosa pensi dell’eliminazione di Fausto Leali?
"Credo che lui abbia avuto ogni tipo di opportunità dal punto di vista umano e culturale, ma non ne ha colta nessuna. Sostanzialmente è una brava persona, ma ha molte lacune. Diciamo che se il Grande Fratello lo avesse graziato, ne avrebbe sicuramente combinata un’altra! Lui era come smarrito lì dentro, e anche un po' sordo. D’altronde De Gregori prima di entrare mi aveva fatto capire tra le righe di non prenderlo per il cu*o. In un certo senso mi dispiace per lui, era diventato lo zimbello della Casa… È stata un’uscita amara, vuoi per ingenuità, per assenza di strumenti… Ho provato a difenderlo, ma c’erano talmente tante carenze in lui che non si poteva far altro che mandarlo via…".
La "gaffe" con Adua Del Vesco ha creato non poco scompiglio, com’è andata in realtà?
"Ci lamentavamo tutti del fatto che ci buttavamo a capofitto sulle patatine, che fanno ovviamente ingrassare. A quel punto le ho detto semplicemente di non mangiarle e così mantenersi in forma. C’è poco da dire, un po' come quando con la Contessa scherzavamo dicendo di essere due cessi con la panza…".
E sul coming out di Garko?
"Con Adua ho cercato di capire che tipo di relazione fosse quella con Gabriel Garko e lei mi disse solo: "Una favola". Poi abbiamo capito il perché, si trattava infatti di una relazione schermo…Quello che mi viene spontaneo da dire è che mi sembra ridicolo che nessuno abbia fatto una riflessione sui diritti della comunità omosessuale, niente di niente. Come nessuno si è chiesto di come fosse andato il Referendum o di come fosse la situazione con il Coronavirus. Tutti solo a preoccuparsi del loro percorso individuale…".
Del flirt tra Elisabetta Gregoraci e Pierpaolo Pretelli?
"Lei è andata al Grande Fratello per ridefinire la sua immagine, lui è un ragazzo buono senza particolari guizzi. È palesemente preso da lei, credo che la veda come Cleopatra… Non saprei dire se però anche lei sia affascinata dai suoi muscoli… Insomma, se son rose fioriranno!".
Chi reputi il peggiore della Casa?
"Senza dubbio il figlio della Parietti. Quei suoi urli fanno capire che è rimasto all’età di 12 anni, senza contare le sue battute inutili…".
E Massimiliano Morra?
"Me lo risparmio… L’ho sostenuto, ma ha delle carenze culturale immense. Tuttavia, per come stanno le cose, alla sua uscita si dovrà preoccupare di ben altro e non di quello che avrò detto io…".
E se ci fosse la possibilità di rimettere piede nella Casa?
"Mai e poi mai! Ho tremato al pensiero di tornare lì dentro! Infatti, il tempo passava e io mi vedevo sempre più in disparte, provando una sensazione di abominio. E quando poi pensavo a mia figlia, mi chiedevo che esempio certe concorrenti potessero dare a ragazze dalla sua età visto che non sapevano far altro che truccarsi e pettinarsi tutto il santo giorno. È un mondo di una banalità senza pari dal quale nella mia gioventù mi sono allontanato. Eppure, c’è ancora qualche imbecille che si ostina a dire che sto solo rosicando, macché!".
Nonostante la tua eliminazione, continui a essere presente nella vita degli inquilini: come mai?
"Io sono uno spettro che ancora si aggira per la Casa perché gli inquilini, invece di scopare, continuano a parlare di me! Detto questo, tutti lunedì e i venerdì sarò in studio. Non so quanto potrò parlare in qualità di ex concorrente, ma non mi farò problemi a fare riflessioni. Anche perché da un punto di vista fenomenologico, il Grande Fratello è sicuramente di una banalità assurda ma offre anche tanti spunti interessanti per comprendere la piccineria umana".
Se un giorno la redazione ti offrisse l’opportunità di diventare opinionista?
"In realtà lo faccio già, ma a livelli più alti. Se però mai dovessero chiedermelo, ben venga, a patto di poter avere spazio per esprimere il mio pensiero".
Franco Oppini risponde a Fulvio Abbate: "Sei solo un finto intellettuale". Dopo l'attacco di Fulvio Abbate contro Francesco Oppini, scende in campo suo padre Franco che ad Abbate ha alcune cose da dire. Roberta Damiata, Martedì 06/10/2020 su Il Giornale. “Il peggiore della Casa è senza dubbio il figlio della Parietti. Quei suoi urli fanno capire che è rimasto all’età di 12 anni, senza contare le sue battute inutili…". Lo scrittore Fulvio Abbate, uscito la scorsa settimana dalla casa del Grande Fratello Vip, aveva sparato a zero su Francesco Oppini durante la nostra intervista. I due avevano avuto un forte battibecco e lo scrittore aveva “perso le staffe” e si era riscaldato a tal punto da essere ripreso da Alfonso Signorini, viste le parolacce uscite dalla sua bocca. Questa modalità, forse retaggio della Contessa De Blanck sua amica, non è stata apprezzata solo da Signorini, ma anche a Franco Oppini, padre di Francesco che in questa intervista oltre a parlare di suo figlio ha qualcosa da dire ad Abate.
Nella Casa del Grande Fratello c’è stato uno scontro tra suo figlio Francesco e Fulvio Abate. Nell’intervista che ci ha poi rilasciato, ha rincarato la dose. Lei cosa ne pensa?
“Credo che Francesco sia stato bravissimo così come anche Alfonso Signorini che si è un po’ adombrato per la quantità di parolacce uscite dalla bocca di Abate. Un uomo della sua età che litiga in quel modo con un ragazzo mi fa pena, e lo dico sinceramente. Non ho timore di dire che per me è un finto intellettuale, una persona che usa tante citazioni dotte ma alla fine non dice nulla. Anche Vittorio Sgarbi è una persona che usa espressioni colorite, ma ha una cultura profondissima e quando ti attacca ti spiega anche il perché. Abate al contrario non dice nulla se non delle citazioni pseudo dote. Se si tolgono le parole di Kafka, Schopenhauer e Kant cosa rimane? Solo volgarità. Ha accusato Francesco di voler fare il leader, io non lo vedo affatto leader. E’ un ragazzo che si diverte. E’ scanzonato in mezzo alla ‘caciara’ ma lava anche i piatti quando deve. Ci sono altri molto più leader di lui come struttura mentale”.
Come le ha detto Francesco di essere stato scelto per la casa del Grande Fratello?
“Semplicemente mi ha comunicato che Alfonso Signorini lo aveva chiamato e che ci teneva molto che ci fosse. L’unico timore di Francesco era che i tempi coincidessero con il suo lavoro. Lui si occupa di vendita di automobili, ed è cronista alla 7Gold per le partite della Juventus. Anche se era contento è stato però molto assennato. Mi ha fatto sorridere quando l’ho visto fare una parodia di Michael Jackson perché mi è tornato alla mente un episodio di quaranta anni fa quando dopo cena con alcuni amici, anche io ho fatto la stessa parodia. Ho riconosciuto in lui le mie stesse movenze, siamo molto simili anche nel modo di essere ironici, per cui mi ha veramente stupito e divertito. Ho scoperto che Francesco è molto più estroverso di quanto non pensassi, perché è un ragazzo comunque discreto ed educato ma ha un carattere aperto con tutti”.
Lei invece che cosa gli ha detto, gli ha dato qualche consiglio?
“Non gli ho detto quello che si dice di solito ovvero: “Sii te stesso”, perché penso che possa essere se stesso anche chi si arrabbia e non è una cosa positiva. La cosa che invece gli ho detto è quella di divertirsi, perché questo lavoro in ogni caso, che sia il teatro, cinema o televisione funziona solo divertendosi e trasmettendo le emozioni giuste. Le cose costruite come quando si fanno strategie a lungo non funzionano perché non trasferiscono emozioni. E’ un gioco un po’ al massacro ma è pur sempre un gioco”.
Francesco ha mai desiderato entrare a far parte del mondo dello spettacolo?
“No, a venti anni ha fatto la prima edizione del reality La Fattoria. Allora era molto giovane e voleva sperimentare, si è divertito ma la cosa è finita lì. Anche il fatto di fare il cronista sportivo è avvenuto per caso. Era stato invitato da un suo amico che andava in questa trasmissione in veste di ospite. Dopo che ci è stato un po’ di volte si sono accorti di quanto fosse bravo e gli hanno proposto di fare il cronista delle partite della Juventus. Una seconda professione questa, che lui ama molto perché unisci il suo grande amore per il calcio e quello per la Juventus”.
Nel caso invece avesse voluto lei lo avrebbe sconsigliato?
“Io non ho mai sconsigliato a mio figlio di non fare niente, lui ha sempre seguito la sua natura, io gli ho dato dei consigli su questo mestiere che per quanto mi riguarda è il più bello e difficile da fare”.
Come vede il percorso che Francesco sta facendo all’interno della Casa?
“Lui ha una bella personalità, molto forte. E’ collaborativo nei confronti di tutti. Vedo che sta seguendo semplicemente la sua indole senza fare tante strategie e questo può da una parte aiutarlo perché il pubblico riconosce in lui una verità e una spontaneità. Dall’altra però dentro questi reality secondo me devi anche essere un po’ stratega, perché se non lo sei tu lo sono gli altri”.
Questa la considera una cosa negativa per lei?
“Va benissimo così. Sono molto contento che non sia uno stratega e che segua la sua indole. Poi quello che succede succede”.
Dayane Mello si è molto avvicinata a Francesco lei cosa ne pensa?
“Da parte di Dyane potrebbe essere una questione di strategia, creare o voler creare questa pseudo storia in modo di avere i riflettori puntati. Oppure può essere che gli interessi realmente, ma lui è fidanzatissimo, sta benissimo con la sua compagna ed è molto preso da quel rapporto. Lui non è un tipo drastico nell’allontanare le persone, lui è spontaneo ed espansivo con tutti”.
Che tipo di rapporto padre e figlio avete?
“Tra padre e figlio non si può mai essere amici, chi dice di essere amico di un figlio dice una stupidaggine. Io ho sempre cercato di avere un rapporto con lui basato sull’autorevolezza e non sulla autorità che è una bella differenza. L’autorevolezza la ottieni con l’esempio il dialogo, parlando e vivendo in un certo modo e dando a tuo figlio molto attenzione. Io con Francesco non ho mai avuto scontri perché c’è un rispetto tale per cui se lui vedeva che non ero d’accordo su una cosa lui cercava subito di riparare”.
Secondo lei dopo l’esperienza al Grande Fratello Vip Francesco tornerà al suo vecchio lavoro oppure magari sarà tentato per il mondo dello spettacolo?
“Dipende da quello che gli verrà proposto, perché lui ha senz’altro voglia di tornare alla sua vita normale di cui fa parte ovviamente la televisione con le telecronache sportive. Però, non credo forzerà la mano per restare in questo ambiente più di tanto”.
Quante ore al giorno lo segue in tv?
“Più di tanto non ce la faccio, perché in questo momento ho contemporaneamente tre spettacoli in testa e sto sempre a ripassare copioni e a concentrarmi sul mio lavoro. Lo seguo un po’ la sera o l mattina quando mi sveglio però sempre guardo le puntate in diretta e tutti i riassunti”.
Fulvio Abbate per ilriformista.it il 10 ottobre 2020. Se fosse un reportage, un documentario, un carosello, un film dovrebbe intitolarsi: “Un intellettuale al Grande Fratello Vip”. Avendo l’obbligo di raccontare le traversie di un concorrente particolare, un corpo estraneo all’entusiasmo spettacolare ordinario. Cercando così, soprattutto, di ricostruire nel dettaglio il modo in cui i “colleghi” scrittori hanno appreso ed elaborato la cosa. Come dunque l’hanno interpretata, commentata, ignorata, sottraendosi in questo modo alla comprensione del significato profondo dell’avventura intrapresa dall’autore de La peste nuova, un romanzo sul senso del limite in tempi di epidemie. Si sappia intanto che il Gf Vip, a dispetto di coloro che lo associano al gossip, è un “gioco” crudelissimo, sorta di master esistenziale, sciocchezze pensare che si risolva nel pettegolezzo condominiale cui partecipa ogni singolo condomino della “Casa”. Il GfVip, al contrario, pone l’individuo che dovesse scegliere di affrontarlo di fronte ad alcuni macigni emotivi primari. Un po’ come il trapezista nel momento di combattere il vuoto che si apre sotto le sue gambe. Personalmente, dentro la “Casa” ho fatto alcune scoperte immense su me stesso. Come uno speleologo, forse addirittura un palombaro, sono sceso negli abissi della mia insicurezza, dell’incapacità di operare il controllo emotivo, soprattutto quando sentivo di trovarmi davanti chi affatto comprendeva il mio lessico. E qui vale, l’ho già detto, ciò che afferma Oscar Wilde: «Non discutere mai con un idiota, ti porta al suo livello e ti batte con l’esperienza». Ma dicevamo dei “colleghi”, appunto. I colleghi scrittori, i colleghi intellettuali. Tolte le parole impagabili del “collega” Massimiliano Parente, che su Dagospia mi ha dato dell’imbecille o giù di lì, che io sappia, non c’è stato un cenno, uno straccio di commento pubblico da parte loro; sarebbe però fin troppo meschino immaginare che si tratti, direbbero altri, di banale “rosicamento”, ovvero: perché-lui-e-non-io-eh? Proviamo semmai a bere l’amaro calice dell’oggettivo stato delle cose: il silenzio altrui verso la nostra titanica impresa, come l’Agnus Dei. Ovvero dimostrare d’essere ora e sempre “persona”, allo stesso modo di quando, in aeroporto, un ritardo di quattro ore ti porta a diventare amico di tutti, mattatore: ufficiale di collegamento tra i tuoi compagni di sventura aeroportuale e la compagnia aerea. Esperienze che legano per la vita. Sia detto tra parentesi, credo di avercela fatta, e questo al di là dell’esito finale, sono il vincitore immorale del Gf Vip 5. Ho dimostrato che perfino uno scrittore può resistere a temperature abissali, può raccontare qualcosa del mondo, spiegare a un uditorio, preoccupato piuttosto di fitness o piastra per capelli, che scrivere, fare professione d’arte, significa “dare nome alle cose”. Che poi a molti questo genere di cose possano apparire ininteressanti è un altro paio di maniche. In ogni caso, per giustificare la nostra scelta di andare al Gf Vip non ricorreremo al banale discorso sulla necessità di “surfare” tra alto e basso, tra pop e maiuscole. Pur avendone contezza, non ci comprometteremo con la paccottiglia pop, diremo soltanto che nel nostro palmarès, accanto all’onorificenza di commendatore del Collegio di Patafisica, adesso brilla anche questa nuova avventura. Nel banner di una ipotetica pellicola qualcuno ha scritto così: «Cosa resta della rivoluzione, un film di Fulvio Abbate. Da scrittore radical chic comunista trotskista a concorrente al Gf Vip e ospite di Barbara D’Urso». Scendendo nei dettagli delle dinamiche, il Gf Vip, mentre ti trovi “segregato” nella “Casa”, funziona più o meno così, una voce ti chiama e ti dice: come sei bello, come sei bravo, splendida la caponata che hai preparato, ci piacerebbe molto assaggiarla, complimenti! Seguono gli Applausi. Un attimo dopo richiamano e aggiungono: a proposito, c’è un articolo dove, metti, tua cugina racconta che fai i pompini senza cuore! Tu a quel punto ritieni si tratti di una frase consegnata unicamente a te, nel cuore del “Confessionale”, invece, illuso, l’hanno sentita tutti. Il semplice, a questo punto, dichiara a sé stesso: non posso essere sputtanato davanti all’Italia intera. L’uomo di mondo invece, lo scrittore, l’intellettuale, il vero radical chic che nulla teme, cavalca ciò che altri riterrebbero un insulto dicendo che, sì, effettivamente devo ancora imparare a farli meglio, ‘sti benedetti pompini. E così facendo abbatte perbenismo e fa trionfare l’autoironia. Inutile aggiungere che questo genere di battute, di paradossi, dentro il Gf Vip non vengono compresi, laggiù, forse l’ho già detto, ironia è parola oscura, forse anche Cultura, trovi soprattutto paccottiglia pop, da “Striscia” a Sanremo; citazioni di Toto Cutugno e Anna Tatangelo, l’orizzonte espressivo, poetico dei suoi partecipanti. Intanto, nonostante tu abbia cercato di dare il meglio di te, perfino raccontando alle “nutrie” e alle “scimmie urlatrici”, che so, Il maestro e Margherita di Bulgakov oppure come nasce il blu di Yves Klein o ancora in quanti modi può essere declinato il termine “anarchico”, dai colleghi neanche una parola, anzi, pensando ci bene, torna in mente un articolo apparso su Libero prima del tuo ingresso negli studi di Cinecittà: “L’intellettuale antiberlusconiano Fulvio Abbate va al Gf Vip: che brutta fine!” Viene a questo punto da pensarli, proprio i colleghi, mentre si sfregano le mani: noi l’abbiamo sempre pensato e detto che era un coglione, altro che… Nell’esatto istante in cui loro brillano così, tu sei dentro a spiegare l’espressionismo astratto e Jackson Pollock a quegli altri, non perché tu voglia educarli, anzi, sei arrivato con l’intenzione programmatica di abbassare il livello culturale, invece, pensa, hai già affrontato il fallimento, non tanto perché siano stati gli altri a farti regredire semmai perché nella “Casa”, l’ho già detto, devi fare i conti soprattutto con le emozioni e i concetti primari, la sopravvivenza tra cesso e cucina. Improvvisamente, a dispetto di tutto, sembra di raggiungere una consapevolezza che quand’eri fuori sembrava impossibile, una consapevolezza che forse i tuoi colleghi non toccheranno mai. Per esempio ti si chiarisce il senso esatto dell’Utopia. Ora tutto appare chiaro, terso, improvvisamente, osservando le “nutrie” e le “scimmie urlatrici” intente a litigare sulle uova, scopri di essere tornato pienamente, felicemente, eroticamente “comunista”. I cretini a questo punto penserebbero che stai rivalutando il gulag e il grumo di supponenza autoritaria machiavellica che serve a legittimare la “dittatura del proletariato”, invece, sempre d’improvviso, in te è tornata a balenare un pensiero di Marx: «I filosofi finora hanno interpretato il mondo ognuno a suo modo, si tratta adesso di trasformarlo». Ecco, senza il “Grande fratello Vip” non saresti arrivato al nocciolo secondo cui l’umanità, gli individui, anzi, le persone (non la “gente”, espressione insignificante) si dividono in categorie distinte: coloro che mettono in discussione l’esistente e quegli altri che invece l’esistente lo accolgono interamente, senza alcuna critica. Gli stessi per cui la merce più banale è comunque oro colato e intoccabile della società dello spettacolo; questi ultimi si nutrono di battute quali: “Dov’è Bugo?”, “La Luna nera!!!!”. Alla fine, esci dalla Casa nuovamente “comunista”, nonostante avessi fatto di tutto per smettere: punture, clisteri, lozioni, e ogni altro genere di presidio medicale dialettico. È bastato un apparente nonnulla, semplicemente risiedere nella “Casa” per ritrovare coscienza delle cose, per comprendere, dai, mi voglio rovinare, il senso della complessità. Una volta tornato alla luce del quotidiano non più artificiale, pensi ai colleghi, agli intellettuali, li immagini in affanno al pensiero del prossimo Premio Strega o del Campiello, cacciatori di recensioni, in cerca di concetti profondi da pronunciare ai microfoni di Radio 3 Rai, al Festival di Mantova, o durante la rassegna editoriale che ha luogo alla “Nuvola” dell’Eur, alla serata finale al Ninfeo di Villa Giulia dove accorre il generone romano… Sappiano questi carissimi amici che il “Grande fratello Vip” è avventura assai più letteraria d’ogni altra occasione laureata che possa avvincerli. Dimenticavo: l’unico che abbia mostrato attenzione alla mia impresa è stato Sandro Veronesi, ci conosciamo da più di trent’anni, l’anno prossimo, magari, se ci prendono, torniamo insieme nella “Casa” di Cinecittà.
Fulvio Abbate per ilriformista.it il 16 ottobre 2020. Dopo avere letto in rete un’istruttiva bio di Tommaso Zorzi, concorrente principino di Monte Napoleone presso il Grande Fratello Vip in corso d’opera, spermatozoo d’oro della migliore Milano glam, già protagonista, su Mtv, di Riccanza, format per sfigati in attesa d’ogni possibile pioggia dorata, lo ammetto, mi sono ritrovato ancora di più “comunista” di quanto non lo fossi divenuto già uscendo, eliminato, dalla Casa. La sostanza emotiva ultima che mi ha fatto raggiungere l’ambito trono di spade trotskiste sormontato dalla bandiera rossa risiede esattamente in questa frase che consegna plasticamente il pedigree subculturale ulteriore del Zorzi: «Tommaso ha studiato a Londra ed è perfettamente inserito nel jet set italiano e internazionale. Da Settembre 2020 Zorzi diventa un concorrente ufficiale del Grande Fratello Vip 5. Inoltre Zorzi ha da poco trasferito alla newco House of Talent i suoi diritti di immagine e del proprio posizionamento artistico. Questo di fatto rappresenta un unicum in Italia: in House of Talent investe la media holding “the Hundred”, che come leggiamo dal sito è una Venture Capital per i talent dell’online entertainment. The Hundred è la Media Holding italiana che investe in entertainer e ne finanzia la crescita. In pratica come ci sono coloro che finanziano e investono nelle startup, The Hundred investe nei talenti dell’entertainment e il loro primo investimento è proprio Tommaso Zorzi. Questo modello di business è molto in voga negli Stati Uniti» (sic). Assimilate queste parole, ho pensato subito a me stesso, ai bookmakers che, fin da un istante prima che raggiungessi gli studi di Cinecittà, mi davano per sicuro morto, salma mediatica, anzi, garantivano che rispetto agli altri inquilini sarei testualmente “durato come un gatto in tangenziale”, subito passibile di eliminazione da parte del televoto. Così ragionando, ho ricordato una polemica tempo addietro avuta con Fedez e consorte Chiara Ferragni. Nero su bianco, lamentavo, da parte loro, messaggi di pura paccottiglia merceologica glam-pop. I commenti piccati dei fan, sostanzialmente esprimevano un solo concetto lindo: ma chi cazzo sei, tu che fai lo scrittore? Lo sai quanti milioni guadagnano ogni mese queste persone di cui ti permetti di parlar male?! Una risposta pronta a dimostrare quanto, in certo mondo giovanile griffato aspirante, appunto, alla “riccanza”, di più, alla stronzanza, il capitale delle idee va ritenuto irrilevante rispetto al capitale materiale, ossia monetario; immaginate carte di credito griffate “Louis Vuitton” e 730 “platinum plus”, con prenotazione obbligatoria. Personalmente, sono entrato nella casa del GF vip convinto di riuscire a raccontare qualcosa del mio mondo, restituendo così agli altri ospiti parte del mio sapere, forse anche un grammo di ironia. Ammetto di essermi sopravvalutato, convinto che il talento umano potesse abbattere il muro del silenzio acefalo delle “nutrie” indifferenti a qualcosa che non sia narrazione strettamente necessaria, interna alla Casa: colazione, palestra, cibo, liti, scazzi, battute penose, nuova lite sui posti a tavola, pigiama e infine preghiera serale, cose da sabba al “Billionaire”. Sopravvalutavo anche i miei trascorsi, c’è stato addirittura un momento nel quale, nonostante la complicità a tiratura comunque limitata della contessa Patrizia, unico punto luce di ironia nell’intero condominio, mi sono dovuto vergognare degli anni in cui, metti, avevo aperto un conto rateale all’Einaudi, primo libro acquistato: Marcuse, Eros e civiltà. Se solo me ne avessero dato il tempo, avrei pure voluto raccontare di quando proprio Marcuse, l’amico Herbert, dovette consolare il collega Theodor W. Adorno, dopo che questi, era il 1969, si trovò contestato da tre studentesse a seno scoperto. Evidentemente, nel bagaglio del marxismo, perfino nella sua variante Scuola di Francoforte, mancavano gli enzimi per rintuzzare la ribellione giovanile accompagnata dalla nudità liberatoria. E anch’io, ammetto, dentro la Casa mi sono sentito triste, solitario e alla fine, proprio come Adorno. Non voglio però farla troppo lunga, certe cose le ho già dette ampiamente nei giorni scorsi, una volta fuori. Intanto mi resta di far brillare Trotsky e la sua rivoluzione permanente di nuovo nel mio cuore, sì, lo so il discorso è più complesso, infatti non ho dimenticato l’episodio di Kronstadt, cioè la repressione da parte del potere bolscevico dei marinai del Baltico, tuttavia un grande cero devozionale alla sua cara memoria ho dovuto comunque accenderlo per rispondere alle “nutrie”. Nominando Trotsky torna subito in mente la pittrice messicana Frida Kahlo, di cui quest’ultimo fu sincero e tenero amante, rispettando in anticipo i dettami sentimentali che decenni dopo Fabio Concato avrebbe illustrato in un brano di sicuro successo. Molti lo ignorano, ma il “Profeta disarmato” era davvero fissato con la fica; racconta il suo segretario, Jean van Heijenoort, futuro logico-matematico, già militante della Quarta Internazionale laggiù in Messico, che pur di avvicinare una bella dirimpettaia, nottetempo, l’ex fondatore dell’Armata rossa utilizzava una scala, così da scavalcare il muro di cinta della casa fortificata di Coyoacán per raggiungere la preda, inutili le raccomandazioni delle guardie del corpo, lì a fargli notare quanto mettesse a repentaglio la sua stessa incolumità, agevolando i sicari di Stalin; alla fine sarà Ramon Mercader, prozio di Christian De Sica, ad assassinarlo con un colpo di piccozza sul cranio. Ecco, il tema Frida Kahlo, nel condominio del “Grande Fratello” non ho fatto in tempo ad affrontarlo, ho parlato, sì, di Pollock e di De Kooning con la Gregoraci, peccato però che Eli ignorasse tutto di Robert Motherwell, un gigante della pittura astratta… Ma su Frida Kahlo, mito iconico contemporaneo, caro pure a Madonna, neppure una parola; sono convinto che lo stesso Zorzi, il prediletto dal mercato degli influencer Tommaso, con il suo background colmo di paccottiglia pop, certamente ne sarà fan. Alle “nutrie” della Casa avrei spiegato che quest’ultima è un dettaglio insignificante nella storia dell’arte del secolo trascorso, e sono certo che sarebbe stata una battaglia inutile, persa, poiché, come recita un proverbio siciliano appreso dall’amico Dario Evola, docente di estetica: “A lavàrici ‘a tiesta o scieccu, si perdi timpu e grana”. Inutile pretendere di fare lo shampoo all’asino. Alla fine d’ogni storia, devo ringraziare Marco Lodola, artista luminosissimo, che ha realizzato proprio per me, come fosse un ex voto miracoloso, un ritratto di Trotsky in plexiglas e alogene, come d’abitudine nei suoi lavori. Il vecchio Leone appare in mezzo a un circo di personaggi che, come nel girotondo finale di “8½” di Fellini, mostra tutta la vita del mondo in un giorno, da Marylin ai Beatles, da Petrolini alla ragazza delle “Gitanes”, da Bowie-Aladdin a 2Pac a Mussolini e Evita Peron, almeno però, nel mezzo di un simile ininterrotto défilé ad ampio spettro popolare di massa giunge anche Trotsky, con la idea di rivoluzione, altro che l’orgoglio stronzo della sospirata “riccanza”. Essere orgogliosi che nessuna società di comunicazione spettacolare investirebbe un solo mezzo centesimo su di te; parafrasando uno slogan del maggio parigino 1968: “Siamo tutti indesiderabili”. Ma soprattutto orgogliosamente felici di esserlo. Siamo il nuovo proletariato impresentabile nella soap glamour.
Francesco Fredella per liberoquotidiano.it il 13 Ottobre 2020. Caschetto viola. Un nuovo look che stupisce tutti: Maria Teresa Ruta, sempre più ai ferri corti con Matilde Brandi, sfoggia una nuova pettinatura nel serale di lunedì del Grande Fratello Vip. "Ho altre sette parrucche", confessa al padrone di casa Alfonso Signorini raccontando di essere pronta a rimanere ancora nella casa. Secondo la Ruta i rapporti incrinati con la Brandi sarebbero legati ad un astio di lavoro. La Ruta dice di aver preso un lavoro che hanno tolto a Matilde. Sarà così? La Brandi nega. Ma attacca Maria Teresa.
Da tv.fanpage.it il 13 Ottobre 2020. Durante la nona puntata del Grande Fratello Vip 2020, la rivalità tra Maria Teresa Ruta e Matilde Brandi entra nel vivo. Nel corso della penultima puntata andata in onda, la conduttrice Rai aveva confessato di avere “soffiato” un lavoro alla collega, firmando un contratto per più puntate che non presupponesse la presenza di Matilde. In un’altra occasione, aveva parlato della Brandi come di una donna da “amiche e aperitivi”. Finita la puntata, Matilde si è sfogata in confessionale contro Maria Teresa: “Sono rimasta di merda, sono sincera. C’è una linea sottile che non si deve oltrepassare. Non si può permettere di offendere le mie amiche, i miei affetti. Ha detto delle cose cattive. La cagata l’ha fatta, ha fatto una figura di merda. Io penso che le mie amiche sono tutte incazzate. Vi amo, amiche mie. La dovete massacrare, ‘sta stronza”. “Ci sono rimasta meno male sul lavoro e più male sulle mie amiche, quando mi ha toccato loro mi è partita la giugulare. Quello che ho detto lo penso”, ha rivelato Matilde per spiegare le parole severe spese nel confessionale. Maria Teresa ha provato a stemperare la tensione: “È stata estrapolata una frase per metterci una contro l’altra. Ho detto che siamo profondamente diverse”. “No, tu hai detto che sono solo amiche e aperitivi”, l’ha attaccata ancora la coinquilina. In realtà, secondo Maria Teresa, si sarebbe spiegata male: No, ho detto che siamo profondamente diverse tanto che è dall’inizio del programma che tu mi nomini e io non ti ho mai nominato. Mi hai votata dalla prima volta, ma perché? Hai detto che ti aspetti che una donna della mia età sia un esempio, ma perché? Non puoi dire queste cazzatete davanti alle telecamere. Matilde specifica che la differenza con Maria Teresa starebbe nel differente modo di approcciarsi alle cose: “Ti ho nominato per i motivi che sai ma non ho tirato fuori cose vecchie. Perché mi hai detto quella cosa del lavoro? Potevi nominarmi. Io ti ho nominato perché non sei stata vera”. Antonella Elia, invece, ha sposato la causa della Ruta: “Io ritengo che nessuno di noi debba essere un esempio, che si debba avere il coraggio di essere se stessi. Tu mi piaci sempre di più Mariateresa, mi fai una tenerezza”.
E.C. per leggo.it il 24 ottobre 2020. Balotelli e la battuta a Dayane, Selvaggia Lucarelli contro Alfonso Signorini: «Il problema non è quel subumano di Mario, ma le risatine di sottofondo». A poche ore dall'ultima puntata del Grande Fratello Vip, la battuta infelice di Mario Balotelli nei confronti di Dayane Mello continua a far discutere. Selvaggia Lucarelli commenta la vicenda con un post al vetriolo su Facebook: «Non è tanto quel subumano di Balotelli che arriva tra le parolacce e fa una battuta squallida, imbarazzante, da convinto maschio alfa a una sua ex, ma le risatine di sottofondo. E Signorini che “Ahhhh hai capito Dayane?”, incapace di dirgli 'ma che schifezza hai detto?'. Del resto, come in altri show della domenica sera, questi sono i modelli con cui si sta bruciando il cervello a quella parte della popolazione che ci ride su, assieme a Signorini. E sempre nella stessa rete, in cui forse c’è qualche problema da risolvere. (ah, le scuse richieste dal conduttore dopo aver letto Twitter per poi dirgli "entra nella casa" non valgono)». Immediati i commenti dei fan di Selvaggia Lucarelli: «Che brutta figura». Il post fa il giro del web.
Da tgcom24.mediaset.it il 24 ottobre 2020. Doveva essere un’incursione serena e divertente per rivedere il fratello Enock, ma l’ingresso di Mario Balotelli al "Grande Fratello Vip 5" ha scatenato un vero e proprio polverone. Colpa di una frase sessista lanciata a Dayane Mello e sottolineata in trasmissione da Alfonso Signorini che ha chiesto allo sportivo di domandare scusa. Non è bastato e il mondo social è insorto tanto che SuperMario ha dovuto pubblicare una nota in cui spiega di non aver voluto offendere nessuno. “Ragazze chiedo scusa se qualcuno si è sentita offesa! Con Dayane ho una confidenza e un modo di parlare tale che potrebbe sembrare volgare ma le voglio un mondo di bene, anzi! Quindi basta fare le femministe o i maschilisti, chiedo scusa per chi si sente offesa ma se non conoscete i rapporti tra persone prima di giudicare informatevi! Ho due mamme, tre sorelle e una figlia, le donne sono la mia vita. Basta speculare sull’ignoto. Vi voglio bene” è il messaggio pubblicato su Instagram da Balotelli subito dopo la trasmissione. In diretta Mario Balotelli aveva precisato di non essere abituato a stare davanti ai riflettori. Lo stesso Signorini aveva rimarcato l’idea: "È come se fosse al bar con suo fratello". Durante la trasmissione il conduttore ha chiesto a Dayane Mello se avesse voluto Balotelli nella casa, lei ha risposto di sì. "Mario, Dayane ti vorrebbe lì dentro" ha detto quindi Signorini rivolgendosi a Balotelli. La risposta dello sportivo è stata di pessimo gusto e ha gelato il pubblico: "Mi vuole lì dentro poi dice basta, basta fa male". Dayane non ha commentato, mentre il calciatore ha chiarito che stava scherzando: "Dai che ti prendo in giro, mamma mia sorridi un po'. Ti voglio bene".
Anna Carluccio per tpi.it il 24 ottobre 2020. “Siete pronti con i pop-corn e le patatine?” Ha aperto così Alfonso Signorini la puntata di ieri sera del GfVip. Una puntata che, a dire il vero, come unico accompagnamento avrebbe richiesto un bel cocktail di antiacidi e digestivi. La serata è iniziata con l’annuncio roboante dell’arrivo di un ospite di quelli da far tremare Cinecittà: sua maestà Mario Balotelli. Sì, perché il calciatore bresciano, al momento senza una squadra, è ormai un abituè del reality di Canale 5. La sua missione a oggi non sono goal e coppe ma riuscire in un’impresa ancor più ardua: rendere visibile a milioni di italiani la presenza di suo fratello nel cast del programma. Da quando infatti ha varcato la famosa porta rossa, il buon Enock pare aver indossato il mantello dell’invisibilità di Harry Potter. Mai una presa di posizione, mai una dinamica che lo abbia visto non dico protagonista ma comprimario, ma che dico comprimario, comparsa. Zero. Ah no scusate, dimenticavo, c’è stato il litigio con Miriam Catania che una sera ha osato invitarlo con un po’ di insistenza a ballare suscitando la sua ira funesta al grido di “Non sono il tuo burattino!”. Brividi. Unico episodio in un mese e mezzo a suscitare una reazione del nostro, che non oso pensare come reagirebbe se mai la Milly nazionale un giorno avesse l’ardire di invitarlo “sotto le stelle”: Hulk scansate. A parte questo exploit ci troviamo di fronte a una prestazione di mimetismo tale da garantirgli di non essere a oggi mai stato nominato. Non è che sia insostituibile, è che te lo dimentichi. Almeno fino a quando, a cadenze regolari come una tassa da pagare, gli autori non decidono di ricordarci il motivo per cui il ragazzo è nella casa: ossia il suo illustre fratello. Una volta è il collegamento con Mario, una volta il tweet di Mario, un’altra il videomessaggio di Mario, e potevano forse privarci di una sua incursione nella casa in carne e ossa? Ieri il fatidico momento è arrivato. Signorini per tutta la serata ha continuato a ricordarcelo con proclami sobri e misurati del tipo “Sta per accadere una cosa incredibile” con tanto di striscia che scorreva in sovrimpressione a preannunciare “Enock non sa che sta per incontrare suo fratello Mario Balotelli”. Poi finalmente Super Mario appare davanti alla casa e il conduttore gli domanda: “Come lo vedi Enock?”. E qui penso che tolto il “come” la domanda sarebbe stata perfetta. La risposta poi è così avvincente da ricordarmi i commenti generalgenerici da dopopartita e già pregusto le elettrizzanti emozioni che ci regalerà l’imminente incontro. Ancora non so che tra poco rimpiangerò questo momento. Poco dopo Enock viene chiamato in confessionale per un motivo del tutto inusuale. Qualcosa del tipo: “Ma parliamo di te: quanto è importante Mario nella tua vita?”. Un copione visto e rivisto ma stavolta il fratellone famoso è in giardino. Il concorrente va fuori, i due si guardano, ridono, e superMario ci regala le attese emozioni rivolgendosi al fratello con una sequenza che suona pressappoco così: “Vaffanculo” – risate – “Scemo” – risate – “Quanto sei stupido” – risate – “Oh come stai?” – ovviamente risate. A quel punto pensa bene di fare una videochiamata dal suo cellulare per far salutare Enock ai genitori: noi a casa non sentiamo né vediamo nulla, Enock non sente nulla, in studio non capiscono nulla. Poi finalmente la videochiamata finisce. Ma il supplizio ancora no. Tra una risata e l’altra il calciatore si lascia scappare “Ho bevuto tre gin, sto malissimo”. Ma sapessi noi Mario. Poi Balotelli si siede e pensa bene di leggere al fratello e a milioni di spettatori l’elenco di amici, parenti e conoscenti che lo salutano da fuori. Roba che mi sono trovata a rimpiangere l’incursione nella casa di Antonio Zequila della scorsa settimana. Così è un po’ troppo persino per Signorini, che cerca di dare un senso a quel momento. “Mario, tuo fratello ha detto che non potrebbe vivere senza di te, che sei la sua gamba destra”. Risate (ma perché?) – “E io sono la sua gamba sinistra” – risate. Il conduttore ci riprova: “Raccontami qualcosa di voi”; il calciatore glissa: “Sai che io sono qui solo per mio fratello…”. E lo sappiamo bene. E pensa un po’, lui è lì solo per te. A quel punto persino Signorini azzarda un “Eh lo so ma siamo in televisione…” e così, alla ricerca disperata di un argomento, chiede agli inquilini se vorrebbero Balotelli nella casa. Tutti d’accordo compresa Dayane Mello: “Mario – dice Alfonso guidando a fari spenti nella notte – hai sentito cosa ti ha detto Dayane? Che ti vuole dentro, cosa rispondi?”. E qui arriva l’emozione che Signorini ci aveva a lungo promesso, peccato si tratti di sgomento. “Dayane mi vuole dentro e poi mi dice basta basta che mi fai male“. Sguardo atterrito dei concorrenti, breve silenzio e questo macigno di volgarità e sessismo resta lì, piazzato sul nostro stomaco, mentre il terrificante siparietto continua con un Balotelli che rimprovera il fratello per i suoi capelli e chiede incredulo come sia possibile che lì dentro non abbiano un parrucchiere. Roba da non dormirci la notte in effetti. Il tempo di un’altra uscita delicatissima (“Io so’ Siffredi, ce l’ho più grosso” rivolto a Francesco Oppini”) e finalmente l’agonia finisce. Ma solo momentaneamente perché circa un’ora dopo ci ritroviamo il soave oratore nella casa a sorseggiare un drink per il gran finale. A quel punto Signorini con faccia seria, certamente avvisato della bufera che si stava scatenando sul web, comunica: “Mario, che ha regalato a tutti una grande emozione (sì, ha detto proprio così), ha fatto una battuta molto sgradevole e fuori luogo su Dayane e vorrei chiedesse scusa”. “Non so di cosa state parlando, chiedo scusa, Dayane lo sai che ti voglio bene” è la risposta. Ragazzi, qui parliamo di un programma che ha visto botolare gente che si è lasciata scappare una mezza bestemmia alle 3 di notte davanti a un pubblico di 30 persone e che l’anno scorso ha crocifisso in prima serata Salvo Veneziano per delle frasi volgari e sessiste del medesimo livello, spedendo lui e i suoi compagni in un Centro antiviolenza. Stavolta no, davanti a cotanto personaggio la pratica si risolve con una tiratina d’orecchie all’una di notte e voilà, la pantomima è servita: la cosa importante è che ora Supermario possa brindare coi vipponi. Vi faccio compagnia anche io da casa, con una Citrosodina doppia.
Da adnkronos.com il 24 ottobre 2020. Dopo quanto accaduto ieri nel corso del Grande Fratello Vip, il Codacons chiede la chiusura anticipata della trasmissione e presenta un esposto all’Agcom affinché sia elevata una sanzione nei confronti di Mediaset. Al centro della vicenda "le battute sessiste e volgari ai danni della concorrente Dayane Mello da parte del calciatore Mario Balotelli". "Stavolta è stato superato ogni limite e non bastano certo le scuse del giocatore per cancellare quanto avvenuto -spiega il presidente Carlo Rienzi-. Trasmissioni come il Gf Vip non sono solo estremamente diseducative, ma anche potenzialmente pericolose perché lanciano messaggi sbagliati ai giovani e li inducono a comportamenti sbagliati. Non c’è da meravigliarsi se in Italia crescono gli episodi di bullismo e violenza, specie contro le donne, considerato che la tv generalista diffonde sempre più spesso messaggi violenti, sessisti e volgari". Pertanto il Codacons "chiede ai vertici Mediaset di disporre la chiusura immediata del programma, e presenterà lunedì un esposto contro il Gf Vip chiedendo di aprire una istruttoria ed elevare una salata sanzione contro l’azienda".
"Sono ben messo e lei mi scrive" Ma a chi mancava Balotelli in tv? Mario Balotelli nella casa del Grande Fratello si è esibito in una sequela di battute di cattivo gusto ed evitabili, ecco perché è il nostro personaggio della settimana. Francesca Galici, Lunedì 26/10/2020 su Il Giornale. Cosa spinge un calciatore come Mario Balotelli a entrare nella casa del Grande Fratello per regalare al pubblico uno spettacolo così indecoroso? Qualcuno può pensare i soldi ma non è certo il cachet come ospite di un reality a cambiare la vita a uno come lui. La produzione l'ha chiamato per fare una sorpresa a suo fratello Enock, concorrente di questa edizione. Ma una semplice apparizione si è trasformata in un teatrino grottesco, nel quale al calciatore è stato concesso l'insulto libero... E davvero sentivamo il bisogno di sapere che Balotelli ce l'ha più lungo di Francesco Oppini? Chiedo. Che Mario Balotelli non sia una cima non lo scopriamo certo adesso, la sua storia calcistica parla da sola. Madre natura con lui è stata molto generosa regalandogli un grande talento nei piedi ma per altro è andata al risparmio. Il risultato è che, ad appena 30 anni, Mario Balotelli non è conteso da i top club e non ha ancora una squadra in cui giocare questa stagione. Da lui non ci si poteva certo aspettare la declamazione dei versi omerici nella Casa. Nessuno si sarebbe mai sognato di chiedergli tanto, ma almeno un po' di buon senso sarebbe stato auspicabile. Quello sì. D'altronde, Mario Balotelli è più famoso per le sue sregolatezze, che qualcuno bolla come cazzate, piuttosto che per le sue prodezze sui campi da calcio. È stato più volte sui giornali per le sue tormentate vicende amorose, piuttosto che per gol memorabili. Si ricordano di più le sue intemperanze che non le partecipazioni alle gare ufficiali con la maglia della Nazionale italiana. Ça va sans dire...Da dove partire per cercare di spiegare cosa è riuscito a far uscire dalla bocca Mario Balotelli in venti minuti abbondanti all'interno della Casa? Forse da: "Ho bevuto tre gin, sto malissimo". Ecco, potrebbe bastare questo per capire poi il seguito ma invece no, è giusto andare avanti. Oltre al fratello, Mario Balotelli nella Casa ha ritrovato Dayane Mello, una delle tante sue ex. Nessun convenevole tra loro ma un'unica, evitabile, interazione. Alla domanda di Alfonso Signorini sull'eventuale ingresso del suo ex nella Casa, la ragazza non ha detto di no. Ovviamente, Balotelli non ha sentito la risposta della ragazza, era impegnato a chiacchierare col fratello, mica può stare concentrato su quello che gli accade attorno, lui è superiore. "Mario, tu non te ne sei accorto ma Dayane ti ha appena invitato come concorrente nella casa del Grande Fratello. Ti vuole lì dentro", sottolinea il conduttore. Balotelli in quel momento poteva rispondere in decine di modi diversi, ma ha scelto il peggiore: "Mi vuole lì dentro però poi dice 'basta, basta, mi fai male'". Non ha riso nessuno alla battuta del calciatore. Pochi minuti prima, però, Mario Balotelli si era esibito in un'altra battuta di cattivo gusto nel parlare con la contessa de Blanck. "Dopo la mezzanotte o si dorme o si fotte", ha esclamato la donna, riproponendo uno dei tormentoni della Casa. E Balotelli cosa risponde? "Sì ma qua siete tutti checche". Una battutona proprio, che fa il paio con quella successiva, rivolta a Francesco Oppini. Alla domanda sul perché Cristina, fidanzata del figlio di Alba Parietti, abbia scritto proprio a lui, Balotelli dà il meglio di sé: "Perché sono Rocco Siffredi e ce l'ho più grosso di te". Gne gne. Tra stereotipi sulle misure maschili, battute sessiste di infimo livello e offese agli omosessuali, Mario Balotelli non si è risparmiato. Ogni commento ulteriore sarebbe superfluo, inutile, degradante per chi lo fa. Un appunto, però, è importante. L'uscita di Mario Balotelli su Dayane Mello è stata indecente, ma lei successivamente non ha stigmatizzato quelle parole. Anzi, è corsa davanti al vetro col sorriso a 32 denti sussurrandogli "ti voglio bene" quando il calciatore, nonostante tutto, è rimasto in Casa per l'aperitivo. Anche lei non ha fatto una gran figura. Un po' di amor proprio e di orgoglio, cara Dayane, sarebbe stato apprezzato.
Fulvio Abbate per Dagospia il 26 ottobre 2020. Nel caso ai più fosse sfuggito, si sappia che al “Grande Fratello Vip” si prega con trasporto e cristiana convinzione, forse anche olistica, diportistica. Accade a notte inoltrata, prima che le luci della Casa siano spente dall’Entità che governa il Gioco, celata dietro gli specchi, le stesse lampade che la contessa Patrizia De Blanck, forte della propria verve di donna di mondo, ebbe così a bollare: “Sembrano i fari di Dachau!”. Ecco che d’abitudine Elisabetta Gregoraci, nell’esatto istante che segue il termine dell’estenuante giornata condominiale, raccoglie in preghiera i suoi fedeli, quasi d'imperio, come in una gita al santuario. Accade nella “stanza arancione”. Nulla a che vedere con la toccante “camera verde” del film omonimo di Truffaut, si sappia anche questo. Parliamo, va da sé, di una preghiera rigorosamente cattolica tuttavia con possibili stroboscopiche fughe nell'educandato new-age, tra ciglia finte, maschere struccanti, pigiami di seta, cuoricini appuntato sulle testiere dei letti. Salmi sincretici, da religione ulteriore, forse perfino glamour, dalla quale si spande, idealmente, la luce del “Billionaire”, accompagnata dall’altrettanto virtuale apparizione di Cristo-Briatore, dispensatore di grazia munifica, materiale, purezza dei benefit. Sembra infatti che Gregoraci sia circonfusa proprio da quel chiarore smart, pare ancora che i residenti maschi della Casa ne ammirino le virtù, il fatto stesso che sia stata toccata dalla grazia degli agi giunti da un signore che consente alla propria donna di sentirsi regina, molto di più, Cleopatra a Montecarlo. Si raccolgono in preghiera inginocchiati, accovacciati, accroccati, sprofondati, convinti sui piumoni dello sponsor, dapprima un “Padre nostro che sei nei cieli…”, recitato con convinzione, con enfasi, palpebre socchiuse, mani giunte, quasi ad affermare che il divino, il sacro, abbracciano ogni angolo di mondo, figuriamoci se mai escluderebbero il “Grande Fratello Vip”, sebbene si tratti di mondanissimo format televisivo Endemol-Mediaset. È una preghiera assoluta e insieme, temo, scaramantica, in filigrana rivolta addirittura a un’entità superiore: il Signore dei miracoli impossibili, Salvatore dalle “nomination”, quel Dio che rende “immuni”. Categorie ludiche assimilabili al tema della sopravvivenza all’interno del guscio prefabbricato della Casa, così da concedere al graziato la possibilità di raggiungere nuove occasioni, ulteriore possibilità di litigare su uova e yogurt, fino alla vittoria, abbozzare perfino davanti al familismo analfabeta del fratello del calciatore Balotelli che risponde piccato davanti all'evidenza dell'oscenità maschilista da spogliatoio pronunciata dal consanguineo. Una preghiera parrocchiale sotto casa e insieme sincretica, un po’ come certi rituali dell’Africa già dominata dai francesi, dove perfino la Citroën “Ds Pallas” della moglie del governatore, nella trance, assume un significato taumaturgico, riappare come presenza mariana. Subito fuori, lungo ciò che Pasolini definiva “l’elegiaca Tuscolana”, è notte, sembra così che la preghiera debba seppellire sotto un manto celeste le maldicenze, le liti, gli equivoci, gli scazzi, gli “urli” scimmieschi, l'ipocrisia, l'analfabetismo civico e civile, l'indifferenza verso la cultura ad esclusione della paccottiglia pop, le banalità pronunciate dal "timballo umano" dei concorrenti, sputati, smozzicati e ancora urlati nel corso della giornata; una preghiera che dimostri, in fondo in fondo, quanto i prescelti del “Grande Fratello Vip” abbiano “un’anima”, e poco importa che fino a un istante prima si siano contesi due-tre uova da riservare altrimenti ai muscoli dei signori Pretelli e Zelletta. Questi ultimi, mansueti, agnus dei, si raccolgono ora nuovamente intorno a Eli, così come le pecore evangeliche farebbero con l’asino Balthazar nel capolavoro di Robert Bresson, con la differenza che il Gfvip nulla ha a che fare con le parole del sacro, assomigliando tutto, semmai, a una soap guatemalteca. Se fosse però un ex-voto, in alto, figura salvifica e salvatrice, troveremmo proprio la Gregoraci, così come Pasolini volle Silvana Mangano come Madonna nella ricostruzione giottesca del suo “Decamerone”, allo stesso modo, o quasi, il Gfvip si fa bastare l’ex signora Briatore. Ciò non toglie che la nostra starebbe ugualmente bene su un ex-voto di Dino Buzzati, lo scrittore che meglio d’ogni altro è riuscito a raccontare gli abissi del desiderio sessuale nel romanzo “Un amore”, e non è questo un riferimento ai tormenti del supplice Pierpaolo rispetto alla Cleopatra che “non gliela darà mai” (cit.). Implacabile, su Twitter, tale Chià, assidua del programma, chiosa: “Non ho capito che cosa si contempla nel quarto mistero: il ritorno di Elisabetta a Montecarlo?” All’occorrenza, c’è anche il rosario che Gabriel Garko ebbe a donare a Adua-Rosalinda giungendo dolente nel giardino della Casa per confessarsi infine gay.
Da today.it il 26 ottobre 2020. Tommaso Zorzi è senza dubbio il concorrente che sta attirando di più l'attenzione fuori - e all'interno - della casa del “Grande Fratello Vip”. E così oggi tra i suoi fan d'eccezione spunta Alessandro Cecchi Paone, giornalista e divulgatore scientifico dichiaratamente omosessuale, che lascia intendere di apprezzare notevolmente l'influencer. Intervistato dal settimanale Chi, Cecchi Paone dichiara di tifare per Tommaso. "Zorzi, ah se mi piace! - esclama a domanda diretta - Quando Tommaso venne fuori con Riccanza, io, come dire, gli manifestai tutto il mio interesse. Ci siamo incontrati in alcuni programmi e gli ho dato anche qualche consiglio. In quel periodo lui assumeva dei tratti caricaturali che per uno della sua estrazione e della sua eleganza erano aspetti assai negativi. In quel momento aveva una sorta di delirio, non di onnipotenza, ma di onnipresenza. E io da un lato gli facevo capire che mi piaceva, dall’altro che mi interessava aiutare un ragazzo il cui limite è non avere il senso del limite". Col tempo Zorzi avrebbe fatto propri i consigli del volto tv: "Al GF Vip mi pare più misurato, come se avesse trovato un buon consigliere che, ahimè, non sono io", aggiunge, senza nascondere un po' di malizia. Nel frattempo il ragazzo ha perso la testa per un coinquilino, Francesco Oppini, conduttore e figlio di Alba Parietti, che però non sembra ricambiare in alcun modo l'interesse. Chissà che presto Cecchi Paone non gli farà visita nel loft di Cinecittà per consolarlo...
Giovanni Mercadante sul suo sito, giovannimercadante.it (post del 2018 ma validissimo oggi). È il 2001. È in corso la serata di gala dei Telegatti, condotta da Gerry Scotti e Maria De Filippi. Un Alessandro Cecchi Paone furioso contesta il reality Grande Fratello perché inserito nella stessa categoria -“costume e cultura”- della sua trasmissione a divulgazione scientifica “La Macchina del Tempo”. A distanza di 17 anni, Cecchi Paone stasera entrerà nella casa del Grande Fratello VIP mentre il tipo che lo sta fissando alle sue spalle in questa foto, allora inquilino della casa, oggi è il portavoce del Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana. Rocco Casalino.
Alba Parietti al GF Vip ma il web si scatena: "Per due soldi passi sopra la volontà di Francesco". La Parietti è pronta a varcare la porta rossa della Casa ma il popolo social la critica chiedendole di fare un passo indietro e lasciare la scena al figlio. Novella Toloni, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. La voce era nell'aria da settimane ma l'ufficialità è arrivata solo ora. Alba Parietti è pronta a fare il suo ingresso nella casa del Grande Fratello Vip per ricongiungersi con il figlio Francesco Oppini. La sua partecipazione, non come concorrente ma come ospite, sta però scaldando la scena social. In molti, infatti, non vedono di buon occhio l'ingresso nel reality della Parietti abituata a prendersi la scena anche quando toccherebbe al figlio. Sin dall'inizio della sua avventura al Grande Fratello Vip Francesco Oppini non ha mai fatto mistero di non gradire l'intromissione della madre nel suo percorso televisivo. La telefonata fatta da Alba Parietti in diretta in una delle prime puntate del programma lo aveva già turbato, ma questa volta l'ingresso della madre non sarebbe una sorpresa. Pare infatti che sia stato lo stesso Oppini a richiedere la visita della mamma nella Casa, come già era successo con la madre di Massimiliano Morra. Alba Parietti ha così annunciato che questa sera, nella diretta del lunedì, farà il suo ingresso al Grande Fratello Vip. La showgirl ha scelto di farlo pubblicando un post sulla sua pagina Instagram che se da una parte ha incontrato il favore dei suoi fan, dall'altra ha turbato i sostenitori di Francesco. Per molti, infatti, la presenza "ingombrante" della mamma potrebbe essere di impaccio per Oppini, che in questa avventura televisiva sta mettendo tutto se stesso nonostante i cognomi dei suoi genitori. E così, ancora una volta, Alba Parietti è finita al centro di una pesante polemica: "Nooo ma perché per due soldi devi passare sopra le volontà di Francesco!!!!", "Non c'è la fa proprio a stare al suo posto questa donna...", "Non ce la fa proprio a non ostacolare e a non mettere difficoltà suo figlio...Francesco ha detto più volte (anche stamattina) che non vuole che Lei metta bocca nelle dinamiche del gioco e che l'ha messo in imbarazzo, perché continua??", "Non avevamo dubbi", "Sempre in mezzo alle p...e stai, che peso". La Parietti, però, a farsi accusare di protagonismo non ci sta e a uno dei commenti irriverenti ha replicato seccata: "Veramente lo ha chiesto lui e io faccio ciò ha chiesto e desidera oltre al mio lavoro". Non rimane che attendere la diretta per vedere quale sarà la reazione di Francesco Oppini.
Gf Vip, Stefano Bettarini squalificato a 72 ore dal suo ingresso per una bestemmia. Il Grande Fratello è stato implacabile: Stefano Bettarini è stato squalificato dal gioco per aver bestemmiato all'interno della Casa. Francesca Galici, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. Questa edizione del Grande Fratello Vip sarà ricordata soprattutto per le tante squalifiche ed esclusioni, alcune a tempo di record. L'ultima in ordine cronologico è quella di Stefano Bettarini, entrato nella Casa venerdì notte e già rimandato a casa per aver bestemmiato durante una chiacchierata in giardino con gli altri concorrenti domenica pomeriggio. Tralasciando l'esperienza flash di Flavia Vento, che è durata poco più di 24 ore in giorno prima di lasciare la Casa di Cinecittà per la nostalgia dei suoi cani, la squalifica di Stefano Bettarini è probabilmente la più veloce della storia del reality nel nostro Paese. L'esperienza di Stefano Bettarini al Grande Fratello non è mai stata fortunata. Durante il suo primo Grande Fratello Vip, il primo di questo tipo in Italia, l'ex calciatore finì nell'occhio del ciclone per alcune esternazioni irrispettose e poco eleganti nei confronti delle donne, in particolare le sue ex fidanzate. I fatti avvennero durante una conversazione con Clemente Russo ma solo per quest'ultimo vennero presi provvedimenti, in quanto appartenente al gruppo sportivo di un corpo militare. Stefano Bettarini proseguì nel suo percorso e raggiunse quasi la finale. Ora il ritorno in Casa, però, è stato probabilmente anche peggiore della sua prima esperienza. Non ripeteremo la bestemmia pronunciata in modo molto chiaro dall'ex calciatore, che poche ore fa pare si sia anche reso conto della sua scivolata e abbia espresso i suoi timori con i compagni. Nel frattempo, la sua fidanzata a Mattino5 ha cercato di difenderlo, sostenendo che si tratta solo di un intercalare tipico di Bettarini, che pare sia molto religioso tanto da pregare ogni notte prima di andare a letto. "Mi sono reso conto immediatamente di cosa mi era sfuggito. È un modo che ho a dire a volte cose che magari non penso. Sono una persona credente, non voglio offendere o mancare di rispetto. Qui purtroppo non si sa mai come parlare o esprimersi, quindi a volte bisogna prendere il bello e il brutto", ha spiegato Stefano Bettarini. Ma quest'anno al Grande Fratello Vip c'è il precedente di Denis Dosio, che per una bestemmia molto meno nitida e pronunciata a tarda notte, che anche in quel caso è stato sostenuto fosse un intercalare, è stato squalificato dal gioco. La legge è uguale per tutti e così, anche a Bettarini, è toccata la stessa sorte. Implacabile il comunicato stampa letto da Alfonso Signorini: "Le tue parole, come avrai capito hanno violato le regole e lo spirito stesso del Grande Fratello. In casi come questi la decisione è inevitabile. Stefano sei ufficialmente squalificato dal gioco".
Grande Fratello Vip, Stefano Bettarini sconcertante dopo la squalifica: "Ecco perché ho bestemmiato". Libero Quotidiano il 10 novembre 2020. Tutto come previsto al Grande Fratello Vip: scatta la squalifica per Stefano Bettarini, cacciato a tempo record da Alfonso Signorini dallo show di Canale 5 causa bestemmia. La comunicazione della squalifica è arrivata nelle primissime battute della puntata di lunedì 9 novembre. "Le tue parole hanno violato le regole e lo spirito del GF... In casi come questi la decisione è inevitabile: sei ufficialmente squalificato dal gioco", gli ha comunicato Signorini, per poi intimargli di tagliare i tempi di uscita dalla casa, "devi andartene al più presto". Dunque, Bettarini è arrivato in studio. Si è scusato con chi si è sentito offeso dalle sue parole. Poi si è prodotto in una peculiare "giustificazione" alla bestemmia. "Ho fatto otto reality, tra concorrente e inviato. Non mi era mai successo, questo dimostra che quello non è il mio modo di esprimersi. Ma dopo quel tutto tempo passato in albergo... ero come un leone in gabbia. Ero molto teso", ha spiegato Bettarini. Il riferimento è al fatto che dopo la positività di Selvaggia Roma, rilevata a poche ore dall'ingresso nella casa di lei, Bettarini e Paolo Brosio, Bettarini e gli altri concorrenti sono stati costretti a raddoppiare la quarantena in albergo. Dunque si sarebbe "innervosito" e quindi la bestemmia, sfuggita causa eccesso di tensione. Sarà...
Anticipazione da “Oggi” l'11 novembre 2020. Sul settimanale OGGI, in edicola da domani, Michela Morellato replica alle parole del giornalista sportivo Amedeo Goria in merito alle molestie sessuali di cui fu accusato, nel 2005. «È stato un incubo, ma è una vicenda archiviata. Le accuse erano infondate ma ci fu una strumentalizzazione televisiva», ha detto lui. «Basterebbe andare a rivedere quel famoso servizio delle Iene. Era il 2005: io non feci il nome del molestatore. Furono i giornalisti… Se le accuse erano del tutto infondate bisognerebbe capire il perché mi sia stato risarcito il danno morale con una cifra impegnativa… Accettai quello sporco denaro ma ancora oggi mi pento di aver firmato quel patto. Forse allora era la decisione migliore che potessi prendere, consigliata dal mio legale».
Stefano Bettarini, la bestemmia al GF Vip e l'accusa: "Un Madoska per fare un punto di share in più". Libero Quotidiano il 13 novembre 2020. Tra Francesco Oppini e sua madre Alba Parietti il confronto - che tutti temevano diventasse di fuoco - si é trasformato. Al Grande Fratello Vip madre e figlio si sono mostrati molto uniti. Tutti hanno notato l’eleganza di Alba Parietti: il merito dei suoi nuovi outfit é tutto di Betta Guerreri che con la griffe Gio Guerreri rende Alba un’icona di stile.La Parietti sui social é molto attiva, difende suo figlio quando è nel giusto e lo attacca se dice frasi senza senso. Ma quando spunta quel bacio a stampo tra Francesco e Tommaso Zorzi lei non ha alcun dubbio. E dice: "Io sono fiera di questo bacio, perché io credo che il rapporto tra Tommy e Francesco ha una particolarità: è l'amore che c'è nell’amicizia.” Stefano Bettarini, accusato di aver bestemmiato e quindi squalificato, si scaglia contro il Grande Fratello Vip e sui social scrivo:”Non ho bestemmiato, non l’ho mai fatto e non lo farei mai. “Madoska” l’ho sentito dire spesso, per rabbia, per gioco, come intercalare. Lo uso e l’ho usato per quello che é, una storpiatura di un’altra parola che altrimenti sarebbe blasfemo pronunciare; una parola modificata nel gergo volgare proprio per evitare la censura sociale, per non risultare offensiva e imperdonabile. Più di tutto mancava proprio quello, l’intenzione di essere irriverente e irrispettoso verso la mia religione. Trovo perciò sproporzionata la “sanzione” e, dopo 21 giorni di quarantena e 5 tamponi, mi sento preso in giro; la pedina di un gioco al rialzo…Dello share.” Conosciuto per le sue intemperanze (ai tempi della serie Dracula lo studios lo pagava puntata dopo puntata, non avendo la certezza assoluta che si sarebbe presentato sul set il giorno dopo), Jonathan Rhys Meyers è stato arrestato per l’ennesima volta, dopo essere rimasto coinvolto in un piccolo incidente automobilistico a Malibu, in California. L’attore era ubriaco. Cauzione leggera di 5.000 dollari e rilascio quasi immediato. Sembra tornerá in un rehab. Cristiano Malgioglio entrerà al Grande Fratello Vip nelle vesti di concorrente. Lo ha comunicato Alfonso Signorini nell’ultima puntata di Casa Chi. Il conduttore del reality show di Canale 5 annuncia che entreranno nella casa ben nove nuovi vip. Il popolo sovrano di Instagram lo reclama. La regina “Malgy” tornerà sul luogo del delitto? Se lo fará, questa volta non sará da regina, ma da imperatrice. In occasione della Milano Wine Week appena conclusa Passione Gourmet è diventata protagonista e promotrice di un nuovo format al confine tra lo show cooking e il talent show di nome "Mezz’ ora di Passione:" divagazioni culinarie ed enologiche tra critico e cuoco. Un’ infilata di piccole perle enogastronomiche in cui Alberto Cauzzi , Orazio Vagnozzi e Davide Bertellini hanno dialogato con i più peculiari esponenti della Nuova Cucina Italiana. Fra gli altri i celebrity chef Felix Lo Basso ed Eugenio Boer protagonisti su La7 del nuovo programma di cucina "Senti chi mangia" condotto da Benedetta Parodi affiancata da un critico gastronomico d'eccezione come Andrea Grignaffini. In uno dei suoi ultimi video caricati social network Tik Tok che piace soprattutto ai giovani, Angela Favolosa Cubista si è recentemente scagliata contro Maria De Filippi. Un tempo, la “nonnina cubista” era sempre in tv e poi é sparita. La signora ha anzitutto puntualizzato di non aver mai percepito alcun cachet per partecipare alle trasmissioni di Maria De Filippi che la lanció. L’ha sfruttata e poi l’ha buttata via, ha detto. Per poi aggiungere che fanno tutti così, quel mondo è così: spietato e crudele. Ti prende, ti usa e, nel momento in cui smetti di suscitare interesse, ti liquida senza troppi complimenti. Quindi, per vendicarsi, Angela ha chiesto al suo pubblico perché a Uomini e Donne ora, il tempo di Covid, i partecipanti abbiano l’obbligo di ballare a stretto contatto fisico. Sicuramente Queen Mary se la ride. Vip. Stefania Orlando è stata nominata addirittura 4 volte nell’ultima puntata del GFVip. È una nomination a creare sospetti nei telespettatori e anche in studio. Tutte le ragazze hanno fatto la loro nomination usando le foto e soprattutto senza parlarsi. Antonella Elia subito ha notato qualcosa di strano e nella notte l’arcano si é svelato. “Io voto Stefania per una semplice cosa. L’altra volta abbiamo discusso, è stata un po’ maliziosa nei miei riguardi. Allora visto che stasera l’hanno nominata tutti la nomino pure io. Tanto uno in più o uno in meno non cambia molto”, ha detto la contessa che ha spiegato notte proprio alla Orlando di non aver rispettato le regole. A quanto pare, ha tenuto con se due foto aver infranto il regolamento e di aver tenuto due delle foto con sé. Visto che Orlando era giá stata votata tre volte lo ha fatto anche lei salvando Adua/Rosalinda. Squalifica in arrivo? Dayane Mello nella notte al GFVip ha ribadito perché ce l’abbia tanto con Stefano Bettarini: “Sai perché sono arrabbiata con quello? Io ero a L’Isola dei Famosi e lui fin da subito mi è piaciuto. Dopo che sono stata eliminata abbiamo passato del tempo in piscina insieme. Vedo dei movimenti strani col telefono. Poi mi ha portata a passeggiare al mare. Aveva tutto pianificato con i paparazzi. Senti Maria Teresa io ci vedo bene e lui aveva studiato tutto”. Ha riconfermato peró anche il fatto di “una botta e via” tra loro. Volete sapere perchè Alba Parietti e Franco Oppini presero la decisione di porre fine al matrimonio? Quando Francesco Oppini era anita un adolescente, Alba e Franco decisero di terminare il loro matrimonio. Quali soni i motivi? In primis, la rottura è stata dovuta alla differenza di età tra i due, che li portava ad avere stili di vita molto diversi.ci sarà stato dell’altro? Dirante la prova settimanale del GFVip? Massimiliano Morra si è ferito a un piede con una scheggia di vetro rimasta sul pavimento e i co-inquilini hanno subito capito si trattasse qualcosa di grave; impressionato dalla scena, Andrea Zelletta ha gridato a Massimiliano di non guardare, perché aveva l’osso fuori. Il medico é arrivato: niente punti, solo riposo. A nessuno è mai capitato di vedere la Regina Elisabetta II in disordine con i capelli spettinati e, alla fine, il suo segreto è stato svelato: nessuna parrucca o hairstylist a corte, bensì solo tanta pazienza ed esperienza. Alcuni dicono peró che appiccichi dei capelli ai lati dei cappelli... Giovanni Gastel, maestro fotografo che nella sua lunga carriera professionale ha ritratto artisti, cantanti, musicisti, politici, giornalisti, designer, cuochi, modelle, attrici, e Adele Ceraudo, artista che pone al centro della sua arte la figura della donna, nota per la sua eccellente tecnica di disegno con la Bic che l'ha resa famosa a livello internazionale come Lady Bic, si sono incontrati per scambiarsi un prezioso regalo tra due artisti: scatti fotografici per Adele Ceraudo e un ritratto a penna Bic per Giovanni Gastel.Un regalo simbolico che conferma la loro amicizia, la stima reciproca, la condivisione e la passione per il loro lavoro: scatti e tratti che ritraggono l’anima dei loro soggetti. Gastel, fotografo di fama internazionale, è un autore di scatti che imprime nei suoi ritratti l’eleganza e la gentilezza che contraddistinguono. “Condividere idee, pensieri e riflessioni mi è sempre piaciuto. Nella mia vita ho avuto l’occasione di incontrare moltissimi personaggi che, seppure con esperienze diverse dalle mie, hanno saputo comunicarmi qualcosa di unico. Per questo motivo, sono particolarmente contento di questo “scambio” con Adele”. «Viviamo così, con un termometro puntato alle tempie. Siamo senza via di scampo. Ma non siamo soli». Sono le parole di Daniele Frontoni, abile pizzaiolo e instancabile creativo, anche lui ostaggio della crisi da Covid-19 e degli ultimi DPCM varati dal governo. Un ristoratore come tanti, ma con un passato come pochi. Si può dire che la pizza romana sia nata tra le mura di Casa Frontoni, una famiglia di veri e propri artisti della pizza, così come della fotografia, del cinema e del teatro. Daniele, è infatti nipote del fotografo delle dive Angelo Frontoni e, suo nonno, è il grande attore e cantante Enzo Cerusico, il quale gli ripeteva sempre che "l'arte è il motore del mondo e che noi, siamo gli ingranaggi". Stimoli artistici che hanno fatto crescere il giovane Daniele a base di una "pizza arte e farina", alimentandone la fantasia con cui oggi è pronto a denunciare uno stato d'animo comune alla sua categoria. Lo fa con una protesta silenziosa, fatta di gesti cristallizzati dall'obiettivo di SbanMattia Photography - Mattia Mirenda, condivisi in rete dalla campagna fotografica disponibile sui canali social di Pizzeria Frontoni e accompagnata dagli hashtag #iosonofrontoni , #vendicheremoigiornitriste #lamiaprotestasileziosa. Dodici scatti con cui esprimere tutta la frustrazione, l'amarezza e anche quel pizzico di rabbia per aver investito negli adeguamenti di un locale che oggi resterà chiuso. Dodici scatti in grado di parlare e dire ogni cosa, perché "uno scatto ben realizzato parla da solo", come gli ripeteva suo zio, Angelo Frontoni, testimone con i suoi scatti de La Dolce Vita. Le foto di Daniele e SbanMattia sono scattate all'interno di una ex torrefazione. Nasce una campagna di sensibilizzazione Industria per l’Arte, e per la Musica promossa da Gpi Group e Duetti Packaging, che in un momento così difficile , hanno deciso di dare visibilità a settori che soffrono più di altri .Questo progetto nasce con l’intento di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni, nei confronti di settori che in questo momento difficile per tutti, stanno soffrendo in particolar modo, e non prendendo solo in considerazione i “Front Man/Woman”, ma soprattutto il mondo legato al “backstage”. Mettere il proprio volto in favore di qualcosa in cui si crede, è la prima regola per far si che il cambiamento avvenga. Nel corso del 2021 le due aziende venete insieme al responsabile della comunicazione Alessio Musella, porteranno avanti progetti che possano includere , Arte, Musica e Fotografia, che possano permettere a questi universi, di avere maggior visibilità nazionale e internazionale, anche attraverso la trasversalità della comunicazione, che li vedrà protagonisti di situazioni apparentemente lontane , un esempio su tutto, quello che con GPI Group e Duetti Packaging, stanno portando avanti, sostituendo le musiche dei video aziendali con brani di gruppi e musicisti , video che verranno inevitabilmente inviati world wide, e una prima campagna di comunicazione che mette in evidenza sculture appartenenti alla cultura artistica mondiale, che sono solo il preludio per coinvolgimento a breve di Artisti contemporanei. Aderire è semplice, come dice il nome della Campagna “IO CI SONO”, inviare una foto e rispondere a 3 semplici domande inerenti all’iniziativa. Molti sono i professionisti di questi mondi che hanno già aderito all’iniziativa Artisti , musicisti, fotografi , tra i quali, Raimondo Rossi, che è stato il primo, Numa Echos Barbara Delmastro Meoni alias Lady Tabata, Laboratorio Saccardi, Mauro Moriconi, Ivan Damiano Rota, i Rito Pagano, Daniele Vannini , Arianna Ellero, st’A, solo per citarne alcuni, ma anche gente che apprezza questi mondi pur non facendone direttamente parte. Diamo voce alla Musica e all’Arte, senza le quali sicuramente risulterebbe più triste vivere.
Matilde Brandi è un fiume in piena (e ne ha per tutti): "Maria Teresa è una stratega". Intervista a cuore aperto con Matilde Brandi una delle donne del Grande Fratello Vip. Roberta Damiata, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. È indaffaratissima Matilde Brandi. Dopo la sua uscita dalla casa del Grande Fratello Vip è ospite in molte trasmissioni sia come opinionista sia da intervistata sulla sua esperienza nel reality. Proprio come abbiamo fatto noi, in un orario, quello di cena, in cui dopo essersi rassicurata che le sue due adorate gemelle e suo marito avessero mangiato si rilassa lasciandosi andare al racconto. È un fiume in piena, con il suo inconfondibile accento romano annulla senza neanche rendersene conto tutte le domande che avevamo preparato, andando a ruota libera. Parlando si infervora quando ricorda alcuni episodi che l’hanno fatta arrabbiare come il “tradimento”. “Preferisco però dire scelta”, dice della sua (ex) amica Stefania Orlando che si è alleata con Tommaso Zorzi. Ma torna a sorridere parlando invece dei suoi “amici” lasciati nella Casa tra cui Elisabetta Gregoraci con cui è sicura si ritroverà anche una volta finito il reality. Saltata quindi la scaletta, cominciamo a parlare della polemica che ha investito Amedeo Goria, “accusato” di aver chiamato in una intervista la figlia bipolare, facendo infuriare la ex moglie Maria Teresa Ruta, concorrente insieme alla figlia Guenda del Grande Fratello Vip.
“Onestamente a me non è sembrato un padre folle Amedeo Goria, piuttosto un genitore che ha esagerato su alcune cose. Questo attacco nei suoi confronti mi sembra esagerato. Sicuramente avrà sbagliato soprattutto nel dire la parola bipolare, ma credo che lui abbia voluto intendere che Guenda è un po’ così: un momento è felice, l’altro magari piange, ma tutti siamo un po’ così, non mi sembra una cosa così grave. Credo si sia posto l’accento più su una parola che sul contesto generale dell’intervista che ha rilasciato”.
Come è stata per lei l’esperienza del Grande Fratello Vip?
“Bellissima anche se a tratti anche crudele. Lì dentro si vive come in un tritacarne dove tutto è amplificato e anche un piccolo gesto assume una valenza enorme. È normale che spesso saltano i meccanismi e i nervi. Le sensibilità di ognuno di noi era messa a dura prova. Nonostante questo, però, è stata un’esperienza positiva perché ho avuto modo di rivalutare alcune cose e anche di ridimensionare il pensiero su alcune persone”.
Prima di entrare ha pensato a come avrebbe affrontato il reality?
“No, sono entrata portandomi dietro soltanto le cose che per me sono fondamentali nella vita, la coerenza, l’amicizia e l’essere sempre vera sia nel male che nel bene, pagandone anche le spese. Al contrario c’erano dei personaggi lì dentro che avevano già fatto alcuni reality e quindi sapevano bene come muoversi”.
Se avesse la possibilità di rientrare nella Casa?
“Pur rimanendo sempre me stessa è chiaro con non rifarei questo reality nella modalità in cui l’ho fatto ora, perché ho già questa esperienza vissuta alle spalle. Anche se, su alcune cose non transigo come la vita privata. Io della mia ne ho parlato pochissimo anche se so che alle persone fuori piace, per questo non ho condiviso l’atteggiamento di Maria Teresa Ruta e di sua figlia Guenda. Penso che tutte le cose che hanno raccontato, anche avendole davvero vissute, sarebbe stato meglio parlarne fuori”.
Quindi ha ragione Maria Teresa a dire che siete diverse?
“Lo sottoscrivo e parlando di questo vorrei spiegare anche la mia accusa nei loro confronti di avere un copione. Loro conoscono esattamente i meccanismi che funzionano all’interno di un reality e sanno bene come metterli in pratica”.
A parte Stefania Orlando chi altro conosceva prima di entrare al Grande Fratello?
“Elisabetta Gregoraci di nome, Maria Teresa e la figlia. Degli altri nessuno ci siamo incontrati nella Casa, la cosa bella però è che quando il reality finirà ci ritroveremo come amici, perché ho visto come hanno pianto quando sono andata via e questo significa che ho lasciato un segno, anche se poi in tv viene fatto passare solo il mio “sclero” (la volta che Matilde ha reso le staffe urlando contro l’altro concorrente Tommaso Zorzi ndr)”.
Perché secondo lei passa solo il suo “sclero”?
“Perché io ho un modo di fare molto diretto, forse troppo e ho sempre detto delle verità. Come è successo nell’ultima puntata quando Tommaso invece di scegliere Stefania Orlando con cui si è legato molto, ha scelto Guenda. Dallo studio ho ricordato a Stefania che questa cosa l’avevo “predetta” suscitando anche una sua reazione molto forte”.
In effetti Stefania Orlando le ha risposto in maniera dura. Eppure prima di entrare eravate amiche. Si è sentita tradita da lei?
“In quella situazione è uscita la vera Stefania, quella arrabbiata perché sapeva perfettamente che stavo dicendo la verità e si è sentita toccata. Però non sono arrabbiata con lei perché puntava molto a fare il Grande Fratello Vip, più di tutti lì dentro. Spesso quando parlavamo le dicevo: “Ma che ti importa, guarda le persone per come sono e se non ti piacciono lasciale stare" un po’ come ho fatto io con Maria Teresa che reputo troppo finta e costruita”.
Eppure c’è chi dice che Maria Teresa è così anche nella vita privata...
“Non ci credo, perché guarda caso, sia lei che Guenda conoscono sempre la modalità migliore per attirare l’attenzione usando determinate modalità e questo perché loro i reality, come ho già detto, li hanno già fatti e sanno come ci si comporta”.
Nella prima settimana lei era stata considerata anche dai social una delle concorrenti più forti, era molto amica di Tommaso, poi con l’entrata di Stefania, le cose hanno cominciato un po’ a cambiare. Forse è questo il motivo?
“Esattamente. Stefania è entrata insieme a Maria Teresa e la figlia una settimana dopo di me e ha potuto vedere le dinamiche e le preferenze della gente dall’esterno, così come il gradimento del pubblico. Ora che sono fuori capisco tante dinamiche come il fatto di avermi attaccato per la mia presunta “egemonia” in cucina. Sono stata accusata di essere troppo presente “ai fornelli”, quando nella realtà dei fatti l’ho fatto solo perché ero, a parte la Contessa che non cucinava, la più grande e consideravo i ragazzi come figli. Questa cosa ci aveva molto unito, ci siamo divertiti scherzavamo, ma appena entrata Stefania mi ha subito fatto sentire in colpa, tanto è vero che mi sono fatta degli scrupoli scusandomi anche”.
Poi cosa è successo?
“Stefania ha subito capito guardandolo dall’esterno prima di entrare, che Tommaso era molto forte sui social con il suo milione di follower agguerriti, quindi si è intromessa e schierata dalla parte più forte. Anche ora questi continui abbracci con Maria Teresa e Guenda altre due concorrenti fortissime non mi convincono. Per carità è un gioco e quindi lei sta giocando però con questo atteggiamento ha voluto un po’ darmi fastidio visto che ero molto benvoluta. Quello che è successo dopo è stata una conseguenza di questo”.
Questi atteggiamenti l’hanno destabilizzata?
“Lo dico tranquillamente non sarei potuta rimanere di più, perché mi avevano messo in condizione di non sopportare più. Nella Casa io creavo dinamiche, loro usano invece situazioni personali per venire fuori ed è una cosa diversa. Tommaso sta scoppiando, Stefania cerca di sostituirmi ma questo è impossibile. Credo di essere uscita al momento giusto, altrimenti mi avrebbero messo contro tutti i ragazzi magari votandoli e sarebbe stato un gioco al massacro e io non ce l’avrei fatta”.
Alla fine da quello che dice, tutti temono le “Rutas”...
“I ragazzi non sono stupidi si sono accorti di tutto e non si mettono contro di loro perché hanno capito, dopo 8 volte che Maria Teresa è stata salvata dal televoto, che sono molto forti. Come ha detto Fulvio: “Maria Teresa e la figlia li faranno fuori uno ad uno fino a che non resteranno solo loro due”.
Cosa sono le cose che l’hanno disturbata della Ruta e sua figlia?
“Come dicevamo siamo diverse. Una madre secondo me dovrebbe dire “Me ne vado per lasciare spazio a mia figlia”. Guenda ha sempre questa presenza ingombrante dietro e non prenderà mai il volo fino a che non la lascerà libera. Maria Teresa attira troppe attenzioni su di sé tirando fuori cose molto personali ed intime, come i figli che non ha avuto dal suo attuale compagno. Non dimentico la cattiveria che mi ha detto riguardo al lavoro dicendo che avevano scelto lei e non me. Tante persone mi hanno scritto che hanno la mia stessa opinione. Per carità sono bravissime giocatrici e vinceranno perché si sono preparate bene. Io purtroppo sono andata un po’ all’arma bianca. Forse dovevo proteggermi di più”.
In che senso?
“Stringere amicizie più strategiche, anche se per come sono fatta io alla fine non ce l’avrei fatta più. Non riesco a far finta di non vedere certe cose che mi hanno dimostrato il grado di intolleranza che non sopportavo più”.
Ad esempio?
“Mi ricordo di una volta che ho aperto il frigorifero, Guenda era seduta di fronte a me e c’era anche Maria Teresa. Ho visto queste confezioni di dessert tipo panna cotta aperti e lasciati lì. Mi è venuto spontaneo dire che se lasciati in quel modo si riempiono di batteri e ho chiesto se potevo buttarli via. Mi sono sentita rispondere da Guenda con tono saccente di superiorità: “Ma cosa dici? Lo sai che la gente muore di fame”, detto come se io mi divertissi a sprecare il cibo. Ingenuamente ho chiesto: ”Lo mangi?”. Lei ha chiuso gli occhi sospirando e cominciando a contare a voce alta come a volersi trattenere. In quel frangente è intervenuta la madre dicendo: “Io le ho insegnato che il cibo non si spreca” ribadendo la cosa come se io fossi veramente una che il cibo lo butta” cosa completamente diversa da quello che avevo detto io".
Da cosa è nata la vostra antipatia?
“Da un discorso fatto all’inizio su mio padre. Raccontando della sua morte dissi: “Sono stata felice che sia morto in casa e non in una struttura”. Maria Teresa ha completamente rivoltato le mie parole come se io avessi accusato infermiere e badanti delle strutture. Ha detto inoltre: “Io non vorrei mai che i miei figli mi vedessero così, quelli che gestiscono le case di cura sono persone eccezionali”. Un po’ se vogliamo lo stesso modo in cui voleva far intendere che io buttavo il cibo. Visto tutto questo come faccio a rispondere quando mi chiedono se mi sta ancora antipatica? Qui non si tratta di questo, ma di una persona che sa perfettamente come cambiare le carte in tavola risultando perfetta e innocente in tv. Visto che queste cose io non le sopporto è anche normale che mi è capitato di perdere la pazienza”.
È stata attaccata quando ha mandato un messaggio molto “battagliero” ai ragazzi nella Casa e poi quando li ha incontrati faccia a faccia ha moderato i toni. È stata una scelta?
“Quello usato nel video era un tono ironico e non pensavo di suscitare questa agitazione, anche perché Fulvio aveva detto cose molto più cattive delle mie. Non mi sembra di aver attaccato Tommaso e a Maria Teresa ho detto quello che già sapeva ovvero che per me usava un copione. A Guenda ho solo dato il consiglio di non piangersi troppo addosso ma cercare un modo di attirare su si sé l’attenzione. Quando ho fatto il faccia a faccia non era mia intenzione farmi uscire “la giugulare” (arrabbiarmi ndr) ma questo non vuol dire che io sia stata tenera, ho detto tutte le cose che dovevo ma con toni pacati. Non è che perché sono andata su di giri una vola tutti si aspettano che io sia sempre Hulk”.
Si parla tanto dei due gruppi nella Casa, è così?
“Il primo gruppo si è formato durante la prima settimana perché si sono ritrovati nella Casa persone caratterialmente simili che sono tutt’ora molto unite come Pierpaolo e Enock. Hanno estrazione sociale uguale e amano tutti le stesse cose, il calcio, lo sport e le ragazze. Poi c’ero io che avendo due figlie adolescenti e con la scuola di ballo ero un po’ considerata una mamma che li capiva. È stato naturale, ridevamo, scherzavamo e neanche pensavamo al gioco. Quando è arrivato il secondo gruppo e già conosceva le dinamiche come ho più volte detto, sono entrati i veri strateghi. Tommaso la prima settimana era molto tranquillo però essendo lui quello che ha instaurato le dinamiche della Casa, Maria Teresa, Guenda e Stefania hanno capito subito che era il più forte e si sono alleate con lui. Quando io in quel periodo venivo sempre votata come la migliore, sono subito diventata una loro antagonista ed è così che si sono formate le due fazioni”.
Lei che errori ha commesso?
“Parlando strategicamente anche io avrei dovuto allearmi, ma preferisco il percorso che ho fatto piuttosto che fare la gregaria di Tommaso”.
Ha detto di essere comunque affeziona a Tommaso, ma al tempo stesso ci ha discusso varie volte, perché?
“Ho sempre detto che Tommaso è una persona fantastica, un ragazzo estremamente intelligente anche se alle volte è un “po troppo”. Mi ricordo i primi tempi parlava spesso di sesso anche usando toni molto “colorati”. Ad un certo punto ho detto basta. “Sono le tre di pomeriggio - gli ho detto - sono una mamma cerchiamo di parlare anche di altro”. Apriti cielo, a questa conversazione si è anche unita Franceska che ha cominciato a dire cose del tipo: “Perché se un uomo va con tante donne è fico invece una donna che va con tanti uomini no?”. Sono stata accusata di essere una mamma bigotta: “Se tua figlia vuole avere tanti rapporti in un mese non può farlo?” mi sono sentita dire. Ovviamente non penso che sia una cosa normale e l’ho detto chiaramente, perché se mia figlia frequentasse più di un uomo al mese io come madre qualche domanda me la farei. Questo per dire che alla fine cosa passava? Che ero una bigotta".
Una curiosità, visto che lei è molto amica di Elisabetta Gregoraci, cosa ne pensa dell’amicizia "speciale" con Pierpaolo?
“Difenderò sempre Elisabetta, nonostante come tutti possa avere dei difetti, ma credo che lei è così com’è. Forse qualcuno fuori che l’aspetta c’è, ma lei non mi ha mai parlato di questo perché è molto riservata su queste cose. Pierpaolo è un ragazzo meraviglioso e io mi auguro che vinca ma con lei è molto pressante, soprattutto perché Elisabetta le ha fatto capire che non può nascere una cosa sotto i riflettori. Non sono d’accordo con quelli che dicono che lei lo illude. Lei ovviamente lì dentro ci deve rimanere e in Pierpaolo trova conforto. Però anche Pierpaolo se le vuole bene deve anche saper rispettare la sua volontà e magari aspettare di uscire per vedere poi se le cose cambieranno”.
La famiglia e gli amori di Guenda Goria. La famiglia Goria si riunisce a Live Non è la d'Urso dove raccontano il loro rapporto ma soprattutto i sentimenti che li legano. E a sorpresa spuntano due fidanzati di Guenda. Roberta Damiata, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. È la prima volta che una “parte” della famiglia Ruta-Gori si mostra insieme e hanno scelto per farlo Live Non è la d’Urso. Una famiglia complicata la loro, soprattutto con il rapporto con i figli: "A papà rimprovero l’assenza -dice Guenda - a volte si è dimenticato di essere papà e se ne dimentica ancora, a volte penso di avere un figlio più che un padre, anche se che ora dopo la mia esperienza al Grande Fratello Vip ha capito". “Cerco di mettere da parte il mio essere single - le risponde Amedeo - e pensare più ai figli anche se noi siamo un po’ il simbolo di tante famiglie italiane”. Se le cose ora vanno meglio, si ritorna però a parlare della frase pronunciata da Amedeo Gorio, che aveva definito la figlia 'bipolare', durante un'intervista che ha mandato su tutte le furie Maria Teresa Ruta. “Non ho ancora capito bene cosa volesse dirmi mio padre - dice Guenda - io ci sto riflettendo molto e mi chiedo se lo sia”. "Hai due lati del carattere - spiega Amedeo - a volte sei dolcissima con una grande sensibilità a volte ti arrabbi e come hai dimostrato nella Casa mostri di essere molto forte nel prendere le decisioni". Anche il fratello Gian Amedeo, risponde al padre dicendo che: “Guenda è sempre stata così e ci è sempre piaciuta così”.
Il rapporto di Guenda con gli uomini. “Io vorrei che fosse felice e "sfidanzata" in questo momento” racconta Amedeo Goria riferendosi agli uomini della vita di sua figlia. In studio è presente anche Christian Leone, che in un’intervista ha raccontato di averlo frequentato nello stesso momento in cui era insieme a Telemaco l’uomo che Guenda frequentava prima di entrare nella casa del Grande Fratello Vip. La cosa non viene presa bene da Guenda che si chiede perchè questo ragazzo, con cui ammette di aver avuto un breve flirt, si sia comunque palesato in questo momento di notorietà che sta vivendo. “L’ho fatto - racconta Christian - per tutelare Telemaco che è un mio amico e io ci tengo molto perché quando tu litigavi con lui poi venivi alle tre di notte a bussarmi alla porta”. La cosa fa infuriare Guenda che non sopporta questa intrusione nella sua vita, ma soprattutto nella sua storia. Ma non è l’unica, anche gli altri opinionisti pensano che questa sua difesa sia in realtà un modo solo per mettersi in mostra.
Telemaco e la moglie Olga. Guenda racconta che uscita dalla casa del Grande Fratello Vip è proprio Telemaco la prima persona che ha sentito, per poi lasciarlo perchè, secondo lei è stata trattato malissimo. “L’ho lasciato con rabbia chiaramente soffrendo”. Ma è proprio telemaco che in un video racconta la sua verità: "Voglio puntualizzare che Guenda non è responsabile delle mie vicende familiari e quindi della separazione con la moglie Olga. Però devo dire anche che lei tratta le dinamiche familiari in una maniera che io non condivido" Racconta poi della presunta infatuazione avuta da Guenda all'interno della Casa per Massimiliano Morrra. "Lei dice che c’è stato un flirt, ma in quel periodo doveva stare con me. Io non posso accettare di essere lasciato in diretta nazionale. Lei ci ha tenuto a dirlo, ma il punto è alla fine chi ha cercato chi?" Ma è proprio Guenda che a sorpresa spiazza tutti, mandando un messaggio a Telemaco: “Tu sai che al momento non ci siamo visti e io ho bisogno di vederti”.
Live-Non è la d'Urso, la modella 22enne su Paolo Brosio: "Abbiamo una frequentazione tra momenti religiosi e carnali". Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 09 novembre 2020. Modella. Ventidue anni. “Abbiamo una frequentazione. Abbiamo condiviso momenti religiosi e carnali”, svela a Live-non è la d’Urso Maria Laura, la donna che ha fatto perdere la testa a Paolo Brosio, che ha compiuto 64 anni e ha da poco varcato la porta del Grande Fratello Vip. Ma i 42 anni di differenza non contano. “Ci siamo conosciuti a Forte dei Marmi dove c’è stato il primo bacio su una panchina”, racconta Maria Laura. Che è anche un po’ gelosa. “Ho molte cose da dire su Paolo. Lo seguo, deve dimostrarmi. E deve stare attento anche lui: mi comporterò di conseguenza”. Un avvertimento che farà tremare tutti.
Paolo Brosio e la giovane fidanzata: “Con lui rapporti religiosi, ma anche carnali”. Scende in campo la presunta fidanzata di Paolo Brosio, che oltre a raccontare cosa è successo tra di loro si mostra molto gelosa nei confronti di Adua del Vesco. Roberta Damiata, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. Un’ombra di mistero, ha sempre avvolto la vita sentimentale di Paolo Brosio, a parte i due divorzi e la sua particolare attrazione per le donne, negli ultimi tempi, da quando si è avvicinato molto alla fede, il giornalista ora al Grande Fratello Vip, ha cercato di mantenere molto privati i suoi rapporti personali. Ma proprio la sua partecipazione al GFVip ha messo ovviamente in luce il suo privato facendo trapelare indiscrezioni su una sua presunta fidanzata. Lei si chiama Maria Laura De Vitis, una bellissima ragazza con cui Brosio ha 42 anni di differenza. E Maria Laura questa sera è in collegamento a Live non è la d’Urso, per raccontare la sua verità su questa storia. “Fino ad ora quello che hanno detto i giornali non sono state le mie parole io non ho mai parlato quindi è la prima volta che do voce alla verità- racconta la ragazza - I giornali parlano di fidanzamento ma io e Paolo ci siamo conosciuti questa estate, poi ha preso il covid ed in seguito è entrato nella casa del Grande Fratello Vip, quindi abbiamo avuto poco modo di vederci, ma ci stiamo comunque frequentando. Io sono l’ultima persona che ha chiamato prima di entrare al Grande Fratello”. Ma che tipo di rapporto era il loro: “Io non sono credente e lui ha preso questa cosa come una missione. Abbiamo frequentato insieme la chiesa, mi ha fatto benedire e mi ha regalato anche dei rosari, ma con lui ho anche avuto momenti carnali”. “Chi è stato a darti il primo bacio?" chiede Barbara d’Urso “Ci siamo conosciuti a Forte dei Marmi. Io ero li come hostess dopo la serata abbiamo parlato tanto seduti su una panchina ed è stato lui pochi giorni dopo a baciarmi”. "Come lo vedi nella casa del Grande Fratello?" le chiede sempre la conduttrice. “Vorrei dire a Paolo di fare un po’ meno il lumacone perché ci sono tante belle ragazze.Vedo che ha messo gli occhi su Adua, ho visto un massaggio che lui le ha fatto”. “Quindi sei gelosa?” “Anche lui lo è molto di me, aveva molta paura a lasciarmi da sola a Milano. Io lo guardo e mi comporterà di conseguenza a come farà lui. Io ho tante cose da dire su Paolo ma deve anche dimostrarmelo dalla Casa, perché vedo che ha messo gli occhi su Adua e io reagirò di conseguenza a quello che vedo”.
"Come il gas usato ad Auschwitz". E Paolo Brosio finisce nella bufera. Il giornalista si è lasciato sfuggire una frase fuori luogo citando il gas utilizzato nei campi di concentramento. E ora il popolo social chiede provvedimenti seri contro di lui. Novella Toloni, Sabato 07/11/2020 su Il Giornale. L'ingresso di Paolo Brosio al Grande Fratello Vip non ha smosso gli equilibri creatisi nella Casa ma sta facendo sicuramente discutere. Soprattutto fuori dal reality dove le sue esternazioni sono state spesso oggetto di critiche e discussioni. L'ultima dichiarazione fatta poche ore fa ha scatenato una vera e propria sommossa popolare e ora anche il movimento "Alleanza per Israele" chiede la squalifica di Brosio. Paolo Brosio stava parlando con Elisabetta Gregoraci in camera da letto. All'improvviso, dopo aver sentito degli strani rumori, si è rivolto verso la showgirl calabrese e ha spiegato: "Pensavo fosse gas, tipo quello della verità, che cominci a raccontare tutto… come facevano i tedeschi ad Auschwitz". Un'affermazione fuori contesto, quella di paragonare al gas utilizzato nei campi di concentramento di Auschwitz, che ha scatenato una feroce polemica sui social network e non solo. Gli internauti non hanno infatti apprezzato un simile paragone - giudicato fuori luogo e "squallido" - e su Twitter sono piovute critiche da ogni parte: "Brosio mi è sembrato particolarmente squallido con quella frase poco rispettosa su Auschwitz. Spero venga buttato fuori, è d'obbligo", "Io personalmente sono andato a visitare le camere a gas, e caro Paolo Brosio non ho riso proprio per un cazzo. Schifoso, squalificato subito", "Ma Paolo Brosio che cazzo nomina i tedeschi ad Auschwitz con tanto di risatina finale". Anche per "Alleanza per Israele" Paolo Brosio è da squalificare immediatamente. In una nota ufficiale a firma del presidente del movimento, Alessandro Bertoldi, condanna il concorrente: "Senza nemmeno commentare la gravità della frase di Paolo Brosio pronunciata nella casa del Grande Fratello in queste ore e ripresa sui social, in cui il personaggio televisivo, fa riferimento al gas utilizzato dai tedeschi ad Auschwitz in una battuta, ridendo, chiediamo ad Endemol e Mediaset l’immediata espulsione di Brosio dal programma tv. Vista l’importanza del programma tv, visto da milioni di persone e la vicinanza storica di Mediaset alle iniziative per la Memoria delle vittime della Shoah ed a Israele, questo gesto non può che essere necessario per rendere onore a coloro che hanno perso la vita per la ferocia nazista che ha raggiunto il suo apice ad Auschwitz, nonché per condannare fermamente l’accaduto". Per altri utenti Paolo Brosio avrebbe superato il limite già prima dell'ultima infelice uscita: "Paolo Brosio in pochi giorni ha bestemmiato, scherzato su Auschwitz, rivelato informazioni esterne, sessualizzato ogni essere vivente femminile all'interno della casa ma lo mettiamo solo in nomination perché lui è un uomo di fede e ha visto la madonna. Ehy". Ora Paolo Brosio potrebbe rischiare un provvedimento disciplinare. Ma solo nella prossima diretta sapremo se la sua dichiarazione avrà conseguenze.
Fabiano Minacci per biccy.it il 4 novembre 2020. Fabrizio Corona ha rilasciato una lunga intervista a Vanity Fair e fra le tante cose dette anche una dichiarazione in cui si paragona a Dio.
“Le ho già detto che sono Dio? Vuole una prova? Sono riuscito a portare il mondo fuori, qui dentro. Da casa muovo 4 programmi televisivi, sono mie le 12 storie più importanti degli ultimi mesi, do da lavorare a 15 persone. Nell’ultimo anno avrò fatturato 2 milioni di euro”. E proprio parlando di soldi, Corona ha snocciolato un po’ di cifre: “La d’Urso mi frutta 50 mila euro e io le ho fatto fare il 26 per cento di share, mentre sulla Rai c’era Conte che spiegava il dpcm. E poi, mi segua, se io non fossi andato a difendermi dalla d’Urso per il video pubblicato da Nina Moric, dove avrei potuto farlo? Tutti i giornali, non solo quelli di gossip, avevano scritto che io picchiavo Carlos, dovevo andare nel palco più popolare che, mi spiace dirlo, è la d’Urso e non Fazio. Di fronte a certe cose non puoi né stare zitto né fare una storia su Instagram. La tv generalista, ancora oggi, amplifica la comunicazione. Travaglio, Mentana e Celentano hanno preso a cuore la mia vicenda di carcerazione perché la d’Urso, a cui promisi la prima intervista dopo il rilascio, ha fatto 30 puntate su di me e le massaie, in un tam tam, hanno cominciato a dire: poverino Corona, poverino Corona, poverino Corona. Così la mia storia è diventato un tema su cui mobilitarsi”.
Ed a domanda diretta del giornalista "Quanto denaro non ha guadagnato in queste 2 ore che abbiamo parlato?", Corona ha risposto: “Direi 15 mila euro, quelli che mi avrebbe dato Chi se questa intervista l’avessi data a loro”. 50 mila euro da Barbara d’Urso, 15 mila euro da Alfonso Signorini…
Anna Montesano per ilsussidiario.net il 25 ottobre 2020. A Tu si que Vales va in scena qualcosa di mai visto finora, che spiazza tutti i presenti. In studio arriva un pittore molto particolare: si chiama Brant Ray Fraser, viene dal Canada e ha 41 anni e una grossa passione per l’arte e chiama allora al centro del palco uno dei quattro giudici per fargli da modello. È Rudy Zerbi che lo raggiunge, accomodandosi all’apposita postazione. Mai, però, si sarebbe aspettato che il concorrente iniziasse a spogliarsi, rimanendo completamente nudo. Tutti in studio rimangono allora a bocca aperta quando scoprono che non dipingerà col pennello, nè tantomento con le mani ma con il suo organo genitale. Una scena che Rudy in primis, ma anche Belen Rodriguez, Sabrina Ferilli ed altri vedono senza alcun tipo di velo. Inevitabilmente la scena scatena ogni tipo di battuta a doppio senso. Le più divertenti sono sicuramente Sabrina Ferilli e Belen Rodriguez, che siedono vivine per assistere meglio alla scena. “Ma è una protesi? C’è l’asciugamano attorno?” chiede la romana, “No no, ti assicuro che è così!” risponde la showgirl. “Un pennellone!” scherza poi la Ferilli con Maria De Filippi, ma il talento del concorrente vale alla fine ben quattro sì dai giudici di Tu sì que vales.
· I Social. Lo spazio all'orda degli imbecilli.
Giampiero Mughini per Il Foglio l'11 novembre 2020. All’apparenza erano righe destinate a un quotidiano, e dunque scritte per durare sì e no 24 ore. E invece no, erano gemme dove l’intelligenza e la cultura sterminata erano irrorate dall’ironia. Dico la rubrica “L’Agenda di Fruttero & Lucentini” che Alberto Ronchey aveva ospitato sulla Stampa a partire dal 1972. Erano anni in cui il vicedirettore del quotidiano torinese era l’ex partigiano Carlo Casalegno, quello che un drappello di “compagni che sbagliano” attese nell’androne della sua casa torinese per poi sparargli in faccia quattro colpi di revolver. Sarebbe stato uno degli innumerevoli casi dei Settanta in cui risultava micidiale “la prevalenza del cretino”, in questo caso il cretino omicida e criminale delle Brigate rosse. La prevalenza del cretino sarà difatti il titolo del volume mondadoriano del 1985 dove Carlo Fruttero e Franco Lucentini convogliarono la crema di quella loro agenda pubblicata per tredici anni sul quotidiano torinese. Al momento di radunare i loro pezzi, si accorsero che il cuore ne era l’andare addosso alla bêtise contemporanea e dunque ai formidabili cretini che la incarnavano. Gente che i nostri due eroi rappresentavano così: «È stato grazie al progresso che il contenibile “stolto” dell’antichità si è tramutato nel prevalente cretino contemporaneo, personaggio a mortalità bassissima la cui forza è in primo luogo brutalmente numerica; ma una società civile ch’egli si compiace di definire “molto complessa” gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumeri poltrone, sedie, sgabelli, telefoni». E figuriamoci che cosa avrebbero scritto i nostri due eroi se avessero potuto raccontare la “prevalenza” odierna del cretino, quello cui si sono spalancate le smaglianti praterie del web, altro che “interstizi” e “crepe”; se avessero avuto sotto gli occhi le prodezze del cretino da internet, del cretino da tweet, del cretino che ha a disposizione la mitragliera costituita dalla tastiera di un computer o di un telefonino. Se avessero avuto a disposizione le gesta dei cretini i cui like si sono fatti tiranni della società contemporanea, al punto da decidere loro nel 2018 quale fosse il partito di maggioranza relativa nelle aule “sorde e grigie” del Parlamento, quelle dove un tempo sedevano Pietro Nenni, Ugo La Malfa, Amintore Fanfani, Pietro Ingrao, Ciriaco De Mita, Bettino Craxi, Alfredo Reichlin e magari Leonardo Sciascia. L’uno un piemontese scolpito (Fruttero), l’altro un romano enigmatico (Lucentini), sono stati la “royal couple” della nostra recente storia culturale. Lucentini (nato nel 1920) aveva esordito nel 1951 con un lungo racconto, I compagni sconosciuti, scritto nel 1948 quando aveva 28 anni. Un racconto dal costrutto linguistico e tematico originale, nel senso che se ne infischiava alla grande di quel neorealismo da cui era permeata troppa letteratura italiana del tempo, e che inaugurò una delle collane più belle di narrativa italiana del secondo Dopoguerra, “I Gettoni” presieduti da Elio Vittorini. Lucentini e Fruttero si imbatterono poi l’uno nell’altro nei locali della leggendaria redazione torinese della Einaudi degli anni Cinquanta, dove saranno per due decadi i direttori di una collana di fantascienza, “Urania”, un’esperienza professionale da cui trarranno un’antologia in due volumi, il primo e il secondo libro della fantascienza (Einaudi 1959-1961) che fanno da pietra miliare di quella letteratura. La valenza intellettuale che più li cementava era che entrambi non avevano addosso una sola macchia delle sozzure ideologiche del Novecento, né mai l’avevano avuta. Una combutta che va via via cementandosi fino all’exploit del romanzo del 1972 scritto a quattro mani, La donna della domenica, un libro che aveva del miracoloso per quanto era assieme “alto” e tale da deliziare tutti e ognuno, ciò che nella nostra storia letteraria era accaduto di rado: non di certo ai romanzi di Italo Svevo, di Luigi Pirandello, di Carlo Emilio Gadda. Quando costituirono l’impareggiabile duo musicale sulla Stampa, nello spazio dov’è oggi la rubrica quotidiana di Mattia Feltri, la faccenda funzionava così. Siccome Lucentini non leggeva mai un giornale e non accendeva mai la televisione, e dunque non sapeva nulla di quel che succedeva nel mondo reale, Fruttero gli faceva una telefonata ad annunciargli l’uno o l’altro crepitante avvenimento, e magari era Gheddafi che sparacchiava sull’Italia. A questo punto i due diavolacci si mettevano d’accordo, l’uno avrebbe scritto l’“attacco” per poi dividersi “l’andante mosso” dello svolgimento. Liberi e leggeri com’erano volavano sempre in armonia. Mi pare fossero i secondi anni Ottanta quando andai prima nella casa torinese di Lucentini e subito dopo in quella di Fruttero. Per Panorama, di cui ero un inviato, avevo escogitato un articolo così costruito. All’uno e all’altro avrei fatto una quindicina di domande all’insaputa dell’uno e dell’altro su quali fossero i romanzi da lui preferiti, e le attrici predilette, e i film eccetera. Quindici domande ciascuno, forse venti. Le stesse domande all’uno e all’altro. Non una volta le risposte di Fruttero e Lucentini collimavano. Erano due macchine intellettuali perfette, ciascuna tuttavia a sé stante. La casa di Lucentini al quarto piano di piazza Vittorio Veneto la ricordo come fosse ieri. Era una casa borghese discreta, silenziosa, poco illuminata dalla luce esterna, alle pareti degli splendidi oli olandesi secenteschi di piccolo formato che Lucentini collezionava. Quella casa me la sono immaginata cento e cento volte per come doveva essere alla mattina presto del 5 agosto 2002, quando Lucentini si alza perché lo strazio provocato dal tumore ai polmoni è insopportabile, barcolla forse a luci spente sino alla porta d’entrata, la apre, si accosta alla ringhiera delle scale, si appoggia, in un certo senso prende la mira e si scaraventa giù. Maria Carla Fruttero ha raccontato di recente che fu lei a comunicare a suo padre la notizia che Lucentini aveva chiuso la sua vita in quel modo. Carlo Fruttero non disse una parola, «rimase immobile». Per lui (era nato nel 1926) cominciava una seconda vita, non meno smagliante seppure diversa. Da “triste e lucido capitano” che per dieci anni ancora, sino al giorno della sua morte (15 gennaio 2012), oppose comunque una strenua resistenza al luogo comune e all’imbecillità, al “cretino” che faceva capolino da ogni dove. Firmò questa volta da solo almeno due gioielli che Lucentini avrebbe applaudito, Donne informate sui fatti che dal settembre al novembre 2006 (la data della mia copia) fece sette edizioni e l’autobiografico Mutandine di chiffon del 2010, quello che cominciava con un’intervista a sé stesso che recitava così: “Quanto al campionato del dolore / non mi faccio illusioni / sulle mie chances. Piango / irrilevanti sepolcri / frugo tra ceneri / d’estasi elementari, / ho inchinato la nuca / alle più rozze clave del fato”. Non era stata altro la sua che una vita, fra le tante. Appunto, come dire meglio del destino di ciascuno di noi?
Da "corriere.it" il 23 ottobre 2020. Il contesto è quello della causa Antitrust che il governo americano ha aperto contro Google. Lui, Eric Schmidt, Google l’ha guidata come Ceo dal 2001 al 2011. Non solo, ne è stato presidente fino al 2015, ha gestito Alphabet fino al 2019 e ha personalmente acquisito e controllato uno dei più grandi social network esistenti: YouTube. Comprato da Mountain View nel 2006. Ecco, proprio sui social network Schmidt ha detto una frase piuttosto sorprendente. Secondo lui, queste piattaforme sono «amplificatori per idioti».
Non era ciò che volevamo. Bloomberg ne riporta l’intera frase, detta durante una conferenza in streaming del Wall Street Journal: «Il contesto dei social network che funzionano come amplificatori per idioti e persone pazze non era ciò che noi volevamo». Per “noi”, probabilmente Schmidt intende non solo i manager di Google ma dell’intera industria tecnologica. E poi aggiunge che «Se l’industria non inizia ad agire insieme in un modo davvero intelligente, ci saranno regolamentazioni».
Perché la frase. Il contesto, dicevamo, è importante. Schmidt sta commentando l’azione legale del Dipartimento di Giustizia americano contro Google, accusato di aver adottato pratiche anticoncorrenziali per mantenere il proprio monopolio nei settori di ricerca e pubblicità online. Secondo l’ex Ceo questa causa è fuori luogo, ma in generale nuove regole per la gestione dei social, nei prossimi anni, saranno inevitabili. Diventate piattaforme che veicolano disinformazione e che portano alla polarizzazione delle ideologie. Come Facebook o Twitter, anche YouTube negli ultimi anni sta tentando di rimediare a queste deviazioni - in relazione soprattutto all’infodemia riguardante il Covid, ai messaggi razzisti e discriminatori nonché al gran caos che ha circondato la politica americana - ma i risultati non sono ottimali. Riguardo alla posizione dominante di Google nel campo delle ricerche online, Schmidt ha semplicemente detto che il servizio continua ad essere un successo in tutto il mondo semplicemente perché le persone lo preferiscono a qualsiasi rivale, non perché Google fa qualcosa per eliminare la competizione.
Ora i panni sporchi si lavano in rete. Con l’uso dei social abbiamo scelto di allargare la famiglia includendovi anche tutti i membri virtuali dell’ultimo minuto. Elvira Fratto su Il Quotidiano del Sud il 18 ottobre 2020. È da un po’ che i panni sporchi non si lavano più in casa ma in rete, e se moglie e buoi non sono dei paesi tuoi, allora è proprio il caso di postare una foto per farne vanto. Siamo stati noi a cambiare i social o sono i social ad aver cambiato noi? Da quando siamo diventati fedeli adepti delle piattaforme online, nulla nella nostra vita accade senza che altre centinaia di migliaia di perfetti estranei vengano a saperlo: un pettegolezzo a cielo aperto, forse inconsapevole, camuffato dietro all’incontenibile voglia di condividere una bella notizia. Dai Ferragnez ai Pozzolis, ormai, sono tantissime le coppie che quotidianamente postano aneddoti familiari su Facebook e Instagram, spesso utilizzandoli come trampolino per lanciare messaggi anche a volte importanti. Sta di fatto che, dal lato “vip” della famiglia, pare che la formula “genitori e figli” funzioni più che bene per veicolare qualunque tipo di informazione. Le famiglie famose ci hanno talmente contagiati con la loro quotidianità da convincerci che portare sul palco la nostra vita sia una buona idea? Probabile, dal momento che gli influencers amatoriali aumentano di giorno in giorno a caccia del numero di likes più alto. Il punto è che, spesso, noi comuni mortali copiamo il compito, ma lo copiamo male. È il caso delle proposte di matrimonio e delle gravidanze, degli screenshots alle app che segnano le settimane mancanti al parto, della mostra delle ecografie e, al momento della nascita del bambino (che a questo punto tutti i followers attendono con ansia), dello sfoggio di nome, cognome, peso e lunghezza. Così, si diventa tutti un po’ ostetrici. Da quel momento in poi diventa tutto un fiorire di “foto puzzle” del neonato: oggi un piedino, domani una manina, due giorni dopo il pagliaccetto. Il “figlio componibile” diventa la prole più ambita del momento, perlomeno finché non diventa abbastanza grande da poterlo mostrare per intero. Ad eccezione di uno smile che gli coprirà interamente il viso. A quel punto, l’esclamazione “che bel bambino!” rischierà di cadere nel vuoto ma, del resto, mai come in questo caso basta il pensiero, anzi, verrebbe da dire che il pensiero è tutto: niente di ciò che viene pubblicato è passibile di critica, è una legge non scritta dei social. Se si commenta, lo si fa solo positivamente. L’unica manifestazione tangibile (e “social-mente” accettata) del non gradimento (o del disinteresse) del contenuto è passargli oltre senza soffermarsi. Il principio, però, non vale solo per i lieti eventi: spesso, a essere messi in piazza, sono anche i litigi che coinvolgono una famiglia. Non è raro imbattersi in frecciatine scritte come se fossero pronunciate a tavola durante una festa comandata, così come non è raro assistere a uno scambio di battute al vetriolo tra un parente e l’altro. Querelle che, solitamente, finisce con un utente che blocca l’altro, impedendogli di replicare. Un po’ come succede nelle tavolate, reso, forse, solo meno imbarazzante dalla presenza dello schermo che isola le nostre reazioni. Mentre in tv continua a troneggiare il Grande Fratello, quindi, su internet spopolano anche la Grande Madre, il Grande Padre, il Grande Zio. Insomma, tutto il Grande Parentado. Dobbiamo chiederci se si tratta di uno spettacolo bonario messo in piedi da ingenui protagonisti oppure se abbiamo semplicemente allargato la famiglia a tutti coloro che, forse anche loro malgrado, ne diventano quotidianamente spettatori. Curiosamente, ci ritroviamo a criticare uomini e donne dello spettacolo che pubblicano foto e video di (e con) i propri figli liberamente, senza censure o pixel sul viso che ne alterino i lineamenti, per poi pubblicare ogni dettaglio fisico e comportamentale dei nostri, che pure non portano cognomi famosi; oscuriamo loro il viso, ma rendiamo pubblici i loro primi bagnetti. Quel che è certo è che delle foto in bianco e nero di tanti anni fa non è rimasta che la posa, intramontabile requisito che travalica tempo e spazio e da sempre addetta a nascondere una crisi con un sorriso e una (talvolta) sgradevole sostanza con una limpida apparenza. Se davvero abbiamo scelto di allargare la nostra famiglia includendovi anche tutti i membri virtuali dell’ultimo minuto, dovremmo riflettere anche sul detto “parenti serpenti”, che se vale per le persone fisiche, figuriamoci per chi nemmeno ci conosce. E a chi invece ama questa nuova versione delle famiglie più social, techno-friendly e all’avanguardia, è bene ricordare che aprire la porta di casa propria a troppe persone rimane rischioso. Del resto, lo dice anche il nuovo “decreto anti-Covid”.
Nico Riva per "leggo.it" l'1 ottobre 2020. Dal coming out sessuale a quello sanitario: la nuova frontiera delle confessioni social delle celebrità sono patologie e infortuni. «Trasmette realtà. L’aria di mistero che una volta avvolgeva le star non è più interessante», spiega a Leggo Nancy Brilli. L’attrice nel 2017 rispose su Facebook a delle insinuazioni elencando le operazioni subite per malattia. Sabato scorso è stata la volta di Carlo Verdone. Con un video ha annunciato un intervento dopo anni di dolori, che gli impedivano pure di camminare. La ripresa non è ancora ultimata, ma come recita il famoso proverbio cinese: ogni lungo viaggio inizia con un primo passo, che l’artista romano ha voluto condividere sul web per la gioia di migliaia di fan. Sui social network, spesso utilizzati per raccontare una vita filtrata, c’è quindi chi «si racconta come persona oltre che come personaggio, senza indorare la pillola», prosegue Nancy Brilli. «Il pubblico è confortato dalla condivisione. È un messaggio di coraggio». Come quello di Emma Marrone, che ha aggiornato i fan sul suo cancro. Di Elena Santarelli, che ha raccontato il tumore del figlio. Kasia Smutniak ha fatto della sua vitiligine un’opportunità per «imparare ad accettare e amare i difetti». E Samantha De Grenet ha mostrato a tutti il suo gomito (fasciato) del tennista. Un nuovo modo per umanizzare la propria immagine e rendere partecipi i fan nelle sfide della vita che colpiscono tutti, indipendentemente dalla notorietà. E forse, anche per sentirsi meno soli quando non c’è più nulla da fare, come per la compianta Nadia Toffa. Il fenomeno nasce oltreoceano: dalla malattia di Lyme di Justin Bieber al cancro alla pelle di Hugh “Wolverine” Jackman, passando per la fibromialgia di Lady Gaga. Per dire: «Anche noi ci ammaliamo, e non c’è niente di cui vergognarsi».
Andrea Andrei per “il Messaggero” il 29 settembre 2020. «Quando abbiamo inventato il tasto Mi piace pensavamo che avremmo diffuso positività nel mondo. Non che avremmo spinto gli adolescenti alla depressione o che avremmo creato polarizzazione nella democrazia». Potrebbe essere questo uno dei modi in cui riassumere The Social Dilemma, il documentario diretto da Jeff Orlowski che da quando è approdato sulla piattaforma Netflix sta facendo molto discutere. A pronunciare quella frase è Justin Rosenstein, 37enne programmatore che dopo aver lavorato per Google è passato a Facebook, dove è stato fra i co-creatori del tasto Mi piace. Rosenstein è solo una delle voci che compongono il nuovo documentario del regista 36enne (già famoso per altri due film, Chasing Ice e Chasing Coral, sull' emergenza climatica), insieme a una serie di ex manager della Silicon Valley e studiosi come Shoshana Zuboff (autrice del saggio Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press) e Jaron Lanier, pioniere della realtà virtuale.
LE DOMANDE. I social newtork hanno cambiato la nostra società? Facebook, Instagram, Twitter, YouTube e le altre piattaforme, che hanno l' indubbio merito di averci messo in contatto abbattendo le barriere dello spazio e del tempo, possono essere dannose? E se sì, cosa possiamo fare? Se c' è una ragione per cui il documentario Netflix sta facendo tanto discutere (e riflettere), è che le risposte a queste domande sono molto più inquietanti di quello che si potrebbe pensare. Si scopre infatti (anche se di questi temi si parla da anni, The Social Dilemma li affronta con chiarezza inedita) come quel gesto di far scorrere il pollice sullo schermo dello smartphone, che è ormai parte integrante della nostra quotidianità, alimenti costantemente un algoritmo programmato per aumentare la nostra dipendenza da queste piattaforme, con l' obiettivo - ovvio - delle grandi aziende del web di creare profitti. Come? Vendendo gli stessi utenti. Ed è proprio in questo algoritmo la chiave del problema: tutte le nostre attività social, come guardare un video, mettere like a una foto, ignorare un contenuto e soffermarci su un altro, condividere un post o pubblicare un selfie, contribuiscono a creare un profilo di noi stessi sempre più preciso. In sostanza, più tempo passiamo sulle piattaforme e più queste ultime ci conoscono: sanno le nostre abitudini, le nostre tendenze sessuali, i nostri gusti e anche chi sono le persone a noi più care. Lo sanno meglio di noi, perché l' algoritmo è programmato per raccogliere informazioni e, in base a quelle, proporci contenuti più adatti a noi. Il risultato è che più stiamo sui social, più li troviamo interessanti, più non riusciamo a farne a meno. Ma non è il lato economico quello più spaventoso. Le aziende fanno quello che il capitalismo ha sempre fatto: cercare di guadagnare il più possibile. Il problema è che i social network non sono un prodotto o un servizio, come ad esempio la stessa Netflix, che un utente può scegliere o meno di acquistare: sono una parte ormai imprescindibile della socialità.
THE SOCIAL DILEMMA. Il problema è appunto sociale, se si pensa ad esempio all' effetto che la logica del like ha sui minori: The Social Dilemma mostra come negli Usa, da quando queste piattaforme si sono diffuse sugli smartphone, siano molto aumentati i casi di autolesionismo e di suicidio tra i minori di 15 anni, causati da cyberbullismo e depressione. Ma il problema è anche politico: se ho una certa idea, non importa quanto strampalata possa essere (vedi il terrapiattismo), sui social vedrò sempre più contenuti che confermano quell' idea, convincendomi che ho ragione.
LE FAKE NEWS. Il fenomeno delle fake news si alimenta appunto in questo modo, perché a un certo punto è il concetto stesso di verità a venire meno. E se la verità non esiste, ognuno crede in una verità tutta sua. Non si tratta di uno scenario potenziale, ma di realtà: dai negazionisti del Covid al Pizzagate (teoria che si è diffusa negli Usa secondo cui nei sotterranei di alcune pizzerie sarebbe esistito un giro di pedofili), facciamo oggi i conti con una serie di movimenti incontrollabili che stanno polarizzando sempre più il sistema politico, creando divisioni in fazioni che stanno mettendo a repentaglio la tenuta delle democrazie occidentali. È difficile non provare un brivido quando Rosenstein, nel documentario, dice: «Lo scenario che mi preoccupa di più? Nell' immediato, direi una guerra civile». Nemmeno a farlo apposta, il capo degli Affari globali di Facebook, Nick Clegg, la scorsa settimana al Financial Times ha parlato proprio in questi termini: «Se le elezioni americane dovessero precipitare nel caos o in disordini civili, Facebook adotterà misure eccezionali per limitare la circolazione dei contenuti». Ed è qui che il cerchio si chiude, tornando alla frase iniziale di Rosenstein: le aziende che hanno creato questi algoritmi non sono più in grado di controllarne le conseguenze. Non sanno, in pratica, come risolvere il problema. Che tutti abbandonino i social network, oggi, è uno scenario impensabile, così come difficilmente i colossi del web potrebbero essere smantellati in poco tempo. Le soluzioni percorribili sono quindi due: o una regolamentazione da parte degli Stati, oppure un' autoregolamentazione. Per quest' ultima serve però responsabilità, e il primo passo è cominciare a pensare allo smartphone, ai selfie e ai like non come a un' innocua forma di intrattenimento, ma a qualcosa di estremamente serio, da usare con il cervello per evitare conseguenze disastrose.
Umberto Eco spara a zero: "Internet è la patria degli scemi del villaggio". Lo scrittore massacra i social e tutti quelli che li frequentano. Un'uscita infelice che ci affibbia il titolo di "scemi del villaggio", scrive Sonia Bedeschi, Giovedì 11/06/2015, su "Il Giornale". Un tempo quelli che venivano definiti gli "scemi del villaggio" erano personaggi strani, con difetti in evidenza, stravaganti e anche un po' tonti. Ma si sa, i tempi cambiano, le tecnologie fanno il loro corso e dalla carta stampata dal profumo inconfondibile si è lentamente passati al web: internet e i suoi social. Una novità, uno progresso che fa tremare il noto professore Umberto Eco, tanto da consentirgli di entrare a gamba tesa sulla reale funzione di internet, dei social, e dell'uso che ne fanno gli "scemi" che navigano e frequentano. Questa volta Umberto Eco ci va giù pesante, la sua è una provocazione perché in altre occasioni, pur con grande e ironica severità, il professore aveva criticato la rete ma insieme ne aveva esaltato le potenzialità. Infatti aveva dichiarato "Oltre a custodire la memoria storica, gli strumenti multimediali possono essere dei dispositivi per rinforzare la capacità di ricordare". E fin qua tutto bene. Gli anni passano e ora Eco si trova ad avere la bellezza di 83 anni, e il suo pensiero, su internet e social e' decisamente cambiato, in peggio. "I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Di solito venivano subito messi a tacere, ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel". Insomma l'avvento del web e naturalmente chi ci lavora dentro, stando alle sue parole, rappresenterebbero una vera e propria minaccia per l'umanità, addirittura un danno e magari irreparabile. Eppure ricordiamo al sempre noto professore, che ha ricevuto la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” all’Università di Torino, che dietro al "pericolosissimo" internet esistono persone serie, professionali, che lavorano, che si fanno quotidianamente "un mazzo così". E ora non ci venga a dire che con queste sue sparate non voleva certo generalizzare. Perché dopo queste sue dichiarazioni, ammettetelo, ci sentiamo un po' tutti "scemi del villaggio", perché la consultazione di internet e l'interazione attraverso i social occupano buona parte della nostra giornata. Senza fare troppi danni, anzi in molti casi, quelli che lavorano o passano il tempo sul web, sfornano informazione, e spesso e volentieri attendibile. Continua Eco "Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità", ha osservato invitando i giornali "a filtrare con équipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno". Insomma ci sentiamo, credo, un po' tutti offesi da queste raccomandazioni che suonano come una iniezione di terrore, sospetto e sfiducia. Diciamo allora che ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere, dovrebbe stare al passo coi tempi se possibile, dovrebbe accettare l'evoluzione naturale della tecnologia e delle persone. Nessuno di noi naviganti si sente scemo, semplicemente al passo coi tempi. Poi sta a ognuno di noi attivare il buon senso e fare un uso corretto della tecnologia.
Ossessioni, denaro, "fake" Il lato oscuro dei social. Il documentario "The Social Dilemma" su Netflix sta creando scalpore. Svelando ciò che non si dice. Matteo Ghidoni, Martedì 22/09/2020 su Il Giornale. I social network sono ormai parte integrante delle nostre vite: ce ne sono diversi fra cui scegliere, non tutti li usiamo in maniera compulsiva, ognuno ha il proprio preferito. The Social Dilemma, il documentario appena uscito su Netflix e diretto da Jeff Orlowski, apre una piccola finestra su un universo parallelo e inquietante, creato per influenzare le nostre azioni nel mondo reale. Il film accompagna il pubblico alla scoperta del lato oscuro della socialità online, attraverso le interviste ad alcuni dei pezzi grossi della Silicon Valley, che raccontano le logiche, chiaramente economiche, che muovono i social media. L'enorme influenza che questi hanno sui più giovani e il ruolo chiave che giocano nella nostra democrazia. Un campanello d'allarme suonato dagli stessi ideatori di questi mezzi di distrazione di massa, che stanno guardando le loro stesse creature prendere una direzione inaspettata, in grado di danneggiare l'intera società. Se non paghi per usufruire di un prodotto, significa che il prodotto sei tu. È una delle citazioni più significative di questo lungometraggio di 94 minuti, il cui scopo è quello di rendere «il prodotto», cioè noi, consapevole delle tattiche utilizzate per mantenerlo online e quindi in vendita per gli inserzionisti. «Io stesso spiega il regista - sono stato un utente fedele dei social, per un lungo periodo. Non avevo idea delle logiche e dei meccanismi nascosti, che spingevano me e milioni di altre persone a passare ore ogni giorno a guardare lo schermo di un cellulare». Quando nel 2017 Orlowski ha iniziato a girare questo documentario, capendo qualcosa in più del dietro le quinte e dei modi in cui le aziende manipolano gli utenti, per aumentare il loro coinvolgimento, ha scelto di eliminare il proprio account Facebook. Il social di Zuckerberg non voleva perderlo - una persona in meno a cui commercializzare annunci ed ecco pronto un algoritmo per invogliarlo a tornare. «Se smetti di usarlo, Facebook proverà a farti risorgere. Farà diversi tentativi per richiamarti. Mi hanno inviato e-mail, messaggi di testo e addirittura inoltrato le foto di una mia ex fidanzata. Sono tornato sul mio profilo e la sensazione che ho provato era di disgusto: non sopporto di essere usato in questo modo». Tristan Harris, ex design ethicist di Google e presidente del Center for Humane Society, è uno dei volti ricorrenti in questo documentario: «La cosa inumana, è che ormai la nostra società è costruita in modo per cui nessuno può fare a meno dei social. Immaginate un ragazzino che guarda The Social Dilemma e decide di smettere di usare Instagram o Tik Tok. Cosa succederà? Semplice, sarà tagliato fuori dal suo gruppo di amici. È mostruoso. È molto più di una dipendenza, perché i social oggi hanno enorme influenza anche sulle vite di chi non li usa: la violenza mostrata di continuo, quasi come fosse un trofeo, è capace di destabilizzare intere comunità. Miliardi di dollari generati grazie a noi, a nostra insaputa e che al momento vanno nella direzione opposta a quello che è il bene collettivo». Ci sono anche lati positivi nella possibilità di essere interconnessi e di informarsi in maniera indipendente? «Certamente, online possiamo ampliare la discussione, che si tratti di elezioni o ecologia, possono essere uno strumento molto efficace continua il documentarista - nel trailer del nostro documentario, mostriamo un piccolo esperimento che abbiamo fatto. Digitando su Google: cambiamento climatico, ci siamo resi conto che i risultati mostrati, non sono uguali per tutti. A seconda del tipo di utente che digita, dei siti che guarda o del tipo di pagine a cui è iscritto, appariranno contenuti che l'algoritmo ritiene adatti a lui. Se sei un terrapiattista, un negazionista del Covid 19 o se credi agli alieni, troverai sempre contenuti che in qualche modo ti danno ragione. Una persona come me, sotto la voce cambiamento climatico troverà teorie e dati scientifici, che spiegano che dobbiamo fare di tutto per diminuire il riscaldamento globale. Se un supporter di Trump digiterà le stesse parole, Google gli proporrà contenuti che negano quelle stesse teorie scientifiche. Provate a moltiplicare questo esperimento miliardi di volte, per decine di anni, su persone in tutto il pianeta. Ai colossi della tecnologia questa personalizzazione dell'informazione conviene economicamente, perché è un modo di tenere alta l'attenzione. È ovvio però che questo contribuisca ad alimentare l'enorme polarizzazione di cui siamo testimoni ogni giorno. Come diciamo nel documentario, è come se al momento nel mondo ci fossero tre miliardi di Truman Show».
· Scrittori da Social.
Massimiliano Parente per ''il Giornale'' l'1 settembre 2020. Io i libri degli autorini dei salotti letterari ormai non li guardo neppure più, se li conosci li eviti, come diceva una volta la pubblicità sull' AIDS, ma quello che fanno sui social me lo guardo sempre, sono esilaranti. Perché i social sono lo specchio dell' anima (l' anima non esiste ma è per capirci). Prendete la Murgia, nel suo ultimo post su Instagram ci tiene a dire che non bisogna dire la Murgia, perché «applicare a un nome di donna l' articolo determinativo significa comportarsi con un nome di persona come ci si comporterebbe con un nome di cosa». Dopo aver proposto di cambiare la patria in «matria», adesso non le va bene neppure la Murgia, sebbene poi voglia tutto declinato al femminile. È divertente perché vi rendete conto di quanto la Murgia sia verace, Murgia anche dentro. No, non la Murgia, perdonate, Murgia e basta, altrimenti è una cosa, non una persona vivente. Sebbene il capolavoro horror di John Carpenter si intitolasse La cosa, e era viva, però faceva meno paura agli uomini maschi della Murgia, io ogni volta che sento un suo discorso voglio essere gay per tutto il resto della vita. Meno male che c' è come antidoto Giuseppe Culicchia, account Instagram molto sobrio, libri e selfie composti, eleganti, non murgiani, un suo recente post è tratto dal suo ultimo libro E finsero felici e contenti (Feltrinelli) e sembra rispondere proprio alla Murgia, al Murgia, a Murgia, insomma a quello che è: «Se dobbiamo chiamare assessora una donna, il mio dentista uomo devo chiamarlo dentisto?». Bella domanda, ma se non hai un Murgia come dentista chiamalo come vuoi Giuseppe. L' Instagram di Gianrico Carofiglio invece è di una tristezza, ma di una tristezza, che ti mette allegria, perché ti dici: meno male non sono così anche io. Foto di Carofiglio tutto vestito come un magistrato in vacanza premio che ride in riva al mare senza che ci sia dato sapere cosa avrà da ridere, foto di cactus, una foto del Colosseo tipo guida di Roma, non sa nemmeno lui che cavolo postare, e pure la foto di un cartello di un giornalaio meridionale scattata durante il lockdown che avverte che lì non si vende Libero, con didascalia di Carofiglio: «Applausi per l' edicolante», bella idea di libertà di stampa, complimenti. Ma che me ne frega, tanto Carofiglio mica è figlio mio. Certo immaginate se lo avesse detto uno di destra, che un' edicola che si rifiutava di vendere il Manifesto andava applaudita, veniva giù il mondo, l' ANPI, le murge, tutto. D' altra parte i fascisti ci sono e i comunisti non ci sono più, neppure quando si sciolgono d' amore per l' Armata Rossa. Tipo Alessandro Robecchi, che ha tutte foto imbronciate, una su un balcone con dietro le montagne, neppure fosse Thomas Bernard o Thomas Mann o un Thomas qualsiasi, l' altra in bianco e nero che sembra la foto segnaletica di un brigatista, ma la più bella è la foto di un soldato sovietico a Berlino con sotto braccio la testa di una statua di Hitler: «So che la foto più bella è quella della bandiera sovietica sul tetto del Reichstag, ma a me piace più questa: la faccia felice, incredula, non più impaurita, del compagno ufficiale Yevgeniy Dolmastosky, con il suo trofeo in mano». In effetti è proprio una foto educativa, quella di un soldato di una dittatura che fino a cinque anni prima si era alleata con i nazisti e che da lì in avanti spingerà persone innocenti e dissidenti nei gulag, ma mai che ti postino una foto del patto Molotov-Ribbentrop, per carità. Nicola Lagioia ha un bel profilo Instagram, d' altra parte siamo tornati amici e non ne parlerei male in ogni caso, e se siete angosciati vi consiglio di farci un giro, a me Lagioia mette gioia, ha tutto un suo modo di riconciliarsi con il mondo, è solare, sereno, e sa muoversi su piani diversi, può conversare con Loredana Lipperini e con me senza problemi, ha un bellissimo gatto che si chiama Lunedì e una bellissima compagna che è anche un' autrice, Chiara Tagliaferri, la quale ha l' unico difetto di aver scritto un libro col Murgia (nel caso andiate sul profilo della Tagliaferri siete avvisati). Da sganasciarsi dalle risate è l' Instagram di Alessandro Baricco, nella descrizione dice «Sono proprio io (sul serio), quello dei barbari, di Novecento e degli altri», ma dai, e lo dici pure. Nelle storie in evidenza c' è una storia di Baricco che fotografa un suo libro in tutte le stanze della sua casa, sul televisore, nella lavatrice, ovunque, tranne sotto la zampa di un tavolo dove ce l' ho io. Sandro Veronesi non ha Instagram ma su Twitter è preoccupato per i robot. Posta un video di un arabo con un bodyguard robot e domanda: «Se questo uccide, chi è il responsabile?». Gli fanno notare che il robot è finto ma lui insiste: «Ok, grazie, ma quando esisterà un robot del genere di chi sarà la responsabilità?». Altro che colibrì, John Connor è già tra noi. Ma ancora più imperdibile è Roberto Saviano, basta vedere la sua foto sotto il pergolato di rose: posa da Instagram, filtro d' ordinanza, sfondo sfuocato al punto giusto, sguardo tenebroso, lui che scrive «continuo a amare solo rose non colte... che non coglierò», si capisce che ambisce a essere figa e influente come Chiara Ferragni. Di certo non punta al Murgia.
Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 5 ottobre 2020. Giovanna d' Arco, per lei, era una dilettante. Michela Murgia, classe 72, di Cabras, «scrittrice, blogger, performer» vive furiosamente in un perenne cerchio di fuoco, vibra nei roghi, ingoia gli accendini. Prendete la sua ultima fiammeggiante uscita rivelata da La Verità. Murgia, richiesta dalla direzione di Repubblica, s'è pregiata di fornire ai giornalisti un vademecum orwelliano e senza appello su Come raccontare un femminicidio (e i giornalisti non l'hanno presa bene). Prima ancora, in radio, aveva invitato a boicottare i libri di Massimiliano Parente che aveva usato il suo cognome come interiezione urogenitale («Che Murgia vuoi?»). E, ancora prima, con le ciglia unite quasi in un abbraccio acrobatico come solo i sardi e gl'intellettuali sanno fare, ad Otto e mezzo, aveva chiamato Salvini «muso da porchetta» lanciando strali contro i leghisti zappe ignoranti e un po' fascisti. Naturalmente, da allora, il popolo dei rozzi legaioli l'ha apostrofata inelegantemente «Miss Piggy» come la maialina dei Muppets, in un elegantissimo gioco di ruoli. Ma il problema, in realtà, sta nelle spietatezza inaudita che alberga, spesso ad uso televisivo, nell'eloquio affabulante della nostra Accabadora, giusto per citare il suo libro più famoso vincitore del Campiello. Il livore che avviluppa la Murga è romanzesco. È roba tenace, radicata. Se, à rebours, scaviamo nelle cronache degli ultimi anni troviamo una Murgia che fa ferocemente a fette il primo libro giallo di Veltroni («Ti prego, torna a fare politica»); che distrugge la poetica di Franco Battiato («i suoi testi sono minchiate assolute»); che appoggia le affermazioni antiisraeliane di Chef Rubio; che impedisce a gente come Corrado Augias di parlare del Me Too perché è un uomo e l'utero e mio e lo gestisco; che dà del sessista a Bruno Vespa colpevole di essersi profuso in pubblico in un complimento garbato a Silvia Avallone, e la Avallone non se n'era accorta ma Murgia la vendicatrice sì. Se in una discussione Murgia non può usare lanciafiamme e cherosene, insomma, non è contenta. Di tutto questo suo tracimare di stizza, di questi suoi arabeschi d' odio, sarebbe utile capire la genesi. Giancarlo Perna, in un ritratto al vetriolo, ne individuava l' origine freudiana nella vita un po' deragliata: «È una donna frustrata da una vita difficile, che ha superato i complessi col talento e l' aggressività. Fu in rotta col padre e si attaccò alla mamma che gestiva un ristorantino sulla spiaggia. Dovette arrabattarsi sia per conquistare un modesto diploma tecnico, sia dopo per mettere insieme il pranzo con la cena». La qual cosa fa molto Oliver Twister e Moll Flanders, ma ci può stare. Ci sta anche che l'astio di Murgia le nasca dalle traumatizzanti esperienze lavorative in un call center, da cui trasse un libro Il mondo deve sapere che ispirò un film di Virzì, Tutta la vita davanti. Ci sta, la dimensione intima e infantile del dolore. Se non fosse che Murgia fletterebbe fieramente più verso Susan Sontag e Laura Boldrini. Pugno chiuso e lotta operaia, femminismo duro e comunismo puro sono i suoi lumi. Murgia vede fascisti e maschi sciovinisti dappertutto. Soffre la sindrome del maschio in orbace. Se solo sbagli e alzi il braccio destro per un crampo, lei, vedendoci il saluto romano, te lo taglia con la sega elettrica. Nel 2018 si inventò il «Fascistometro», questionario di 50 pensieri che permettono di valutare quanto si è nostalgici del ventennio; e nel, contempo, aveva scritto un saggio per Marsilio, Istruzioni per diventare fascisti. Quando tutto il mondo piangeva per l'incendio di Notre Dame, lei parlò di «piagnisteo generalizzato» e tirò fuori il dramma dei migranti. E qualche mese fa, perse ore a martellare il Festival della Bellezza di Verona - tra l' altro organizzato da donne - reo d' aver ospitato «14 relatori maschi» sicuramente un po' fascistelli. C'è da dire che Murgia è in grado d'incanalare questa sua rabbia primordiale in un discreto talento televisivo. Da direttrice di Raitre s' innamoro di lei Daria Bignardi e la fece condurre e Quante Storie e soprattutto Chakra, un programma ricco d' idee e molto alto. Talmente alto che gli ascolti riuscirono ad arrampicarsi con difficoltà. Siamo sempre in attesa della sua prossima uscita fuoriluogo. Ed è così che, in fondo, Michela Murgia riesce a tenere accesi i suoi roghi...
I lettori di Carofiglio? Gentili e coraggiosi...I suoi consigli (onniscienti) servono a mostrare quanto lui stesso sia buono, bravo e edificante. Massimiliano Parente, Martedì 08/09/2020 su Il Giornale. Io mi sono divertito da matti. Voglio dire, ci sono dei libri inutili, ma talmente inutili, che diventano esilaranti. Ti chiedi perché siano stati scritti, ma soprattutto perché li abbiano pubblicati, e chi li leggerà, e a tutto questo c'è un'unica risposta: perché Terminator era solo un film. Ma facciamo un passo indietro, e prendiamo l'ultimo libro di Gianrico Carofiglio, Della gentilezza e del coraggio, edito da Feltrinelli (pagg. 128, euro 14), il cui scopo è quello di mostrare al lettore quanto l'autore sia saggio, buono, bravo, edificato, edificante e trasmettergli questa sapienza. Ora la domanda è: chi vorrebbe essere come Carofiglio? E soprattutto perché? In ogni caso Carofiglio vi insegna anzitutto a prestare attenzione all'altro, a sentire quando le persone parlano, perché nella società di oggi nessuno ascolta più nessuno, e vi propone degli esercizi. «Nelle discussioni private è facile fare un test per verificare se ci si stia ascoltando davvero reciprocamente o se, come capita molto spesso, la conversazione non sia altro - nel migliore dei casi - che un'alternanza di educati silenzi in cui uno attende il suo turno e nel frattempo pensa a quello che dovrà o potrà dire». Si intuisce che Carofiglio parla delle sue frequentazioni al Premio Strega, che prova e riprova a vincere ogni anno con romanzi dimenticabili e dunque perfetti per vincere (titoli da gerontocomio di magistrati in pensione come La misura del tempo o Il silenzio dell'onda), e se voi non fate parte degli «Amici della domenica» il consiglio è inutile, ma in ogni caso lui ve lo dà, perché il libro è suo e se voi lo avete comprato sono cavoli vostri. Come si fa dunque? «Il test implica l'applicazione di una semplice regola: ciascuno dei partecipanti alla discussione ha il diritto di esprimere la sua opinione solo dopo aver riassunto o parafrasato le idee e i sentimenti, insomma il punto di vista dell'interlocutore, in modo tale che ognuno possa riconoscersi nel riassunto o nella parafrasi». Non state a chiedervi come si possano parafrasare i sentimenti dell'interlocutore, invece prendete atto che Carofiglio è uno scrittore unico, scrive quasi come le istruzioni del Monopoli. Ma Carofiglio non si ferma qui, e vi mette in guardia dall'effetto Dunning-Kruger, quando leggete quattro cose su un argomento e pensate di esserne competenti, credendovi competenti in tutto. Anche qui si capisce che Carofiglio parla per sé, infatti vi parla di tutto, perfino di statistica, informandovi che gli squali fanno poche vittime e le zanzare tantissime, ormai lo sanno pure i bambini perché è pieno di video su Youtube e Carofiglio deve aver visto uno di questi video. Vi avvisa anche che «la pericolosità delle mucche è statisticamente superiore a quella degli orsi». Bene, adesso se siete come Carofiglio sapete parlare con qualcuno, prendere nota dei suoi sentimenti e stare lontani dalle mucche. Tuttavia potevano mancare le arti marziali? Carofiglio anche lì è un esperto. Ti spiega che nel jujutsu, nel judo, nel karate, si usa «la forza dell'avversario per neutralizzare l'aggressione e, in definitiva, per eliminare o ridurre la violenza del conflitto». Anche questa magari l'avevate già sentita, ma Carofiglio vi insegna come usare questa tecnica anche nella conversazione: «Per verificare come sia possibile una pratica alternativa torniamo all'affermazione categorica del nostro immaginario interlocutore. Invece di reagire ad essa opponendo in modo ottuso forza a forza, possiamo applicare il principio di cedevolezza per ottenere il metaforico sbilanciamento dell'avversario». Carofiglio qui è un mix tra il maestro Miyagi di Karate Kid e un venditore di aspirapolvere. Non manca lo zen, con moltissimi aneddoti già sentiti ma scritti da Carofiglio acquistano tutta una loro carofigliaggine che vale la pena risentirli. Tipo l'albero che cade nella foresta dove non c'è nessuno e è come se non fosse caduto. «Immaginiamo una foresta in cui c'è un vecchio albero, con tronco fradicio e divorato dai parassiti. A un certo punto questo vecchio albero cede e si schianta al suolo. Immaginiamo che non ci sia nessuno - ma davvero nessuno - in quella foresta a sentire l'albero che cade, travolge rami e cespugli, e si fracassa. Ed ecco la domanda: se la foresta e le sue vicinanze sono deserte, e perciò quel rumore non lo sente nessuno, possiamo dire che sia esistito?». Quando arrivate a questo punto del libro vi assicuro che vorreste che Carofiglio fosse quell'albero. Ma il colpo di scena è alla fine. Quando Carofiglio è preoccupato dalle macchine, dai computer, dall'intelligenza artificiale. Carofiglio, impressionato, scrive: «Ciò che bisogna contrastare - per limitare il potere di distruzione materiale ed etica oggi nelle mani dell'uomo - è l'esasperazione tecnica rappresentata dall'utopia del progresso illimitato», ma per fortuna «l'Unione europea, apprezzabilmente, per prima al mondo si è posta il problema, elaborando un sistema di linee guida per garantire un approccio etico all'intelligenza artificiale». Che le macchine prendano pure il controllo del mondo, di sicuro nessuna intelligenza artificiale scriverebbe un libro così.
· Editoria: Roba mia…
Mario Baudino per la Stampa il 15 giugno 2020. Arnoldo Mondadori ricevette alla fine di un lungo corteggiamento Giuseppe Ungaretti e, come ricorda Valentino Bompiani allora segretario generale della casa editrice, sapendo solo che si trattava di un importante poeta ma non conoscendo nulla di lui, si informò brevemente, aprì la porta dell'ufficio e lo apostrofò con voce tonante: «Maestro, m' illumino d'immenso». Fu un incontro memorabile, il maestro andandosene disse ai redattori: «Sa a memoria tutte le mie poesie». Erano i tempi eroici dell'editoria italiana, segnati da grandi personalità spesso geniali e imprevedibili, quando il «mestiere» era ancora un grande artigianato e non mancavano i gesti teatrali, la commedia umana alla sua massima potenza, per amore dei libri. Per lungo tempo, però, quel che avveniva dietro le quinte è stato quasi del tutto ignoto, al più tramandato dalle memorie dei protagonisti. Uno dei primi a capire quanto fosse importante studiarlo, perché la storia dell'editoria è uno degli assi portanti della storia della cultura, e della storia d'un Paese, fu, a partire dagli anni 50, Gian Carlo Ferretti, che domani compie novant' anni dopo aver fatto il giornalista, il critico letterario, il docente universitario e soprattutto negli ultimi decenni, appunto, lo storico di una materia che a molti può apparire un poco arida, e invece non lo è. Ferretti ha inventato un modo di fare ricerca. «L'editoria era come un bosco pieno di sorprese, per me un invito al piacere della scoperta», ci dice. Per festeggiare il compleanno Interlinea pubblica un suo saggio dedicato a uno di questi personaggi, Livio Garzanti (il titolo è Un editore imprevedibile, verrà stampato in tiratura limitata e con un segnalibro di Pericoli). È l'affresco di una grande avventura culturale, piena di bizze - il personaggio aveva un carattere forte - di scontri feroci e di intuizioni geniali, come quella di pubblicare Fenoglio, di scegliere Attilio Bertolucci come collaboratore, di credere in un autore come Pasolini. E naturalmente di litigare con tutti. Grandi progetti culturali, grandi ambizioni e istanze privatissime sono il sale dell'editoria. E Ferretti, autore di una fondamentale Storia dell'editoria letteraria in Italia, 1945-2003 (Einaudi 2004), ma anche di una «controstoria attraverso i rifiuti» (Siamo spiacenti, Bruno Mondadori 2012), questi rapporti li sa cogliere infallibilmente. Da giornalista, ci dice. «La metodologia imparata nei giornali mi è servita da stimolo. Ho sempre cercato di fare anche vere e proprie inchieste». Una di queste è quella sulla responsabilità attribuita tradizionalmente a Elio Vittorini nel rifiuto del Gattopardo, il romanzo di Tomasi di Lampedusa che faticò a trovare un editore, fino ad approdare postumo a Feltrinelli. Il caso Gattopardo rimase a lungo un enigma. «Poi, un giorno del '69, Alcide Paolini, dirigente Mondadori e amico caro, mi disse: "Gian Carlo, ti faccio un regalo". Era il dossier, ritenuto scomparso, sul Gattopardo». Da cui emergeva che Vittorini forse non capì il gran romanzo, ma lo rifiutò per Einaudi, non per Mondadori (era consulente di entrambe le case), caldeggiando con quest' ultima la pubblicazione. Sono, questi, fra i mille esempi possibili della lunga ricerca; durante la quale «mi sono divertito moltissimo», dice Ferretti. Gli episodi anche divertenti, del resto, non mancano. Valentino Bompiani ad esempio, per una questione di gusto (lo trovava osceno) gettò l'intera tiratura del Tamburo di latta di Günter Grass (5000 copie) e cedette i diritti a Feltrinelli: si era trovato il romanzo tra le mani già pronto senza mai averlo letto prima, si arrabbiò e perse così un libro fondamentale - di quell'edizione è stata ritrovata una copia piena di irosi scarabocchi. Giangiacomo Feltrinelli scassinò i cassetti della scrivania di Giorgio Bassani, sospetto di intesa col nemico Einaudi, e lo licenziò pure, dopo che lo scrittore aveva rifiutato di pubblicare nella sua collana Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino: era il '63, e la neoavanguardia bollava spietatamente lui e Cassola come le «Liale del Novecento». Pubblico e privato, orizzonti culturali e insofferenze personali sono stati la miscela di una grande stagione, quella degli «editori protagonisti» cui Ferretti è certo legato. Oggi, osserva, «la situazione è peggiorata».
In che senso?
«Si sono accentuati tutti i vizi d'allora, soprattutto con la nascita delle grandi concentrazioni. Quel che ancora accade di buono è dovuto alle singole intelligenze; e a qualche casa editrice d'eccezione».
C'è a questo proposito in Ferretti una mirabolante invenzione linguistica riferita agli anni Ottanta, quando i buoni autori commerciali cominciano a comportarsi, a ritenersi e a voler essere ritenuti grandi scrittori: il «morbo del blasone». A pensarci, sembra che non sia stato per nulla debellato.
Da liberoquotidiano.it il 15 giugno 2020. Sul Fatto quotidiano Massimo Fini si è scatenato contro Angelo Rizzoli, ex editore del Corriere della Sera. Un fiume di veleno, diviso di un due lunghi commenti pubblicati dal giornale diretto da Marco Travaglio che Vittorio Feltri ha trovato decisamente indigesti. Fini, scrive il direttore di Libero su Twitter, "ha scritto due articoloni al veleno su Angelo Rizzoli ma senza accorgersi ha vergato la propria fantasiosa biografia. Si è insultato da solo. Certe sviste non c’entrano con la perdita della vista", è il suo commento caustico. Molto dura anche la replica di Melania Rizzoli, vedova dell'editore, che ha preso carta e penna e risposto a Fini sul Fatto, obbligandolo a parziali scuse.
"Il mio Angelo insultato". "No, per lui solo rispetto". Da massimofini.it. il 15 giugno 2020. Caro Direttore, Massimo Fini che dichiara di essere cieco, in realtà quando si tratta di colpire i morti aguzza la vista e vede anche quello che non c'è mai stato. Evidentemente egli odia i trapassati non perché sia cattivo, assolutamente no, ma li strapazza e li insulta perché sa che hanno difficoltà a smentirlo o replicare. Sul Fatto Quotidiano di giovedì 11 giugno Fini ha scritto una articolessa sulla famiglia Rizzoli, dal titolo "P2, corna e Tolstoy, la saga del Corriere", in cui si è divertito a dare addosso soprattutto a mio marito Angelo, prendendolo in giro con commenti insultanti ed offensivi, pur dicendosi suo amico, profittando del fatto che non c'è più da oltre sei anni, ucciso dall'eccesso di giustizia applicata su di lui. Fini non è mai stato amico di Angelo Rizzoli, in venticinque anni di matrimonio non l' ho mai visto in casa nostra e non ho mai sentito mio marito nominarlo come giornalista o commensale, segno che non lo riteneva degno di nota. Nonostante ciò Fini lo ha descritto in maniera insolente e vile azzardando addirittura una analisi psicologica come fosse stato per anni il suo terapeuta, affibbiandogli ignobili soprannomi in modo indegno, proprio a mio marito che era un gentiluomo coltissimo e rispettoso persino di gente squallida. Avrei preferito che Fini scrivesse di Angelo quando lui era in vita, cosa che non ha mai fatto evidentemente temendo smentite sanguinose e fulminanti che non gli sarebbero state di sicuro risparmiate. Già precedentemente Massimo Fini, sempre sul vostro quotidiano, mentre Angelo era stato appena deposto nella bara, scrisse contro di lui in una prova analoga di codardia, che continua anche ora in modo sgangherato, insistendo come allora con falsità ed inesattezze incluse nel pezzo, infangando un uomo che non gli ha mai fatto nulla di male e che merita solo rispetto. Io ho avuto due figli da Angelo che si chiamano Rizzoli, che adoravano il loro padre e vivono del suo ricordo, e non permetto a nessuno di offendere in maniera così miserabile la sua memoria, nemmeno da un vostro giornalista mai decollato. Melania Rizzoli
Capisco il dolore di una donna che ha perso il marito pochi anni fa, capisco molto meno, anzi non capisco affatto, il livore della signora Rizzoli nei miei confronti rovesciandomi addosso una serie di insulti gratuiti, sia sul piano personale che professionale. Nel novembre del 1983 feci per l’Europeo una lunga intervista ad Angelo Rizzoli, che il direttore Claudio Rinaldi suddivise in tre puntate, che all’epoca aveva già subìto due arresti. In quell’intervista Angelo conferma punto per punto tutto ciò che ho scritto l’altro giorno sul Fatto. Quindi smentendo me la signora Rizzoli smentisce, senza rendersene conto, suo marito. Angelo mi fu grato per quell’intervista che avveniva in un momento in cui tutti lo trattavano da appestato perché, diversamente dalla maggioranza degli italiani, è mio costume, signora Rizzoli, correre in soccorso degli sconfitti e non dei vincitori. Quando a Milano ci fu la seconda tranche dei funerali di Angelo (la prima si era svolta a Roma) mi ci recai. Notai che ero il solo giornalista presente insieme a Paolo Liguori. C’ero andato per onorare la memoria di un ragazzo che era stato mio compagno di scuola, di un uomo che era stato per sette anni il mio editore, di una famiglia che era stata molto importante per Milano e non solo. La signora Rizzoli sembrò contenta di vedermi, fu lei a venirmi incontro e scambiammo qualche parola. Così fu con Alberto (“so che sei stato molto vicino ad Angelo in questi ultimi tempi”, “be' non si è fratelli per nulla”) e con Andrea. Il quale il giorno dopo mi telefonò ringraziandomi per il pezzo che avevo scritto sul Fatto e ci ripromettemmo di rivederci. Poiché ognuno pensa che gli altri ragionino con la sua testa (se non fosse offensivo oserei dire “omnia sozza sozzis”), la signora Rizzoli si fece l’idea che fossi andato a quel funerale per carpire chissà quali segreti sulla famiglia Rizzoli di cui, non foss’altro che per ragioni anagrafiche, sapevo forse più di lei. Abbastanza di recente a una cena con più tavoli la signora Rizzoli venne a salutarmi al mio. Poiché lì per lì non l’avevo riconosciuta a causa dei miei problemi, chiamiamoli così, di vista, cui la signora accenna con grande signorilità, andai al suo tavolo per scusarmi e lei mi disse che uno dei suoi figli, che stava negli Stati Uniti, si occupava di oculistica e avrebbe potuto essermi d’aiuto. Comunque è vero, io ci vedevo benissimo anche quando ci vedevo benissimo. Come documentano i miei articoli sul Giorno vidi lo sfascio della Rizzoli prima dello stesso Angelo, vidi il ruolo che aveva Tassan Din e, in un altro campo, per fare uno dei tantissimi esempi, in una lettera aperta a Claudio Martelli, allora vicesegretario del Psi, dello stesso1983, previdi che il Partito socialista, se continuava a comportarsi come si stava comportando, sarebbe finito nel fango. Cosa che avvenne dieci anni dopo. Non ho mai detto né tantomeno scritto di essere amico di Angelo Rizzoli. Non è colpa mia se abbiamo fatto lo stesso liceo, se siamo della stessa mandata, lui del 16 novembre 1943 io del 19 novembre, se siamo nati entrambi sulle colline del lago di Como e per gli stessi motivi, perché allora le famiglie, mariti esclusi, sfollavano per sfuggire ai bombardamenti dei liberatori angloamericani. Ho visto quindi il bullismo psicologico che i miei compagni di liceo, non certo io, esercitavano sul giovane Angelo e che lo stesso Angelo ammette in quell’intervista. Non è affatto vero, come sostiene la signora Rizzoli, che io mi accanisco su Angelo Rizzoli una volta che è morto. E’ vero proprio il contrario, lo definisco “il più innocente dei colpevoli” nel crac Rizzoli-Corriere, affermo, a dispetto di tutte le maligne gazzette, che quella con Eleonora Giorgi fu una storia d’amore. Insomma lo tratto con quella affettuosa simpatia che ho sempre avuto per i grandi quando cadono in disgrazia. Claudio Martelli, che credo la signora Rizzoli conosca bene, mi può essere testimone. La signora Rizzoli scrive che non sono “mai decollato”. Bisogna capirsi sul termine. Se s’intende che i personaggi potenti, potentissimi, che ho attaccato, quando erano vivi, vivissimi, non sono riusciti, nonostante tutto, a torcermi il collo, ciò è vero. Se è un giudizio sulla mia carriera è perfettamente legittimo. Però io sono un Premio Montanelli alla carriera e alla scrittura (e nella giuria c’erano Paolo Mieli e Ferruccio De Bortoli), lo stesso Montanelli ha fatto al mio libro Il Conformista una prefazione così lusinghiera che mi porto come fiore all’occhiello. Inoltre secondo la nipote, Letizia Moizzi, Indro mi considerava il suo erede tanto che avrebbe voluto che, dopo la sua morte, la rubrica di lettere che teneva sul Corriere fosse affidata a me. E in campo giornalistico, se la signora Melania Rizzoli me lo consente, pardon me lo permette, preferisco credere più a Montanelli che a lei. Amen. Massimo Fini
· Giangrande e Morselli. Quando gli editori non editano.
Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere.
"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".
Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.
La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.
Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.
La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”
A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.
A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.
A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.
A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.
A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.
Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.
Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.
Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.
Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.
AMAZON. CENSURA LA CONTRO-INFORMAZIONE SUL COVID. Cristiano Mais su La Voce delle Voci il 7 Ottobre 2020. La scure della censura contro le verità che danno fastidio. L’oscuramento di tutto coloro i quali, in modo autonomo e indipendente, con i propri mezzi e sforzi personali, cercano di fare autentica controinformazione. Succede adesso, è il caso di dirlo, ad un pioniere della comunicazione, Alberto Contri. Proprio come è successo, alcuni mesi fa, ad un pioniere nel campo dei vaccini, Giulio Tarro, con il suo “Covid, il virus della paura”. Allievo di Albert Sabin che scoprì l’antipolio, per ben due volte nella cinquina del Nobel per la Medicina, Tarro è l’autore di un libro che ha subito cercato di far luce sul bollente tema del Coronavirus e la disinformazione imperante. Incorrendo subito negli strali di Amazon, che ha inserito il volume nella sua vetrina virtuale, impedendone però l’acquisto. La strategia di Amazon era il fresco frutto avvelenato di un accordo per la “non informazione” siglato addirittura con l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, il super organismo internazionale controllato da Bill Gates. L’OMS, infatti, non gradiva tutto ciò che avrebbe potuto aprire gli occhi a tanti cittadini. Costretti invece ad ingurgitare montagne di fake news propinate dai media di regime. Lo stesso copione, adesso, per l’altrettanto scomodo “La sindrome del criceto”, firmato da Alberto Contri ed edito da “La Vela”, piccola casa ma coraggiosa casa editrice guidata da David Nieri. Denunciano Contri e Nieri: “Abbiamo fatto in estate una intensa campagna social per promuovere il libro, con buoni risultati di vendita. Ma non con Amazon: sappiamo che ha ricevuto molte richieste alle quali non ha dato e non dà seguito, perché dicono che stanno ristrutturando i processi di acquisizione e vendita e poi hanno problemi di algoritmo”. Un modo come un altro per boicottare in modo palese l’uscita del Criceto. Sottolineano ancora Contri e Nieri: “I monopolisti della distribuzione, oltre a distruggere intere filiere concorrenti, intervengono sulla libertà di pensiero, agevolando od ostacolando la presenza di prodotti e di libri nei loro scaffali virtuali. Semplicemente vergognoso. Ricordiamo che il nostro libro si può ordinare direttamente andando sul sito edizionilavela.it”. Contri è stato il fondatore e per anni animatore della Federazione Italiana della Comunicazione, quindi presidente di Pubblicità Progresso.
Amazon denunziata per la censura di libri sul Coronavirus. su La Voce delle Voci il 30 Giugno 2020. Amazon nega anche ad un giornalista italiano, Francesco Amodeo, la vendita on line di un libro sul coronavirus. Lo scrittore non si arrende e decide di chiedere alla giustizia l’autorizzazione alla vendita del suo testo e il risarcimento danni subiti rispetto ad altri autori, preferiti da Amazon, conferendo mandato all’avvocato Angelo Pisani di trascinare in tribunale il colosso commerciale del web per combattere ogni forma di censura. L’avvocato Angelo Pisani, nel denunciare all’Autorità Giudiziaria ogni violazione in danno del giornalista censurato e la arbitraria e fuorviante strategia commerciale di Amazon, chiede anche l’immediato intervento dell’Antitrust e massima tutela per le vittime indifese del sistema Amazon. Il caso del giornalista Amodeo non è l’unico. Anche il professor Giulio Tarro ed altri autori sono stati esclusi dalla piattaforma Amazon per il mancato gradimento da parte di qualcuno dei loro iscritti, ma non è possibile giustificare simili violazioni dei fondamentali principi di informazione legalità e democrazia. Insomma, esplode una guerra legale contro il colosso del web per porre freno a censure e discriminazioni e comprendere il perché di tanto interesse e volontà di indirizzamento. Questo l’attacco di Pisani. «Ingiustificabile e discriminatoria la strategia della società Amazon, che la comunica al giornalista Amodeo il rifiuto di vendere il suo libro-inchiesta “31 coincidenze sul coronavirus e sulla nuova Guerra Fredda USA-Cina” sulla loro piattaforma kindle, perché violerebbe le loro linee guida, spiegando che a causa del rapido cambiamento delle condizioni relative al Virus Covid19, si sarebbe deciso di indirizzare la clientela verso fonti ufficiali per ottenere informazioni sul virus, proponendo pertanto all’autore del libro l’assurda scelta di valutare la rimozione dei riferimenti al Covid19, affinchè lo stesso possa vendersi sulla piattaforma Amazon». Pare che l’algoritmo censuri in automatico i libri che fanno riferimento alla parola “coronavirus” nel titolo. Non sembra però un’ipotesi plausibile, dal momento che sul portale Amazon sono in vendita libri che contengono nel titolo la parola “coronavirus”, come il libro di Roberto Burioni, intitolato: “Virus, la grande sfida: Dal coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l’umanità”. «Purtroppo – denuncia l’avvocato Pisani – risulta chiaro che se il libro è in linea con una certa versione sul virus, non esistano linee guida né algoritmi capaci di intercettarne le parole. Se in fase di revisione i libri fossero letti si sarebbero accorti che nel libro inchiesta di Amodeo sono pubblicate 150 foto tratte solo da fonti ufficiali, analizzando oltretutto il coronavirus non dal punto di vista sanitario, ma dal punto di vista giornalistico e geopolitico. Non vi era quindi alcuna ragione di censurarlo, ma il sistema preferisce imporre un altro sapere». Di fronte a queste condotte, al di là degli approfondimenti e di indagini su tematiche delicate e stravolgenti come quelle su mondo del coronavirus – dichiara l’avvocato Pisani – non si può far finta di nulla e non chiedere tutela per l’autore discriminato Francesco Amodeo vittima di illegittima censura e discriminazione ingiustificabile da parte del sistema Amazon che, in barba ai fondamentali principi di trasparenza, correttezza e buona fede non può escludere libri non graditi accettando invece il libro di Burioni (sul quale invece il reportage delle Iene ha dimostrato il conflitto di interessi con le case farmaceutiche). Oltre a presentare ricorso cautelare e richiesta risarcitoria alla Magistratura, ricorriamo anche dell’Antitrust e dell’Ordine dei giornalisti per la tutela dei diritti di tutti noi e la difesa del diritto di informazione, in uno alla corretta concorrenza commerciale. Dalle prime indagini emerge in realtà che proprio l’Organizzazione Mondiale della Sanità non voglia vedere in giro tesi contrarie sul coronavirus. Stavolta però si mina la libertà d’informazione, in combutta con Amazon. Per la serie: i due big boss a stelle e strisce Bill Gates, fondatore di Microsoft e grande finanziatore dell’OMS, e Jeff Bezos, in sella al colosso della distribuzione, sono oggi uniti nell’indirizzamento dei lettori e negano la commercializzazione e diffusione di altri testi, generando anche ingiustificabile disinformazione. Così si impedisce ai cittadini di farsi una propria idea e di comprendere la vera storia del coronavirus e quali sono i motivi e gli autentici responsabili della pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo. «Pochi lo sanno – attacca Pisani – ma già ad inizio febbraio 2020 OMS, Amazon e altri book store a livello internazionale hanno deciso di indirizzare i lettori a fonti preferenziali tramite un accordo che va sotto il nome di “Covid Policy”, con lo scopo dichiarato di “bloccare la vendita di libri che avrebbero, a dire del sistema dominante, l’obiettivo di fomentare la paura o, peggio, di diffondere teorie di cospirazione sul Covid”. Con queste ultime, strategiche parole, in pratica viene attuata una politica di vendite editoriali che nessuno mai in democrazia si sarebbe mai sognato di mettere in atto: meglio, a questo punto, bruciarli, quei libri scomodi, invece che vigliaccamente impedirne la diffusione». «Pare che a qualcuno dia fastidio la conoscenza di quanto è successo per la tragedia del coronavirus: non si devono ricercare colpevoli della strage e capovolgimento del mondo in corso, ma fortunatamente noi continueremo sempre a scrivere per l’amore della verità e dell’informazione, garantisce l’avvocato al giornalista oscurato da Amazon».
AMAZON. BLOCCA l’USCITA DEL LIBRO-ACCUSA DI TARRO SUL COVID. Paolo Spiga su La Voce delle Voci il 20 Giugno 2020. L’Organizzazione Mondiale della Sanità colpisce ancora. Stavolta la libertà d’informazione, in combutta con Amazon. Per la serie: i due big boss a stelle e strisce Bill Gates, fondatore di Microsoft e grande finanziatore dell’OMS, e Jeff Bezos, in sella al colosso della distribuzione, sono oggi uniti nella lotta per la disinformazione. Impediscono ai cittadini di conoscere la vera storia del coronavirus e quali sono gli autentici responsabili della pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo. Pochi lo sanno, infatti, ma già ad inizio febbraio 2020 OMS, Amazon e altri book store a livello internazionale hanno sottoscritto un patto che va sotto il nome di “Covid Policy”, il cui scopo dichiarato e basilare è stato ed è quello di “bloccare la vendita di libri che hanno l’obiettivo di fomentare la paura o, peggio, di diffondere teorie di cospirazione sul Covid”. Con queste ultime, strategiche parole, in pratica viene attuata una politica di vendite editoriali che neanche i nazisti si sarebbero mai sognati di mettere in atto: meglio, a questo punto, bruciarli, quei libri eretici, invece che vigliaccamente oscurarli e con sotterfugi impedirne la diffusione. E soprattutto la conoscenza di quanto è successo per la tragedia del coronavirus: dove ci sono nomi, cognomi e indirizzi dei colpevoli della strage, fino ad oggi impuniti, a piede libero. E guarda caso, i colpevoli si possono rintracciare proprio sotto i vessilli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e della Bill & Melinda Gates Foundation, come abbiamo documentato nell’inchiesta del 19 giugno. Ovvio, quindi, che killer e mandanti si siano ben attrezzati e premuniti – come testimonia la “Covid-Policy” – per nascondere le verità, per affossare quella contro-informazione, quei libri che spiegano e documentano la scientifica strage del Covid-19, ottimamente studiata a tavolino, mossa per mossa, azione per azione. Un esempio fresco e lampante? Amazon ha appena bloccato la vendita del libro firmato dal più autorevole virologo italiano, Giulio Tarro, intitolato “Covid, il Virus della paura”, che fa luce su una serie di fatti e vicende che la dicono lunga sulle responsabilità di Big Pharma nella coronavirus-story, su quelle dell’OMS, della Fondazione Gates, e – sul fronte di casa nostra – del governo e di tanti, troppi cialtroni travestiti da scienziati. Evidentemente un pugno nello stomaco per amici & sodali di Amazon, come appunto sancito dalla “Covid-Policy” ammazza libertà e democrazia. Così dichiara Tarro. “Invece di indossare i panni del martire, preferisco evidenziare come i condizionamenti posti dalla ‘Covid-Policy’ stanno facendo perdere credibilità soprattutto alle riviste scientifiche. Mi riferisco alla planetaria figuraccia della rivista ‘The Lancet’ sulla idrossiclorochina. Se "The Lancet" ha dovuto ritirare il suo articolo è solo perché centinaia di medici, tra i quali molti che avevano pazienti in cura con idrossiclorochina, si sono dovuti mobilitare contro quell’articolo che aveva immediatamente fatto sospendere la vendita di un farmaco efficace. Una mobilitazione che spero segni l’inizio di una presa di coscienza politica in una categoria, quale quella dei medici, che non brilla certo per coraggio. Basti pensare, ad esempio, alle vaccinazioni alle quali, come è noto, la stragrande maggioranza dei medici non si sottopone (e molti, addirittura, arrivano a redigere falsi certificati di vaccinazione per i propri pazienti). Ma quando si trattò di prendere posizione contro la radiazione del medico Roberto Gava, "colpevole" di esternare pubblicamente alcune sacrosante considerazioni sui vaccini, tra i 400mila medici italiani iscritti all’Ordine, solo pochissimi hanno sottoscritto una lettera di protesta”. Aggiunge Tarro: “Sembra normale che ‘The Lancet’, considerata la Bibbia della Medicina, non si sia degnata di verificare che gli strampalati dati sui quali si basava l’articolo erano falsi? Ma cosa c’era davvero dietro la pubblicazione di quell’articolo destinato a togliere di mezzo un farmaco che faceva svanire i guadagni legati al vaccino anti-Covid? Ma quali intrallazzi si nascondono dietro tanti articoli che pubblicati su autorevoli riviste scientifiche spianano ai loro autori una carriera accademica? Basta leggersi il libro di Marcia Angell, già direttrice del ‘New England Journal of Medicine’, ovvero ‘Farma&Co. Industria farmaceutica: storie di straordinaria corruzione’. Che ovviamente non è disponibile su Amazon”.
PER IL NUOVO COLOSSO MONDADORI-RIZZOLI IN ARRIVO L’ANTITRUST. MA ECCO COSA SUCCEDE NEGLI USA CON IL CASO AMAZON. Paolo Spiaga su La Voce delle Voci il 24 Ottobre 2015. Mondadori ingoia Rizzoli, un affare da 127 milioni di euro. Dopo sette mesi di tira e molla, di trattative, di “si dice”, manifesti anti fusione, esternazioni anti berlusconiane da parte di un nutrito gruppo di autori, ai primi di ottobre il matrimonio si fa e nasce il nuovo colosso che sfiora il 40 per cento del mercato dei libri, mettendosi alle spalle – iperdistanziate – le altri sigle (Gems al 10, Giunti al 6, Feltrinelli col 5 e De Agostini con il 2 per cento). Sconto da circa 8 milioni sulla base iniziale della trattativa, perchè Mondadori si “accolla” il rischio Antitrust: vale a dire cosa dirà, a questo punto, l’autorità di controllo circa la legittimità o meno di un colosso del genere, che – secondo alcuni addetti ai lavori – in qualche comparto (ad esempio i tascabili), arriva addirittura a detenere l’80 per cento del mercato. Minimizzano il rischio alla Mondadori: “nella scolastica – osservano – non superiamo il 25 per cento mentre nel commerciale in senso ampio non andiamo oltre il 35 per cento: quindi quote compatibili in un libero mercato”. Le cifre dei fatturati, comunque, sono elevatissime: ai circa 240 milioni di introiti della divisione libri della Mondadori, infatti, si sommeranno gli oltre 220 che arrivano dalle entrate di Rcs Libri (ossia i nuovi marchi Bompiani, Fabbri, Sonzogno, Marsilio e la stessa Rizzoli). Un’operazione fortemente voluta da Ernesto Mauri, convinto che la nascita del nuovo colosso possa dare impulso al mercato del libro in Italia, allineandoci ai trend dei paesi esteri (e anche per fronteggiare l’assalto di Amazon). Di parere opposto, ad esempio, un altro Mauri, Stefano, al timone di Gems dalla sua nascita (in tandem con Spagnol), tra i parti più riusciti quello di Chiarelettere. Ai microfoni di Lilli Gruber per Otto e mezzo, Stefano Mauri ha espresso i suoi dubbi circa la nascita del colosso-competitor: e ha denunciato l’esistenza di un vero e proprio “monopsonio”. Tecnicamente si tratta della presenza, sul mercato, di “un solo acquirente a fronte di una pluralità di venditori” (mentre il monopolio è caratterizzato da “un unico venditore che offre il suo prodotto”). E’ la stessa accusa che negli Stati Uniti tre storiche e agguerrite sigle associative – American Bookseller Association, Authors United e Authors Guild – hanno formulato nei confronti di Amazon a metà luglio, chiedendo un pronunciamento da parte dell’Antitrust a stelle e strisce, in particolare al “Justice Department of the Antitrust Division”. I promotori chiedono di verificare l’esistenza di una “posizione dominante” nel mercato editoriale ormai detenuto da Amazon, che “ha ottenuto una posizione di monopolio nella vendita dei libri e di monopsonio nell’acquisto di libri”. Il gruppo di Seattle – spiegano alcuni esperti – sarebbe cioè “venditore unico o quasi nel primo caso, compratore unico o quasi nel secondo caso”. Se il buongiorno si vede dal mattino, Amazon ha buone chance per farla franca, o quasi. Il numero uno dell’Antitrust, William J. Baer, ha “esternato” a giugno in modo “leggermente” inappropriato, celebrando – scrive il New York Times – il modello economico “selvaggio” di Amazon nel campo degli e-book: “è servito ad alimentare la competizione”, “a ravvivare il mercato”, è il parere di Baer. Qualche “conflitto” in vista anche negli Usa e nelle “sentenze”? Di parere opposto – cita ancora il New York Times – una nota firma statunitense, Peter Meyers, fresco autore di “Breaking the Page” sul passaggio dalla stampa al digitale: “Il successo di Amazon – sottolinea Meyer – ha schiacciato la competizione”. Insomma un Golia senza alcun Davide all’orizzonte capace di intimorirlo. Ma vediamo, più in dettaglio, le principali accuse contenute nel documento (24 pagine) inviato al Dipartimento di giustizia dalle tre sigle associative, “gruppi che rappresentano – scrive ancora il New York Times – migliaia di autori, agenti e librai indipendenti”. In primo luogo, viene sottolineato, “Amazon ha usato la sua posizione dominante in modi che secondo noi danneggiano i lettori americani, impoveriscono l’industria editoriale nel suo complesso, danneggiano le carriere di molti autori (generando paura fra di essi) e impediscono il libero scambio delle idee nella nostra società”. Bordate da non poco. “Non esiste un solo esempio, nella storia americana, dove la concentrazione di potere nella mani di una sola compagnia abbia alla fine portato benefici ai consumatori”. Ecco alcune fra le pratiche più “distruttive” adottate da Amazon nella sua politica iperaggressiva: “vendere alcuni libri e non altri sulla base di precise tendenze politiche; vendere alcuni libri sottocosto in modo tale da mettere in serie difficoltà, fino ad estromettere, le aziende editoriali dotate di minori mezzi economici; bloccare o ridurre la vendita di alcuni libri (per milioni di copie) per esercitare pressione sugli editori; esercitare la sua posizione dominante per ottenere una percentuale sulle vendite superiore rispetto agli altri editori”. Pratiche e tattiche commerciali che “minano alla base l’ecosistema dell’intera industria del libro negli Stati Uniti”, in una misura che risulterà molto dannosa anche per gli autori della “mid list”, quelli emergenti, le “voci delle minoranze”. Ci voleva la guerra con Amazon (che oggi controlla un terzo del mercato dei nuovi prodotti stampati e i due terzi delle vendite di e-book) per riuscire a riunire sigle storicamente mai gemellate, come ad esempio la Bookseller Association e Author Guilds, che mettono insieme 9000 autori e 2.200 punti vendita. “I nostri punti di vista fino ad oggi sembra siano stati ignorati”, lamentano, ma confidano nel fatto che “il clima sta cambiando”. E, a quanto pare, sperano (sic) nell’Europa. “Ci sono dei grossi sforzi all’interno dell’Unione Europea – Germania e pochi altri Paesi – per esaminare con più attenzione il dossier Amazon. Ciò può avere dei positivi riflessi in quello che accade qui da noi”. Nota il sito “Consumerist”: “a giugno l’Unione Europea ha annunciato che aprirà formalmente una pratica di Antitrust per quanto riguarda i particolari contratti di vendita stipulati da Amazon sul fronte degli e-book”. Saranno allora curiosi, negli States, di conoscere gli sviluppi del nostro Antitrust alle prese con la patata bollente del nuovo colosso “Mondazzoli”?
Ritratto di Guido Morselli, l’autore incompreso rifiutato dagli editori e dagli amori. Susanna Schimperna su Il Riformista il 31 Luglio 2020. Nella notte tra il 31 luglio e il 1° agosto 1973 Guido Morselli, scrittore che mai è riuscito a trovare un editore per i suoi numerosi libri, si uccide. Subito il mondo letterario si mobilita e la stampa si impadronisce della storia: Morselli viene decretato un grande scrittore e le sue opere respinte casi esemplari di rifiuti eccellenti, tanto che in capo a pochi mesi cominciano a essere pubblicati sia i suoi romanzi sia i suoi saggi. Alberto Moravia stigmatizza così il gesto di Morselli: «Ha fatto malissimo. Visto che era ricco poteva fare come me, che a vent’anni feci pubblicare e mie spese Gli indifferenti». In realtà un’opera di Morselli era stata regolarmente pubblicata da un editore, e da un editore importante. Si trattava di Proust o del sentimento, saggio uscito per Garzanti nel 1943, uno studio originale per scrittura e tesi – la Recherche come sintesi di contrari, io e sentimento – del tutto ignorato dalla critica proustiana. E c’era poi stata, due anni dopo, una prima e unica edizione di Realismo e fantasia, ovvero dialoghi con Sereno. Probabilmente la pubblicazione di questo libro, uscito per l’editore Bocca, avvenne sì, a spese dell’autore. Niente di assimilabile agli esordi di Moravia, dunque. Anche perché bisogna confrontare le date: se Moravia al tempo de Gli indifferenti aveva vent’anni, per Morselli la prima pubblicazione a pagamento era avvenuta a trentacinque, essendo egli nato il 15 agosto 1912. È da quel momento che comincia a scrivere di più, arrivando ai suoi grandi romanzi degli anni Sessanta, quando, di fronte ai ripetuti rifiuti, la sua reazione di ultra quarantenne che sulla scrittura ha investito tutto, e da sempre, non poteva essere la stessa di un impetuoso e risoluto ventenne. «Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera…» (Diario, 6 novembre 1959). Ho oziato, dice Morselli spietato verso se stesso e anche ingiusto, perché se scrivere continuamente e con tanta passione per lui significa oziare, allora c’è dell’altro oltre alla frustrazione per il mancato riconoscimento, c’è il rimpianto di una vita diversa, il senso di colpa per non avere fatto qualcosa che sentiva doveroso fare. È lecito ave- re dubbi: forse non si è ucciso, dunque, soltanto per il fallimento professionale. La vita di Morselli in effetti non è stata all’insegna di imprese memorabili. Secondo di quattro figli, padre dirigente d’impresa e madre figlia di uno di più noti avvocati di Bologna. La famiglia si trasferisce a Milano quando Guido ha due anni e poi, nel 1922, la madre amatissima viene ricoverata per curarsi di febbre spagnola e i figli affidati a una governante. La donna morirà due anni dopo lasciando Guido sconvolto, mentre cominciano i primi dissidi con il padre, spesso assente e critico verso quel figlio che appare irrequieto e insieme svogliato, insofferente alla scuola (supererà l’esame di maturità nel ’31, da privatista, dopo essere stato bocciato l’anno precedente), senza un’idea precisa di cosa fare, tanto che si lascerà imporre l’iscrizione a Giurisprudenza e conseguirà una laurea che dal punto di vista lavorativo non gli servirà assolutamente a nulla. Dopo il servizio militare e la scuola ufficiali degli alpini, va all’estero e da qui scrive racconti e reportage, quindi resiste solo un anno come promotore pubblicitario – un posto che gli ha trovato il padre – e, alla morte della sorella Luisa (1928) – un altro evento che lo traumatizza –, ottiene dal padre un vitalizio che gli permetterà, per il resto della vita, di dedicarsi solo alla lettura e alla scrittura. Colto, non erudito. È questo che gli interessa essere. «L’erudizione è un possesso statico, acquisito una volta per tutte, che una salda memoria basta a conservare. La cultura dell’individuo è sempre sul farsi, o non è. L’uomo colto non è chi sa, ma chi apprende. (…) Non basta. A differenza dell’erudizione, la cultura è un fatto non soltanto mentale. – È una qualità che attiene al carattere, che presuppone nell’individuo un certo atteggiamento. Si suol ripetere che la cultura genuina è, di norma, anche educazione dell’animo, e che ingentilisce i costumi, che eleva il sentimento. Questo è vero, sebbene sia un luogo comune» (dal Diario). Nella lunga lettera in risposta alla ancora più lunga lettera con cui Italo Calvino, all’epoca direttore editoriale di Einaudi, rifiuta il suo romanzo Il comunista, si definisce anche “autodidatta”, con un eccesso di umiltà forse fuori posto, ma che suona genuino. Nel 1940 Morselli è in Sardegna, richiamato come ufficiale per alcuni mesi. Scrive nell’occasione un saggio sui fondamenti della moralità, Filosofia sotto la tenda, quindi, al ritorno, si dedica allo studio di Proust e alla stesura del citato Proust o del sentimento. Viene spedito in Calabria, ed è qui che inizia a scrivere l’altro libro che verrà pubblicato, Realismo e fantasia, ma soprattutto prende appunti e pensa a quello che sarà tra i suoi romanzi più belli, Uo- mini e amori. Ecco il passaggio in cui Vito Cambria, pittore, lasciato dalla donna che credeva di non amare soffre invece di un dolore immenso: «… Una sofferenza improvvisa e travolgente, che ebbe per Cambria la qualità di una rivelazione. (…) S’illuse per un momento di odiarla, e fu l’ultima disperata difesa dell’orgoglio. (…) Sentiva il suo male addentrarsi in lui, progredire, lo sentiva ora come qualcosa d’indipendente, dotato di una sua ostile volontà. Il dolente stordimento del mattino si mutava in un assillo vivo, mentre un pensiero gli martellava il cervello con la violenza assidua dell’ossessione: “non la vedrai mai più”. Non aveva mai riconosciuto, pensava, la più semplice delle verità: si era illuso di avere altri interessi, l’arte, la gente, il successo; ora che era tardi finalmente capiva, ora rinsaviva. “Ora, se te ne restasse il fiato, ti pianteresti in mezzo a quella piazza a gridare che Vito Cambria sta soffrendo bestialmente perché la sua amica lo ha lasciato, giureresti che nella vita c’è una cosa sola che importi, l’amore di una donna”» (Uomini e amori). Cambria scrive un telegramma che gli viene rispedito da un’amica di lei che lo invita a cessare ogni comunicazione, ma come preso da follia comincia a mandare invece una lettera dopo l’altra, vivendo solo per la speranza di ricevere una risposta e martirizzandosi nel tornare ossessivamente con la memoria a ogni dettaglio della relazione, dandosi tutte le colpe, detestandosi. Le reazioni esaltate e maniacali all’abbandono raramente sono state descritte così bene. «Conobbe l’ansia della ricerca retrospettiva cara e torturante; (…) Pensava con odio e invidia a se stesso, a quell’individuo che aveva senza merito, forse indifferente, posseduto la donna che a lui mancava, la cui mancanza rendeva la sua vita un deserto» (Uomini e amori). È nel 1952, quando la sua fidanzata di sempre declina la sua proposta di matrimonio e sposa invece un altro, che Morselli sperimenta su se stesso le pene dell’abbandono (e del rifiuto, questa volta sentimentale). L’amica Maria Bruna Bassi racconterà di molti flirt e di poche relazioni importanti, di amore-odio. Un passionale. Un uomo che non veniva facilmente dimenticato. Nello stesso anno c’è un altro evento importante: Morselli decide di costruirsi a Gavirate, su un terreno compratogli dal padre, una piccola casa che ha disegnato lui stesso, Santa Trìnita. Nessuna comodità “moderna” nella casa. Non le vuole, le giudica superflue. Si chiude lì dentro e scrive, scrive. Qualche articolo con cui collabora a giornali locali e al Tempo di Milano, ma soprattutto romanzi, commedie, racconti, saggi. Di nuovo, però, nel Diario annota pensieri che ci suggeriscono che non senta affatto l’impegno letterario come una missione o una giusta vocazione. Di Morselli è sorprendente l’eclettismo: sembra incredibile che Uomini e amori abbia lo stesso autore di Divertimento 1889, di Roma senza Papa, di Incontro col comunista, di Contro-passato prossimo, tutte opere a cui è difficile attribuire un genere, e in cui spesso si intrecciano saggistica e narrativa, o che partono da premesse fantascientifiche, come Roma senza Papa, che vede una Roma disfatta e un Vaticano disabitato, perché il Papa ha trasferito la sede apostolica in una villetta a schiera a Zagarolo. Nessuno che abbia trovato intelligenti, profondi, ben scritti e godibili quegli stessi libri che subito dopo la morte di Morselli tutti si sono affrettati a definire capolavori, sprecandosi in accostamenti, rimandi, paragoni con autori celebrati e già nella leggenda. Tra le carte di Morselli – tante, perché collezionava anche quotidiani e riviste –, anche un fascicolo con su scritto “Rapporti con gli editori” e il disegno di un fiasco sul frontespizio. All’interno, la corrispondenza con i responsabili delle case editrici, ovvero la lunga, stupefacente serie di ininterrotti rifiuti, che parve a un certo punto aver fine quando, nel ’66, Rizzoli accettò di pubblicare Il comunista. Macché. Illusione. Dopo l’arrivo delle prime bozze da correggere era cambiato il direttore editoriale, e il sì diventò un ulteriore no. Il rifiuto di cui si è parlato di più è quello di Italo Calvino, perché la sua lettera è articolatissima e anche, in più punti, riguardosa, e ad essa rispose un Morselli ancora più riguardoso, che pur difendendo le proprie ragioni, o meglio le ragioni del romanzo (Il comunista, che era parso a Calvino soprattutto privo di ogni accento di verità nella descrizione del Partito comunista e dei suoi membri), chiude con grandi ringraziamenti tutt’altro che ipocriti. Morselli continua a scrivere e a inviare. È sempre più solo. Rara- mente si reca a Milano. Preferisce girare nella sua vallata sul dorso del cavallo. Gli viene rifiutato anche l’ultimo, splendido romanzo, Dissipatio H.G. (Humani Generis), che assomiglia a una confessione, la prima. Il protagonista è un uomo lucido, ironico e solitario, che sta per porre fine ai suoi giorni tuffandosi in un laghetto in fondo a una caverna ma poi, all’improvviso, cambia idea, e scopre che proprio in quel breve intervallo il genere umano è scomparso. Resta così l’unico uomo sulla Terra, lui che aveva voluto morire. È l’ultima volta che Morselli scrive di suicidio, ma non è la prima. Aveva già scritto un articolo sul tema molti anni prima (1919), e a distanza di tempo (1956) un saggio di una trentina di pagine, Capitolo breve sul suicidio, in cui sono illustrate le varie motivazioni che possono spingere a preferire la morte, motivazioni che alla fine, secondo lui, si riducono alla perdita di ogni interesse, di ogni sentimento verso la vita. Pochi mesi dopo aver terminato Dissipatio H.G. ed esserselo visto rispedito indietro già da due editori, costretto a lasciare Santa Trìnita per un’improvvisa “invasione di motocrossisti” che l’avevano spaventato con le loro brutali reazioni alle sue rimostranze, Morselli il 31 luglio 1973 è nella casa di Gavirate. Si accomoda su una sedia a sdraio che ha portato in bagno e si spara un solo colpo con la sua Browning 7.65 («la ragazza dall’occhio nero» come l’aveva più volte definita nel suo Diario). Lascia una lettera alla questura di Varese, in cui si legge: «Non ho rancori».
· Cultura e /o Propaganda?
I Testi della Propaganda. Andra Amata, 27 settembre 2020 su Nicolaporro.it. L’ortodossia del politicamente corretta censura qualsiasi illustrazione che possa essere disallineata al suo rigido dogmatismo. E così la verità diventa inoperativa se risulta incompatibile con i canoni del pensiero unico che plasma la realtà al linguaggio dell’indifferentismo. L’omologazione che ne deriva rappresenta un depauperamento della società, che si sostanzia della diversità senza vocazioni egemoniche sulle molteplici culture che l’attraversano.
Vignetta incriminata. La bufera provocata dalla vignetta, presente sul manuale di letture Le avventure di Leo edito dal Gruppo Editoriale Raffaello per la seconda elementare, raffigurante un alunno nero che dice: «Quest’anno io vuole imparare italiano bene» è il sintomo di una semplificazione vincolata al cliché accusatorio di razzismo. Una sorta di reazione sanzionatoria che obbedisce ad uno schema automatico da cui si origina l’indignazione convenzionalista. Il manuale con la vignetta incriminata è stato segnalato per istigazione al razzismo e gli insegnanti ne hanno chiesto il ritiro dalla fruizione scolastica. La frase criminalizzata dalle vestali del politicamente corretto, con enfatico zelo censorio, non mi pare che possa essere inquadrata nella diffamazione razzista, perché esprime l’attitudine volitiva dello straniero ad integrarsi e la carenza linguistica raffigurata nella vignetta non indica un deficit strutturale ma l’esordio di un percorso inclusivo di apprendimento.
Testi scolastici immigrazionisti. Sono ben altri i testi scolastici su cui infervorarsi per la loro tendenza ad indottrinare gli studenti affinché assorbano acriticamente progetti di sostituzione etnica. Emblematico il silenzio dei novelli censori quando si evidenziavano gli estratti di un testo di geografia Geo Green 2 edito da Paravia per la scuola media in cui veniva descritta l’emergenza sull’«invecchiamento medio» e sulla diminuzione dei «giovani europei» con un manifesto ideologico dai toni imperativi: «Gli immigrati extraeuropei (africani, asiatici, sudamericani) rappresentano già oggi una parte consistente della popolazione giovane d’Europa. La vera sfida sociale e demografica del continente consiste nel “passare il testimone”: gli immigrati devono poter entrare nella società e nell’economia europee a ogni livello professionale e civile; solo accettando gli immigrati l’Europa anziana (che detiene la ricchezza economica e le radici culturali europee) permetterà l’esistenza dell’Europa futura». Educare significa offrire ai giovani gli strumenti per decodificare la complessità della realtà e non catechizzarli all’immigrazionismo o al modello di cui è alfiere l’ex “presidenta” della Camera Laura Boldrini che eleva il migrante ad «avanguardia della globalizzazione che ci offre uno stile di vita da emulare». La cupola del politicamente corretto vorrebbe detenere l’autorità medioevale per concedere o negare l’imprimatur, la preventiva autorizzazione alla pubblicazione di un libro affinché sia conforme ai suoi precetti. Sicuramente lo avrebbe concesso al volume In prima!, della collana Zoom dell’editore Loescher, rivolto ai ragazzi di prima media, che si schiera apertamente per accogliere senza filtri il flusso migratorio – «gli immigrati sono una presenza indispensabile, soprattutto in alcuni settori lavorativi come l’edilizia, il lavoro domestico, l’assistenza a bambini e anziani» – e per lo ius soli – «i figli di stranieri nati in Italia continuano a non aver diritto alla cittadinanza italiana». Si potrebbero citare tanti esempi di testi che orientano ad un pensiero, manipolando la libera capacità critica che dovrebbe essere l’obiettivo prioritario del sistema educativo. Invece, da alcuni manuali emerge la narrazione di una visione acritica sul tema dell’immigrazione con la finalità di plasmare i cittadini del domani al verbo tossico del politicamente corretto. Per tanti anni il sistema scolastico ha tollerato che gli studenti si formassero sulle omissioni dei manuali di storia rispetto alla tragedia delle foibe, provocando sul sentimento di appartenenza nazionale il “delitto” della memoria reticente e infierendo sul martirio di migliaia di italiani vittime della pulizia etnica dei comunisti jugoslavi del maresciallo Tito. Ieri per ragioni ideologiche si imponeva il bianchetto sulle pagine buie della storia che evocavano i delitti partigiani, oggi la stessa tendenza soverchiante la si vuole applicare per imporre l’omologazione al pensiero dominante intervenendo sin dalle fasi embrionali del processo educativo. Andra Amata, 27 settembre 2020
Filippo Facci, bordata agli ambientalisti in piazza: protestano ma le emissioni sono calate. Libero Quotidiano il Filippo Facci 26 settembre 2020. Raccontategli questo, a quelli che fanno i paragoni tra popolo italiano e anglosassone sullo sfondo del Covid-19: raccontategli che ieri (in teoria) sono tornati in classe due milioni di studenti (Abruzzo, Calabria, Campania, Basilicata, Puglia) oltre ai 5,6 milioni che (sempre in teoria) hanno iniziato il 14 settembre: e che parte degli esordienti, però, è andata direttamente a fare una manifestazione, già, l'assembramento per definizione. Raccontategli, pure, che un'altra parte di studenti e personale scolastico era già rimasta a casa da venerdì 18 per via della decisione governativa di fissare le elezioni regionali e il referendum domenica 20 e lunedì 21, senza contare i casi particolari di Napoli dove tutte le scuole inizieranno oggi o lunedì come pure accadrà a Catanzaro, Andria, Trani, Adelfia e Bitonto, e senza contare altre eccezioni (Olbia, Torre del Greco, più tutta la didattica online contrapposta a quella normale) e però contando soprattutto, appunto, la stra-cazzata di ieri e oggi: che si sono messi subito a manifestare.
SLOGAN VUOTI. Per che cosa? In teoria (qui è tutto in teoria) per le solite questioni per le quali si potrebbe manifestare sempre: precariato, carenze di spazi, «classi pollaio» e casino vario, perché intanto si continuerà con le mascherine e le finestre aperte anche d'inverno; aggiungiamoci la novità dei «precari Covid», cioè il cospicuo numero di docenti e personale della scuola licenziabile in caso di lockdown: vogliono restare a scuola e allora ieri non ci sono andati. Loro almeno parlano di lavoro, non come i paraculi globali di «Fridays for Future» (ieri era venerdì) che proprio ieri hanno pensato di indire «una nuova giornata di azione globale» «affinché la crisi climatica non venga dimenticata all'ombra del Coronavirus». Parliamo di studenti ma anche di insegnanti. Ah, c'è Greta Thumberg che ieri si è unita a un gruppo di dimostranti davanti al Parlamento svedese. Ecco, l'abbiamo scritto. Parentesi eco-catastrofista: il Covid non ha messo in ombra «la crisi climatica», l'ha proprio cancellata nel suo risvolto conformista-estremista stile Greta Thumberg: come è noto, l'irripetibile stop mondiale è stato superiore a qualsiasi auspicio (si sono fermate persino le pestilenziali fabbriche cinesi, le auto sono rimaste parcheggiate, decine di migliaia di voli sono stati cancellati) ma sono fioccati studi che hanno misurato gli effetti della pandemia sulle emissioni e hanno dimostrato come la concentrazione di CO2 (l'anidride carbonica, il principale gas serra) sia risultata trascurabile a dir poco. Inoltre, notizia dell'altro giorno, l'Agenzia Europea per l'Ambiente ha appena spiegato che quest'anno le emissioni sono scese del 4% sul 2018 - che fanno 24% rispetto al 1990 - e insomma risulterebbe già abbondantemente superato l'obiettivo europeo di ridurre le emissioni del 20% entro il 2020. Però, ieri, studenti e insegnanti hanno manifestato per il clima.
SOLITI PROTAGONISTI. Restando prettamente in Italia, poi ci sono i sindacati: i quali manifestano ufficialmente oggi ma facevano capolino già ieri - è il loro lavoro - e potete saltare il seguente elenco di aderenti, noi dobbiamo registrarlo: sindacati di base Usb P-I Scuola, Unicobas Scuola e Università, Cobas Scuola Sardegna e Cub scuola. Sciopero. Poi ancora gli studenti (ma saranno pochi, vedrete) e grande consacrazione in piazza del popolo dalle 15: il movimento «Priorità alla scuola» saluta la presenza di Cgil, Cisl, Uil, Snals, Gilda e Cobas. Bene. Bravi. Molto popolare. È il periodo giusto. Dimenticavamo, quasi, di menzionare per oggi un puntuale sciopero dei mezzi pubblici (indetto dall'Usb dei trasporti) e anche per questo il presidente dell'Associazione nazionale dei presidi scolastici (che esiste) ha fatto sapere alle famiglie che «non potrà essere garantita la didattica». Insomma, avete capito: è tutto surreale, e la noia è vostra nel leggere e nostra nello scrivere. Infatti le manifestazioni studentesche, ieri, sono state un flop (pochissimi a Milano, Roma, Genova, Napoli, Perugia, L'Aquila e Siracusa: lo scrive l'Agenzia Italia) e chissà come andrà oggi anche a «studenti, discenti, educatori e genitori» che domani dovrebbero ritrovarsi a Roma provenendo da trenta città. Saranno vagliati uno per uno (al termo scanner) e dovranno avere la mascherina. Sempre più assurdo: nulla è come prima, tranne la recita scolastica, sindacale, sociale, nazionale. Mentre il governo è contento: perché ha riaperto le scuole, dice.
· La Grafologia.
Le "profezie" nascoste dietro queste lettere. La grafologia ha in sé un potere predittivo, non certo di natura mantica bensì, come sosteneva anche Rita Levi Montalcini, come indicatore di segnali premonitori di fatti non ancora accaduti. Evi Crotti, Giovedì 27/08/2020 su Il Giornale. Sono consapevole del fatto che per alcuni la grafologia faccia parte delle pseudo scienze e non possa essere annoverata tra le scienze esatte. Questo è senz’altro vero, ma tale discorso vale anche per la medicina e la psicologia. Però c’è un punto a suo favore ed è quello che lasciando una traccia indelebile sul foglio la scrittura permette di cogliere e verificare quanto la grafologia afferma per conoscere a fondo se stessi e gli altri. Valutando i ragazzi d’oggi ho potuto constatare come sia carente il livello di apprendimento e, di conseguenza, anche il comportamento ne va di mezzo. Sono questi due elementi valutativi che hanno subito delle variazioni notevoli, dovute soprattutto all’avvento del digitale. Scrivere a mano, specialmente in corsivo, favorisce nell’età evolutiva uno sviluppo completo delle abilità cognitive, percettive e motorie, migliorando aree del cervello deputate al pensiero, al linguaggio, alla manualità e alla memoria, nonché favorendo la stabilità emotivo-affettiva. Battere le dita su una tastiera non è come articolare movimenti complessi con le dita impugnando una penna. Una volta esisteva l’insegnamento della "calligrafia", che però venne abolita nel '68. Da allora in un gran numero di ragazzi, col subentrare delle tecnologie, si è riscontrato da un lato l’aumento della disgrafia e dall’altro la perdita di due facoltà fondamentali come l’attenzione a lungo termine e la concentrazione. A ciò va aggiunto l’incremento di comportamenti iperattivi e di distraibilità. Per quanto riguarda l’adulto, posso affermare, senza tema di smentita, che la grafologia ha in sé un potere predittivo, non certo di natura mantica bensì, come sosteneva anche Rita Levi Montalcini, come indicatore di segnali premonitori di fatti non ancora accaduti. Qualche esempio pratico servirà a comprendere meglio questo concetto. Carlo e Diana Nella primavera del 1981, quando Carlo e Diana vennero in Italia mi fu chiesto un parere sulle possibilità d’intesa tra i due. Scrissi, papale papale, “questo matrimonio non s’ha da fare”. Troppo diverso il carattere della principessa per accettare le regole della casa reale inglese, dove Carlo era troppo dipendete dalla Madre Sovrana. La storia ha dato pienamente ragione alla grafologia. Meghan e Kate Nel 2018, per “IlGiornale.it”, feci il profilo delle due cognate, mogli degli eredi al trono d’Inghilterra. Questa la sintesi del profilo: “Il conflitto che si è venuto a creare tra le cognate e il Palazzo è forse scattato per sentimenti di forte gelosia che però Kate sembra reggere meglio rispetto a Meghan”. Infatti, è stata quest’ultima ad andarsene. Roberto Calvi Il 18 giugno 1982 il banchiere Roberto Calvi fu trovato impiccato sotto un ponte a Londra. Alcuni parlarono di suicidio. La scrittura smentiva decisamente tale convinzione poiché non segnalava nulla che potesse farlo sospettare. Anche qui la storia sembra aver dato ragione alla grafologia. Michele Sindona Quando il banchiere era in auge e dettava legge in materia di alta finanza mi fu chiesto di stilare un profilo circa l’onestà o meno del personaggio. Ricordo che usai le parole “amorale e immorale”, che però il giornalista modificò per il timore di rappresaglie. La fine che fece il banchiere dimostra come la grafologia sia in grado di cogliere l’inganno e la truffa nelle persone. Pacciani, il mostro di Firenze Attraverso lo studio del grafismo e dei disegni del contadino di Mercatale fui in grado di escludere che fosse lui il mostro di Firenze poiché non possedeva le peculiarità del serial killer, in particolare presentava povertà mentale e cognitiva. Come si può vedere la scrittura, essendo strumento di comunicazione non Verbale, permette di conoscere sé stessi e gli altri. Dice Padre Girolamo Moretti, fondatore della grafologia italiana: “il grafologo nella definizione della personalità di un soggetto incontra le stesse difficoltà che trovano anche altre branche della scienza”.
· I premi Nobel.
Simona Verrazzo per “il Messaggero” l'11 novembre 2020. Dal premio Nobel per la Pace alla guerra civile. È quello che sta succedendo in Etiopia, che a un anno dall' assegnazione del prestigioso riconoscimento si trova di nuovo sotto i riflettori ma per il motivo opposto, sull' orlo di un conflitto interno che rischia di riportare il paese africano nella spirale di violenza, fame e morte in cui ha vissuto per decenni. Da settimane sono in corso combattimenti nella regione settentrionale del Tigray (o Tigré), al confine con l' Eritrea e il Sudan, e gli ultimi aggiornamenti parlano di attacchi aerei che hanno fatto dozzine di vittime. Un' escalation che ha spinto a intervenire, chiedendo che si fermino le armi, anche le Nazioni Unite e l' Unione Africana, con quest' ultima che proprio ad Addis Abeba ha il suo quartier generale. E come un anno fa l' attenzione è tutta per il primo ministro etiope, Abiy Ahmed Ali. Sembra passato un secolo ma era l' ottobre del 2019, quando gli è stato assegnato il premio Nobel per la Pace per il suo impegno sfociato con la ripresa dei rapporti diplomatici con la vicina Eritrea. Eppure oggi Abiy, che con i suoi 44 anni è il leader più giovane d' Africa, è finito nel mirino per l' uso della forza nel Tigray. La regione settentrionale da sempre rivendica la propria indipendenza rispetto ad Addis Abeba: la lingua tigrina è la stessa parlata nella vicina Eritrea. E Abiy ha accusato Asmara di aver inviato le sue truppe in sostengo degli indipendentisti del Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray (Tplf), violando i confini. Il bollettino giornaliero degli scontri parla dell' esercito etiope che occupa l' aeroporto di Humera, che sorge nello strategico punto di incontro con le frontiere di Eritrea a Sudan. Oltre a Humera e al capoluogo Macallè, nel Tigray si trova la città di Axum, con la stele riconsegnata dall' Italia e la chiesa in cui sarebbe conservata l' arca dell' Alleanza, la cassa in legno d' acacia dove erano conservate le Tavole della Legge date da Dio a Mosé sul Monte Sinai. Gli analisti non mancano di sottolineare come l' Etiopia sia di nuovo davanti a uno scontro tra le tantissime componenti della sua società, sempre con la supremazia dell' etnia degli Oromo, di lingua amarica, a cui appartiene anche Abiy Ahmed Ali. Un conflitto interno potrebbe destabilizzare l' intera regione del Corno d' Africa, dove i rapporti sono già tesissimi anche per il progetto della diga sul Nilo. E il premier, con le proteste che continuano da questa estate, sembra sempre più barricarsi nella sua carica, arrivando a decapitare i vertici della Sicurezza, il capo dell' Esercito, quello dell' Intelligence e il ministro degli Esteri. La parabola di Abiy Ahmed Ali riporta d' attualità il dilemma di assegnare il premio Nobel per la Pace ai leader politici. Le ultime ombre si sono allungate sulla birmana Aung San Suu Kyi, premiata nel 1991, in passato icona dell' opposizione pacifista e democratica e adesso accusata di connivenza con il regime nella repressione verso la minoranza islamica dei Rohingya. Le polemiche hanno investito anche l' ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, a cui il prestigioso riconoscimento è stato assegnato nel 2009, a neanche un anno dall' inizio del mandato: i suoi detrattori ne sottolineano il ruolo nella guerra in Libia, con gli Stati Uniti impegnati nell' operazione Nato che ha portato alla destituzione di Muammar Gheddafi nel 2011. E se questi sono i due casi più noti, altri Nobel per la Pace sono finiti nel mirino. L' ex presidentessa della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf, è stata scelta nel 2011 ma poi accusata di brogli elettorali quando rieletta quello stesso anno. Nello scandalo è finito l' istituto di micro-credito Grameen Bank, del bengalese Muhammad Yunus, insignito nel 2006, così come l' ex presidente colombiano Juan Manuel Santos, premiato nel 2016 per l' accordo con le Farc ma costretto un anno dopo a scusarsi per i finanziamenti illegali delle sue campagne elettorali.
Poesia di Louise Gluck pubblicata dal “Corriere della Sera” il 9 ottobre 2020.
C'era una guerra tra il bene e il male.
Decidemmo di chiamare il corpo bene.
Ciò fece della morte il male.
Rivolse l'anima completamente contro la morte.
Come uno scudiero che vuole
servire un grande guerriero, l'anima
voleva parteggiare per il corpo.
Si rivolse contro il buio,
contro le forme di morte che riconosceva.
Da dove viene la voce
che dice supponiamo che la guerra
sia male, che dice
supponiamo che il corpo ci abbia fatto questo,
ci abbia resi paurosi di amare
da “Averno”, traduzione di Massimo Bacigalupo per gentile concessione degli editori Dante & Descartes e Editorial Parténope
Dario Olivero per “la Repubblica” il 9 ottobre 2020. Il Nobel per la letteratura è andato a Louise Glück, 77 anni, poetessa, anzi premiata e laureata poetessa statunitense. Alcune considerazioni a margine. Il Nobel va a una donna, questo va notato, poiché Stoccolma si dimostra giustamente molto sensibile dopo gli scandali sessuali di due anni fa. Non sono invece state notate né Maryse Condé né Jamaica Kincaid né Annie Ernaux. La letteratura non è politica, non c'è dubbio. Ma neanche ignorare lo spirito del tempo. Il romanzo moderno nasce imbevuto di storia. Riuscite a immaginare Delitto e castigo senza la Russia zarista, il nazionalismo e il terrorismo anarchico? Oggi ci sono questioni come cambiamento climatico, nuovi movimenti per i diritti civili e, per inciso, una pandemia mondiale che sta ridisegnando la storia. Svezia esclusa. Il Nobel a Bob Dylan per molti fu uno scandalo: il premio a un cantante? si disse. No, a un poeta, era la difesa. Ecco, ora il premio è andato a una poetessa. Giustizia è fatta. I bookmaker si guadagnano da vivere con le scommesse, sono gente pratica, guardano alle probabilità non al merito della puntata. Louise Glück era data 25 a 1 come Marilynne Robinson e Edna O' Brien. Scovare l'intruso. È un premio all'anglosfera. Ma a una lingua inglese pulita, laureata e accademica. E tanti saluti al global english, parlato con accenti e cadenze diverse dall'Africa alla Spagna all'Asia e che arricchisce una lingua sempre meno imperiale e sempre più mondiale. È un Nobel che ci invita a leggere, dice la motivazione, una «inconfondibile voce poetica che con l'austera bellezza rende universale l'esistenza individuale». E poi: «L'infanzia, la vita famigliare e le relazioni con genitori e fratelli sono una tematica che rimane centrale nel suo lavoro». Probabilmente si può dire di ogni scrittore non necessariamente premio Nobel. Alcuni esempi: Cormac McCarthy, Don DeLillo, e, che l'Accademia Reale non ascolti, perfino Milan Kundera. Pare che in Svezia Louise Glück sia molto tradotta e gli svedesi abbiano accolto con gioia l'annuncio. Meglio non riportare per intero la frase sul jazz attribuita a John Coltrane: come certe manifestazioni fisiologiche del corpo umano, piace solo a chi lo fa. In Italia è stata pubblicata da un piccolo e coraggioso editore napoletano. Complimenti sinceri a lui in ogni caso. L'Accademia di Svezia ribadisce ancora una volta autonomia di giudizio, austerità e indipendenza. Potrebbe anche permettersi di cambiare la ragione sociale: SNOB-EL.
Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 9 ottobre 2020. Giano di Tiziano Gianotti deliziosamente snob che illumina le caverne letterarie del '900. Dante&Descartes di Napoli è una libreria con due sedi, speziata di libri antichi di rara raffinatezza. Oggi entrambe esultano perché sono gli editori unici, in Italia, di Louise Glück, il nuovo Premio Nobel per la letteratura. Glück, poliedrica, d'un'eleganza rarefatta, classe '43, newyorkese di origini ebraico-ungheresi, in America è un piccolo mito letterario ad uso dell'upper class. "Poetessa laureata" vive tra la Grande Mela e la Yale University dove insegna inglese. Secondo la motivazione ufficiale dell'Accademia di Stoccolma è una «che con austera bellezza rende l'esistenza individuale universale». Il che significa tutto e nulla. Forse a causa dell'influenza di Robert Lowell, molti la paragonano a Sylvia Plath e Anne Sexton, poetesse "confessionali" assai mainstream; ma, trovandosi difficilmente soggetta agli incasellamenti (donna, ebrea, femminista) la signora trova, in realtà nella forza del proprio vissuto, il sestante della sua poetica ispirata essenzialmente al "mito". Il mito. In questo è equiparabile, forse più alla svedese Alma Katarina Frostenson Arnault; per esempio nel racconto del mito di Persefone: «Quando Ade decise che amava la ragazza/costruì per lei un duplicato delle terra/tutto uguale persino il prato ma con un letto in più». Glück difficilmente scrive in rima. E usa la tecnica dell'enjambement, la cosiddetta "inarcatura" ossia la pausa ritmica continuazione di una frase al verso successivo, ad annullare la pausa di fine verso. In più, secondo Anders Olsson presidente del comitato per il Nobel, possiede un «raffinato senso espositivo» che si sposa perfettamente con la tematica dei miti classici e del rapporto uomo/natura. L'ispirazione, come spesso accade, le proviene da esperienze personali. Il suo sfondo emotivo sono i traumi legati alla morte, al rifiuto, al fallimento delle relazioni. Ma soprattutto ad un particolare universo del dolore infuso nei suoi componimenti derivante dall'esperienza dell'anoressia, vissuta in prima persona da adolescente e mai davvero elaborata dalla propria famiglia. Il classico «buco nell'anima», per citare Seneca che ne ha alimentato l'apprezzata vena crepuscolare. La poesia di Glück non ha doppi fini politici o sociali: trattasi di lirica cristallina. Se ne capisce lo spirito, per esempio in Aprile, la poesia tratta dalla sua raccolta più famosa, L'Iris selvatico: «Nessuna disperazione è come la mia disperazione/Non avete luogo in questo giardino/di pensare cose simili, producendo/i fastidiosi segni esterni; l'uomo/che diserba cocciuto tutta una foresta, la donna che zoppica, rifiutando di cambiar vestito/o lavarsi i capelli./Credete che mi importi/se vi parlate?/Ma voglio che sappiate/mi aspettavo di più da due creature/che furono dotate di mente/se non/che aveste davvero dell'affetto reciproco/almeno che capiste/che il dolore è distribuito/fra voi, fra tutta la vostra specie». Qualche critico più spinto parlerebbe della sua universalità come un richiamo al «contatto panico (dal panismo) con la natura». Comunque sia, tutto ciò le ha fatto vincere decine di premi tra cui il Pulitzer nel 1993 e il National Book Award nel 2014. La poetessa, si diceva, attinge ai miti classici di Didone, Persefone ed Euridice - gli abbandonati, i puniti, i traditi - che trasforma in maschere di «un sé in trasformazione, tanto personale quanto universalmente valido». Tra le raccolte, che l'hanno fatta paragonare - inopinatamente - a Emily Dickinson spiccano Il trionfo di Achille (1985) e Ararat (1990), The wild Iris, appunto (1992, per Giani Editore), Averno (2006, Dante&Descartes). E qui si rileva un forte legame tra la sua opera e l'ambiente naturale di Napoli. Averno è infatti il nome di un lago vulcanico a pochi chilometri dal centro del capoluogo campano. «Ci sembrava paradossale» ha raccontato Raimondo Di Maio fondatore di Dante&Descartes «che un libro che si chiama Averno non venisse pubblicato qui. Louise Glück non c'è mai stata, ma è come se conoscesse quel lago grazie ai classici greci e latini e ci restituisse la conoscenza attraverso il dialogo con i morti, dialogo discreto, contemporaneo. Sono contento, da editore napoletano, di aver pubblicato questo libro. Si pensa sempre che l'editoria esista solo dal Garigliano in su. Napoli è stata un grande centro di distribuzione di stampa e editoria». Non so quanto di questo la Glück, poetessa di punta della letteratura Usa del secondo Novecento (l'ultimo americano a vincere il Nobel fu Bob Dylan), sia a conoscenza. Ma che da noi il cuore di un premio Nobel snobbato dai grandi possa palpitare soltanto grazie alla chiaroveggenza dei piccoli, be', insuffla una garbata voglia d'applausi...
Pino Farinotti per “Libero quotidiano” il 14 gennaio 2020. Si trova nelle librerie I premi Nobel - dal 1901 al 2019 (Book Time 538 pag.20 euro): La vita, le scoperte e i successi dei premiati in fisica, chimica, medicina, letteratura, pace, economia. Firmato da Pietro Migliorini. Trattasi di libro importante, soprattutto utile. Non solo a chi di mestiere si occupa di comunicazione, scrittura o insegnamento, ma anche a chi ama le statistiche umane, quelle grandi e decisive. Se la tua formazione fa di te un essere umano migliore, se guarisci da qualcosa che una volta ti uccideva, se comunichi con la tua famiglia e col mondo in tempo reale, se qualche guerra è stata evitata, se una parte di povertà e disuguaglianze è stata rivista, se.... molto altro. Il merito va a quei signori presenti nel libro di Migliorini. La struttura è completa. Riporta, anno dopo anno i premiati, la motivazione, il contesto storico e una scheda esaustiva dei vincitori. Nel film The prize, titolo, banale, italiano Intrigo a Stoccolma, nella prima sequenza il responsabile del Premio, davanti agli inviati di tutto il mondo dice: «Una volta ancora l' Accademia delle scienze svedesi ha votato, il Regio istituto Carolina ha votato, l' Accademia delle lettere svedesi ha votato. Una volta ancora l' uomo conferisce l' immortalità ai suoi simili. Ecco i nomi dei vincitori del premio Nobel». "Immortalità", nella circostanza, è un lemma legittimo. Ci sta. Ma questo Alfred Bernhard Nobel (1833-1896), chi era? Faceva parte di un' importante dinastia di industriali che produceva polvere da sparo. Nel 1950, a Parigi, incontrò il professore italiano Ascanio Sobrero, inventore della nitroglicerina. Partendo da quell' esplosivo attraverso molti esperimenti, uno dei quali costò la vita a suo fratello Emil, Alfred compose una chimica che rendeva la sostanza più maneggevole e stabile, la dinamite, brevettata nel 1867. Da allora Nobel aprì laboratori in vari paesi, Italia compresa, accumulando un immenso patrimonio. Nel 1888, per l' errore di un giornale francese, che aveva confuso il nome del fratello Ludvig con Alfred, si diffuse la notizia della sua morte. Il necrologio recitava: «Alfred Nobel, che divenne ricco trovando il modo di uccidere il maggior numero di persone nel modo più veloce possibile, è morto ieri». La storia racconta che l' inventore fosse talmente colpito da questa descrizione, che per farsi perdonare dall' umanità, sottoscrisse il testamento col quale lasciava un' eredità diventata poi il Premio Nobel. A questo punto è legittimo un dato: il "Nobel", oggi, porta al vincitore una medaglia d' oro e un assegno di 900mila euro. Un altro dato: all'anno 2019 i premiati sono 856 uomini e 52 donne. Nella sua lunga storia, spesso il premio ha suscitato interrogativi, sconcerto e polemiche. Sono molti i casi. Spesso l' assegnazione dipendeva dal momento politico o da un' opportunità che stravolgeva i meriti reali. Alcuni casi esemplari. Nel 1958 Boris Pasternak autore de Il dottor Zivago, ritenuto dissidente, fu costretto al rifiuto dal regime sovietico. Nel 1968 Jean Paul Sartre rifiutò il premio perché lo riteneva, in qualche modo, lesivo della propria libertà di pensiero. Nel 1994, Yasser Arafat ebbe il riconoscimento per la "pace": un contrasto che scatenò l' opinione comune che vedeva nel palestinese un terrorista. Anche Henry Kissinger, nel 1973 fu premiato per la "pace". Lui che aveva sostenuto il dittatore Pinochet nel colpo di Stato contro il presidente del Cile Allende. Il premio del 2009, a Barack Obama fu preventivo: un auspicio a qualcosa che il presidente, forse, avrebbe fatto. E che non fece. Siamo a quella che viene detta "la punta dell' iceberg". Altre notizie: l' Italia, con 20 Nobel è al settimo posto dopo Usa, Regno Unito, Germania, Francia, Svizzera e Russia. Nell'immenso volume dei Nobel, costretto a un focus, scelgo il segmento a me più congeniale, la letteratura. Abbiamo 6 vincitori: Giosuè Carducci nel 1906 «Per la sua approfondita ricerca critica, per la freschezza di stile e per la forma lirica».; Grazia Deledda (1926) «Per le sue opere, idealisticamente ispirate, che tratteggiano con plastica chiarezza la vita della sua isola»; Luigi Pirandello (1934) «Per il suo schietto e audace tentativo di perpetuare ai massimi livelli drammatici l' arte del teatro»; Salvatore Quasimodo (1959): «Per la liricità con cui ha saputo esprimere le tragiche esperienze umane dei nostri tempi»; Eugenio Montale (1975) «Per la sua caratteristica forma poetica che ha interpretato i valori umani nella prospettiva di una vita senza alcuna illusione"; Dario Fo: «Figura preminente del teatro politico che, nella tradizione dei giullari medievali, ha fustigato il potere e restaurato la dignità degli umili». Ci sono, rispetto a questi grandi personaggi, alcune anomalie che certo non vanno a intaccare i meriti straordinari. Trattasi di "studio": Deledda aveva la terza media, Montale era diplomato ragioniere, Quasimodo aveva il diploma di perito agrario, ma poi ottenne due lauree honoris causa dall' università di Messina e da quella di Oxford. Per analogia "senza laurea" uscendo dalla letteratura, non si può non richiamare un grande italiano del mondo, Guglielmo Marconi, che ebbe il Nobel per la Fisica: «Per le sue ricerche e le sue scoperte nella telegrafia senza fili». Il tema può essere: frequentare l' università, con le sue nozioni che lo scienziato aveva di gran lunga sorpassato, forse avrebbe perso tempo prezioso. E comunque: quante lauree vale un premio Nobel? Tutto questo, moltiplicato per mille, è nel libro di Migliorini. Un' ultima considerazione: l' Italia è per definizione e per storia e per verità, il Paese della cultura e dell' arte. Sei premi sembrano non rispettare l' assunto. Sto all' Europa: Germania e Svezia hanno 8 premi. Ma la Francia, che ci è vicina, magari parente per lingua e cultura ne ha 15. In realtà è questione di epoca. Il "Nobel" abbraccia il secolo scorso e la prima parte di questo. Ed ecco un altro dato: il "Belpaese" non è quello del Rinascimento.
· Albert Einstein.
Einstein, il libro con il «Corriere». Prima e dopo la relatività. Pubblicato mercoledì, 08 gennaio 2020 su Corriere.it da Ida Bozzi. Sul suo tavolo, il giorno in cui morì (18 aprile 1955), furono trovati gli ultimi suoi appunti sulla teoria unitaria del campo, ancora oggi la sfida più ardita (e aperta) della scienza: ad Albert Einstein, genio insuperato del Novecento scientifico, è dedicato il primo volume della collana Grandangolo Scienza del «Corriere della Sera», intitolato Einstein. Dalla relatività alle onde gravitazionali. Il libro è in edicola dall’8 gennaio gratis con il quotidiano (nella regione Sicilia sarà in edicola dal 9). «Einstein. Dalla relatività alle onde gravitazionali», a cura di Leonardo Gariboldi, è in edicola gratis con il «Corriere». La collana prevede in tutto 40 volumi, uno alla settimana fino al 7 ottobre (dal secondo volume ogni titolo costerà euro 6,90 oltre al prezzo del quotidiano): tutte monografie curate da docenti e ricercatori delle università italiane e dedicate ad altrettante grandi personalità nelle diverse scienze. Ciascun volume racconta uno di questi giganti: per la fisica Einstein, Stephen Hawking, Niels Bohr e molti altri, per la matematica Eulero, Fibonacci, Turing, per la chimica Rutherford o Mendeleev e molti altri. La caratteristica di questi volumi monografici è che oltre alla cronologia, alla biografia, all’inquadramento dello scienziato nel suo tempo, alle curiosità ( come le già citate notizie sul tavolo di Einstein), propongono soprattutto un ampio focus in cui spiegano quali siano stati i contributi al sapere, le teorie e le scoperte — non solo che cosa sono, ma come funzionano — e le conseguenze pratiche degli studi. Nel caso di Einstein, nel volume curato da Leonardo Gariboldi, si ripercorre tutta la sua ricerca: ovviamente la relatività ma anche studi meno famosi eppure cruciali, come l’effetto fotovoltaico (che gli valse il Nobel) o le teorie sul quarto stato della materia. C’è, anche, la sensazione di calarsi nella temperie scientifica dell’epoca, perché la monografia dà conto del dibattito scientifico del tempo (spesso agguerrito): ad esempio, il confronto di Einstein con Niels Bohr con le diverse posizioni sulla fisica quantistica, o viceversa i nomi che opposero obiezioni alle teorie di Einstein. Per chi vuole approfondire, il libro contiene anche una sezione finale che entra più nel dettaglio delle diverse teorie: i postulati della quantistica e quelli della relatività, le onde gravitazionali eccetera. E per chi vuole orientarsi nella saggistica sul tema, una sezione bibliografica suggerisce titoli di e su Einstein. La prossima uscita sarà quella su Galileo Galilei, considerato lo spartiacque a partire dal quale è nata la scienza moderna (il volume sarà in edicola con il «Corriere» dal 15 gennaio a euro 6,90). E i grandi scienziati che continuano la collana sono altrettanto paradigmatici: per citarne solo alcuni, Pitagora, per capire le origini della scienza (dal 22 gennaio), Newton con la gravità e le leggi della meccanica (dal 29 gennaio), Copernico con la sua rivoluzione (dal 5 febbraio) e così via.
· Alberto Arbasino.
E’ morto Alberto Arbasino. Aveva compiuto 90 anni lo scorso gennaio. A dare l’annuncio della morte la famiglia spiegando che Arbasino si è spento “serenamente” dopo una lunga malattia.
Aldo Grasso per corriere.it il 24 marzo 2020. Oggi non si può non parlare di Alberto Arbasino, maestro di intelligenza, di stile, di passione letteraria. Lui, soavemente cosmopolita, che ha trattato con la stessa grazia e ironia la vita bassa, il tanga, l’infradito, le sneakers, il leopardato, il loft, il cool, il mansardato e i mostri sacri della letteratura, regalandoci mitici ritratti dal vivo, conversazioni à bâtons rompus, affondi critici (eravamo ancora neorealisti e lui già sbeffeggiava Antonioni e Visconti), perfidie squisite. Oggi non si può non ricordare il programma Match (1977) dove Arbasino, effervescente e impeccabile padrone di casa, invitava nel proprio salotto due personaggi che avevano in comune la professione o l’inclinazione artistica e li metteva a confronto. «La novità saliente del programma (ideato da Arnaldo Bagnasco, ndr) è costituita dal tipo di articolazione del duello vero e proprio: i due antagonisti avranno ciascuno quindici minuti a disposizione per intervistarsi l’un l’altro, ed è perciò alle reciproche domande e risposte che è affidato l’esito in vivacità e interesse di ogni match», scriveva il Radiocorriere. La prima puntata è dedicata al teatro: seduti l’uno di fronte all’altro ci sono Giorgio Albertazzi e Memè Perlini; per la letteratura lo scontro, molto cavalleresco, è tra Alberto Moravia e Edoardo Sanguineti. Arbasino rende affascinante un programma raffinato e approfondito; il conduttore ha inoltre il merito di far discutere in tv di medicina due protagonisti prestigiosi, Paride Stefanini e Albano Del Favero, di cinema Mario Monicelli e Nanni Moretti, di economia Romano Prodi e Francesco Forte, di architettura Paolo Portoghesi e Leonardo Benevolo; personaggi che, senza autopromuoversi con il libro sottobraccio (come diverrà di moda nei salotti tv), parlano del proprio lavoro e delle proprie idee. In dieci puntate Arbasino aveva dimostrato che non era impossibile fare buona tv.
Aurelio Picca per “il Giornale” il 25 marzo 2020. Il trentenne che girava in Porsche bianca, e poi lo scrittore sempre in cravatta che compilò innumerevoli volte il suo concerto in lettere, Fratelli d' Italia, non è stato un Maestro, né voleva esserlo. Alberto Arbasino credo ambisse alla dicitura di Gran Lombardo. Di lasciare eredi, almeno letterari, se ne è sempre infischiato. E infatti non ci saranno. Lui e Umberto Eco sono stati gli eccelsi della Neoavanguardia (per intenderci facile: il Gruppo '63), ma il primo ne ha fatto un frullatore al proprio servizio bulimico e singolarissimo; il secondo, dopo avere contribuito alla sepoltura del romanzo, scrive Il nome della rosa per trasformarsi in narratore globale. Quando lessi da ragazzo Le piccole vacanze rimasi tutta l' estate avvelenato dall' inquietudine. Non ricordo nulla di quel romanzo, però ne ho dentro lo scavo esistenziale: il classico solco che producono i capolavori. Arbasino ha sempre oscillato tra una coscienza morale (Giuseppe Parini), tenuta nel fondo della sua letteratura quasi a nasconderla per proteggerla, e l'Opera alla Scala che ha tradotto in una maschera (illusoria). In realtà è stato un Andy Warhol della letteratura, un eccentrico con i connotati borghesi (i suoi abiti di Caraceni lo imbustavano), un ironico fisiologico con la sua erre che, quando parlava, faceva da carrucola alle altre lettere spezzate che uscivano dalla gola in un gorgo sintattico, citazionista e battutista. La bella di Lodi è stato il suo romanzo breve paraculo, che sapeva di vaccherie lombarde e grasso di motori. Lo recensii, in ristampa, forse se non sbaglio su queste pagine. E, cosa che non faccio mai, gli inviai il pezzo. Lui era nato nel 1930, poteva essere mio padre. Ma non era nella pattuglia dei Padri letterari che immaginavo o che frequentavo. Non mi aspettavo nulla. Mi inviò una Cartolina con un saluto a mo' di nodo da foulard. Quasi trenta anni fa venni chiamato al telefono da Roberto D' Agostino che mi invitava a casa sua, via Condotti numero 1. Si festeggiava il compleanno di Alberto (fu lui stesso a fornire a Roberto che non conoscevo il mio nome). Faceva caldo di fronte alla finestra con veduta su Trinità dei Monti. Con Arbasino fu naturale darci del tu. E mi venne pure facile raccontare che ero di ritorno dal Getty Museum di Los Angeles. Lui che aveva calcato le sale di migliaia di musei e scalciato pure quadri e pittori o innalzato dipinti a meraviglie (insieme poteva addizionare odori di periferia a Raffaello), mi chiese come fosse il museo perché non c' era mai stato. Gli raccontai che era costruito con il marmo di travertino di Tivoli e che dalla collina si vedeva di fronte la down town della metropoli e intorno il deserto. Intanto cresceva il caldo là sospesi su piazza di Spagna. Allora Alberto tirò fuori il fazzoletto da tasca bianco ben piegato e se lo portò alla fronte tamponando le goccioline di sudore senza strofinare. Pure io mi ritrovai a usare il mio fazzoletto bianco che porto sempre in tasca fin da bambino. Come ci guardammo, senza averlo voluto, con i fazzoletti tra le mani partì un sorriso. Per anni, scherzando, mi sono vantato di usare fazzoletti ricamati a mano. Anzi, aggiungevo: Io e Alberto Arbasino siamo gli unici scrittori che hanno in tasca un fazzoletto di cotone e non di carta (l' altro era Domenico Rea). Ora, caro Alberto, ragazzo di vita e signora mia, sono rimasto l' unico che se non ha impilati almeno trenta fazzoletti nel comò, rischia il panico. Ne comprerò di nuovi anche per te. In tuo onore.
Camillo Langone per “il Giornale” il 25 marzo 2020. Ironico, cosmopolita, esordiente con Italo Calvino, avanguardista con il Gruppo '63, amico di Inge Feltrinelli, collaboratore di Repubblica... A leggere giornali e guardar siti è morto l' ennesimo intellettuale progressista. Invece è morto un raro intellettuale conservatore. Basterebbe leggerlo, Alberto Arbasino, anziché saccheggiare Wikipedia e limitarsi a citare gita a Chiasso e casalinga di Voghera. Alla notizia della sua morte mi sono precipitato allo scaffale della mia libreria che gli compete, ovviamente lo scaffale più alto, fra Giovanni Ansaldo e Pietro Aretino, e purtroppo non ci ho ritrovato Paesaggi italiani con zombi (dove caspita sarà finito?), un titolo del 1998 ahinoi perfetto per questo 2020 di città spettrali. Ho ritrovato invece Un paese senza, edizione del '90. Non me lo ricordavo così destro. «Non solo nel piccolo Libano e nella media Jugoslavia ma nella vasta Unione Sovietica e nell' ampia India tutti i massacri contemporanei scoppiano per conflitti etnici». Trent' anni fa, quando l' Italia era ancora monoetnica e non lo sapevamo, Arbasino già ci metteva in guardia dal multiculturalismo: «Sarete voi i protagonisti dei prossimi conflitti medievali tra Asia e Africa sui marciapiedi ove si beveva gin-and-tonic e adesso ci si accoltella fra le borsette di religioni differenti?». Cosmopolita di notte, nel jet-set, però molto lombardo di giorno, e non solo per la venerazione nei confronti di Gadda, Dossi, Manzoni. Se non si è mai potuto in alcun modo avvicinarlo alla Lega, come invece è accaduto ad altri grandi nordisti quali Giorgio Bocca e Gianni Brera, è più per incompatibilità estetica che politica. In Un paese senza chiama l' immigrazione massiccia di africani e asiatici, spesso musulmani, col suo vero nome, ossia invasione: «I deliri italiani prossimi deriveranno soprattutto (nella nostra Storia è già capitato) dalle invasioni del Paese, e dai conflitti che hanno più volte provocato anche fra i cittadini». Giusto: in Italia gli sbarchi producono soprattutto guerre civili. O quantomeno lotte intestine. Se è vero che i barconi africani in questi giorni non interessano e dunque, pur continuando ad arrivare, hanno smesso temporaneamente di dividere, è anche vero che si è appena formata una fazione filocinese (da Luigi Di Maio in giù), siccome certi connazionali l' invasionismo ce l' hanno nel sangue. «Sono i complessi coloniali / degli italiani eterni provinciali. / / Invocazioni / continue di intromissioni / e invasioni di stranieri / contro i propri avversari / sul territorio...». Sto virgolettando da Rap 2, il secondo dei due piccoli libri datati 2001 e 2002 in cui l' amante della lirica, l' habitué della Scala, il patito di Maria Callas si lancia, piuttosto a sorpresa, nella poesia civile rappata. Il risultato è più Flaiano che Fedez, ovviamente. Ma chi l' ha letto l' Arbasino rap? È l' Arbasino che si scagliava contro i «comunprepotenti», «i pacifiviolenti», i politici di sinistra che straparlavano di un' Italia trasformata nel Cile di Pinochet solo perché Berlusconi aveva vinto le elezioni...Sandro Veronesi adesso si dispiace su Twitter e non ne dubito, vorrei soltanto si sapesse che Arbasino con lui, e con tutti gli altri scrittori firma-manifesti che amano «mostrarsi assolutamente correct / su tutte le cause più select», non c' entrava nulla. Nel mare magnum di Fratelli d' Italia, il lunghissimo romanzo-saggio che ha la statura del capolavoro, ho pescato una sfida alla letteratura impegnata che fa davvero impressione: «Mi arrampico sulle tende, mi attacco ai lampadari, mi prendo a schiaffi dicendomi cattivo! cattivo!» ma per lo svago e il relax preferisco Piccadilly a Buchenwald». A dispetto di qualcuno che esortava così: «Passa un sabbatico a Belsen, non perdere tempo con Salisburgo, dammi retta! Il massacro rende!». Avrà pure fatto parte (brevemente e lateralmente) del Gruppo '63, di sicuro non ha mai fatto parte del Gruppo '68, e una prova consiste nell' incontro a Francoforte con Adorno assediato dalla contestazione universitaria: il giovane intervistatore parteggia per il vecchio filosofo. Il suo pittore novecentesco preferito era Giorgio De Chirico, non certo Emilio Vedova. La sua divisa era il blazer Caraceni, non certo l' eskimo. Le sue messe (vissute da esteta, non da credente) erano in latino o in greco (a Patmos), non certo post-conciliari coi tamburelli e i «preti che sanno tutto sul Vietnam». Il suo autore prediletto era Gadda, non certo Gramsci che sebbene muoia prigioniero si lascia dietro «non un inno alla Libertà come i romantici tedeschi ma il progetto di un apparato di intellettuali conformisti e propagandisti». Da vero conservatore era un pessimista, un realista, un uomo che non nutriva la benché minima fiducia nei giovani (altro che Greta e Sardine), liquidando come «solfe millenaristiche le speranze nelle generazioni future». Fratello Alberto.
Alberto Arbasino e quel suo sorriso canagliesco. Walter Siti de Il Riformista il 24 Marzo 2020. Ieri è morto a novant’anni, “serenamente, dopo una lunga malattia”, Alberto Arbasino. Sembra la sua ultima arguzia, un annuncio così composto e tradizionale in un momento in cui molti novantenni muoiono travolti dalla disordinata tempesta di un virus, nello scomposto cordoglio della politica e dei media. Arbasino si era inventato, fin dalla metà degli anni Cinquanta con Le piccole vacanze, una scrittura bassa e di conversazione che non aveva precedenti in Italia; il modello era inglese, oltre a stili italiani anomali come quelli di Irene Brin o di Isaia Ascoli. Un’apparente svagatezza che era sprezzatura, un umorismo canagliesco e irriverente, un progressivo amore per il camp. La sua frivolezza era una formazione di difesa nei confronti di una ferita narcisistica rintracciabile sia nell’Anonimo lombardo che in Fratelli d’Italia. Quest’ultimo rimane uno dei migliori romanzi italiani della seconda metà del Novecento: epico ritratto dell’Italia del boom, dell’Autostrada del Sole (su cui già correva la spider della Bella di Lodi). La ribalda epigrafe del romanzo, deformando Massimo D’Azeglio («l’Italia è fatta, è ora di farsi gli italiani»), ha aiutato molti giovani omosessuali a venire a patti col proprio senso di colpa. Curioso e snob, ferocemente aggiornato, ha visitato mostre e visto ovunque spettacoli teatrali; ha scritto versi svincolati da qualunque birignao lirico. Nemico della retorica, ha avuto formazione giuridica e di scienze politiche; è stato deputato per una legislatura (per il Partito Repubblicano) ma il suo vero impegno emerge piuttosto da un libro come Un paese senza (1980): irata e ironica requisitoria contro i vizi italiani di sempre, ma anche contro i nuovi miti: quello per esempio della “metallurgia wagnero-mirafior-marxista”, cioè vacuamente operaista, mentre il Pil italiano già poggiava sulle esportazioni dei prodotti di lusso («delle Borsette e dei Golfini»). Un realismo da ultimo erede dell’illuminismo lombardo dei Parini e dei Verri, nascosto sotto una maschera di eleganza e di understatement.
Roberto D’Agostino per Dagospia il 23 marzo 2020. Si hanno in Italia casi frequentissimi, quotidiani, specie in Italia, di sregolatezza senza genio, programmata a tavolino, calcolata in modo furbetto. In Alberto Arbasino, la congiunzione di estri e di astri è naturale, non si neutralizza mai in rappresaglie fatte di piccinerie, meschinità, bassezze firmate - miserie tipiche del nostro Establishment culturale. “Fratelli d’Italia”, "Fantasmi italiani", "Un Paese senza", "Trans-Pacific Express", gli articoli su "la Repubblica", sono stati i miei modelli letterari. L'ho seguito, ammirato, copiato come uno scudiero segue - e pedissequamente mima - il suo cavaliere errante. Arbasino è un cavaliere errante sulla palude italiana, in possesso di una cultura acrobatica che, balzando da un cavallo all'altro, dalla letteratura alla pittura, dal teatro al cinema, percorre territori estrosi e capricciosi, cattura l'improvvisazione con i furori di una mitragliatrice giocattolo. Ecco: l'amore per la parola, la maestria nell'uso della parola; che è sempre sorprendente: piena, intensa, ironica, mai banale. Come Flaubert classificava tutte le somaraggini della sue epoca, Arbasino ha viaggiato attraverso la Sublime Stronzaggine italiana, con le sue costanti ("conformismi e leccaculismi") e le ultime mode ("la bella volgarità"). Attenzione però: non è mai moralisteggiante, col ditino alzato e la puzza sotto il naso. Un artista libero e spontaneo come la verdura, galeotto e crudele come una fiaba scritta da uno Swift. Quindi, senza farti soffrire, a partire da quel capolavoro del secondo ‘900, “Fratelli d’Italia”, ha soffritto il nostro Paese, i tempi, i costumi, le manie, i i tic e gli chic, i vizi e i gusti della bella e brutta gente e di quella così così. Seduto tra Giovenale e Marziale, ironico nella molteplicità del gioco linguistico, lo scrittore di Voghera è l'ultimo dei satiri, prima delle omogeneizzazioni a livello scadente e demente. Per l'erudizione vertiginosa, il carattere sarcastico, la lotta contro la cialtroneria in qualunque sede e aspetto... E' la mirabolante attitudine di un cavaliere errante tra Vaticano dello Spirito e il Vesuvio della carne, in possesso di una cultura acrobatica che, balzando da un cavallo all'altro, dalla letteratura alla pittura, dalla politica al cinema, cattura l'indenti-Kitsch tricolore con il sarcasmo di Longanesi alto come Flaiano. Per me, ogni incontro con Arbasino è stato un incontro con l'intelligenza. Quando penso a quale livello ignobile sono arrivati gli intellettuali che scrivono sui quotidiani o sui settimanali, quando penso alla loro mancanza di esperienza culturale autentica, alla mancanza di viaggi e di visite ai musei e ai luoghi di cultura, Arbasino per me era una sorta di miracolo. Gli devo quasi tutto: idee, forma, stile. Penso che il massimo complimento che qualcuno può farmi, sia di dirmi che sono stato allattato dall'arte di Arbasino.
Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano” del 14 luglio 2014. Pur refrattario all’elaborazione di un saggio sul maleducato da carrozza: “Il tempo è prezioso e la tolleranza costa già un notevole sforzo”, Alberto Arbasino soffre treni, scompartimenti e vicini ciarlieri. “Prendere le cosiddette vetture silenziose, che poi tanto silenziose non sono, è un’accortezza inutile”. Parlano tutti ad alta voce: “Dei fatti loro, dell’intimo, del personale”. E il vento caldo delle sue piccole vacanze in Spagna: “Andavamo alle Baleari. Ibiza era meravigliosa e Formentera non era altro che una lingua di sabbia tagliata dal taxi che ci portava da un lato all’altro dell’isola per il pranzo” o “i flautisti da giardino che ascoltavo d’estate dall’ammezzato di una delle mie prime case romane” non tornano a visitare la stagione dei suoi 84 anni. Luglio è quasi a metà, sulla terrazza il fico ha foglie di un verde innaturale e Arbasino indossa la camicia color kaki di chi sa come attraversare il suo deserto: “Di sera esco ancora volentieri, anche se scivolare dalla Via Veneto prefelliniana alla cena in Piazza Navona, non mi accadrà più. Con Ercolino Patti, Sandro De Feo e Cesare Brandi succedeva spesso. Cesare aveva un piccolo pied-à-terre e dopo una giornata di lavoro casalinga non covava il desiderio della minestrina nel tinello. Così si usciva in gruppo e si stava insieme fino alle due di notte. Mi stupivo. Lavoravano come ossessi e scrivevano senza sosta, ma non rinunciavano a vivere. Ridursi male comunque era difficile. Non tralignavamo mai. Un bicchiere, forse due. Si beveva il giusto, con moderazione”. Della grande casa con le sue iniziali sulla porta, conosce oro, incenso e giacimenti. Quando cerca nella biblioteca un volume di De Chirico: “Me lo regalò lui in Via della Vite, in fondo ci sono anche delle note a penna”, insegue un nome sulla Garzantina: “L’editore fiorentino di cui le parlavo era Carocci”, sventa l’attentato dell’ospite superando agile uno zaino sulla moquette o rimpiange con discrezione la mancanza di un computer: “Non lo possiedo, per alfabetizzarsi è tardi, ma ne sento la mancanza”, Arbasino denuncia il perpetuo movimento che dalla fine degli anni 50, immobile non l’ha fatto mai restare. Anche se i baffi di quando intervistava Borges sono un ricordo fotografico, è nell’autoscatto del tempo che fu: “Self-made man di origini decadenti (nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere come se. Cioè come se abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita...” e nei versi ancora attualissimi di Super-Eliogabalo: “Senza pietre di paragone/ né pretese di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò che sono/ non chi impersono” che Arbasino può vantare la curiosità di chi ha guardato il mondo senza curarsi delle “ultime novità”. Lo stile nemico della semplificazione: “Per far contenti tutti e raggiungere le edicole degli areoporti non si può rinunciare all’ambiguità, alla notte, al mistero, all’oscurità”. L’amicizia con Agnelli: “Ci vedevamo spesso, dietro la sua raffinatezza pulsavano frequentazioni e lezioni erudite, Mario Tazzoli, Luigi Carluccio e Franco Antonicelli che alle signore di Voghera consigliava di servire i cioccolatini in coppe di cristallo”. Il mondo dell’avvocato come ouverture per altri 92 splendidi e diseguali Ritratti italiani raccolti per Adelphi. Ironia, affinità elettive, distanze e convergenze di Arbasino con i pensatori del suo tempo si allineano sotto l’ombrello di un illusorio ordine alfabetico. Sono volti, echi e disegni di passato senza data. Incontri con imprenditori, registi e letterati. Quadri non sovrapponibili. Cornici di un’età irripetibile. Sulla parete d’ingresso, nel tratto grasso di un pennarello nero, uno schizzo che Pasolini donò allo scrittore durante un’intervista: “Arbasino, in un atto di industria culturale (abbietto, naturalmente)”. Gli zigomi duri, nota Arbasino: “Sono i suoi” come la freccia che Pasolini indirizza a se stesso: “Io mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere”.
Lei arriva a Roma negli anni Cinquanta.
«Avevo poco più di vent’anni e non la pensavo diversamente da Paul Nizan: "Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita". Quando si parla di Arcadia bisognerebbe essere cauti. In Italia la ricostruzione era a buon punto, ma ci sembrava comunque un’epoca noiosissima, una lunga stagione morta».
Sfogandosi con lei, Pasolini parla di un “ridicolo decennio”.
«È un decennio di paradossi e contraddizioni. Di ultimi fuochi, di cambiamenti, di libera sessualità dietro le dune e le pinete e di libri straordinari. Lo osservavo, lo criticavo, lo subìvo il decennio dei ’50, poi adocchiavo la letteratura e mi chiedevo: Come è possibile?. Di mese in mese, anzi di giorno in giorno, in libreria era una festa. Il Pasticciaccio gaddiano, Menzogna e Sortilegio, Il Disprezzo e La noia, gli ultimi due romanzi veramente belli di Moravia».
Glielo disse che erano gli ultimi?
«Con Alberto ce ne facemmo e dicemmo di cotte e di crude. Da ragazzo era antipatico. Da uomo maturo dispettoso, prepotente ed eccessivamente prono al partito. In vecchiaia ci rappattumammo. Non ripeteva più ‘uffa uffa’ con severo cipiglio, ma in trattoria, davanti alle pere cotte, gridava: Semo tutti peracottari. Gli era venuta voglia di ridere. È superfluo dirlo, ma mi manca moltissimo, non solo nell’ultima veste giocosa».
Eravate entrambi permalosi?
«Lui sicuramente. Io mai, altrimenti non sarei arrivato fin qui. Alberto era ispido ed era capace di lunghissimi silenzi. Quando compì settant’anni gli portai 7 fazzolettini da Parigi. Aveva il vezzo di annodarli al collo e mi impegnai nell’acquisto. Li avevo cercati con perizia: grandi marche, colori magnifici, confezione adeguata. Li soppesò e poi disse: Li conosco, a Roma li chiamano strangolini».
Faceva parte degli intellettuali suscettibili?
«Lui no, ma non mancavano. C’erano persone che non tolleravano neanche l’afrore del giudizio critico e si adombravano se non si ragionava delle loro opere dal superlativo in su. In supporto non mancavano mai teorie di corifei. Gente che generosamente si prestava all’equivoco: Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è credibile, Chi non capisce è sciocco, Chi non si spella le mani è un buzzurro».
Di Antonioni, incline all’offesa, lei scrive cose non tenere.
«Con intuizione corretta, Antonioni fotografava tedio, imbecillità e incomprensioni sentimentali della società europea sottoposta all’industrializzazione forzata. Metteva sotto la lente quel disagio che i milanesi bramarono di provare nell’istante immediatamente successivo all’edificazione del primo grattacielo cittadino. Ma nel suo cinema, la pretesa letteraria si risolveva in bozzetti incongrui e programmatici. La serietà con cui agghindava i suoi improbabili personaggi, le mezze calzette elevate a paradigma del Paese, involontariamente comica. Passata la sbornia e svanito l’equivoco, in effetti, si rise».
Altro moloch dal carattere puntuto, Luchino Visconti.
«In lui la componente populistica e quella dannunziana convivevano contribuendo all’essenza di un Visconti che nel retropalco e nell’isolamento sembravano esattamente la stessa persona. Uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale talento, ben allevato da genitori che lo portarono alla Scala fin da bambino, con una sua corte di zelantissimi sottomessi, affannati nell’eseguirne gli ordini. Frequentarlo annoiava e addolorava. Giovanni Testori, un caro amico, era sfruttato malamente. Sul versante teatrale poi, anche se gli dobbiamo spettacoli sommi come Anna Bolena e La sonnambula, l’elenco di quelli infelici ha voci in quantità. A un certo punto, anche dal loggione, prevalse lo strepito collettivo: Che palle».
In “Ritratti italiani”, parole liete sono riservate a Giorgio De Chirico.
«Era unico. Straordinario. Diverso da chiunque altro. Avvertiva l’estraneità al mondo circostante, viveva al passato remoto, si sentiva inadeguato persino all’allegro, innocuo circo di Piazza di Spagna. De Chirico abitava a pochi passi dalla filiale della Banca Commerciale Italiana e temeva di essere costantemente rapinato da briganti e mascalzoni. Ho paura sia a ritirare che a depositare mi diceva e io: Maestro, perdoni, ma che razza di traffico ha con questa banca?».
Il denaro per lei è stato importante?
«Non troppo, ma ho sempre considerato ovvio essere pagato per scrivere: il mio lavoro. Nel ’67, ai tempi de Il Giorno di Italo Pietra, un ex comandante partigiano che ben conoscevo per antichi vincoli familiari e che dei suoi anni universitari a Pavia amava dire: ‘Ballavamo il Charleston e traducevamo Sofocle meglio degli altri’, mi trasferii in un amen al Corriere Della Sera. A Il Giorno mi pagavano regolarmente, ma da anni collaboravo senza l’ombra di un contratto. All’ennesimo rinvio della questione mi spostai in Via Solferino. Un problema simile lo ebbi anche a Repubblica. Ero stato eletto deputato con il Partito Repubblicano e l’amministrazione del giornale fu laconica: Un contratto con un deputato non si fa».
Divenne deputato nel 1983.
«Me lo chiesero due fior di personaggi come Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Una volta con Visentini si andava a Treviso. Lui si trasformava, parlava in dialetto e diventava incomprensibile. Di preferenza litigava con uno scrittore autoctono che però dal trevigiano si era emancipato. Aveva viaggiato. Quando si incontravano non c’era facezia che non li accendesse in discussioni infinite».
Niente a che vedere con la timidezza di Gadda e Manganelli.
«Manganelli, uno scrittore sublime, era schivo. Lo incontravi al ristorante, in una sala appartata, avviluppato in se stesso. Mandava l’ambasciata di un cameriere per salutarti, poi si raccomandava: Non dire a nessuno che mi hai visto. Gadda era diverso. Me lo ricordo su una mia vecchia spider con Bonsanti sul sedile posteriore. Terrorizzato dalle curve e con la mano sul freno, Gadda era pronto a intervenire. Una sera, tornando dalla proiezione de La Bella di Lodi, chiese di fermarsi all’Hilton di Monte Mario. Si impelagò in un discorso da ingegnere sugli ascensori con un altro ingegnere, il fratello di Fabrizio Clerici. Tecnicismi da ossessi che evaporarono in un istante quando all’orizzonte si scorse la sagoma di un prelato. Gadda, l’uomo che vestiva in blu, non dimenticava mai la camicia bianca e certe discutibili cravatte acquistate in uno spaccio di Via della Mercede, all’improvviso si illuminò: Così dovevo nascere. Essere americano, farmi prete e vivere in un grande albergo bevendo succo d’arancia. Erano anni curiosi. Anni in cui gli uomini non sapevano farsi la barba e Mimì Piovene, di casa a San Giovanni, si lamentava: Sono diventata la barbiera del Laterano».
Di Umberto Eco ha scritto: “Costruiva oggetti complessi che agli incolti mettevano paura”.
«È vero e fu un’operazione di rara intelligenza. Con i libri di Eco, laureati e laureandi scoprivano la complessità dell’esistenza in maniera abbastanza semplice. Il successo fu assoluto. L’attenzione della critica, sacrale. Non a caso, da allora e per sempre, Eco ha fatto il fornitore di oggetti apparentemente complessi».
Le è simpatico?
«Simpaticissimo. Anzi, simpaticissimi. Lui e la moglie».
Il verbo di Eco inizia a imporsi nei ’70.
«Un decennio abbastanza atroce. Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda. A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini. In California, con gli spazi larghi tra i palazzi, i prati e la sensazione di libertà, la spinta a delinquere era anestetizzata dal contesto. Da noi in fondo, in ambiti più asfittici, l’agguato era nell’aria e la storia fosca dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, non faceva altro che ripetersi».
Altra icona dei ’70, Nanni Moretti. Nel suo ritratto si sostiene che il regista sia privo di cinismo.
Il cinico non perde tempo a deplorare il proprio cinismo con malspeso rovello. Moretti è un cuor d’oro sempre animato dal senso civico e dal bisogno di stare dalla parte giusta. Il rischio moralismo, quando si vuole essere educati, corretti e civici, c’è. Il ritratto del perfetto moralista, in certi film in cui il nostro porta in scena se stesso, anche».
Se scrivere è un lavoro, leggere che cos’è?
«È un altro lavoro. Va compensato. Costa fatica. Non a caso non ho letto i libri che partecipavano al premio Strega».
Nessuno?
«Nessuno. Neanche per sogno. Chi mi paga? Nei libri dello Strega di quest’anno non mi viene in mente nulla che valesse l’aggravio della lettura».
Perché?
«Per la stessa identica ragione per la quale se sul giornale vedo gesti normali insigniti delle nove colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di stupire usando la parola cazzo, giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le malattie del papà o l’agonia della mamma. C’erano libri diversi. Scrittori migliori. Il proprio minuscolo io o il proprio ombelico non erano ritenuti validi motivi per sbarcare in libreria e anche se le chiese politiche erano più invadenti di oggi, c’era più understatement anche nella presa di posizione. Se si esclude il Pci, non pulsavano le maldestre voglie di appartenenza e la conclamata aderenza al nuovo progetto politico sul tavolo che oggi rendono impossibile qualsiasi sfumatura. C’è una percepibile ansia di salire sul carro. Consiglierei prudenza, magari il carro si rivela meno solido del previsto».
È un problema culturale?
«Ma la cultura è un affare bizzarro. Come ho scritto in Ritratti italiani, di fronte al rotocalchismo, quella vera sparisce. Basta un lieve sospetto e non la si trova più. Pensare che in un’epoca lontana sorridevamo dell’ingenuità di Carlo Ponti, un produttore che a differenza degli epigoni contemporanei, a Milano aveva studiato davvero. Nell’ufficio all’Ara Coeli, oltre il suo tavolo, teneva la Pléiade con la costa della copertina rivolta verso l’interlocutore. Ci chiedevamo: Ma se volesse leggerla lui, che periplo dovrebbe fare per raggiungere il sapere?».
È sparita anche la letteratura italiana?
«Si è deciso a tavolino che i best-seller dovessero essere al livello del fruitore. E così, una volta abbattuto il gusto a colpi di orrori, visto l’apprezzamento per il buco della serratura di stampo familiare, via libera ai sapori, alle ricette della nonna, ai lutti e alle corsie d’ospedale. Vendono moltissimo. Sono un prodotto da banco. Uno shampoo. Un codice in più nello scontrino del supermercato. Forse sono più alternativo, io».
Sull’affezione premiologica della letteratura italiana lei montò uno speciale per la Rai in epoca non sospetta.
«Più della liturgia dello Strega, non ho dimenticato Casa Bellonci. I corridoi strapieni di libri, lo spazio totalmente colonizzato dai volumi, una cosa da restare sbalorditi. Per la Rai in effetti assemblai un’ora e mezza di premi nazionali da Venezia a Firenze. C’era un ritmo serrato e allo spettatore sembrava si trattasse di un unico premio.L’intento era quello. Quando andai da Maria Bellonci spiegandole che non avrebbe potuto parlare per più di 30 secondi quasi mi rise in faccia: Ho bisogno di più tempo. Si cambiò 10 volte, il risultato era inverosimile. Maria vestita da donna, da uomo, a pois. Divertentissimo. Lei lo sapeva. Era una furbona».
È furba anche una letteratura in cui l’intimo dolore sfiora la pornografia?
«Furba sicuramente, pornografica non so, certamente irrilevante. Come può affascinarmi il calvario della prozia? Il sapesse quanto abbiamo sofferto signora mia?. Vabbè, anche se c’è chi non si diverte e gli scrittori danno l’impressione di divertirsi poco, signora mia sarà contentissima».
Morto Alberto Arbasino. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Antonio Carioti. Era un’esperienza intrigante, ma al tempo stesso sconcertante e comunque sempre impegnativa, misurarsi con la prosa di Alberto Arbasino, scomparso all’età di 90 anni. Intellettuale cosmopolita dall’erudizione sterminata, letterato dallo stile inconfondibile, sapeva rendere con estrema efficacia il linguaggio parlato delle classi istruite o semi-istruite italiane, in buona parte mutuato dai media. E amava scarnificarlo senza pietà, metterne in mostra la pochezza e gli stereotipi, fustigare con perfido sarcasmo i vizi che ne trasparivano. Svariava con naturalezza, nei suoi libri, dal teatro alle varie forme di arte figurativa, dalla musica alla letteratura. Il suo piglio dissacrante poteva risultare quanto mai spassoso, ma anche molesto e saccente, a seconda dei gusti. Di certo bisogna riconoscergli di aver dimostrato un fiuto sopraffino nel captare le trasformazioni del costume e della comunicazione di massa. Nato il 22 gennaio 1930 a Voghera, in provincia di Pavia, da una famiglia di professionisti, lettore instancabile fin da piccolo, Arbasino aveva interrotto gli studi di Medicina per dedicarsi con profitto a quelli giuridici e aveva intrapreso a metà degli anni Cinquanta la carriera accademica, forte anche di proficui soggiorni alla Sorbona di Parigi e all’Accademia di diritto internazionale dell’Aia. Nel 1965 però, deluso, avrebbe lasciato l’università. Nel 1959 si era recato per la prima volta negli Stati Uniti, allo scopo di seguire i corsi di relazioni internazionali tenuti ad Harvard da un giovane professore di origine tedesca destinato a diventare potente e famoso, Henry Kissinger. Da subito Arbasino aveva sviluppato un enorme interesse per la società d’Oltreoceano e la sua vivace produzione culturale, a cui avrebbe dedicato molti anni dopo il volume America, amore (Adelphi, 2011). Nel frattempo aveva cominciato a scrivere su riviste di prestigio: «L’Illustrazione Italiana», «Officina», «Tempo presente», «Il Mondo» di Mario Pannunzio. Reportage dall’estero, interviste, ritratti di scrittori famosi, poi inclusi nel volume Parigi o cara (Feltrinelli, 1960). Ma anche racconti: il primo, intitolato Distesa estate, era uscito su «Paragone» nel 1955. Nel 1957 Arbasino ne pubblicò una raccolta, Le piccole vacanze (Einaudi), i cui testi furono poi riproposti, insieme ad altri, nel successivo volume L’Anonimo Lombardo (Feltrinelli, 1959). Queste iniziali prove narrative misero subito in luce l’autore come una penna estrosa e innovativa, che trattava i suoi personaggi affamati d’amore con un distacco cinico e un po’ cerebrale, non privo di fredda cattiveria. Spiccava tra gli altri il racconto Giorgio contro Luciano, che affrontava il tema della vita sentimentale gay, all’epoca ancora generalmente tabù, con un approccio disinvolto e allusivo senza dubbio originale, ispirato allo stile camp americano, che avrebbe fatto di Arbasino, egli stesso omosessuale dichiarato, un punto di riferimento per quell’ambiente. Bisogna aggiungere peraltro che lo scrittore di Voghera rimase sempre estraneo a una visione militante del problema: avrebbe criticato i cortei, le ostentazioni più vistose e le battaglie per il riconoscimento giuridico delle coppie gay. Nel 1961 uscì sul «Mondo» il racconto La bella di Lodi, magistrale nel rendere il clima del boom economico, dal quale Arbasino trasse poi la sceneggiatura del film omonimo uscito nel 1963 per la regia di Mario Missiroli, con Stefania Sandrelli nel ruolo di Roberta, la disinibita protagonista. Nel 1972 l’autore avrebbe poi riproposto la stessa vicenda con lo stesso titolo in forma di romanzo, uno dei suoi libri di maggior successo. Tra le caratteristiche peculiari di Arbasino spiccava l’abitudine di rielaborare le proprie opere, diverse delle quali furono via via arricchite e modificate in edizioni successive. Il caso più significativo è Fratelli d’Italia, romanzo fluviale, complesso e irriverente, una sorta di odissea picaresca nell’establishment culturale italiano, uscito nel 1963 da Feltrinelli e progressivamente ampliato fino a toccare quasi le 1.400 pagine nell’edizione Adelphi del 1993. Quell’opera segnò la consacrazione definitiva di Arbasino nella galassia della Neoavanguardia: il Gruppo 63, nato a Palermo nell’anno da cui prese il nome, lo vide in prima fila. Si era tra l’altro affermato come l’erede di Carlo Emilio Gadda, di cui si considerava discepolo: i suoi racconti La narcisata e La controra, usciti nel 1964 da Feltrinelli, sono un evidente omaggio al maestro, cui molti più tardi avrebbe dedicato il volume L’ingegnere in blu (Adelphi, 2008). Dopo aver descritto con arguzia e sensibilità l’Italia del miracolo economico, Arbasino seppe fare altrettanto con la contestazione giovanile, messa in scena, come scrisse lui stesso, «in una decadenza romana archetipica, raccontata con gli strumenti delle avanguardie storiche», nel breve romanzo surreale Super-Eliogabalo (Feltrinelli, 1969), apertamente ispirato all’Eliogabalo del francese Antonin Artaud. Affiora in questa come in altre opere di Arbasino (si pensi alla corrosiva commedia musicale Amate sponde!, sfornata per il centenario dell’Unità nazionale nel 1961) un pessimismo di fondo circa «le pulsioni antropologiche profonde e costanti del vivere italiano»: la faciloneria, il sentimentalismo a buon mercato, la superficialità, il provincialismo, che lui esortava a curare, o almeno a lenire, con una salutare «gita a Chiasso», cioè con l’esperienza diretta dei Paesi più civili. Assai critico anche il suo atteggiamento verso la stampa e la tv, impegnate a abbassare il loro standard culturale al livello della proverbiale «casalinga di Voghera», altra espressione frutto della sua vulcanica immaginazione. Collaboratore assiduo dei più importanti quotidiani, dal «Giorno» al «Corriere della Sera» fino al lungo sodalizio con «la Repubblica», dagli anni Settanta Arbasino si era sempre più caratterizzato come saggista e osservatore del costume, caustico censore della tradizione cattolica come del conformismo progressista, pronto anche a biasimare con parole molto severe (forse troppo) le lettere di Aldo Moro dal carcere delle Br nel libro In questo stato (Garzanti, 1978). «La nostra crisi attuale — scrisse — ci appare non tanto un fatto economico quanto anzitutto un disturbo mentale». Era anche approdato in televisione, a Rai Due, dove aveva condotto nel 1977 il programma Match, e nel 1983 era stato eletto alla Camera da indipendente nelle liste del Partito repubblicano. Del 1980 è la prima edizione del suo più importante saggio d’impegno civile, Un Paese senza (Garzanti), raccolta di riflessioni e aforismi sui paradossi di un’epoca farsesca e nel contempo tragica, sommersa da un’alluvione d’inutili chiacchiere nella persistente incapacità della classe dirigente di affrontare i problemi reali. Anche in seguito, dopo il progressivo esaurimento della sua stagione creativa più intensa e vivace, Arbasino era rimasto un protagonista. Viaggiatore infaticabile anche in tarda età, aveva continuato a raccontare il mondo, con titoli come Pensieri selvaggi a Buenos Aires (Adelphi, 2012), a rievocare eventi e personaggi, a divertire e disorientare il lettore con la sua mania per il dettaglio e le smisurate elencazioni grottesche. Per alcuni anni era tornato a scrivere sul «Corriere», raccogliendo impressioni e ricordi, sapientemente miscelati, in una rubrica dall’eloquente titolo «Vintage». Nel 2009 le sue opere erano state raccolte in due volumi nei Meridiani Mondadori: testimonianze essenziali per comprendere le trasformazioni profonde e le robuste persistenze che abbiamo sperimentato nel lungo passaggio tumultuoso dall’Italia rurale degli anni Cinquanta a quella postmoderna e stralunata di oggi.
Morto Alberto Arbasino, avversario del politicamente corretto. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. C’erano, in casa di Alberto Arbasino (scomparso lunedì 23 marzo a 90 anni) , una Madonna in calze a rete firmata da Guttuso, un disegno di Mino Maccari con i preti che su ordine di Andreotti mettono i mutandoni alle statue del Foro Italico, lettere di insospettabile cortesia dei grandi con cui aveva polemizzato, da Bassani a Paolo Grassi; tracce di un’avventura intellettuale, Roy Lichtenstein e Toti Scialoja, Giosetta Fioroni e Antonietta Raphael. E c’era un ritratto con dedica — «Arbasino alla macchina da scrivere in un atto di industria culturale, abietto naturalmente. PPP» —, cui Pier Paolo Pasolini aveva prestato i suoi stessi lineamenti e zigomi. Però nei suoi libri gli amori omosessuali erano narrati in chiave lieve, non in quella drammatica di Pasolini. «Anonimo lombardo era un romanzo epistolarfrocesco da far sobbalzare, perché trattava l’omosessualità studentesca come una cosa normale, ovvia, com’era considerata a Oxford e a Cambridge — raccontava Arbasino —. Infatti fui rimproverato, e non per scherzo, da Pier Paolo e da Testori, che criticarono la mia leggerezza, la mia mancanza di sofferenza, di tormento. Non sapevo cosa rispondere. Forse dipendeva dal fatto che loro fossero così cattolici». Un giorno andò a trovare Pasolini su un barcone sul Tevere, sotto il ponte di Castel Sant’Angelo: «Un posto frequentato da ragazzi di vita molto disponibili. Ero a Roma di passaggio, dopo sarei stato al “Mondo”, vestito come si addiceva a un incontro con Pannunzio, Ercolino Patti, Sandro De Feo, che portavano certe grisailles chiare, un po’ meridionali, da avvocato. Mario Ferrara era un avvocato elegantissimo, così come l’avvocato Battaglia: scarpe nere lucidate bene, baffetti bianchi molto curati. Quando arrivai sul Tevere in cravatta, Pasolini mi derise, così come tutti i marchettoni e le marchettine; ma quando videro che sotto avevo un costume hawaiano, con i palmizi e i fiori, fui molto ammirato dai pischelli. Non so come oggi sarebbe considerato Pasolini. Forse un pedofilo. Come Balthus, un altro grande che ho avuto ospite qui in casa. E Degas, con quelle ballerinette quattordicenni? E Cézanne, coi suoi pompieri al bagno? Forse i tempi erano allora più permissivi? Non so». Pasolini l’aveva visto l’ultima volta alla Carbonara, la trattoria di Campo de’ Fiori. «Lui aveva invitato a cena Sandro Penna, certo per fare una buona azione: Penna era lagnoso e querulo, difficile da reggere, sempre a lamentarsi di cani o gatti malati, come del resto la Morante; i gatti della Morante non erano mai in buona salute. Quando Pier Paolo mi vide fu una liberazione: “Alberto, vieni qui…”». E la sua fine? «Non ho mai pensato che se la fosse andata a cercare, come pare abbia commentato Moravia; ma che ci fosse qualcosa sotto. Non un delitto fascista; pensai piuttosto a una banda, di quale tipo non so. Fu una strana imprudenza: nel momento della sua massima visibilità polemica, contro la Dc contro gli americani contro l’Eni, rischiare non una coltellata ma il flash di un paparazzo dietro un cespuglio, con le mutande in mano?». Anticomunista e avversario del politicamente corretto senza essere di destra, antifascista e pronto a intervenire nel dibattito civile senza essere di sinistra, Arbasino ha coltivato una certa idea dell’engagement, dell’impegno. Faceva notare che i padri della Repubblica non erano schierati a priori né di qua né di là, né democristiani né comunisti. «Croce, Einaudi, gli azionisti torinesi: gli uomini della generazione di mio nonno, presidente del partito liberale di Voghera, e di mio padre, che aveva della farmacie e forniva le medicine ai capi partigiani dell’Oltrepo. Anche venendo arrestato. A Voghera lavorava come impiegato in un’azienda elettrica Ferruccio Parri». Rivendicava di non essersi unito a nessun coro: «Su Berlusconi come su Craxi, posso dirmi vergin di servo encomio e di codardo oltraggio. Entrambi hanno inciso sull’economia, anche su quella del fronte avverso: sono stati una fonte di reddito. Con vignette e commenti pro o contro Craxi e Berlusconi, molti hanno guadagnato. Non io. Con il vecchio Brecht dico che quando leggo “il Cavaliere” sento tintinnare il registratore di cassa». Nell’83 Arbasino fu eletto alla Camera nelle liste repubblicane, e fino all’87 fu tra i deputati più presenti. «Legai molto con i miei vicini in commissione: Adolfo Sarti, di Cuneo, ministro importante e uomo coltissimo, e Michele Zolla, che poi lavorò al Quirinale con Scalfaro. Di fronte c’era Natalia Ginzburg, che smistava tutte le carte a me: “Fai tu anche questo…”. Detestavo il Transatlantico, i divani, i baci e abbracci tra panzoni, le passeggiate sottobraccio alla buvette. Con Sarti e Zolla ci facevamo il caffè alla macchinetta. La Iotti era scrupolosissima: ascoltava tutti, anche gli ostruzionisti, senza farsi mai sostituire; contava i minuti, al massimo 45, e al quarantaseiesimo scampanellava. Mi ricordava le presidi della mia infanzia. La direttrice didattica di Voghera». Chi le offrì la candidatura? «Visentini, cui mi legavano l’arte e la musica. E Spadolini, che era stato il mio direttore al “Corriere”. Spadolini era simpaticissimo. Animato da vanità e golosità infantili. Non da sensualità; quella non gli importava, e credo davvero non la praticasse, se in quattro anni di gossip sul direttore al “Corriere” non venne fuori nulla». Arbasino veniva dal «Giorno». «Avevo legato molto con Murialdi, il caporedattore, e con Pietrino Bianchi; non tanto con Bocca, che credo mi considerasse frivolo, e neppure con il direttore Pietra. Era lui il capo partigiano cui mio padre passava le medicine. Conosceva anche mia madre e di fronte ai redattori allibiti, scherzando ma non troppo, mi diceva: “Se usi troppe parole straniere e troppe citazioni, dico alla mia amica Gina che ti prenda a schiaffi!”. Al “Corriere” mi portarono Enrico Emanuelli e Alfio Russo, che mi affidava elzeviri e brevi corsivi contornati, lunghi mezza matita. Per prima cosa Spadolini mi informò che erano aboliti. Quanto agli elzeviri, li avrebbero scritti solo accademici e luminari». Poi venne Ottone. «Con cui mi trovai bene, e mi lasciai ancor meglio quando passai a “Repubblica”: era il Natale del ’75, portai due bottiglie in redazione, e Ottone mi ringraziò: “Finalmente uno che va via dal “Corriere” non a male parole ma offrendo champagne”…L’unico problema era l’America. Vi ero stato la prima volta nell’estate del ’59, a seguire un corso di Kissinger che ai suoi picnic ci portava Eleanor Roosevelt, Riesman, Galbraith e Schlesinger. Ma non potevo tornarci per il “Corriere” perché il grande Stille non voleva che nessun altro scrivesse di America, neppure sulla letteratura o su Broadway, tranne lui. Così andavo per conto mio» (qui il primo articolo di Arbasino per il «Corriere della Sera», nel 1968). Con Bassani era andata peggio. Enzo Siciliano ha raccontato che gli amici di Arbasino alla Feltrinelli dovettero scassinare un cassetto per recuperare il manoscritto di Fratelli d’Italia. Ma lui negava: «Non è così. Io non ero litigioso, e Bassani con me era severo ma simpatico. Tanti altri cercavano di mettere zizzania attorno al Gruppo 63, inventavano voci per creare difficoltà: “Quelli vogliono prenderci tutti i posti”. Come poi nel ’68. L’uscita di Fratelli d’Italia fu preceduta da una campagna preventiva che infastidì molti, compreso me: veniva annunciato un romanzo scandalistico a chiave, con dentro tutti i protagonisti della dolce vita, da Agnelli in giù. Bassani si allarmò. Quando ebbe tra le mani il libro, molto sinceramente mi disse che non corrispondeva alla sua idea del Romanzo. Fu Giangiacomo Feltrinelli a risolvere la questione: Fratelli d’Italia non sarebbe uscito nella collana curata da Bassani accanto a Forster e Lampedusa, ma in un’altra insieme con Pasternak e Grass. La strana storia dei cassetti forzati, che non so se vera, avvenne molto dopo, con l’acuirsi delle rivalità tra le redazioni romana e milanese, quando il mio libro era già uscito». Era già nato il Gruppo 63, con Angelo Guglielmi, Furio Colombo, Edoardo Sanguineti, Giorgio Manganelli e Umberto Eco. Per prendere amichevolmente in giro Eco, diceva: «Non saprei giudicarlo. I suoi libri sono molto lunghi, e sono bestseller. La questione non riguarda Umberto, ma tutti. Ove si tratti di bestseller che muovono denaro, il compenso per ogni ora di lettura di noi addetti ai lavori non andrebbe commisurato alla tiratura e alle vendite, bensì deontologicamente regolato dalle vigenti tariffe degli ordini professionali. Più Iva».
Morto Alberto Arbasino, ha raccontato l'Italia fuori dal conformismo. Nato a Voghera nel 1930 si è spento dopo una lunga malattia. Scrittore prolifico, fu tra i protagonisti del Gruppo 63. Raffaella De Santis il 23 Marzo 2020 su La Repubblica. E' morto il 22 marzo, domenica, Alberto Arbasino, dopo una lunga malattia. La famiglia fa sapere che lo scrittore "si è spento serenamente". Arbasino era nato a Voghera (Pavia) nel 1930, lo scorso gennaio aveva compiuto 90 anni, ed aveva attraversato il Novecento guardandolo con la distanza dell'illuminista che sa mescolare humor e sguardo critico. D'altra parte la sua carriera intellettuale di romanziere, poeta e saggista sui generis segue fin dall'inizio percorsi originali. Uno scrittore appassionato, un giornalista curioso. Sergio Mattarella saluta Arbasino e ne ricorda la "passione civile", quella carica che ha spinto lo scrittore a cercare sempre "strumenti utili alla narrazione e alla comprensione dei mutamenti, sociali e di costume". "Arbasino è stato uno scrittore di grandi qualità e creatività - ha sottolineato Mattarella dopo aver appreso la notizia della scomparsa - un romanziere innovatore, un uomo di cultura poliedrico, tra i motori del Gruppo 63". Per poi concludere: "L'Italia si è arricchita del suo talento e la cultura ne farà tesoro". Come era nella sua natura, sofisticata e rap, elegante e camp, funambolica e imprendibile, Arbasino è salutato da tutti come un grande, dai lettori comuni sui social, dai suoi colleghi scrittori e dalle istituzioni. "Autore prolifico, intellettuale anticonformista, scrittore sperimentale", così lo ricorda oggi il ministro per i Beni e le attività culturali Dario Franceschini: "Con il suo genio ha illuminato la cultura italiana e non solo". Sempre in movimento, mai conforme. Da ragazzo dopo essersi iscritto a medicina a Pavia, Arbasino cambia idea e passa a studiare giurisprudenza alla Statale di Milano dove si laurea nel 1955 con il giurista Roberto Ago, del quale per un po' diventa assistente. La carriera universitaria però non è così consona al suo spirito creativo. Arbasino dimostra fin da subito una cultura flessibile, impastata di studi classici e di vita vera, gli piacciono oltre ai libri il teatro e le mostre, gli scambi tra intellettuali, quello che Foscolo chiamava il Gazzettino del Bel Mondo. I primi passi li compie scrivendo su riviste culturali come L'illustrazione italiana, Officina e Paragone e sul Mondo di Pannunzio, fino a quando nel 1963 pubblica Fratelli d'Italia, un romanzo fiume in cui c'è già la consapevolezza dello scrittore maturo e che rimaneggerà in continuazione nel corso del tempo. Il clima era quello della neoavanguardia del Gruppo '63, del quale Arbasino faceva parte, e il romanzo aveva tutta la veemenza sperimentale di quegli anni. Diventerà un classico, riveduto dallo scrittore nel tempo (l'ultima edizione, nel 1993, esce per Adelphi). Il libro narra le vicende estive "on the road" di due giovani omosessuali, Antonio e l'Elefante, che d'estate girano l'Europa. Arbasino amava viaggiare e sembrava un sismografo tanto era in grado di cogliere al volo i cambiamenti sociali e culturali del momento. La trama per lui era solo un pretesto. Nel 1969 esce Super-Eliogabalo, accolto come d'altra parte Fratelli d'Italia tra entusiasmi e polemiche (prima edizione Feltrinelli nel 1969, poi Einaudi e infine Adelphi). Racconta la vita di un moderno imperatore ispirato al lascivo imperatore romano Eliogabalo, protagonista di un'opera di Antonin Artaud che ne celebrava la biografia piena di contraddizioni ed eccessi. Scrittore, saggista, poeta, giornalista, era sempre un passo avanti. Tra le altre opere da ricordare: Parigi o cara; Un Paese senza; Paesaggi italiani con zombi; La vita bassa, che fin dai titoli hanno il suo tratto. Amava Gadda più di tutti, tanto da dedicargli un libro, L'ingegnere in blu (Adelphi, 2008) Molte le trovate intelligenti e piene di ironia che rimarranno, tra cui "la casalinga di Voghera" e "gita a Chiasso", che aveva usato nel 1963 in un articolo su "Il Giorno" come antidoto al provincialismo culturale italiano. Nel 2009 escono i due volumi dei Meridiani dedicati ad Arbasino, curati da Raffaele Manica, che lo consacrano come uno dei maggiori autori del Novecento. Arbasino è stato un collaboratore di Repubblica fin dal giorno della fondazione, il suo primo articolo, un'intervista a Bernardo Bertolucci, compare nelle pagine culturali del nostro giornale del 14 gennaio 1976. Arbasino è stato uno scrittore sociale, nel senso che seguendo il filo delle sue opere si registrano i cambiamenti del mondo in cui viviamo, le rotte culturali del tempo, i tic di un'epoca che sapeva essere "post", post ideologica e giocosamente confusa. Per questo amava definirsi con ironia scrittore "neo-frugale" o "post-tragico". Gli anni Cinquanta della Ville Lumière in Parigi o cara (Feltrinelli 1960, poi Adelphi 1995), quando nella capitale francese si aggiravano i mostri sacri della cultura, da Céline a Jean Cocteau, da Raymond Aron a Raymond Queneau, e poi Pierre Klossowski, Alain Robbe-Grillet, Roland Barthes. Li conosceva, ci discuteva, con una capacità unica di farli parlare, incontrandoli nei loro appartamenti lussuosi o ai ricevimenti ufficiali, nei festival, nei teatri o in luoghi più neutri come le case editrici o le redazioni di riviste. In Il ragazzo perduto, poi rititolato Anonimo lombardo (uscito per Feltrinelli prima nel 1959 e poi nel 1966 e in seguito per Einaudi e Adelphi), mette in scena in forma epistolare le ansie di un amore omosessuale nella Milano del boom anni Cinquanta. Amava la vita cittadina, i bar, le presentazioni, i musei. Era innamorato delle grandi capitali culturali, Parigi, Londra, New York (alla quale dedica America amore, 900 pagine di incontri, pensieri, interviste, scrittori alticci, pubblicato da Adelphi nel 2011), così come dell'America latina, terra di grandi fasti e repentine crisi, a cui ha dedicato "Pensieri selvaggi a Buenos Aires" (Adelphi, 2012). Le sue analisi taglienti non risparmiano mai spigolature fuori dal coro, come in Un Paese senza, saggio pubblicato nel 1980 per Garzanti, dove mette a fuoco l’Italia degli anni Settanta con punte di divertita cattiveria. Ma ce n'è anche per la Dolce Vita di un tempo passato, il chiacchiericcio ai tavoli, i night club, posti in cui anche i piccoli imprenditori parlano d’affari, “con Buscaglione e Carosone sullo sfondo, e la bottiglia di una certa marca di whisky bene in vista sul tavolo, a conferire identità e status”. Sferzanti i commenti contenuti nel libro. Quello su Theodor Adorno, che nel 1969 all’università di Francoforte era stato contestato da tre studentesse a seno nudo, è tranchant. Arbasino, che si è recato a trovarlo a Francoforte, scrive che Adorno “sarebbe morto di lì a poco di contestazione”. Degli anni Settanta e della contestazione ritrae entusiasmi e smanie, come quella del “dibbattito” (scritto con due “b”), che in quegli anni travolgeva ogni cosa, dalla musica alla politica alla famiglia. Arbasino allora affonda il colpo: “Dover prendere partito anche su ‘rock duro contro disco music’, dunque magari battersi per stronzate?”. Negli anni Ottanta avvicina la politica: dal 1983 al 1987 è deputato come indipendente per il partito Repubblicano. Il passaggio al nuovo millennio gli ispira Rap! (Feltrinelli, 2001, poi l'anno dopo Rap 2) dove incurante del politicamente corretto se la prende con i miti e i riti di oggi, le tendenze considerate “must”, la devolution, il G8, il Cavaliere. Tutto a ritmo rap, facendo proprie le inflessioni del gergo contemporaneo. Un libretto, pubblicato nel 2008 per Adelphi, fotografa invece fin dal titolo la nuova moda dei giovani, La vita bassa, i pantaloni dei ragazzotti più trendy che lasciano intravedere le mutande. Un segno antropologico, tribale, della condizione umana ai tempi dei Millennial. Chi era Arbasino dei tanti personaggi che racchiudeva? Per Roberto Calasso, direttore editoriale Adelphi, Arbasino è stato soprattutto un "grandioso memorialista", uno che sapeva ritrarre gli altri scrittori in modo eccezionale, dotato di una vis polemica che gli ha consentito di "attaccare frontalmente tanti che venivano venerati, ossequiati in ogni modo, di cui si tacevano grossi difetti". Con Arbasino invece, dice Calasso intervenendo a Radio 3, "non passavano indenni certe mediocrità". Arbasino però scherzava anche su di sé, sulla sua condizione di intellettuale. Sapeva di essere diventato un "venerato maestro" ma in fondo non ha mai smesso di essere un ragazzo irriverente.
Addio ad Alberto Arbasino, l’illuminista che prese in giro il nostro provincialismo. Il Dubbio il 23 marzo 2020. Aveva 90 anni ed è morto a Roma. Raccontò l’Italia e gli italiani da una visuale anticonformista, controcorrente. E’ morto a Roma Alberto Arbasino, aveva 90 anni, è stato uno degli autori capaci di raccontare l’Italia e gli italiani da una visuale anticonformista, controcorrente. Narratore e saggista eclettico, fu protagonista del Gruppo 63, movimento letterario di neoavanguardia formato da giovani intellettuali critici nei confronti delle opere letterarie ancora legate a modelli tradizionali degli anni ’50. Uomo dalla personalità eccentrica, colto, fu cronista della realtà sociale e culturale degli anni ’60 e ’70 ma di tutta la seconda metà del ‘900. Nato a Voghera il 22 gennaio 1930, Nino Alberto Arbasino si laureò in Giurisprudenza, specializzandosi poi in Diritto internazionale all’Università di Milano. Si fece conoscere con alcuni scritti pubblicati su riviste di rilievo come “L’illustrazione italiana”, “Officina” e Paragone. “Esordì come scrittore nel 1957, anno in cui si trasferì a Roma, ed ebbe come editor Italo Calvino. I suoi primi racconti, pubblicati su riviste, furono raccolti in Le piccole vacanze, del 1957, e “L’Anonimo lombardo”, 1959. Arbasino raccontava la provincia italiana del dopoguerra, chiusa in un mondo ristretto. Tra le opere maggiori c’è Fratelli d’Italia’ romanzo del 1963 che attraverso le vicende estive di due giovani omosessuali in giro per l’Italia e l’Europa raccontava l’ambiente culturale del Paese degli anni ’60. Nel 1965 Arbasino decise di abbandonare la carriera universitaria per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Nel 1967 iniziò a collaborare con Il Corriere della Sera, dal 1976 con La Repubblica. Tra i primi lavori ci sono anche reportage per il settimanale Il Mondo, scritti da Parigi e da Londra. Si considerava uno scrittore espressionista, e considerava Super Eliogabalo, pubblicato nel 1969, il suo libro più surrealista ed espressionista. Tra il 1983 e il 1987 fu deputato come indipendente per il Partito Repubblicano Italiano. E’ del 1994 Mekong, un ritratto impietoso della societa’ italiana del secondo ‘900. Era un grande estimatore di Carlo Emilio Gadda. E’ considerato erede della tradizione illuministica lombarda che aveva i padri nobili in Carlo Dossi e Gadda. Arbasino fu anche critico teatrale e musicale e autore di libri di viaggio.
Pierluigi Panza per fattoadarte.corriere.it il 24 marzo 2020. Nella biblioteca del teatro di Voghera, dove sono custoditi i libri sui quali studiò il primo Arbasino, mi pare di aver visto molti classici, non molti libretti d’opera. Ma della divorante passione di Arbasino per la lirica abbiamo una prima data certa, il 1953: “Medea” di Cherubini, con la Callas diretta da Bernstein. Arbasino c’è, c’è anche lui nel foyer, e nell’ “Anonimo lombardo” racconta all’amico Emilio di aver visto quel giorno, quella sera, prima dell’inizio di quell’opera, alla Scala “un Giovin di capelli nerissimi”. Lui vorrebbe, sì vorrebbe ma… no, non può resistere alla Callas. Prima c’è l’opera: “Quel coro di Argonauti mi piaceva da matti, me lo sono subito imparato per inserirlo tra le melodrammatiche marce che mi fanno morire”. L’anno successivo, il 14 settembre 1955, è a Venezia per le sue vacanze post-laurea a vedere “L’angelo di fuoco” di Prokoviev, alla prima mondiale alla Fenice. La lirica, soprattutto i giochi di parole dei famigerati libretti – da Busenello a Illica – diventano il vocabolario della sua narrativa. E l’opera il suo amore segreto. I libretti sono un serbatoio di accostamenti da far impazzire Arbasino. Fino al XVIII secolo folleggiano i “disarmati e impotenti amori” di Busenello, il “velenoso amor”, l’“amator malveduto” gli “sciapiti amplessi” che poi diventano, con il Conte di Luna del “Trovatore”, dei giochi di parole trasformati in detti popolari: “Ah, l’amor l’amore ond’ardo” che si trasforma persino nel vogherese in “l’amore è un dardo”. Da impazzire. Ma nella lirica, lui, ci entra davvero, un paio d’anni prima dei pomodori di Capanna alla prima del ’68 alla Scala. Nel 1966 è al Cairo, “in piena età Nasser e in assoluta economia”, e mette in scena una “Traviata”. L’anno dopo, che è l’anno meno uno della Rivoluzione, realizza una “Carmen” per il Teatro Comunale di Bologna. E udite con chi: scene di Vittorio Gregotti – anche lui scomparso una settimana fa - e costumi di Giosetta Fioroni. Dietro le quinte, con funzione di drammaturgo, diciamo, Roland Barthes, quasi al culmine della sua gloria. Al torero Escamillo la Fioroni fa indossare una maglietta con una grande E sul petto, stile rapper odierno. Le sigaraie sono abbindate con palline da ping pong. Escamillo è Superman, sopra una scala d’argento e la Carmen ammanettata è un po’ mignottesca: “a modo suo tentava audacie alla Artaud sopra Don José affondato fra cuscini d’argento entro gradoni da pre-discoteca”, disse Arbasino. Quella “Carmen” era come un gigantesco Happy hour presessantottesco i cui riferimenti –notò Stefano Di Michele anni fa per “il Foglio” – vanno in fondo cercati nella descrizione di Madame Sesostris della “Terra desolata” di T.S.Eliot. Forse gli piaceva anche Stravinskij, forse la musica russa. Recensore di serata, non entrava mai nel tecnico soporifero e inconcludente di certi critici musicali ammazzamusica. Nel marzo del 2007, per la “Fille du Régiment” alla Scala, sentite cosa scrive su “la Repubblica”: “Qui, accanto alla mirabile Anna Proclemer, che rifà le più formidabili Lady Bracknell d'Oscar Wilde, ai tempi illustri e magistrali di Edith Evans, trionfa saltellando e incespicando, trottolino e tombolotto, l’amatissimo Juan Diego Flórez, finto sempliciotto e tipico paraculetto, ninnolo, giuggiola, e biscuit. Su una cabaletta valzerosa come l'antica Sulle, sulle labbra da salotto, squilla note ficcanti e perentorie come quando Rockwell Blake (anche lui a Pesaro) forzava con sicurezza una preoccupante voce di testa; ma rigirandosi poi in un velluto alla Alfredo Kraus, e scatenando battimani e pestoni da Radetzky Marsch nei Capodanni viennesi”. A Vienna, a Salisburgo, ad ascoltare Wagner e alla Scala, forse ancora un paio d’anni fa. Da dopo che scrisse le “Piccole vacanze”, ai conoscenti di lirica mandava – di tanto in tanto – cartoline dai posti dove si trovava o dove aveva assistito a opere. Con qualche gioco di parole incomprensibile, come queste morti.
"L'intellettuale deve sempre dire la sua": addio Alberto Arbasino, protagonista del '900. È morto nella notte lo il giornalista e scrittore. Lo ricordiamo con questo articolo che scrisse sull'Espresso nel 1997. "Chi per mestiere studia e riflette e collega dati e ne scrive fa benissimo a mettere i risultati del suo lavoro a disposizione della società civile". L'Espresso il 23 marzo 2020. È morto nella notte lo scrittore e giornalista Alberto Arbasino, storico collaboratore di Repubblica e L'Espresso. Tra i protagonisti del Gruppo 63, aveva da poco compiuto 90 anni. Ripubblichiamo qui un suo storico articolo uscito sul nostro giornale l'8 maggio 1997 sul ruolo degli intellettuali.
È giusto che gli intellettuali dicano sempre la loro? Sì, anche a nome del Bar Sport. Caro "L'Espresso", i maneggi e i minuetti sul "ruolo dell'intellettuale" alle spalle della collettività sono spesso stati presuntuosi e molesti, nella supponenza mezzacalza. Ma a livello di "basso profitto" realistico e altruistico, le varie esperienze immagazzinate lungo i decenni di lavoro negli studi professionali e nelle frequentazioni specialistiche - onestamente - possono risultare utili per i cittadini che non hanno accumulato altrettanto "know-how". E non sono abituati (o non avevano il tempo, o non ci hanno mai pensato) a riconoscere i corsi e i ricorsi dei fenomeni che si ripresentano identici, a interpretare i nessi fra i precedenti e l'attualità, ad applicare la memoria storica, i saperi, le competenze, il principio che due più due fa quattro e le pie illusioni non fanno bingo. E se questo vale o si usa - con buone accoglienze - con le indicazioni pratiche sulle cure per la depressione o la disintossicazione, i rimedi per i figli e i fiori, e i consigli circa le pizzerie con la ragazza, perché non fornire "expertises" meditate sui fenomeni politici e mentali che sembrano inauditi o insoliti, suscitano emozioni, e sono in realtà vecchie solfe già analizzate e riciclate più volte? E quindi si è già visto come sono andate a finire di solito. L'importante - mi pare - sarà il non soccombere alle tradizionali velleità e meschinità dei letterati provinciali e dei pensatori settoriali che vedono un solo problema alla volta, si infervorano su un'unica loro "causa" senza considerare gli antecedenti e i consensi. E si scalmanano per qualche giorno (e poi più) come quelle signore di mezza età che si agitano solo contro le pellicce o per l'Irlanda o l'Irpinia, senza riguardi per le altre che promuovono iniziative per i montoni sgozzati o per i monumenti in pericolo o per Lotta continua o per l'Aids. E magari chiedono scelte molto esclusive d'azione e di assegni fra Sarajevo, i carcerati, i tumori, gli ex-tossici, l'ultima provocazione censurata dai vescovi. E certo, qui, volendo, possiamo tutti proclamarci albanesi, e comportarci anche di conseguenza sparando per aria e alle parole e alla gente, per regolare vecchi conti fra bande approfittando dei torbidi, o cercando di portare qualche vantaggio a casa: come si vede nei telegiornali ogni sera. Ma al tempo del Vietnam gli americani seri si dichiaravano pro o contro l'intervento militare con una sola frase, un solo slogan. Nel contorsionismo del politicamente corretto all'italiana, invece, fiumi di parole spesso sconclusionate per non dire né sì né no, fra doppiopesismi e doppioscarpismi, «Yankee go home» e «siamo tutti kennediani», sit-in e «chi salta è...». Ma l'intervento militare italiano - in quanto albanesi - sì oppure no? Fondamentale - per una buona efficacia delle nobili cause - parrebbe allora un'astensione rigorosa da rancori e dispetti personali, da pettegolezzi grulli su citazioncine avulse dal loro contesto, dalle esibizioni pubblicitarie, dai neo-bigottismi di demagogia o di regime... Soprattutto, evitare il predicozzo e la lagna, dopo aver lodato le dissacrazioni. E validissimo risulterà - al contrario - un cotante riferimento ai temi di interesse civico generale e non individuale, duraturo e non episodico, approfondito e non effimero. Soprattutto, non trattare soltanto col cuore, con la laringe, coi bronchi, col fegato, con l'utero, le situazioni serie dove i dati e i fatti gravi e obiettivi e basici richiedono specialmente conoscenze giuridiche, economiche, storiche, diplomatiche, strategiche. Occorre sempre ricordarlo? Gli integralismi e i banditismi non si risolvono con un'Avemaria o un reggae, malgrado la bella figura gratuita fra le anime belle. I fondamentalismi e i terrorismi combattono e non conciliano, anche a costo di gravissime perdite suicide: lo insegna la Storia, che non dànno retta ai buoni sentimenti. Sennò, basterebbe far sfoggio del nostro miglior moralismo: non costa niente, e si ottiene un bell'applauso. Dunque, chi per mestiere studia e riflette e collega dati e ne scrive - direi - fa benissimo a mettere i risultati del suo lavoro a disposizione della società civile. Così come dopo una vacanza intelligente può concretamente suggerire il tale formaggio o il tale panorama. E così magari esprime il punto di vista delle più biasimate categorie sociali, la portinaia e la pescivendola? Ma proprio il già stimato e poi snobbato Louis Althusser spiegava che ogni scrittore serio funziona "anche" come portavoce di un qualche gruppo sociale che non ha voce propria. Senza escludere né la "signora mia" né il Bar Sport. Categorie, oltre tutto, che non hanno facili accessi con la scrittura e i media. E dunque, perché non agevolarne le "prese di coscienza", e rappresentarne magari le opinioni (elettorali, poi, alla fine) così come si forniscono gli indirizzi utili ai mercatini dell'usato? Oltre tutto, quando si è ricevuto parecchio dal proprio Paese, e lo si trova indisposto o incerto, diventa un vero dovere pubblico restituirgli non trasgressioni o moralette, ma un pochino di buon senso civico.
Crocifisso Dentello per il “Fatto quotidiano” il 17 gennaio 2020. "La necessità dello scrivere diverso, che alla coerenza del senso preferisce il rumore del mondo". Così Angelo Guglielmi nel rievocare l' esperienza del Gruppo 63, condivisa a suo tempo con Alberto Arbasino. Lo scrittore lombardo compirà 90 anni mercoledì prossimo e Guglielmi - critico letterario che i 90 li ha festeggiati lo scorso aprile - racconta al Fatto la parabola di un amico la cui voce "si è spenta". Arbasino scrisse: "In Italia c' è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di giovane promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l' età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro". Per stare alla sua stessa dissacrante etichetta, il nostro venerato maestro nasce a Voghera nel 1930 e trascorre un' infanzia "di guerra e di merda nelle campagne lombarde" per poi finire col mettere piede in ogni angolo del mondo e diventare un intellettuale cosmopolita. Romano d' adozione, frequenta negli anni 50 e '60 quasi tutte le personalità della cultura e dello spettacolo tanto da ricavarne una sterminata antologia di ritratti, sempre sul filo di uno snobismo sottile. Un letterato tanto atipico e lontano dai clichè che la sua biografia contempla persino la conduzione televisiva. Da ricordare almeno la trasmissione Match nel 1977 e una memorabile puntata che vide contrapposti Monicelli e un giovane Nanni Moretti. Un inclassificabile che ha sempre licenziato opere tanto innovative che persino la critica più militante si è dovuta arrendere, soverchiata dal suo genio di auto-esegeta. Da L' anonimo lombardo, romanzo epistolare con apparato di note, a La bella di Lodi, parodia di una storia da rotocalco da cui il film con protagonista Stefania Sandrelli, a Fratelli d' Italia, romanzo-conversazione che Raffaele Manica ha definito "enciclopedia della modernità", a Super-Eliogabalo, testo surreale e a frammenti con infinite liste nominali su un moderno imperatore. Non c' è nulla nell' opera di Arbasino che vanti una qualche parentela con altri autori di casa nostra. Questa fame di sperimentazione, di sovvertimento dei canoni, di insofferenza per il già visto, non poteva che trovare facile approdo in quella "rivoluzione di carta" che fu il Gruppo 63. È vero che forse si ricorda la neoavanguardia solo per la taccia sprezzante di Liale con la quale bollò Bassani e Cassola, ma tocca riconoscere che da quella stagione di rottura uscirono autori che hanno contrassegnato la nostra storia letteraria, da Eco a Sanguineti, da Manganelli a Balestrini, fino appunto a Arbasino. L' esigenza di un "altrove" è suggellata dall' uscita, proprio quello stesso anno, nel 1963, di Fratelli d' Italia, la cui eredità, puntualizza ancora Guglielmi, "vive in Celati e in Tondelli, che riconobbe di avere tradotto il parlato in letteratura leggendo proprio Arbasino". "Oggi gli scrittori italiani cedono all' autobiografismo che altro non è se non il riparo di chi non sa che cosa sia scrivere" tuona Guglielmi e aggiunge: "È il limite di chi non sa che aggrapparsi alla propria soggettività e raccontarci le proprie vicende private". La singolarità irriducibile di Arbasino resta sempre come scomoda pietra di paragone. "Che dire della celebre Gita a Chiasso?" si interroga Guglielmi e come appunto non ricordare quel celebre articolo in cui Arbasino invitava i nostri intellettuali a fare una gita "a due ore di bicicletta da Milano per sprovincializzarsi". I vizi del letterato italiano medio, sembra suggerire il critico, non sono più ravvisati nemmeno come tali. Se tanti altri scrittori sono immersi in un conformismo di categoria, ecco la battaglia costante di Arbasino contro le ideologie e i tic linguistici, contro la retorica e l' omologazione. Se tanti altri scrittori non osano oltrepassare l' asticella del romanzo canonico, ecco la capacità camaleontica di Arbasino di assorbire tutti i generi e di rielaborarli in uno stile personalissimo e inimitabile. Tutti i materiali - diari lettere conversazioni reportage - toccati dalla penna di Arbasino confluiscono in una "lingua-mondo come oggetto d' arte". Angelo Guglielmi ribadisce: "Fratelli d' Italia e prima ancora i racconti di Le piccole vacanze mostrano una scrittura nuova, precipitosa e anche slabbrata, ricca di odori sgradevoli e di rumori molesti. La natura del romanzo è oggettiva, è parlare di altro e di altri inventando una scrittura". In effetti Arbasino, nipotino di Gadda, dalla lunga frequentazione con l' Ingegnere in blu ha ereditato l' ossessione patologica per la lingua, per una scrittura totalizzante. Arbasino è notoriamente l' autore che ha trasformato la sua bibliografia in un perenne work in progress, macerando le sue pagine di continue aggiunte e di riscritture. Guglielmi ricorda quando taluni detrattori lamentarono l' oscurità dei pezzi di Arbasino su Repubblica. "Scalfari prese le sue difese, asserì che di ciò che scrivono i grandi scrittori gli unici responsabili sono loro stessi". Vero, perché la letteratura di Arbasino "non comunica, esiste. Fa concorrenza al mondo".
Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano” del 14 luglio 2014. Pur refrattario all’elaborazione di un saggio sul maleducato da carrozza: “Il tempo è prezioso e la tolleranza costa già un notevole sforzo”, Alberto Arbasino soffre treni, scompartimenti e vicini ciarlieri. “Prendere le cosiddette vetture silenziose, che poi tanto silenziose non sono, è un’accortezza inutile”. Parlano tutti ad alta voce: “Dei fatti loro, dell’intimo, del personale”. E il vento caldo delle sue piccole vacanze in Spagna: “Andavamo alle Baleari. Ibiza era meravigliosa e Formentera non era altro che una lingua di sabbia tagliata dal taxi che ci portava da un lato all’altro dell’isola per il pranzo” o “i flautisti da giardino che ascoltavo d’estate dall’ammezzato di una delle mie prime case romane” non tornano a visitare la stagione dei suoi 84 anni. Luglio è quasi a metà, sulla terrazza il fico ha foglie di un verde innaturale e Arbasino indossa la camicia color kaki di chi sa come attraversare il suo deserto: “Di sera esco ancora volentieri, anche se scivolare dalla Via Veneto prefelliniana alla cena in Piazza Navona, non mi accadrà più. Con Ercolino Patti, Sandro De Feo e Cesare Brandi succedeva spesso. Cesare aveva un piccolo pied-à-terre e dopo una giornata di lavoro casalinga non covava il desiderio della minestrina nel tinello. Così si usciva in gruppo e si stava insieme fino alle due di notte. Mi stupivo. Lavoravano come ossessi e scrivevano senza sosta, ma non rinunciavano a vivere. Ridursi male comunque era difficile. Non tralignavamo mai. Un bicchiere, forse due. Si beveva il giusto, con moderazione”. Della grande casa con le sue iniziali sulla porta, conosce oro, incenso e giacimenti. Quando cerca nella biblioteca un volume di De Chirico: “Me lo regalò lui in Via della Vite, in fondo ci sono anche delle note a penna”, insegue un nome sulla Garzantina: “L’editore fiorentino di cui le parlavo era Carocci”, sventa l’attentato dell’ospite superando agile uno zaino sulla moquette o rimpiange con discrezione la mancanza di un computer: “Non lo possiedo, per alfabetizzarsi è tardi, ma ne sento la mancanza”, Arbasino denuncia il perpetuo movimento che dalla fine degli anni 50, immobile non l’ha fatto mai restare. Anche se i baffi di quando intervistava Borges sono un ricordo fotografico, è nell’autoscatto del tempo che fu: “Self-made man di origini decadenti (nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere come se. Cioè come se abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita...” e nei versi ancora attualissimi di Super-Eliogabalo: “Senza pietre di paragone/ né pretese di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò che sono/ non chi impersono” che Arbasino può vantare la curiosità di chi ha guardato il mondo senza curarsi delle “ultime novità”. Lo stile nemico della semplificazione: “Per far contenti tutti e raggiungere le edicole degli areoporti non si può rinunciare all’ambiguità, alla notte, al mistero, all’oscurità”. L’amicizia con Agnelli: “Ci vedevamo spesso, dietro la sua raffinatezza pulsavano frequentazioni e lezioni erudite, Mario Tazzoli, Luigi Carluccio e Franco Antonicelli che alle signore di Voghera consigliava di servire i cioccolatini in coppe di cristallo”. Il mondo dell’avvocato come ouverture per altri 92 splendidi e diseguali Ritratti italiani raccolti per Adelphi. Ironia, affinità elettive, distanze e convergenze di Arbasino con i pensatori del suo tempo si allineano sotto l’ombrello di un illusorio ordine alfabetico. Sono volti, echi e disegni di passato senza data. Incontri con imprenditori, registi e letterati. Quadri non sovrapponibili. Cornici di un’età irripetibile. Sulla parete d’ingresso, nel tratto grasso di un pennarello nero, uno schizzo che Pasolini donò allo scrittore durante un’intervista: “Arbasino, in un atto di industria culturale (abbietto, naturalmente)”. Gli zigomi duri, nota Arbasino: “Sono i suoi” come la freccia che Pasolini indirizza a se stesso: “Io mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere”.
Lei arriva a Roma negli anni Cinquanta.
«Avevo poco più di vent’anni e non la pensavo diversamente da Paul Nizan: "Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita". Quando si parla di Arcadia bisognerebbe essere cauti. In Italia la ricostruzione era a buon punto, ma ci sembrava comunque un’epoca noiosissima, una lunga stagione morta».
Sfogandosi con lei, Pasolini parla di un “ridicolo decennio”.
«È un decennio di paradossi e contraddizioni. Di ultimi fuochi, di cambiamenti, di libera sessualità dietro le dune e le pinete e di libri straordinari. Lo osservavo, lo criticavo, lo subìvo il decennio dei ’50, poi adocchiavo la letteratura e mi chiedevo: ‘Come è possibile?’. Di mese in mese, anzi di giorno in giorno, in libreria era una festa. Il Pasticciaccio gaddiano, Menzogna e Sortilegio, Il Disprezzo e La noia, gli ultimi due romanzi veramente belli di Moravia».
Glielo disse che erano gli ultimi?
«Con Alberto ce ne facemmo e dicemmo di cotte e di crude. Da ragazzo era antipatico. Da uomo maturo dispettoso, prepotente ed eccessivamente prono al partito. In vecchiaia ci rappattumammo. Non ripeteva più ‘uffa uffa’ con severo cipiglio, ma in trattoria, davanti alle pere cotte, gridava: Semo tutti peracottari. Gli era venuta voglia di ridere. È superfluo dirlo, ma mi manca moltissimo, non solo nell’ultima veste giocosa».
Eravate entrambi permalosi?
«Lui sicuramente. Io mai, altrimenti non sarei arrivato fin qui. Alberto era ispido ed era capace di lunghissimi silenzi. Quando compì settant’anni gli portai 7 fazzolettini da Parigi. Aveva il vezzo di annodarli al collo e mi impegnai nell’acquisto. Li avevo cercati con perizia: grandi marche, colori magnifici, confezione adeguata. Li soppesò e poi disse: "Li conosco, a Roma li chiamano strangolini"».
Faceva parte degli intellettuali suscettibili?
«Lui no, ma non mancavano. C’erano persone che non tolleravano neanche l’afrore del giudizio critico e si adombravano se non si ragionava delle loro opere dal superlativo in su. In supporto non mancavano mai teorie di corifei. Gente che generosamente si prestava all’equivoco: Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è credibile, Chi non capisce è sciocco, Chi non si spella le mani è un buzzurro».
Di Antonioni, incline all’offesa, lei scrive cose non tenere.
«Con intuizione corretta, Antonioni fotografava tedio, imbecillità e incomprensioni sentimentali della società europea sottoposta all’industrializzazione forzata. Metteva sotto la lente quel disagio che i milanesi bramarono di provare nell’istante immediatamente successivo all’edificazione del primo grattacielo cittadino. Ma nel suo cinema, la pretesa letteraria si risolveva in bozzetti incongrui e programmatici. La serietà con cui agghindava i suoi improbabili personaggi, le mezze calzette elevate a paradigma del Paese, involontariamente comica. Passata la sbornia e svanito l’equivoco, in effetti, si rise».
Altro moloch dal carattere puntuto, Luchino Visconti.
«In lui la componente populistica e quella dannunziana convivevano contribuendo all’essenza di un Visconti che nel retropalco e nell’isolamento sembravano esattamente la stessa persona. Uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale talento, ben allevato da genitori che lo portarono alla Scala fin da bambino, con una sua corte di zelantissimi sottomessi, affannati nell’eseguirne gli ordini. Frequentarlo annoiava e addolorava. Giovanni Testori, un caro amico, era sfruttato malamente. Sul versante teatrale poi, anche se gli dobbiamo spettacoli sommi come Anna Bolena e La sonnambula, l’elenco di quelli infelici ha voci in quantità. A un certo punto, anche dal loggione, prevalse lo strepito collettivo: Che palle».
In “Ritratti italiani”, parole liete sono riservate a Giorgio De Chirico.
«Era unico. Straordinario. Diverso da chiunque altro. Avvertiva l’estraneità al mondo circostante, viveva al passato remoto, si sentiva inadeguato persino all’allegro, innocuo circo di Piazza di Spagna. De Chirico abitava a pochi passi dalla filiale della Banca Commerciale Italiana e temeva di essere costantemente rapinato da briganti e mascalzoni. Ho paura sia a ritirare che a depositare mi diceva e io: Maestro, perdoni, ma che razza di traffico ha con questa banca?».
Il denaro per lei è stato importante?
«Non troppo, ma ho sempre considerato ovvio essere pagato per scrivere: il mio lavoro. Nel ’67, ai tempi de Il Giorno di Italo Pietra, un ex comandante partigiano che ben conoscevo per antichi vincoli familiari e che dei suoi anni universitari a Pavia amava dire: ‘Ballavamo il Charleston e traducevamo Sofocle meglio degli altri’, mi trasferii in un amen al Corriere Della Sera. A Il Giorno mi pagavano regolarmente, ma da anni collaboravo senza l’ombra di un contratto. All’ennesimo rinvio della questione mi spostai in Via Solferino. Un problema simile lo ebbi anche a Repubblica. Ero stato eletto deputato con il Partito Repubblicano e l’amministrazione del giornale fu laconica: Un contratto con un deputato non si fa».
Divenne deputato nel 1983.
«Me lo chiesero due fior di personaggi come Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Una volta con Visentini si andava a Treviso. Lui si trasformava, parlava in dialetto e diventava incomprensibile. Di preferenza litigava con uno scrittore autoctono che però dal trevigiano si era emancipato. Aveva viaggiato. Quando si incontravano non c’era facezia che non li accendesse in discussioni infinite».
Niente a che vedere con la timidezza di Gadda e Manganelli.
«Manganelli, uno scrittore sublime, era schivo. Lo incontravi al ristorante, in una sala appartata, avviluppato in se stesso. Mandava l’ambasciata di un cameriere per salutarti, poi si raccomandava: Non dire a nessuno che mi hai visto. Gadda era diverso. Me lo ricordo su una mia vecchia spider con Bonsanti sul sedile posteriore. Terrorizzato dalle curve e con la mano sul freno, Gadda era pronto a intervenire. Una sera, tornando dalla proiezione de La Bella di Lodi, chiese di fermarsi all’Hilton di Monte Mario. Si impelagò in un discorso da ingegnere sugli ascensori con un altro ingegnere, il fratello di Fabrizio Clerici. Tecnicismi da ossessi che evaporarono in un istante quando all’orizzonte si scorse la sagoma di un prelato. Gadda, l’uomo che vestiva in blu, non dimenticava mai la camicia bianca e certe discutibili cravatte acquistate in uno spaccio di Via della Mercede, all’improvviso si illuminò: ‘Così dovevo nascere. Essere americano, farmi prete e vivere in un grande albergo bevendo succo d’arancia’. Erano anni curiosi. Anni in cui gli uomini non sapevano farsi la barba e Mimì Piovene, di casa a San Giovanni, si lamentava: Sono diventata la barbiera del Laterano. Di Umberto Eco ha scritto: “Costruiva oggetti complessi che agli incolti mettevano paura”. È vero e fu un’operazione di rara intelligenza. Con i libri di Eco, laureati e laureandi scoprivano la complessità dell’esistenza in maniera abbastanza semplice. Il successo fu assoluto. L’attenzione della critica, sacrale. Non a caso, da allora e per sempre, Eco ha fatto il fornitore di oggetti apparentemente complessi».
Le è simpatico?
«Simpaticissimo. Anzi, simpaticissimi. Lui e la moglie».
Il verbo di Eco inizia a imporsi nei ’70.
«Un decennio abbastanza atroce. Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda. A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini. In California, con gli spazi larghi tra i palazzi, i prati e la sensazione di libertà, la spinta a delinquere era anestetizzata dal contesto. Da noi in fondo, in ambiti più asfittici, l’agguato era nell’aria e la storia fosca dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, non faceva altro che ripetersi».
Altra icona dei ’70, Nanni Moretti. Nel suo ritratto si sostiene che il regista sia privo di cinismo.
«Il cinico non perde tempo a deplorare il proprio cinismo con malspeso rovello. Moretti è un cuor d’oro sempre animato dal senso civico e dal bisogno di stare dalla parte giusta. Il rischio moralismo, quando si vuole essere educati, corretti e civici, c’è. Il ritratto del perfetto moralista, in certi film in cui il nostro porta in scena se stesso, anche».
Se scrivere è un lavoro, leggere che cos’è?
«È un altro lavoro. Va compensato. Costa fatica. Non a caso non ho letto i libri che partecipavano al premio Strega».
Nessuno?
«Nessuno. Neanche per sogno. Chi mi paga? Nei libri dello Strega di quest’anno non mi viene in mente nulla che valesse l’aggravio della lettura».
Perché?
«Per la stessa identica ragione per la quale se sul giornale vedo gesti normali insigniti delle nove colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di stupire usando la parola cazzo, giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le malattie del papà o l’agonia della mamma. C’erano libri diversi. Scrittori migliori. Il proprio minuscolo io o il proprio ombelico non erano ritenuti validi motivi per sbarcare in libreria e anche se le chiese politiche erano più invadenti di oggi, c’era più understatement anche nella presa di posizione. Se si esclude il Pci, non pulsavano le maldestre voglie di appartenenza e la conclamata aderenza al nuovo progetto politico sul tavolo che oggi rendono impossibile qualsiasi sfumatura. C’è una percepibile ansia di salire sul carro. Consiglierei prudenza, magari il carro si rivela meno solido del previsto».
È un problema culturale?
«Ma la cultura è un affare bizzarro. Come ho scritto in Ritratti italiani, di fronte al rotocalchismo, quella vera sparisce. Basta un lieve sospetto e non la si trova più. Pensare che in un’epoca lontana sorridevamo dell’ingenuità di Carlo Ponti, un produttore che a differenza degli epigoni contemporanei, a Milano aveva studiato davvero. Nell’ufficio all’Ara Coeli, oltre il suo tavolo, teneva la Pléiade con la costa della copertina rivolta verso l’interlocutore. Ci chiedevamo: Ma se volesse leggerla lui, che periplo dovrebbe fare per raggiungere il sapere?».
È sparita anche la letteratura italiana?
«Si è deciso a tavolino che i best-seller dovessero essere al livello del fruitore. E così, una volta abbattuto il gusto a colpi di orrori, visto l’apprezzamento per il buco della serratura di stampo familiare, via libera ai sapori, alle ricette della nonna, ai lutti e alle corsie d’ospedale. Vendono moltissimo. Sono un prodotto da banco. Uno shampoo. Un codice in più nello scontrino del supermercato. Forse sono più alternativo, io».
Sull’affezione premiologica della letteratura italiana lei montò uno speciale per la Rai in epoca non sospetta.
«Più della liturgia dello Strega, non ho dimenticato Casa Bellonci. I corridoi strapieni di libri, lo spazio totalmente colonizzato dai volumi, una cosa da restare sbalorditi. Per la Rai in effetti assemblai un’ora e mezza di premi nazionali da Venezia a Firenze. C’era un ritmo serrato e allo spettatore sembrava si trattasse di un unico premio. L’intento era quello. Quando andai da Maria Bellonci spiegandole che non avrebbe potuto parlare per più di 30 secondi quasi mi rise in faccia: ‘Ho bisogno di più tempo’. Si cambiò 10 volte, il risultato era inverosimile. Maria vestita da donna, da uomo, a pois. Divertentissimo. Lei lo sapeva. Era una furbona».
È furba anche una letteratura in cui l’intimo dolore sfiora la pornografia?
«Furba sicuramente, pornografica non so, certamente irrilevante. Come può affascinarmi il calvario della prozia? Il sapesse quanto abbiamo sofferto signora mia?. Vabbè, anche se c’è chi non si diverte e gli scrittori danno l’impressione di divertirsi poco, signora mia sarà contentissima».
· Alberto Moravia.
Perché a trent'anni dalla morte bisogna ricominciare a leggere Alberto Moravia.
Paolo Di Paolo su L'Espresso il 20 settembre 2020. I traumi, i tabù, i desideri, gli inganni familiari. Ancora oggi tutti i temi dello scrittore restano attualissimi, ma dimenticati. Se dici Alberto Moravia, dici “Gli indifferenti”, il sesso, “La noia”. Tutt’al più, il film di Bertolucci, “Il conformista”. Ah, e quelli di De Sica e di Godard. E poi? L’avete mai letto Moravia? La fama, per paradosso, è il principale nemico di alcuni scrittori. Ne condiziona la lettura e la rilettura, quasi al punto da renderla superflua. Inscatola, etichetta, neutralizza. Ho in mente almeno una ventina di conoscenti fra i trenta e i cinquant’anni, diciamo pure letterati, che al nome di Moravia farebbero un’espressione da saputelli tediati. In verità, non ne sanno niente. Si fidano dei luoghi comuni, di un lunghissimo, avvolgente e ormai arido sentito dire. Che non sono passati nemmeno da...
Estratto dall'articolo di Renzo Paris per ''il Fatto Quotidiano'' il 17 settembre 2020. […] Quando pubblicai Moravia, una vita controvoglia, i recensori, pochi, sottolinearono quelli che ai loro occhi sembravano gossip, dalla nobildonna che rifiutò di sposare un "ebreo", ai burrascosi rapporti con Elsa Morante , allo scandaloso matrimonio con la giovanissima Carmen Llera. Moravia lasciava le sue donne libere, tormentandosi per i loro tradimenti. Si potrebbe scrivere un libro intero sulla gelosia nei suoi romanzi. […] Per lo più gli preferiscono la sua compagna Elsa Morante, che ebbe un enorme successo con La Storia e Moravia a ricordare che aveva scritto molto tempo prima La ciociara. Sposandola, Moravia l'aveva sottratta ai signori facoltosi con cui si accompagnava per sbarcare il lunario, compreso un collaboratore famoso del Corriere della Sera. La sottrasse anche agli amori con una signora romana, di cui ho letto l'epistolario in privato, visto che quelle missive gli eredi non le hanno fatte pubblicare alla mia amica Giusy Rapisarda. La Morante, come del resto Dacia Maraini, devono molto al loro uomo''.
Estratto dell’articolo di Barbara Palombelli per il “Corriere della Sera” il 26 settembre 2020. […] Alberto Moravia veniva a mangiare qui la domenica. Si sedeva su quella poltrona (rivestita in lino inglese a fiori, sui toni dell'autunno) e subito smaniava. La solitudine e la noia erano le sue nemiche, le combatteva con ogni mezzo. Prendeva il giornale, che aveva già letto, solo per evitare di fare conversazione, poi telefonava, organizzava il film delle tre del pomeriggio, andavamo a tavola di la, mangiavamo in due minuti, proprio come faceva papa, e via. Lui se ne andava al cinema con Dacia o con Carmen, le sue compagne, e con i suoi amici. Quand'era piccola, portava anche Gianna, mia figlia. Per lui, ero la sorella pratica. Quella a cui chiedere una visita medica, un avvocato, un consiglio. E io, subito, risolvevo tutto... In tutti i Paesi dove sono stata con mio marito, Alberto e venuto a trovarmi. Spesso c'era con lui anche Pierpaolo Pasolini, che finiva sempre male...Poverino: andava a cercare i ragazzini del posto e ogni tanto c'era qualche parente che lo picchiava. Mi ricordo una volta, a Bombay, il nonno di un bambino indiano gli fece un occhio nero e la sera a cena, in ambasciata...ci raccontava le sue avventure». Resterei ancora delle ore ad ascoltare le storie di Elena. Le ho promesso che tornerò.
Maria Luisa Agnese per corriere.it/sette il 25 novembre 2020. Estrema, intollerante, a tratti perfida, la scrittrice dai profondi occhi scuri venati di azzurro andava famosa per il temperamento, oltre che per i suoi versi e le sue prose. Un giovane Bernardo Bertolucci, intervistato da Barbara Palombelli, ricordava le sere a cena dove lui, portato da Pasolini, assisteva a esaltanti confronti quotidiani «con Elsa che puntava all’assoluto, Alberto pragmatico e Pier Paolo che mediava nei loro scontri furiosi». Alberto Moravia, di solida estrazione familiare, ed Elsa, di più periclitanti origini, si erano sposati nel 1941 con nozze sorprendentemente borghesi e andavano avanti fra liti, tradimenti di lui e di lei, un sodalizio smagliante e furibondo che non placava la fame d’amore di Elsa («A difficili amori io nacqui, non sono stata mai amata da nessuno» scriverà in una lettera) ma di sicuro salvaguardava il neghittoso Alberto dalla sua nemica principale, la Noia.
Innamorata di Luchino Visconti. Si sapeva che Elsa si era non solo letterariamente innamorata di Luchino Visconti, sfuggente e seduttivo e dedito ad amori diversi, ma lei, sempre attratta dagli omosessuali, protagonisti anche nelle sue pagine (stava scrivendo Menzogna e sortilegio), faceva con lui lunghe ed erotiche telefonate notturne mentre Alberto si fingeva addormentato. Si è saputo poi in tempi recenti, anche grazie alla biografia dello scrittore René de Ceccatty, Una vita per la letteratura (Neri Pozza), che prima del matrimonio Elsa si prostituiva con uomini facoltosi per essere libera da guai economici. Storie di cui lei in seguito, riservata ad oltranza e gelosa di sé, odiava sentir parlare. Il loro accidentato sodalizio andò avanti fino all’inizio dei 60, con gli amici che consigliavano la separazione e Moravia che diceva Elsa non vuole, dice che l’ho sposata davanti a Dio e solo Lui può sciogliere il vincolo. «Una ripicca», ha raccontato la scrittrice Edith Bruck: «Elsa aveva un caratteraccio e a volte scoppiava, gridando. Alberto prendeva a balbettare, a straparlare... aveva paura degli sfoghi di lei». Donne artiste di conio speciale come Artemisia Gentileschi, forgiate dal Dna e da vite ferite; solitarie ma in fondo femministe a modo loro. Non modelli assoluti, forse, per le donne che sarebbero venute dopo, ma piccoli fari nella lotta di genere per la loro forza e intransigenza personale, oltre che valoriale. Nei suoi libri — con Menzogna e sortilegio anche L’isola di Arturo, La Storia, Aracoeli — Elsa (morirà a Roma il 25 novembre 1985) raccontava la resilienza disperata dei deboli, quelle zone oscure dell’animo che collegano le storie dell’individuo alla grande Storia. E perseguiva con caparbia volontà l’impegno di essere scrittrice selvatica e anarchica ma soprattutto «popolare»: «All’analfabeta per cui scrivo» è la dedica di apertura della Storia, libro-evento lungamente covato, uscito per sua volontà subito in economica. E si infuriò quando parte dell’ intellighenzia sua amica non ne capì lo sforzo, l’amico Pasolini prima di tutti la deluse.
La stroncatura subita da Pasolini. «Ricordo una cena da Moravia», ha raccontato Renzo Paris, «la Rossanda gli chiese “Pasolini, il romanzo è risorto?”. Era appena uscito La Storia di Elsa Morante. Lui rispose: “No”. L’unica parola che disse quella sera. Poi scrisse una recensione in cui stroncava la Morante». Elsa ne patì, a modo suo, con la sofferenza imperiosa di chi pretende di essere capito: «Calvino disse che si poteva frequentare Elsa solo all’interno di un culto», ha rivelato Giorgio Agamben, filosofo suo amico, ad Antonio Gnoli. «Vero, forse, ma va detto che l’oggetto del culto non era Elsa, ma quegli dèi — da Rimbaud alla Weil, da Mozart a Spinoza — che amava condividere con gli amici. In questo era seria, selvaggiamente seria».
Mirella Serri per “Tuttolibri - la Stampa” il 28 ottobre 2020. Chi fu il suo vero padre? Sull’identità del genitore biologico di Elsa Morante i colpi di scena non sono mai mancati. Augusto Morante, istruttore in un riformatorio, marito di Irma Poggibonsi e genitore ufficiale di Elsa, non era il vero padre dei figli dichiarati all’anagrafe. Il papà naturale dei cinque fratelli Morante fu probabilmente Francesco Lo Monaco, impiegato alle poste e morto suicida nel 1943. Come mai la madre, insegnante ebrea, fece questa scelta, forse con il consenso del marito? Elsa Morante non amava che si parlasse della sua vita, si confidava raramente con gli amici e coloro che provavano a indagare finivano sotto i suoi artigli: il carattere della scrittrice, duro, impervio, altalenante tra slanci generosi e inaspettati accessi d’ira, era ben conosciuto dai suoi fedelissimi, una corte di prestigiosi intellettuali che, soprattutto nella seconda parte della sua esistenza, le furono molto vicini e l’aiutarono nei momenti più difficili (Enrico Palandri, Patrizia Cavalli, Adriano Sofri, Goffredo Fofi, Carlo Cecchi e tanti altri ancora). Anche per la reticenza della romanziera e poetessa sono tanti i misteri della sua biografia: il critico, scrittore e drammaturgo René de Ceccatty, in Elsa Morante. Una vita per la letteratura, si è calato come uno speleologo in una caverna ricca di anfratti, cunicoli, passaggi segreti. Ha illuminato in maniera assai efficace l’enigma Morante, intrecciando le coordinate di vita e letteratura, da Menzogna e sortilegio a L’isola di Arturo a La storia, cercando di arrivare alle origini della grandissima voce narrativa che «s’insinua nei meandri della passione, del delirio, del terrore». Elsa era nata nel 1912 e cominciò giovanissima a scrivere filastrocche, favole e racconti brevi. Ma suo primo libro, una raccolta di novelle giovanili, Il gioco segreto, uscì solo nel 1941. L’ anno cruciale nella sua vita è il 1936: in una birreria dietro Fontana di Trevi, in compagnia del pittore Giuseppe Capogrossi, conobbe il 29enne Alberto Moravia. Scrittore famoso a cui il regime era molto ostile, Moravia, era molto colto, ricco, figlio di un facoltoso architetto di origine ebraica. Fu ammaliato da Elsa. La scrittrice in erba aveva splendidi occhi, un po’ viola un po’ azzurri, da gatta, un fisico minuto, denti di un bianco splendente che l’avanzare degli anni e il consumo di sostanze stupefacenti renderanno piccole perle grigie. Dal 1937 Elsa cambiò scrittura, cominciò a pubblicare su riviste letterarie e a frequentare il fior fiore dell’intellighentia italiana, da Pier Paolo Pasolini (a cui fu molto legata fino alla rottura nel 1971) a Umberto Saba, Bernardo Bertolucci, Giorgio Bassani, Sandro Penna, Enzo Siciliano e Adriana Asti. Prima di conoscere Moravia, la Morante era assediata dalle preoccupazioni economiche, tanto che era stata costretta a prostituirsi: glielo rinfacciò ripetutamente il suo amante Richard T. M., che in lettere travolgenti e indignate le rimproverava di essersi dedicata al meretricio non solo in Italia ma anche all’estero. Richard, che Elsa rimpiangerà per anni, fu il suo sostegno di fronte ai ripetuti tradimenti di Moravia. Durante la seconda guerra mondiale, Alberto ed Elsa si rifugiarono a Fondi, in provincia di Latina, e la Morante comincerà a dar vita a uno dei suoi capolavori, Menzogna e sortilegio. Moravia era solito sostenere che la scrittrice nei suoi romanzi raccontava ripetutamente la storia della famiglia: Menzogna e sortilegio prese infatti spunto da una ricca messe di elementi autobiografici, come, per esempio, l’interesse che la protagonista Anna provava per il bell’Edoardo, composto da un mix di prostrazione, subalternità, masochismo e anche di rivalità. Pure Elsa era dominata da un analogo coacervo di emozioni e da questo magma interiore nacque l’aspirazione all’amore impossibile, l’attrazione per uomini impossibili, come Luchino Visconti «di cui ammirava l’orgoglio, la crudeltà, l’arroganza» o come il pittore Bill Morrow che aveva la metà dei suoi anni e che, dopo averla incontrata in America si trasferirà a Roma insieme al suo partner, coinvolgendola in un complicato ménage à trois. Il mondo degli omosessuali è fonte d’ ispirazione per la Morante: ne fanno parte Wilhelm, il padre di Arturo nel celebre romanzo dedicato all’adolescente di Procida, e Manuel, protagonista di Aracoeli. Come si spiega questo interesse per gli amori gay? La figura del padre Augusto Morante forse omosessuale è uno dei nodi oscuri e irrisolti della sua vita mentre una forma di «orgoglio e l’egocentrismo la portavano a cercare l’amicizia degli omosessuali nel desiderio di essere, fra loro, l’unica donna», osserva de Ceccatty. Alle delusioni sentimentali alla metà degli anni Settanta si aggiunsero per Elsa anche quelle politiche (il movimento Lotta Continua tradì le sue aspettative e lei prese le distanze allarmata dal terrorismo e dalla violenza). Tutto questo la portò a un tentativo di suicidio nel novembre 1982, alcuni mesi dopo l’uscita di Aracoeli. Seguirà il decadimento fisico e la morte nel novembre del 1985. Qual è dunque infine la forza della sua scrittura? Da dove nasce? La Morante lavora su un doppio registro e, mentre si confronta con la follia, il dolore e il tormento racconta anche il contrasto tra immaginazione e brutalità del mondo, tra sogno e volgarità e descrive il quotidiano compromesso con la realtà, l’abiezione e la noia. Ma è lo stile spettacolare, ricco, sontuoso e barocco che rende la Morante una delle maggiori narratrici italiane.
DAGOREPORT il 18 settembre 2020. Simpatica no, non lo era per niente. Generosa certamente lo era ma come forma di potere-prepotenza sui più deboli. Bella nemmeno, occhi grandi ed espressivi ma s’infagottava in vestitoni a quadri e foulard legati sotto al collo. Elsa Morante è stata una grande, grandissima scrittrice, è stata l’autrice de “L’isola di Arturo” e de “La storia”, un libro da milioni di copie che ha fatto conoscere la letteratura italiana contemporanea nel mondo. Per decenni però ha cercato di tenere nascosta a tutti la vera storia della sua vita. Cosa c’era nella sua esistenza da mantenere segreto? Adesso le notizie sulle menzogne e i sortilegi della sua complessa esistenza stanno filtrando grazie anche ai biografi di Alberto Moravia, come Renzo Paris che ne ha scritto di recente e che ha fatto luce sui misteri della coppia e anche su quelli più personali della Morante. Elsa detestava che si parlasse della sua vita privata, diceva che odiava il pettegolezzo, una disdicevole forma di intrusione nei fatti degli altri. Però proprio lei litigava con i suoi amici poiché si infilava nelle loro vicende personali e le valutava sul metro del politically correct formulato secondo gli schemi di “Lotta continua”, la sinistra fondamentalista in cui si riconosceva (troncò ferocemente con tanti suoi intimi, da Dario Bellezza a Pier Paolo Pasolini che si vendicò stroncando “La Storia”, criticata anche da Rossana Rossanda e da Alberto Asor Rosa). Era bacchettona e molto prude con i suoi amici. Ma proprio lei aveva parecchio da nascondere. Aveva circa vent’anni Elsa e faceva l’escort. Lo faceva per mantenersi con un certo agio. Si accompagnava a personaggi scelti e molto, molto danarosi. Cosa avrebbero detto negli anni Settanta i compagni di Lc del fatto che la giovane Elsa si prostituiva? Ohibò, vendere il proprio corpo a magnati ricchi e reazionari non era un comportamento che i rivoluzionari radical chic come Adriano Sofri, Goffredo Fofi, Fabrizia Ramondino e Ginevra Bompiani avrebbero mai apprezzato. I nomi dei suoi partner occasionali ancora oggi non sono conosciuti. Fu l’incontro con Moravia (che guarda caso scrisse “La romana”, storia di una prostituta) che la liberò dalla schiavitù del mercimonio. Il famoso scrittore la sposò, le regalò una bella casa, la introdusse nella cerchia degli intellettuali di grido, la aiutò a pubblicare i suoi romanzi presso editori importanti. E lei poté concedersi il lusso di comporre con grande libertà. La libertà Moravia gliela lasciò però anche in ambito sessuale, dal momento che la tradiva compulsivamente e ripetutamente: così la rese indipendente e senza lacci per trovarsi altri uomini. Da giovane praticò l’amore saffico e dopo… non si sa. Però le donne le odiava, soprattutto se belle e giovani, detestava le femministe e prediligeva gli omosessuali, in primis Luchino Visconti da cui era stata morbosamente catturata. Il quale avendo ben altre preferenze la maltrattava con piacere sadico. E lei subiva. Poi si innamorò del pittore omosessuale Bill Morrow, con cui ebbe un rapporto molto intenso, spartendoselo con il compagno gay di Bill, fino a che quest’ultimo non si suicidò gettandosi dalla finestra. A spingerlo al gesto estremo fu l’uso delle droghe che consumava con Elsa e che andavano dalle anfetamine all’Lsd. Dopo la separazione da Moravia che le lasciò un bell’attico, alcuni dei suoi amici maligni dissero che lo aveva sfruttato. Però dal momento che era una grandissima scrittrice la corteggiavano e poteva godere dell’affetto e della protezione di un’ampia cerchia di compagni molto radicali. Il suo carattere aspro e prepotente non accettava critiche o contraddizioni. Le risse e i litigi erano deflagranti e lei non risparmiava i colpi bassi anche al pacifico e pacifista Fofi o all’amica del cuore, la poetessa gay Patrizia Cavalli. Ogni tanto rubava qualche fidanzatino agli amici omo. Così Bellezza, ferito dal comportamento disinvolto e fedifrago di Elsa nei confronti dei suoi amanti, scrisse contro di lei “Angelo”, un libro dove Elsa era rappresentata come una scrittrice cinica e drogata. Fu come un gancio allo stomaco poiché il poeta che conosceva l’amore per la segretezza della romanziera ne metteva in piazza la dipendenza dalla droga. L’elenco delle avventure hot della Morante non è terminato ed è destinato a crescere e ad arricchirsi di episodi. Ma fa capire perché la Morante, la quale voleva restituire l’immagine di una scrittrice di estrema sinistra rigorista e moralista, di una poetessa che sapeva distinguere il Bene e il Male e voleva insegnarlo pure agli altri, teneva il suo esplosivo privato chiuso in un armadio. La grandezza della scrittura e la tenuta morale e comportamentale degli intellettuali e degli scrittori vanno tenute sempre e comunque disgiunte.
Fabio Isman per ''Il Messaggero'' il 7 settembre 2020. Alberto Moravia ha sempre parlato malvolentieri della famiglia originaria: da piccolo, evidentemente, non c' era troppa sintonia. Ma una volta, ad esempio, ha detto: «Il ramo paterno era per tradizione letterariamente e politicamente impegnato a sinistra. E il ramo materno a destra». La madre era la marchigiana Gina De Marsanich: tra i fratelli, anche Augusto, deputato fascista al governo con Mussolini e fondatore del Msi. Il padre, Carlo Pincherle, era architetto fecondo, a 22 anni trapiantato da Venezia a Roma, appena laureato, famiglia ebraica; Nello e Carlo Rosselli (uccisi dall' Ovra in Francia nel 1937) erano suoi cugini. Lo scrittore ha spiegato che era pittore dilettante, autore «di 140 immobili e ville per la borghesia romana, confortevoli ma completamente sprovviste di originalità: era un Liberty assai addomesticato, borghese e convenzionale»; era «più creativo negli interni che nelle facciate». Una palestra dell' architetto, è stata l' ex Villa Ludovisi, tra le più belle e grandi della città, oltre 30 ettari: piena di centinaia di statue, 80 soltanto in un viale (lo Stato ne ha comprate appena 150: sono a Palazzo Altemps); vi si addestrava il giovane Canova. Il principe di Piombino, il più ricco del Paese, tramite la Generale Immobiliare sorta a Torino nel 1862 e trasferitasi a Roma quando diventa Capitale, dal 1885 la trasforma in un intero quartiere. A un ricevimento, mostra il progetto al grande studioso Theodor Mommsen che, a voce alta per farsi udire, dice: «Non sapevo che a Roma i nobili mostrassero in pubblico le loro pudenda»; e poi, gli volta le spalle. È l' era dei «villini», tipologia prettamente romana; Pincherle ne progetta ed esegue parecchi. Si rivolgevano a lui le ricche famiglie ebree dell' Urbe; ma anche personaggi assai noti non solo a Roma. Ad esempio, a via Piemonte suo è il villino per Dionigi Spierer, nato a Trieste, pure lui piombato nella nuova capitale, fondatore delle Ferriere italiane, e quindi vicedirettore della Banca Generale, nel primo gruppo dei creatori della Commerciale italiana. È tra le residenze più eleganti; notevole il suo ingresso: un' arcata che termina in una conchiglia con due colonne laterali, e, sovrapposta, una multicolore veranda liberty; pregevole lo scalone interno. Divenuto, dopo vari passaggi, dell' Unicredit, nel 2012 l' ha venduto con altri dieci edifici simili nella zona. Ma il papà di Moravia costruisce anche, sempre in via Piemonte, una delle case più alla moda all' inizio del secolo scorso: quella della marchesa Luisa Amman Casati Stampa, che a Venezia possedeva Ca' Venier dei leoni (fino al 1924), poi dimora di Peggy Guggenheim. Girava con un giaguaro al guinzaglio; tra il «dandy» e la «dark lady» ante litteram, era legata a D' Annunzio, e il suo salotto frequentato da Marinetti; la immortalano Erté e Boldini. Vita internazionale e «smart», che finirà con 25 milioni di dollari di debiti; morrà nel 1957. Ancora in via Piemonte, al 62, di Pincherle è il villino del 1901 per il marchese Luigi Almerici, dotato di avancorpo con serra, nel 1925 comprato dall' industriale russo Leone Wainstein: la figlia Lia, morta nel 2001, vi ha tenuto un salotto frequentato anche da Calvino, Arrigo Levi, Giulio Einaudi, Vittorio Strada e Ronchey. Non troppo lontano, a via Boncompagni, l' architetto ingrandisce poi il villino, sorto nel 1890, per il barone Giorgio Levi delle Trezze; anzi, l' ampliamento crea dei problemi con i vicini. Levi, e la moglie russa Xenia Poliakoff, morranno ad Auschwitz. Tra le vie Abruzzi e Sardegna, Pincherle costruisce, progetto di Ernesto Basile, un edificio per l' erede della famosa famiglia palermitana dei Florio, Ignazio junior, che ha un' altana nella torretta; evidente nei decori l' influenza dell' Art nouveau. Altri edifici ancora, e, infine, tre per sé ed i suoi: vendendo nel 1946 quello di via Sgambati in cui era vissuto, Moravia ricava 21 milioni, con cui compra casa a se stesso ed Elsa Morante, sposata da poco. Con cinquemila lire del padre, a proposito, aveva anche pubblicato, nel 1929, Gli indifferenti: edito dapprima dal fratello del duce.
· Aldo Nove.
Maurizio Caverzan per “la Verità” il 3 novembre 2020. Breve anteprima. Dobbiamo spostare l' intervista a domani - dico ad Aldo Nove - tra poco ho una visita medica. «Quelle hanno la precedenza. Anch' io devo farne una, perché dovrò operarmi Hanno fatto un nuovo dpcm e devono togliermi il cervello perché rompo troppo i coglioni». Aldo Nove è uno spirito libero, un poeta, «un cannibale», secondo la vulgata della critica letteraria. Conserva l' innocenza del bambino pur avendole viste, vissute e raccontate tutte. La perdita precoce del padre e della madre. Le dipendenze. Il sesso sfrenato. I tentativi di suicidio. Dire irregolare è poco. Pure controcorrente o anticonformista suonano cliché. È Aldo Nove. Sempre alla ricerca di «un' altra vita», ben oltre Milano (citazione di Franco Battiato, al quale ha dedicato l' ultimo libro appena pubblicato da Sperling & Kupfer). Ha 53 anni, è nato a Viggiù, in provincia di Varese, vive a Monza. In una delle ultime interviste ha contestato il governo Conte, il Pd, Vasco Rossi, Angela Merkel e l' intero sistema dell' informazione. Salvo poi chiedere all'intervistatore di scrivere che era sotto l' effetto di stupefacenti.
Adesso parla da sobrio?
«Tutto dipende dalle domande, mentre me le fa potrei assumere qualche sostanza».
Per essere più disinibito?
«In vino veritas e anche in droga veritas Per sintonizzarmi con la sua testata».
Non c' è abbastanza libertà per dire ciò che si pensa?
«No che non ce n' è. L' altro giorno ho visto la diretta degli scontri a Torino Sui giornali nazionali si è parlato di rivolta armata, ma c' era solo la foto di una vetrina rotta e due cassettoni ribaltati. È chiaro che siamo sotto una dittatura mediatica».
Addirittura. In cosa consiste?
«Lo spiega bene Byung-Chul Han in Topologia della violenza pubblicato da Nottetempo. Oggi la guerra si combatte usando la paura e la falsificazione dei dati. E i dissidenti sono etichettati come negazionisti, che sono quelli che negano la Shoah. Sarebbe più corretto parlare di complottisti. I negazionisti veri sono quelli che sostengono un sistema di potere che sembra confuso, ma non lo è per nulla».
C' è un disegno?
«È difficile concepire ciò che sta davvero succedendo. Anche perché siamo abituati a valutare le cose a livello nazionale. Prendersela con Giuseppe Conte o con l' attuale pseudogoverno italico è riduttivo».
C' è un disegno più ampio? Il Nuovo ordine mondiale?
«Basta guardare cosa fanno in Francia o in Spagna. Questa è la prima guerra davvero mondiale. Durante la Seconda alcuni continenti ne sono rimasti immuni. La pandemia riguarda tutto il pianeta».
Perciò assolve Conte?
«Certo che no. Ma il problema è strutturale, al posto suo ne metterebbero un altro e la situazione non cambierebbe. L' Italia fa ciò che permettono i Trattati europei».
Che effetto le fa il clima diffuso di paura e di ansia?
«Mi fa rabbia. La paura alimenta altra paura e abbassa le difese immunitarie. Invece di migliorare la salute, la peggiora. C' è un ordine gerarchico nella dittatura: al primo posto il potere economico, poi quello politico, infine quello sanitario».
Al quarto quello mediatico?
«Potere sanitario e mediatico sono sullo stesso livello. La gente avverte i sintomi di stagione, raffreddori e mal di gola. Ma per la paura corre al pronto soccorso».
C' è un' informazione apocalittica?
«Non c' è spazio per il dissenso, nei canali ufficiali non esiste. Anche in parlamento vedo solo finte opposizioni. I grillini erano un movimento di opposizione, ora sono i più realisti del re. Quali sono le voci vere di opposizione?».
Giorgia Meloni?
«Ha un' ottima dialettica. Ma voglio vederla al potere, sotto le pressioni della Bce».
Come valuta il fatto che durante il lockdown è nata una task force per sorvegliare le fake news?
«Quale autorità può ergersi a stabilire quali sono le notizie vere o false? Il fatto che venga creato apposta un organo governativo fa capire cos' è la dittatura».
Che cosa le fa davvero paura?
«Il fatto che ci si sia completamente dimenticati della Costituzione. Nell' articolo 1 non c' è scritto che siamo un Paese fondato sulla salute o che la prima finalità repubblicana è combattere il virus. Più di tutto temo la disumanizzazione».
Cioè?
«Dimenticare che siamo corpo e anima. Della prima parte ci si ricorda molto. La seconda interessa ben pochi. Per questo sono stato entusiasta della lettura dell' enciclica di papa Francesco».
La fraternità deriva da una paternità o è un fatto sociologico?
«Per me è qualcosa di spirituale. Una fraternità sociologica non so cosa sia. Come dice Battiato, la prospettiva orizzontale porta verso la materia, quella verticale verso lo spirito. La verità è nel punto d' incontro tra le due dimensioni. Lo vediamo nella croce che è il simbolo che unisce materia e spirito».
Perché ha scritto un libro su Franco Battiato?
«Perché mi è stato proposto un anno fa. L' avevo visto in tv da bambino, avevo sei o sette anni. Era il Battiato sperimentale degli anni Ottanta e me ne innamorai subito. Dopo 50 anni di carriera sappiamo che è molto più che un cantante, è un filosofo, un ricercatore, un artista. Perciò sono stato subito entusiasta di scrivere questo libro».
Che cosa dice un artista nato a Riposto, in Sicilia, a un professore di Viggiù?
«Dice la sua vita Per esempio il valore del pensiero induista, di quello di George Ivanovic Gurdjieff, dell' ecumenismo di Raimon Panikkar, della cultura sufi L' elenco sarebbe lungo, per arrivare a Manlio Sgalambro. Molte persone si sono avvicinate a questi mondi su sollecitazione di Battiato».
Esperienze in varie direzioni che possono far perdere il «centro di gravità permanente»?
«Che è un' espressione presa da Gurdjieff. In un' intervista a Mara Venier, con molta tranquillità, Battiato ha detto di sperare di non trovarlo mai questo centro di gravità, perché a quel punto s' interromperebbe la ricerca. Mi permetto di aggiungere che, se hai trovato un equilibrio interiore, sei facilitato a dialogare con le culture più diverse».
Il libro parte dalla «facoltà dello stupore» di Battiato: una facoltà assente nella società contemporanea?
«Manca la capacità di guardare con occhi puliti quale meraviglia sarebbe la vita se non fosse inquinata dal neoliberismo impazzito o dall' interventismo del potere che stanno facendo fallire tutti. Penso ai fratelli tassisti, ai proprietari di bar e ristoranti. La logica secondo cui per prevenire un contagio si debba crepare di fame chiusi in casa continua a sfuggirmi».
«Strani giorni, viviamo strani giorni», cantava Battiato.
«Nelle sue canzoni ci sono molti elementi profetici. Da Isaia in poi il profeta è chi, sapendo leggere il presente, anticipa il futuro».
Come vive i suoi «strani giorni» a Viggiù?
«Adesso vivo a Monza, via da Milano. Esplico le normali funzioni: mangio dormo bevo studio scrivo. Come una specie di monaco laico».
Che rapporto ha con la tecnologia?
«Uso Facebook, cerco notizie alternative su YouTube».
Tipo i video di Enrico Montesano?
«Sì, li ho trovati belli, discreti e signorili. Montesano è un galantuomo».
Si definisce cattocomunista, ma elogia Donald Trump: qualcosa non torna.
«È la realtà che non torna. Nel senso che, paradossalmente, c' è maggiore attenzione al popolo e ai problemi della classe lavoratrice in Trump che non nella gauche caviar di Hillary Clinton o di Joe Biden, una sorta di pupazzo».
Che cosa la convince di Trump?
«Il fatto che sia un' anomalia. Che non sia espressione dell' alternanza convenzionale tra conservatori e democratici».
Fa una politica razzista, sottovalutato la pandemia?
«Il potere strutturale americano non si riconosce in lui appunto perché è un' anomalia. Basta considerare come si schierano i media. Con Trump c' è solo la Fox. Politica razzista dove? Semmai Trump è un imprenditore erotomane ed egocentrico. Sicuramente non potranno accusarlo di pedofilia, visto che gli piacciono le donne mature. In compenso, del caso Epstein e delle sue diramazioni non si parla più».
Scusi, Nove, ma lei non era di sinistra?
«Io sono di sinistra».
Chi c' è di sinistra in Italia?
«Marco Rizzo».
Fine? E la Repubblica, Fabio Fazio, Michela Murgia, Luca Guadagnino.
«Vuol far bestemmiare un cattolico? La sedicente sinistra è espressione dello status quo neoliberista che con la sinistra storica non ha niente a che fare».
Chi salva oggi in Italia?
«Marcello Veneziani... Che non è proprio di sinistra, ma lo trovo uno degli intellettuali più lucidi del momento. Andiamo oltre le etichette».
È anche amico di Susanna Tamaro.
«Le voglio un bene immenso. È una grandissima scrittrice che ha sempre detto quello che pensa. Ha avuto la sfortuna di vendere milioni di libri. E si sa, vendere tanto è da maleducati».
Si dice cattolico e nei Poemetti della sera cita Dio e il creato.
«Se è per questo ho scritto anche Maria, un poemetto teologicamente rigoroso».
Ma altrove racconta di aver tentato il suicidio.
«Avevo 18 o 19 anni, non capivo un cazzo e stavo male».
Il cristianesimo basta a strapparci dal nulla, dal nichilismo imperante?
«Se vissuto profondamente, cioè a un livello che io non ho ancora raggiunto, sì».
I Poemetti della sera contengono anche un' elegia della madre e della maternità: perché l' Italia e l' Europa non fanno più figli?
«L' albero degli zoccoli, il film di Ermanno Olmi, ritrae il mondo contadino spontaneamente solidaristico nel quale si facevano figli all' interno di una vita collettiva e dentro un rapporto forte con la natura. Quel mondo è scomparso. Oggi, a causa di problemi non solo economici, per una coppia avere un figlio è diventato un rischio».
Manca la gioia di vivere, prevale l' incertezza su dove ancorare il futuro?
«È così. Ci chiediamo che mondo lasciamo a questo nostro figlio. Procreare è un atto d' amore e l' amore scarseggia».
In televisione non la invitano o è lei che si rifiuta di andarci?
«Ultimamente ho rifiutato in modo un po' rude alcuni inviti».
Di chi?
«Di Nicola Porro e Giuseppe Cruciani, che mi è quasi simpatico. Però se mi chiamano a parlare di Battiato ci vado. Ho scritto un libro d' amore, e amor omnia vincit Come diceva Fedez O forse non era lui».
Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 24 ottobre 2020. Se c’è un artista difficile da intervistare, quello è Aldo Nove. Insieme ad Aldo Busi e Alberto Arbasino, quest’ultimo scomparso di recente, è considerato uno dei migliori autori contemporanei, e delle storie pazzesche che gli sono capitate durante una adolescenza tanto tragica quanto surreale ha scritto lui stesso. Già ci ha rivelato della morte dei genitori quando aveva 15 anni a poca distanza l’uno dall’altro, il padre sopraffatto da crepacuore per la sofferenza della moglie malata che lo seguirà poco dopo; di quando non sapendo come lenire il dolore, ingurgita litri di alcolici e si mette a vagare per le strade di Viggiù; del maldestro tentativo di togliere la sicura da una bombola a gas che provoca l’incendio della casa che va letteralmente in fumo; del trasferimento in un Patronato di Milano dove capisce di essere a tutti gli effetti un alcolizzato, anche se “a 14 anni lo ero già da 4”. E poi del sesso sfrenato, dell’abuso di droghe e dell’aver provato più volte a farla finita – in un caso intrecciando vecchie cravatte, ma sul punto di annodarle al collo è stato frenato dal pensiero della zia che non lo avrebbe più visto a tavola ad assaporare i sofficini che gli piacciono tanto; in un altro seguendo l’esempio del poeta Georg Trakl che scientificamente aveva calcolato la quantità di cocaina utile ad uccidersi si era procurato la giusta dose di “polvere bianca”, solo che una volta assunta – forse a causa del “taglio” con sostanze eccitanti – invece di spegnersi lentamente gli si era accesa in corpo una libido irrefrenabile fonte di altre peripezie. Insomma, avventurarsi su questo terreno sarebbe non solo arduo, quanto inutile. Molto meglio leggersi il libro La vita oscena. E così, forse l’unica chiave possibile con lui è cercare di comprenderlo attraverso le sollecitazioni del presente, di ciò che ci circonda e influenza il nostro modo di agire. In questo “il cannibale” – dall’antologia che lo ha reso famoso negli anni ’90 insieme ad altri giovani scrittori – è un maestro. E infatti non ha mancato di stupire. Ha denunciato la censura dei giornali e nell’editoria dovuta a “un disegno del Nuovo Ordine Mondiale”, si è dichiarato catto-comunista “ma anche un po’ tradizionalista”, ha contestato le misure restrittive delle libertà definendo il Covid “un moscone virus, una febbre strong ma non la peste”, ha attaccato Vasco Rossi come “perfetta rappresentazione del sistema” e, a sorpresa, ha affermato di considerare Trump l’unica “resistenza in questa terza guerra mondiale” (“Gesto iconico togliersi la mascherina”) oltre ad aver apprezzato l’enciclica del Papa (“Immette senso in questo delirio”). In uscita il 27 ottobre con la biografia di Franco Battiato (Sperling & Kupfer), alla fine ha provato a sfuggire al “TSO che ti fanno se dissenti” nel suo stile grottesco di affrontare ogni situazione: “Aggiungi che ero drogato e appena mi passa l’effetto inneggio a Conte, la Merkel e la Bce”.
Innanzitutto, visto il periodo, come stai?
«Aspetto che arrivi la rivoluzione e che finisca questa dittatura».
A quale dittatura ti riferisci?
«Prende il nome di “Nuovo Ordine Mondiale” e riguarda i problemi sanitari e politici in cui siamo immersi e dove non facciamo altro che calcolare i morti mentre intorno a noi tutto fallisce. Però i suicidi non li conteggia mai nessuno. È una operazione di ingegneria sociale che stanno mettendo in atto per rincoglionire completamente le persone e, inevitabilmente, funziona. Ormai esiste solo una parola nel nostro lessico: Covid. Il resto è cancellato. E mi sono già sbilanciato troppo. Perché in dittatura chi esprime il proprio pensiero lo sai dove va a finire…»
Dove?
«Per restare in ambito sanitario, ti fanno il TSO. Se riuscissi a ritardarlo sarei più contento».
Ti senti censurato?
«Sono completamente auto censurato e censurato da altri. Infatti, non mi chiama mai nessuno in contesti in cui possa esprimere anche solo il 30% di quello che penso. Sono limitatissimo. E niente, posso solo dire “viva Conte”, “viva Speranza”, “viva Repubblica”, “viva Travaglio”».
Ho visto che hai scritto su Facebook di essere rimasto sveglio fino alle 4 del mattino per leggere l’ultima enciclica di Papa Bergoglio, che sembri aver apprezzato.
«A me è piaciuta molto. Ho trovato che la sua posizione, che è di un capo di Stato, sia almeno un tentativo di immettere senso in questo delirio. È una buona enciclica, ben costruita. Puntualizza alcune cose essenziali dell’umanesimo, a prescindere dalla fede. A cosa serva concretamente, però, non ne ho la minima idea».
Sei credente?
«Sono catto-comunista! Come disse una volta di me Nicola Porro cercando di offendermi. E sono anche un po’ tradizionalista, basta che riesca a rimanere fuori da questa melma assolutamente insignificante ben rappresentata da quel che resta del Parlamento italiano.
Tradizionalista? Sai che poi sui social si scatenano gli hater.
«Basta dire qualsiasi cosa che non sia totalmente neutra e diventa una polemica. Come Enrico Montesano, che semplicemente ha letto dei passi da George Orwell ed è diventato un mostro. L’attacco nei suoi confronti è incredibile, a uno dei più grandi attori italiani che garbatamente legge 1984 e al quale hanno dato del “negazionista”. Ma andate affanculo tutti quanti!»
Faccio un salto indietro di quasi 25 anni, a quella Gioventù cannibale di cui sei stato uno dei protagonisti insieme ad altri giovani scrittori. Cosa rimane di quell’esperienza?
«A metà degli anni ’90 si poteva ancora parlare, non c’era la dittatura di oggi. Vigeva un blando sistema all’italiana di pseudo-democrazia relativa, dove le parole “destra” e “sinistra”, sulle quali ha riflettuto in modo grandioso Giorgio Gaber, avevano ancora un residuo di senso. Quello che è accaduto allora è da “spirito dei tempi”. Abbiamo fotografato qualcosa che stava iniziando a marcire e ora è marcito completamente».
“Oooohhh, ma sei scemo??!” lo si sente imprecare. “Ma pensa te, stavo attraversando la strada a piedi e uno per poco non mi tira sotto con la macchina”.
«Visto che sono sopravvissuto, stavo dicendo: c’erano tutti i segnali di un certo tipo di degenerazione collettiva. Però, attenzione, la “Gioventù cannibale” non è mai stato un movimento, ma una unione di scrittori che venivano da contesti diversi e si esprimevano con motivazioni diverse. Anche perché “i cannibali” in realtà sono stati frutto di una acuta e lungimirante operazione editoriale di Einaudi. Quel periodo è solo parte della mia produzione, in realtà molto diversificata».
Però in “Woobinda e altre storie senza lieto fine” sembri anticipare tutto quello che stiamo vivendo oggi e di cui ci lamentiamo come conseguenze della società dei consumi.
«È andata molto peggio di come descritto in Woobinda. Ma un po’ è accaduto anche in quello che descrivevano gli altri, come nei primi testi di Niccolò Ammaniti, di Tiziano Scarpa o di Isabella Santacroce. Era un guardarsi attorno e dire quello che stava succedendo. In quel periodo si intravedeva il nascere di qualcosa che è diventato talmente soverchiante da arrivare ai livelli insostenibili di oggi. Per esempio, davanti a me in questo momento ci sono due persone in macchina con la mascherina. Ma cosa vuol dire? Per questo ho apprezzato l’enciclica di Bergoglio, perché siamo tutti affamati di senso, persino inconsciamente, visto che in giro c’è troppo non senso».
Oggi ci sono ancora scrittori che si guardano intorno e riescono ad anticipare le evoluzioni future della società?
«Sì, ma non li pubblicano. Siamo in dittatura, ricordi? Col cavolo che ti fanno scrivere liberamente».
Puoi farmi qualche nome?
«No! Non vuol dire che non ci siano, però non voglio tirarli in ballo in questa faccenda.
Addirittura, facendo i nomi li metteresti in pericolo?
«Proprio così. Io tanto ormai sono già sprezzantemente un servo del sistema. Non a caso posso scrivere solo su quotidiani come Avvenire e Il Manifesto, gli unici due giornali che mantengono un residuo, non dico di dissidenza, ma almeno di mancanza di ossessione da leccaggio del culo del potere. Prendi tutti gli altri quotidiani che abbiano un po’ di vendita e confrontali. Eppure, questi servirebbero per promuovere i libri, ma il sistema è così: non c’è possibilità di antagonismo, sennò ti vengono a prendere».
In passato hai dichiarato che il pericolo non sono più tanto le fake news, quanto le fake life che stiamo vivendo. Tutta colpa dei social?
«L’informazione costruisce la realtà ed è pilotata da interessi. È assurdo che questa ovvietà possa essere considerata chissà cosa. Sono molto più colpito dal termine “negazionista” utilizzato in modo vigliacco. Occhio, che poi a un certo punto si passa dall’altra parte quando si esagera. Come sta facendo quel discutibile figuro di Vasco Rossi, che prima cantava di sesso, droga e rock and roll ed era simbolo di trasgressione e adesso definisce “terrapiattista” o manda affanculo chiunque non la pensi secondo “il sistema”. Mi sembra la rappresentazione perfetta della situazione attuale. Ma non farmi dire altro, che poi gli “imbruttiti” e i paranoici, cioè quelli che considerano Giuseppe Conte un grande politico, mi massacrano».
Su Vasco, seguendo il tuo ragionamento, viene in mente quel detto: si nasce incendiari e si muore pompieri. Nel suo caso, come te lo spieghi?
«Verrebbe da pensare che la situazione è talmente pesante che assumere posizioni “contro” significa condannarsi all’esclusione dal “sistema”. Anche per me non è facile da gestire questa cosa, un certo nome ce l’ho nell’ambiente. Ma se scrivessi puttanate insignificanti su quei giornali lì, starei senz’altro meglio di come sto adesso. Per questo esprimo massimo rispetto per Enrico Ruggeri che ha osato parlare, nonostante le difficoltà di questo particolare momento storico. L’altro giorno in Tv ho visto che Massimo Cacciari è esploso. C’è un po’ di stanchezza di fronte a tanta follia e sono assolutamente in linea con quello che ha sostenuto: “Sono un animale razionale e vorrei essere trattato in modo razionale”. Basta con le cazzate!»
Mi stai descrivendo una situazione alla Matrix.
«Proprio così! Anzi, io la chiamo Matrix 2, perché Matrix 1 è l’apparenza, quello che gli induisti definiscono “velo di Maya”, ma qui ne è stata prodotta ancora un’altra che non ha rapporto con la realtà precedente. Dall’apparenza della realtà, ci siamo discostati di molto attraverso un lavoro di ingegneria civile. Fa riflettere che sia la stessa laurea di Rocco Casalino [portavoce del premier Conte]. Eccola qui la costruzione di un ulteriore Matrix, dove una influenza molto forte come il Covid, ci tengo a precisare non la peste nera ma una influenza strong, sta uccidendo l’economia mondiale e molte più persone, ma indirettamente. Perché muoiono molte più persone di fame, di suicidio, per altre patologie, ma quelle non vengono conteggiate nelle statistiche quotidiane. Di questo non si deve e non si può parlare. Quindi parliamo del magnifico lavoro che in tutta la sua vita ha fatto Franco Battiato, questo si può diffondere».
Ci arriveremo, ma dopo avermi presentato questo quadro inquietante, devo chiederti per forza se c’è qualcuno che rappresenta una resistenza a questa “dittatura”.
«Difficile, visto che gli adulti hanno già subito il lavaggio del cervello e adesso sono passati a colpire i giovani e li mandano a casa alle 22 perché c’è in giro il “moscone virus”. In questo momento l’unico personaggio al mondo degno del mio rispetto, nonostante ricordi l’orrore di quando venne eletto, è Donald Trump».
Non dirmi che lo stimi?
«Sì sì, lo stimo. È l’unico punto di riferimento mondiale attualmente. Trump che si leva la mascherina, la butta proprio via, e dice: “Adesso scenderei e vi bacerei tutti in bocca”, prima le ragazze naturalmente, crea un momento icona che per me è salvifico. Ho bisogno di sentire dire frasi del genere, perché la salute fisica non può essere l’unico valore al quale fare riferimento».
Detto da chi è sempre stato considerato un intellettuale di sinistra, credo che ti attirerà parecchi strali.
«Quale sinistra, il PD? È un partito che non possiede assolutamente nessuno dei valori della sinistra. Se vogliamo rimanere nell’ambito della rappresentatività, bisogna riferirsi al Partito Comunista di Marco Rizzo. Se qualcuno mi spiegasse per quale motivo il PD può usare questo termine e addirittura farsene massimo esponente, mi farebbe un piacere. In realtà è soltanto un partito che rappresenta il liberismo estremo».
E dall’altra parte cosa vedi?
«Lo stesso pastone tipicamente italiano, “o Franza o Spagna, purché se magna”. Non trovo differenze rilevanti tra i due schieramenti, se non puramente di bandiera o scarsamente simboliche. Il giochino è che la sinistra vuole gli immigrati e la desta no. Non vanno oltre a questa assenza di profondità di pensiero».
Qualche tempo fa sei stato molto critico sui social anche verso il mondo della cultura a cui appartieni, difendendo dagli attacchi il poeta Franco Arminio.
«Quella è un’altra questione e c’è sempre stata e sempre ci sarà: quando hai successo fai rodere il culo a molti. Per esempio, sono amico di Susanna Tamaro, che è una grande scrittrice, ma purtroppo, tra virgolette, gli è andata bene con la pubblicazione di un libro come “Va’ dove ti porta il cuore” che lei stessa considera minore nella sua produzione. È quindi rea di aver venduto un botto di copie in tutto il mondo, per cui ha scatenato una coda di commenti critici che ha un solo nome: invidia. Esiste, dovremmo saperlo. E così, siccome Franco Arminio vende, si scatenano le invidie verso di lui. Ma se vendi non sei mica bravo…»
Anche Franco Battiato ha venduto molto, soprattutto dopo la svolta pop. Come mai hai deciso di scriverne la biografia che uscirà il prossimo 27 ottobre?
«Me l’hanno proposto sapendo che da quando ero bambino ho sempre seguito e apprezzato Battiato. Non posso dire di essere suo amico, però è capitato di incontrarci diverse volte e c’è una stima reciproca. Amo Battiamo come musicista e anche per il suo lavoro unico di ricerca che comprende le religioni, le filosofie, le scienze. È un intellettuale con la propensione per il popolare, che ha dato tantissimo all’Italia. Non è classificabile. Considerando i più grandi cantanti italiani del Dopoguerra viene quasi da escluderlo, perché è decisamente di più di un cantante. «Franco Battiato è considerato un autore intellettuale. E invece, tu ti vai a fare le analisi dei suoi testi e sono delle min… assolute, citazioni su citazioni e nessuno significato reale. Togli due testi, forse, e il resto…». Lo disse Michela Murgia sollevando un polverone, per poi chiarire che era una provocazione».
Siamo nel mezzo della Terza guerra mondiale e tu mi chiedi di Michela Murgia?
«È come se io tirassi fuori che Mina è stonata… sarebbe strumentale».
Ho cercato di provocarti…
«Battiato ha fatto una tale gavetta e si è dedicato con talmente tanta passione che non ho mai sentito serie o significative critiche su una carriera di quasi 50 anni, nonostante gli incredibili alti e bassi. In più, c’è sempre stata da parte sua una totale indifferenza nei confronti del successo. Quando gli è arrivato lo ha gestito, ma non lo ha mai cercato. Credo sia molto amato il “Francone nazionale”.
L’ultima raccolta pubblicata, che non lo ha visto partecipare in prima persona, ha sollevato alcune ombre che hanno fatto discutere.
«C’erano questioni contrattuali abbastanza blindate e il fratello Michele ha firmato per una cosa che mi sembra dignitosa. Una reinterpretazione dei suoi successi con la Royal Philharmonic Concert Orchestra che contiene un inedito bellissimo. Sfruttamento di cosa? Se c’è una persona che non sta bene ma con degli accordi in essere i parenti li fanno rispettare. Mi sembra un album fatto con estrema dignità».
In passato hai collaborato con Bugo e lui scrisse persino una canzone, Amore mio infinito, dedicato a un tuo libro. Come hai vissuto “le brutte intenzioni la maleducazione” a Sanremo, che Morgan ha definito un grande gesto artistico?
«Voglio bene a Morgan ma quello che ha fatto è orribile. Se fai la cacca e la metti in un barattolo e dici che è un grande gesto artistico, quella cosa l’ha già fatta Piero Manzoni in un contesto in cui aveva senso. È stato un atto violento, capriccioso, totalmente fuori luogo. Ho sofferto per Cristian [Bugatti in arte Bugo] e lui ci è stato veramente male. Poi quella litania è diventata virale perché basta che ci sia in giro una merda e le mosche arrivano in gran quantità».
Il tuo rapporto con la musica non nasce certo con la biografia di Franco Battiato, ma hai scritto di De Andrè, di Mia Martini, di Giancarlo Bigazzi, oltre alla raccolta di poesie Covers dove con Raul Montanari e Tiziano Scarpa prendevate spunto da brani rock. Cosa rappresenta per te la musica?
«Per me è tutto. Perché ogni cosa nasce costantemente da vibrazioni. Tutto è vibrazione nei mondi in cui viviamo e la musica ne rappresenta la dimostrazione più pura, come diceva Schopenhauer o, per rimanere più vicini a Battiato, come sosteneva Gurdjieff. Non so come mai, da bambino ho provato diverse volte a studiare musica, però mi annoiavano i solfeggi. Nello stesso tempo mi piaceva molto scrivere ed è la direzione che ho preso. Amo tutta la musica, sono molto curioso. Mi piace Sanremo, la musica contemporanea, mi sono sparato ore e ore di Stockhausen e per me Bach è una medicina, mi fa stare bene, però apprezzo anche la musica medievale e il prossimo anno scriverò un libro su Lou Reed. Non vivrei senza e scrivo sempre con la musica accesa».
Il 27 ottobre, quando uscirà il libro su Battiato, è anche il giorno in morì Lou Reed nel 2013.
«Lou Reed è un trait d’union fra musica e poesia. È stato un grandissimo poeta, peccato che a livello di immagine sia stato soverchiato dalla sua figura post Velvet Underground dei primi anni ’70 dove si è cristallizzata la figura del tossico eroinomane, perché nel suo percorso ci sono tantissime trasformazioni. Infatti, uno dei suoi album migliori si intitola Transformer, prodotto da David Bowie, dove ha una scrittura fantastica. Un grande poeta».
Sei stato inserito da Edoardo Sanguineti nel suo Atlante del Novecento Italiano e insieme ad Aldo Busi e Alberto Arbasino, scomparso lo scorso marzo, sei considerato tra i migliori scrittori italiani.
«E infatti si è smesso di curarsi di tutti e tre. È il fatto del pensare che non va molto di moda oggi».
Come ci si sente a essere un “classico” in vita?
«Mi sento uno di Viggù, nella provincia di Varese, che a un certo punto ha iniziato a scrivere e probabilmente, unito a un po’ di talento, ha avuto la fortuna di trovarsi con i testi giusti nel momento giusto. C’è un’alta percentuale di “culo” anche in scrittura, come in tutte le cose».
Non come Carmelo Bene al Costanzo Show, che sosteneva l’impossibilità di rivolgergli domande essendo diventato “un classico” di Bompiani.
«Adoro Carmelo Bene, ho anche lavorato con lui curando proprio per la Bompiani la sua versione dei Canti Orfini di Dino Campana. Caratterialmente, però, siamo lontani anni luce. Ma ce ne fossero di Carmelo Bene oggi. Anzi, quanto ci manca.
A livello personale è molto difficile farti delle domande, visto che hai già scritto tutto, o così almeno sembra, nel libro del 2010 La vita oscena.
«Ti posso annunciare che ci sarà anche La vita oscena 2».
Allora attendiamo, però forse sono emersi più i lati negativi che i positivi della tua prima parte di esistenza. Ma guardando indietro, qual è il ricordo più bello della tua infanzia?
«Mi commuove ricordarlo. Era un infinito pomeriggio estivo. Io ero in campagna, in Sardegna dai miei zii, sommerso nella natura più selvaggia. Poi sono tornato a casa, ho ascoltato Battiato e con i miei genitori siamo andati a mangiare una pizza e c’era un clima di profonda armonia. Di bellezza».
Non hai figli, per caso ti manca essere genitore?
«Per niente. Ho capito bene come si fanno prendendo informazioni su Google. In questo coincido con Carmelo Bene, cioè prima devo essere genitore di me stesso. Credo sia una responsabilità immensa, la più grande e primaria che ha l’essere umano, il prendersi cura di una creatura che arriva su questo mondo. Non sento di essere ancora pronto. Per ora, poi non si sa mai visto che l’uomo ha il vantaggio di poter fare figli anche in un’età avanzata».
“Madonna che figa c’è davanti a me…” esclama all’improvviso. “Scusa, non si può dire ‘figa’ perché sono catto-comunista?
«Allora rettifico: è passato uno splendido esemplare di donna…”.
Sembra che tu abbia conquistato parecchie donne grazie alle buone letture.
«Parecchie in base a quali parametri? Ho delle propensioni intellettuali e mi è capitato di trovare sintonia con ragazze che le avevano a loro volta. Anche con la più grande figa del pianeta, se fosse completamente lobotomizzata non credo mi piacerebbe passarci del tempo. Piuttosto mi faccio le seghe».
Poco tempo fa in una intervista la poetessa Patrizia Valduga ha detto di essere totalmente contro il movimento MeToo. Che ne pensi?
«Che io amo Patrizia Valduga. Siccome non è un fatto sessuale, significa che condivido il suo coraggio, il suo spirito libero, anche il suo dolore. La Valduga è una grandissima artista, quindi sta sulle palle agli schiavi. Lei non lo è perché è pazza! Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. Sai quanti insulti mi sono beccato dalla Valduga? Le ho anche risposto, ma ben venga la libertà! C’è un profondo affetto tra noi, forse caratterialmente ci somigliamo. Ogni tanto dobbiamo mandarci a quel paese. A livello logico è difficile da afferrare, ma è dimostrazione di profonda stima».
Hai raccontato che in gioventù hai provato a farla finita più volte. Qual è ora il tuo rapporto con la morte?
«Non ci riesco a farmi fuori. Ma partendo da Hume e il suo saggio sull’argomento per passare a certe riflessioni sarcastiche di Sgalambro, il suicidio è nel nostro libero arbitrio. Credo sia un diritto, per questo sono un sostenitore dell’Associazione Luca Coscioni. Non siamo obbligati a stare qua. Quando dicono che per la salute bisogna perdere quote di libertà, forse dimenticano quante persone sono morte per la libertà. Jannacci ironizzava sul “fare una vita da malati per morire sani”. No, qui si tratta di fare una vita da malati per morire post-umani. Da questo punto di vista preferirei andarmene adesso mandando tutti affanculo. Perché dopo essere nato bisogna crepare, forse qualcuno non se n’è accorto. Dovrebbe essere risaputo…»
A questo punto mi chiede: “Ma tu vuoi far uscire davvero questa intervista?”. Sì, gli rispondo. “Allora facciamo una cosa, aggiungi una chiosa finale. Chiedimi di nuovo come mi sento”.… come ti senti dopo aver avuto la possibilità di non essere censurato?
«Siate clementi, non fatemi ricoverare in psichiatria! Tanto accadrà comunque, ma a mia discolpa ammetto di aver parlato sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. In realtà sono il primo sostenitore di Conte, della Merkel, della Bce e ho il poster di Mario Draghi in camera. Ma siccome mi sono drogato male, probabilmente è in crisi anche il mio spacciatore a causa dell’emergenza Covid, allora ho detto tutte quelle stronzate. Mi hai preso nel momento sbagliato, ma ti assicuro che quando mi passa l’effetto di questa schifezza ritorno saggio e inneggio al PD, il famoso partito di sinistra, apprezzo Biden ed elogio sia la Bce che la Commissione Trilaterale. Ah, non solo, di solito se non ho sei mascherine addosso non vado neanche a pisciare. Ortodossia assoluta!»
· Alessandro Manzoni.
La rilettura dei "Promessi Sposi". Manzoni non era paternalista ma un convinto anti populista. Filippo La Porta su Il Riformista il 10 Dicembre 2020. Vi ricordate come Manzoni descrive il politichese (il linguaggio del conte zio, uno dei tredici magistrati della allora consulta milanese)? Ecco qui: «Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare, un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia; tutto era diretto a quel fine…». Un brano che suggerirei di mandare a memoria perché in poche righe vi è riassunto lo stile del potere, meglio che in Foucault: tra reticenze, minacce, eufemismi (più in là si sofferma sulle tecniche di dissimulazione, come quando dico «Non posso fare niente»: magari è vero ma lo dico in modo da non essere creduto, per accrescere il mio potere). Ora, perché proprio Manzoni? Vi propongo di leggere e rileggere i Promessi sposi più volte: ogni volta scoprirete un romanzo nuovo e diverso. Come l’I-Ching, il libro sapienziale cinese usato per fini divinatori, vi restituisce quello che gli chiedete. Stavolta l’ho ripreso in mano per capire meglio cosa Manzoni pensa del popolo. Credo che nello scrittore lombardo si trovino i germi di una critica radicale del populismo, inteso nell’accezione corrente (diciamo un populismo di destra, l’idea che il popolo ha sempre ragione, e che il miglior approccio alle decisioni politiche sia affidarsi in modo diretto al popolo attraverso un linguaggio semplificato che fa appello a passioni elementari). È nota la critica di Gramsci a Manzoni, al suo paternalismo che tratta i popolani come macchiette, con ironia bonaria, privandoli di una vita interiore, riservata ai soli potenti (al contrario di Tolstoj). A me quello di Gramsci pare un colossale equivoco. Ma vi pare che Lucia non abbia una “vita interiore”? Bisogna intendersi. Lucia, come altre figure del popolo, non ha bisogno di avere una “vita interiore”, nel senso di una interiorità tormentata, ambiguamente complessa come quella dei potenti (don Rodrigo a un certo punto sembra ravvedersi, poi ci ripensa); a lei – cui piacciono le cose «lisce, senza imbrogli» – basta dire sì sì o no no, come peraltro ci esorta il Vangelo. Manzoni, a differenza di Tolstoj, non ritiene che vox populi, sia vox dei. Il popolo inteso come massa, come folla in rivolta o in tumulto, è nei Promessi sposi una “marmaglia”, una “turba”. Preda dei suoi istinti primitivi, non ragiona, è incapace di senso critico (ed è il popolo – tutto emotivo – dei sondaggi del populismo odierno). Le pagine dell’assalto ai forni durante la peste (per un rincaro del pane) sono di straordinaria attualità. Mentre la folla incendia le suppellettili di un forno si sparge la voce dell’assalto a un altro forno. L’autore così commenta: «Spesso, in simili circostanze, l’annunzio di una cosa la fa essere» (ma sull’attualità di Manzoni non si finirebbe di parlare: pensiamo solo alle molte pagine dedicate ai “negazionisti” della peste, alla caccia agli untori, etc.). Ora, pur conoscendo la agorafobia dello scrittore, la sua non è la condanna di ogni mobilitazione popolare ma una lucida analisi, quasi un secolo prima di Le Bon, della folla come forza distruttiva, priva di autocontrollo, caratterizzata da un senso di onnipotenza (che deresponsabilizza il singolo). Ripensiamo a Tocqueville: il popolo in sé era anche per lui marmaglia, ma organizzato in associazioni civili e politiche diventa capace di ragionare, riflettere e deliberare. Cuore della democrazia è l’associazionismo. In questo senso Manzoni, che era certamente liberale e liberista (benché meno ottimista di Adam Smith sulla mano invisibile del mercato e sugli effetti virtuosi dell’egoismo individuale), potrebbe essere accostato alla tradizione del pensiero democratico. Certo al primo posto vengono per lui la responsabilità individuale, la razionalità, il buon senso (contrapposto al senso comune, pieno di pregiudizi), la dimensione morale, un cattolicesimo inquieto come può essere quello giansenista. A proposito della natura Manzoni, appunto giansenista, ha un pessimismo analogo a quello di Leopardi. All’immagine del giardino-ospedale dello Zibaldone (dove tutti fanno la guerra con tutti) corrisponde nei Promessi sposi quella della vigna lasciata in uno stato di abbandono, con le erbacce che crescono disordinatamente soverchiandosi le une sulle altre (il termine “marmaglia” viene qui riferito a ortiche, felci, gramigne…). La natura lasciata a se stessa è caos vitale e insieme maligno. Andrebbe replicato a certo fondamentalismo ecologista che se la specie umana si estinguesse non lasceremmo un pianeta pacifico e idilliaco, ma un mondo caotico, esuberante e violento. Unica risposta è quella della civiltà, dell’autodisciplina, del controllo delle pulsioni, della sublimazione intellettuale. Ciò che “salva” Manzoni dall’essere uno scrittore edificante e un ideologo cattolico (l’accusa di Moravia) è proprio il mix singolarissimo di cristianesimo pascaliano e solido illuminismo (coltivato a Parigi). Alla Politica, al Progresso, alla Rivoluzione (alla violenza emancipativa), alla Storia, Manzoni non ci crede: nella Storia non si può che far torto o patirlo. In cosa crede? Nella storia segreta delle anime, nella intima dimensione morale delle persone, dentro la quale non si fanno né patiscono torti, nella carità cristiana (che è gratuita, misteriosa, né si può pianificare), in un popolo che non sia marmaglia (folla imbestialita, massa amorfa e manipolabile) ma soggetto capace di discernimento e razionalità. Nell’ultimo saggio (pubblicato postumo) alla rivoluzione francese – di cui pure tende a vedere quasi solo gli eccessi e a trascurarne la portata storica – contrappone quella italiana (il Risorgimento), probabilmente idealizzata, dove secondo lui si afferma la libertà davvero, «che consiste nell’essere il cittadino, per mezzo di giuste leggi e di stabili istituzioni, assicurato, e contro violenze private e contro ordini tirannici del potere». A ben vedere però il suo bersaglio non è tanto il popolo in rivolta quanto i tribuni prepotenti e gli astuti demagoghi che parlano a nome del popolo, e che preparano l’arbitrio del dispotismo.
· Alessandro Michele.
Sofia Gnoli per “il Venerdì - la Repubblica” il 31 gennaio 2020. Quarantasette anni, romano, Alessandro Michele dal 2015 è il direttore creativo di Gucci e in poche stagioni ha rivoluzionato i codici della moda contemporanea. Nel 2016 è stato inserito dal settimanale Time nella lista delle cento persone più influenti del mondo. Anche grazie a Marco Bizzarri, presidente e Ceo della griffe con la doppia G (Michele affettuosamente lo chiama «il mio impresario»), nel giro di cinque anni lo stilista ha più che raddoppiato il fatturato della maison. L'atlante che pubblichiamo è nato dalla sua conversazione con Maria Luisa Frisa, direttrice del corso di laurea in Design moda e arti multimediali dell'Università Iuav di Venezia e curatrice della Gucci Garden Galleria, il museo fiorentino della griffe. Il dialogo si è svolto nell'ambito di Ephimera, il ciclo di incontri sulla moda che si tiene all'interno della Curia Iulia al Foro Romano, promosso dal Parco del Colosseo in collaborazione con Electa Mondadori. Mi sarebbe piaciuto studiare arte, fare l'archeologo, in fondo pur occupandomi di moda è quello che faccio, però sono nel reparto "rianimazione". Sono un animista, e credo che un'anima ce l'abbiano non solo gli animali e le piante, ma anche le cose, gli oggetti, i libri. Non ho mai smesso di fare l'archeologo delle cose, di tutte le cose, dall'iPad ai vasi attici. Copiare non significa niente perché si utilizzano le note di cui si sente la necessità, se poi la sinfonia funziona direi che è quasi inutile andare a fare una scansione. Il copiato lo pratico, e lo nomino perché non lo temo. Quella che mi è antipatica è l'ispirazione. Dietro quello che alcuni chiamano "copiato" c'è un'idea che funziona. Prendiamo Lana del Rey, è una manierista pura. Oppure vogliamo sparare ai Preraffaelliti? Grazie ma non mi interessa. Il processo creativo è misterioso, non saprei descriverlo, è una cosa molto personale. È come chiedere a un cantante come intona la voce. Certo la voce si può affinare, si può studiare, ma resta un mistero come queste due corde vocali suonino in un modo o in un altro. La creatività è assemblaggio, è ricomporre, è raccontare, è decidere che una cosa è più importante di un'altra. Il linguaggio creativo va trovato dentro di sé. Io sono stato fortunato perché a casa mi hanno spronato a farlo. Tra un succo di frutta, un calcio al pallone, un giro di bicicletta, mio padre mi diceva: «Guarda puoi fare anche delle cose strane, indipendentemente dagli altri bambini». Così a volte cantavamo in autobus, camminavamo a piedi dieci chilometri perché dovevamo passare sotto un cavalcavia. Diciamo che la vita dà mille possibilità. La creatività è uno spazio aperto dove ognuno di noi può comporre la musica che vuole. Fotografare una collezione è un'ulteriore messa a fuoco di un progetto. Il fotografo è come i tuoi occhi. Quando ho iniziato la collaborazione con Glen Luchford desideravo liberare la fotografia dagli effetti patinati di photoshop. Considero il lavoro del fotografo simile a quello dell'affrescatore, se sbaglia può distruggere un racconto. Per la campagna primavera-estate 2020 ho scelto Yorgos Lanthimos (il regista di The lobster e La favorita, ndr.) perché mi piace il suo punto di vista nel guardare le cose. In La favorita, per esempio, anche se gli ambienti sono sontuosi, lui li guarda in una maniera personalissima; sembra di entrare nella stanza della regina Anna, ma dalla porta di servizio. Vedi stanzoni, facce, cibo putrefatto... Lui spia, è grandioso. Io gli ho chiesto di spiare Gucci. Ne è nata un'operazione bellissima, Oviparity. I suoi scatti, ambientati nella Galleria della Leda di Villa Albani Torlonia, sono qualcosa di meraviglioso. In ufficio siamo una squadra. Facciamo tutti lo stesso identico lavoro. Io ci metto la faccia, per il resto siamo uguali. Oggi la moda è una cosa molto più corale di un tempo. Con me lavorano 170 persone, ma il mio piccolo gruppo, quello che io chiamo "famiglia", sta con me veramente da tanti anni. Sono fiero che per creare Gucci di oggi non abbiamo chiamato degli "imbellettatori" esterni, no. E questo progetto ha vinto. Questa è la mia più grande soddisfazione. Gli ho dedicato tutta la vita. Ho scelto la moda e ho combattuto in maniera folle. Questo è un lavoro faticoso, per me e per quelli che lavorano con me. Fare la moda non è comprarsi un vestito, è un mestiere durissimo, ci tengo a dirlo, bellissimo ma molto duro. Pur adorando la tecnologia (non potrei mai fare a meno del mio iPad), i libri sono una cosa bellissima, che va difesa a tutti i costi. Sono qualcosa di magico, di meraviglioso e poi non dormono, non si spengono mai. Anche se sono un regalo del passato sono presenti in maniera molto potente, non sono un tweet che passa e va. Adoravo il Carnevale, per me era splendido, mamma lavorava nel cinema, per cui avevo sempre dei bellissimi costumi: il mio cappello da principe azzurro aveva una vera piuma di struzzo. Però poi mi chiedevo perché arrivasse un giorno in cui quel vestito si dovesse riporre. Avrei voluto andare a scuola con il cappello da principe azzurro anche durante l'anno, in fondo non c'è un divieto. Abbiamo tutti il diritto di essere quello che vogliamo essere, di poter rappresentare chi siamo. Non è banale rappresentarsi, è qualcosa che comunica all'esterno chi sei. Essere strani è stupendo. Se da grande, attraverso le mie campagne pubblicitarie, ho aiutato qualcuno di una scuola di periferia a sentirsi a suo agio e mettersi il cappello da principe azzurro tutto l'anno, sono felice. Allora già facevo questo mestiere. A quei tempi era tutto molto chiaro: chi voleva avere un'aria intellettuale andava da Prada, chi amava lo stile lo stile disco da Studio 54 andava da Gucci di Tom Ford. Quando John Galliano arrivò alla direzione creativa di Dior si iniziò a parlare della sovrapposizione tra couture e street-style. Galliano è stato il più grande inventore, uno sciamano, un artista, regista e performer, il padre, insieme ad altri, di tutto quello che facciamo oggi. I Novanta sono stati anni meravigliosi. Nel mio lavoro sono partito da lì, poi ci ho messo i miei nerd. Allora la moda comunicava molte cose, ti diceva che c'era uno spazio che avevano cominciato a costruire Gianni Versace, Miuccia Prada, Tom Ford. Oggi quello spazio è diventato un grande network. La moda è un contenitore incredibile dove può essere inserito qualunque tipo di luogo, di piattaforma, di pensiero, tutto. Sbaglia chi pensa che sia solo un vestito nuovo. La moda è una cosa istintiva. Chi chiede, chi vuole sapere, chi vuole fare l'arbitro, sbaglia a priori e disintegra e toglie alla moda il suo grande potere. Dentro la moda c'è tutto, Raffaella Carrà e Mozart, Lalique e monsieur Saint Laurent.E poi ci sono io che non volevo più stare nella periferia di Roma. Essere punk, secondo me, significa andare contro qualcosa e dimostrarlo attraverso il proprio apparire. Io lo pratico in tanti modi. Mettendo gli zoccoli sanitari o un tailleur molto borghese. In un momento in cui non si poteva dire niente, il grande disturbo era la fisicità. Essere a Trafalgar Square conciati in quel modo accanto ai leoni della fontana significava protestare di fronte ai simboli del conservatorismo. È la mia città, ci sono nato, ci ho studiato. Poi come molti ragazzi, ho fatto le valigie. Ho fatto tanti giri e sono tornato adulto. Per me adesso Roma rappresenta un luogo disgraziato, fuori moda, che però mi dà la possibilità di produrre delle cose diverse, perché in questa città dove c'è tutto e non funziona niente c'è la storia del mondo. Roma è anche folgorazione, è uno spazio grandioso e al tempo stesso intimo, dove si ritrovano cose piccole, dimenticate. Amo Roma perché qui molta gente non sa cosa significhi la parola marketing, si adagia come i capitelli qui fuori, aspetta il sole, un bicchiere di vino, un cappuccino, una buona lettura, una bella risata e un chissenefrega, alla fine ci si sta molto bene. Con questo non banalizzo la città, anzi, dico che ho scelto di stare qui perché quando ero piccolo questo luogo mi ha parlato. Perché è il posto dove è iniziato tutto. La parola sexy mi ha fatto sempre sorridere, trovo che sia un termine claustrofobico. Il concetto di sessualità è talmente dilatato che quando uno dice che una cosa è sexy sembra di stare in una gag: «Quello è sexy, quello non è sexy». Ma in fondo questa parola piace a tutti, ha un grande potere. Tom Ford è stato il primo a sfumare i generi. Nelle sue campagne pubblicitarie c'erano delle donne in piedi tagliate nel punto dove iniziava il perizoma per cui non capivi se erano veramente tali, non capivi se erano amici, se erano amanti o se lui poi l'aveva lasciata e si era messo con un uomo Io mi sono tuffato in questo immaginario e ci ho messo i miei codici. Ognuno di noi dovrebbe sperimentare, quasi tutti i giorni. Percorrere una strada nuova per arrivare alla stessa piazza è una sperimentazione interessante. Io sperimento con le persone che lavorano con me. L'azienda è il nostro laboratorio: è sempre attiva, come la bottega di un fornaio, lavora anche di notte. È un grande ispiratore, un grande istigatore. Il passato è un contenitore immenso. È un racconto fatto per strada, è un oggetto che compro, è un libro, è tutto, è parte del nostro oggi. Il grande errore è dire: «Il passato? Guai, che sei matto?». Semmai trovo "antico" chi vuole essere moderno a tutti costi. Io non mi sento così vintage da dire di essere moderno. Semmai lo sono davvero.
· Andy Warhol.
Vi racconto Andy Warhol: mito pop, signore micragnoso. Fulvio Abbate il 27 Dicembre 2019 su Il Riformista. Andy Warhol è tornato! Alla fine, fra tutte le possibili capitali del pianeta, pensa un po’, ha optato per Roma, città di antiquari, quelli che più amava frequentare, tra Fontanella Borghese e i Coronari, in cerca di arredi da gran commendatore glamour, direttamente spediti nella vertiginosa Manhattan. Via dei Barbieri, galleria Contemporary Cluster, palazzo Cavallerini Lazzaroni, giungo poco prima che abbiano finito di allestire la mostra che dovrebbe, fra molto altro, narrare proprio il genio di Warhol, di più, la Presenza stessa nello stroboscopico discopub-privè dell’arte. Un buttadentro, moschettone e catenella da mangiafuoco hipster, avverte che è ancora presto: «… abbiamo uno start alle 19.00!». Confesso a me stesso di non comprendere la precisazione, intravedo tuttavia con la coda dell’occhio, nell’ideale luce di Wood che tutto all’interno avvolge, gli scatti che Gerald Bruneau, maestro fotografo viaggiatore, uomo di mondo e co-protagonista dell’esposizione-omaggio, ha fatto ai Bronzi di Riace, non prima di averli rivestiti di tulle rosa, così per amore di doveroso scandalo. Nell’attesa di ritrovare il redivivo inventore della Pop art, riconquisto a piedi via del Monte della Farina, l’Area Sacra di largo Argentina e il suo cinerama turistico di gatti e gattare gelose, rosticcerie d’alto bordo “Roscioli”, turisti che galoppano, la sporta in mano, verso Campo de’ Fiori, capolinea di tram zeppi di occhi in attesa e madonnari che bivaccano sotto le bacheche del Teatro Argentina; così continuando a rimuginare su cosa sia mai, accanto allo “start”, restando in tema di mostre, il “finissage”, suono da coiffeur pour dame o forse lacca per tenere su la permanente nell’ultimo giorno utile di visita? Dai, non possiamo mancare alla santificazione di Warhol nell’Urbe, pontefice maggiore del sogno Made in Usa, colui che lo scrittore palermitano del Gruppo 63, Gaetano Testa, chiamava con vezzo autarchico, avanguardistico, Endi Varòl, infatti anch’io da quel 1975, quando il nostro era in pieno fulgore nella sua Factory davanti alla serie dei trans, così lo certifico all’anagrafe dei grandi. Mi aspetto di trovare, una volta dentro, i suoi parrucchini alogeni, poterli ammirare come fossero la feluca di George Washington o piuttosto l’uranio di Los Alamos dentro una teca di cristallo, i parrucchini che ho visto archiviati presso la sua Fondazione al 65 di Bleecker Street, New York City, N.Y. Il pubblico, come me trepidante sull’uscio, brilla tra hipster e post-grunge nel fitto nero degli abiti con cappuccio, calca da remake capitolino dello Studio 54, gli stessi anni, appunto, in cui Warhol accoglieva Bianca Jagger in sella a un cavallo bianco tra Donna Summer, Grace Jones, Liza Minnelli, Lou Reed e Truman Capote. Parka, zainetti, berretti “a sacco” un po’ da bravi di Don Rodrigo e un po’ alla Christian De Sica in “Ricky & Barabba”…Ci siamo: le acque dell’evento si sono finalmente rotte. È una serra di modernariato, cineserie, mobilia rivestita con “toile de Jouy”, metti, di zio Luca o cugina Francesca Romana, nonno Carlo, gran notaio morto già residente ai Parioli, le menzionate gigantografie di Bruneau, abat-jour anni 50, e gli ellepì dei Velvet Undergound, la banana da cover in bella vista, copie di “Interview”, il magazine di Andy, ecco le trans litografate per la serie “Ladies and Gentlemen” del 1975, la posa segnaletica di Mario Schifano al suo primo fermo presso la questura romana di via San Vitale: “consumo di stupefacenti”, ancora uno scatto che mostra l’autore dei “paesaggi anemici” mentre, felice, segue Warhol, ragazze che ammirano – “… ma è proprio Schifano!” – e quasi si inchinano davanti a Mario, arcangelo sterminatore della pittura italiana del secondo Novecento; Schifano ne sarebbe contento e frastornato, pur detestando la qualifica di artista pop. E ancora fanciulle travestite da attrazioni e figuranti sempre dello Studio 54, il dj pronto perfino a far ballare tutti all’acme della serata, stagnola luminosa ovunque sul pavimento. Peccato manchino i cuscini argentati di una celebre istallazione glamour, primeggia però l’icona del tomato Campbell’s, c’è Marylin, appare di sfondo a ridosso dei divani incerottati di plastica, pronti ad accogliere drag queen inarrivabili: La Feb Mua, Shana Rose, Henry Pass, Coco Estoy, fulgore di una Capodimonte Lgbt, perfino il sosia fotogenico e altrettanto alogeno dello stesso Andy, in posa a favore dei “Dollar Sign” e dei “Flowers”. Si diceva che Warhol ne avesse rubato l’immagine da un manuale di botanica, e che l’autrice dello scatto originale lo avrebbe denunciato. Gerald Bruneau, nel 1982, ospite nello studio di Time Square, ha ritratto il genio residente in posa convinta, quasi napoleonica, così mentre Giacomo Guidi, il titolare dello spazio espositivo, quasi un loft a bisarca nel ventre della Roma monumentale, mi fa strada sempre tra le foto della “Factory” di Manhattan e l’appartamento privato post-mortem. Warhol ovvero un racconto residenziale borghese dagli arredi stile impero e direttorio, interrotto solo da una grande tela del collega Roy Lichtenstein, il “Mercurio volante” di Giambologna a fargli ombra; tornano così alla memoria i suoi “diari”, il racconto di un signore micragnoso, pronto a riportare sui fogli dei singoli giorni perfino il costo dei calzini, di un dildo, di un pranzo. Ecco Gerald Bruneau, lui che Warhol ha visto e toccato, senza il suo portfolio fotografico non ne immagineremmo la dimora fin troppo classica, addirittura “pompier”, nessuna concessione al casual, appartamento degno dei un duca conte finito sulla ghigliottina; Gerald, feltro e sciarpa rigorosamente neri, racconta la Manhattan con prenotazione obbligatoria dell’ultimo scorcio di avanguardia…
A rendere ancora omaggio ai fluidi del pop, giungono intanto Roberto D’Agostino, il nuotatore Massimiliano Rosolino, Alessandro Campana, nazionale di pallanuoto, e Marco Giallini, attore, uomo di mondo, inarrestabile narratore di se stesso e pittore anch’egli. E ancora, su tutti, il conte Roberto Filo della Torre, tocco di ciliegia aristocratica su una torta già notturna. Segue dj Ringo per il dessert ricreativo finale, cral serale della Roma post-human. Si replica nei prossimi giorni, la “Warhol’s Factory” resisterà fino a domani 28 dicembre.
· Angelo Cruciani.
Angelo Cruciani, chi è lo stilista italiano nel talent «Next in Fashion» su Netflix (dal 29 gennaio). Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Paola Caruso. Diciotto stilisti provenienti da tutto il mondo si sfidano nel talent «Next in Fashion» su Netflix dal 29 gennaio (già tradotto in 14 lingue) condotto da Alexa Chung, influencer e icona di stile, e da Tan France, stilista e personaggio televisivo. In questa gara che mette in palio 250 mila dollari e una collezione in vendita su Net-a-Porter (oltre a tanta visibilità), i 18 concorrenti designer, tutti pieni di talento e con un curriculum di lavoro per grandi marchi, si mettono alla prova in una serie di competizioni incentrate sulle tendenze fashion. Tra gli sfidanti c’è anche un designer italiano: Angelo Cruciani, 42 anni, attivista per i diritti Lgbt (ideatore del flash mob «Svegliati Italia» che nel 2016 ha portato in 97 piazze italiane e in 15 nel mondo un milione di persone per i diritti Lgbt), creatore del marchio Yezael e vincitore nel 2019 del premio «best creativity» alla Beijing Design Week. «Non mi aspettavo di essere scelto — ha spiegato Cruciani —. Hanno fatto prima una selezione tramite i direttori di giornali moda, poi un casting durato 6 mesi, ci hanno portato in 28 a Los Angeles, e siamo rimasti in 18, ognuno famoso nel suo Paese ma non altrettanto a livello internazionale. Non mi aspettavo di entrare perché sono una briciola rispetto agli altri concorrenti e ad altri colleghi italiani che sfilano in calendario e hanno un percorso ben avviato». La première del talent in 10 puntate è in programma a New York, il 29 gennaio, e Cruciani ci sarà, forse accompagnato dal marito, l’attore Yang Shi che ha sposato nel 2018 dopo una relazione di 10 anni. «I 10 anni con Yang sono i più belli della mia vita — ha detto in passato al Corriere —. Sono felice e questo si riflette nel mio lavoro». Qual è la storia di Angelo Cruciani? Nato nel 1978 a Cantiano, un comune di 2000 anime tra Marche e Umbria (vicino Gubbio) da una famiglia umile (madre casalinga e padre guardia forestale) inizia a disegnare i primi abiti da bambino. «Già a tre anni avevo creato sulla carta una mini collezione, almeno è quello che mi ha detto mia madre». Poi, dai disegni è passato alle stoffe. «Ho chiesto ai miei di comprarmi una Barbie e negli Anni 70 un bambino con la bambola era uno scandalo — ha sottolineato —, ma i miei genitori mi hanno sempre sostenuto... sono stati rivoluzionari e li ringrazio per questo. Come producevo vestiti per la bambola? Ero molto piccolo, quindi prendevo vecchi calzini e li tagliavo, poi ci aggiungevo pezzi di tessuto». A 16 anni le prime esperienze da modello. «Ho avuto l’opportunità di posare. Per caso. Un fotografo locale mi ha contattato per un catalogo e da lì sono partito. Ero alto (183 cm) e magrissimo, in pratica 20 chili fa. In realtà, non mi interessava una carriera in passerella, ma l’esperienza mi è servita per aumentare la mia autostima, al tempo un po’ bassa. Non avevo una buona considerazione di me stesso». Dopo la scuola d’arte Cruciani si è trasferito a Roma per studiare in un istituto di moda, ha completato la formazione lavorando in diverse aziende fashion fino al momento in cui ha deciso di mettersi in proprio. Siamo nel 2014. «Ho commissionato tanti abiti da uomo in sartoria per me stesso, da miei modelli, scegliendo tessuti, fodere e finiture. Quando li ho visti tutti insieme, tantissimi, su due relle, ho pensato che erano già una collezione e così ho deciso di prendere la strada del mio brand. La collezione donna invece risale al 2016 e per crearla ho dovuto studiare tanto». Come definisce la sua moda? «Rock, nel senso che non ha regole: non amo i canoni, ma l’armonia. Il mio capo preferito è la giacca, in tutte le salse, perché mi permette di esprimermi come se fosse una tela bianca, da reinventare di volta in volta». Vestirà qualcuno a Sanremo? «Siamo in trattativa».
· Antonio Ligabue.
Antonio Ligabue, l’urlo dalle pareti di un museo. Superando la barriera dei pregiudizi, l'artista arriva a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, nel più bel palazzo del Rinascimento. Vittorio Sgarbi su Il Quotidiano del Sud il 19 ottobre 2020. Nei grandi musei italiani Antonio Ligabue non è mai entrato. Eppure il riconoscimento del suo valore è stato unanime. Ma le convenzioni sono state più forti, e la sua visione solitaria, diversa, anomala lo ha reso un’anima estranea alle finzioni dei conformisti, pronti a seguire le mode. Ligabue parla della vita, della sua vita, del suo rapporto con il mondo e con la natura. Ligabue urla, come Van Gogh, come Munch. Parla per sé, parla per tutti. L’arte è questo, non quello che decidono i burocrati. Ora, superando la barriera dei pregiudizi, Ligabue arriva a Palazzo dei Diamanti, e grida dalle pareti di un museo. Non avrebbe potuto pensarlo, nei giorni e nelle notti del suo tempo difficile, disperso nelle campagne, tra solitudine e disperazione. Lì dove ha rappresentato una festa nella foresta, nei boschi della golena di Gualtieri dove si nascondono gli animali feroci della sua immaginazione infantile, che improvvisamente irrompono tra la golena chiusa e la golena aperta, separate da un argine più basso dell’argine maestro. La parte chiusa tra i due argini accoglie coltivazioni agricole, quel semplice mondo contadino che Ligabue descrive, con alcune case coloniche e un borgo abitato da “Sabiaroli ” e animali domestici. La parte aperta, verso il fiume, è occupata da folti boschi di pioppo interrotti da macchie di essenze autoctone, laghi formati in cave abbandonate, in cui vivono e si riproducono diverse specie faunistiche e vegetali, quelle reali e quelle immaginate da Ligabue. Intorno, tra Gualtieri, Boretto e Guastalla, si incontrano l’Isola degli Internati, il Lago azzurro, i Caldarèn, la via Alzaia, la cava del Piattello, mentre, dalla golena, si vedono il profilo delle torri e il palazzo di Gualtieri spuntare dall’argine maestro: trasfigurati li troviamo nei dipinti di Ligabue. In questi luoghi reali che sembrano immaginari irrompono dalla memoria montagne lontane, torri e castelli di paesi nordici, aquile reali assalgono volpi, tigri sbranano scimmie, leopardi azzannano gazzelle. Poi tutto torna tranquillo in placidi idilli con animali domestici e nella serena vita contadina nei campi. Ciò che più sorprende, in questi racconti, placidi o violenti, sono le tempeste di neve, che si abbattono su fragili slitte che affrontano una Siberia inventata. Ligabue incarna quel genio artistico che, nella sua assoluta istintività, nella sua arcaica complicità con la natura, è in grado di inserirsi a pieno titolo nell’arte contemporanea. Proponendo un linguaggio figurativo che parla di cose semplici. Il mondo, nelle sue varie situazioni, è una continua sorpresa che il pittore osserva con rinnovato stupore, restando sempre dalla pare della vita con assoluta, infantile, innocenza. Così Ligabue piace, piace a tutti, soprattutto ai bambini. Ora Ligabue è Ferrara, nel più bel palazzo del Rinascimento, per non consentirci di chiuderlo, con tutto il suo stupore per il mondo, e consacra questi spazi, prima che su essi cali il silenzio.
· Antonio Pennacchi.
Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 2 marzo 2020. A passeggiare per Latina con Antonio Pennacchi si rischia la pelle in vari modi. Perché a un passante che impreca per fatti suoi lui indirizza un «ma vaffa' tu» o perché si ferma in mezzo alla strada al culmine di un' invettiva partita dalla necessità di superare l' antifascismo e approdata all' Iliade , a Priamo e Achille «vittime e carnefici che si abbracciano, piangendo ambedue sul dolore del mondo». Maestro, azzardo timidamente, quell' auto ci stava venendo addosso. Niente. Pennacchi resta lì. «Priamo piange pensando a suo figlio Ettore ucciso da Achille, Achille lo abbraccia e piange pensando a suo padre, al suo amico Patroclo morto e pure a Ettore, che lui ha ucciso, e a se stesso, che verrà ucciso. E quindi insieme piangono sulla condizione umana, che è la stessa, a prescindere dalla parte in cui stai». Io: maestro, siamo sempre in mezzo alla strada. Pennacchi, però, sta pensando a sé «fasciocomunista» come nel titolo di un suo celebre libro, e alle botte, vere e metaforiche, date e prese stando da una parte o dall' altra. «Capisce? Io ero Achille e ho dovuto fare Achille. Tu eri Ettore e hai fatto Ettore, ma siamo uguali. È il polemos , è la legge del più forte. Allora, questo Paese deve non perdonare, ma elaborare. Invece, nel 2020, siamo ancora al paradigma antifascista». S' avvia al marciapiede, scuote il capo, avvilito. «Io parlo, parlo, e lei chi sa che scrive». Andare in giro per Latina con lo scrittore che nel 2010 ha vinto lo Strega raccontando in Canale Mussolini Latina e la sua gente, quei migranti venuti qui a domare paludi, è come trovarsi in un romanzo dal vivo. Ti mostra la Banca d' Italia dove nel '44 i tedeschi fecero saltare il caveau che suo zio svuotò con la carriola, fregando sia i tedeschi sia gli americani, e questa è la scena che apre Canale Mussolini parte seconda . Ti porta nelle piazze dove ha manifestato prima da fascista, poi da sindacalista, quando per trent' anni è stato operaio in fabbrica, e ti porta nel triangolo di vie dove si picchiava col fratello, che si chiamava Gianni, ma è Manrico nel Fasciocomunista e nel film Mio fratello è figlio unico , interpretato da Riccardo Scamarcio mentre Elio Germano fa Antonio e sempre la gente s' affacciava: «Guarda, guarda: so' i due fratelli che vanno a menasse ». Famiglia contadina, la loro. Sette figli. A Latina con Pennacchi, t' imbatti in Filippo Cosignani, che sta qui in carne e ossa e in Camerata Neandertal , nel memorabile momento in cui il Federale Finestra impone le mani sullo scrittore in sedia a rotelle e gli dice: alzati e cammina. Pennacchi ricorda: «Finestra mi aveva espulso dal Msi nel '67, perché avevo manifestato a favore del Vietnam. L' ultima volta, lo vidi qua in piazza, nel '68. Io stavo con gli studenti, ce le demmo. Dopo trent' anni, scrivo Palude in cui lo piglio in giro e lui mi manda un biglietto: "Libro stupendo". Abbiamo fatto pace».
Lei era davvero rissoso come nei libri?
«Mia madre diceva che non ero un attaccabrighe, ma un catabrighe. Catare, in veneto, significa trovare. Io uscivo e trovavo le brighe».
La volta che ne prese di più?
«A Trieste, da fascio. Sa Trieste libera, la Zona B? Mi ero portato due catene chiodate, ma i carabinieri menavano col fucile».
La Cgil la espulse perché picchiava i capireparto.
«Direi che fu perché adottavo forme di lotta che non ritenevano democratiche».
Deduco che non si è pentito .
«Senta: stavo nel Consiglio di fabbrica della Fulgorcavi, rispondevo agli operai che rappresentavo e facevo quello che dovevo fare».
La volta che ne ha date di più?
«Le ho sempre prese e ormai sono non violento. L' ultima volta, feci a botte quando m' iscrissi all' università a 40 anni. Oggi, sarei persino vegano, se non rimanessi un uomo del vecchio mondo uso a mangiare abbacchio».
Come diventò comunista?
«Finestra m' aveva cacciato, ma avevo 17 anni e l' anno dopo era il '68. Se permette, sono andato dove facevano casino. Ho fatto tutta la trafila: movimento studentesco; marxisti e leninisti; poi, Servire il popolo; Psi, Pci, Cgil».
È stato un buon operaio?
«Sono stato un bravo sindacalista. Bravo operaio lo sono diventato. I primi anni, pensavo che la priorità fosse la lotta di classe».
Oggi per chi vota?
«Turandomi il naso, ho votato Leu. Però di là c' era ancora Matteo Renzi».
Renzi non le piaceva?
«Io considero uguali tutti gli esseri umani. Credo ci sia scintilla divina anche nel filo d' erba e identità sostanziale fra me, il filo d' erba, Matteo Renzi e persino Matteo Salvini».
Che c' entra l' erba con Renzi e Salvini?
«Tutto il bene e il male che c' è in me sta pure dentro di loro. L' avversario non è un mostro alieno. La sinistra non capisce che la gente va da Salvini non per cattiveria o razzismo, ma perché al banco del mercato lui avrà pure frutta pompata, ma il Pd ce l' ha fradicia. Successe lo stesso col biennio rosso: i socialisti non avevano fatto né rivoluzione né riforme e la gente andò da Mussolini. Invece, la storia scritta dai vincitori dice che lo seguirono costretti con la violenza, ma finché ce la raccontiamo così, non capiremo nulla dagli errori del passato».
Le stanno simpatiche le Sardine?
«Sono andato in piazza, sardina fra le sardine, perché sto dalla parte degli ultimi. So che le Sardine, come prima i 5 Stelle, sono il segno di una crisi, ma ormai ho 70 anni... Debbo solo raccontare le mie storie».
Finito Canale Mussolini , disse che era il libro per cui era venuto al mondo e si chiese «e ora che campo a fare?». Che si è risposto?
«Campo perché quella storia non è finita. Sto scrivendo il capitolo tre, ma va per conto suo e vuole diventare altro, e manca il quarto, che però ha il titolo: Declainendfoll , tutto attaccato e italianizzato da Decline and fall of the Romain Empire di Edward Gibbon. Il progetto è scrivere cent' anni di storia. Però lavoro per senso del dovere. In realtà, mi sono stufato».
Perché mai?
«Scrivere non mi piace. È una condanna. È come se quando sono nato mi fosse stato dato il compito di raccontare la mia famiglia, il podere, la nostra storia. Lo capii nel '56, in prima elementare».
E tuttavia inizia a scrivere solo a 36 anni.
«Evitavo. Non volevo. Poi, è morto mio padre, forse fu quello».
Ha detto che Canale Mussolini gliel' hanno dettato i morti: «Le voci mi arrivavano da dentro e a volte mi facevano piangere».
«Ero come posseduto da percezioni extrasensoriali. I morti facevano avanti e indietro e mi dicevano cose. Morti di famiglia, morti mai conosciuti e Gianni che se n' era appena andato. Era squassante. Ma hanno smesso».
In Camerata Neandertal scrive che la liberò un esorcismo.
«Don Mario chiamò gli angeli e gl' intimò di tornare in cielo e lasciarmi stare. A me, ordinò di nascondere le foto dei miei morti. Prima di tutto di Gianni. Ora, non è che ci credo, non so come stanno le cose nell' aldilà... Insomma, non vorrei passare per scemo, ma è per dire che la mia opera è dare voce a chi non c' è più».
Dice che non ha idea dell' aldilà, ma da bambino era felice di stare in seminario.
«Volevo diventare santo, ma con la pubertà scoprii che mi piacevano le ragazze e lasciai. Oggi so solo che l' inferno è questo qua».
Fu per le voci che andò in analisi?
«No, fu per l' infarto dopo Palude . Mio fratello diceva che era psicosomatica, io dico che è il mio tributo alla scrittura. Ogni romanzo è un malanno: Mammut due ernie, Fasciocomunista secondo infarto e tre bypass, Canale Mussolini una vertebra rotta e barre di titanio nella schiena. Però, ci sono i libri di pancia o di testa. Con i saggi non mi succede niente».
Adesso come sta?
«Pensavo che Storia di Karel , essendo fantascienza, fosse un libro di testa. Ma sempre coloni erano e scavavano canali, conquistavano la terra... Insomma: sempre Latina è. Mi è venuta l' infiammazione del tunnel carpale, la mano duole e non posso più usare il bastone».
Quanto le manca suo fratello?
«Tanto. Era un testa di... Però era forte. Aveva un bel cervello. Forse, diventai comunista per sfidarlo sul suo campo. Era una sfida continua e lui era nato cocco di mamma».
Sua madre la picchiava come nei libri?
«Non mi ha mai capito. Era sempre "Gianni sì, Antonio invece...". A volte, ancora mi chiedo chi sarei stato se mamma mi avesse voluto bene. Lasciamo perdere, va'».
Mi racconti di sua moglie.
«La vidi a un picchetto davanti a una fabbrica occupata, 45 anni fa. Le ragazze non volevano far passare un camion della ditta. Allora, il camion ingrana la marcia e parte. Tutte scappano, eccetto Ivana, che gli si butta davanti. Pensai: questa è la donna della vita mia».
Quanto ci ha messo a conquistarla?
«Parecchio: le parevo matto. Ma abbiamo tirato su, io e lei da soli, in dieci anni, la nostra casa. Abbiamo due figli e due nipoti che sono la mia gioia. Mi è stata vicina quando stavo in cassa integrazione e mi sono laureato e quando ho scritto Mammut e siamo andati con la 127 a lasciarlo a mano agli editori, a Milano».
Ricevette 55 rifiuti.
«Mi sono serviti per riscriverlo e imparare».
Sua moglie le accende una luce in viso.
«Mi toglie ogni ansia. A stare insieme s' impara. All' inizio, c' è la passione, poi devi creare le aderenze all' altro, rinunciare a parti di te».
Lei a che ha rinunciato?
«Io mi affido per ogni scelta a mia moglie».
Che papà è stato?
«Non lo so. Sono un buon nonno però».
Come è fatto un buon nonno?
«Deve essere amato dai nipoti».
Le fa più paura invecchiare o morire?
«Mi fa paura solo il dolore del mondo».
· Bansky.
Caterina Soffici per ''la Stampa'' il 20 ottobre 2020. Riecco Banksy e questa volta non si nasconde, ma anzi rivendica su Instragram la sua ultima opera apparsa a Nottingham: una bambina che fa l'hula hoop con una ruota di bicicletta. Era apparso martedì scorso, sul muro di un salone di bellezza, accanto a una bicicletta rotta legata a un lampione. È lui o non è lui? La domanda ha tenuto banco per tre giorni. Nel frattempo, il Comune ci aveva fatto montare davanti uno schermo di protezione: viste le quotazioni milionarie raggiunte dall'artista mascherato, meglio non rischiare. E ieri mattina è arrivata la conferma dall'account di Banksy su Instagram, che ne ha rivendicato la paternità. A pensare male si può pensare che questa firma digitale sia legata alla recente causa persa contro una ditta di biglietti di auguri per il copyright su uno dei suoi graffiti più famosi, The Flower Thrower, un manifestate con il volto coperto da una mandana dipinto mentre lancia un mazzo di fior come se fosse una bomba molotov. Non avendo mai rivelato la sua identità, la sentenza ha stabilito che Banksy non poteva essere identificato come l'autore. Ma forse non c'è troppo da pensare male, e questo è semplicemente un altro messaggio in codice dell'artista originario di Bristol, che ha voluto portare un po' di gioia e ironia a Nottingham, una delle città più colpite dalla seconda ondata di Covid e dove gli studenti universitari sono chiusi nei loro dormitori, in quarantena. Infatti l'opera è su un muro proprio di Lenton, il quartiere degli studenti e la bambina - leggendo tra le righe - trova il modo di divertirsi nonostante tutto e con quel poco che ha, ovvero la ruota di una bicicletta distrutta. Per rimanere nella simbologia, Nottingham è anche la città di Robin Hood, il ribelle che si fa beffe dello sceriffo cattivo, simbolo dell'autorità e del potere, anche molto in stile Banksy. Se l'idea era di portare un po' di sorrisi nel clima pesante della pandemia, Banksy ha centrato l'obiettivo. Da giorni si sono formate code di gente per la foto ricordo e nella stradina è apparso addirittura il baracchino di un venditore di gelati, tal Silvestro Biondi, di chiara origine italiana, che ha deciso di rallegrare a sua volta l'allegra brigata di visitatori. Al cronista della Bbc ha dichiarato: «Io sono di Lenton. È bello avere un Banksy qui, rallegra le persone». Sempre la Bbc ha interpellato il maggior esperto britannico dell'artista, il professor Paul Gough della Arts University Bournemouth, che commenta: «È curioso. Le ultime quattro o cinque opere di Banksy sono tutte collegate al Covid o alle notizie di cronaca. Forse questo è il messaggio: siamo in tempi difficili, cerchiamo di sfruttarli al meglio e di tirare fuori un po' di divertimento da qualcosa che è rotto». Dall'inizio della pandemia, Banksy è stato molto presente nel dibattito pubblico, pro mask e accanto gli «eroi» del servizio sanitario, mandati a combattere in prima linea senza strumenti (questa le retorica nazionale). Ad aprile a Bristol sul volto del famoso murale della ragazza dall'orecchino di perla di Vermeer è apparsa una mascherina. A maggio il misterioso artista ha fatto recapitare all'ospedale di Southampton, dove molti medici e infermieri sono morti per Covid, una sua opera in bianco e nero con un bambino che butta in un cestino della carta straccia i suoi modellini di Spiderman e Batman e fa volare una infermiera con il pugno chiuso in posizione da Superman. E a luglio un uomo mascherato - si suppone lui - aveva riempito un vagone della metropolitana di Londra di topi che starnutiscono e altri con le mascherine. Li hanno cancellati, perché la regola è tolleranza zero per i graffiti sulle carrozze. Forse li avrebbero tenuti, se li avesse coperti da copyright.
Emanuela Minucci per “la Stampa” il 5 ottobre 2020. «Me li guardo sul tablet, sapendo che tenerli appesi sul letto sarebbe troppo rischioso. Loro sono in cassaforte, ma non li considero un investimento visto non ho nessuna intenzione di venderli. Mi emoziona il fatto che sono riuscito a mettere insieme sei opere straordinarie del più sfuggente e politico artista dei nostri tempi. Assente dal mondano, ma presente quando la storia chiama: Banksy». Luca Bravo è un giovane gallerista di Fiorenzuola, ha fatto la gavetta, tante fiere, prima piccole e italiane e oggi internazionali (lavora alla Deodato Arte di Milano). Un anno fa, avendo qualche soldo da parte e ha deciso di spenderli tutti «solo se mi fossi imbattuto nel tratto candido e rivoluzionario dell'artista senza volto». E ci è riuscito. Mettendo insieme opere come No Ball Games del 2009, uno dei topini della pandemia che brandisce il cartello Get out while you Can del 2020, e l'iconico Napalm (2004) con un pagliaccio e Topolino che tengono per mano la bimba fuggita durante i bombardamenti in Vietnam. Serigrafie autenticate da«Pest Control», l'unica agenzia al mondo autorizzata dall'artista a firmare le sue opere. Repliche di unicum che non sono in vendita, dal momento che nascono su muri o all'interno di vagoni ferroviari, oppure quando planano sulla carta si autodistruggono, come nel caso di Girl with balloon venduto da Sotheby' s a un milione e 200 mila euro un attimo prima che si tagliuzzasse da sé. Un bel patrimonio che Luca Bravo ha deciso di offrire, in mostra, ai musei. «Sarebbe un peccato non condividerli». Prima tappa, Helsinky, nel 2021.
Com' è riuscito a comporre una collezione così ricca? Fortuna, intuito, determinazione o cos' altro?
«Determinazione. Oggi non si acquista un Banksy per caso o per fortuna. È quasi impossibile trovare opere in vendita di questo autore, se non partecipando ad aste complicatissime e dal prezzo di aggiudicazione siderale e alquanto aleatorio. La mia, per Banksy, è passione allo stato puro».
Che cosa la colpisce del suo messaggio?
«Satira, provocazione, denuncia sociale. Ammiro la sua voglia di denuncia, il senso di provocazione, la scelta dei luoghi, il tempismo, l'abilità nel diventare invisibile. Tutto ciò mi ha portato a interessarmi al fenomeno Banksy fin dai suoi primi vagiti di genialità».
Lo segue da anni quindi?
«Sì, e appena mettevo qualche soldo da parte il mio sogno non era comprare un'auto o un alloggio, ma un pezzetto del suo sguardo sul mondo. In poco tempo, lavorando nel campo dell'arte, aiutato anche da un pizzico di fortuna, sono riuscito ad acquistare sei opere, ognuna con le sue difficoltà di trattativa e di pagamento. Sì perché per molti Banksy rappresenta guadagno facile. Per me è solo emozione. Ho sempre pensato all'arte come sinonimo di un'azione rivoluzionaria e dirompente. Così l'artista di Bristol è diventato una magnifica ossessione».
Quindi non ha comprato questi quadri per rivenderli.
«Se fosse stato per quello ricevo almeno dieci richieste al giorno, a un prezzo almeno doppio rispetto a quello d'acquisto. E non mi interessa. A inizio estate ero fermamente convinto di fermarmi a cinque opere, considerato il continuo e devastante innalzamento di quotazioni dell'artista. Ma quando il 14 luglio vidi la sua performance nella metropolitana di Londra, dove riempì di topini anti-Covid - che brandivano la mascherina - i vagoni dell'Underground, la mia ansia ricominciò. Feci un viaggio lampo in Inghilterra e, dopo notti passate sul web e decine di telefonate ai collezionisti e ai galleristi d'Oltremanica, conquistai il mia roditore banksiano. La sesta opera Get out while you can, con protagonista il topo rosa ecologista mi stava aspettando».
È vero che parecchi privati le hanno fatto offerte?
«Certo, ma non sono in vendita. Acquistarle è stata un'impresa. Se le vendessi proprio ora, tradirei me stesso. Banksy al momento è un assegno circolare, ma per me vale molto di più. E penso sia necessario condividere questo grande artista prestandolo ai tanti musei che vogliono dedicargli una mostra. Comincerò da Helsinky nell'estate del 2021».
Non le pare anche un artista che gioca con furbizia sul proprio mistero?
«Guardi è l'unico al mondo che ha una personalità più forte della politica stessa. Lui disegna e travolge. Il mese scorso, quando ha finanziato una barca per salvare i rifugiati nel Mediterraneo lo ha fatto con la sua famosa bambina con in mano un salvagente. Il mondo intero è rimasto a bocca aperta, e a settembre le sue quotazioni sono salite del 35% in un solo mese. Questo come lo vogliamo chiamare, se non genio. E un genio non ha prezzo, si tiene stretto».
La versione di Bansky, l’artista “no- global” più globale di sempre. Orlando Trinchi su Il Dubbio il 26 Settembre 2020. «L’arte contemporanea ha, a volte ingiustamente, la reputazione di essere difficile, mentre il mio lavoro non lo è affatto». Critico a un tempo corrosivo e ironico, Banksy riesce a coniugare un’irredenta vocazione alla protesta contro le più disparate storture prodotte dalla globalizzazione e dal consumismo imperante con un’indubbia abilità formale e un’iconica immediatezza. Le oltre cento opere che costituiscono l’essenza della mostra «Banksy A Virtual Protest», visitabile fino all’11 aprile 2021 presso il Chiostro del Bramante di Roma, rappresentano alcuni dei momenti più significativi della sua produzione, contrassegnata da un ampio utilizzo della tecnica dello stencil e da tematiche quali la disuguaglianza economica e sociale, l’ecologia, il rifiuto della guerra e la denuncia delle prevaricazioni del potere. Nato presumibilmente a Bristol all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, occupa un posto di preminenza all’interno della scena underground della capitale del Sud- ovest dell’Inghilterra, in quel fermento che ha convogliato artisti e musicisti – Banksy stesso ha partecipato a diversi progetti discografici concernenti la realizzazione di copertine di vinili e Cd – in direzione di un radicale antagonismo nei riguardi del sistema. Inserito nel 2019 da ArtReview al quattordicesimo posto nella classifica delle cento personalità più influenti al mondo, nessuno, ad esclusione degli amici e dei collaboratori più stretti, ne conosce la vera identità; anonimato che, scaturito da motivazioni di natura pragmatica – come la necessità di sfuggire alla polizia, dovuta alla realizzazione di graffiti illegali, o il bisogno di tutelarsi a fronte del contenuto satirico delle sue opere – si è ammantato nel tempo di ideologica convinzione: «Non ho il minimo interesse – dichiara – a rivelare la mia identità. Ci sono già abbastanza stronzi pieni di sé che cercano di schiaffarvi il loro brutto muso davanti». La sua opera riverbera la potenza iconica dell’immagine messa al servizio del rovesciamento stilistico. Così il giovane manifestante cinese fermo davanti ai carri armati in Piazza Tienanmen, immortalato in un celebre scatto di Jeff Widener, viene munito di un cartello con la scritta “Golf Sale” (Golf Sale, 2003); la piccola vietnamita Kim Phuc, resa dal fotografo Nick Út emblema delle atrocità della guerra, si accompagna per mano ai simboli del consumismo americano Mickey Mouse e Ronald McDonald (Napalm, 2004); in una contestata rivisitazione dell’iconografia sacra della crocifissione, l’immagine di Cristo appare sorretta non da chiodi ma da buste della spesa (Christ With Shopping Bags, 2004); il Jack Russel Terrier che ascolta da un grammofono la voce del padrone, rappresentativo della catena di dischi inglese HMV, qui sorregge con aria minacciosa un bazooka (HMV, 2004). Altra icona molto utilizzata, in chiave disturbante ed eversiva, per mettere in risalto il lato oscuro del potere è quella dello smiley giallo: la vediamo, ad esempio, al posto del volto dell’ufficiale di polizia britannico minuziosamente armato (Smiling Coop, 2003) come a sostituzione delle visiere protettive della trentina di poliziotti militari antisommossa allineati alle due ali di un carro armato (Have A Nice Day, 2003). La satira di Banksy si indirizza con persistenza e senza fare sconti contro l’obsolescenza e la superficialità di cui la società capitalista e consumista è portatrice (in) sana e ubiqua: «Finché il capitalismo resterà in piedi, non potremo far nulla per cambiare il mondo. Nel frattempo dovremmo tutti andare a fare dello shopping per consolarci». Non viene risparmiato neanche il mercato dell’arte. Nell’ottobre 2018, durante un’asta di Sotheby’s a Londra, una versione di una sua famosa serigrafia, Girl With Balloon – apparsa per la prima volta sui muri di Londra nel 2002 – appena battuta per più di un milione di sterline, venne distrutta da un trita documenti nascosto dietro l’opera. Morons (2005) invece, inclusa nella sua prima personale negli Stati Uniti del 2006, «Barely Legal», riprende uno dei momenti cardine della storia dell’arte, quando il 30 marzo 1987 il Vaso con quindici girasoli di Van Gogh venne venduto, in un’asta da Christie’s, al prezzo record di ventidue milioni e mezzo di sterline; nell’opera di Banksy, una folla di collezionisti è assiepata intorno a un banditore alle cui spalle campeggia una tela in una cornice dorata che presenta la scritta: “I can’t believe you morons actually buy this shit” (“non posso credere che voialtri imbecilli stiate davvero comprando questa merda”). Caratteristica manifesta dell’attività di Banksy è quella di essere profondamente incardinata all’epoca in cui vive e delle sue ingiustizie e iniquità ne diventa interprete attiva e vitale. Turf War (2003) riprende il gesto di un anarchico partecipante a un corteo anticapitalista avvenuto nel 2000 nel centro di Londra, che strappò una zolla d’erba e la collocò sulla testa della statua di bronzo di Winston Churchill in Parliament Square (“sorprendente atto di vandalismo creativo”). Nola (2008) è uno dei quindici dipinti dedicati all’inondazione provocata dall’uragano Katrina che si abbatté sulla città di New Orleans il 30 agosto del 2005 devastando la città del jazz e provocando oltre 3mila vittime. Una delle sue immagini più evocative, Love Is In The Air (Flower Thrower, 2003) venne riproposta in un grande murale su un edificio privato lungo la strada principale tra Gerusalemme e Betlemme, mentre nel 2017 a Betlemme, a cinque metri dal muro che divide Israele dai territori palestinesi, lo street artist aprì il suo famoso Hotel. In tempi più recenti, Banksy ha acquistato una nave – ribattezzata Louis Michel in onore di una femminista francese – e finanziato l’attività di soccorso dei migranti nel Mediterraneo «perché le autorità europee ignorano le richieste di aiuto dei non europei». Segno che, se è vero che «un muro è un’arma molto grande», è altrettanto innegabile che certi muri, talvolta, siano soltanto ostacoli da dover abbattere.
Cristina Marconi per ''Il Messaggero'' il 18 settembre 2020. Banksy ha perso il copyright sul suo lavoro più famoso e rischia di vedersi scivolare via dalle mani i diritti su tutte le sue opere: i giudici europei hanno stabilito che il celebre, poetico Lanciatore di fiori, apparso su un muro di Gerusalemme nel 2005, non può essere attribuito con certezza a un artista che si rifiuta di rivelare la sua identità. Non solo. Aprendo nel 2019 un negozio a Croydon, nella periferia di Londra, «probabilmente con l' intenzione meno poetica», per sua stessa ammissione, «con cui sia mai stata fatta un' esposizione di arte», ossia ottenere il riconoscimento del marchio Ue come chiesto nel 2014, ha agito in «cattiva fede», secondo i giudici. La sentenza dell' Ufficio europeo per la proprietà intellettuale, EUIPO, ha dato quindi ragione alla Full Colour Black, azienda che produce cartoline ispirate all' arte di strada e che da due anni contesta il diritto di Banksy di rivendicare un marchio commerciale sul suo nome e sulle sue immagini. Seguendo il consiglio del suo avvocato, Mark Stephen, l' artista di Bristol ha riempito il negozio del sud di Londra di prodotti «creati esplicitamente per rientrare in una certa categoria di marchi commerciali secondo la legge europea», e lo ha chiamato Gross Domestic Product, ossia prodotto interno lordo ma anche, volendo, prodotto nazionale rozzo. Il negozio è servito unicamente per esporre prodotti che poi si potevano comprare solo sul sito e la mossa non è piaciuta ai giudici europei. «Ammettono esplicitamente che l'uso fatto non era un utilizzo genuino di un marchio commerciale per creare o mantenere una quota del mercato vendendo dei beni, ma solo per aggirare la legge», hanno spiegato. Ma il punto centrale, e più saturo di conseguenze per Banksy, è il fatto che l' artista «abbia scelto di rimanere anonimo», rendendo di fatto impossibile «individuarlo al di là di ogni dubbio come il proprietario di quei lavori», e di «dipingere soprattutto graffiti sulle proprietà private di altri senza chiedere il permesso, invece di usare supporti di sua proprietà». Anche per questo «non può essere stabilito al di là di ogni dubbio che l' artista abbia il copyright sui graffiti». Quella dell' EUIPO, che ha sede a Alicante, in Spagna, la richiesta di avere un marchio registrato contrasta in maniera radicale il modo di procedere dell' artista, di cui il Flower Thrower, il lanciatore di fiori, è una delle opere più celebri di Banksy, anche per essere apparsa sulla copertina del suo libro, Wall and Piece. Lì l' artista, come sottolineato dai giudici, «argomentava positivamente sui benefici della disobbedienza alle leggi sui diritti d' autore e sui marchi commerciali», prometteva che avrebbe reso i suoi lavori accessibili gratuitamente «per divertimento e attivismo» e che non avrebbe mai commercializzato la sua opera. «Il copyright è da sfigati», diceva. Ma ora forse la vede diversamente, visto che la questione non riguarda solo l' Unione europea e di certo non riguarda solo Flower Thrower: tutte le opere dell' artista potrebbero essere sottoposte in teoria allo stesso ragionamento, anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito. L' identità di Banksy è uno dei segreti meglio custoditi del mondo e da anni girano ipotesi di cui è impossibile sapere se siano o meno fantasiose. Una di queste è che si tratti di Robert Del Naja dei Massive Attack, la band di Bristol, mentre l' ultima, circolata a inizio settembre su Twitter e smentita dal diretto interessato, è che sia Neil Buchanan, un altro musicista noto per aver presentato il programma Art Attack. Secondo il Mail on Sunday si tratta di Robin Gunningham, scuole private e famiglia ben poco radicale. Ultimamente Banksy è tornato alla ribalta delle cronache per aver finanziato una nave di salvataggio per i migranti e per aver fatto dei graffiti all' interno della metro di Londra sul coronavirus.
Andrea Concas per “il Messaggero” il 7 settembre 2020. Se fino a pochi anni fa la domanda da porsi era chi è Banksy, oggi quella più giusta è: ma chi non conosce Banksy? Nel quartiere poco raccomandabile di Barton Hill, a East Bristol, in Inghilterra, un ragazzino di 16 anni nel 1974 si muove di notte per iniziare a darsi da fare nel mondo della Street Art. Adrenalina al massimo, impara subito a sfuggire ai poliziotti riuscendo a mantenere, ancora oggi, l' assoluto anonimato dietro lo pseudonimo di Banksy. Che vuol dire? Per firmare i suoi graffiti, inizialmente utilizza la tag Robin Banx, probabile rielaborazione della frase inglese robbing banks, segno che poi ha abbandonato forse perché suonava come «rapinare banche». Ben presto però passa alla tag Banksy, che diventa in breve tempo la sua firma. Le sue tele sono i muri, i cavalcavia, i sotterranei, ma quello che conta per lui è la velocità di esecuzione, per questo a 18 anni, dopo aver trascorso un' intera notte nascosto sotto un camion, in attesa che la polizia ferroviaria andasse via, trovò la soluzione negli stencil. Le maschere in cartoncino con forme ritagliate, preparate in studio e nascoste sotto i giubbotti, si dimostreranno straordinariamente efficienti. Entra in contatto con gli artisti più noti di quel periodo come 3D, alias Robert Del Naja del gruppo musicale Massive Attack, e Inkie, alias Tom Bingle. Il suo stile è già allora inconfondibile e la sua fama cresce, tanto che nel 1998, a Bristol, organizza il trionfale festival Walls on Fire dove, per due giorni la città viene letteralmente invasa da writer per un evento memorabile. La sua vita artistica e la sua fama negli anni cresce in modo esponenziale, insieme alle sfide all' autorità e alle istituzioni come i musei dove organizza alcune incredibili incursioni. La prima nel 2003 alla Tate Britain di Londra, accuratamente travestito, beffa i vigilanti del museo e appende una sua opera a fianco dei capolavori esposti, facendo filmare il tutto da un suo complice. L' opera rimane esposta per ben tre ore al museo prima che qualcuno se ne accorga, mentre il filmato diventa virale: la sua prima incursione passa alla storia. Evidentemente mai pago, negli anni Banksy colpisce ancora: British Museum, poi Louvre di Parigi e negli Stati Uniti al MoMa - Museum of Modern Art -, al Metropolitan Museum of Art, al Brooklyn Museum e, infine, nell' American Museum of Natural History. L' attenzione del grande pubblico e dei media è ormai alle stelle, tutti vogliono conoscere l' identità di Banksy ipotizzando, inutilmente, quali saranno le sue nuove incursioni. Il mistero aumenta mentre lui continua ad agire, come nel 2005 in Cisgiordania dove, con il rischio reale di essere sparato, decide di realizzare, in soli 25 minuti, nove graffiti sul muro in cemento di separazione tra Israele e Palestina. L' arte di Banksy diventa una bandiera di protesta. Nel 2006 a Los Angeles, in occasione della sua mostra Barely Legal, decide di esporre un elefante vivo dipinto con vernice ad acqua, recuperando il detto inglese c' è un elefante nella stanza. La sua attenzione è rivolta al tema della povertà nel mondo che riguarda due miliardi di persone mentre un miliardo e 700 non hanno accesso all'acqua. Nel frattempo non mancano le guerre con altri artisti della street art, come quella con King Robbo, conclusasi nel 2010 con la tragica morte di Robbo che Banksy commemora con un suo graffito. Il mito di Banksy cresce sino ad ottenere una nomination agli Oscar con il docu-film Exit Through The Gift Shop; non vince, ma al botteghino incassa oltre 5 milioni di dollari. Negli anni le quotazioni delle sue opere crescono vertiginosamente, ma Banksy non ci sta, vede il mercato dell' arte come una mercificazione, con i suoi multipli, venduti a poche decine o centinaia di sterline fuori dalle sue mostre oppure online, rivenduti a prezzi centuplicati. Decide che la sua arte deve essere acquisita, da tutti, a prezzi accessibili tanto che lo scorso anno apre il suo store online The Gross Domestic Product, che in poche ore riceve prenotazioni per oltre 200.000 ordini. Il collezionismo di Banksy oggi resta un affare per pochi, gli originali partono da qualche decina di migliaia di sterline per le Limited Editions Prints, fino ad arrivare agli oltre 11 milioni di euro, come avvenuto, nel 2019, per la vendita del dipinto Devolved Parliament da Sotheby' s a Londra. La corsa all' oro Banksy è irrefrenabile, tanto che arrivano persino a rubare le sue opere realizzate per strada, anche per questo ha fondato la Pest Control, una società che tutela i suoi interessi e protegge dai falsi. E la guerra non è ancora finita. Le sue apparizioni nel mondo continuano, le ultimissime cavalcano l' attualità dei temi come il graffito della laguna di Venezia o la nave di salvataggio Louise Michel per gli immigrati nel Mediterraneo. Chi sia realmente Banksy nessuno ancora lo sa, ma resta più importante come la sua arte rappresenta la nostra società. Un' occasione importante per conoscere meglio lo street artist sarà la mostra, non ufficiale come sempre, Banksy - A visual protest al Chiostro del Bramante a Roma, dall' 8 settembre 2020 all' 11 aprile 2021. Prendete nota. Merita.
Da repubblica.it il 28 giugno 2020. Sei persone, sospettate di aver rubato nel 2019 al Bataclan - teatro della strage terroristica del 13 novembre 2015 a Parigi - un'opera attribuita all'artista Bansky, ritrovata di recente in Abruzzo, sono state arrestate oggi in Francia con l'accusa di averle rubate. I sei, da quanto si apprende da fonti giudiziarie e di polizia, sono in detenzione provvisoria. Gli accusati sono stati fermati questa settimana nell'Isère e nell'Alta Savoia, a sud-est della Francia, poco lontano dal confine con l'Italia. Le accuse nei loro confronti sono furto, associazione per delinquere e ricettazione. La dinamica del furto era stata studiata nei dettagli dai ladri: alcuni uomini incappucciati avrebbero usato delle smerigliatrici angolari per tagliare l'opera dalla porta di emergenza, che poi avrebbero portato via su un camion.
Paolo G.Brera per ''la Repubblica'' il 12 giugno 2020. Chissà quali intricate geometrie del crimine hanno portato la Donna in lutto di Banksy, strappata il 25 gennaio del 2019 da una porta di sicurezza del Bataclan, in un casale squinternato nelle campagne abruzzesi, abitato da una ignara coppia cinese. Il genio anonimo della Street Art l' aveva regalata al teatro parigino perché piangesse per sempre le 90 vittime di quella notte d' orrore, il 13 novembre 2015. Invece è finita chissà come nelle mani del gestore abruzzese di un albergo, un pittore dilettante, che l' aveva nascosta tra le vecchie carabattole nella soffitta di un casale di campagna «di cui aveva disponibilità » benché non fosse suo. A gennaio dello scorso anno, quando qualcuno la rubò staccandola dalla porta antincendio del Passage Saint Pierre Amelot, sul retro del Bataclan, i gestori allargarono le braccia attoniti: era «un simbolo di raccoglimento che apparteneva a tutti: residenti, parigini, cittadini del mondo ». Ora apparteneva a un paio di persone con i passamontagna: le telecamere li ripresero con le smerigliatrici per scardinare la porta, e col furgone con cui fuggire. Più nulla, poi. Ma l' indagine, in Francia, andava avanti in silenzio temendo che non fosse il valore economico - le quotazioni di un Banksy sono sempre alle stelle - il vero bottino dei ladri. Temevano il terrorismo islamista, niente sangue ma un nuovo colpo basso alla Francia e all' Occidente attraverso un simbolo del dolore e della costernazione. E invece no. Secondo la procura dell' Aquila, che ha raccolto la segnalazione all' Interpol della gendarmerie su una pista italiana, da questa parte delle Alpi c' è solo voglia losca di far quattrini. Il filo d' Arianna portava a un sospetto di Tortoreto. Quando i carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio artistico hanno deciso di agire, a casa sua non hanno trovato nulla. Messo alle strette, però, ha ammesso: «Ce l' ho io, è nel casale di Sant' Omero», tra le intricate colline teramane. Così si va su curva su curva, ed ecco il vecchio rudere fatiscente. Ci vive da anni una famiglia di cinesi che di quell' opera e del suo ipotetico valore nulla sapeva. Ma c' è una storia nella storia, che è un bel modo per restituire luce alla Donna in lutto , al suo e al nostro dolore per la notte di sangue che, in tutta Parigi, fece 130 morti: insieme ai carabinieri, a seguirne le tracce fino al vecchio casale c' era un gendarme parigino che cinque anni fa, mentre i kalashnikov sterminavano i giovani entrati al Bataclan per il concerto degli Eagles of Death Metal , si faceva strada tra i cadaveri per acciuffare i killer. Chi l' ha strappata da quella porta antincendio, le ha disegnato sopra una cornice con lo scotch appiccicandoci un lenzuolo con spruzzi di vernice, per simulare una porcheria d' arte astratta che non insospettisse un controllo. In Italia è arrivata così: un lembo rosso del lenzuolo è ancora ai suoi piedi, il resto i carabinieri l' hanno trovato in soffitta. Lei, la Donna in lutto , sta bene: manca la maniglia, ma «è nata per stare all' aperto, è abbastanza resistente ed era in condizioni perfette», dicono i carabinieri. Ora tornerà a Parigi, mentre le indagini inseguono chi la rapì dal Bataclan. L' albergatore senza precedenti è indagato per ricettazione, ma gli inquirenti non escludono ci siano mani esperte dietro una partita così difficile: vendere un' opera famosa e dolente non è semplice.
Un artista chiamato Bansky a Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Tra i più grandi artisti globali del nuovo millennio. Carlo Franza il 5 giugno 2020 su Il Giornale. Palazzo dei Diamanti a Ferrara presenta la mostra Un artista chiamato Banksy, visitabile fino al 27 settembre 2020, a cura di Stefano Antonelli, Gianluca Marziani e Acoris Andipa, ideata e prodotta da MetaMorfosi Associazione Culturale, in collaborazione con Ferrara Arte. Originario di Bristol, nato intorno al 1974, inquadrato nei confini generici della street art, Banksy rappresenta il più grande artista globale del nuovo millennio, esemplare caso di popolarità per un autore vivente dai tempi di Andy Warhol. A parlare, al posto dell’artista inglese che nessuno ha mai visto e di cui nessuno conosce il volto, sono le sue opere. Opere di inaudita potenza etica, evocativa e tematica. Banksy rappresenta la miglior evoluzione della Pop Art originaria, l’unico che ha connesso le radici del pop, la cultura hip hop, il graffitismo anni Ottanta e i nuovi approcci del tempo digitale. Quello che arriva a Palazzo dei Diamanti è un imponente evento che riunisce oltre 100 opere e oggetti originali dell’artista britannico, in un percorso espositivo che dà conto della sua intera produzione: vent’anni di attività che iniziano con i dipinti della primissima fase della sua carriera, fino agli esiti dello scorso anno con le opere provenienti da Dismaland, come la scultura Mickey Snake con Topolino inghiottito da un pitone. Ci sono poi gli stencil e, ovviamente, le serigrafie che Banksy considera vitali per diffondere i suoi messaggi. Un quadro raccontato esaurientemente in mostra da ricche schede testuali in grado di ricostruire storie, aneddoti, provenienze e relazioni, in un percorso di approfondimento ideato affinché il pubblico possa scoprire l’artista nelle sue molteplici angolazioni. Per Pietro Folena, presidente di MetaMorfosi, «produrre, aprire e visitare questa mostra dedicata all’approfondimento e alla conoscenza dell’opera dell’artista più controcorrente su scala globale, nei primi giorni della fase 2 è un atto di amore, di coraggio e di speranza nei confronti del valore dell’arte e della cultura, dopo mesi di dolore e di difficoltà». Tra il 2002 e il 2009 Banksy pubblica 46 edizioni stampate che vende tramite la sua casa editrice Pictures on Walls di Londra. Si tratta di serigrafie che riproducono alcune tra le sue più famose immagini, molte delle quali sono state usate nei suoi interventi all’aperto, che sono diventate “affreschi popolari”. Oltre trenta serigrafie originali che sono state selezionate dai curatori per la mostra ferrarese. Tra queste le ormai iconiche Girl with Balloon, serigrafia su carta del 2004-05 votata nel 2017 in un sondaggio promosso da Samsung, come l’opera più amata dai britannici, e Love is in the Air, una serigrafia su carta che riproduce su fondo rosso lo stencil apparso per la prima volta nel 2003 a Gerusalemme sul muro costruito per separare israeliani e palestinesi nell’area della West Bank, che raffigura un giovane che lancia un mazzo di fiori, messaggio potente a un passo dai lanciatori di pietre del palcoscenico più caldo del Mediterraneo. Presente, con tutti i suoi rimandi all’iconografia rinascimentale reinterpretata e rielaborata secondo la tecnica del “détournement” che ne mette in crisi il significato classico, la Virgin Mary, conosciuta anche come Toxic Mary, una serigrafia su carta del 2003 che secondo alcuni rappresenta una dura critica di Banksy al ruolo della religione nella storia. “Banksy mette in discussione concetti come l’unicità, l’originalità, l’autorialità e soprattutto la verità dell’opera” spiegano due dei curatori, “tratteggiando una nuova visione sulla relazione tra opera e mercato, istituendo, di fatto, un nuovo statuto dell’opera d’arte, una nuova verità dell’arte stessa, ovvero l’opera originale non commerciabile”. Banksy preferisce da sempre la diffusione orizzontale di immagini rispetto alla creazione di oggetti unici. Una lezione mutuata da Andy Warhol, con il suo approccio seriale e l’uso sistematico della serigrafia. Fondamentali nel percorso espositivo i dipinti realizzati con spray o acrilici su diversi tipi di supporto che raramente si possono incontrare nelle esposizioni dedicate all’artista inglese. Tra questi uno dei suoi primissimi lavori, Lab Rat, realizzato in spray e acrilici su compensato nel 2000, è una delle tante opere “riscoperte” di Banksy: originariamente pannello laterale di un palco allestito presso il festival di Glastonbury, venne dipinto sul posto; il pannello è rimasto poi per anni in un magazzino e alla sua riscoperta nel 2014 è stato autenticato dall’artista. In mostra anche il CCTV Britannia, spray su acciaio forato del 2009, che trasforma la lancia della figura femminile che personifica la nazione inglese in un supporto per una telecamera a circuito chiuso, messaggio non troppo nascosto contro il controllo esercitato sugli spazi pubblici, luoghi prediletti da Banksy per il suo agire. «Banksy supera la stessa arte che finora abbiamo conosciuto. Ne riformula regole, usi e costumi, ricreando una filiera che elimina gli imbuti produttivi del modello tradizionale» spiega Gianluca Marziani «Banksy usa strumenti e materiali che tutti conosciamo, senza perdere aderenza con oggetti fisici e tangibili, con forme semplici e quasi banali, con un mondo lo-fi privo di utopie fantasy. Lo capiscono tutti in quanto usa la grammatica degli oggetti e la sintassi delle storie condivise. Si alimenta di cronaca e realtà, ribaltando storie che toccano l’umanità intera». Quello di Banksy è un immaginario semplice ma non elementare, con messaggi che esaminano i temi del capitalismo, della guerra, del controllo sociale e della libertà in senso esteso e dentro i paradossi del nostro tempo. Per la prima volta una mostra esamina le immagini di Banksy all’interno di un quadro semantico che ne veicoli origini, riferimenti, relazioni tra gli elementi e piani di pertinenza. Completano la mostra diversi poster da collezione, le banconote Banksy of England, alcune t-shirt rarissime e i progetti di copertine di vinili. “Rifiutando di essere rappresentato da una galleria, Banksy continua a infrangere le regole, e in questo modo smaschera il mercato stesso dell’arte” afferma Acoris Andipa. “È un peccato che non importi cosa produca l’artista, quanto siano impegnate le opere o il lavoro pubblico che affronta i temi delle inadeguatezze sociali: ciò che interessa la maggioranza delle persone è il suo valore economico”. Carlo Franza
· Betony Vernon.
Irene Cao per VanityFair.it il 13 novembre 2020. C’è qualcosa di magnetico e ancestrale nella voce di Betony Vernon, c’è una dolcezza sensuale, che affiora da lontano e riflette un’attitudine innata: quel «non fermarsi sulla superficie delle cose, ma scendere in profondità per cercarne l’essenza più vera». E poi c’è un magma variopinto di timbri vocali, tutti diversi, come le tante identità che le appartengono. 52 anni, nata e cresciuta in America, Vernon vive a Parigi, crea in Italia e viaggia parecchio. Come designer ha collaborato con alcune delle più celebri case di moda, le sue creazioni sono state esposte nei più prestigiosi musei del mondo, fino a diventare oggetti di culto per diverse star: porta la sua firma il collare che Lady Gaga indossava nel video di Paparazzi. Nel 2013 esce il suo primo libro, The Boudoir Bible: The Uninhibited Sex Guide for Today (Rizzoli International), una guida illustrata al panorama sessuale contemporaneo, libro non ancora pubblicato in Italia perchè, a detta dell’autrice, dispiaciuta, «e stato considerato troppo “alto” per l’italiano medio». Nel 2022 la sua collezione di Jewel-Tools, «non chiamateli sex toys, per favore!», compirà trent’anni.
«Gioielli erotici» concepiti per regalare piacere alla vista e al corpo. Da dove e nata l’idea?
«Era il 1992, ero giovanissima. Allora, più di ora, c’erano tanti tabù intorno al sesso. Mi sembrava che tutto quello che avesse a che fare con il piacere fosse stato rinchiuso in una specie di scatola nera, confinato in un territorio pieno di ombre oscure. Volevo ridargli luce, mettendo il mio talento di designer al servizio di qualcosa che potesse aiutare le persone a ritrovare il senso autentico della sessualità. Cosi, un po’ per sfida un po’ per gioco, inizio a disegnare la mia prima collezione, ma allora non avevo idea di ciò a cui sarei andata incontro».
Perchè, come sono state accolte le sue creazioni?
«All’inizio malissimo! In America, quando mostro i miei primi lavori a Barneys, tutti restano scandalizzati: “Non possiamo esporre nel nostro negozio cose del genere!”. Allora vado avanti un po’ a disegnare per me stessa e qualche cliente privato, ma nel 2001, dopo l’11 settembre – evento che cambia radicalmente il mio modo di pensare–, decido di fare sul serio. In un mondo basato su un sistema malato, a cui non manca niente tranne l’amore, scelgo di lavorare su quella che amo definire “intelligenza amorosa”. Nasce cosi la Boudoir Box».
Che cos’e?
«Una scatola in pelle contenente le mie creazioni, con cui comincio a viaggiare in giro per il mondo, inizialmente per presentarla a buyers e collezionisti, poi anche per fare veri e propri corsi di educazione sessuale. La scatola e rimasta nascosta fino al 2017, quando per la prima volta e stata svelata al pubblico, in una mostra al Museo d’Arte Moderna di Parigi. Fino ad allora, oltre ai miei clienti e studenti, gli unici a conoscerne il contenuto erano i poliziotti che mi controllavano al check-in negli aeroporti, specialmente nella tratta Parigi-Londra».
E stato più imbarazzante o divertente?
«Entrambe le cose. Mi fermavano e, ovviamente, mi ordinavano di aprire il bauletto. “Certo, lo apro, ma non qui, in privato”, rispondevo. Poco dopo mi ritrovavo in una stanza, al cospetto di una decina di agenti che volevano spiegazioni su quegli oggetti misteriosi. “Che cos’e questo?”. “Un dilatatore gioiello”. “E questa?”. “Una collana che diventa anche una frusta”. A ogni mia risposta diventavano paonazzi e, puntualmente, mi chiedevano: “Ma fanno male?”. “Dipende da come li usi”».
Può essere molto labile il confine tra piacere e dolore, non trova?
«E soggettivo. Si può sconfinare nel dolore quando non si conosce abbastanza a fondo il proprio corpo, o, ancor piu rischioso, il proprio partner. La fiducia e alla base di tutto: se c’è, si può costruire qualcosa di grande, se manca, non si va da nessuna parte. Ma la fiducia non e gratuita, va costruita, giorno dopo giorno. Riuscire ad avere un’intimità profonda e appagante con il proprio partner significa sapersi abbandonare all’altro e avere voglia di avventurarsi insieme in un viaggio a due che trascenda ogni clichè precostituito, ma dove ognuno abbia rispetto per l’altro, in un contesto di totale sacralità. Perchè per me l’amore e sacro».
Sacro in che senso?
«Sono una persona molto spirituale. Penso che il piacere sia direttamente connesso al divino: raggiungere con consapevolezza la dimensione del piacere può metterci in contatto con Dio. Il sesso non puo ridursi all’atto meccanico della penetrazione. Chi pensa di poter limitare il sesso alla sola sfera fisica danneggia inevitabilmente il corpo, che e un tutt’uno con mente e spirito. Io non riesco a concepire il sesso senza amore, forse perchè alla base ho l’amore per me stessa. Se coltivassimo maggiormente l’amore e il rispetto verso noi stessi ci sarebbe molto più piacere, sano e condiviso. Ma mi rendo conto che non e semplice come sembra, perchè per duemila anni ci hanno insegnato che il sesso era sporco e che la donna fosse un essere inferiore. E, per quanto siano stati fatti enormi passi in avanti, in parte dipendiamo ancora da questo retaggio arcaico. Basta guardare al porno di bassa qualità, dove e protagonista una visione fallocentrica e performativa del sesso, che, al posto di concentrarsi sul piacere condiviso, finisce per portare a un appiattimento dell’individuo, un rischio, questo, a cui ci espone anche l’utilizzo inconsapevole delle app di dating online».
La pandemia che stiamo vivendo a livello globale ci ha costretto a rivedere molti aspetti della nostra vita. Qual e lo scenario del sesso al tempo del Covid-19?
«Il sesso e il grande assente di questo delicato momento storico, ma l’aspetto più inquietante che sta contagiando l’intera società e la paura del contatto fisico. Non ci possiamo avvicinare, ne toccare: a lungo andare, tutto ciò avrà conseguenze gravissime sulla salute mentale delle persone. Se tu non lo tocchi, un neonato muore. Sento che qualcosa in noi sta morendo. Lo sto sperimentando in prima persona. A Parigi avevo iniziato a frequentare un uomo alla vigilia della pandemia, ma a un certo punto abbiamo smesso di vederci. La nostra relazione e in “pausa-Covid” e non so cosa accadrà».
Ha paura?
«E normale averne, tutto il pianeta in questo momento e sotto l’influenza di un’onda collettiva di angoscia e paura. Ma non dobbiamo esserne travolti, perchè solo lasciando andare la paura attraverso l’amore possiamo sperimentare livelli più profondi di piacere».
· Boris Pasternak.
La Guerra fredda per l'anima di Boris. Così il regime sovietico provò a impadronirsi della memoria del poeta (che aveva perseguitato). Alessandro Gnocchi, Domenica 14/06/2020 su Il Giornale. La pubblicazione del Dottor Zivago, il capolavoro di Boris Pasternak, non è stato solo un caso editoriale di portata mondiale ma anche una importante battaglia della Guerra fredda. Neppure la morte dello scrittore (1960) metterà fine allo scontro combattuto sulla pelle di due innocenti, Olga Ivinskaja, la donna amata dal poeta, e sua figlia Irina. Unica «colpa» di Olga: essere l'esecutrice testamentaria di Boris detto il Classico, nomignolo scherzoso affibbiatogli dalla spumeggiante Irina. Pasternak e Ivinskaja. Il viaggio segreto di Zivago (Feltrinelli, pagg. 608, euro 35) di Paolo Mancosu, professore di filosofia a Berkeley, ricostruisce le intricatissime vicende che portarono alla pubblicazione, in anteprima mondiale, del Dottor Zivago presso una giovane casa editrice di Milano, la Feltrinelli. La storia però non finisce lì. Prosegue fino alla reclusione nei Gulag di Olga e Irina. Proprio questa parte è la novità assoluta del nuovo volume. Le oltre seicento pagine di Pasternak e Ivinskaja riuniscono gli studi di Mancosu e quindi includono integralmente anche il libro precedente (Zivago nella tempesta. Le avventure editoriali del capolavoro di Pasternak, Feltrinelli 2015). Per sommi capi, riassumiamo il caso editoriale. Su segnalazione del giornalista Sergio d'Angelo, Giangiacomo Feltrinelli acquisisce il manoscritto del Dottor Zivago. Pasternak è convinto che il suo romanzo, ideologicamente alieno al regime sovietico, non potrà mai vedere la luce in Russia. Gli ostacoli alla pubblicazione sono infiniti. Pasternak si trova isolato in patria. Feltrinelli deve respingere anche i tentativi di censura del Partito comunista italiano che, fedele a Mosca, vorrebbe mandare a monte l'operazione. Nel novembre 1957, il Dottor Zivago è nelle librerie col marchio Feltrinelli. Il regime si fa sempre più minaccioso nei confronti del Classico di nomignolo e di fatto: nel 1958, gli viene assegnato il Premio Nobel per la letteratura. In Urss parte una campagna per screditare lo scrittore, costretto a rinunciare al riconoscimento. Mancosu butta sul piatto una mole sterminata di documenti, molti inediti, che permette di entrare in tutte le pieghe della vicenda dalla quale, tra l'altro, esce annichilita la reputazione del Pci. Anche la forza dei nuovi capitoli di Mancosu risiede nella capacità di conciliare un attento censimento di tutte le carte disponibili (con altri inediti) e la buona scrittura, che permette al lettore, anche inesperto, di districarsi tra spie, spie presunte, lire, rubli, Kgb, Cia, opere letterarie, manoscritti, editori, amici, amici degli amici, falsi amici e Storia. Così si scrive la vera saggistica. Diamo un'occhiata alle date in parallelo. Mentre il romanzo esce in Italia, Krusciov, diventato segretario del Pcus nel 1953, dà il via alla destalinizzazione nel 1956. Nello stesso anno, però, c'è la rivolta di Budapest, soffocata nel sangue dall'Armata Rossa. Nel 1961, viene costruito il Muro di Berlino. Nel 1962, si sfiora la guerra atomica in seguito alla crisi cubana dei missili. Nel frattempo, il romanzo è diventato un caso mondiale. I sovietici hanno cercato di prendere il Classico per fame, sottraendogli ogni fonte di guadagno. Pur essendo consapevole del rischio, Pasternak, per sopravvivere, si fa recapitare piccole somme prelevate dai diritti d'autore maturati all'estero. Nel 1960, lo scrittore muore e lascia tutto a Olga, l'amore della sua vita, la Lara di Zivago. Si conoscono nel 1946 quando Olga si occupava di nuovi autori per la rivista Novyj Mir. Nel 1949 viene arrestata. Il motivo è ignoto. Gli interrogatori però ruotano intorno alle inclinazioni antisovietiche di Pasternak. Lei non lo tradisce e si fa quattro anni di Gulag. Esce nel 1953 alla morte di Stalin. Olga resta nel mirino del Kgb anche dopo il funerale del poeta. Lei ha tutte le carte di Boris, incluso il dramma inedito La bellezza cieca. Inoltre dispone di un testamento-delega in cui Pasternak le affida la eredità-responsabilità di ogni aspetto letterario e finanziario. Parte di queste carte, specie il testamento, spariscono in circostanze piuttosto misteriose mentre prendono la strada per l'Italia passando per il Caucaso. Nel 1960, a Irina viene consegnata una grande somma, centomila rubli, proveniente dall'Italia. L'imprudenza è l'occasione attesa a lungo dalla polizia sovietica. Olga e Irina vengono imprigionate, processate e condannate rispettivamente a 8 e 4 anni per «traffici illegali», cioè contrabbando di valuta, come imputazione principale. Mancosu ricostruisce la diplomazia sotterranea per salvare le due donne, permettendo ai russi di salvare la faccia, prerequisito fondamentale per il successo dell'operazione. Si spendono nomi importanti, da Graham Greene a Bertrand Russell, passando per François Mauriac. Nel 1962, viene liberata Irina, che nel 1984 si trasferisce a Parigi, dove vive tuttora. Nel 1964 tocca a Olga, che muore a Mosca nel 1995. Qual è il senso di questa storia o meglio della crudeltà sovietica? Tutto lascia pensare che il Partito volesse appropriarsi della memoria di Pasternak, dopo avergli reso la vita impossibile. Nei sogni dell'apparato, le carte in mano a Olga avrebbero permesso di ridisegnare il ritratto dello scrittore a piacimento del regime. Il Dottor Zivago sarebbe finito tra parentesi, un incidente, un caso montato dagli occidentali, un'opera quasi estranea al canone del Classico. Il vero obiettivo era mettere le mani su Boris Pasternak. Impossibile, compagni. La verità dell'arte è più forte di tutto.
· Bruno Bozzetto.
Cl.Osm. per “Libero quotidiano” il 26 ottobre 2020. Il signor Rossi, la felicità, l' ha trovata mettendosi in casa una pecora. Sì, perché Bruno Bozzetto (regista e disegnatore milanese 83enne, tra i suoi lavori più riusciti c' è proprio "Il signor Rossi cerca la felicità") da sei anni vive con Beeelen, un esemplare ovino domestico di circa un quintale che è cresciuta nel suo salotto neanche fosse un chihuahua. Tra l' altro, basta un suo scatto per mandare in tilt i social network: ogni foto che la ritrae scatena orde di "mi piace" e cuoricini e condivisioni da far impallidire un influencer medio. Lunghe orecchie cadenti e lo sguardo pacifico, Beeelen ha pure ispirato alcuni disegni dell' animatore lombardo che ammette: sì, la pecora è un animale intelligente e no, non vive esattamente in casa con lui perché è diventata troppo grande, ma «ogni volta che può sgattaiola dentro e noi la lasciamo fare». Sorride, Bozzetto. Per Beeelen ha costruito un recinto che tiene sempre aperto in giardino e i suoi nipotini le hanno persino regalato i loro giocattoli in disuso. Ché non bisogna annoiarsi mai, nella vita: e questo vale anche per i nostri amici a quattro zampe. Pecore incluse. Bozzetto e Beeelen abitano a due passi dalla collina Maresana, in provincia di Bergamo: aria buona e prati sterminati, sui quali lei bruca (quasi) tutto quel che trova. Se un' erba non è di suo gradimento, passa a quella successiva: e chi l' ha detto che le pecore non hanno gusti raffinati? È la natura che mette di buonumore un po' tutti: uomini e animali. «Non è stata una scelta, il nostro incontro è capitato per caso», racconta Bozzetto: una mattina del 2014 l' artista sente per la prima un belato provenire da un terreno affianco al suo. Viene da un agnellino, dimenticato o smarrito dopo che altre pecore se ne sono andate all' alba. Ha ancora il cordone ombelicale e piange come un disperato. Che sia stato amore a prima vista o meno, non si sa: ma da allora Beeelen è cresciuta e non ha più lasciato la sua famiglia d' adozione. Anche adesso che, lievitata di stazza, ha incrementato le attenzioni e le cure che gli devono essere assegnate. «La facciamo tosare due volte all' anno. Per questa operazione viene uno specialista della Bergamasca, ci vogliono fino a quattro persone per tenerla ferma. Ma è necessario. Dopo, per qualche giorno, si nasconde. Come se avesse vergogna», spiega Bozzetto. Beeelen è un animale giocherellone. «Secondo si è messa in testa di essere un cane», aggiunge il suo padrone, divertito. «Dopotutto è stata cresciuta così, in casa. C' è un gatto che le piace rincorrere, fa delle belle corse e se qualcuno le dà da mangiare lei allunga la zampa, proprio come fanno i cagnolini». Beeelen convive con altri animali ed è un esemplare molto affettuoso. E alla fine la vedi lì, aggrappata con una zampetta a Bozzetto, con il muso allungato in cerca di coccole, nello studio del disegnatore con un' Olivetti sulla scrivania e un tablet poco distante, e capisci che più pacifico di lei non c' è proprio nessuno. Beeelen è curiosissima e ha una virtù rara, al giorno d' oggi: la spontaneità. Insomma, che la Ovis aries (la razza di Beeelen) non sia esattamente tra le specie tradizionalmente catalogate sotto la dicitura «animali d' affezione», è solo un dettaglio. Chi l' ha detto che ci possiamo mettere in casa solo cani e gatti? I Bozzetto ne sono convinti, anche perché sono abituati ad avere esemplari particolari in giro per casa: in passato hanno posseduto furetti e oche.
· Charles Bukowski.
Cento anni fa nasceva Charles Bukowski: una vita tra scotch, puttane e bassifondi. Fulvio Abbate su Il Riformista il 18 Agosto 2020. Charles Bukowski è venuto al mondo della scrittura, del racconto, per dimostrare che non tutti i letterati sono burocrati metodici, ambiziosi complessati destinati alla pagina da riempire, metti, con scene familiari edificanti; esattamente, non tutti gli scrittori sono piccini e perbenisti. Forse, basterebbero queste parole per ricordarne il transito sulla terra della poesia a cent’anni dalla nascita, 16 agosto 1920. Bukowski in verità è stato assai di più di un conclamato mito irregolare dell’esistenza letteraria l’uomo ha infatti colmato l’immaginario magazzino poetico Made in Usa, e non soltanto questo, con inenarrabili cataste di lattine di birra, vuoti a perdere, o già perduti, e ancora d’altre sublimi innominabili bassezze alcoliche, e nel far questo ha mostrato una capacità di struggimento lirico indicibile, lo stesso che andava di pari passo con la sua attenzione al corpo femminile, all’eros, al sesso, al racconto delle forme del piacere come risorsa dionisiaca, «Se succede qualcosa di brutto/si beve per dimenticare;/se succede qualcosa di bello/si beve per festeggiare; /e se non succede niente/si beve per far succedere qualcosa» – proprio lui, Bukowski, il viso come cratere bombardato dall’acne, Henry, Charles, anzi, “Hank”, il Butterato, il Poeta, l’angelo custode di se stesso, l’innocente che monta di guardia al frigorifero, con questo elevato a tabernacolo, altare, astuccio, nel suo bianco smaltato pronto a custodire l’ostia suprema dell’alcol. Anche per queste ragioni assai discutibili agli occhi della morale letteraria borghese, ordinaria, nel solco di Rimbaud, della visionarietà sessuale dei Tropici di Henry Miller o dell’apoteosi di un culo di danzatrice da raggiungere come avviene in Louis-Ferdinand Céline, e ancora di Hemingway e, certamente, di Antonin Artaud, per lunghi anni, i suoi libri hanno tenuto compagnia a ragazzi e ragazze, alla generazione di insorti contro le bugie del moralismo, certi che l’incanto passi anche dalla rottura del limite, poiché, afferma Willian Blake, «La via dell’eccesso conduce all’edificio della saggezza». Perfino letteraria. Bukowski come prolungamento estenuato della narrazione beat, ma forse anche molto di più, assodato il profilo umano, il volto, l’icona, la “veronica” della persona, del personaggio, dell’uomo, dello scrittore, dell’irriducibile al galateo di un improbabile per lui Premio Nobel.
Nella memoria fotografica svetta, in questo senso, ancora adesso, su tutte, la copertina di “Compagno di sbronze” (“Erections, Ejaculations, Exhibitions and General Tales of Ordinary Madness”, nell’edizione originale), dove B., pancia a stento trattenuta da un t-shirt scura, impugnando una birra, appare al fianco dell’amica Georgia Hubbard, volti dimessi, sublimemente sfatti, l’impresentabilità delle calze giù fin sulle zeppe di lei, il sorriso-rutto trattenuto di lui, un’immagine-manifesto generazionale, forse uno scatto che sta al piacere dell’abbandono così come il poster di Geronimo fucile al fianco sta alla ribellione. Hank come uno zio, se non un padre, ideale, perfetto nella sua oscenità, per immaginare un’altra possibile esistenza. Il frigo di Bukowski è nel medesimo tempo reliquia industriale e Porta dell’Eden, cenotafio del piacere e apoteosi del quotidiano contro ogni metafisica letteraria. Nelle tasche dei ragazzi sul finire degli anni Settanta, il suo volume dove, fra molto altro, si legge perfino che “Herb apriva un buco nel cocomero e si fotteva il cocomero e poi obbligava Talbot, Talbot il tappo a mangiarselo”, brillerà come oggetto d’affezione, forse perfino libretto di istruzioni e manutenzione dei confini dell’amore, del piacere, della fuga, dell’effrazione, perché Bukowski, agli occhi dei giovani che ne hanno subito scoperto la scrittura, era davvero un amico cui accompagnarsi, per nulla assimilabile ai colleghi titolati, ammesso che ne abbia mai avuti. C’è una scena nel film che Marco Ferreri gli ha dedicato, Storie di ordinaria follia (1981), non un capolavoro, in cui Charles Bukowski-Ben Gazzara si ritrova finalmente “ingaggiato” da una grande casa editrice, lì, alla scrivania, come travet, forzato della scrittura, un attimo appena ed eccolo a lanciare i fogli di carta appallottolati, incipit mancati, abortiti, oltre il cestino della cella-open space che lo accoglieva, ne fuggirà. Amava le corse dei cavalli, scommettere, vincere perdere rivincere riperdere, controllare i vincenti e i piazzati, amava il suo maggiolone Volkswagen al pari del sacro santissimo frigo, giù dallo specchietto retrovisore custodiva la croce di ferro ricevuta dal nonno in guerra. Henry Charles “Hank” Bukowski Jr., al secolo Heinrich Karl Bukowski era infatti venuto al mondo in Germania (ma va ricordato anche come Henry Chinaski, suo alter ego letterario) ad Andernach, il 16 agosto 1920. La fine avrà invece Los Angeles, il 9 marzo 1994, come luogo, naturalizzato statunitense. L’America aveva già accolto la sua famiglia sul finire dell’800. Wolinski, come lui a cuore il sesso, in occasione di un suo soggiorno parigino nei primi anni Ottanta, lo ha raccontato in una vignetta dove B. vomita letteralmente addosso all’intervistatrice, e quest’ultima si mostra tra stupefatta ed entusiasta, in quel vomito c’è, metaforicamente, lo scrittore, il suo dono. In verità, il riferimento è al suo exploit televisivo ad “Apostrophes”, storico talk di Bernard Pivot dedicato ai libri. Nel video imperdibile (lo trovate in rete, e ne suggeriamo la visione) Bukowski, ubriaco, non regge i doveri della diretta, il conduttore comprende la necessità di lasciarlo andare, allontanarlo, i volti turbati dei civilissimi colleghi presenti, lo squadrano come fosse un insetto, l’uomo si alza, malfermo sulle gambe, si appoggia sulla testa del vicino di poltrona, ed è ora il momento di comprenderne l’assoluta grandezza, la sua immensa alterità: lo si vede barcollante allontanarsi di spalle, oltre il perimetro dello studio, per un attimo la camera si sofferma su di lui sebbene l’uomo sia già fuori dal campo della rappresentazione televisiva, non certo letteraria, Bukowski se ne va, portando con sé il banale e il conformismo, non resta che ravvisare in lui l’inurbano, l’osceno, l’alcolista, il passo malfermo dell’ubriachezza, forse anche molesta, l’irriducibilità alla piccinerie e ai doveri letterari. Ebbe anche modo di misurarsi con il mondo del lavoro, impiegato postale, postino: «C’è un uccello azzurro nel mio cuore che vuole uscire», scriveva. Forse, meglio d’ogni altro, è stato Robert Crumb, gigante dell’illustrazione, a restituircelo, assorto, nella sua casa di San Pedro, California, sul bordo della piscina, il gatto a far caso ai suoi pensieri, le donne – Tina, Ann, Barbara, Joan, Pamela, Amber, Linda, Georgia, Frances, la figlia Marina Louise – ora chissà dove. Sulla tomba è “Henry Charles Bukowski – Hank – Don’t Try – 1920-1994”, accompagnato dalla piccola sagoma di un pugile. Chi ancora adesso va a trovarlo al Green Hills Memorial Park di Rancho Palos Verdes, lascia sul prato una bottiglia, non prima di averla bevuta alla salute immortale di Hank. Tra lui e la vita è stato un incontro pari.
Emanuele Trevi per corriere.it il 16 agosto 2020. Il centenario di Charles Bukowski, nato il 16 agosto 1920, è destinato a suscitare molte memorie e nostalgie soprattutto, c’è da credere, tra chi lo leggeva da ragazzino, nei facinorosi e visionari anni Settanta. Soprattutto in Europa, perché il culto nacque in Germania, in Francia e qui da noi, dove Feltrinelli pubblicò, tra 1975 e 1980, i tre libri fondamentali: Storie di ordinaria follia, Compagno di sbronze e Taccuino di un vecchio porco. Questa precoce fortuna europea è stata il destino di tanti grandi artisti americani del secondo Novecento, molto meno conosciuti in patria, almeno all’inizio, che nel vecchio continente: basti pensare al caso proverbiale di Woody Allen e a quello di Philip Dick. È pur vero che Bukowski, figlio di un militare americano e di una madre tedesca, era nato in Germania, ad Andernach, dove la casa, ancora in piedi, è meta di pellegrinaggi. Ma presto la famiglia si trasferì a Baltimora, e Bukowski vide la città natale solo nel 1978, ormai all’apice della sua fama, durante una trionfale tournée. Più che sui romanzi, il culto si fondava sui racconti, e soprattutto sul legame poeticamente vitale tra la forma breve e la narrazione in prima persona. Avevamo l’impressione di ascoltare un amico, molto saggio e molto inguaiato, in proporzioni variabili. Il sesso e l’alcol facevano la loro parte, come accadeva per molte star del rock, ma sono elementi esteriori di una grandezza che, per durare nel tempo come ha fatto, doveva appartenere all’artista, e non al «personaggio». Rileggendoli oggi, quei racconti spassosi rivelano virtù propriamente letterarie di grandissima raffinatezza: il senso del dettaglio significativo, la saggia economia dei mezzi, l’epigramma memorabile (si possono costruire interi libri fatti soltanto di citazioni di Bukowski). Ma, su tutto, prevale un senso dell’umano di straordinaria intensità e credibilità psicologica: quello del «vecchio porco» è un disincanto privo di cinismo, un realismo ironico scaturito da una capacità illimitata di empatia e compassione. Ne viene fuori un’immagine del mondo che è diversissima da quella prevalente nella cultura beat, che Bukowski deride in continuazione per la tendenza dei suoi rappresentanti a erigersi a maestri di saggezza e a esagerare il significato dell’esperienza. «Io vado a birra», afferma con orgoglio Bukowski mentre nella sua California tutti attingono le verità supreme con l’Lsd. Meglio sbronzo che illuminato, e aveva ragione lui, perché l’uomo è un animale comico, un coagulo di desideri e secrezioni, e l’artista non è un sacerdote, ma colui che scandalizza i sacerdoti. Quello che colpiva i primi lettori di Bukowski, figli di un secolo di filosofie e appartenenze vincolanti, era la libertà di non assomigliare a nessuno: nemmeno all’amato Hemingway. Questo non significa, oggi che conosciamo molto di più dell’uomo e dell’opera, che non si possano accennare delle possibili genealogie. Una è interessante, ed è una storia di furti. Bukowski adorava John Fante, tanto da vegliarlo al capezzale quando era in ospedale, malato di diabete, e ormai cieco dettava alla moglie l’ultimo libro, Sogni di Bunker Hill. Ha anche scritto delle splendide poesie sul maestro morente. Ebbene, aveva scoperto Fante rubando da una biblioteca pubblica una copia di Chiedi alla polvere: una di quelle letture fatali che rivelano un giovane a sé stesso. Ma Fante, più vecchio di una decina di anni, racconta un episodio simile. Anche lui, quando era ancora alla ricerca di un suo stile, aveva saccheggiato una biblioteca pubblica, portandosi via una copia di Fame di Knut Hamsun, che gli aveva cambiato la vita. Mettiamo in fila il capolavoro del vagabondo norvegese, che venne pubblicato nel 1890, Chiedi alla polvere, che è del 1939, e il Taccuino di un vecchio porco (1969). Sono libri sapientissimi, ma che sembrano essersi scritti da soli, con la penna intinta direttamente nel calamaio della vita. Non avendo nulla da insegnare a nessuno, sono purissime espressioni dell’arte più difficile da apprendere, che è quella di stare al mondo, di capire chi abbiamo di fronte e chi abbiamo dentro di noi, di spremere tutto il succo possibile dai propri errori, perché il cammino della vita è lastricato di errori. L’uomo che il mondo definisce un fallito spesso è un uomo capace del bene più prezioso, che è quello di illudersi. Non importa nemmeno di che cosa. In una delle poesie che scriveva negli ultimi anni, Bukowski racconta che, tornato dall’ippodromo a notte fonda, prende la bottiglia dall’armadio della cucina e si chiede: che cosa c’è da festeggiare? Forse solo un altro giorno senza essersi suicidato. «Questo/ o/ qualunque altra cosa ci sia,/ non ci sia,/ ci sarà,/ non ci/ sarà- /esattamente come adesso». Non c’è cosa che non valga un brindisi.
Il libro. «È bello rivederti, zio Heinrich!». Charles Bukowski, nel viaggio in Europa del 1978, incontra un vecchio zio ad Andernach, la cittadina tedesca dov’era nato il 16 agosto 1920. Lo si legge nel diario Shakespeare non l’ha mai fatto, ora edito da Feltrinelli con le foto di Michael Montfort e tradotto da Simona Viciani (pp. 167, euro 24). Gran parte della sua opera, tuttavia, è pubblicata da Guanda.
I 100 anni dalla nascita. Intervista immaginaria a Charles Bukowski, ecco cosa mi avrebbe detto. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Agosto 2020. Che cazzo significa un’intervista? Ma no, chi se ne frega che sono morto, è proprio che non c’è niente da dire. Hai visto quello stronzetto che è venuto da me tutto carino, era simpatico gli ho dato uno scotch, ma balbettava e non sapeva che chiedere. Mi ha fatto tenerezza. I giornalisti non sanno mai che chiederti e ti mettono sotto questo microfono come se fosse la padella e ci devi pisciare dentro e loro sono tutti felici, ma non sanno che chiedere, che mestiere del cazzo, no? Aspettano che dica io che non ho niente da dire salvo quello che dico nelle parole del mio stile e poi che cazzo altro devo dire? Che gli scrittori fanno schifio? Fanno schifo, si salvano in pochi, con Hemingway che si sfrittella il cervello sul muro o Céline e pochi altri. No, non è che io per scrivere devo ubriacarmi. Questa è una stronzata. Tutti si ubriacano, ma scrivono merda. Sai quel tipo di racconto era una sera d’ottobre e mister Gordon camminava sulla 24esima… ma chi se ne frega, ma che par di coglioni, no? La scrittura deve essere bum-bum-bum. A capo. Bum. Trac. Non tutte quelle frasette. Sì, quella poesia che dico ha avuto successo perché era nella guerra, no? E allora vedevo questo albero sotto casa e un giorno lo trovo pieno di bambini e bambine impiccati, alcuni sono già morti, altri stanno morendo. Allora dico a un poliziotto: ma non vede? Che cazzo state a fare? Lui dice: non si preoccupi, è tutto autorizzato. Il giorno dopo stessa scena ma stavolta con cani e gatti, impiccati, morti o morenti, tutto autorizzato, poi lui, l’altro che mi ascoltava mi porta a me, all’albero e dice che è autorizzato a impiccare anche me e io dico ma vaffanculo, ma impiccati te, e lui dice no prima te perché io ho l’autorizzazione e tira fuori una pistola e mi spara alla testa. E io dico ma non dovevi impiccarmi? Ecco. Tu dici le donne, le donne che? La fica? Dopo esserne uscito, è tutta la vita che cerco di rientrarci ed è una vita sprecata. A me piacciono le gambe. Che sono la via della fica. Ma è uno spreco dell’esistenza perché le donne portano felicità supreme e anche ferite irreparabili e io ne ho di letali. Con una andavo a sbronzarmi e giravamo per le strade abbrancati a questo cazzo di vino italiano da quattro soldi, sai quello che ti danno nelle trattorie che non costa un cazzo e che dentro c’è il tappo? Io ero pronto per questa performance davanti al pubblico e ancora una cosa così non l’avevo mai fatta. Però bevo questo cazzo di vino italiano e mi viene da vomitare nel camerino e io dico ma posso vomitare davanti al pubblico. E quelli dicono fa un po’ come cazzo ti pare. Là in sala intanto stanno impazzendo, erano quasi settecento e io dovevo vomitare, scorreggiare e ruttare così aprii la porta sul palco e feci tutto insieme e camminai brancolando fino al tavolo e mi hanno applaudito e io ho detto ma voi siete completamente scemi. Poi ho detto che cazzo volete da me? Volete un poema, eh? Un poema. Ma andate tutti a fanculo, e ridono. Allora prendo la birra e me la sgargarozzo e devo vomitare subito: mi alzo apro la piccola porta e mi viene fuori dalle budella e dallo stomaco un’apocalisse e applaudono. E io mi siedo, mi aggiusto il microfono e dico volete un poema, vero? Voi volete che io vi dica un poema. Urlano. E io dico: supplicatemi. Mi viene da ridere. Per forza che vogliono un poema e io sono lì per questo. Mi implorano e io provo di colpo tenerezza per quella folla di disgraziati esseri umani che vogliono da me un poema e io sono lì per leggerglielo. Ma mi piace che mi implorino. Fa ridere. Hanno pagato e mi implorano. Va bene. Silenzio. Ehm, ehm. Dunque. Io. Sono. Charles Bukowski… Delirio di applausi. Mi alzo e vado a vomitare. Torno subito, dico, non è che voglio fregarvi, ma quel cazzo di vino italiano col tappo dentro è veramente un disastro. Io rido, mi fa piacere. Il bello della vita è il piacere io posso fare qualsiasi porcata per il piacere, e poi – sì – sono invidioso narcisista e non me ne frega un cazzo. Così gli dico il poema ed era molto bello, quello dell’albero degli impiccati ma mi chiedono subito delle mutandine delle ragazze e non capiscono che per me è un argomento terribile. Hai visto la mia faccia? Butterato dalla peste, è stato l’acne che mi ha massacrato e sembro Frankenstein. Sai come sono contente le ragazze se io gli chiedo di scoparmi? Dicono: con quella faccia, tu prima diventa famoso e poi quando sei una celebrità torna con quel cazzo di fuori e vedrai che mi si bagnano, e così è stato. Tutte quelle braghette leggerissime crespose e bagnatissime e quelle fiche, così raspose, diocristo, che cazzo, vedi che vale la pena vivere? E dicevo loro che la cosa più importante non è solo vivere ma avere anche qualcosa da dire. Uno stile. Io non sono nato nella fogna. Io vengo dalla lettura, dall’inglese sia della teppa che dell’alta letteratura. Sì, un po’ di tedesco perché ero tedesco e mi hanno portato qui vestito da bambino tirolese, capisci, mia madre mi odiava e mi faceva andare in giro vestito come un tirolese. Mi prendevano tutti per il culo e mio padre mi prendeva a schiaffi e mi frustava con la cinta di cuoio per affilare il rasoio, (allora ogni padre ne aveva una e serviva per l’esecuzione del figlio) e io venivo frustato a sangue per nessun motivo, anche tre volte alla settimana e sai che cosa, se io non avessi avuto questo trattamento da mio padre non avrei capito un cazzo, mai, non avrei conosciuto il male, il dolore, l’ingiustizia, la ribellione, la furia, la vendetta e prima di tutto sentii la voglia il desiderio fisico di liberarmi di questo schifo che è la bontà di tutti quelli che ti rompono il cazzo dicendoti che devi essere buono, to be nice, I don’t want to be nice, nobody is nice, che cazzo! e così quando mi sono abituato alle frustate di mio padre ho sentito che la voglia di esprimere quel che sento dentro veniva dalla mia testa come un’esplosione. E per aiutarmi, vino, alcol, birra, tutto, fino a vomitare. Ed è vero, maltrattavo le donne. L’hai visto nel documentario, e sai perché? L’appiccicume. C’era sempre quella che mi voleva abbandonare e io non volevo che andasse con gli altri, e allora io le saltavo addosso o la buttavo fuori dal divano a calci, non l’ho mai picchiata, ma calci sì e poi tutte queste che ripetono e ripetono e ripetono sempre le stesse parole tutto il giorno e la notte, tutti uguali, maschi e femmine. Ecco perché morire: perché la vita è una ripetizione senza senso. Perché nessuno ci mette un po’ di poesia e d’intelligenza. Stile e significato, ecco i punti importanti. Quando scrivi devi avere un tuo stile e le cose che dici devono sorprendere. Esatto, lo so, anche Borges diceva così: gli unici libri da leggere sono i polizieschi perché devi scoprire chi è l’assassino e in letteratura il lettore deve essere schiaffeggiato, liberato dall’ovvietà, da quello che già ti aspetti, capito, deve essere portato per mano sul ciglio del baratro e lo devi assassinare, lo devi buttare di sotto e devi sentire il suo urlo e la testa che si sfracella e i figli che piangono e se occorre butti anche loro, ma sono violento, ma ne ho pieni i coglioni della retorica e anche della Beat generation. Non sono beat. Loro sono beat, io sono un rottame tedesco finito in America e sai una cosa? Ora ti dico questa: quando ero ragazzino negli anni, cos’era, giravano un sacco di nazisti americani della Hitler Bunde, stronzi, che ho visto che si vestivano da nazisti e io ci andavo perché avevano la birra gratis e migliore e pensavano che fossi dei loro, manco sapevo chi era sto cazzo di Hitler e poi, questo è venuto dopo, mi hanno preso con una retata e portato in galera per renitenza alla leva. Dovevo andare in guerra ma nessuno me l’aveva detto e così mi portano alla visita medica e dicono ma figlio mio che ti è successo alla faccia, ma sei ridotto uno schifo, non hai capacità gastrica né polmonare e vorresti anche essere arruolato dallo zio Sam che ti porta in giro a liberare i popoli? Ma vaffanculo. But fuck yourself, gli ho detto e ho sfangato la guerra e poi c’è tutta quella roba dell’ufficio postale che tutti raccontano ed è vero, so che adesso Trump è in lotta con la Pelosi perché vogliono rifare gli uffici postali come erano una volta quando io lavoravo nell’ufficio postale e mi portavo anche i quaderni e scrivevo, scrivevo tutto il giorno da professionista e poi mi hanno dato anche un assegno mensile da poveracci, cento dollari per stare alla fame e scrivere, e l’ho fatto, con disciplina perché l’editore era un bravo ragazzo. Avete provato a sentire gli scrittori, giusto per cambiare disco? Volete scrivere voi stessi, cantare, urlare, fare uno sforzo come quando cagate ma invece di cagare dovete spingere il culo per far uscire parole che abbiano significato e non le stronzate di mister Brown che camminava una sera nel parco quando udì un sospetto fruscio. Vaffanculo mister Brown e vaffanculo il fruscio. Spero che lo abbiano sgozzato. Uccidere è una grande attività letteraria, come vivere., eiaculare, eccitarsi, scopare anche se poi ti stufi e ti viene a tedio tutto. Che è sempre la stessa rottura di coglioni della narrativa, dovreste aver avuto un padre come il mio che vi prendeva a scudisciate puntualmente senza motivo e voi lo sapevate e vi sareste dovuti organizzare per accogliere le frustate e intanto vi vengono in gola le parole e le parole hanno un ritmo, e uno stile e fanno tac-tac. Bum-tatata, non quelle parole blablabla, la parola deve saltare come un orso alla frusta, ma è inutile perché il genere umano si ripete, si specchia in sé stesso e tu vuoi solo ubriacarti e scrivere? Capisci? No, tu non capisci un cazzo. Non sai che chiedermi perché non c’è niente da chiedere. Che stronzata, un’intervista, vero? Be’, tanto tu devi dire per forza di sì, se è un’intervista, cerca almeno di far finta di essere vivo, capito? Non prendertela come un fatto personale ma adesso mi sono veramente rotto i coglioni perché l’umanità, non so se è proprio senza speranza, ma è noiosa. E la noia è molto, molto peggio della morte, credimi, te lo dice il tuo Charles Bukowski.
Una "normale" notte di depravazione con l'amico Bukowski. "You never had it" celebra con alcol e poesia il centenario della nascita del mitico Hank...Cinzia Romani, Giovedì 06/08/2020 su Il Giornale. Bevendo Petite Sirah e accendendo una sigaretta dietro l'altra, Charles Bukowski parla di sé e della sua infanzia, del suo lavoro da impiegato all'ufficio postale e di sesso, donne, alcol. Né mancano gli accenni a colleghi come Camus e Sartre, mentre la moglie Linda Lee Beighle e il fotografo Michael Monfort gli siedono a fianco. È quanto si vede e si sente nel docufilm di Matteo Borgardt You never had it. An evening with Bukowski, basato su una lunga conversazione tra lo scrittore statunitense e la giornalista Silvia Bizio, sua amica personale. Da sabato tale film, elaborato da vecchie cassette U-matic, che la Bizio teneva in garage e pensava d'aver perso, sarà disponibile sulle piattaforme online, in occasione del centenario di uno dei più grandi scrittori del XX secolo, nato il 16 agosto 1920 ad Andernach, in Germania e morto il 9 marzo 1994 a San Pedro, al Peninsula Hospital. 45 minuti che narrano una lunga notte in stile Bukowski: si beve tanto, si parla molto, si fa ironia su ogni cosa. Il titolo del docufilm s'ispira alla frase «Humanity, you never had it from the beginning» («Umanità, non ne hai avuta fin dal principio»), contenuta nel romanzo Women del 1978. «È stato un lavoro di riscoperta: poco di quel materiale era stato visto. Abbiamo fatto digitalizzare quelle vecchie cassette e così è nato tutto. Passare una serata con Bukowski? Si beveva talmente tanto», spiega la giornalista, che realizzò la video-intervista nel gennaio del 1981, nella casa dello scrittore a San Pedro, in California. Una lunga notte di fumo e di vino, a parlare di argomenti che spaziano dall'amore all'umanità, con alcune poesie lette dallo stesso Bukowski. Evento speciale alla 13esima edizione delle Giornate degli Autori a Venezia, nel 2016, You never had it viene ora riproposto in streaming. «Quando abbiamo trovate le vecchie videocassette dell'intervista di mia madre a Charles Bukowski, abbiamo subito capito che ci trovavamo tra le mani una sorta di reperto storico. Non che allora fossi un appassionato di Bukowski, ma dopo aver ascoltato le sue parole, per innumerevoli ore, ho inteso la forza del suo lavoro», spiega Matteo Borgardt, anche snowboarder professionista. Seduto sul suo divano, davanti a qualche buona bottiglia, l'autore maledetto per eccellenza si lascia intervistare, alternando silenzi e irriverenze, mentre le riprese originali sono state montate con riprese in Super8 della Los Angeles di oggi. Harry Charles Hank Bukowski Jr., nato Heinrich Karl Bukowski e noto anche con lo pseudonimo di Henry Chinaski, di solito è amato o odiato e il lavoro di Borgardt ravviva il dualismo di opinioni sul moscone da bar, le cui frasi e citazioni sono diventate famose. Come «Passai accanto a 200 persone e non riuscii a vedere un solo essere umano» (da Una pioggia di donne). Scrittore prolifico, che riuscì ad usare la poesia e la prosa per descrivere la depravazione della vita urbana e gli oppressi nella società americana, è diventato un eroe di culto invocando emozione e fantasia con un linguaggio diretto e immaginario, violento e sessuale. Nell'epoca del politicamente corretto, Bukowski viene ritenuto offensivo della dignità delle donne, anche se egli ha saputo descrivere in modo satirico il machismo: non a caso, la corrente letteraria cui viene associato è quella del «realismo sporco». «Il mondo sarebbe un posto di merda, senza le donne. La donna è amore. La donna è vita. Ringraziale, coglione!», diceva senza ombra di disprezzo per il genere femminile. Eppure i collettivi femministi USA, in particolare quelli afroamericani, puntano il dito contro di lui, il quale scriveva: «La pazzia è relativa, chi stabilisce la normalità?». Avrebbe fatto qualunque cosa, Bukowski, «pur di tirare giù quelle mutandine» ed è proprio quanto gli rimproverano le neofemministe americane. E adesso che il più famoso scrittore e poeta «underground» in lingua inglese riaffiora alla memoria, torna attuale la frase scritta sulla sua lapide e tratta dalla poesia Rotola i dadi: «Don't Try», cioè «non provarci». Ad essere e a scrivere come lui, «il vecchio sporcaccione». Ma anche a giudicarlo secondo la nuova morale della società americana.
Luigi Mascheroni per il Giornale il 26 marzo 2020.
Prima confessione: «Non sono neppure un vero artista - sappi che sono una sorta di impostore - della specie che scrive dai visceri del disgusto, quasi sempre», lo scrive nel dicembre 1954 a Caresse Crosby, editrice, attivista e Signora dell'«arte erotica femminile».
Seconda confessione: «Sono un uomo pericoloso quando sono lasciato libero alla macchina per scrivere» (che sarebbe un bel titolo per un libro...), e la frase è in una lettera indirizzata nel 1960 a W.L. Garner e Lloyd Alpaugh, editori di una piccola rivista letteraria.
Terza confessione: «Quando tutto funziona a meraviglia non è perché tu hai scelto di scrivere ma perché la scrittura ha scelto te. È quando impazzisci per scrivere, è quando ti riempie le orecchie, le narici, e te la ritrovi sotto le unghie. È quando non c'è speranza se non la scrittura», e il destinatario della lettera, datata l'antivigilia di Natale del 1990, è William Packard, poeta, drammaturgo e fondatore del New York Quarterly. E si potrebbe andare avanti parecchio, confessione dopo confessione, spulciando fra la sterminata corrispondenza di Charles «Hank» Bukowski (Andernach, 1920 - Los Angeles, 1994), oltre duemila pagine - a volte scarabocchiate con schizzi e disegni - fra le quali l'editor Abel Debritto ha selezionato un gruppo di testi, fino ad allora inediti, pubblicandoli nel libro On Writing, uscito qualche anno fa negli Stati Uniti e ora, nel centenario della nascita dello scrittore americano, in Italia: Charles Bukowski, Sulla scrittura (Guanda). In realtà, a dispetto del titolo, non si tratta di una manuale di scrittura o di consigli su come scrivere, tipo - chessò - il celebre On Writing di Stephen King. E in effetti il titolo giusto - grammaticalmente scorretto però - sarebbe «In» Writing, perché la scelta delle lettere prova a entrare dentro la scrittura di Bukowski, a farci capire cosa significasse per lui mettersi alla macchina per scrivere, cosa provasse a picchiare sui tasti, bevendo e fumando, per tirarci fuori un racconto o una poesia che se andava bene finivano su una rivista, magari neppure così famosa, se no Amen, si ritentava infilando un altro foglio bianco nel rullo...«Non riesco a capire nessuno scrittore che smette di scrivere. È come se ti strappassi il cuore dal petto per scaricarlo nel cesso con gli stronzi. Scriverò fino al mio ultimo dannato respiro, fregandomene se qualcuno pensa che sia bello o brutto. La fine come il principio. Era scritto che fosse così. È semplice e profondo. Adesso la smetto di scrivere di questo, così posso scrivere di altro», confessa in una lettera del 12 luglio 1991 a John Martin, il leggendario editore che fondò la Black Sparrow Press soltanto per pubblicare i racconti del poeta-postino che gli capitava di leggere sulle riviste underground di cui era ghiotto. Comunque, Sulla scrittura è imperdibile, anche per i non bukowskiani. Raccoglie lettere del vecchio «Hank» a editori, redattori e direttori delle centinaia di riviste a cui mandava racconti e poesie, e a molti colleghi scrittori (Henry Miller, Lawrence Ferlinghetti, Whit Burnett e il suo eroe letterario John Fante sono solo alcuni dei destinatari, ma a un certo punto appare anche una lettera del 1969 a Paloma Picasso, la quale rifiutò la pubblicazione sulla sua rivista di alcune poesie che Bukowski le aveva mandato), ma non solo. Oltre all'epistolario c'è una colorita quarta di copertina scritta di suo pugno per il volume Storie di ordinaria follia, un'introduzione inedita per il suo primo libro tradotto in olandese, e una parodia (incompiuta) sulle riviste letterarie intitolata La rivista della carta igienica... Il tutto sparso in un arco cronologico che va dalla fine della Seconda guerra mondiale, quando Bukowski era un signor nessuno, al 1993, l'anno prima della morte, quando era ormai celebre oltre ogni immaginazione. La verità è che Charles Bukowski scrisse per più di cinquant'anni, tutti i giorni, di tutto («Forse scrivo troppo. Ma per me non sarà mai troppo. Sono proprio fissato», da una lettera a John Martin del '91), e sempre rimanendo uguale a se stesso. Scriveva perché si divertiva a farlo, scriveva perché non poteva farne a meno, e scriveva per non restare solo. «Ogni passo che compio è un passo attraverso l'inferno. Penso che i giorni siano brutti e poi arriva la notte. La notte arriva e le belle donne dormono con gli altri uomini - uomini con musi di ratto, con musi di rospo. Fisso in alto il soffitto e ascolto la pioggia o il suono del nulla e attendo la morte. Queste poesie sono uscite da tutto questo. Non sarò mai completamente solo se anche soltanto una persona al mondo le capirà», confessa all'amico Gerard Belart, nel gennaio 1970. Bukowski qui racconta quello che fa durante il giorno, le persone che incontra, i suoi progetti, cosa sta scrivendo, i suoi successi (quando una rivista accetta un suo testo!), i tanti fallimenti (quanti rifiuti...), le critiche alla sua scrittura «sgrammaticata» e senza stile (e invece, uno stile lo aveva, eccome quel vecchio ubriacone), e il senso che aveva per lui scrivere («Sento che la scrittura è sempre lì, sento le parole azzannare la carta, e ne ho bisogno come non mai...», lettera dell'ottobre 1992 a Jack Grapes, fondatore del «Los Angeles Poets & Writers Collective». Sulla scrittura è un libro magnifico, non tanto per chi ama Bukowski, quanto per chi ama scrivere. Un libro che insegna almeno tre cose. La prima: quale incredibile mistero sia l'atto di inventare storie. La seconda: come un uomo che ha passato la vita tra corse di cavalli, donne e birra sia potuto diventare un'icona delle letteratura americana. La terza: che non è vero che scrivere salva la vita o le dia un senso. Ma la riempie, e non è poco.
Enrico Franceschini per “la Repubblica” il 5 aprile 2020. «Il suono della macchina da scrivere. A volte penso che fosse il solo che volevo sentire. E quel bicchiere, birra e scotch, di fianco alla macchina. E trovare cicche di sigaro, accenderle da sbronzo e bruciarmi il naso. Non era tanto il fatto che stessi cercando di fare lo scrittore. Era fare qualcosa che mi facesse star bene». Chi sta leggendo questo articolo, ha già letto il titolo, dunque conosce l' autore della suddetta citazione. Ma mi piacerebbe tentare un esperimento: farla leggere anonima, fuori dal contesto della pagina di giornale, e chiedere ai lettori di chi è. Scommetto che indovinerebbero in parecchi: perché Charles Bukowski è inconfondibile. Sebbene sia scomparso nel 1994, la sinfonia dello scrittore americano di Storie di ordinaria follia, Factotum, Donne, Post Office, Panino al prosciutto e di un' altra sessantina di opere fra romanzi, racconti e poesie, è stata così prolifica che continuano a uscire suoi titoli. Nel centenario della nascita (16 agosto 1920, in Germania, dove il padre faceva il militare e s' era sposato con una tedesca - ma tornarono tutti negli Usa quando il figlio aveva appena 3 anni), è da poco uscito in Italia Sulla scrittura (Guanda), raccolta di lettere inedite a editori, amici e scrittori, tra cui Henry Miller, John Fante, Ferlinghetti, arricchita dai buffi schizzi di suo pugno con cui accompagnava talvolta la corrispondenza. È una sorta di manuale di scrittura da parte di colui che disprezzava manuali e scuole di scrittura creativa. Ed è anche un autoritratto sincero, ironico, appassionato, che restituisce "il vecchio Buk" in tutti i ben noti aspetti del suo mito: le sbronze, le corse dei cavalli, i mille mestieri fatti prima di sfondare. Parla anche di San Pedro, il quartiere di Los Angeles dove ebbi l' ardire di bussare alla sua porta, una quarantina d' anni or sono, per scoprire un uomo gentile che non se la tirava per nulla e passare un indimenticabile pomeriggio a ubriacarci insieme di birra: «Un posto dove la gente è piuttosto normale e alla mano e faresti una fatica del diavolo a scovare uno scrittore o un pittore o un attore, dove posso vivere tranquillo con i miei tre gatti e bere quasi tutte le sere e pestare sui tasti della macchina da scrivere fino alle 3 di mattina. E il giorno dopo c' è l' ippodromo. Questo è tutto ciò che mi serve. Sono felice di non essere Norman Mailer o Capote o Vidal, o Ginsberg che legge con i Clash, e sono felice di non essere i Clash». Un libro così utile a capire perché Bukowski resiste al tempo ed è diventato un classico, che conviene lasciare la parola a lui. «Oggi non c' è più coraggio e fegato e trasparenza - e insieme se n' è andata anche la genialità dello scrivere. Tanti, tanti scrittori che scrivono non sono capaci di scrivere e continuano imperterriti a scrivere cliché e banalità stantie. Il problema principale è che c' è sempre stata una notevole differenza tra letteratura e vita, quelli che scrivono di letteratura non conoscono la vita e quelli che vivono la vita sono esclusi dalla letteratura. Con qualche eccezione: Dostoevskij, Céline, il primo Hemingway, il primo Camus, i racconti di Turgenev, Fame di Knut Hamsun, Kafka». «Se questo è scrivere, se questa è una poesia, chiedo una pistola vermifuga: se devo stringere la mano agli dei della carta per promuovere una piccola rima, preferisco il paradiso delle lettere di rifiuto. La poesia, per come la vedo io, è economizzare le parole. Questa sarebbe piaciuta a Gertrude Stein. Una poesia non dovrebbe essere una poesia, ma un pezzo di qualcosa che per caso esce nel modo giusto. Quando scrivo è per l' amore della parola, del colore, come buttare colore su una tela, vado molto a orecchio». «Vi prego, salvatemi dagli scrittori: le conversazioni con le puttane di Alvarado Street erano molto più interessanti e originali. Oggi ci sono centinaia di migliaia di scrittori. Se di questi tempi chiami un idraulico, ti si presenta con la chiave giratubi in una mano, la ventosa nell' altra e un libricino dei suoi madrigali nella tasca posteriore. La sola cosa che potrei dire sulla scrittura alla gente è NON SCRIVETE. Ormai siamo ultra- contaminati». «I poeti si parlano fra loro, si convincono di avere cervello, si esprimono su tutto, presto diventano insegnanti, si piazzano davanti alla gente per spiegare come si fa, non solo come si fa a scrivere ma come si fa qualsiasi cosa. Fanno sempre più reading e adorano il pubblico, tutto quel circo di idioti che vanno ai reading di poesia. Ora, dicono, vi leggerò le ultime 3 poesie. E va bé, ma chi cazzo se ne frega! E naturalmente le 3 poesie sono lunghette. Ti guardi in giro e te li trovi che insegnano scrittura creativa in qualche università. Pensano di sapere come si faccia a scrivere e adesso racconteranno come si fa anche ad altri. È una malattia: sono autoreferenziali ». «La mia idea di scrittore è di uno che scrive. Che siede alla macchina da scrivere tempestando il foglio di parole. Questo dovrebbe essere il punto. Non insegnare agli altri come si fa, frequentare seminari, leggere a folle impazzite. Se volevo essere su un palcoscenico, facevo l' attore. Se lo fai per pagare l' affitto va bene, ma troppi lo fanno per vanità. Ho trovato più vita vera in vecchi strilloni, uomini delle pulizie, nel ragazzino che aspetta gli ordini al chiosco del taco. Dato che la maggior parte dei poeti scrive da esistenze dorate, i loro argomenti sono limitati. Preferisco di gran lunga parlare con quello dell' immondizia o con quello alla friggitrice che con un poeta. Sanno più cose sui problemi comuni e sulle gioie comuni del sopravvivere. Mi sembra che la scrittura attiri i peggiori, non i migliori. Mi sembra che le rotative del mondo stampino all' infinito paccottiglia di anime inadeguate che critici inadeguati chiamano letteratura o poesia». «Capisco perché Hemingway aveva bisogno dell' arena del toro, era un rapido viaggio dentro l' azione per ristabilire le sue visioni. Per me è lo stesso con i cavalli». «Céline mi ha fatto vergognare di quanto scarso sia io come scrittore, avevo voglia di gettare via tutto. Céline, Céline, mio dio, pensare che hanno creato un uomo simile?». «Insieme a Delitto e castigo e al Viaggio di Céline, il tuo Chiedi alla polvere è il mio romanzo preferito. Le tue opere hanno dato una mano alla mia vita, mi hanno dato la speranza concreta che un uomo può buttare giù parole sulla pagina e lasciare sgorgare le emozioni. Nessuno l' ha mai fatto così bene come te. Il cielo è bagnato oggi e domani la pista sarà fangosa ma penserò a te e alla fortuna che mi è stata concessa di poter dire alla gente perché Chiedi alla polvere è così bello. Un romanzo che mi ha salvato la vita. Non ci sarà mai un altro John Fante. Non so da dove tu abbia preso il talento, ma gli dei certamente te ne hanno ben dotato. Tu per me hai significato e significhi più di qualsiasi uomo vivo o morto». «Mi piacerebbe incontrati, mi piacerebbe vederti su una sedia davanti a me. Sarà difficile, non sono un grande oratore, non mi sento a mio agio il più delle volte, sarebbe come incontrare Dio, e poi tu attraversi la stanza per andare a pisciare e io dico, guarda, anche Dio piscia». «Non molte vite come la sua. Nelle cose che scriveva ci metteva tutto sé stesso. Ho sempre avuto qualche problema a leggerlo perché a un certo punto salpava per una sorta di contemplazione di balbettii spermatici alla Star Trek, ma le parti belle le rendeva al meglio. Henry Miller. Un' anima dannatamente bella. E gli piaceva Céline quanto a me». «Mi è sempre piaciuta la banda dei russi. Riuscivano a guadare il fiume della triste agonia, senza poter evitare che un sorriso piegasse loro gli angoli della bocca». «Il mio recensore del NY Times probabilmente è un ragazzo piuttosto simpatico, colto, eccetera, però non credo abbia mai saltato un pasto o che sia rimasto fregato da una puttana o abbia dormito su una panchina nel parco. Non che queste cose siano necessarie, capitano, ma quando ti succedono hai la tendenza a pensarla in maniera un po' diversa. C' è gente benpensante che mi diceva: tutti soffrono. E la mia consueta risposta era: nessuno soffre come i poveri ». «Diventare famoso quando hai vent' anni è una cosa molto difficile da superare. Quando diventi semi- famoso passati i 60, è più facile adattarsi. Penso che una delle cose migliori che mi sia capitata è di essere stato uno scrittore di insuccesso per così tanto tempo e di avere dovuto lavorare per vivere fino a 50 anni. Mi ha tenuto lontano dagli altri scrittori e dai loro giochi di società». «Il fatto che tu non venga accettato non fa necessariamente di te un genio. Forse scrivi solo male. Non sono il tipo che guardandosi indietro considera lo spreco sfrenato una completa perdita - c' è musica in ogni cosa, perfino nella sconfitta». «Non voglio dettare regole ma se ce n'è una, eccola: gli unici scrittori che scrivono bene sono quelli costretti a scrivere per non impazzire».
· Carlo Levi.
Siamo tutti orfani di Carlo Levi e della sua idea di libertà. Filippo La Porta il 30 Gennaio 2020 su Il Riformista. Carlo Levi è conosciuto solo per il pur fondamentale Cristo si è fermato a Eboli. Quasi autore di un unico libro. Molto distanziato appare l’altro romanzo, L’orologio (1950), sulla delusione degli ideali della Resistenza. Suggerisco di leggere quest’ultimo, unitamente agli scritti politici (1922-1942) raccolti e curati da David Bidussa per Einaudi (un testo edito nel 2001 e che potreste trovare su qualche bancarella). Eppure Levi proviene dall’esperienza di Giustizia e Libertà, da quell’area variegata di “sentire comune” libertario che si forma in Europa alla fine degli anni 20, un’area a cui in anni recenti ha volentieri attinto, a volte in modi goffi, la sinistra postcomunista improvvisamente orfana. Si tratta di gruppi della cultura antifascista anche molto diversi tra loro, uniti però da un denominatore comune antitotalitario (e dunque anticomunista), che tenta di coniugare centralità dell’individuo e ampliamento effettivo della democrazia. Non riesco a immaginare niente di più “attuale”! L’opera di Levi, nutrita di questi umori e di queste tradizioni liberal-socialiste, non cessa di parlarci, di rivolgerci interrogativi urgenti, intrecciati con le grandi questioni contemporanee legate alla globalizzazione. Da un parte la sua è una critica – seppure anticipata – a modi e ai contenuti di questa globalizzazione, priva di regole (cioè di politica), del tutto subordinata all’economia e dall’altra è prefigurazione di una politica diversa, che non coincide con quella di partiti e leader, e anzi la rifiuta, riaffermando la sua prossimità ad una concreta dimensione civica e a un impegno etico individuale. La politica non tanto come tecnica per conquistare e gestire il potere o attività di negoziazione (entrambe cose ineliminabili, e codificate una volta per tutte nel Principe di Machiavelli) quanto come creazione di un contropotere, e soprattutto esperienza in sé formatrice, educativa: anche Martin Luther King esaltava la pratica della non-violenza non tanto per gli obiettivi che conquistava ma perché abituava una o più generazioni di neri a sentirsi come soggetti e non più come vittime. Levi ha fatto politica per tutta la vita, dagli anni 20 con Piero Gobetti e poi con Giustizia e Libertà, il Partito d’Azione e infine come indipendente di sinistra; però con una mentalità che potremmo definire “impolitica”, cioè non strumentale, non interamente finalizzata a vincere. Nel 1929 sottolineava, a testimonianza di una robusta formazione kantiana che il movente della politica era “una superiore coscienza etica”. L’azionismo, benché non immune da un tono predicatorio e professorale (come ha rilevato lo stesso Norberto Bobbio, che ne fece parte) – e lacerato da spinte troppo divergenti al proprio interno -, rappresentò nel nostro Paese una fiammeggiante meteora: dava più importanza all’ethos diffuso che ai sistemi elettorali, più agli stili di vita che ai governi, più all’individuo che alle organizzazioni e agli stati-idoli. Levi, intellettuale critico e mai “organico”, parla molto propriamente di una generazione che “ha vinto in sé il fascismo”. E certo fa impressione quell’immagine di Parri, proprio ne L’Orologio, fra i due volti cardinalizi e teologali di Togliatti e di De Gasperi, quasi Pinocchio tra il Gatto e la Volpe… La rimozione delle posizioni politiche di Levi ci ricorda come nel ‘900 il marxismo abbia monopolizzato ogni critica alla borghesia e all’esistente. Già nel 1932 Levi scriveva che «il nome stesso di comunismo ha una capacità di attrazione per il suo carattere mitologico di società futura», mentre il programma di Giustizia e libertà poteva lasciare insoddisfatti molti per la sua “mancanza di miti”. E invece proprio l’idea della politica come autogoverno enunciata dal socialista libertario Levi, era molto più “a sinistra” dei programmi del Pci, come gli riconobbe onestamente il comunista Aldo Natoli. Levi infatti manterrà una simpatia verso tutte le esperienze consiliari, di un potere cioè esercitato dal basso. Ma insisto su un punto: è solo in queste esperienze di autogoverno che si forma l’individuo consapevole e responsabile, fondamentale alla democrazia; e soprattutto capace di modificarsi qui ed ora, senza rinviare al futuro l’emancipazione della società (il libro più bello di Vittorio Foa, ex azionista, si intitola La Gerusalemme rimandata).
· Cechov.
Cechov, medico e scrittore che voleva rifare il mondo. Filippo La Porta il 23 Gennaio 2020 su Il Riformista. Ho trovato per caso una copia di una meravigliosa biografia di Cechov, scritta da un suo amico e discepolo, Ivan Bunin: A proposito di Cechov (Adelphi). Vi suggerisco di leggerla, però insieme a qualche racconto di Cechov (edizioni Einaudi o Feltrinelli). Bunin dovette fuggire dalla Russia dopo la Rivoluzione d’Ottobre e passò la vita in esilio a Parigi, vincendo il premio Nobel nel 1933. scrisse racconti, saggi, poesie, narrazioni, da cui traspare sempre una nostalgia per il suo Paese. Nel 1952 si pubblicano in Unione Sovietica gli epistolari di Cechov e a quel punto Bunin, solo e molto malato, decide di scrivere un suo libro di memorie in cui ritrae magnificamente l’amico, senza tutta quella ingombrante mitologia letteraria che lo aveva ricoperto (o troppo freddo o troppo sentimentale!). Bunin è anche incoraggiato dalla contemporanea pubblicazione di Cechov nella mia vita della scrittrcie Lidija Avilova, dove si parla di un grande amore sotterraneo, nascosto fino alla fine. Bunin a proposito dei primi grandi racconti di Cechov, scritti a nemmeno trent’anni – “Una storia noiosa”, “In viaggio”, “Melma”… – è colpito dalla precoce, profonda conoscenza della vita e dalla capacità di leggere nell’animo umano. E nota subito che la professione medica gli fu di grande aiuto: «Ci ripeteva spesso, a me e al professor Rossolimo, che la medicina aveva ampliato l’ambito delle sue osservazioni e aveva fornito allo scrittore un sapere della cui importanza poteva capacitarsi solo il medico», aggiungendo una frase di Cechov stesso: «La conoscenza della medicina mi ha preservato da errori in cui è incorso persino Tolstoj, per esempio nella Sonata Kreuzer». E, prosegue Bunin, «se non fosse stato per la tubercolosi, non l’avrebbe certo abbandonata, la medicina. Amava curare la gente, teneva in gran conto la sua professione e non per nulla sui documenti di Ol’ga Leonardovna Knipper fece scrivere “moglie di un medico”». Un’altra bella biografia di Cechov, di Irene Nemirovsky, stabilisce una sottile analogia tra il lavoro di medico e la vocazione di autore di racconti, non di romanzi (oltre che l’esperienza fondamentale di cronista proprio dal punto di vista dell’economia di mezzi): «Non si può fare a meno di pensare a Cechov medico; è un’esperienza di medico quella che ci offre, cui si aggiunge l’esperienza del giornalista: delle diagnosi precise, senza debolezza, senza pietà morbosa, ma cariche di una simpatia profonda». L’edizione italiana di A proposito di Cechov di Bunin ha una densa e illuminante prefazione della slavista Claure Hauchard, che sottolinea come per entrambi gli scrittori russi «la Parola è sacra». Il ritrattista e il soggetto del ritratto vengono qui accostati in un capitolo ideale di “vite parallele”. Se Cechov è essenzialità, riserbo e una certa freddezza, e anche una salute presto cagionevole, il nobile decaduto Benin è passione, tripudio dei sensi, e una salute di ferro. Soprattutto se Bunin prende la vita di petto, gode in modo bulimico dell’essenza del mondo (colori, suoni, odori), Cechov «non può evitare un certo risentimento per quella vita che, in segreto, vorrebbe moralizzare», quasi «un desiderio etico di rimettere in sesto il mondo». Forse anche in ciò lo sentiamo più vicino di tanti altri grandi scrittori. In lui convivono questo ingenuo desiderio di rifare il mondo (che è pieno di ingiustizie), l’impegno quotidiano a prendersi cura degli altri, e anche a far costruire scuole, biblioteche, etc. (che è una modalità dell’impegno “politico”). Insomma la volontà di perseguire il bene, e insieme un’epica tolstoiana dell’esistenza che tutto misteriosamente ricomprende, il bene e il male, e infine l’idea che proprio nella indifferenza della natura cosmica si nasconde il «pegno della nostra salvezza eterna, del moto perpetuo della vita sulla terra, del nostro perpetuo perfezionarci» (così Gunon, protagonista della “Signora col cagnolino”, di fronte al Mar Nero quieto e al cielo senza fine). E anzi è proprio dalla visione disincantata del nostro destino, del “sonno eterno” cui andiamo incontro, dal riconoscimento dell’assurdo, che può nascere il senso della dignità di esseri umani, come nel Mito di Sisifo di Camus.
· Cecilia Mangini.
Cecilia Mangini, la documentarista 92enne che raccontò la guerra in Vietnam (celebrata dal Ny Times). Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Ferruccio Pinotti. A volte la qualità, la resilienza e la passione ottengono il giusto riconoscimento solo dopo decenni, nella parte finale di una vita: è quello che sta accadendo a Cecilia Mangini, 92 anni (è nata a Mola di Bari nel ‘27) documentarista e fotografa che oggi e domani sarà celebrata all’International Film Fest di Rotterdam e alla quale il New York Times dedica un prestigioso servizio firmato da Elisabetta Povoledo. Due scatole dimenticate – un viaggio in Vietnam, il film di Cecilia Mangini con Paolo Pisanelli (classe 1965, filmmaker, ideatore e direttore artistico della Festa di Cinema del reale che si svolge in Salento), è stato presentato ieri in anteprima mondiale al prestigioso International Film Festival Rotterdam. Il mediometraggio prodotto da OfficinaVisioni in collaborazione con RaiCinema, con il sostegno di Sardegna Film Commission, distribuito da Kiné, verrà replicato oggi e domani, preceduto da un tributo internazionale alla Mangini e da un panel sul ruolo delle donne nel cinema a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. L’incontro vede tra le protagoniste Cecilia Mangini stessa, insieme a quattro cineaste internazionali come Raquel Chalfi, Annette Apon, Mette Knudsen e Aparna Sen. Il film nasce da un coraggioso reportage personale che Cecilia Mangini e suo marito, lo sceneggiatore e regista Lino Del Fra, scomparso nel 1997, realizzarono a cavallo tra il ‘65 e il ‘66 stimolati dall’impatto che la guerra del Vietnam (durata vent’anni, dal 1955 al 1975) ebbe su tanti giovani intellettuali di allora. «La cosa incredibile», spiega al Corriere Paolo Pisanelli da Rotterdam, «è che Angela e Lino pensarono a un film sul Vietnam due anni prima di Loin du Vietnam il celebre documentario del ‘67 di Jean-Luc Godard, Claude Lelouch, Alain Resnais, Joris Ivens, William Klein, Agnès Varda, Chris Marker». Ben pochi all’epoca, in pieno conflitto, ebbero il coraggio di recarsi in quel paese asiatico allora remotissimo, per raccontarne la vita quotidiana, la paura e la tenacia. Tra loro vi fu una coppia di cineasti, la documentarista e fotografa pugliese Cecilia Mangini, oggi novantaduenne, e suo marito, lo sceneggiatore-regista Lino Del Fra. Affrontando un viaggio lungo e avventuroso, i due trascorsero circa quattro mesi a cavallo fra il 1965 e il ‘66 nel Vietnam del Nord in guerra, effettuando i sopralluoghi per un documentario. Dalla frontiera con la Cina fino al confine con il Sud occupato militarmente dalle forze armate statunitensi, Mangini e Del Fra visitano e scandagliano città, porti, rifugi, trincee, risaie. L’indomita Cecilia scattò centinaia di fotografie, un prezioso reportage in gran parte inedito sulla resistenza di un popolo, lavorando indefessamente fino a che le autorità di Hanoi non costrinsero lei e il marito al rimpatrio, al pari di tutti gli stranieri nel Paese. I due scrissero perfino una lettera a Ho Chi Min chiedendo di poter restare per documentare i massacri, ma dovettero tornare in Italia. I negativi da allora giacevano dimenticati in un angolo della casa romana di Cecilia. Paolo Pisanelli, animatore nel Salento della Festa del Cinema del Reale e da qualche anno impegnato nel recupero delle memorie della «pasionaria» del documentarismo neorealista, l’ha convinta a trarne prima un cortometraggio presentato alla Festa del Cinema di Roma nel 2018 e ora un vero e proprio film, Due scatole dimenticate, che la stessa Mangini firma insieme al leccese. Il documentario dura circa un’ora e si avvale delle musiche jazz di Admir Shkurtaj ed Egisto Macchi. Due scatole dimenticate racconta l’esperienza vietnamita di Mangini e Del Fra (cui il film è dedicato) attraverso i clic dell’epoca e la voce narrante dell’autrice. È un «diario ritrovato» del tutto personale, perché si snoda tra ricordi ormai evanescenti e fantasmi che prendono corpo nelle stanze della Mangini. Memorie poste a confronto con gli incubi bellici e con gli echi della solidarietà internazionale al Vietnam, dei cortei studenteschi e delle manifestazioni pacifiste. Il film è anche una sfida al dimenticare, grazie alle immagini in bianco e nero di oltre mezzo secolo fa. Le immagini ritraggono in particolare dedicate le donne vietnamite, «caste guerriere» impegnate con il fucile a sorvegliare i cieli dai quali piovevano le bombe americane. Cecilia Mangini, nel suo racconto, narra lo sconcerto e il rammarico per il film che all’epoca lei e Del Fra non riuscirono a realizzare. Al Corriere, lucida e commossa, racconta: «Sono le fotografie che mi ricordano le cose, perché io sto perdendo la memoria. Non mi ricordavo di queste due scatole. E poi le ho prese, le ho aperte, ho cominciato a guardare i provini e c’erano cose di cui non mi ricordavo più e che invece mi sono ritornate perché ... la fotografia recupera il tempo,recupera lo spazio, recupera le sensazioni, recupera tutto». La signora Mangini ricorda: «In Vietnam ebbi una gran paura, ma vidi molte cose che altrimenti non avrei capito», ma spiega di non aver mai cercato la verità oggettiva, «che non esiste, ma qualcosa di più profondo, di assolutamente nascosto». Il film all’epoca non riuscì a realizzarlo, per mille difficoltà. «Però il Vietnam ha vinto la guerra», dice in un passaggio del racconto filmico. Il regista Paolo Pisanelli, coautore del film, traccia per il Corriere un bel ritratto della documentarista: «Angela Mangini è stata ed è una figura di grande livello, non a caso hanno lavorato e scritto testi per lei figure come Pier Paolo Pasolini. Fare un documentario su un reportage fotografico ritrovato e su un progetto di film non realizzato non è solo un esorcismo contro il tempo e le occasioni perdute: è il recupero di storie vissute, di immagini affascinanti, di un pezzo importante della Storia di tutti. La resistenza vietnamita è un valore da ricordare, è anche un invito a non arrendersi mai». Forte il profilo che Pisanelli traccia della Mangini: «È stata la prima donna a girare documentari nel dopoguerra, a lavorare come sceneggiatrice di alcuni lungometraggi e di più di quaranta cortometraggi, in gran parte realizzati insieme al marito Lino Del Fra. La sua macchina da presa ha esplorato l’Italia dalla fine degli anni Cinquanta fino ai primi anni Settanta, spesso volgendo lo sguardo al Sud Italia e alla Puglia, per cercare i rituali di una cultura antica che scompariva travolta dalle veloci trasformazioni imposte dal boom economico». Nel 2009 Cecilia ha ricevuto a Firenze la Medaglia del Presidente della Repubblica, «per aver trasmesso alle generazioni future, attraverso la sua attività di cineasta documentarista, alcune delle più belle immagini dell’Italia degli anni ‘50 e ’60».
· Cesare Pavese.
Luigi Mascheroni per "Il Giornale" il 10 agosto 2020. E se Cesare Pavese fosse il nostro minuscolo Céline? Ci sono tanti modi per celebrare l'anniversario del grande scrittore. La rievocazione, l'apologia, il ritratto poetico. Oppure una rilettura della sua parabola umana e intellettuale attraverso il ricordo, a lungo rimosso, di una «bizzarria della storia culturale italiana». Il caso Pavese. Ne parlarono, per un'estate, tutti i giornali italiani, e anche francesi. E poi l'oblio. Era l'agosto 1990, trent' anni fa. E si celebrava, allora come oggi, la morte di Cesare Pavese, uccisosi il 27 agosto 1950, a Torino, in una camera dell'albergo «Roma». Dieci bustine di sonnifero. La bio-bibliografia letteraria di Pavese è nota, e non è il caso di citarla. Il suo percorso politico invece si può sintetizzare in poche date: nel '32-33 acquisì la tessera del Fascio; nel '35 fu condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro per attività sovversiva; nel '36 rientrò a Torino in seguito a una domanda di grazia accolta dal Duce; nel '45 si iscrisse al Pci. Da lì in avanti il nome di Pavese torinese, einaudiano, comunista divenne il simbolo della miglior intellighenzia antifascista. Fino a quando poche pagine di un quadernetto, fino a quel momento ignoto, cambiarono l'immagine e il giudizio sullo scrittore. Di cosa parliamo? Del Taccuino segreto di Cesare Pavese. Un bloc-notes di una trentina di pagine al quale tra l'inizio del 1942 e il dicembre 1943, quando era rifugiato sulle alture della campagna piemontese, prima a Serralunga di Crea poi al Collegio Trevisio di Casale Monferrato, il poeta affidò alcuni appunti sparsi. Il quadernetto fu trovato dal giornalista Lorenzo Mondo fra le carte dello scrittore a casa della sorella Maria, nel 1962. Ne fece delle fotocopie e poi lo consegnò a Italo Calvino negli uffici torinesi dell'Einaudi. Passò del tempo, del taccuino non se ne seppe più niente, Calvino non prese in considerazione la possibilità di pubblicarlo, e poi sparì (ma rimasero, per fortuna, le fotocopie). Finché l'8 agosto 1990 Lorenzo Mondo decise di rendere pubblici gli appunti di Pavese su La Stampa. E qui inizia un vero dramma esistenziale per l'intellighenzia italica. Le annotazioni di Pavese sono una bomba. Lui, antifascista e poi iscritto al Pci, in quei foglietti si lancia in invettive contro gli antifascisti e la loro stupidità, riflette sul fascismo come disciplina di vita utile agli italiani (il fascismo che ha il grande merito di dare al popolo italiano una vera visione dello Stato), parla con tono indulgente di Mussolini e della Repubblica di Salò (e spera che possa emergere vincitrice dalla guerra poiché questo nuovo fascismo rappresenterebbe un ritorno al progetto iniziale del primo manifesto di Mussolini), arriva persino quasi a giustificare gli eccidi nazisti (anche i rivoluzionari francesi facevano cose simili). Capite che non si tratta di vezzi di un intellettuale irregolare, di pose di un irriducibile enfant terrible Qui siamo di fronte a posizioni radicali. All'epoca l'estate 1990 si scatenò una polemica feroce. La pubblicazione del taccuino infiammò la stampa, scatenando una campagna diffamatoria senza precedenti (si accusò persino lo scopritore del quadernetto: meglio avrebbe fatto a starsene zitto). In una sorta di isteria collettiva i vecchi amici di Pavese, ex partigiani e critici letterari fecero di tutto per smentire, smussare, contestualizzare e addirittura confutare l'autenticità del documento (qualcuno arrivò a dire che magari si trattava di prove narrative: gli appunti come pensieri da mettere nella testa del protagonista di un romanzo). Giancarlo Pajetta definì Pavese «vigliacco e disertore». Fernanda Pivano confessò: «Io l'ho sempre idealizzato come un antifascista puro. Leggere questo taccuino mi fa sentire come se mi avessero pugnalato alla schiena». Mentre Luisa Sturani definì Pavese «un eterno adolescente, un uomo tormentato, nevrotico». Soprattutto né la Einaudi né altri editori se la sentirono di pubblicare lo scomodo taccuino. Che rimase confinato in ritagli di giornale e fotocopie pirata. Fino a oggi. Un altro editore torinese, meno ideologizzato e più elegante di Einaudi, ha portato a termine un'operazione filologicamente inappuntabile pubblicando in volume la trascrizione degli appunti con l'anastatica delle 29 pagine del bloc-notes, un intervento di Angelo d'Orsi che fa da introduzione, la testimonianza di Lorenzo Mondo, una lunga nota della curatrice, Francesca Belviso, e un'appendice con gli articoli di stampa che nel 1990 diedero corpo al caso Pavese (fra gli altri, di Mario Baudino, Pierluigi Battista, Franco Ferrarotti, che parla dei letterati italiani come «i campioni del pettegolezzo e delle grandi cene intellettuali in terrazza», Gianni Vattimo, Natalia Ginzburg, forse la più indulgente con il vecchio amico). Ed eccolo qui l'ultimo inedito pavesiano a non aver mai visto la luce in un libro Einaudi: Cesare Pavese, Il taccuino segreto (Aragno, pagg. CXXVI+174, euro 25). Da notare che il testo del Taccuino è stato raramente oggetto di analisi da parte di critici e specialisti, che hanno preferito dimenticare le contraddizioni - altri direbbero le fragilità - di uno dei nomi più alti del nostro 900 letterario. Il quale, grandissimo poeta e romanziere, fu incapace come nota Francesca Belviso nel suo imperdibile ritratto in chiaroscuro dello scrittore di sciogliere il suo vero dilemma: «esser nato nella culla dell'antifascismo italiano, crescendo accanto a uomini della tempra di Leone in uno dei bastioni della lotta partigiana e della cultura engagé e costituendo in tal modo una sorta di eccezione». La realtà, leggendo il taccuino e ripensando alla biografia dello scrittore, è molto più sfumata di quanto gli opposti furori ideologici vogliano insinuare. «È dei nostri, no è dei nostri...». Come l'iscrizione al Partito fascista per Pavese era stata priva di un vero significato ideale o ideologico, così l'iscrizione dopo la guerra al PCI fu un'adesione senza militanza. «Pavese è persuaso che tutto sia concesso, tutto si possa perdonare al poeta: egli compie ognuno di quei gesti con una sorta di purezza; ovvero, inconsapevolmente, cioè senza una coscienza politica» scrive Angelo d'Orsi. Un Pavese impolitico, dunque, del tutto lontano da ogni forma di impegno politico autentico. Che, forse, è la cosa peggiore che si possa dire di un intellettuale di quell'epoca. E cioè che Pavese non fu fascista fino in fondo. Ma neppure un vero antifascista.
Maurizio Crosetti per “il Venerdì - la Repubblica” il 10 giugno 2020. Questo tesoro l' abbiamo tenuto sulla scrivania per quattro giorni, sfogliandolo come il più fragile oggetto del creato. Era rimasto chiuso in una valigia per novant' anni, poi la nipote di Cesare Pavese, una signora di 92 anni di nome Maria Luisa Sini, ce l' ha affidato perché potessimo cercarvi una presenza, un segno. È un dattiloscritto di 304 pagine corrette a penna stilografica con inchiostro nero, la carta quasi una velina, la grafia elegante e nitida. Il testo è rilegato con due graffe arrugginite e sulla copertina reca, in alto a destra, una serie di monogrammi «CP» vergati dall' autore ventiduenne: per la precisione undici, più uno cancellato. In azzurro chiaro, probabilmente incise con una matita a pastello, due scritte: «Walt Whitman», al centro, e in basso a destra la firma: «Pavese». Si tratta della prima stesura della sua tesi di laurea, Interpretazione della poesia di Walt Whitman. L' anno era il 1930. Il mese, agosto. Un documento emozionante e prezioso, pieno di cancellature, correzioni, aggiunte e annotazioni che Pavese inserì nella sua tormentata tesi dapprima rifiutata dal relatore, professor Federico Olivero, perché "troppo scabrosa", poi accettata dal docente di letteratura francese, professor Ferdinando Neri. Un evidente compromesso: in realtà, le ragioni del contrasto erano politiche. Whitman è un poeta della libertà, e il nascente fascismo non poteva accettarlo. Gli interventi di Pavese nella redazione finale furono molteplici. Eliminò molte parti scritte in inglese, e soprattutto le sue traduzioni di Whitman, rimaste inedite per quasi un secolo. Il Venerdì è in grado di proporne uno stralcio. Il futuro traduttore di Moby Dick, appena due anni più tardi (1932 per Frassinelli), autore di romanzi fondamentali e ancora ricchissimi di potenza espressiva e poesia, si sarebbe tolto la vita esattamente vent' anni dopo, il 27 agosto 1950. Nel settantesimo anniversario della morte, l' editore Einaudi, di cui Cesare Pavese fu non solo un grande autore ma un fondamentale e infaticabile redattore, manda alle stampe nei tascabili una riedizione completa di questi classici della letteratura italiana, con nuove prefazioni di alcuni tra i principali scrittori contemporanei della scuderia di via Biancamano (dal 26 maggio in libreria). L'inedita prima versione della tesi di laurea mostra un Pavese già assai convinto di sé, ai limiti della supponenza. Era solo un ragazzo, ma con il piglio di un critico navigato. È tutta scritta in prima persona ed è, come dire?, parecchio autoriale, in alcuni passaggi decisamente polemica. La si potrebbe quasi definire «un luogo pavesiano», non dissimile in fondo dalla casa paterna a Santo Stefano Belbo, dalla dimora torinese di via Lamarmora 35, oppure dalla vera casa in collina del celebre romanzo del 1948: non è a Torino, come nella finzione narrativa, e neppure in Langa, ma nel Monferrato Casalese, a Serralunga di Crea, ai piedi del santuario. Qui Pavese visse da sfollato dall' 8 settembre 1943 fino alla conclusione della Seconda guerra mondiale, abitando insieme alla sorella Maria, al cognato Guglielmo e alle loro figlie Cesarina e Maria Luisa, proprio lei, la signora che ci ha prestato il manoscritto dalla copertina color carta di pane. La casa di Serralunga è disabitata da vent' anni, ma la famiglia non ha mai voluto venderla. Nel romanzo, il protagonista Corrado passeggia nei dintorni e tra i boschi con il ragazzino Dino, figlio di Cate, che forse è anche figlio suo. Quasi nulla è cambiato. Gli arbusti, il pozzo e il gazebo lasciano immaginare lo scrittore al lavoro, lui che in quegli anni successivi al confino di Brancaleone Calabro insegnò lettere sotto falso nome al collegio Trevisio di Casale Monferrato, dove si presentava come il professor Carlo De Ambrogio. La scuola era gestita dai padri Somaschi, e in quel periodo Pavese si avvicinò un poco alla religione. Qui a Serralunga iniziò a cercare le radici del mito che tanta parte avrebbe avuto nella sua produzione letteraria. Scriveva seduto al tavolo della cucina, unico locale della casa riscaldato da una stufa. Ma Cesare, ricorda la nipote, «non era mica un freddoloso, si lavava con l' acqua gelata e nel letto non voleva lo scaldino, che a quel tempo si chiamava "il prete". Scriveva e traduceva, e una volta fece per me un tema su Dante: ebbene, la professoressa mi mise un 3, però allo zio non ebbi mai il coraggio di dirlo». Dentro questa casa grigia, Pavese mangiava pane e salame e raccoglieva in giardino le mele cotogne che divorava senza attendere che ne facessero marmellata. Ora si sentono latrare cani in lontananza, e ogni tanto sfreccia qualche ciclista. La casa è addossata alla strada, tra frassini e castagni. Si chiama Villa Mario, il nome di un fratello del cognato dello scrittore che morì giovane, combattendo nella Grande guerra. Tra i sentieri che portano al Sacro Monte di Crea, Pavese ebbe la prima ispirazione dei Dialoghi con Leucò, «forse, tra i libri che aveva scritto, quello che lui preferiva», dice la nipote, e l' idea germinale per Il diavolo sulle colline. Gli abitanti del luogo ne parlavano come di un uomo vestito di nero che fumava la pipa, quando lo vedevano scendere dalla scalinata a colonnine per avviarsi nel bosco. Un solitario, un po' un orso. Uno che non dava confidenza, molto timido e sensibile. Nei mesi da sfollato fece amicizia con padre Giovanni Baravalle, insieme parlavano di Dio. «Ma una volta tornati a Torino, credo che in chiesa non sia mai più entrato», ricorda Maria Luisa. La signora ci riceve nel suo appartamento nel quartiere torinese della Crocetta, non lontano da via Lamarmora dove la famiglia della madre e lo scrittore vissero per oltre vent' anni, e dove lei crebbe accanto a Pavese. Maria Luisa Sini è una donna lucidissima e gentile, ex professoressa di italiano. Ha il viso allungato e serio che un poco ricorda quello dello zio, appeso sul muro in una celebre fotografia. Qui c' è anche la vecchia libreria di Pavese, in legnaccio scuro. Un paio di scaffali contengono dei vecchi volumi appartenuti allo scrittore. «Lì sotto c' erano le scatole con i suoi manoscritti, da bambine ci giocavamo attorno, una volta un coperchio se lo mangiucchiò un cane. In quanto alla tesi di laurea, quasi non ricordavamo nemmeno di averla». La signora Maria Luisa parla seduta sulla poltrona, nella penombra del pomeriggio, le mani in grembo. È l' ultima testimone diretta dello scrittore grande e tormentato. «Lui era del 1908, io del '28. In casa non avevamo alcuna percezione che lo zio fosse un genio. Prima che morisse, i suoi libri non mi avevano mai interessato, poi però mi laureai con una tesi su Il mestiere di vivere, il diario in quei giorni ancora inedito, il testo che lo zio aveva sulla scrivania quando si suicidò. Due mesi prima, quando vinse lo Strega (per La bella estate, ndr) gli dicemmo solo "oh bravo, complimenti", ma ricordo che in casa non si fece neppure un brindisi, neanche una piccola cena per festeggiarlo. Siamo sempre state persone di poche cerimonie, non proprio gente da abbracci. Infatti questi mesi di clausura per il coronavirus non li ho patiti per nulla, anche se per certi aspetti è stato peggio che in guerra: allora dopo il bombardamento era tutto finito, e se eri rimasto vivo continuavi la tua giornata. Qui, invece, quando finirà?». La nipote ricorda uno zio introverso, solitario e appartato. «Ma molto sensibile, troppo. Non ci parlava mai dei suoi libri: forse non ci riteneva degni. Mia madre lo venerava, e a me e a mia sorella ripeteva sempre di non entrare nella stanza dello zio, di non mettere disordine, di non disturbarlo. In famiglia avevamo per lui una sorta di ossequio reverenziale. Ogni tanto ci faceva dei regalini, ci dava delle monete, "ecco, compratevi i nastri per le trecce", diceva. Oppure ci portava al cinema. Quando stava scrivendo Tra donne sole, volle sapere da me come sono fatti gli abiti di taffetà, mi chiedeva cose di femmine. In quel campo, lui, beh, lasciamo perdere... Le sceglieva una peggio dell' altra, oh signùr, a parte la Pivano che non volle sposarlo. C' era la donna con la voce roca, per la quale di fatto si fece mandare al confino: quando tornò, e alla stazione di Porta Nuova seppe che lei nel frattempo si era sposata, cadde svenuto. E poi quell' americana, l' attrice, l' ultima. Eppure lo zio era un bell' uomo, era alto e non privo di fascino: alle donne piaceva. Ricordo che una sua allieva gli mandava ogni settimana un mazzo di rose rosse, soltanto che lei era brutta, poverina». Il pensiero va alle ultime settimane della vita di Pavese, agli ultimi giorni. Il racconto di Maria Luisa è un sussurro. «Si vedeva che non stava bene, altroché. Era deluso anche dopo avere vinto il Premio Strega, stremato dopo avere scritto in due mesi La luna e i falò quasi di getto. Diceva di sentirsi come un fucile sparato. Era nauseato, vittima di maldicenze. Il mondo della cultura è sempre stato pieno di invidie e gelosie. Gli avevano fatto pesare di non avere combattuto, di non essere stato partigiano, i comunisti specialmente. Ma lo zio aveva l' asma, ogni sera faceva i suffumigi nel bacile: come partigiano sarebbe morto in tre giorni, non era mica Fenoglio! Visse riparato e solo, lavorando sempre». Fino a quel temporale d' agosto, pochi giorni prima del suicidio: «Si scatenò il finimondo e il vento spalancò le finestre, anche quella della camera di mio zio. I fogli del diario andarono all' aria. Noi entrammo con mille cautele, rimettemmo in ordine ma senza leggere neppure un rigo. Se l'avessimo fatto, forse avremmo capito, forse saremmo riusciti a mandare lo zio da un medico per farlo aiutare». Sono le celebri pagine finali de Il mestiere di vivere. Sedici agosto 1950: «Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce». Diciassette agosto: «Nel mio mestiere dunque sono re (...) Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? Niente. Questo il consuntivo dell' anno finito, che non finirò». Diciotto agosto, ultime righe, nove giorni prima della morte: «Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l' hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». Non compresero il dramma Maria Luisa e la sorella Cesarina, non il cognato e la moglie Maria. «Però la mamma devo dire che si stupì poco: suo fratello già a quindici anni parlava di suicidio, il vizio assurdo, come scrisse Davide Lajolo. Ma a quel tempo c' era meno attenzione al prossimo, eravamo usciti dalla guerra, si viveva in modo più aspro. Mio papà faceva l' impiegato, e gli scrittori non erano delle star, guadagnavano anche pochino. Lo zio fu sempre vestito dalla sorella, che non spendeva poi chissà quanto per gli abiti o le scarpe di Cesare: il quale, devo ammetterlo, non era un elegantone. La sua sciarpetta bianca, dopo la morte la regalarono a un contadino. Abbiamo vissuto per due decenni con Cesare Pavese, eppure lo consideravamo un poco un perditempo, un fafiochè come si dice qui in Piemonte, non proprio un gigante delle lettere. Tra noi e lui c' era una sorta di paratia, non per cattiveria: eravamo fatti così. Dopo la sua morte, a casa vennero Calvino e la Ginzburg per prendere il diario, e nella prima edizione furono tolte alcune parti troppo personali. Così aveva chiesto mia madre, e all' Einaudi si dissero d' accordo. Mi viene ancora in mente lo zio che si riferisce ai fogli del diario sul suo tavolo, e ci ripete: "Questa è una cosa molto importante, non dovete toccare per nessun motivo", e noi purtroppo abbiamo ubbidito». La signora Maria Luisa fa una pausa. Ha parlato molto. Forse, anche a sé stessa. Ci mostra uno sgabello a righe bianche e rosse: «Lo ricavammo da una poltrona di mio zio». Quando Cesare morì era così giovane, e lei adesso ha superato i novant' anni, due in più del manoscritto che pare fatto d' aria. La signora lo porge dentro un sacchetto di carta, solo a guardarlo si ha paura che si rovini. «Una cosa che vorrei indietro è la voce di mio zio. Naturalmente ricordo come parlava e non era per niente forbito, usava un italiano normale, lineare, con qualche vocabolo in dialetto. Discorrendo con noi in famiglia, non faceva mai l' intellettuale. Peccato che la sua voce non sia presente in nessun archivio, non sia rimasta incisa su nessun nastro. Ora che sono tanto vecchia sarebbe bello riascoltarla».
· Dan Brown.
Cristina Marconi per “il Messaggero” il 3 ottobre 2020. Meglio uno scrittore con una vita sentimentale scoppiettante che «l' uomo più noioso della terra». E questo non vale solo per gli esordienti, evidentemente, ma anche per chi ha già all' attivo un bestseller galattico come Il codice da Vinci e altri successi di tutto rispetto. O almeno così la pensa l' editore di Dan Brown, lo scrittore americano a cui l' anno scorso la ex moglie, da cui ha divorziato dopo ventuno anni di matrimonio, ha fatto causa per aver mentito sull' entità della sua ricchezza in un documento ufficiale e per aver attinto al patrimonio di coppia per finanziare le sue avventure extraconiugali. E in particolare per aver regalato un cavallo da trecentomila euro all' istruttrice di equitazione della moglie, con cui aveva una storia.
LE RIVELAZIONI. «Stai scherzando? Tutti pensano che tu sia l' uomo più noioso della terra e invece hai varie relazioni con belle donne, finalmente abbiamo una storia!», gli ha risposto felice il suo editore quanto il cinquantaseienne Brown l' ha chiamato preoccupato dall' impatto che quella vicenda e quelle rivelazioni potevano avere sulle vendite dei libri. Con più di 80 milioni di copie del Codice vendute dal 2003 a oggi, Brown non ha molto di cui preoccuparsi. Ma come ha raccontato in un' intervista al Sunday Times, «bisogna ricordare che per anni non c' è stato niente» e che «fare presentazioni davanti a delle sedie vuote» come ai tempi di Angeli e demoni nel 2000 è qualcosa che «continua a portarsi dentro». Ora lo scrittore vive solo con un gatto e un cane in una magione del New Hampshire, si sveglia ogni mattina alle 4, medita e scrive per tutta la mattina in uno studio senza internet e senza telefono, facendo flessioni e piegamenti ogni ora. «Amo vivere da solo», ha aggiunto, raccontando che «verso la fine del matrimonio» con Blythe Newlon, «quando stavamo entrambi cercando conforto altrove, ho incontrato una persona», ossia l' istruttrice ventenne di equitazione a cui avrebbe regalato, oltre al famoso cavallo da dressage, anche una macchina e i lavori di ristrutturazione di un cottage con maneggio a sessanta chilometri da Amsterdam. Ma lo scrittore sarebbe stato legato anche, secondo le cronache, a una parrucchiera del New Hampshire e a una personal trainer.
LA CARRIERA. La Newlon sostiene di aver svolto un ruolo importante nella carriera del marito e che molte delle idee che lui ha poi utilizzato sono state discusse insieme, anche se non sempre lui le avrebbe raccontato tutto dei progetti che aveva e dai quali traeva proventi che non le rivelava, almeno stando a quanto dicono gli avvocati. E pensare che nel 2004 un articolo del Guardian lo descriveva come un uomo abitudinario, una noia anche per i biografi, non esattamente «un' esplosione di edonismo».
Paola De Carolis per il "Corriere della Sera" il 2 luglio 2020. «La mia ricercatrice, la mia editor, la mia musa. Non credo che avrei scritto il Codice Da Vinci senza di lei». Così Dan Brown spiegava nel 2006 a un giudice dell'Alta Corte di Londra il ruolo della moglie Blythe nell'ideazione e la scrittura dei suoi romanzi. Sua la passione e la conoscenza di Leonardo Da Vinci, suo l'interesse per il trattamento delle donne nella chiesa cattolica, sua la determinazione a inserire la possibilità che la linea sanguinea di Gesù fosse sopravvissuta alla crocifissione. «A me all'inizio era sembrata un'idea eccessiva, ma mi ha convinto». Sono passati 14 anni, il matrimonio è finito e Blythe, che a lungo è stata contenta di lavorare silenziosamente al fianco del marito, vuole la sua parte. Il divorzio è stato finalizzato amichevolmente a dicembre, ma da allora l'ex signora Brown è venuta a conoscenza di fatti che, sostiene, cambiano sostanzialmente la situazione. Come le quattro relazioni extraconiugali avute dal marito, una delle quali, con una donna olandese, lo avrebbe portato a spendere cifre non indifferenti. O i ricchi progetti concordati in segreto, nonché i fondi sistematicamente sottratti dal loro patrimonio comune. Ecco, dunque, le premesse della causa intentata nel New Hampshire, negli Usa. «Dan ha vissuto una proverbiale vita di bugie». A tutti gli effetti,«ha condotto una vita clandestina». Con un comunicato, Brown si è detto «sconcertato da accuse che non riflettono la verità». A Blythe non ha nascosto nulla, precisa, e con il divorzio l'ex moglie ha ottenuto il 50% dei beni. «Per ragioni note solo a lei e possibilmente al suo avvocato ha creato un resoconto immaginario e vendicativo di alcuni aspetti del nostro matrimonio, teso a danneggiarmi e imbarazzarmi». Blythe sostiene invece che la vendetta non c'entri. Ha deciso di fare causa per «difendere i suoi diritti e la sua autostima». «Insieme abbiamo lavorato moltissimo con l'intenzione di costruire qualcosa di significativo. Con l'affermazione sono arrivate le promesse che non avremmo permesso al successo di cambiare la nostra vita. Non riconosco l'uomo che Dan è diventato. E' il momento di svelare le sue menzogne. Dopo tanto dolore, è l'ora della verità». L'amarezza per il naufragio di un'unione lunga e fruttuosa è sicuramente la miccia che ha scatenato la battaglia, ma il contribuito di Blythe è difficile da sopravvalutare. Quando la incontrò, Dan era un cantautore alle prime armi. Lei, di dodici anni più grande, era ai vertici della National Academy for Songwriters di Los Angeles. Il suo primo contratto discografico si deve a lei, che alla stampa specializzata lo paragonò a Paul Simon. Fu sempre lei, nel 1993, a convincerlo a cambiare mestiere e a dedicarsi alla scrittura, lei ad aiutarlo a scrivere il primo libro e poi tutti gli altri, lei a ripetergli instancabilmente che aveva «talento e creatività infiniti» e che con un po' di disciplina e applicazione avrebbe potuto arrivare ovunque. «Sono stati partner letterari per oltre trent' anni», precisa l'avvocato di Blythe. «Insieme hanno raggiunto traguardi che mai avrebbero immaginato». Per Dan, adesso, ci sono nuove opportunità. La prossima primavera, Covid permettendo, Il Codice Da Vinci approderà in Inghilterra per una lunga tournee teatrale. Già firmato, inoltre, anche il contratto per un libro per l'infanzia, Wild Symphony , per il quale Brown avrebbe scritto anche la colonna sonora. Forse sono difficili da mandare giù anche le nuove avventure professionali di un ex.
· Dante Alighieri.
Dall'islam alla patria questa "Commedia" è tutta da censurare. Altro che Charlie Hebdo! La critica più feroce a Maometto è stata prodotta non da vignettisti francesi ma da un poeta italiano, si chiamava Dante Alighieri e scrisse un lungo poema intitolato Divina Commedia. Camillo Langone, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. Altro che Charlie Hebdo! La critica più feroce a Maometto è stata prodotta non da vignettisti francesi ma da un poeta italiano, si chiamava Dante Alighieri e scrisse un lungo poema intitolato Divina Commedia che, forse per distrazione, è ancora presente nei programmi scolastici. Per distrazione o totale incomprensione del canto XXVIII dove l'autore getta i «seminator di scandalo e di scisma», tra cui il fondatore della religione islamica, nel fondo della nona bolgia. In versi tra i più sconci e impietosi dell'Inferno il profeta arabo appare «rotto dal mento infin dove si trulla», ossia dove si emettono i peti. Al confronto appaiono piuttosto rispettose, le caricature che nel 2015 causarono 12 morti nella redazione del settimanale satirico francese (il processo ai complici di quel massacro compiuto in nome di Allah si tiene proprio in questi giorni a Parigi). Il cristianissimo Dante col maomettanissimo Maometto non fa satira, non usa l'ironia, non ricorre a eufemismi e mostrandolo sventrato descrive il «tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia». Molto offensivo! Poco inclusivo! Anche Papa Francesco dovrebbe trovarvi da ridire, lui che ha firmato la Dichiarazione di Abu Dhabi, documento cattolicamente eretico e dunque mondanamente allineato in cui le diverse fedi vengono dichiarate equivalenti. Gesù e Maometto pari sono per l'ineffabile pontefice gesuita che, coi cadaveri di Charlie Hebdo ancora caldi, disse che non si deve ridicolizzare la fede altrui, di qualunque fede si tratti, e che il blasfemo «si aspetti un pugno».
Che cosa dovrebbe aspettarsi ora questo Dante Alighieri?
L'Italia pullula di statue dedicate a un siffatto islamofobo: che farne? Imbrattarle come a Milano è stato imbrattato Montanelli, abbatterle come negli Usa è stato abbattuto Colombo? I nuovi iconoclasti non se ne sono ancora accorti, di un così riprovevole personaggio, ma appena lo faranno sarà a rischio il grande monumento di Trento, simbolo dell'italianità trentina, e quello di Firenze a cui Leopardi dedicò una poesia importante. Alle orecchie contemporanee il suo poema suona insopportabilmente monoculturale, monoetnico. «Diverse lingue, orribili favelle»? Poteva scriverlo solo un reazionario insensibile al fascino del meticciato... Poi se il poeta fosse stato un sincero democratico non avrebbe collocato in Paradiso l'antenato Cacciaguida (un ultrazzista, un suprematista fiorentino), non gli avrebbe fatto da megafono quando dice che «sempre la confusion de le persone, principio fu del mal de la cittade», non gli avrebbe consentito di discriminare perfino gli abitanti di Figline Valdarno, di definire puzzolenti i contadini di Signa. Il trisavolo per giunta fu un crociato: in una Commedia riveduta e corretta, riscritta a misura di sensibilità immigrazionista da un Erri De Luca o da un Franco Arminio, dovrebbe starsene sprofondato nel nono cerchio infernale, assieme a Matteo Salvini e Donald Trump. Aleggia un nuovo Braghettone: come Daniele da Volterra coprì le nudità divenute intollerabili della Cappella Sistina, uno scrittore moralista (i succitati oppure Gianrico Carofiglio) potrebbe coprire i versi capaci di angosciare gli studenti non bianchi. «Ahi serva Italia, di dolore ostello, / / non donna di province, ma bordello!» sono endecasillabi da cui trasuda imperialismo, colonialismo ante litteram: non posso credere che un simile testo sia ancora insegnato tale e quale, senza omissioni, nelle scuole di conformismo che sono le scuole italiane... Oggi la Divina Commedia non si potrebbe più scrivere: fino a quando potremo leggerla?
Amore felice, amicizia e altre magie del giovane Dante. Sullo sfondo della turbolenta Firenze medievale, in tumultuoso sviluppo economico e finanziario, il giovane Dante, prima che la passione politica lo travolga e ne determini la rovina e l'esilio, scrive la sua Vita Nova e sceglie Amore come suo unico Dio. Camillo Langone, Domenica 20/09/2020 su Il Giornale. Sullo sfondo della turbolenta Firenze medievale, in tumultuoso sviluppo economico e finanziario, il giovane Dante, prima che la passione politica lo travolga e ne determini la rovina e l'esilio, scrive la sua Vita Nova e sceglie Amore come suo unico Dio e Signore. È entrato a far parte di una cerchia di amici capitanata da Guido Cavalcanti, ricco, bellissimo, agilissimo nella mente e nel corpo, che si dichiarano Fedeli d'Amore, e riscrivono in versi dal nuovo stile il lessico delle gioie e dei tormenti del cuore. Dante si spinge più in là. Crea il mito di Beatrice, verso cui professa, come scrive Borges, una «adorazione idolatrica»: per il giovane poeta Beatrice è tutto, è la ragazza di cui si innamora e le cui brevi vicende mondane, ritmate dal numero nove - tre volte tre, il numero di Dio - sono racchiuse in un incontro, un saluto, il rifiuto di un saluto e la morte prematura. Ed è un fantasma, il simbolo della Sapienza e della Bellezza Angelica, che illumina, ingentilisce, scaccia ogni sentimento violento, e porta dal cielo in terra il suo miracolo nuovo. Guido si chiude nel suo disperato, eroico materialismo. Dante, per onorare Beatrice, per dire di lei «quello che mai non fu detto di alcuna», intraprenderà il suo percorso di pellegrino celeste verso la conoscenza del mistero di Dio. Ma questo giovane, la cui anima conosce già vastità infinite e turbinose moltitudini, è capace di tradire l'oggetto della sua idolatria. Nelle Rime troviamo una poesia che è la più straordinaria celebrazione della giovinezza che la letteratura universale conosca. E lì Beatrice non c'è. Una poesia che parla di un desiderio e di un piacere del tutto mondani, di una aspirazione alla felicità concreta, vissuta nel sogno ma anche nella carne. È il sonetto Guido i' vorrei che tu e Lapo ed io. Un suo tema è l'amicizia, intesa come complicità, come condivisione di esperienze in una cerchia a sé stante, impermeabile al mondo. Un altro la magia, con la convocazione sulle rive dell'Arno del Mago Merlino, il «buono incantatore», dalle brume della favolosa Bretagna. Un altro ancora il viaggio, senza famiglia, senza impedimenti, tra compagni, in mare aperto e senza meta. E infine l'amore, che qui chiede di essere corrisposto come garanzia di felicità. Beatrice non c'è, nella navigazione magica del giovane Dante. Sul vascello del desiderio c'è madonna Vanna per Guido, madonna Lagia per Lapo, e per lui? Per Dante c'è «quella ch' è sul numer de le trenta». L'espressione può sembrare criptica e impoetica, ma certo gli amici complici l'hanno afferrata al volo. Dante, alla maniera dei trovatori di Provenza, aveva scritto una poesia in cui elencava le sessanta più belle donne di Firenze. Eco certo delle «sessanta regine» di cui parla Salomone nel Cantico dei Cantici. Chi era «sul numer de le trenta», al trentesimo posto? È lei che Dante vorrebbe sul vascello incantato. Una donna in carne ed ossa, di cui non conosceremo mai il nome. Una donna con cui «ragionar d'amore», e che fosse contenta di farlo, come di certo lo sarebbe lui. La giovinezza, eterna forma di follia chimica, spinge a sognare tutto questo. Il giovane Dante, di cui molti continueranno a preferire la maschera di severità, cupezza, odio, impegno civile, lo ha sognato. E poi, da maturo viandante dell'universo, è tornato lì, all'identità di Dio e di Amore scoperta nella sua giovinezza: all'idea di Amore come energia che muove tutto: la poesia, i desideri, il mare, «il sole e l'altre stelle».
· Diego Dalla Palma.
Candida Morvillo per il "Corriere della Sera" il 28 novembre 2020. Quelli compiuti da Diego Dalla Palma il 24 novembre sono 70 anni votati alla bellezza delle donne. Ha calcolato di averne truccate forse trentamila: attrici, cantanti e donne comuni. Nato figlio di pastori, da bambino, le dive che avrebbe reso ancora più belle le vedeva solo sulle riviste che, di rado, qualcuno portava su ai pascoli. Dal 1978, il suo nome splende su cofanetti di make up nelle profumerie più eleganti del mondo. Lui ha scritto una decina di libri, ha condotto programmi radio e tv (l' ultimo è Uniche , su RaiPremium). Il New York Times l' ha definito «profeta» del Made In Italy.
La bellezza come entra nella sua vita?
«Guardando mia madre a Làmbara, luogo isolato da tutto, sulle Alpi Venete, tra vacche, capre e maiali. Era bella come Amália Rodrigues, la cantante di fado, e portava il rossetto anche fra le vacche. La bellezza è intraprendenza: è scegliere qualcosa che ci appartiene e ci distingue».
Detta così, sembra facile.
«Aggiungo: la bellezza è luccicanza, è il dolore che ti brilla negli occhi e non ti sconfigge. Frida Kahlo, Maria Callas, Edith Piaf... le icone sono passate da quel dolore».
Lei la luccicanza ce l' ha?
«Credo di sì. Non lo dico da lagnoso, ma di dolore sono morto tante volte. Ho visto la morte quando sono stato in coma per una meningite, a sei anni. Di quella nebbiolina lilla, ricordo la sensazione meravigliosa di avere una vita aerea. Conoscere la caducità della vita mi ha permesso di vivere profondamente».
Come diventa lookmaker un figlio di pastori?
«Disegnavo sempre visi dalle labbra pittate e l' insegnante di disegno capì quant' ero tormentato e che vita terribile avrei avuto senza l' arte».
Tormentato perché?
«Ero gracile, effeminato, sensibile e perciò pesantemente bullizzato. Se non fossi andato via, mi sarei ucciso. Però, chi mi ha fatto male non sa che mi ha scatenato il motore della personalità. Sono andato via per non morire e perché mia madre voleva che facessi ciò che lei non aveva potuto fare. Insomma, fui mandato a una scuola d' arte a Venezia con convitto dai preti. È stata la mia salvezza, ma lì ho avuto le attenzioni di un prete di 120 chili, padre Ugo. Eppure, non provo rancore. Prima di morire, mi chiamò e mi chiese: Dieghino, mi vuoi bene? Gli risposi di sì. Mi dissi: lascialo andare in pace».
A che età fu abusato?
«A quasi 15 anni, per due anni. Ma non la vivevo tanto come una violenza. Pensavo: sto qua, vado a scuola, qualcosa devo restituire».
Anni fa, si è dichiarato pansessuale.
«La predisposizione a sentire fremiti o sentimenti per donne e uomini è un patrimonio. In verità, l' ho abbandonata dopo un grande amore con una donna. Dopo, sono andato più verso l' omosessualità e ho ricordi meno belli. L' ammetto: ho molto peccato».
Peccato come?
«Ho messo il sesso come primo valore, sbagliando.
L' ho praticato anche con più persone insieme. E coi tradimenti ho rovinato gli amori».
Non teme di raccontarsi.
«Non voglio dirmi migliore di come sono. Ho la necessità febbrile sia di carnalità sia di spiritualità. E dico tutto perché non voglio ricatti».
Qualcuno ci ha provato?
«Almeno dieci volte. Sono stato un erotomane dai 24 ai 40 anni, ma nessuno può pensare di rovinarmi: sono stato solo con adulti consenzienti».
Erotomane non lo è più?
«È successo lentamente, dopo la morte dei miei. Ho iniziato a chiedermi a che mi ha portato tanto sesso e la risposta è: vuoti esistenziali».
Le farò i nomi di alcune dive con cui ha lavorato. Com' era Dalida?
«Un mistero quasi funereo. Era quella bellezza».
Monica Vitti?
«Era la modernità».
Anna Magnani?
«Era l' impulso».
Mariangela Melato?
«Mi ha insegnato che è più straordinaria una vita imperfetta che una perfetta».
Perché è iscritto all' Onlus per l' eutanasia Exit?
«Per morire senza creare disagi e impegni a nessuno».
Il bilancio dei 70 anni?
«Che sono un uomo vitale e felice perché vivo tutti i giorni con l' innocenza del bambino che, per la prima volta, viene portato di fronte al mare».
· Dolce e Gabbana.
Francesco Rigatelli per “la Stampa” il 14 maggio 2020. «Il mondo non tornerà più come prima. Il nostro stile di vita è cambiato per sempre e la moda deve adeguarsi: non solo negozi digitali e meno sfilate, ma anche più attenzione al tempo in casa e a quell' artigianato che è la forza italiana da non perdere nella crisi». Domenico Dolce, 61 anni, e Stefano Gabbana, 57, sono tornati al lavoro nell' ufficio di viale Piave a Milano. «In realtà, lui non se ne è mai andato - racconta Stefano -. Finalmente solo in azienda, Domenico ha sistemato l' archivio, mentre io prima della chiusura sono partito per una vacanza ad Antigua, dove sono rimasto piacevolmente bloccato fino a qualche settimana fa».
Come state vivendo questo periodo?
«Vogliamo recuperare il tempo perduto. Anche dopo le riaperture rimarremo a Milano a lavorare. La nostra azienda è nata nel 1984 con 2 milioni di lire e ancora oggi è un divertimento. Non immaginavamo di arrivare a questi livelli».
Avete lanciato il progetto «Fatto in casa», un modo per raccontare l' artigianato in una fase in cui è a rischio?
«Teniamo molto a questo settore, fondamentale per il made in Italy ora in difficoltà. Con il nostro progetto mostriamo sui social a tutto il mondo le lavorazioni della moda, coinvolgendo anche altri tipi di artigianato. La nostra ultima sfilata si chiamava "Fatto a mano" e "Fatto in casa" ne è l' evoluzione, perché nonostante le riaperture passeremo più tempo tra le mura domestiche».
Niente più sfilate evento?
«Virtuali, registrate, con poco pubblico o senza, la verità è che non lo sappiamo. Qui si va avanti giorno per giorno. In Europa riaprono i negozi, ma in Corea richiudono. In Cina abbiamo lanciato un' esperienza d' acquisto virtuale il più possibile simile a quella reale. La parte creativa dell' azienda funziona, mentre quella produttiva riprenderà a pieno regime solo quando non ci saranno i limiti del distanziamento».
Quanto ci rimetterete quest' anno?
«Bisognerebbe domandarlo al nostro ad, ma sicuramente tanto, come purtroppo è già successo in questi mesi».
Armani propone una rivoluzione del sistema moda e porta la prima linea da Parigi a Milano. Che ne dite?
«Siamo d' accordo, anche perché l' alta moda la teniamo a Milano da quando siamo nati.
Ci fa piacere sapere che non saremo più soli. Nella moda dovremo cambiare e soprattutto dovrà farlo chi faceva sfilare le pre-collezioni».
Come mai molti marchi italiani sono diventati francesi?
«C' è stata una stanchezza da parte di alcuni nell' andare avanti. Un peccato, perché non tutti sanno mantenere le aziende come gli italiani. Noi siamo i migliori».
Perché non nascono più grandi aziende come voi, Armani o Prada?
«Dopo il coronavirus qualcosa succederà. Ci saranno più spazio e una reazione di orgoglio nazionale. Non è impossibile costruire un' azienda dal nulla, ma occorre una vocazione, bisogna essere devoti al proprio lavoro. Se lo si fa solo per i soldi non è alta moda».
Voi siete l' esempio di come l' amore possa trasformarsi in rapporto di lavoro e amicizia. Come gestite tutto questo?
«Certe cose bisogna viverle. Noi ci siamo sempre rispettati e voluti bene. L' amore nel tempo si è trasformato. Il lato fisico magari si è perso, ma restano l' affetto e la fiducia. Siamo cresciuti insieme e anche nelle interviste come questa ci piace confonderci».
È vero Stefano che lei non sapeva nulla di moda prima di incontrare Domenico?
«Sì, Domenico era capo ufficio stile di Giorgio Correggiari e io lo stagista diciottenne con una formazione da grafico pubblicitario e nessuna conoscenza di tessuti. Ho imparato a disegnare mettendo sotto al foglio gli schizzi di Domenico. Ci siamo conosciuti così e ancora oggi ci realizziamo inseguendoci e confrontandoci».
In questo periodo vi siete visti o temevate il contagio?
«Abitiamo nello stesso palazzo, uno al quinto piano e l' altro al sesto. Ci siamo visti appena finita la quarantena di Stefano che era rientrato da Antigua. Lui diceva: "magari sono asintomatico". È rimasto solo con tre cani, Totò, Mimmo, Rosa, e cinque gatti: Zambia, Congo, Mali, Togo e Mio».
Avete finanziato una ricerca sul coronavirus guidata da Alberto Mantovani dell' Humanitas. Cosa vi ha spinto?
«Amiamo la ricerca nella moda e anche nella scienza. Sembra astratta, ma nel migliore dei casi diventa utile a tutti. Così ci pare lo studio del professor Mantovani sulle risposte del sistema immunitario al coronavirus. Non abbiamo mai prodotto mascherine e grembiuli e abbiamo scelto questa strada quando l' epidemia era ancora solo in Cina».
Proprio in Cina una vostra pubblicità è stata considerata stereotipata e dopo qualche screzio sui social Stefano ha chiuso i suoi profili. Ne sente la mancanza?
«No, anzi, meglio così. Noi siamo da sempre politicamente scorretti. Rischiamo di sbagliare, ci guardano male, ma siamo indipendenti. Non esprimersi sui social non significa cambiare. E poi là spesso si incontrano invidia e cattiveria».
Quali sono le tendenze al tempo del coronavirus?
«Con tutti i vestiti fermi nei negozi non abbiamo ancora nuove collezioni. Noi andiamo dal nero di Sicilia ai colori stampati, ma siamo duttili e pensiamo a uno stile dedicato alla casa, che durerà a lungo. Aumenterà la tendenza di quelli che cucinano, che curano il terrazzo e che dipingono mascherine e ceramiche».
Ma in casa gli stilisti consentono vestiti comodi?
«Certamente, senza però perdere il sex appeal».
Dolce e Gabbana: «Chi non sbaglia non cresce». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Daniela Monti. Sul magazine in edicola venerdì raccontano la loro ossessione per l’artigianato, la bellezza, il dettaglio. E, per la prima volta, che cosa hanno imparato dall’esperienza cinese. La presa di coscienza che la bellezza della manualità, delle cose fatte bene, dell’alto artigianato «è diventata basilare nel nostro modo di pensare, di vivere, di essere». E insieme la consapevolezza che «gli inciampi sono quelli che fanno fare un salto in avanti, altrimenti rischi di restare standard. Sempre lì, allo stesso punto». Gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, 61 e 57 anni, si raccontano a7 quarant’anni dopo il loro primo incontro. Si parla di moda — la loro ossessione, vocazione più che lavoro, «l’emozione che proviamo davanti a un ricamo, un tessuto, un pizzo è la stessa per entrambi» — ma anche d’amore, di corse in avanti e di frenate, di politicamente corretto «che è sinonimo di ruffiano» e di «bolle» sul web. Un’intervista che somiglia più ad un bilancio personale che professionale. «Alla mia età ho capito che i sentimenti sfuggono alla parola, non si lasciano rinchiudere in una definizione — riflette per esempio Dolce —. Dire a Stefano “ti amo, ti voglio bene”, non rende giustizia al sentimento privato, personale, unico, che ho verso di lui». Raccontano di quella volta in cui si sono presi a botte, dell’incapacità (di Dolce) di staccare davvero dal lavoro («la mattina — racconta Gabbana — arriva in ufficio con i taccuini pieni dei disegni che ha fatto la sera o la notte, a casa»), della tentazione di vendere «quando ci hanno sventolato sotto il naso pacchi di soldi che sembravano non finire mai» e della voglia di restare liberi «perché con le multinazionali finisce che non crei più». E parlano anche dell’esperienza fatta in Cina nel novembre 2018, che ha avuto un’eco mediatica planetaria: i video della ragazza orientale che mangia la pizza e il cannolo con le bacchette, le accuse di razzismo e di sessismo, l’annullamento all’ultimo minuto dello show organizzato a Shanghai con oltre mille ospiti, il video in cui i due stilisti hanno chiesto scusa. «È stato come tornare dalla guerra: sconfitti, laceri e pieni di ferite. Ma siamo positivi, non abbiamo rancori. Ne siamo usciti più forti di prima», raccontano consapevoli, oggi, che ci sono vittorie che si conquistano solo se si è stati capaci di perdere qualche battaglia (i successi sono graditi, ma raramente sanno essere buoni maestri). Ma nel numero di 7 in edicola domani con il Corriere anche il campione di sci Dominik Paris si racconta a Manuela Croci. Così come Waad al-Kateab, la regista siriana di 29 anni che con il suo documentario For Sama ha ricevuto la nomination agli Oscar: «L’ho girato perché voglio che un giorno mia figlia Sama possa vederlo, per conoscere Aleppo, la città abitata dall’orrore che siamo state costrette a lasciare», ha spiegato a Marta Serafini.
Dolce e Gabbana: «Oggi siamo più forti, sbagliare insegna cosa conta». Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Daniela Monti. A 35 anni dal debutto della loro maison, si raccontano a 7: «Essere stilista non è una professione, è una vocazione». L’augurio: «Che quanto ci è accaduto diventi solo un ricordo». Stefano Gabbana, 57 anni, e Domenico Dolce, 61. Si sono conosciuti all’inizio degli Anni Ottanta (lavorando insieme nello studio dello stilista Giorgio Correggiari) e poco dopo hanno fondato la loro maison Dolce&Gabbana. «Oggi, a 61 anni io e 57 Stefano, ci sentiamo più forti, maturi, completamente focalizzati sul nostro lavoro: entrambi, quando vediamo certe cose - la signora che ricama, ma anche quella che fa a mano le orecchiette, che impasta il pane con il lievito madre -, ci emozioniamo allo stesso modo. Questi sentimenti li proviamo da sempre, ma ora li abbiamo messi davvero a fuoco: abbiamo preso coscienza che la bellezza della manualità, delle cose fatte bene, dell’alto artigianato, è diventata basilare nel nostro modo di vivere, di pensare, di essere. Sono le radici della cultura italiana e sono anche le radici della nostra personalissima cultura», dice Domenico Dolce. E Stefano Gabbana: «Ci nutriamo delle nostre passioni, del nostro mestiere e anche della nostra libertà: siamo nati liberi, siamo cresciuti liberi e continueremo ad esserlo. Non bramiamo ricchezze, probabilmente perché le abbiamo già. La nostra vera ossessione è cercare di creare bellezza. La nostra forza è essere insieme: abbiamo i tavoli da lavoro uno di fronte all’altro, parliamo, parliamo tanto. Abbiamo un modo di procedere molto narrativo». Parlano da quarant’anni. Gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana si sono conosciuti a Milano nel 1980. Il bilancio professionale è nei numeri della loro azienda, arrivata a 1,349 miliardi di ricavi nell’esercizio chiuso a marzo, l’80 per cento all’estero, con una rete di 220 negozi monomarca gestiti direttamente e 80 in franchising, che dà lavoro a 5.500 persone, che diventano 25 mila con terzisti e fornitori. Fra le voci in attivo del bilancio personale c’è invece il loro legame, sopravvissuto alla fine del rapporto sentimentale nel 2004 e raccontato per la prima volta proprio sulle pagine di 7, vent’anni fa. Allora, alla domanda “vi siete mai mollati seriamente?”, Dolce rispose: «Neanche un giorno. Noi viviamo 365 giorni all’anno insieme, attaccati...». E Gabbana: «E se non siamo attaccati fisicamente, lo siamo con la testa».
E oggi? Esiste un nome per raccontare il rapporto che c’è fra voi? Non siete più amanti...
Dolce: «Ci manca pure questo».
...ma neppure solo amici, solo soci, solo colleghi.
Dolce: «Quello che ci lega è un intreccio indissolubile, una forma di amore, di rispetto, di complicità assoluta. Siamo due entità che si sono trovate unite, come lo yin e lo yang. A volte penso che ci siamo incontrati per un destino divino, un disegno, persino contro le nostre volontà. Ci lega la stessa malattia, fobia, idea fissa di coltivare la bellezza».
Il bilancio dei vostri quarant’anni insieme?
Ancora Dolce: «Alla mia età ho capito due cose: che il tempo mi sfugge (un’esperienza può sembrarmi breve anche se è durata quarant’anni e lunghissima anche se è durata poco, ma l’ho vissuta male) e che i sentimenti sfuggono alla parola, non si lasciano rinchiudere in una definizione. Dire a Stefano “ti amo, ti voglio bene” non rende giustizia al sentimento privato, personale, unico, che ho verso di lui. Tanta gente ama qualcun altro, ma il loro sentimento non è uguale al nostro: il nostro è legato a un’idea particolare della moda, all’emozione che proviamo davanti a un tessuto, un ricamo, un pizzo». «Tutti i sentimenti che proviamo li buttiamo nel nostro lavoro», dice Gabbana.
E Dolce: «Ci chiediamo spesso: che facciamo della nostra vita? Che cosa ci rende felici? Che cosa ci dà la serenità di stare qui in ufficio dalla mattina alla sera? L’età avanza, oggi raccogliamo le esperienze, la maturità, la saggezza, la conoscenza, oggi diamo valore a ciò che conta. Da quando nel 2004 la Borsa ha invaso la moda, siamo stati tentati di vendere, ci hanno sventolato sotto il naso pacchi di soldi che sembravano non finire mai. Ma è questo che ci fa felici? Avere quei soldi, ma perdere la libertà di decidere a livello creativo? Abbiamo visto stilisti geniali vendere e pentirsene sei mesi dopo. La moda è finanza? Io penso di no: con le multinazionali finisce che non crei più».
Mai avuto un blocco creativo, raccontano. «Errori tanti, blocchi mai». «Domenico la mattina arriva in ufficio con i taccuini pieni dei disegni che ha fatto la sera o la notte, a casa. Io riesco a staccare completamente, lui mai, persino in vacanza entra in crisi da astinenza dal lavoro», dice Gabbana. E Dolce: «Non è una fatica, mi piace. L’altra sera ero distrutto, poi improvvisamente mi è venuta un’idea e subito ho dovuto schizzarla, per paura di dimenticarmela. Essere stilista per me è avere il “male”, non è una professione, è una vocazione». Così l’anima dell’azienda, raccontano, sono gli abiti — certo insieme alle borse e alle scarpe — «con l’abito parli, ti relazioni, ti distingui dagli altri, racconti quello che vuoi far sapere di te. Il fatto che in questi anni i grandi gruppi abbiano boicottato gli abiti a favore degli accessori, ha impoverito la storia di tutti noi. Cosa racconteremo ai posteri: che in un determinato periodo storico abbiamo portato in giro quella borsa e non quell’altra? L’abito è cultura, la sua funzione è anche terapeutica: quello che indossi deve sedurti, darti serenità, felicità, sicurezza. Quando l’allora sovrintendente della Scala, Alexander Pereira, ci ha chiesto di fare i costumi per l’opera, gli abbiamo risposto di no perché non ci sentiamo all’altezza: non conosciamo in modo così approfondito la storia e se fai un costume di una certa epoca, devi tagliarlo e cucirlo esattamente come si faceva allora. Siamo ossessionati dai dettagli».
Vestite quasi sempre di nero. Se l’abito è comunicazione, cosa comunicate?
Gabbana: «Non ci mettiamo d’accordo, eppure finisce che ci vestiamo sempre in modo simile: io più sportivo, Domenico più classico, ma il mood è lo stesso. La scelta del nero, ora che ci penso, viene forse dalla necessità di annullarci. È come se fossimo una lavagna su cui poter disegnare».
Dolce: «Non prendiamo mai un abito di sfilata (Gabbana lo interrompe: “Una volta eravamo in taglia, oggi, anche volendo, che potremmo prendere? Un paio di scarpe!”), piuttosto indossiamo completi delle collezioni precedenti, non vogliamo mancare di rispetto ai nostri clienti. E ogni cosa che ci portiamo via dal negozio la paghiamo (abbiamo lo sconto del 30%): alla fine sono sempre soldi nostri, ma quello che conta è l’esempio». «La storia va letta a distanza. Devi sederti sulla riva del fiume e aspettare, come dicono gli orientali. Io l’ho imparato dalla vita: l’attesa dà la risposta», dice Dolce.
Sedersi sulla riva del fiume ad aspettare cosa?
«Che la follia di ciò che ci è accaduto in Cina diventi solo un ricordo», risponde. A un anno e due mesi dai fatti cinesi, gli stilisti raccontano di essere più forti di prima. Dicono che i successi sono graditi - e come potrebbe essere altrimenti - ma raramente sono buoni maestri: ci sono vittorie che si conquistano solo se si è stati capaci di perdere qualche battaglia, cadere e risorgere. La loro battaglia persa si chiama #DGTheGreatShow, l’evento con un migliaio di ospiti organizzato a Shanghai nel novembre 2018. Un’avventura iniziata con tre brevi video lanciati su Instagram in cui una modella cinese tenta di mangiare alcune specialità gastronomiche italiane con le bacchette, e finita in modo rocambolesco, quasi grottesco: insulti sui social (“razzisti”, “sessisti”, “offendete la Cina”), negozi picchettati, boicottaggio da parte delle piattaforme di e-commerce, che hanno sospeso la vendita dei prodotti della maison italiana, video con le scuse dei due stilisti, annullamento della sfilata, precipitoso rientro a casa. «È stato come tornare dalla guerra: sconfitti, laceri, pieni di ferite. Ce le siamo bendate e medicate, ci sono voluti mesi per uscirne. Ma siamo positivi, non abbiamo rancori, abbiamo chiesto scusa nella maniera più onesta del mondo. Basta, finita lì. I clienti non li abbiamo mai persi, chi ci conosce non ci ha mai lasciato», dice Dolce. Gabbana: «Tu sei stato più male di me. Sì, ho sbagliato una comunicazione, ma non volevo offendere nessuno, è stato un errore stupido, naïf. Ci hanno accusati di razzismo: io razzista! Mi ci vedi, Domenico, razzista? Se c’è una cosa che non sono è questa. Nella storia e nella cultura degli italiani il razzismo non c’è. C’è l’accoglienza». Molte aziende occidentali hanno avuto, nell’era del mercato globale, problemi di comunicazione in Cina - Paese che negli ultimi dieci anni ha rappresentato il 38% della crescita dell’industria della moda in tutti i segmenti e le previsioni parlano di un’onda favorevole che durerà fino al 2025 - ma lo schianto a terra di Dolce e Gabbana è stato così violento e ha avuto un’eco mediatica così ampia da diventare un caso di scuola: sui pericoli della comunicazione diretta, non filtrata; sulla trappola dell’“arroganza culturale”; sulla forza e rapidità di reazione dei consumatori quando i loro sentimenti vengono feriti; sull’opportunità di una “neutralità” di linguaggio mirata ad evitare ogni potenziale equivoco o malinteso (se siete fra chi pensa che il politicamente corretto abbia fatto delle vittime, converrete che una di esse è l’ironia).
Il politicamente corretto fa male alla moda?
Gabbana: «I video della ragazza che mangia i cibi italiani usando le bacchette li avevamo pensati come un tributo al Paese. Ma abbiamo imparato che ci sono argomenti che non si devono toccare, perché per gli orientali sono sacri. Comunque politicamente corretto, per me, significa non essere del tutto sincero, avere paura di dire ciò che davvero penso, fino in fondo. Vuole dire restare nel gregge». Dolce: «Politicamente corretto per me è sinonimo di ruffiano, è un’attitudine falsa...». Gabbana lo interrompe: «Non falsa, direi un’attitudine non spontanea e noi due invece siamo super spontanei, diciamo cose che non stanno nel pensiero comune dominante». Dolce: «Gli eventi della vita mi hanno fatto capire che non devo cambiare per gli altri, perché così mi annullerei, non potrei più fare il mio mestiere. Sono coerente con me stesso, ma ho imparato a non esprimermi nel posto e nel momento sbagliato. Continuo a credere nella diversità: non devi pensarla come me per essere mio amico. Conosco persone di tutti i Paesi, di tutte le religioni. Dov’è il problema? Vado alle feste dei miei amici ebrei e sono curioso di tutto quello che riguarda le loro usanze. Poi torno a casa con le mie madonnine, i miei santi e la mia fede. Ma la conoscenza è bellissima, rafforza il tuo sapere o lo mette in dubbio. E se il dubbio vince, ti ritrovi per forza a cambiare». Gabbana: «Siamo diventati saggi non politically correct. Dolce & Gabbana è un’azienda coraggiosa». Dolce: «Anche un po’ incosciente, ma abbiamo fatto così tante esperienze che, se abbiamo un minimo di materia grigia, non possiamo usarle se non per migliorarci».
Vi siete mai presi a botte?
«A Milano, in piazza Cinque Giornate», risponde Gabbana, «lui mi aveva prestato dei soldi e siccome non sono uno che vuole avere debiti, ero pronto a restituirglieli. Ma Domenico non voleva prenderli, allora glieli ho buttati in faccia. Figurati! Mi è saltato addosso». Dolce: «Avevo una camicia di jeans e me l’hai strappata. Che anno era? La Dolce & Gabbana non esisteva ancora, quindi prima del 1985». «Non esiste una sola realtà, ciascuno legge ciò che gli accade intorno secondo le proprie esperienze, le proprie ossessioni, la propria paura, cattiveria o buon animo», riflette Dolce. «Lo capisco, è normale, è una cosa umana. Così c’è chi ha visto nei nostri video lanciati su Instagram a Shanghai un razzismo che non c’era. Anche il nostro lavoro nella moda, in tutti questi anni, è stato letto in modi molto diversi: è stato esaltato, applaudito, frainteso, distorto...». «Ti ricordi cosa ci disse quel tale dopo le prime sfilate? Non uscirei mai con una donna vestita Dolce & Gabbana. E perché mai? A me i nostri abiti ricordano quelli di mia madre, mia nonna, la loro eleganza, la loro magia. A lui ricordavano le troie», interviene Gabbana. E continua: «Il disastro ce l’hanno augurato in tanti, avrebbero voluto vederci morti perché diamo fastidio, siamo cani sciolti, non facciamo parte di nessuna fazione, lobby o gruppo, per cui siamo un bersaglio facile, appena possono caricano il fucile». «A noi la Cina è sempre piaciuta, siamo stati fra i primi a portare le modelle orientali a Milano, abbiamo speso capitali per organizzare sfilate e fare eventi. Chi farebbe certi investimenti in una terra che non ama? Solo uno stupido», insiste Dolce. «Quello che abbiamo fatto in Cina in tutti questi anni è scritto nella storia. Ma il mondo dei social spesso non conosce niente, non è documentato. Vale solo per quel breve arco di tempo in cui fa rumore, con i suoi insulti e i suoi attacchi. È il segno di una decadenza e ha creato una bolla di bugie. Ma, come tutte le cose, arriva e va. Credo che in tanti siano già stufi di questo modello culturale. Non si può vivere senza sapere niente, nessuno può nutrirsi di ignoranza: solo la bellezza fa crescere». Gabbana: «Io ho lasciato i social. Non sono cambiato, ma non mi interessa più far sapere a tutti quello che faccio e che penso. Prima ero spontaneo, ora non mi diverto più».
Dolce: «L’Expo di Shanghai dello scorso novembre per l’azienda è stata un grande successo, una rivincita. Ma dal 2018 noi non siamo più tornati in Cina. Abbiamo viaggiato poco ultimamente: una pausa ci sta. Per la primavera abbiamo grandi progetti». Qualcuno vi chiamò per esprimere solidarietà? Dolce: «Non abbiamo rapporti con nessun collega, diciamoci la verità. Una volta avevamo degli amici, oggi no». Gabbana: «L’invidia fa parte dei sentimenti umani, se riesci ad arrivare in alto perdi tutta una serie di cose fra cui l’amicizia di chi lavora nel tuo settore. Magari qualcuno, nei pensieri, la solidarietà ce l’ha pure data. Ma a parole no».
Dolce: «Dopo un anno e due mesi, posso dire che la scivolata cinese, questo salto mortale triplo dove ci siamo spaccati il collo, ci ha rafforzati: se prima le radici erano a 2,5 metri di profondità, adesso sono arrivate a 5 metri...». Even tried. Even failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better, scrive lo scrittore irlandese Samuel Beckett. Ho sempre tentato. Sempre fallito. Non importa. Tenterò di nuovo. Fallirò di nuovo. Fallirò meglio. Beckett è un paladino della cultura dell’errore. Anche Dolce e Gabbana potrebbero iscriversi allo stesso fan club: in fondo, sostengono, ci sono cose impossibili da comprendere se non si passa attraverso l’errore. «Ho imparato che quando si dice: che sfiga... la verità è che non si è stati capaci di ascoltare la vita. Per superbia, vanità, ignoranza, incoscienza, negligenza. La vita ti punisce, ma è come a scuola, quando hai un maestro severo: la punizione ti rimette sull’attenti. Resetti e riparti», dice Dolce. «Un insuccesso è come un avvertimento», prosegue Gabbana. «Impari a migliorarti. Dici: va bene, ho capito, mi organizzo per fare meglio».
Dolce: «Se poi sei recidivo e non vuoi vedere la verità - perché a volte vedere la verità fa molto male - la colpa è tua. La mia filosofia è mettermi devoto davanti all’errore, studiarlo, lavarmi via tutta la merda che mi è finita addosso, ripartire. Gli inciampi sono quelli che fanno fare un salto in avanti, altrimenti rischi di restare standard. Sempre lì, allo stesso punto».
Gabbana: «Sbagliare è una cosa che nessuno si augura, ma noi cerchiamo sempre di girarla a nostro favore, perché siamo positivi. È difficile beccarci tutti e due down. Se uno è down l’altro è up, o per lo meno fa finta di esserlo».
Mandela diceva: non perdo mai. O vinco o imparo.
Dolce: «Non abbiamo tutta questa sicurezza in noi stessi, però siamo ottimisti verso le persone, la vita, i progetti. Ci piace seminare positività». Gabbana: «L’altro giorno stavamo lavorando al progetto dell’Alta Moda estiva. E, non so perché, mi è venuto in mente di aggiungere un’altra sfilata al nostro evento. Siamo sempre pieni di idee. Se avessimo più soldi potremmo fare tante più cose! Siamo sani, produciamo, ma non disponiamo della liquidità dei grandi gruppi».
Il sogno da realizzare?
Gabbana: «Io voglio poter lavorare fino all’ultimo giorno della mia vita». Dolce: «A me piace sfilare, condividere». Gabbana: «Di’ la verità: il tuo sogno è avere i capelli». Dolce: «Non lo sognavo neppure a vent’anni, figurati oggi. Della testa mi importa poco, sono un passionale, preferisco puntare al cuore».
Domenico Dolce — È nato il 13 agosto del 1958 a Polizzi Generosa, in provincia di Palermo. Il padre è sarto, la madre ha una bottega in cui vende abiti e tessuti. Alla fine degli anni Settanta lascia la Sicilia per Milano: si iscrive a una scuola di moda che frequenta per un anno e mezzo, poi comincia a lavorare nello studio dove incontra Gabbana. È il 1980. Cinque anni dopo, la loro prima sfilata segna la nascita della Dolce&Gabbana
Stefano Gabbana — È nato a Milano il 14 novembre 1962, secondogenito di una famiglia di origini venete, padre tipografo e madre stiratrice. Studia grafica e inizia a collaborare con alcune agenzie di pubblicità, ma la sua vera passione è la moda. Ottiene un lavoro in una sartoria dove incontra Dolce, che è primo assistente dello stilista. La loro relazione sentimentale è terminata nel 2004.
· Donatella Versace.
Da d.repubblica.it il 4 maggio 2020. Donatella Versace il 2 maggio compie 65 anni ed è più che mai una figura centrale e rilevante nel sistema moda. Non solo perché è alla direzione creativa di Versace, una delle maison più conosciute e amate in Italia e all'estero, ma anche perché da quando è scoppiata la pandemia di coronavirus Donatella Versace ha fatto sentire la sua voce. Con donazioni economiche e lettere aperte attraverso le quali ha testimoniato il suo "orgoglio di essere italiana e di poter aiutare il suo paese". Dalla Calabria a Hollywood. Dai primi incarichi col fratello Gianni, alla direzione creativa del marchio della Medusa fino alla vendita miliardaria della maison a Michael Kors del 2018. La storia di Donatella Versace è l'epopea di una diva. Alti e bassi. Vette e precipizi. Tutti affrontati con forza, humour e quella cascata di capelli biondo platino diventata un marchio di fabbrica. Il grande legame con il fratello Gianni, che la vuole alla guida di Versus Versace e del quale raccoglie l'eredità come direttrice creativa di Versace nel 1998 in seguito alla sua morte, il matrimonio con l'ex modello Paul Beck dal quale ha due figli, Allegra (34 anni) e Daniel (30), il leggendario Jungle Dress indossato ai Grammy Awards del 2000 da Jennifer Lopez che ha portato alla nascita di Google Immagini e che è stato riproposto a settembre 2019 nella collezione P/E 2020 con la pop star in passerella, il legame artistico e d'amicizia con Lady Gaga, fino ad arrivare al già citato impegno attivo per far fronte all'emergenza coronavirus degli ultimi mesi: tutto questo e molto altro è la vita di Donatella Versace. Dunque, tanti auguri per questi 65 anni.
· Donatien-Alphonse-François de Sade.
Carlo Nordio per “il Messaggero” il 21 giugno 2020. Il 2 Giugno 1740 nacque a Parigi Donatien-Alphonse-François de Sade. La maggioranza di noi crede di saper tutto di lui, magari senza averne letto nulla perché le sue opere sono sommariamente definite pornografiche. In realtà nel secolo scorso gli intellettuali francesi ne iniziarono una rivalutazione. Nel 1990 i suoi libri furono pubblicati sulla prestigiosa collana della Pléiade, e Sade fu considerato come un importante precursore del surrealismo, dell'esistenzialismo e persino della psicanalisi. È una stima esagerata, e oggi le opere del divino marchese sono trascurate. Ma l'importanza del loro autore fu tale che val la pena di ricordarlo, quantomeno perché il suo nome evoca una delle perversioni più odiose. Era di famiglia nobile e ricca, e come tutti i suoi pari fu mandato a studiare tra i religiosi, prima i benedettini, poi i gesuiti. Ne uscì un ateo radicale che fece della blasfemia quasi una fede. Forse fu influenzato da uno zio abate, dissoluto quasi quanto il nipote. Secondo le regole del tempo, fu avviato alla vita militare, e da principio si comportò bene. Ma presto si coprì di debiti di gioco e di denunce per seduzione, e fu persino incarcerato. A 23 anni si sposò con una ricca ereditiera, ma cinque mesi dopo la cerimonia fu arrestato per débauche extreme et horrible impiété, avendo costretto una giovane prostituta a pratiche sacrileghe. E da quel momento la sua vita fu una continua successione di scandali e di fughe. Pochi anni dopo abbordò una giovane vedova che mendicava a Place des Victoires, e con il pretesto di assumerla come governante la portò ad Arcueil. Qui la costrinse a prestazioni estreme, fino alla dissacrante profanazione di immagini religiose. La poveretta riuscì a fuggire e lo denunciò. Benché recidivo, ne ricevette una condanna abbastanza mite. Ma la misura fu colma quando, il 25 Giugno 1772, l'infaticabile satiro raccattò a Marsiglia quattro prostitute e somministrò loro la cantaride, al tempo ritenuta un afrodisiaco. La sostanza, invece di svegliare gli appetiti delle ragazze, ne addormentò l'intestino, provocando coliche e atroci dolori. Sade fu accusato di «avvelenamento e sodomia», fu condannato a morte, riuscì a scappare e al suo posto fu impiccato un manichino. La Giustizia è vagabonda nello spazio e variabile nel tempo. L'impenitente libertino nel frattempo aveva sedotto la diciannovenne cognata, incidentalmente era una suora, e con lei peregrinò in Italia finché la ragazza lo abbandonò a causa delle sue reiterate infedeltà. Alla fine fu arrestato, estradato in Francia, e rinchiuso in cella. Evase, e fu ripreso. Esasperato, il Re lo spedì allo Chateau de Vincennes, e poi alla Bastiglia. Qui furono composte le sue prime opere che l'avrebbero reso famoso. Per una di queste, Le cento giornate di Sodoma, riempì 33 fogli incollati in un rotolo lungo 12 metri. Il manoscritto fu trovato nascosto nella cella dopo la presa del 14 Luglio, e fu oggetto di varie contese giudiziarie. Oggi è classificato Tesoro Nazionale ed assicurato per 12 milioni di euro. Nel frattempo, il nobile recluso era stato trasferito a Charenton, ma fu liberato quasi subito in base alle nuove leggi rivoluzionarie. Ripudiò i suoi titoli, inneggiò a Marat e agli estremisti anticlericali, e fu eletto presidente di una sezione cittadina incaricata delle epurazioni. Qui si comportò umanamente, e salvò molte vite. Non era un aguzzino crudele, era solo un malato che si eccitava con le sofferenze altrui, soprattutto se erano ragazze. Fu tradito dalla sua irruenza irreligiosa, perché predicò l'ateismo davanti a Robespierre, che detestava questo bigottismo alla rovescia; l'Incorruttibile perse la pazienza, e lo rispedì in catene. L'avvento di Napoleone non gli giovò. Il Primo Console disprezzava la dissolutezza, e non tollerava l'anarchia. I libri di Sade erano un'apologia della prima e un appello alla seconda. Alla fine il ribelle fu rinchiuso in manicomio, dove morì il 2 Dicembre 1814, dopo aver prodotto un'altra serie di romanzi dello stesso tenore. Come Vivaldi, copiò sempre sé stesso. In realtà, più che un pornografo, Sade è un aspirante philosophe, che mira a convincerci, un secolo prima di Ivan Karamazov, che se Dio non esiste, tutto è consentito. I suoi protagonisti sono in genere atei altolocati che si eccitano nell'infliggere dolore, ricorrendo a tutti gli artifizi erotici - feticismo, coprofagia, dominazione ecc - che un tempo di leggevano solo nei trattati di psicopatologia forense e che oggi si trovano gratis su Internet, accessibili anche ai ragazzini. Tuttavia la vera crudeltà del Marchese è quella inflitta all'incauto lettore messosi alla ricerca delle pagine ardite, perché queste sono solo frammenti nell'ambito di divagazioni di insopportabile pesantezza pedagogica. Le megere che istruiscono le ragazzine alle più turpi perversioni sono delle opprimenti dispensatrici di omelie pagane, che con un magistero autoritario e arcigno predicano una amoralità quasi penitenziale. Esse enfatizzano la teoria che in questo mondo la virtù è punita e il vizio ricompensato, e non sono nemmeno originali. Questa amara realtà era già stata lamentata duemila anni prima, con ben altra sapienza, da Giobbe e dall'Ecclesiaste. Jean Paulhan, che nel secolo scorso studiò a fondo Sade cercando di nobilitarne le opere, sostenne una tesi originale, ma in parte fondata: «Sade - disse arrivò in un'epoca in cui una filosofia un po' molle insegnava che l'uomo nasce buono, e che bastasse ricondurlo allo stato di natura perché le cose andassero bene. Mentre lui volle dimostrare che l'uomo nasce cattivo, e che questa malvagità risiede nella sessualità». Concetto che Freud avrebbe ripreso più tardi, con significative variazioni. Maurice Garçon, il celebre avvocato che difese l'editore parigino di queste opere infernali, sostenne che Sade aveva studiato le depravazioni umane come il medico studia le malattie della volontà e della memoria per penetrarne la conoscenza. In altre parole, una sorta di analisi del mostruoso per scoprire il normale. Alla fine, tra tante dotte interpretazioni, preferiamo quella di Jean Cocteau, che da vero esteta insubordinato, fu più lapidario: «Sade è noioso. Il suo stile è debole, e non gli vale nemmeno un rimprovero. L'ultimo libro poliziesco della pudibonda America è più pericoloso della più audace pagina di Justine».
· Eduardo e Peppino De Filippo.
Paolo Isotta per “Libero quotidiano” il 30 marzo 2020. Eduardo Scarpetta è figura dagli aspetti anche sordidi. Cornuto, e se ne vantava: «'E mèe sò corna d' oro!». Il cornificante era Vittorio Emanuele II. Vero è che a Napoli e Palermo vige l'aureo e realistico proverbio «'O Rrè nun fa corna, Lu Rrè nun faci cuorni!». Quante lignées gentilizie delle più illustri hanno per fonte corna regie, e il marito cornificato dal Re non solo non deve adontarsene, deve sentirsene onorato. (Poi il concetto si estese. Nei salotti parigini, il ravennate conte Guiccioli soleva presentare la consorte Teresa così: «Ma femme, ancienne maîtresse de l'illustre Byron!» «Mia moglie, che fu amante dell' illustre Byron!». Medaglia al valore per lui, secondo lui). Attaccato al denaro. Egoista. Infame nella vita famigliare, con figli numerosi di altri letti non riconosciuti. Dalla sessualità anche torbida. Nell'autobiografia “Una famiglia difficile” Peppino De Filippo, uno dei suoi figli, racconta che bimbo, trovandosi in carrozza con lui, si vide infilare la mano sotto i pantaloncini e masturbare. Però era un genio, che in fondo va considerato una reincarnazione borghese e napoletana di Aristofane (solo in parte), Plauto e Molière. Questo gli venne riconosciuto da alti letterati dell' epoca, e Scarpetta resta fra i più grandi autori di teatro. “Una famiglia difficile” è un libro venato di amarezza. Peppino riesce a trasfondere in modo sommamente espressivo il senso di vera esclusione sociale, la profondissima umiliazione che all' inizio del Novecento provava, e si riteneva dovesse provare, chi portava il cognome della madre. Quella dei tre De Filippo era inoltre nipote della moglie di Scarpetta. Uno dei vantaggi dei tempi attuali è che l'onta di essere "figlio di N.N." non esiste più. Ma il libro è venato di amarezza anche per essere un resoconto analitico e sismografico crudele nella sua obbiettività della cattiveria di Eduardo verso Peppino, del disprezzo (nascente da invidia?) di continuo manifestato in pubblico verso di lui. Peppino ingoiò fiele pro bono pacis, anche perché riteneva che la compagnia teatrale dei tre fratelli fosse, com' era, cosa troppo preziosa perché venisse distrutta. Ma nel 1944 non ce la fece più. Ognuno prese la sua strada, e quella di Peppino s'incrociò di nuovo con quella di Titina, anche auspice Totò. E Titina era un altro sommo animale di palcoscenico. Brutta: sapeva trasformare la bruttezza in avarizia e cattiveria sin grottesche. Il suo personaggio in Totò, Peppino e i fuorilegge (alatissima regia di Camillo Mastrocinque) - basta vedere come ella si tocchi i capelli simulando indifferenza - è una delle più grandi interpretazioni femminili che si siano viste al cinema. I quarant' anni da che Peppino ci ha lasciato dovrebbero indurre a una nuova valutazione della sua figura. Egli è stato sempre da molta critica, anche per pregiudizio ideologico, tenuto in ombra dal fratello Eduardo, reputato autore e attore "filosofo" di contro a una figura di routinier. È stato a lungo, in un certo dopoguerra, l' idolo del cretino di sinistra. Venne nominato senatore a vita. Totò, il più grande attore del Novecento, non fu senatore a vita, come Borges non ebbe il premio Nobel. L'autore Eduardo, se si prescinde da certe farse anteguerra scritte per una compagnia della quale i tre fratelli erano l' asse, come il bellissimo Sik sik l' artefice magico, ovvero quando scarpetteggia all altezza del padre, come nel capolavoro Quei figuri di tanti anni fa, era un Pirandello dei miserrimi. L'attore era diventato sempre più lezioso, manierato, assumendo pur egli pose filosofiche e indulgendo in sempre più lunghe pause d'insoffribile retorica. Eduardo attore era davvero grande non, paradossalmente, nelle opere proprie, quanto in quelle del padre naturale: là egli sa abbandonarsi a fantastiche doti comiche; e si veda Lo curaggio 'e nu pompiere napulitano o, ancor più, 'Na santarella. Ma nemmeno sempre: in Miseria e nobiltà non è all' altezza del sommo testo, che attori meno titolati, come Enzo Cannavale e Rino Marcelli, hanno portato alla perfezione; e non parliamo della metafisica del film di Totò. Quando poi ha voluto fare il vero Pirandello, come nel suo adattamento de Il berretto a sonagli, fa cascare le braccia - ed è un eufemismo. Per comprendere uno dei più alti testi del teatro - l' atroce umiliazione sotto velo comico, la vendetta del paradosso filosofico - bisogna vederlo interpretato da Salvo Randone, con lo straordinario Silvio Spaccesi nella parte del delegato Spanò, Anita Laurenzi, Wanda Capodaglio e l' intensissima regia di Edmo Fenoglio . Che tempi! Povero Eduardo. Non so se Peppino abbia impersonato Ciampa: certo sarebbe stato un grande Ciampa. fa pensare e ridere Peppino autore, per cominciare. Gli si debbono garbati o profondi testi di un realismo medio-borghese. La banalità del male (per parafrasare la Arendt), la sofferenza della normalità borghese. Ma un capolavoro assoluto come Don Rafele 'o trombone (che nella realtà musicale è poi un bassotuba), atroce riflessione su una delle realtà più tenacemente negate e più misteriosamente reali che esistano, la jettatura. Ch' è il risvolto dell' altra realtà chiamata disgrazia, sfortuna. Lo jettatore volontario, contrariamente a quanto gl' indotti affermino, non esiste; lo jettatore può anche essere uomo o donna d' eletto sentire; e solitamente è un disgraziato. 'O cane muozzeca 'o stracciato, dice ancora la saggezza millenaria della mia città, il cane morde lo sventurato. Su simile tragedia Peppino riesce a far meditare e insieme a far irresistibilmente ridere. Questa è opera del genio. Peppino è un compositore incompreso perseguitato dalla disgrazia e jettatore. Per vivere, suona il bassotuba in un complessino.
Debbono esibirsi a un matrimonio. Sta vestendosi, è in ritardo, quando entra, terreo, il grande Mario Castellani. «Il matrimonio non si fa più». «E perché?» «Lo sposo, quel bell' uomo alto, roseo, pieno di salute, ha voluto sapere come si chiama il trombone; e quando gli ho detto Raffaele Chianese è caduto a terra stecchito!» Anche questo è uno dei punti più alti del teatro. E le corna subite, ignorate, terribili e godute. In rerum natura credo che il cornuto che non lo sa non esista. Ma quale capolavoro di comico assoluto (e latente tristezza) ne fa Peppino in Spacca il centesimo! Capolavoro di autore e di interprete. Ce n' è una registrazione tarda, e il Sommo riesce a trarre profitto anche da certe lentezze prodotte dalla vecchiaia. L' opposto di Eduardo. Quando si parla dell' attore si pensa subito alla "spalla" di Totò. Ma pensiamo prima al resto. A una tecnica di recitazione fra le più consumate che si siano viste. Tempi teatrali perfetti. La capacità di far scorgere i più varî, e a volte fra loro contrastanti, stati d' animo, dall' intonazione della voce e da una mimica ch' era una complessa partitura musicale. L' avaro e Il malato immaginario di Molière di Peppino hanno pochi paragoni. Si è misurato anche nel surreale Pinter. Diciamo ancora la verità: altro che Eduardo. E veniamo a Totò. Nulla di meno appropriato che definire Peppino "spalla". "Spalla" di Totò sono stati persino giganti come Nino Taranto, Franca Valeri, Aldo Fabrizi, Ugo D' Alessio, Vittoria Crispo, Mario Castellani, Ave Ninchi, Carlo Ninchi, Luigi Pavese, Raimondo Vianello, Gianni Agus, Guglielmo Inglese, Aroldo Tieri o Teddy Reno. Peppino è stato l' unico capace di tenersi alla stessa altezza del, ripeto, più grande attore del Novecento. I pezzi da antologia non si contano. Sebbene Alberto Anile, autore dei migliori libri su Totò, affermi che nei films l' improvvisazione fosse molto più ridotta che la leggenda non voglia, basta ascoltare il "sonoro" non doppiato di alcuni famosi duetti per rendersi conto che i due concreavano. Peppino creava alla pari con Totò, non gli porgeva le battute. Le due "dettatura della lettera" (la seconda è in Totò, Peppino e i fuorilegge) mostrano la fulminea rapidità con la quale dalla situazione scaturiscono battute inanellate l' una nell' altra per un processo creativo che può definirsi solo miracoloso. Quando in Totò, Peppino e 'a malafemmena (sempre Mastrocinque!) Peppino cancella col fazzoletto i suoi errori di scrittura e poi, sudando copiosamente, si asciuga collo stesso fazzoletto e si copre la faccia d' inchiostro, ci si può solo inchinare reverenti come di fronte al Padre e allo Spirito Santo. «Tu sei ladro di penne, io ti temo!», dice in Totò e Peppino divisi a Berlino. Possiamo mai credere che questa battuta sia della sceneggiatura? Nel capolavoro Totò contro i quattro recita il cornuto che teme l' amante della moglie voglia avvelenarlo: e quale testimone porta il pappagallo Gennarino a Totò commissario di polizia. «Non me lo intimidisca, lo gratti un poco sul pancino!». Chi altri potrebbe pronunciare con serietà l' idiozia surreale della battuta? I due erano peraltro fratelli spirituali. Totò venne battezzato col nome della madre, Clemente, stiratrice analfabeta, e venne riconosciuto dallo spiantato marchese de Curtis solo a ventott'anni. Peppino aveva un talento particolare per dar volto anche a un tipo italiano abietto e meschino. La fortuna lo fece incontrare con un altro genio supremo, Federico Fellini, che lo comprese e che nel film a più mani Boccaccio '70 firma Le tentazioni del dottor Antonio. Uno dei capolavori assoluti della storia del cinema, nel quale, oso dire, Fellini rivela un lato kafkiano di Peppino che altri non avrebbe intuito. Da che ebbi uso di ragione fui peppinista.
· Emanuele Trevi.
Barbara Tomasino per “Libero quotidiano” il 14 ottobre 2020. «Le grandi idee hanno spesso testimoni illustri: pensiamo al pacifismo con Russell e Einstein, il femminismo di Susan Sontag, e così via. Invece il politicamente corretto non ha delle figure di rilievo, più che altro mezze tacche, burocrati estensori di programmi scolastici. C' è di fondo un anonimato che crea un ricatto, come se si fosse sviluppato un senso comune - a cui non puoi non aderire - senza che nessuno ci abbia messo la faccia». Emanuele Trevi, classe '64, è uno degli scrittori più irregolari degli ultimi 20 anni: iconoclasta, sottilmente sovversivo, molto intelligente, inafferrabile e talvolta "scomodo". Alcune sue opere hanno segnato il corso della narrativa contemporanea, come Qualcosa di scritto (2012) su Pasolini e Laura Betti e Sogni e favole (2019) su Amelia Rosselli. Trevi, come un flâneur della letteratura, ha attraversato le vite di decine di protagonisti della cultura italiana del secolo scorso, restituendo attraverso la sua scrittura un racconto che è parte biografia, parte autocoscienza, parte sogno e parte incanto indicibile della parola scritta che si riverbera tra le strade di Roma, nel tintinnìo dei bicchieri a cena, nel silenzio degli sguardi colmi di ricordi e compassione, come nell' ultimo, struggente racconto di amicizia che è Due vite (Neri Pozza, pp. 144, euro 12).
Battaglie ridicole. Quando il "collega" Francesco Piccolo ha dichiarato in un' intervista di non sentirsi in colpa per l' animale maschio, bianco, borghese che si porta dentro, Trevi non ha esitato: «Sono assolutamente d' accordo con lui, il politicamente corretto è un mostro senza testa e mi dà fastidio che venga identificato con l' essere di sinistra. Tra le mie conoscenze nessuno è d' accordo con l' asterisco di genere, ma mi dicono che non conviene dirlo, meglio adeguarsi». Per lo scrittore queste sono battaglie ridicole: «Noi siamo per combattere i nemici veri, la gente che ha combattuto i nazisti non era affetta da narcisismo etico, sarebbe rimasta a bocca aperta sapendo che le nostre battaglie hanno questo tenore morale. Un altro aspetto che non mi piace è quello normativo: se una persona decide di ripulire il proprio linguaggio da aspetti patriarcali o sciovinisti, perché si preoccupa se Trevi scrive la Morante invece di Morante? L' obbligo degli assurdi femminili è di per sé prescrittiva e da libertario non l' accetto». «Il codice si allarga ogni giorno», prosegue lo scrittore, «un idiota si alza e ne tira fuori una nuova ma perché devo dire la sindaca? Sono puttanate, ma tanto vale non dirlo, ci costa poca fatica aderire a questo codice».
Una delle iniziative più assurde, sottolinea Trevi, in nome di un presunto "femminismo" di deriva #Metoo, è quella della Women' s Prize For Fiction: ristampare una collana di 25 romanzi scritti da donne sotto pseudonimo maschile, tra cui George Eliot (vero nome Mary Ann Evans) e George Sand (ovvero Amantine Lucile Aurore Dupin), tradendo di fatto le volontà delle autrici che avevano scelto lo pseudonimo in assoluta libertà secondo criteri d' ispirazione che non ci è dato discutere. «Dalle università americane è bandita la tragedia greca, le scuole inglesi hanno eliminato La bella addormentata nel bosco, l' ultima roccaforte saranno i paesi latini che hanno un codice potente nei rapporti tra uomini e donne che è la galanteria, arcaico e contestato, ma che assorbe le tensioni e sposta verso il bene la relazione tra i due sessi», afferma lo scrittore. Sa di attirare molte critiche facendo affermazioni del genere, ma candidamente risponde che non gli importa perché sa di essere una brava persona. «Citando Cristina Campo, il senso di colpa è un non senso. Mi sento in colpa quando faccio una singola azione sbagliata o che non ritengo alla mia altezza, ma la condizione umana è talmente difficile che eventuali vantaggi acquisiti per nascita o per fortuna esistenziali, mi sono sempre sembrate irrisori, ho lasciato sempre la porta aperta al mondo». L' essere libertario è un tratto distintivo di Trevi, traspira da ogni pagina dei suoi scritti e, quando gli domandiamo cosa ne pensa del tema del fine vita, del lavoro di gente come Marco Cappato, lui risponde: «È un fattore di civiltà, ho mandato dolcemente nel paradiso dei cani un essere che ho amato moltissimo, gli uomini hanno meno diritto ad una buona morte degli animali? Chi non fa una legge per la buona morte si macchia di un crimine contro l' umanità», sentenzia Trevi. «La politica non ha uno sguardo ad ampio raggio, si muove sulle emergenze e sulle piccole conquiste come l' abolizione della prescrizione e il taglio dei parlamentari che sono "specchietti per allodole che bloccano la società, non si pensa in grande e quindi umanamente. Penso che la chiesa cattolica o si presenta alle elezioni o non può influenzare in maniera incontrollata la vita politica e sociale italiana». Per lo scrittore romano noi siamo anche inconscio, pensiamo che certe cose tocchino agli altri, quindi non ne parliamo, allontaniamo da noi il pensiero. «Ma Cappato è quello che si può definire un eroe, come le persone che salvano vite negli ospedali, ha dedicato la sua esistenza per il bene degli altri. E il fatto che non ci sia una legge chiara che ci tuteli su questo tema delicato è per me un crimine come il gas nervino, ci vorrebbe un Tribunale dell' Aia che ci sanzioni».
· Ennio Flaiano.
Pietro Citati per “la Repubblica” il 20 dicembre 2019. Non molto tempo fa, l' editore Adelphi ha pubblicato L' occhiale indiscreto di Ennio Flaiano (1910 1972, a cura di Anna Longoni, euro 15): uno scrittore oggi a torto dimenticato. Non era un giornalista, come molti credono: era un vero scrittore, che, per tutta la vita, chissà per quale ragione, si mascherò da giornalista: gli piaceva nascondersi, cambiare nome, fingere di essere un altro, far credere di essere uno sceneggiatore, come se fosse stato soltanto l' ombra di Federico Fellini. Era molto spiritoso e intelligente - ma a lui non importava nulla né dello spirito né dell' intelligenza, perché la sua unica passione era il culto dell' immane, enorme, esagerata stupidità, in cui vedeva qualcosa di straordinario. Per Flaiano, non esisteva nulla di più bello ed affascinante della stupidità; e lui amava ed inseguiva e coltivava gli stupidi, i cretini, gli idioti - la sublime vetta del mondo. Flaiano ne era persuaso ed ossessionato. La stupidità gli bastava - come la scultura bastava a Canova, il romanzo storico ad Alessandro Manzoni, le storie terrificanti a Poe, il romanzo pittoresco a Dickens, la poesia a Emily Dickinson, la filosofia ad Hegel. I giornali di ieri e di oggi erano stupidi: il fascismo era stupido; Galeazzo Ciano e la moglie erano stupidi; e Mussolini era sovranamente stupido - amava la musica, carezzava i leoni, da Palazzo Venezia salutava colla mano levata gli italiani e il mondo e Hitler; e tirava di scherma. Mussolini scriveva libri: a palazzo Venezia si esibiva colla mascella follemente congestionata e protesa, amava gli aggettivi pomposi, scriveva 24 articoli al giorno sui giornali fascisti. Portava i gambali, la tuba, il feltro nero, la feluca, la bombetta, il nero fez degli Arditi, l' elmetto di cartone e qualche volta - massima felicità - la testa rapata. Provava una passione incestuosa per la figlia. A volte pensava, come Oscar Wilde, che «far parte della società è veramente una noia, ma non farne parte è una tragedia». Da giovane cominciò a possedere le donne, e continuò, continuò, continuò, come se non ci fosse nulla di più sacro. I fascisti erano eroici, eppure avevano moltissima paura, perché si nascondevano in ogni chiassetto e fogna e magazzino e soffitta, come raccontò meravigliosamente Carlo Emilio Gadda in Eros e Priapo . La capitale del fascismo erano i colli fatali di Roma - sebbene Roma sia la città più mite e amabile e accondiscendente della terra - senza nulla di fatale e di eroico. Esco di casa, faccio cento passi fino a piazza Ungheria o a Villa Borghese o a via Veneto, accompagnato dal mio portiere portoghese al quale racconto tutta la storia del Portogallo, che lui venera. Sono lieto, lietissimo. Come non ero mentre passeggiavo sotto i portici di Torino, tra le caldarrostaie centenarie. Ricordo Federico Fellini: quando usciva di casa e si inoltrava radiosamente per Piazza del Popolo. La grande piazza gli allargava il petto, e gli allungava il passo. Ennio Flaiano mi è molto simpatico, com' era simpaticissimo a Federico Fellini, quando sceneggiavano insieme La dolce vita . Allora io ero molto giovane, mentre Fellini e Flaiano avevano più anni di me. Io li guardavo dal basso, col lontano ricordo dei miei vestiti di balilla alpino. Flaiano racconta moltissime cose: la folle paura dei fascisti il 25 luglio 1943, la fuga di Vittorio Emanuele III e di Badoglio da Pescara fino a Brindisi. Quando arrivò Anthony Eden, il ministro degli Esteri inglese, il Popolo d' Italia scrisse: «si ricordi di non nominarlo troppo sovente ». «Quando l' America soccorse l' Inghilterra, i giornali italiani erano pregati di nominare Eden senza ricordare i suoi titoli nobiliari ». Quanto a quelli di Churchill, obeso e col sigaro, era una vera frana. Se i nostri soldati morivano di fame e di gelo in Albania, «si rinnovava tassativamente il divieto di parlare "dei Caduti in guerra"». Se il 30 dicembre del 1939 a Roma cadeva la neve, si doveva «impostare il giornale di mezzogiorno sull' avvenimento della giornata, cioè la neve, dedicando a questo importante avvenimento fotografie, articoli di colore, vibranti commenti fascisti». Se Hitler era uscito salvo da due attentati, «s' imponeva di non tirare in ballo la divina Provvidenza a questo proposito». E ancora: «Non bisogna occuparsi dell' ambasciatore sovietico a Tokio»: «bisogna ignorare le mene del Conte Sforza in America»; non bisogna occuparsi degli inutili e retorici discorsi di Churchill: non bisogna occuparsi di Francisco Franco: non bisogna pubblicare le fotografie di Pavolini e di Goebbels, che si danno la mano al Festival cinematografico di Venezia; e, sopratutto, non bisogna ricordare la figura di Mazzini nel Risorgimento; né parlare di formaggio di grana, perché abbatterebbe gravemente il morale delle truppe italiane in Albania. Un giorno, chissà perché, un tale gridò: «Abbasso Mussolini!»: urlò ad intervallo, rivolto ai passanti. Allora, gridò un altro, «Con Mussolini è finita, viva la libertà!». Ma i passanti non osavano aprir bocca. Avevano paura del duce, che stava nascosto chissà dove. Gli agenti, calmi, a bassa voce, con l' aria di chi confida un segreto, che pesa sul cuore, dissero: «Era un gran puzzone!». In un caffè, alcuni clienti urlavano: «Abbasso Mussolini», rivolti ai passanti. Automaticamente, con un sorriso perduto sul volto, qualcuno alzava per sbaglio il braccio nel saluto romano: «Abbasso Mussolini, è finita, viva la libertà». I passanti non osavano contraddire. Infine, due agenti fermarono il corteo. «Smettetela, oppure vi portiamo tutti quanti dentro». Il piccolo corteo fascista- antifascista scoppiò in un tumulto di risate. Uno gridò: «Portiamo dentro gli agenti». Gli agenti non sapevano cosa fare. Allora, con calma, le persone del corteo spiegarono cosa era successo: «Mussolini sta rinchiuso al Gran Sasso. Nessuno lo tirerà più fuori di lì». Gli agenti rimasero dubbiosi: «È proprio vero? » disse un agente. «Parola d' onore! », disse un altro. «Parola d' onore », tutti risposero in coro. Alla fine il volto degli agenti si distese. Quello che aveva fatto la domanda si guardò intorno, poi calmo, a bassa voce, disse: «Era un gran lavativo». In un caffè di Piazza del Popolo, alcuni clienti litigarono con dei fascisti. Dapprima ci fu qualche insulto. Poi cominciarono a volare sedie, bottiglie, bicchieri, quadri; e un Console della milizia venne schiacciato e calpestato nella confusione. Ma il bello è che delle cosiddette dimissioni di Mussolini nessuno sapeva niente, né del maresciallo Badoglio. I fascisti fuggirono. Il Console della milizia, livido in viso, a un tale che lo insultava, ripeté più volte: «Intanto datemi del Voi». Tutta l' Italia stava crollando e precipitando nel vuoto, e il Console pensava soltanto al Voi promulgato da Mussolini e dalla milizia. Ne L' occhiale indiscreto Flaiano non smette mai di raccontare, di chiacchierare, di blaterare. Non ha fine, parla di tutto. L' amore per i titoli e le distinzioni onorifiche: uno poteva essere cavaliere di un ordine straniero, per esempio ungherese. Flaiano parla dei giornali sportivi, delle gite in auto la domenica, delle mode stranamente allegre delle donne (la secolare schiavitù delle donne), della vita a Parigi. Le vetrine, cogli abiti fatti, in tutti i negozi di tutte le città di provincia italiane: i saggi che stavano rinchiusi a casa per prudenza: uno sciopero di tecnici a Fiumicino: il giro di Roma by night coi monumenti tutti illuminati di luce gialla; un campo di nudisti che si esibiva sulla spiaggia di Fiumicino; Wilma Montesi, e Piero Montesi e Piero Piccioni, e Alida Valli, e Leone Piccioni, e il marchese Montagna. Il libro di Flaiano è posseduto da una passione insaziabile. Era arrivato da Pescara a 12 anni: nel 1932, a 23 anni, cominciò la sua attività di giornalista. Recensì Figli e amanti di David H. Lawrence e Quarantotti Gambini: subì l' influenza di Mario Pannunzio. Frequentò Enzo Forcella; scrisse su Oggi, Documento, Mondo, Il corriere della sera, L' espresso, Il risorgimento liberale, Omnibus. Flaiano non smise mai di scrivere: sempre, continuamente, arditamente. Era spiritoso, insaziabile, verboso, famelico. Tutto gli riusciva sovranamente comico. All' improvviso il 25 luglio 1943 cadde il fascismo, Mussolini venne portato al Gran Sasso. Hitler lo fece rapire dalle sue truppe al Lago di Garda insieme a Claretta Petacci. Badoglio diventò Presidente del consiglio: poi Ivanoe Bonomi; poi Mussolini e la Petacci vennero appesi per i piedi in una piazza di Milano. Ma il comico italiano non scomparve. Eccolo qui, ancora, dopo quasi 100 anni. Ecco ridicolissime presenze pubbliche e politiche, e tutto lascia credere che con qualche minima eccezione la vita italiana resterà comica fino al 2200, perché del comico noi italiani non possiamo fare a meno. È cosa nostra: nostro possesso. Siamo comici nel cervello, nel cuore: in automobile, in bicicletta, dappertutto, dovunque, senza limiti possibili. Forse non è male, che la farsa duri fino alla fine dei tempi, quando, chiassosa e buffonesca, impererà l' Apocalisse.
· Erno Rubik ed il Cubo.
Francesco Musolino per "Il Messaggero" il 27 settembre 2020. Quando Erno Rubik inventò il suo Cubo, non era nemmeno certo che lo si potesse risolvere. Per cui non sentitevi in colpa se non ci siete mai riusciti. Pare esistano ben 43.252.003. 274.489.856.000 combinazioni possibili per le sue facce colorate. Ma solo una di queste combinazioni è quella giusta. E all'improvviso, vincere al SuperEnalotto non sembra così difficile. Correva l'anno 1974 quando Erno Rubik, un professore di architettura ungherese, lo inventò. All'inizio si chiamava semplicemente Magic Cube, era fatto interamente di legno e venne registrato come giocattolo logico tridimensionale. Dopodiché lo stesso Erno Rubik impiegò oltre un mese - un intero mese - per risolverlo. Alla fine, disse d'aver provato un grande senso di realizzazione e di totale sollievo. Del resto, era il primo uomo al mondo a riuscirci, come dargli torto?
IL CONTRATTO. Il Cubo non ha bisogno di essere raccontato. È un'icona. Semplice e geniale, presenta sei facce, ciascuna ricoperta da nove adesivi, ognuno dei quali presenta un colore: bianco, giallo, rosso, verde, blu e arancione. E piaceva alla gente. Dopo un paio di tentativi commerciali sfortunati, nel 1980, Rubik firmò un contratto con la Ideal Toy che volle ribattezzarlo con il nome del suo creatore e fu subito un successo, tanto che nel 2019 ha superato i 350 milioni di pezzi nel mondo ed è considerato il giocattolo più venduto della storia. D'accordo, tutti conoscono il Cubo ma il suo creatore è sempre stato un mistero. Chi c'è dietro questo rompicapo pluri-generazionale, capace di ispirare artisti e filosofi, pensatori e celebrità? Per questo motivo la pubblicazione di Cubed: The Puzzle of Us All (appena uscito negli Stati Uniti, edito da Weidenfeld & Nicolson, 154 pagine 24,95 euro) è un evento editoriale.
LA FILOSOFIA. A 76 anni, Rubik racconta finalmente la sua storia - in un libro a metà fra il memoir e un trattato filosofico - e si domanda: «Qual è la vera natura del cubo?». Rubik vive sempre a Budapest in una casa che lui stesso ha progettato. Capelli corti e ciuffo argentato, per lui il Cubo è una creatura, quasi come un figlio: «È parte di me e oggi, 46 anni dopo la sua nascita, finalmente lo conosco. Ciò che mi importa è comprendere il modo in cui le persone vi entrano in contatto». A questo punto possiamo dire che leggere Cubed è un'esperienza strana. L'introduzione è firmata proprio da lui, The Cube («Il mio nome ufficiale è Cubo di Rubik ma io preferisco Magic Cube perché mi ricorda l'infanzia»), cita Einstein e Lewis Carroll e diciamolo, in realtà manca un arco narrativo. Leggendolo avrete la sensazione di perdervi in un labirinto ma in una intervista al New York Times, lo stesso Erno Rubik ammette che fosse stato per lui, il libro non avrebbe avuto capitoli e nemmeno un titolo: «L'ho scritto per condividere una miscela di idee che avevo in mente, lasciando che fosse il lettore a scoprire quali fossero preziose». Ovviamente l'editore Weidenfeld & Nicolson non era d'accordo ma il senso del libro è «un percorso sensoriale» in cui solo smarrendovi sarete sulla retta vita. E ancora: «Non ho alcuna intenzione di prendere il lettore per mano. Possono iniziare a leggere da dove vogliono, dalla prima o dall'ultima pagina», ha dichiarato Rubik, spedendo sul lettino dello psicanalista tutti gli insegnanti di scrittura creativa.
L'INTUIZIONE. Rubik si è sempre considerato «un dilettante» e ci incita «ad abbracciare l'immaginazione», del resto, andando a ritroso con i ricordi, scrive che un momento chiave è legato agli anni in cui aveva la cattedra di Geometria descrittiva, «una materia che insegnava agli studenti come usare immagini bidimensionali per rappresentare forme e problemi tridimensionali. Era un campo strano ed esoterico», afferma e poco dopo nacque il Cubo. Ma la svolta giunse con l'intuizione di aggiungere i colori alle sei facce: «ho iniziato a muoverlo e mi sono perso in un labirinto colorato. Non c'era modo di tornare indietro. A quel punto mi sono chiesto, sarò in grado di venirne fuori?». Nel 1983 la Ideal Toy aveva già venduto cento milioni di pezzi ma il rapporto fra creatore e creazione si incrinò. La gente lo fermava per strada, dissero che era l'uomo più ricco d'Ungheria e lui scelse di eclissarsi: «Quel tipo di successo era come la febbre e la febbre alta può essere molto pericolosa. Non è la realtà». E poi, decenni dopo, così com' era scomparso, Erno Rubik è riemerso per raccontare la sua storia in Cubed. E sì, i capitoli ci sono. A proposito, il tempo di lettura di questo pezzo oscilla sui 4 minuti ovvero 240 secondi. Yusheng Du, che detiene il record mondiale, risolve il cubo in 3,47 secondi ma Rubik afferma: «Non conta la velocità ma l'eleganza della soluzione». A voi la scelta.
· Eugenio Montale.
Luigi Mascheroni per il Giornale il 12 aprile 2020. Se la vita, il carattere, le grandezze e le piccinerie di un autore, come vuole una certa scuola di pensiero, sono imprescindibili per comprenderne l'opera, allora per entrare nella poesia di Eugenio Montale da oggi occorre passare dalla nuova e monumentale raccolta di tutte le interviste, i colloqui, gli incontri e le inchieste di cui lo scrittore fu protagonista. Un lavoro colossale, 272 interviste ritrovate, dai grandi quotidiani ai magazine popolari, un arco cronologico di mezzo secolo, dagli anni Trenta alla morte del poeta, due volumi per 1200 pagine complessive, un parterre de rois di intervistatori (Vergani, Cavallari, Porzio, Emanuelli, Marabini, Cancogni, Biagi, Torelli, Bocca, Cederna, Aspesi...): Interviste a Eugenio Montale (1931-1981), a cura di Francesca Castellano (Società editrice Fiorentina). Qui dentro ci sono un pezzo di storia della letteratura e del giornalismo italiano e mille aneddoti, battute fulminanti (il suo humour è irresistibile), piccole manie, debolezze (molti articoli se li faceva scrivere...), pose (accentuava la sua misoginia, gli piaceva passare per pigro, era curiosissimo fino al pettegolezzo), falsa modestia (continuava a dire che non sopportava le interviste e che non aveva mai nulla da dire, ma raramente un poeta ne ha rilasciate così tante), complessi mai superati (l'essersi diplomato in Ragioneria invece che aver frequentato il Classico sembra essere un nodo irrisolto, ecco forse perché apprezzò così tanto le numerose lauree honoris causa), improvvise illuminazioni, giudizi tranchant... È uno dei libri più belli, finora, del 2020. Leggendo il quale si scoprono aspetti imprevisti, scabri ed essenziali, di Montale. Esempi.
VIA BIGLI. Alla fine, dagli anni '50 in avanti, si deve passare per forza da qui. Montale a Milano abiterà sempre nella stessa via, prima all'11 (aveva un così bel terrazzo sui tetti di Milano..., ma il padrone di casa lo mandò via) e poi al 15. Sempre in affitto. Un aspetto curioso è leggere le descrizioni di ambiente, tutte uguali, dei cento giornalisti diversi che passano dal salotto di via Bigli. Particolari immancabili: la Gina la governante tuttofare che stira camicie e adocchia la pentola. La moquette (sul colore della quale non ci sono due cronisti che concordano). L'incubo di rovinarla con la cenere delle sigarette («Sa, questa casa è in affitto, e la moquette è la cosa più importante»). Il De Chirico e i quattro De Pisis «del periodo buono» alle pareti (tolti per paura dei ladri quando si va in vacanza a Forte dei Marmi). I pochissimi libri (perlopiù, dice, regalatigli dagli editori). Le pantofole a mocassino che indossa il Poeta. Le caramelle che continua a succhiare durante le interviste. Le innumerevoli sigarette (Muratti Ambassador: per Montale «quindici al giorno», ma a leggere i pezzi sembrano molte di più).
INEDITI. «Ho scritto la mia prima poesia a cinque anni. La ricordo perfettamente: Il vaso era al posto noto / né pieno né vuoto» (la confessione è in un'intervista del 1975).
STUDI. «Mio padre a Genova era un commerciante. Io fui l'unico della famiglia a non essere avviato agli studi classici, perché ne ero ritenuto indegno». Dopo una pausa ad occhi spalancati, soggiunge, allegramente: «E forse avevano anche ragione...» (Corriere Mercantile, 13 dicembre 1974).
BARITONO. Tutti i giornalisti che incontrano Montale ne sottolineano la voce da baritono e gli ricordano come da ragazzo volesse diventare cantante, senza farcela. Risposta standard: «Forse non ero abbastanza stupido: per riuscire occorre un misto di genialità e di cretineria».
GENOVA. Montale nasce a Genova il 12 ottobre 1896. «La città evoca il poeta era meno brutta di quanto mi dicono sia oggi. Io manco da quasi cinquant'anni... Sento che la Liguria è stata uccisa dalla speculazione e così, naturalmente, Genova. Al principio del secolo contava solo trecentomila abitanti, ma era appena il malloppo centrale, le ali non c'erano, ora mi dicono che la città si espande da Nervi e oltre fino a Voltri. È diventata lunghissima. Io la paragono a un serpente che abbia divorato un coniglio» (1974).
ESORDI. «Quando uscì il libricino degli Ossi di seppia nel 1925 mio padre avrebbe voluto comprarne una copia, ma rinunciò non appena seppe che costava sei lire» (1974).
MOGLIE. Montale conosce Drusilla Tanzi (1885-1963), scrittrice e amica di Italo Svevo, nel '27. Andranno a vivere insieme nel '39 ma si sposeranno solo nel '62. Detta «la Mosca», a lei dedicò Xenia della raccolta Satura (1971). «Lei era così felice di vivere. Aveva un grande attaccamento alla vita, più di quanto io ne abbia mai avuto, mi aiutava a esistere» (1974).
PROFEZIA. «Fra qualche anno l'Italia sarà piena di disoccupati intellettuali, forniti di titoli di studio che non varranno più nulla... Nessuno si rassegna più alla propria condizione, l'autorità religiosa e del pater familias diminuisce ogni giorno, la filosofia è morta, siamo guidati da gente mediocre, la società ha bisogno di uomini di modesta levatura che sappiano fare un mestiere e basta...» (Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 30 gennaio 1973).
QUOTIDIANITÀ. «Gli chiedo come passa le giornate: Prendo dei sonniferi e leggo. Qualche volta esco. Ogni tanto vado a Roma. No, non più libri gialli; gli servivano per imparare l'inglese, voleva sapere chi era l'assassino e le parole si fissavano nella memoria. Alterna sigarette leggere con piccoli confetti di liquirizia. Ogni tanto chiude gli occhi, come per raccogliersi, o forse la luce della lampada lo affatica» (Enzo Biagi La Stampa, 24 febbraio 1973).
IRONIA. «Sarei contento se istituissero l'undicesimo comandamento. Non seccare il prossimo» (ribadito più volte negli anni).
INSOFFERENZE. Montale detesta le riunioni mondane, le signorine che scrivono versi e pretendono giudizi, i falsi intellettuali e gli esibizionisti: «Meglio, certo meglio gli analfabeti. Da loro c'è sempre da imparare. Possiedono alcuni concetti fondamentali, quelli che contano. Purtroppo, pare ne siano rimasti pochi» (1973).
FOOTBALL. Montale odia il gioco del football, inteso come oppio, come anti-cultura. «La religione è in crisi qualitativamente, ma le religioni sono tante, ci sono le sottospecie. Oggi c'è persino la religione del football. Io mi sono vergognato l'altro giorno davanti a quel famoso goal non concesso dall'onorevole Lo Bello nella partita Lazio-Milan. Ho visto intere pagine di giornali con titoli spaventosi. Sembrava che fosse scoppiata una nuova guerra. Tutto questo per me è perfettamente ridicolo. Fino a che punto i giornali devono sputtanarsi per aumentare il numero dei propri lettori?» (1973).
FASCISMO. «Mi amareggia sentire dichiarazioni con le quali molti personaggi, che conosco bene per i loro precedenti, si attribuiscono meriti antifascisti che non hanno» (1973). «Certo il fascismo fu una tirannia, ma solo per quelli che si occupavano attivamente di politica. Tutti gli altri hanno vissuto prosperando alle ombre del regime. Solo pochi si opposero, e non parlo di gesti clamorosi, che li portarono al confino o all'esilio, ma di opposizione di coscienza, anche in silenzio. Perciò mi hanno fatto sempre ridere quelli che dopo la Liberazione si sono ammantati di meriti mai vissuti» (1975).
BILANCI. «Ho vissuto il mio tempo con il minimum di vigliaccheria che era consentito alle mie deboli forze, ma c'è chi ha fatto di più, molto di più, anche se non ha pubblicato libri» (Rassegna d'Italia, gennaio 1946).
CANZONI. Di quelle che conosco (e non sono moltissime) penso molto male (Epoca, 6 dicembre 1952).
BOTTA E RISPOSTA. Tra le più belle interviste in assoluto, quella di Enrico Ronda uscita su Tempo il 17 novembre 1955 dal titolo 41 domande a Eugenio Montale. Eccone alcune: Signor Montale, secondo lei la letteratura limita o favorisce il mestiere del giornalista? «Il giornalismo sta alla letteratura come la riproduzione sta all'amore. In qualche caso i due fatti possono coincidere». E tra giornalismo e pettegolezzo? «Ormai c'è così poca differenza». Quale domanda la infastidisce di più? «Quella di chi vuole notizie della mia produzione poetica». Qual è in società, la situazione che la imbarazza di più? «L'impossibilità di squagliarsi». Qual è, professionalmente, l'avvenimento cui rimpiange di più di non avere assistito? «Nessuno: quando si deve fare un servizio tutti gli avvenimenti sono egualmente spiacevoli». Qual è secondo lei il segreto del successo di un uomo? «Ce ne sono tanti: perfino quello della bravura nel proprio mestiere». Preferisce essere amato, ammirato, indifferente o addirittura antipatico? «Amato, ma molto da lontano». Quali cose nella vita la spaventano di più? «L'istruzione obbligatoria, il suffragio universale, e il voto alle donne (tutte cose, purtroppo, necessarie)». Se le fosse concesso un atto di potenza assoluta, come lo esplicherebbe? «Abolirei il cinema». Ha mai pensato di uccidere qualcuno? «No, ma ho sperato che morisse qualcuno».
GIORNALISMO. Numerose le varianti sull'aneddoto attorno alla sua assunzione al Corriere della sera, nel 1948 (Montale ha già 52 anni). Comunque, più o meno, andò così: «Era il 30 gennaio del '48, ero di passaggio a Milano e andai a far visita al direttore, Emanuel, che ancora non conoscevo personalmente. Lo trovai nervoso e preoccupato. Sul suo tavolo c'era la strisciolina di carta di un flash d'agenzia con la notizia dell'assassinio di Gandhi. Cercai quasi di nascondermi in un angolo della stanza. Capivo di essere arrivato al giornale in uno di quei momenti in cui non c'è tempo per i convenevoli, e me ne sentivo in colpa. Emanuel mi fissò. Poi disse: me le scriverebbe lei quattro o cinque cartelle su Gandhi? Dissi di sì, mi accompagnarono in una stanza. Dopo due ore l'articolo era pronto. Uscì senza firma né sigla. Era intitolato Missione interrotta». Emanuel, colto da folgorazione, lo fece assumere la sera stessa. «Con il minimo dello stipendio», nota sempre Montale (Corriere della Sera, 5 marzo 1976). «È cambiato tutto, in peggio. Quando entrai al Corriere debbo dire che incontrai colleghi civili. Ero orgoglioso di essere nel giornale che mio padre aveva comprato per anni. Oggi, dico il vero, soffrirei a esserci. Ci sono i soviet là dentro» (1974).
PASOLINI. «Sembrava agli inizi un giovane intelligente, poi si è buttato nel cinema» (1977).
SANGUINETI. «Dice che sono un borghese... L'ho incontrato, una volta, mi sono spaventato: è un po' bruttino...» (1977).
SCIASCIA. «Sta diventando famoso, vedo... ci saranno delle ragioni» (1977).
NERUDA. «Sul piano umano non posso che esprimere un sentimento di pietà per l'uomo morto in così tristi circostanze. Sul piano letterario non posso dire molto. Posso solo affermare che Neruda era animato da un continuo entusiasmo e ciò, a volte, influiva negativamente sulla sua poesia» (La Gazzetta del Mezzogiorno, 25 settembre 1973, in morte di Pablo Neruda).
ELIO VITTORINI. «Mah! Era un uomo estremamente simpatico, aperto, cordiale, generoso, non saprei. Dico, non era il tipo dello... scholar, ecco. Parlava un po' a caso, a vanvera. Però con genialità di intuizione» (Nicholas Patruno, Gradiva, primavera 1978).
ROMA. «Comunque, non provo alcuna avversione per Roma, non mi è per nulla antipatica, anche se si mangia male, se c'è un cattivo clima e un cattivo riscaldamento, e se mi infastidisce la corruzione romanesca della lingua italiana» (Enzo Siciliano, La Stampa, 17 novembre 1973).
SENATO. (Montale è nominato Senatore a vita nel 1967) «Non ci vado quasi più. Che cosa ci andrei a fare? Dovevo far parte della commissione per la scuola. Ma tutti sono d'accordo nel trasformare l'Italia in un Paese di laureati. E allora? Io non sono capace, non ho voglia di polemizzare» (1974).
RELIGIONE. «Mi pare ora che tutte le religioni siano buone (e spesso cattive). Sotto sotto mi pare che anche l'attuale Papa sia d'accordo» (Giorgio Zampa, il Giornale, 27 giugno 1975). In quel momento è Papa Paolo VI.
NORD-SUD. Spesso Montale se la prende con la vecchia Italia dei clan, delle ragnatele mafiose, lamenta la meridionalizzazione del Paese che dalla politica si estende alla letteratura: «Crede che se Giovanni Verga fosse nato a Cuneo sarebbe così noto?» (1974).
POESIA. «È l'unica arte che si fa con un pezzo di lapis, non costa niente ma non interessa» (1974).
SCUOLA. «Una volta si mandavano i bambini a scuola per farli uscire dalla famiglia. Oggi succede esattamente il contrario: è la famiglia che entra nella scuola! È una cosa oscena! Le madri nella scuola!» (...) «L'Università è malridotta. Non si insegna più niente. Conosco una ragazza laureata in Psicologia. Che significa? Farà l'assistente sociale» (1975).
NOBEL. Montale vince il Nobel per la Letteratura nel 1975. Festeggia in via Bigli con confetti di liquirizia, lui con pochi e la Gina a tenere fuori i giornalisti. «Per me non cambierà nulla. Sarò più felice, perché felice non sono mai stato. Anzi, per meglio dire sarò meno infelice». L'annuncio gli viene dato al telefono (dall'ambasciatore di Svezia a Roma), nella piccola anticamera che precede la cucina, tra un vecchio frigorifero e la porta del bagno di servizio. Montale si appoggia a una maniglia. Dice ancora una volta Merci, riattacca. La Gina lo bacia teneramente sui capelli, ha gli occhi umidi di commozione. Poi gli domanda: «Andiamo a tavola?». In cucina sono pronti il riso all'olio e due polpette con l'insalata. Più tardi. «Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch'io?» (Giulio Nascimbeni, Corriere della sera, 24 ottobre 1975).
NOVECENTO. «L'800 ha dato di più» (1974).
CONFORMISMO. «L'intolleranza che, soprattutto da qualche anno in qua, sta dilagando in Italia. Sarebbe una cosa semplicemente grottesca e ridicola se non fosse anche tragica. A volte, penso addirittura che sia una vendetta postuma del fascismo. Oggi c'è un conformismo di base che fa paura. Chi si permette di dissentire da certe opinioni correnti, ecco che viene bollato nientemeno che come fascista, magari soltanto perché non gli piace un certo film» (1976).
DONNA. «Mah!», sussurra Montale accendendosi un'altra sigaretta. «Personalmente, non trovo nulla di male nel fatto che una o più donne vogliano fare una carriera che non sia quella della prostituta o della moglie» (Gioia, 13 settembre 1976).
COCCODRILLO. Montale un giorno trovò nell'archivio del Corriere il suo coccodrillo. L'aveva preparato Taulero Zulberti. «Zulberti disse poi è stato molto gentile con me. Il coccodrillo me lo sono portato via. Lo rileggo qualche volta. Gli manca la corda della commozione. Ma suppongo che qualche redattore gli aggiungerà la dovuta lacrima...» (1976).
ALDILÀ. «Per credere nell'aldilà bisognerebbe avere alcune basi, dei punti di partenza più sicuri. Per esempio, esiste veramente il tempo? O il mondo? Io non lo so. Ecco, non conoscendo l'aldiqua finisco per avere scarsa curiosità anche per l'aldilà» (Il Mattino, 13 ottobre 1978).
· Eva Cantarella.
Roberta Scorranese per corriere.it il 9 giugno 2020. La casa milanese di Eva Cantarella è un accogliente appartamento pieno di libri e ricordi. Ma poi c’è la sorpresa: si attraversa il soggiorno e ci si ritrova in una di quelle terrazze con pergolato che a Milano fanno la differenza tra una vita e una vita dolce. Da qui si vede un appartamento che sovrasta e si sovrappone a quello della giurista e specialista in diritto antico. Lei lo indica: «Vede, lì abitava Guido. Abbiamo trascorso una vita insieme, ma sempre con la giusta distanza».
Guido Martinotti, sociologo e suo marito dal 1961. Che matrimonio è stato il vostro?
«Da quando lui è mancato, dal 2012, vivo sola. Ci siamo conosciuti a scuola, al liceo “Beccaria” di Milano, e ci siamo sposati molto giovani. Poi abbiamo divorziato e ci siamo risposati».
Uh.
«Ma mica perché non ci amavamo più: noi abbiamo divorziato per difendere il divorzio quando fecero il referendum abrogativo nel 1974. Ci sembrò un’assurdità, un insulto alla libertà che avevamo conquistato a fatica. Gli dissi “Guido dobbiamo farlo”. Lui nicchiava ma alla fine prendemmo due testimoni, dicemmo che eravamo separati da due anni e zac, divorziammo. Ovviamente continuavamo a stare assieme e ogni tanto io gli dicevo, “Guido ma dovremmo risposarci, insomma sarebbe ora”. Lui nicchiava anche quella volta! Alla fine però ci risposammo».
Che coppia divertente.
«Ah guardi, abbiamo vissuto con gioia e libertà. Pensi che una volta siamo stati beccati insieme in Grecia, innamorati e felici, dai nostri rispettivi amanti. Sai che scenate quelle degli amanti, peggio di quelle dei mariti normali».
E oggi, a 84 anni?
«Senta, io ho il massimo rispetto per chi si innamora alla terza, alla quarta e alla quinta età ma per me è un capitolo chiuso della vita. E poi da sola sto benissimo. Niente figli, ma tanti allievi, tanti amici, tanti ricordi, tanti libri da leggere».
Una vita dedicata al diritto del mondo antico. Non era comune, all’epoca, per una donna scegliere la facoltà di Legge.
«Non solo non era comune, era fortemente sconsigliato. Sa che fino al 1963 una donna non poteva fare il concorso in magistratura? Io me le ricordo bene le discussioni in famiglia, con gli amici di mio padre che mi dicevano: “ma no Eva, una donna non può fare Legge perché per alcuni giorni al mese sta male”. Ma ci rendiamo conto? Io però puntai i piedi: volevo un lavoro da maschio, non volevo fare l’insegnante o la moglie che corre dietro al marito studioso».
Tanto è vero che lei divenne anche avvocato, preparando un «piano B» sempre maschile, rispetto alla carriera universitaria.
«Sì, anche perché all’epoca il destino delle donne nell’università era quello di fare l’assistente a vita. Ci laureammo in due nel nostro gruppo, io e un collega uomo, e il giorno dopo l’assistente capo mi disse: “Eva, ci sono da schedare quei libri, lo fai tu?” Io risposi: “scusi, ma c’è anche il collega che si è appena laureato, deve schedare anche lui assieme a me”. Ho sempre fatto così: mi sono comportata come se la discriminazione non esistesse, semplicemente facendo rispettare i miei diritti».
Non era facile nemmeno a Milano, città aperta, internazionale?
«Io ho avuto un grande maestro, Giovanni Pugliese, che mi ha sempre sostenuta. Ma a Milano non bastava quella società progressista che pure era radicata e vivace. In classe con me, per dire, c’era Francesco Micheli. E al “Beccaria” c’era pure Achille Occhetto, che noi prendevamo in giro dicendo che ogni mattina baciava la bandiera rossa del traffico. Noi noi c’era Carlo Basso, il figlio di Lelio. Eravamo di sinistra e con una grande apertura mentale, ma la società era quella che era e molte donne rinunciavano ad una carriera senza nemmeno provarci. Era un mondo poco incoraggiante per le donne, diciamo. E poi, per dirla tutta, non è che il femminismo abbia portato tutta questa solidarietà nell’universo femminile, anzi».
Si spieghi meglio.
«Premessa: io penso che il femminismo sia stata l’unica rivoluzione culturale veramente riuscita in Italia, perché ha cambiato sia i maschi che le femmine. Ci siamo dimenticati troppo in fretta le conquiste che questo movimento ha raggiunto: per esempio oggi la donna non è più obbligata a seguire il marito in qualsiasi posto lui decida di prendere la residenza, ma prima delle battaglie femministe sissignore, era obbligata. Di fatto, una donna non aveva il diritto di lavorare. Detto questo, penso che il femminismo ambisse ad un mondo solidale, aperto, inclusivo. Invece ho come la sensazione che molte donne siano state “accettate” nel mondo maschile e come tali siano state, in fondo, assimilate. Siamo diventate competitive come loro, insomma. Siamo diventati maschi. E spesso ci facciamo la guerra tra di noi. Secondo me se si vuole cambiare qualcosa bisogna prendere consapevolezza di questi limiti».
Lei ha partecipato anche ad alcune riunioni di Rivolta Femminile, il gruppo di Carla Lonzi?
«Sì, per poco tempo. Detto fra noi, mi annoiavo di più nelle serate in cui con quelli di sinistra si andava avanti per ore a leggere Marx. Lonzi era una tostissima, ha scritto “Sputiamo su Hegel”, non ero d’accordo con lei su tutto, però era una donna molto intelligente. Poi ho seguito i gruppi di autocoscienza, interessanti, sì, ma ci vedevo molta infelicità. Non so, penso che la questione femminista abbia bisogno di un rasserenamento di fondo. Sento ancora troppe donne che si dicono disperate perché non hanno avuto figli, come se si sentissero a metà. Fino a quando vivremo in un mondo che fa sentire “a metà” queste donne, non faremo veri passi avanti».
C’è ancora un’ombra sulle donne che scelgono di non avere figli?
«Non si accetta che una donna possa fare quella scelta. Ecco perché ci si rivolge a loro con una punta di compassione, come per dire “ma come mai, che cosa è andato storto?”. Lo trovo insostenibile. Io e Guido non abbiamo avuto figli ma è stata una scelta serena, compatibile con la nostra natura. Un po’ come il pregiudizio per una donna che sceglie di stare da sola, senza un compagno. Trovo insopportabili i commenti del tipo “ma come, una bella donna come te”».
Il movimento #MeToo l’ha convinta?
«Ho qualche perplessità. Intanto perché penso che per le donne con minore visibilità rispetto alle grandi attrici non sia cambiato nulla e nulla cambierà. Ma poi credo che negli ultimi anni sia stato soppresso uno dei rituali sociali più importanti, il corteggiamento. È un bene sottolineare le ambiguità di certi comportamenti maschili e meno male che lo si è fatto. Ma attenzione a uccidere del tutto il corteggiamento, che di ambiguità si nutre. È un gioco che ci fa bene perché ci porta a scoprirci, a capirci meglio, a comprenderci, anche quando non sfocia a nulla. È un rituale di scoperta dell’altro e dell’altra indispensabile per poterci accettare a vicenda».
Zeus corteggiava o commetteva abusi?
«Ecco un esempio perfetto di quell’ambiguità di cui parlavamo. Possiamo dire che Leda sia una vittima? Sì e no. Sì perché alla fine viene indotta a cedere con l’inganno, no perché in fondo a lei quel cigno piace. Europa è una vittima? Non del tutto, dipende da chi la guarda. Il mito, ancora una volta, ci mette di fronte alle inevitabili sfumature di cui è fatta la vita, che non è mai bianca o nera. Nel corteggiamento c’è amore ma c’è anche inganno, non si sfugge. Ecco perché giustissimo che si faccia chiarezza sugli abusi, ma non priviamoci di questa magia antica, così piacevole».
Anni di studi sul diritto e sulla condizione delle donne nel mondo antico. Che cosa ha imparato?
«Che certi pregiudizi sono millenari e che sarà difficilissimo sradicarli».
Sempre colpa di Pandora, insomma, guarda caso una donna, colei che ha aperto ai mali un mondo prima incontaminato?
«Sì ma il peggiore non è stato un personaggio mitologico, bensì un pensatore realmente esistito, Aristotele. Diceva che le donne non hanno il logos, la ragione».
Arianna, che viene abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso (da cui l’espressione «piantare in asso») è una vittima?
«Sì, perché quel fetente l’ha trattata male, ma non dimentichiamoci che poco dopo arriva Dioniso che la salva».
E Lisistrata?
«Oggi è diventata un simbolo femminista ma quando Aristofane racconta la sua storia in realtà sta commiserando Atene perché, dice, la sua antica grandezza si è ridotta ad essere in mano alle donne. Insomma, è sempre un maschio che narra le vicende di una femmina».
Anche Antigone è molto amata dalle femministe...
«No, non mi faccia parlare di Antigone, perché sennò ne parlo male, su».
Ci interessa!
«Una volta l’amico Giulio Guidorizzi mi invitò a tenere una conferenza su Antigone in un circolo culturale. Io andai e dissi peste e corna di quel personaggio, senza sapere che quel circolo era intitolato proprio a lei. All’inizio ci fu molta perplessità ma poi in tanti si congratularono. Dunque, per carità, è stata una grande figura della tragedia greca. Ma Dio mio che freddezza! Che ottusità. Antigone tratta malissimo la sorella, Corteggia la morte ma le dispiace morire senza nozze, guarda caso. Il fidanzato nemmeno lo calcola e quel povero Creonte... altro che tiranno, Creonte era un bravo governatore che voleva far rispettare le leggi».
Elena è più interessante, no?
«Soprattutto quando mi sono accorta che nell’Eneide si dice che abbia avuto addirittura un terzo marito! Con lei sì che la faccenda si fa intrigante».
Per concludere, se dovesse esprimere un desiderio?
«Tornare in Grecia. Manco da troppo tempo. Forse l’ultima volta che ci sono stata ero in una delle fughe semi-segrete con mio marito, pensi un po’».
· Federico Moccia.
«L’amore è una cosa semplice ma lo rendiamo complicato». A colloquio con Federico Moccia. Eugenio Murrali su Il Dubbio il 25 luglio 2020. «Ho dedicato il libro a mio padre, gli devo lo sguardo leggero, sempre ironico e divertito, con cui affrontava sia i successi che i fallimenti». Per Federico Moccia il segreto è la semplicità: nell’amore, nella scrittura, nello sguardo sulla vita. Il suo nuovo libro, Semplicemente amami ( Editrice Nord), dedicato al padre, il celebre sceneggiatore Pipolo, dà seguito alla turbolenta storia d’amore tra la pianista Sofia e il ricchissimo Tancredi iniziata con il romanzo L’uomo che non voleva amare. Sofia è in Russia da alcuni mesi, lontana dal marito Andrea e dall’uomo che ha messo in crisi le sue certezze, Tancredi, ritiratosi sulle isole Fiji. L’eccezionale musicista decide di tornare a Roma dal marito per riprendere le fila della sua vita. Tutto sembra tendere alla linearità, ma ovviamente l’agire umano complica i percorsi per raggiungere gli equilibri più naturali.
Abbiamo chiesto all’autore, che con Tre metri sopra il cielo e i successivi romanzi ha conquistato milioni di lettori, se siamo noi esseri umani a rendere difficile l’amore.
«Secondo me l’amore si diverte. L’uomo e la donna devono districarsi in mezzo a complessi tragitti, quasi da labirinto, per poter trovare la persona desiderata e apparentemente più adatta alla proiezione personale di questo sentimento. Ciò che noi vediamo nell’altro ci attira, ci incuriosisce e, a volte, riesce ad appagarci, a essere effettivamente in corrispondenza amorosa con quello che cercavamo. Insomma, è l’uomo che complica, l’amore di per sé sarebbe forse più semplice».
Il fatto minore, la piccola casualità possono cambiare direzione alla vita, come sperimenta la protagonista Sofia. Qual è allora il ruolo della volontà?
«A me piaceva molto che Sofia facesse una scelta: vorrebbe tornare indietro, ricostruire il rapporto con suo marito. Il suo, come quello di Tancredi, è un ritorno alla semplicità: amare ed essere amati. Il problema è che, a volte, la nostra volontà, per quanto possa mettersi in gioco, ha a che fare con un’altra realtà. Tra due persone la volontà deve essere armonica, deve andare nella stessa direzione. Quindi può anche non servire, perché bisogna vedere se non ci sia una distonia, se non si crei, per rimanere in tema musicale, un contraccento che impedisca la bellezza della ricerca, attraverso la volontà, della storia d’amore sognata.
Il rapporto tra Sofia e Andrea si basa sulla linearità, quello con Tancredi sul contrasto.
«Volevo costruire, come nella prima parte, “L’uomo che non voleva amare”, due personaggi, Tancredi e Sofia, opposti in tutti i modi: una è di Ispica, piccolo paese siciliano, l’altro piemontese, lui ha un nome lungo, frastagliato nel suono, spigoloso, lei corto, arrotondato, morbido. Ho fatto scelte mirate. Tancredi è una persona abituata ad avere tutto, a determinare la sua vita, a organizzare, a essere pratico, e si scontra con la possibilità di non avere lei, per quanto possa sembrargli un’assurdità per come è solito ragionare, in maniera erronea, sulle donne. Sofia lo porta a cambiare la sua struttura e anzi ad abbandonare il suo disperato tentativo di avere sotto controllo tutto. Lei vorrebbe che lui imparasse a relazionarsi nella maniera più semplice e naturale, non disponendo tutto affinché meravigli.
Tancredi ha anche tratti perturbanti, se si pensa a come tiene sotto controllo la vita di Sofia. Un tema molto attuale quello della violazione del privato…
«Mi ha colpito quel film con Will Smith e Gene Hackman, Nemico pubblico, dove tutto veniva controllato attraverso un sistema di telecamere. Volevo far capire come Sofia si senta inibita, anche nelle sue scelte, quando capisce che tutto nasce da questa osservazione continua, da questo aver scavato, aver voluto sapere fin troppo della sua vita. Questa dinamica, secondo me, è la più innaturale in un rapporto. A un certo punto Sofia chiede a Tancredi: «Dimmi se c’è ancora qualcosa che non so», perché capisce quanto sia assurdo che le siano mancati dei pezzi della sua vita noti a un’altra persona.
Perché Tancredi controlla ma quasi mai agisce?
«Non vuole essere colui che determina. Accetta che gli eventi possano andare nel modo più naturale. Gregorio, il suo braccio destro, gli chiede se voglia far scoprire a Sofia quel che non sa, su sua madre, su suo marito Andrea. Tancredi però risponde di voler sapere ma non condizionare.
I personaggi hanno intorno ai 40 anni. Forse crescono insieme a molti suoi lettori?
«Io stesso sento di crescere e mi viene voglia di affrontare età diverse nel raccontare qualcosa che vedrebbe inevitabilmente dinamiche differenti in altri momenti della vita. Ho voluto, già nel 2011, affrontare questa storia così diversa di Tancredi, Sofia e di Andrea. In realtà, però, sia questo romanzo sia i precedenti, attraversano le età, possono essere letti indipendentemente dall’effettivo dato anagrafico del lettore, perché raccontano famiglie, spaccati, pezzi di vita, che vengono letti e osservati a seconda della sensibilità del lettore.
In che modo?
«Io credo che ognuno, a modo suo, abbia potuto ricordare alcune esperienze presenti in Tre metri sopra il cielo, in Ho voglia di te e nell’ultimo Tre volte te, che hanno riguardato un percorso partito dal liceo e sfociato nel mondo del lavoro, della famiglia, dei figli. Con questo romanzo siamo entrati in un altro momento. Siamo di fronte a un uomo e a una donna di una certa età, con la loro vita, la loro indipendenza. Mi piaceva che chi mi aveva seguito sin dai primi romanzi potesse trovare all’interno di questa storia qualcosa che lo coin- volgesse e lo colpisse.
Il tradimento e l’importanza della sincerità, due temi molto legati. Sono i motori della storia?
«Sì, ma allo stesso tempo io ho voluto prendere le parti di Sofia, portare il mio centro di scrittore e osservatore nella persona femminile, in una donna che, dopo aver abbandonato per un periodo il tetto coniugale ed essere andata per quasi otto mesi in Russia decide di tornare e riprendere in mano la sua vita, attraverso la soluzione più normale e semplice: rimettersi con suo marito. Dentro questa cornice, ho voluto sottolineare quanto oggi a volte siamo sorpresi rispetto a un messaggio, a una scoperta, a come la nostra vita possa avere improvvisamente un’altra luce e le situazioni si possano aggiustare o guastare con incredibile velocità. Sofia ha una disperata voglia di chiarezza.
Qualcosa l’ha ispirata?
«Sofia si accorge che tutto intorno a lei è diverso, come in quel bellissimo film di Kubrick, Eyes Wide Shut, quando casualmente Tom Cruise per la prima volta esce in un orario differente e tutto quello che aveva visto con un’ottica di un certo tipo assume altre luci e altre verità. Quella donna che gli sembrava andasse a fare chissà cosa in realtà era una prostituta che finiva il suo lavoro. Anche il rapporto con la moglie cambia dopo che lei gli confida di un uomo conosciuto, un soldato, da cui era stata talmente colpita che se quel giorno le avesse detto «Vieni via con me!», lei sarebbe andata. Tutte queste rivelazioni lo lasciano sbigottito e gli fanno cambiare il suo equilibrio. Questo mi è piaciuto riproporlo nella vita anche fin troppo costruita e da perfezionista di Sofia. Secondo me, il “Semplicemente amami” indica quasi una resa, come se lei o lui dicessero basta a tutto quello che sta accadendo: «Accettiamo questo nostro desiderio e amiamoci».
Ci sono aspetti che forse alcune donne non apprezzerebbero in Sofia. Ha avuto reazioni in questo senso?
«A me piace molto che lettori e lettrici mi scrivano, spesso attraverso i nostri social, che danno la possibilità di rispondere. Ho visto che loro si sono immedesimate, avevano aspettato questo seguito e hanno detto che ne è valsa la pena, perché hanno giudicato questo romanzo sorprendente. Credo che loro amino essere sorprese. Questi due romanzi su Sofia e Tancredi scavano nell’analisi che i singoli personaggi fanno dentro di loro mentre cercano di capire cosa vogliano dalla vita. Le lettrici non hanno fatto osservazioni come quelle che lei mi indica. A loro piace l’idea di essere conquistate da un uomo che non predilige la facilità di poter dire «guarda tuo marito ti tradisce», ma che desidera una donna perché effettivamente lei lo ami, raggiunga la soddisfazione, la voglia, la pienezza, e non si accontenti di un ripiego. Tancredi si comporta da cavaliere nel buio.
L’amore di Sofia per il pianoforte è descritto con grande perizia. Qual è il rapporto tra Federico Moccia e la musica?
«Nella mia infanzia c’erano le tesserine dell’Agimus, un’associazione per i giovani e la musica alla quale ci si poteva iscrivere a scuola. Io andai perché mi piaceva una ragazza, altrimenti non avrei avuto una spinta ad ascoltare la musica classica. Quando arrivai lì, però, mi sorprese il sentir vibrare in maniera diversa, rispetto ad alcuni brani, la mia capacità emotiva. Riconosco un incredibile potere alla musica classica, capace di evocare in noi qualcosa di più alto. Mi piacerebbe moltissimo fare un film moderno all’interno del quale ci fosse questo tipo di musica, che ti permette di scoprire le tue corde più nascoste. Credo sia veramente un percorso da far fare, anche ai giovani.
Lei ha un’incredibile cura anche nel raccontare il cibo. Come mai sono così importanti le scene conviviali nel suo romanzo?
«Molte cose nascono da ciò che vediamo e ci colpisce: per esempio “Il pranzo di Babette”, bellissimo film all’interno del quale si riesce, con una grande cena, a dare la possibilità a persone contrapposte, divise e in litigio, di riappacificarsi attraverso il cibo. Molto accade a tavola: le riunioni, la chiacchierata, gli accordi, le importanti strategie. Mi piace che alcune scene del libro siano create in maniera da poter far scoprire o semplicemente rievocare a chi sta leggendo i profumi, i sapori di quel tipo di pasta alla carbonara e del resto che è possibile trovare nella zona del Rione Monti, con quelle stradine e quel tipo di struttura, parte di una Roma diversa rispetto a tanti altri spaccati da me raccontati nei libri precedenti. Mi piace che ogni romanzo sia un cammino nuovo sia da un punto di vista musicale che strutturale e anche da un punto di vista culinario.
«A Pipolo che mi ha fatto un bellissimo regalo» scrive nella dedica. Che cosa le ha regalato?
«Credo che Pipolo mi abbia regalato lo sguardo: me lo ha passato piano piano, con fatica, anche rispetto a quello che poteva essere, soprattutto da ragazzo, il mio carattere. Lo sguardo per affrontare la vita, ironizzare, ridere e non addolorarsi, per affrontare la critica più feroce, ma anche il successo più grande, sempre con il giusto, adeguato distacco. Mi ha donato un amore nei confronti della vita in generale, la capacità di cogliere in tutte le cose, anche nelle più semplici, l’aspetto gioioso, di vivere guardando la bellezza di tutto ciò che ci circonda senza dover aspettare chissà cosa.
Che uomo era suo padre?
«Era una persona molto simpatica, divertente, giovane nell’animo e nei modi, sempre curioso. A 74 anni aveva iniziato a lavorare al computer: teoricamente non voleva accettarlo, invece poi ne è stato conquistato, cosa della quale vado fiero, perché sapevo gli sarebbe piaciuto, anzi sarebbe diventato un suo modo di catalogare, viaggiare, informarsi, divertirsi, e così è stato. Non ci siamo mai persi di vista, abbiamo camminato insieme, vicini. È stato un amico, un collega, con tutto il mio rispetto e la considerazione. Ogni tanto gli dicevo: «Ma perché non facciamo una cosa insieme?».
E lui?
«Ridendo mi rispondeva: «A Federi’ ho scritto 124 film, ma che mi vuoi far lavorare ancora?». Giustamente. Aveva scritto 124 film insieme a Castellano. Dopo i primi grandi successi da sceneggiatori, c’è stato un periodo in cui, in Italia, si produceva tantissimo. Marinai, donne e guai, i lungometraggi con Totò, con Tognazzi, Le ore dell’amore, Il federale, La voglia matta: alcuni anni sono stati pieni di loro film, lui mi raccontava che in quel periodo gli sceneggiatori in Italia erano 16. Nell’anno in cui io nascevo sono stati realizzati e sono usciti addirittura sette film scritti da loro. Oggi è il contrario, riesci a fare un film ogni sette anni».
Il cinema, la sala Azzurro Scipioni, i riferimenti filmici. Quanto è importante la settima arte nella sua scrittura?
«Io credo che il cinema sia stato una guida, un modo di scrivere. Mi ha permesso di conquistare una parte giovanile di lettori che ha sorpreso i critici e gli stessi editori, quando hanno scoperto, nel 2004, attraverso il successo duraturo di Tre metri sopra il cielo, con tre anni in cima alle classifiche, che anche i giovani leggono. Secondo me quella è stata la sorpresa più grande, perché oltretutto quel romanzo aveva un modo di raccontare molto cinematografico. La cosa migliore è che tu, leggendo, non debba aggrottare le sopracciglia e tornare indietro per cercare di capire che cosa volesse dire lo scrittore e che ti dimentichi quasi di leggere».
Come?
«Tu procedi e piano piano sei dentro quella scena, senti quella musica, ti accorgi di quel sorriso, di quel momento, della mano che tocca l’altra mano, della fuga, di ciò che accade intorno. Nei commenti i lettori osservano sempre che non abbandonano il libro e vanno avanti, scena dopo scena, perché vogliono sapere cosa accada: ogni capitolo si chiude lasciandoti il dubbio di quello che potrebbe essere e allora decidi di proseguire. Secondo me è una voglia naturale: raccontare creando la curiosità, come ti capita quando stai raccontando qualcosa senza scrivere».
Ora è su Netflix Summertime, liberamente ispirata a Tre metri sopra il cielo. Pensa che nasceranno un film o una serie anche da questo libro e dal precedente?
«Mi piacerebbe molto, perché L’uomo che non voleva amare e Semplicemente amami sono perfetti per una linea più adulta, con la curiosità, la dinamica delle contrapposizioni, dove prenderebbe spazio la musica classica. Servirebbe grande ricercatezza, perché ci vuole la qualità, la bellezza delle scene, del viaggiare di questi protagonisti. Quando racconti nelle pagine è molto semplice, una realizzazione cinematografica è più complessa e sicuramente più costosa, ma, con un bell’investimento, potrebbe nascerne un’ottima serie».
Dopo il successo dei primi romanzi, c’è stato un fisiologico calo di lettori. Come vive uno scrittore da milioni di copie le alterne vicende del successo?
«Io credo faccia parte inevitabilmente dello scorrere dei momenti e del piacere stesso dello scrivere. Ho sempre pensato a una storia da raccontare, così come è questa. L’uomo che non voleva amare è stato pubblicato in diversi Paesi, e molti, in tutto il latinoamerica, hanno aspettato questo seguito perché avevano voglia di leggere il continuo della storia di Tancredi e Sofia. Il successo è legato all’emozione, alla commozione, ma anche alla casualità».
Alla casualità?
«Tre metri sopra il cielo è un libro che non volevano pubblicare, è uscito dopo dodici anni ed è stato un successo clamoroso che mi ha permesso di vendere il seguito con due milioni di copie. Devi accettare il fatto che sarebbe benissimo potuto non essere, quindi, come insegna Pipolo, sii felice di quel successo e non pensare a quello che dovresti ottenere, ma lavora in maniera serena, raccontando la storia migliore che hai. Anche perché è inutile affannarsi. Quando ti chiedono: «Ma come si fa ad avere successo?». Non c’è una risposta, altrimenti tutti lo avrebbero, se ci fosse una formula magica e precisa. Secondo me fa parte del successo l’inventare nuove storie e personaggi che possano incontrare la curiosità e la passione dei lettori, anche se il mondo, con l’avvento dei telefonini, dei social e di tutto quello che prima esisteva in forma ridottissima, ha perso naturalmente, purtroppo, nell’editoria, i numeri del passato».
· Gabriel Matzneff.
Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” l'8 gennaio 2020. Fino all' altro giorno era il dandy di Francia, uno scrittore aristocratico, con una lingua raffinata, espressione di quel libertinaggio colto e spregiudicato che i francesi sanno praticare come nessun altro. Fino all' altro giorno, perché oggi è un pedofilo, un appestato, Gabriel Matzneff. A 83 anni, la discesa agli inferi di uno scrittore amico di mezzo mondo letterario di Francia, adulato in tv, editorialista fino a una settimana fa del settimanale Le Point, è stata sancita dalla decisione di Gallimard di ritirare dalle vendite i suoi diari: li pubblicava da trent' anni, la casa editrice non aveva mai preso per nessuno una misura tanto drastica. Eppure non è successo nulla di nuovo, perché Matzneff non si era mai nascosto. Anzi: dei suoi amori, delle sue conquiste fuori dalle scuole medie dei suoi amanti filippini di 11 o 12 anni, di Anne-Sophie, Marie-Elisabeth, Sandra, Juliette, dodici, tredici, quindici anni, aveva sempre parlato, scritto, raccontato. Era tutto nei suoi diari, che Gallimard pubblicava dal 1990, era nei libri che presentava da Bernard Pivot nella storica trasmissione Apostrophe. Era sotto gli occhi dei lettori, ne discuteva con gli amici, con Philippe Sollers, suo editore per anni, ma anche su Le Monde, Libération, Le Nouvel Observateur, che lo amavano, lo recensivano, lo ospitavano. Poi il 2 gennaio un' altra voce si è fatta sentire, che ha suonato come una sveglia, o la sirena di un allarme: la voce di Vanessa Springora. Fu una delle fidanzate di Matzneff: lei aveva tredici anni nell' 85, lui 50. Ne Le consentement (Il consenso) pubblicato da Grasset, Vanessa, che oggi è lei stessa editrice, racconta la storia dall' altra parte, quella che per più di quarant' anni nessuno o pochissimi- hanno voluto leggere: «a quattordici anni non è normale aspettare un uomo di cinquant' anni all' uscita delle medie, non è normale vivere in albergo con lui, o ritrovarsi a letto con lui, la sua verga in bocca all' ora della merenda Di questa anomalia io ho tratto in qualche modo la mia nuova identità. Ma quando nessuno si meraviglia di quello che mi è capitato, ho come l' impressione che il mondo non vada nel verso giusto». Il mondo non è andato per il verso giusto a lungo. Le parole di Springora suonano come un atto di accusa non solo contro Matzneff, ma contro un' epoca e una certa idea della libertà. Matzneff non parla. Secondo Le Monde, con qualche amico denuncia con tristezza un ritorno del puritanesimo. Alcuni che gli vogliono bene - tra questi anche dei ragazzi giovanissimi - hanno provato a organizzare una serata di sostegno in un bar, ma è finita con un gruppo di contestatori che lo hanno costretto a un' uscita precipitosa. Lui che non aveva mai dovuto fuggire, anzi. Il 12 settembre 1975 Pivot lo invita per la prima volta a Apostrophe. È l' anno in cui Daniel Cohn Bendit scrive ne Le Grand Bazar, riflessioni sui bambini degli asili alternativi in cui lavorava che gli varranno ricorrenti accuse di pedofilia: «Era una provocazione spiegherà il leader del '68 c' era un bisogno maldestro di provocare, ma so che quegli scritti oggi sono diventati intollerabili. Nessuno scriverebbe più quelle cose in quel modo». Nel salotto tv di Apostrophe, e tra le risatine dei presenti, Matzneff presenta il suo saggio Les moins de seize ans (Quelli che hanno meno di sedici anni, Julliard): «Penso che gli adolescenti, i ragazzini, quelli diciamo tra i dieci e i 16 anni, sono nell' età in cui le pulsioni affettive e anche le pulsioni sessuali sono le più forti perché le più nuove. Credo che niente possa succedere di più bello e fecondo a un adolescente che vivere un amore. Con qualcuno della sua età, ma anche magari con un adulto che lo aiuta a scoprire se stesso, a scoprire la bellezza del mondo e delle cose». Bisognerà arrivare al 2 marzo 1990, sempre nel salotto di Apostrophe, per sentire una voce critica, che non è quella di una francese ma di una giornalista e scrittrice canadese, Denise Bombardier, che davanti a Matzneff, venuto a presentare Mes amour décomposées (I miei amori scomposti, solito repertorio di amori con ragazzine o ragazzini), tuona: «È una cosa penosa». Bombardier si farà massacrare da tutto il milieu letterario e giornalistico: bigotta, reazionaria. Pivot ammette oggi di essere stato sorpreso dalla reazione della sua invitata: «Matzneff aveva il prestigio del bravo scrittore. Era originale, osé, avventuroso, a chi gli diceva che inventava tutto, lui teneva a ripetere che no, era tutto vero. Ma non scandalizzava nessuno, come accade oggi». Nel 2013 ha anche ricevuto il premio Renaudot per un saggio, questa volta filosofico, su Schopenhauer, ma anche su Gheddafi, la chiesa, lo stupro. Oggi il ministero della Cultura sta pensando di ritirargli un sussidio di cui beneficia dal 2002 (per il ministro Riester nulla lo giustifica). Potrebbero essere anche riesaminate le decorazioni ricevute quando era in auge: Ufficiale delle Arti e delle Lettere e Cavaliere dell' ordine nazionale del merito. I tempi sono cambiati.
Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 31 dicembre 2019. Uno scrittore francese oggi 83enne per tutta la vita ha avuto rapporti sessuali con decine di bambini, bambine e adolescenti tra gli 8 e i 16 anni, a Parigi e da turista sessuale in Thailandia, descrivendo minuziosamente quegli atti nella sua corposa e apprezzata opera letteraria. Una delle sue vittime, Vanessa Springora, direttrice delle edizioni Juilliard, ora denuncia la relazione avuta a 14 anni (lui ne aveva 50) in un libro significativamente intitolato «Il consenso». E stavolta, dopo #MeToo, i casi Weinstein ed Epstein, scoppia lo scandalo. Al centro delle polemiche ci sono la pedofilia rivendicata di Gabriel Matzneff, ma soprattutto decenni di impunità e onori concessi a colui che passa oggi, improvvisamente, dallo status di letterato a quello di predatore sessuale. Matzneff è un volto noto tra le case editrici di Saint-Germain-des-Prés e la brasserie Lipp, ma non solo. Fino agli anni Novanta quell' uomo riconoscibile per il cranio lucido, il sorriso aperto e i modi delicati appariva anche sulla tv pubblica, ospite più volte del celebre Bernard Pivot, al quale raccontava un po' divertito e un po' pudico delle sue tante conquiste all' uscita di scuola, in un Paese dove la relazione sessuale di un adulto con un minore di 15 anni (anche senza violenza) è punibile con sette anni di carcere. Eppure, Matzneff non è mai stato neppure indagato per gli atti da lui stesso confessati in tante pagine e interviste. Il coltissimo dandy nato a Neuilly da una famiglia di aristocratici russi, che adora l' Italia e parla perfettamente l' italiano, scrive passaggi come «ti sciogli nella mia bocca come un sorbetto (), mio bambino caro, quando domani all'ora di ginnastica gli altri correranno intorno al giardino del Lussemburgo, io ti insegnerò nuove carezze». Forse era arte, ma soprattutto era vita reale, la sua e quella del bambino. Come è possibile allora che Matzneff abbia ricevuto nel 1995 la medaglia di «officier des Arts et des Lettres» dal ministro della Cultura Jacques Toubon? Si dirà che lo sguardo nei confronti della pedofilia è cambiato, l' atteggiamento libertario post-68 ha lasciato il posto alla coscienza dei danni inflitti ai bambini. Ma ancora di recente, nel 2013, Matzneff ha ricevuto il prestigioso Renaudot per il saggio (niente fiction, proprio un saggio) Séraphin, c' est la fin! , una raccolta di testi, bambine e bambini compresi, scritti tra il 1964 e il 2012. Con il Renaudot, Matzneff ha ricevuto una sorta di premio alla carriera di letterato e - pur raffinato ed erudito - pedofilo. A 83 anni, Matzneff è uguale a se stesso. Di nuovo c' è il clima post-Me Too e il libro di Springora che esce il 2 gennaio per Grasset. «Finalmente, ecco la soluzione - scrive la donna - prendere il cacciatore nella sua stessa trappola, rinchiuderlo in un libro». La procura valuta un' azione penale, il ministro Riester (Cultura) preannuncia la soppressione del sussidio versato a Matzneff in virtù di una specie di legge Bacchelli. Sullo sfondo, il nuovo capitolo di una rinata lotta di classe. A parità di azioni, un sottoproletario di campagna sarebbe stato giudicato criminale e sbattuto in carcere; Matzneff invece, amico di ministri e colleghi scrittori, è stato trattato da inguaribile libertino.
LETTERA DI GIAMPIERO MUGHINI A DAGOSPIA il 31 dicembre 2019. Caro Dago, ti confesso che quando stamane sono andato sul tuo sito (una delle venti volte che ci vado ogni giorno) e ho visto in primissimo piano il volto dello scrittore francese _da me adorato _ Gabriel Matzneff ho avuto un soprassalto. A tutta prima ho pensato che fosse morto, e poi ho visto invece che riprendevi un articolo dell’ottimo Stefano Montefiori dal “Corriere della Sera” e che il tuo titolo andava in tutt’altra direzione: “E ora si premiano i pedofili”. Il tutto era stato mosso dal fatto che tra un paio di giorni entrerà nelle librerie francesi un libro di Vanessa Springora dal titolo “Le consentement”, ovvero “il consenso”. Libro che ho già ordinato su Amazon. La Springora racconta esattamente questo, il momento e il come del rapporto sentimentale tra un Matzneff più o meno cinquantenne e lei quattordicenne, un rapporto “consensuale” stando al titolo del libro. E del resto Matzneff (ho nella mia biblioteca una decina dei suoi libri, ne ho letti sette o otto) li ha raccontati a perdifiato i suoi rapporti con adolescenti, rapporti che quanto a carica erotica non scherzavano ma dove non c’era il minimo atto di violenza o di costrizione. E poi c’è il fatto che lui li raccontava superbamente, pagine dove non c’era un aggettivo o una virgola superflue, pagine in cui l’incanto del femminile – o meglio la sua sovranità –era eccezionale. Fuori di ogni dubbio Matzneff è uno dei più grandi scrittori francesi viventi, forse il più grande della generazione che ha passato gli ottant’anni (Matzneff ne ha 83). Montefiori ha un po’ l’aria di stupirsi che questo scrittore sia stato talmente riverito e premiato in Francia. O forse lo fa perché altrimenti un articolo su Matzneff in Italia non sarebbe pubblicabile. Un uomo ultracinquantenne o ultrasessantenne che ha rapporti sentimentali pieni e ricchi con delle adolescenti, o meglio ancora con delle ragazze che ha conosciuto adolescenti e che poi continuano restare nella sua vita per anni e si tratta comunque di rapporti dominati dalla grazia e dal rispetto reciproco oltre che dal desiderio sessuale. Ecco, è lecito scrivere di un uomo che ha dedicato la sua vita al desiderio per ragazze adolescenti? E’ lecito ammirare uno scrittore che non si trae indietro quando si tratta di mostrare il lato eventualmente morboso di un rapporto sentimentale e dunque sessuale? O forse sono io che sto sbagliando nell’uso dei termini, perché nelle pagine di Matzneff non c’è nulla di morboso mai quando racconta dei suoi rapporti con ragazze giovanissime. Tutto vi è lindo, pulito, pulito dalla testa ai piedi. Assolutamente pulito. Non so quali libri di Matzneff siano pubblicati in italiano. Credo pochi o pochissimi se non nessuno. Che peccato. Ve ne cito tre o quattro tra quelli editi in Francia, il romanzo Nous n’iorons plus au Luxemburg (1972), il diario del 1953-1962 che ha per titolo Cette camisole de flammes (1976), il diario del 1988 che ha per titolo Les Demoiselles du Taranne (2007). E poi badate, non che Matzneff racconti solo delle sue adolescenti. E’ un intellettuale inesuaribile quanto alle sue conoscenze ed esperienze; se parla di storia o di politica è perché sa quello di cui sta parlando. Ama immensamente l’Italia dov’è venuto mille volte e dove ha mille amici. In questo pressoché unico fra gli intellettuali francesi, i quali non sanno un beato cazzo del nostro Paese e come dimostra il loro grottesco innamoramento per un delinquente di strada quale Cesare Battisti. Leggetelo Matzneff, davvero. Non sapete che cosa vi perdete. Non so più da quale suo libro mi ero appuntato una citazione. Riguardava un tale che aveva parlato bene del libro di un suo amico che pure non gli era piaciuto. Matzneff riferisce la sua giustificazione: “Preferisco ingannare ventimila lettori che causare un dolore a un amico. Non prendo la letteratura sul serio. Riuscire un libro non è più importante che riuscire una maionese”. Dio, che delizia.
Dagospia il 15 gennaio 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro dago, non ho mai letto l'autore di LES MOINS DE SEIZE ANS ( il titolo basterebbe ), forse non m'interessavano gli argomenti, comunque G.M. è un noto, e fino a qualche giorno fa, ammirato scrittore francese. Poi Vanessa Springora ha pubblicato Le consentement e tutto è cambiato. Effetto tsunami in Francia dove certi intellò sono sempre stati intouchables. Come certi terroristi. Sconvolge che Cioran abbia difeso un simile manipolatore, un orco. E non solo lui, in una lettera apparsa su Le Monde ( 1977 ) firmano a suo favore tutti e tutte. E che dire di Bernard Pivot e Apostrophes? La letteratura può scusare tutto ? non credo, soprattutto non un predatore sessuale, un pedocriminale. Lui è un artista? jouir et écrire? basta che le vittime non siano minorenni, è facile sedurre con la letteratura. E Lolita? È tutto tranne che una apologia della pedofilia, anzi, Nabokov la condanna con forza ed eficacia. Non cerca mai di presentare Humbert Humbert come una persona perbene. Quanta sofferenza, povera piccola V, e quanto coraggio in queste pagine. Lucida, mai morbosa, scritto magnificamente, non credo sia stato facile raccontare i fatti più di 30 anni dopo. Forse era necessario per salvarsi. Vanessa ha voluto rinchiudere il mostro in un libro e ci è riuscita.
Giampiero Mughini per Dagospia il 14 gennaio 2020. Caro Dago, mai come questa volta sto cominciando a scrivere per te qualcosa di cui non so dove andrò a parare. Non lo so proprio. I fatti. Pochi giorni fa, e a partire da un articolo apparso sul “Corriere della Sera”, noi italiani avevamo saputo che era in uscita a Parigi un libro - “Le Consentement” di Vanessa Springora - la cui autrice svelava con crudo risentimento la relazione che lei quattordicenne aveva avuto con l’allora cinquantenne scrittore francese Gabriel Matzneff, da lei descritto sprezzantemente come “un predatore sessuale”. Subito io ti avevo mandato poche righe a esprimerti la mia ammirazione per lo scrittore Matzneff, un’ammirazione che in Francia è largamente diffusa, tanto che ancora nel 2013 gli è stato conferito un importante premio letterario. E del resto uno o due giorni dopo è apparso sul “Foglio” un ulteriore encomio - dell’uomo e dello scrittore Matzneff - da parte di Giuliano Ferrara, uno che lo conosce bene perché quando sta a Parigi è un suo vicino di casa. Per quanto mi riguarda, e stando ai suoi libri, aggiungevo che la predilezione di Matzneff per le adolescenti mi sembrava scevra da ogni forma di insidia e di violenza. Scrivevo che Matzneff mi appariva “pulito, pulitissimo dalla testa ai piedi”. Ora è arrivata questa drammatica testimonianza di una donna che ha scelto l’arma più letale per trafiggere Matzneff, ossia scrivere un libro, l’andare sul suo terreno, sul terreno dove è stato finora un sovrano. E “Le Consentement” è un gran bel libro. L’ho cominciato a leggere ieri e non l’ho più lasciato sino alla sua ultima pagina, la 206. Confesso di non essere la stessa persona che ero prima di leggere. No, non che io fossi uno di quei “sessantottini” di cui parla la Springora, gente che ritiene che tutto sia lecito e che è vietato vietare. No, in tutto e per tutto c’è che io ritenevo lecita una relazione sentimentale tra un uomo maturo e un’adolescente, pensavo che una tale esperienza possa essere un arricchimento e dell’uno e dell’altra, un’occasione che la vita offre all’uno e all’altra. Sempre che in una tale relazione non ci sia alcuna costrizione, alcun uso di una forza sia pure simbolica da parte dell’uomo che ha tanti più anni della ragazza. E’ esattamente qui che ho preso il libro della Springora come uno schiaffo in faccia. Lei racconta a meraviglia l’incontro della sé stessa quattordicenne e pressoché orba della figura paterna (il padre era quanto di più cialtronescamente assente) con un uomo che ha tutto del seduttore professionale, dalla voce ai gesti al rango in cui è tenuto dalla società letteraria francese. Ci mette niente a salire a piedi fino al sesto piano della cameretta in cui Matzneff vive, e anche quella cameretta zeppa di libri e con un cucinino che sì e no ci puoi far bollire un caffè fa parte della seduzione fulminante che promana da quest’uomo. E’ il primo uomo della sua vita, il primissimo, il primissimo in ogni senso dato che il padre non ha lasciato su di lei la benché minima traccia. Solo che per quest’uomo - almeno così pensa la Springora di oggi - quello che conta di “V.” è soltanto la sua età, una delle tante men che quattordicenni che lo attizzano e che lui bracca, è un esercizio ginnico, un’occasione narcisistica ad alimentare il suo fervore sessuale e più tardi la sua scrittura. In contemporanea con “V.” Matzneff bracca altre adolescenti, ad esempio una Nathalie con cui lei lo vede abbracciarsi per strada. E questo è niente. C’è ancora che Matzeff lo scrive dappertutto quanto gli siano cari i “culi freschi” dei ragazzi che vivono in quelle Filippine dove lui arriva di tanto. E io confesso che per mia cecità di questi “culi” non mi ero accorto affatto nei sette o otto libri di Matzneff che ho letto e adorato. Chi ha ragione tra me la Springora, che ci ha messo anni e anni a scrostarsi di dosso l’infezione psichica che le ha lasciato questa storia? Non so, non so davvero. Adesso in Francia gli editori che pubblicavano gli ammiratissimi libri di Matzneff li hanno ritirati dalla circolazione. Ho pagato 60 euro l’ultimo suo libro appena uscito da Gallimard, ma ancora non mi è arrivato. E’ possibile che gli ritirino quella sorta di “sussidio Bacchelli” con cui riusciva a mangiare una volta al giorno in una delle più celebri brasserie del Quartiere Latino. Persino il minuscolo alloggio in cui vive (e dove non paga affitto) è in forse. In un’intervista all’ “Express” Matzneff si è rivolto così alla sua amante di un tempo: “Tu lo sai che l’orribile ritratto che fai di me è falso. Tu lo sai che la nostra storia non è stata quella che racconti adesso con tale sprezzo”. Non so, non so davvero. E del resto esiste una verità unica e assoluta di ciò che è accaduto tra due persone 36 anni fa?
Ps. Il libro della Springora è uscito il 5 gennaio, il padre che per lei non è mai esistito è morto l’8 gennaio. Quando la vita è più romanzesca di un romanzo.
· Geco.
Da romatoday.it il 9 novembre 2020. I suoi graffiti con la scritta Geco sono visibili in tutta la Capitale. Da Termini ad Ostiense, passando per San Giovanni, Monteverde, il Grande Raccordo Anulare e la Tangenziale sono decine i palazzi, i muri e le strutture urbane che hanno visto il writer apporre la sua tag a lettere cubitali. Dopo un anno di indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Roma sono stati gli agenti del NAD (Nucleo Ambiente Decoro) della Polizia Locale di Roma Capitale a dare un nome ed un volto all'autore dei graffiti. Trent'anni, romano Lorenzo P. è stato rintracciato dai caschi bianchi in un'abitazione di San Lorenzo ed è stato deferito all’Autorità Giudiziaria per danneggiamento e reato continuato, a cui faranno seguito le richieste di risarcimento per i danni riportati dalle parti interessate. Nel corso delle indagini sono stati rinvenuti e posti sotto sequestro più di 1000 adesivi, decine di bombolette spray, attrezzi tecnici come funi da arrampicata o estintori modificati come diffusori da vernice, oltre a pc e apparecchiature elettroniche. "Centinaia di bombolette spray, migliaia di adesivi, funi, estintori, corde, lucchetti, sei telefoni cellulari, computer, pennelli, rulli e secchi di vernice - il commento della Sindaca Virginia Raggi -. Si tratta del materiale che il Nucleo Ambiente e Decoro della nostra Polizia Locale ha sequestrato al writer romano noto come “Geco” che, insieme all'assessore Linda Meleo, avevamo già denunciato per aver deturpato diversi edifici della nostra città. Grazie al lavoro del Nad, e a un anno di indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Roma, i nostri agenti sono riusciti a identificare il writer. I magistrati hanno poi disposto perquisizioni domiciliari e nei mezzi a sua disposizione. Era considerato imprendibile, ma ora Geco è stato identificato e denunciato. Ha imbrattato centinaia di muri e palazzi a Roma e in altre città europee, che vanno ripuliti con i soldi dei cittadini. Una storia non più tollerabile". Un firma quella di Geco molto conosciuta anche in Grecia, Spagna ed a Lisbona, dove il 30enne romano ha vissuto per oltre un anno lasciando decine di graffiti anche nella capitale portoghese. Intervistato nel 2018 da un giornale lusitano (ocorvo.pt), Geco aveva affermato che il suo obiettivo era quello di apporre così tante firme in città "per rendere impossibile che si potesse dimenticare il suo nome". Una lunga intervista nella quale raccontava le difficoltà di poter eseguire i suoi lavori a Roma, soprattutto su edifici e siti abbandonati, "azioni di bombing", aggiungeva Geco nella sua intervista. Sono decine le firme lasciate da Geco nella Città Eterna, alcuni delle quali in luoghi impossibili da non notare, come i serbatoi piezometrici a decine di metri di altezza ma anche su cartelli stradali, saracinesche, palazzi e muri di cinta. A denunciare i suo lavori anche "L'Associazione per Villa Pamphili".
Raffaella Troili per “il Messaggero” il 10 novembre 2020. «Mi avete beccato...». Le gesta di Geco, che si definiva un supereroe (piuttosto egocentrico nel suo genere), sono finite. L' imprendibile writer che ha imbrattato centinaia e centinaia di edifici non solo a Roma ha un volto e un nome: Lorenzo Perris, 30 anni, è stato identificato e denunciato per danneggiamento e reato continuato dagli agenti del Nard, Nucleo Ambiente e Decoro della Polizia di Roma Capitale. Era nella sua casa in zona Prenestino: durante la perquisizione sono stati sequestrati centinaia di bombolette spray, migliaia di adesivi, funi, estintori, corde, lucchetti, sei telefoni cellulari, pc, pennelli, rulli e secchi di vernice. D' altronde Geco ha lasciato il segno ovunque ed era ricercato anche all' estero, in particolare a Lisbona dove si era rifugiato per poter esprimersi con più tranquillità (oppure perché non aveva più spazi liberi a disposizione) negli ultimi anni. Detto che sotto casa di molti compare la sua scritta anonima, una sorta di Zorro de' noantri, tra i luoghi deturpati dalle sue bombolette ci sono le Mura Aureliane a Porta Maggiore, la Torre di Santa Bibiana, il mercato di via Magna Grecia, le metro San Paolo e Cornelia, le pertinenze di Villa Pamphili, il mercato di via Catania, l' Archivio centrale di Stato al Laurentino, piazza San Callisto, molte stazioni ferroviarie, il Gra in più punti, come pure l' A24 altezza Portonaccio. Ma il suo tag è sui muri di mezza Europa, dalla Grecia alla Spagna. Anche a Genova. «Lo avevamo già denunciato per aver deturpato diversi edifici - così su Facebook la sindaca Virginia Raggi - Grazie al lavoro del Nad e a un anno di indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Roma i nostri agenti sono riusciti a identificare il writer considerato imprendibile. Ha imbrattato centinaia di muri e palazzi a Roma e in altre città europee, che vanno ripuliti con i soldi dei cittadini. Una storia non più tollerabile». La sua carriera era iniziata da ragazzino, tanto che l' elenco dei luoghi dove è scritto Geco a Roma è sterminato, tutti i quartieri - San Giovanni, Tuscolano, Tor Sapienza, Tintoretto - sono stati battezzati con quel nome misterioso. Non solo bombing su edifici e monumenti, amava anche attaccare adesivi autoreferenziali: tanto che ieri la Municipale ne ha sequestrati 13mila. I danni a lui imputabili - la conta alle varie amministrazioni e ai privati - sono milionari, solo la città di Lisbona ha chiesto un risarcimento di 500mila euro. Il 30enne vive da solo e non lavora, troppo preso dal suo impegno di writer. Dopo esser stato individuato e denunciato si è calato in un «mutismo estremo». Per anni è stato irrintracciabile, bravo a eludere le telecamere, agire nella notte. Ma a luglio ha commesso qualche piccolo errore, nel tracciare murales e graffiti. Fondamentale l' aiuto che hanno fornito alle forze dell' ordine diverse associazioni che da anni presentavano esposti nei suoi confronti in particolare quella di Villa Pamphili. Anche la polizia portoghese, sulla spinta delle proteste di centinaia di residenti, ha fornito una spinta importante alle indagini. Gli investigatori hanno chiesto un supporto psicologico ad esperti per tracciare il profilo del writer, definito maniacale nella costruzione di una propria personalità in maniera egocentrica e patologica, ma che pure trova amatori visto che esiste una pagina Instagram chiamata #gecostreetart. Nel 2018 a Lisbona Geco accetta di farsi intervistare senza dare riferimenti sull' identità su un giornale on line della città. L' Italia è lontana, si sente al sicuro. «Dipingere a Roma è un compito più difficile, esco solo di notte o all' alba, qui i poliziotti sono più permissivi (...) - spiega - Sono un bombardiere, il mio stile non differisce da città a città. Voglio diffondere il mio nome più che avere un' estetica super sviluppata. Il primo obiettivo dell' attentatore è la quantità, quando dipingi inizi a vedere ogni muro come una sfida, poiché il mio obiettivo è essere ovunque, devo andare ovunque. Per essere visto e conosciuto da tutti. I graffiti sono per natura illegali e non si fermeranno mai, li vedo come uno sport, ma illegale. È come se fossi un supereroe, più sei esposto più devi essere anonimo. Il mondo dei graffiti è puro egocentrismo, nel mio caso una vera megalomania, voglio attirare l' attenzione di tutti e provocare un sentimento di amore o odio. Non passare inosservato».
Arianna Di Cori per “la Repubblica” il 13 novembre 2020. Geco. Anzi, GECO, scritto tutto in stampatello maiuscolo. Chi c' è dietro quella firma, di cui sono tappezzati i muri della capitale e non solo? E perché sempre e solo quella parola, che campeggia su facciate di palazzi e spunta ormai ovunque, su muri di periferia, cartelli stradali e cantieri abbandonati? Non è un caso che l' autore sia stato definito il «writer più ricercato d' Europa». La sindaca di Roma, Virginia Raggi, ha definito la sua presenza «intollerabile», tanto da esultare alla sua denuncia da parte del Nucleo ambiente e decoro della Polizia di Roma capitale, rivelata lunedì da Repubblica . Ma su di lui continua ad aleggiare il mistero. E non è solo una questione di identità, sebbene Raggi abbia chiaramente parlato di «identificazione» di Geco, riferendosi a un trentenne romano le cui iniziali sono L.P. Solo il Tribunale potrà confermarlo. «Al momento non sono ancora stati formalizzati i capi d' accusa, l' indagine non è ancora chiusa - spiega l' avvocato di Geco, Domenico Melillo, anche lui writer con il nome di Frode nonché estensore della proposta di legge per depenalizzare il reato d' imbrattamento, presentata alla Camera nel febbraio 2019 - pertanto eviterei supposizioni a carico dell' indagato. Le carte non ci sono». Per l' iter giudiziario, ci sarà dunque da aspettare. Conoscendo i tempi della giustizia romana, potrebbero essere anni. Ma quel nome resta, stampato in caratteri cubitali: sui muri e nelle teste delle persone. Cosa significa? Nulla a che vedere con il piccolo rettile, che come lui si arrampica sui muri. Dietro a Geco c' è un segreto: la storia di un' altra persona, molto vicina a lui. Una persona affetta da autismo.
GECO - proprio scritto tutto in maiuscolo come usa fare il writer - è una piattaforma di apprendimento, usata comunemente nelle scuole, per permettere ai bambini affetti da disturbi dello spettro autistico di studiare. Un programma che Geco il writer conosce, basato sulla possibilità di riprodurre all' infinito determinati pattern, che comunica attraverso lettere e immagini ed è in grado di trasformare testi complessi in schemi essenziali. In giro per Roma e Lisbona armato di funi per l' arrampicata ed estintori trasformati in letali diffusori di vernice, a bordo di voli low cost con zaini ricolmi di sticker, Geco ha fatto viaggiare il suo nome. Vile deturpazione di beni pubblici e privati per alcuni, arte per altri. Per lui forse un grido di disperazione o un omaggio, il modo per dire: «Ci sono e ti sono vicino». E chissà che quel nome - quelle quattro lettere che la città restituisce tutti i colori che la vernice ha da offrire - non sia stato riconosciuto da altri bambini affetti dalla stessa sindrome, quando alzano il naso all' insù. La somiglianza tra lo stile del graffito e il logo del programma web è lampante: block lettering su fondo nero. Il suo è un segreto condiviso con pochi: nella comunità dei writer romani di lui, il Geco privato, emerge poco. Viene descritto come un tipo nella norma, agli antipodi dell' immagine di tanti writer metropolitani. Uno che ha studiato, lavora, relativamente timido, poco amante della vita sociale, un po' ansioso: «Sapeva che gli stavano dando la caccia», dicono gli amici. Nulla di nuovo: pure i serial killer sanno essere bravi vicini di casa. Sul trentenne intanto pende una denuncia, perpetrata dai vigili del Nad, per il reato di danneggiamento e reato continuato, a cui faranno seguito le richieste di risarcimento per i danni riportati dalle parti interessate: indiscrezioni parlano di centinaia di migliaia di euro, ma saranno da confermare in sede di giudizio. I caschi bianchi hanno spiegato di aver scoperto, nel corso del loro anno di indagini, che dietro a ogni azione di Geco c' era un gruppo, una rete. Chissà se solo vedette (i cosiddetti "pali") oppure materiali esecutori dei lavori più grandi, data la necessità di eseguirli in gran fretta. Contro di lui saranno esposte prove digitali - telecamere, chat, siti - e, a quanto hanno dichiarato i vigili, evidenze reali. Quel che è certo è che il danneggiamento (di cui il reato d' imbrattamento è una sub-specie) è un reato penale che può essere punito con la reclusione fino a 3 anni. Su manufatti vincolati (è il caso della torre piezometrica di Stazione Termini, monumento razionalista del Mazzoni) è danneggiamento aggravato, la reiterazione è un aggravante. Ma tutto è ancora da vedere. Quello che sicuramente non si vedrà più saranno nuovi Geco scritti a caratteri cubitali, o i suoi adesivi rettangolari, ormai parte integrante di una vasta percentuale della segnaletica stradale romana. Fine della sua foga distruttrice? Fine del più grande "bomber" romano? Dipende dai punti di vista. Sarà una vittoria (parziale) per chi nel writer - e più in generale al writing - riconosce parte del degrado della capitale. Che poi sia una città che non versa certo in condizioni radiose - per cause che vanno decisamente al di là dell' operato del più temibile tra i writer - questa è un' altra storia.
· George Orwell.
Libri, librerie e recensioni. Le confessioni di Orwell. Il grande autore inglese ci consegna un interessante autoritratto attraverso i suoi gusti in fatto di letture. Seba Pezzani, Martedì 04/08/2020 su Il Giornale. Alzi la mano chi non ha mai curiosato in una libreria senza portarsi a casa un volume di uno scrittore ignoto, magari perché la copertina aveva suggestioni irresistibili o, semplicemente, perché il libro in questione era un bell'oggetto. Libri contro sigarette (Nuova Editrice Berti, pagg 94, euro 12; traduzione di Sara Aggazio) di George Orwell (1903-50) non è un libro di un autore ignoto, ma di certo è un oggettino allettante, talmente piccolo da stare nella tasca di una giacca. Eppure, malgrado le dimensioni ridotte, c'è tanta sostanza in questa raccolta di scritti risalenti al 1945-46 (con l'eccezione del primo, «Ricordi di un libraio», del 1936) in cui Orwell ci racconta cosa sia la scrittura per lui e pure quale forma di straordinaria attrazione esercitino i libri. Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia e i tempi sono certamente cambiati, con lo strapotere degli strumenti elettronici che sempre più fagocitano il passatempo della lettura, ma i principi sono gli stessi e le parole di Orwell, ancora una volta, pungono come punteruoli. Siamo nella fase della maturità del grande autore inglese, morto nel 1950, prima ancora di compiere 47 anni. Il 1945 è l'anno della pubblicazione de La fattoria degli animali e la sua opera più celebre, 1984, sarebbe uscita nel 1948 e Orwell non avrebbe fatto in tempo a godere del suo successo. Si tratta di due romanzi rivoluzionari, malgrado qualcuno li abbia tacciati di moralismo strisciante, a tratti indigesto. Libri contro sigarette potrebbe piacere persino a quei lettori che mal digeriscono i predicozzi, persino quando mascherati da affreschi popolari. Le parole di Orwell, anche quando affronta il tema caro della scrittura, appartengono di diritto al suo stile abituale: asciutto, talvolta talmente semplice da far storcere il naso a chi lo ritiene didascalico. Nulla di più falso: non c'è il minimo autocompiacimento dell'autore in nulla di ciò che scrive e, in questi brevi saggi, lo dichiara apertamente, togliendo ogni dubbio al riguardo. In «Ricordi di un libraio» c'è tutta la passione del lettore-scrittore che è pronto persino a lavorare in una libreria pur di restare nel suo ambiente. Eppure, non manca qualche battuta sagace. «La vera ragione per cui non mi piacerebbe rimanere nel commercio di libri per sempre è che, quando ci ho lavorato, ho perso il mio amore per i libri. Un libraio è costretto a mentire sui libri e questo porta a una sorta di repulsione nei loro confronti; ancora peggio è il fatto che deve sempre spolverarli e trasportarli avanti e indietro». Nella sua carriera, Orwell fu pure un giornalista e saggista. In «Confessioni di un recensore» dice che «La maggior parte delle recensioni offre un resoconto dei libri inadeguato e fuorviante». Che avesse patito le angherie di qualche collega poco tenero nei confronti dei suoi scritti? Fatto sta che il concetto può essere valido tuttora. Particolarmente esilarante è «I buoni libri brutti», in cui Orwell si appropria della buffa definizione coniata, sembra, da G.K. Chesterton. Il buon libro brutto è «quel tipo di libro che non ha alcuna pretesa letteraria ma che risulta più leggibile di tante produzioni serie cadute nell'oblio». Orwell inanella una serie di picconate ai danni di alcuni autori vanitosi e pretenziosi, con un sarcasmo che ricorda da vicino le simpatiche censure di Mark Twain ai danni di illustri colleghi, come James Fenimore Cooper. In fondo, «L'esistenza della buona brutta letteratura... ci ricorda che attività artistica e attività intellettuale non vanno sempre di pari passo». La capanna dello zio Tom è «un caso esemplare di buon brutto libro... Un libro involontariamente comico, pieno di insensati episodi melodrammatici, profondamente toccante e autentico». In «Perché scrivo», Orwell esprime grande sincerità e predisposizione all'autocritica, oltre che una certa autoironia, tratto quest'ultimo che non sempre è parso evidente nella sua carriera. D'altro canto, La fattoria degli animali e 1984 non sono esattamente due commedie. Ma Orwell pare insistere sul fatto che l'esercizio della scrittura sia meno intellettuale di quanto lo scrittore medio pretenda. E si scrive per quattro ragioni: puro egocentrismo; ardore estetico; urgenza storica; fine politico. Inutile negarlo: Orwell è un autore politico, di convinzioni socialiste e al tempo stesso fortemente critico verso la deriva autoritaria dei tentativi di socialismo reale a cui aveva assistito. Le sue stesse esperienze in seno alla polizia imperiale indiana, in Birmania, e la conoscenza dell'imperialismo e dei totalitarismi incrementarono il suo «disprezzo per l'autorità» e lo portarono «in contatto, per la prima volta, con la classe operaia». Orwell scrive perché vuole smascherare menzogne, ma pure perché il romanziere ha un afflato estetico che lo distingue dal semplice cronista.
· Giacomo Leopardi.
Scoperto articolo inedito di Leopardi, il poeta recensiva Dante. Dagli autografi della Biblioteca Nazionale di Napoli riemerge un testo in bella copia del 1816. Che lo scrittore rinunciò a pubblicare. La Repubblica il 20 gennaio 2020. Un testo compiuto, in bella copia, molto probabilmente risalente all'autunno 1816. L'autore, come indica la firma, è Giacomo Leopardi. Il testo, che il poeta rinunciò a pubblicare, recensisce l'opuscolo "L'ombra di Dante", "visione" in terzine di Giuliano Anniballi, stampato a Loreto nel 1816. Il documento, sconosciuto, riemerge dalle autografe di Giacomo Leopardi (1798-1837) custodite alla Biblioteca Nazionale di Napoli. La scoperta dell'articolo, informa l'AdnKronos, è di Christian Genetelli, professore ordinario di letteratura e filologia italiane all'Università di Friburgo (Svizzera) e membro del comitato scientifico del Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati. Ne dà notizia lo studioso in un volumetto in uscita in questi giorni a Milano presso Led-Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto (collana "Palinsesti") dal titolo "Un'inedita e ignota recensione di Giacomo Leopardi ('L'Ombra di Dante')". L'autografo leopardiano è un foglio semplice, vergato sul recto e sul verso. Lo studio di Genetelli spiega genesi, particolarità e implicazioni dell'inedito: lo colloca all'interno di una stagione di attività febbrile per Leopardi, fresco di 'conversione letteraria', in cui proprio il nome di Dante assume un posto privilegiato dentro la sua poetica del primitivo. Attenzione, naturalmente, è riservata anche all'involontario co-protagonista, all'autore dell'"Ombra di Dante", di cui è tracciata l'intera parabola: dai primi passi nella nativa Urbino fino agli anni riminesi della maturità e della vecchiaia, ormai oltre la metà dell'Ottocento, ma inspirando ed espirando sempre fiera aria classicista. La scoperta di questo breve articolo, spiega il professore Christian Genetelli viene così "ad arricchire il corpus delle opere leopardiane non sul versante dell'incompiuto, dell'appunto o dell'abbozzo, ma su quello dei testi finiti, pronti per la stampa, anche se poi rimasti inediti (e tuttavia conservati e portati con sè dall'autore fino a Napoli, fino alla sua ultima dimora)".
· Giampiero Mughini.
Federico Novella per “la Verità” il 30 novembre 2020.
Giampiero Mughini, giornalista, scrittore, intellettuale, nonché luminare del pallone. Che ne pensa del maradonismo dilagante di questi giorni?
«Ha i tratti di una subcultura. Una cosa è commemorare apprezzare uno dei più grandi atleti del Novecento, altra cosa farne un Dio. L' interprete è stato immenso, tra i cinque calciatori più grandi al mondo. Trovo eccessivo però averlo esaltato anni fa nel più illustre teatro napoletano, ossia nella città di Totò, Eduardo De Filippo e Raffaele La Capria. Eppure, in queste ore mi stanno insultando: solo perché ho detto che Maradona non è un santo. Lo dico con commozione per il tragico destino umano di un uomo morto a 60 anni ma che s' era autodistrutto da tempo».
Riconoscerà che lo scudetto del Napoli lo ha creato lui.
«Lui senz' altro eccome, ma anche Alemao che in una partita decisiva si diede per morto per una monetina da 20 lire piovutagli sulla testa che non avrebbe fatto male a una mosca».
Saviano ha scritto: «Non pensavo Maradona fosse mortale e non un Dio».
«Ho letto queste sue frasi, incredibilmente banali, in cui il napoletanista sopravanza così tanto l' intellettuale. Del resto, non so dire quanto Saviano valga come intellettuale».
Non crede alle minacce della camorra nei suoi confronti?
«I tribunali hanno registrato le testimonianze di mafiosi che dicevano che quelle minacce non sono mai esistite. Falcone non è che lo minacciarono, lo fecero saltare in aria».
L'altra ideologia della settimana, oltre al maradonismo, è il boldrinismo.
«Per carità, abbiamo parlato di un protagonista immenso come Maradona. Non passiamo parlare di una mezza calzetta».
Il boldrinismo è la declinazione odierna del femminismo che incontra il politicamente corretto.
«Siccome sono un uomo che per 365 giorni l' anno onora la donna e il femminile, ai miei occhi il femminismo porta il nome di Carla Lonzi, non certo quello della Boldrini, la quale voleva che Mattia Feltri pubblicasse un suo insulso articolo contro Feltri padre. Per dire di Vittorio Feltri quello che si merita, nel bene e nel male, ci vuole ben altro che le risorse intellettuali di cui dispone la Boldrini».
Si è scoperchiata l' ennesima polemica sul passato che non passa. Mario Calabresi non ha dato la mano a tre persone coinvolte nell'omicidio di suo padre. Chi sono?
«Ha fatto benissimo Calabresi, e io neppure sotto tortura dirò chi penso siano quei tre, due dei quali so benissimo chi sono. Uccidere un commissario di polizia in un agguato al centro di Milano fu un' operazione condivisa da almeno 20 persone, senza contare le rispettive fidanzate».
E gli intellettuali omertosi?
«A quel tempo ce n' erano caterve. Oggi si limitano a tacere per vigliaccheria, perché se metti becco in un argomento del genere, ti fai dei nemici. E parlo per testimonianza diretta. Io su questa storia ci ho scritto un libro: a parte l' amico Cazzullo, non ne parlò nessuno. Anzi, venni querelato da un paio di militanti di Lotta continua».
Lei ha scritto: «Come si fa a vivere 50 anni nella menzogna più bieca?».
«Ci sono carriere da difendere, soprattutto nell' editoria e nella comunicazione. Intendiamoci, non che io oggi voglia inchiodare una persona alla sua eventuale responsabilità morale per un episodio di quarant' anni fa. Basterebbe però dire semplicemente: ho approvato, ho applaudito, mi dispiace di averlo fatto».
C' è chi scelse di non farlo.
«Nando Adornato mi raccontò che, nel suo liceo, quando arrivò la notizia dell' attentato omicida, l' intera classe scattò in piedi ad applaudire. Lui quasi si nascose per non farsi vedere che non applaudiva».
Quelli che oggi tacciono fanno ancora lezioni di civismo?
«Ognuno risponde di sé stesso. Ho sempre pensato che, in fatto di moralità, non si possano dare lezioni. I sacerdoti del Bene, e Saviano è uno di questi, per me sono insopportabili. Humphrey Bogart non dava lezioni di coraggio: era il coraggio».
Non ha avuto parole molto tenere nei confronti degli intellettuali che parlano di politica.
«Molti sono dei pagliacci, ma non tutti. Molti».
I mandanti morali sono ancora sulla cresta dell' onda?
«Il famoso appello dell' Espresso contro Calabresi del 1971 è stato firmato da 800 persone, e nell' elenco c' erano tutti. Fu un gesto idiota, di cui in pochi si sono pentiti. Uno di loro, il mio amico Paolo Mieli».
Troppo pochi?
«Dopo tanti anni, avrei voluto che qualcuno in più dicesse: è stata una porcata, e purtroppo ci ho creduto. Niente da fare. Non vogliono rovinare il loro pubblico potenziale. Cialtroni da due soldi».
Comunque, la difficoltà a metabolizzare il passato fa parte del nostro dna.
«La mia generazione ha avuto la fortuna pazzesca di non dover combattere una guerra, e di vivere in un Paese con reddito in crescita. Anziché ringraziare il cielo, ci siamo inventati una guerra psicotica, l' antifascismo degli anni Settanta, che non aveva senso poiché il fascismo venne seppellito dalle bombe americane del '45».
Dunque?
«In virtù di questa guerra psicotica i miei compagni di viaggio sono andati per strada ad ammazzarsi tra di loro. E ne conosco tanti. Un pomeriggio dei primi anni Settanta lanciarono le molotov contro la biblioteca giuridica del ministero di Grazia e giustizia, accanto a casa mia. Un poliziotto li inseguì e ne uccise uno. Per una molotov scagliata contro la porta di una biblioteca, rendiamoci conto».
Anche il coronavirus viene descritto come una guerra.
«Non cadiamo nel ridicolo. Ci sono 53.000 morti in Italia ma è altra cosa di una guerra. Nel 1944 io bambinetto accompagnavo mia madre a prendere l' acqua alla fontana. Alzavo lo sguardo e vedevo gli aerei alleati che si avventavano su Firenze, dove vivevamo».
Come lo vive il lockdown?
«Non mi fa né caldo né freddo. Vivo come sempre. Mi sveglio, vado in edicola a prendere i giornali, e poi la passo la giornata nella mia stanza dei libri. Capisco il problema delle famiglie i cui figli non possono andare a scuola e che restano a gironzolare per casa».
Il Mughini ventenne che si scontrava con la polizia a Parigi, oggi si ribellerebbe?
«Il Mughini di Parigi non esiste più. Non partecipo minimamente dello stato d' animo dell' assembramento. Io sto magnificamente da solo e per i fatti miei».
Non le dà fastidio l' iperpresenzialismo dei virologi?
«Non pontifico su materie che non conosco. Ciascun virologo risponde per sé stesso. Però per la televisione è stata una manna: si possono fare intere trasmissioni che costano 100 lire, con un virologo e un ospite a caso che parla relativamente italiano».
C' è chi pensa che la tragedia economica sia peggiore di quella sanitaria.
«Molte categorie stanno combattendo una guerra di sopravvivenza. C' è gente che torna a casa dai figli senza sapere come pagare le bollette. E senza godere del reddito di cittadinanza».
Un sussidio che non le piace?
«Per carità, anche all' estero ci sono misure analoghe. Però all' estero sanno come farle funzionare. Da noi vedo tanti imbroglioni in giro».
Un Paese diviso anche nella tragedia?
«Certamente i lavoratori del pubblico impiego non ci hanno rimesso un centesimo. Ma c' è sempre stata l' Italia dei garantiti, quelli che saltano il lavoro per un ginocchio dolorante, mentre le partite Iva vivono alla giornata, nel senso che rischiano ogni volta il loro lavoro e il loro reddito. Per questo continuo a pensare che lo stipendio di Bari non dev' essere uguale a quello di Milano».
Cioè?
«È evidente: con 1.000 euro al Nord non compro le stesse cose che posso permettermi al Sud. Gli affitti, tanto per dirne una, a Bari viaggiano al 40% in meno che a Milano».
Ci crede al partito di Giuseppe Conte?
«Oggi i partiti non esistono più, e quindi è facile farne degli altri. Conte va in televisione 10 volte al giorno, mille iscritti al suo partito li trova. Poi cosa possa rappresentare un partito di Conte non ne ho la più pallida idea».
Non sembra essere ispirato dal personaggio.
«Ai miei occhi non è interessante, difatti su di lui non ho mai scritto una riga. La cosa pazzesca è che lui prima era capo di un governo "ics", oggi è capo di un governo "ipsilon". Se oggi mi chiedessero un nome di un valido presidente del Consiglio sarei in grave difficoltà. Mi piaceva Matteo Renzi, ma oggi è divenuto uno degli uomini più odiati d' Italia».
Mi faccia una fenomenologia dei 5 stelle.
«Non ho mai capito chi siano davvero. L' unico elettore dei 5 stelle che ho conosciuto in carne e ossa era una giovane avvocatessa. Mi disse: ho votato i 5 stelle perché ho litigato con il fidanzato».
Per il resto?
«Se trovassi per strada un 5 stelle, lo toccherei per verificare di quale materiale è fatto, se esiste davvero oppure no».
Tra alti e bassi, sembra che Pd e M5s siano destinati a viaggiare insieme?
«Questo governo nasce da uno sgambetto di Renzi in area di rigore con il quale ha messo insieme due formazioni politiche che non avevano nulla in comune, e questo pur di sgambettare la Lega».
Il Pd vede il protagonismo di Conte con un certo fastidio: lo si accusa di pensare troppo alle nomine, e troppo poco ai provvedimenti necessari al Paese, come le priorità del Recovery fund.
«Sì, ma il Pd che idea contrappone? Del resto, se cerchi di costruire un' identità politica sulla base dei paradigmi di 30 o 40 anni fa, stai nelle nuvole, in quanto tutto della nostra vita pubblica è mutato radicalmente».
Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 15 luglio 2020. Ventimila libri e zero follower, Giampiero Mughini - narrant - abita in una splendida casa romana, tra Monteverde e un' Italia che declina. Da una parte scorre il Tevere, dall' altra i ricordi di un gran secolo stipato di invenzioni e rivoluzioni, idee e ideologie, futuri e futurismi, demoni e rabbie, miti e icone, donne belle e cattive, errori e orrori, sogni e meraviglie. Figlio del Novecento, siciliano di Roma, scrittore per vizio e giornalista per caso, Mughini nelle sue stanze ha raccolto negli anni pezzi di design, fotografie, grafiche e manifesti, da Dudovich a Depero: arte e carte. Soprattutto libri: alcuni rari per tutti, altri solo per se stesso (che di solito sono i più belli). In via Segneri c' è un collezionista. Esperto della miglior editoria del Novecento, amante dell' art nouveau, così appassionato della cultura colorata (fra Gaetano Pesce e il pop) da potersi permettere di sognare in bianco e nero, Mughini «è» i suoi libri. Quelli che possiede - alcuni unici, anche dopo l' alienazione della collezione futurista - e quelli che ha scritto, dagli anni Settanta (erano i tempi della peggio gioventù, e c' era ancora la SugarCo) a oggi. Quanti sono? Boh! Uffa! Comunque tanti. Insieme compongo un collage, del Novecento, e un ritratto, il suo. Metteteli uno accanto all' altro e avrete la biografia intellettuale di un uomo che ha saputo scegliere il meglio di un secolo che brilla per il suo peggio (comunismi, razzismi, terrorismi, a scelta). Comunque, la cosa andava fatta. E così un librofolle di gran razza, Massimo Gatta - il Maine Coon della bibliofilia - gli ha dedicato una sontuosa plaquette bio-bibliografica: Giampiero Mughini: l' homme à papier (Biblohaus). Come dice il sottotitolo: un «Ritratto in forma di libro di un figlio del Novecento» (con una premessa dell' editore-scrittore Antonio Castronuovo), volumetto fatto di poche parole ma tante copertine. Uno dei pochi casi in cui ha senso dire che per capire un libro basta guardare le immagini.
Giampiero Mughini per Dagospia il 10 luglio 2020. Caro Dago, perdonami se torno sull’argomento per me amaro del vergognarmi di essere italiano ogni volta che ho a che fare con le strutture reali del nostro Paese. Succede che in occasione del tuo recente compleanno io ti volessi regalare il magnifico libro fotografico dedicato da Marco Anelli agli studi degli artisti newyorchesi contemporanei, libro che purtroppo tu avevi e me ne sono sentito umiliato. Torniamo ai fatti. Quel libro l’ho ordinato il lunedì su Amazon e l’ho ricevuto il martedì nel primo pomeriggio. Particolare da non trascurare, sono un cliente affezionato di Amazon e non pago nessuna spesa di trasporto. Jeff Bezos è divenuto l’uomo più ricco al mondo? Se lo stramerita. Ne sono felice. 24 ore per consegnare una merce che ho acquistato. Succede pure che venerdì scorso mi rechi in una tabaccheria adibita al servizio postale e che consegni un libro che intendo regalare al mio amico patavino Saverio Salvan, un libro di poche pagine e dunque non particolarmente gravoso da spedire. Pago nove euro e passa di spese di spedizione, quel che una volta erano 18mila lire. Per spedire un librino. Siamo arrivati al venerdì successivo, sette giorni da quando è stato spedito, il mio amico non ha ancora avuto il libro. Ladri di passo, bastardi. Di questo si tratta quando hai a che fare con le strutture del paese reale, con la vita nostra di tutti i giorni, con il rapporto che hai davvero con questo Stato di nome Italia. Sì, non provo altro sentimento che la vergogna di essere un italiano, la vergogna di vivere questo sfacelo di tutto e di ogni cosa, giorno dopo giorno, tutti i giorni che Dio manda in terra.
Giampiero Mughini per Dagospia il 4 luglio 2020. Caro Dago, prima un’amica e poi un’altra mi segnalano che sul web c’è l’account di uno che si spaccia di essere Mughini e che su Twitter c’è uno che twitta continuamente dei messaggi firmandoli Mughini. E’ un furto bello e buono identità, una cosa grave, una cosa che non mi fa davvero piacere. Che fare? Nulla, assolutamente nulla e ve ne spiego subito il perché. Già quattro o cinque anni fa mi avevano indicato l’account sul web di uno che si spacciava per il sottoscritto. Sono andato alla sede della Polizia Postale di viale Trastevere, ho sporto denuncia. Dopo un paio d’anni mi dissero che avevano individuato il tipetto, uno che mi pare abitasse ad Acireale. Mi chiesero se volevo fargli causa civile, e io risposi di no, non è che volessi prendere i soldi da qualcuno. Dopo un anno mi comunicarono che ci sarebbe stata la prima udienza, mi pare al tribunale di Catania ma non ne sono sicuro. Dopo di che non è successo più nulla, e sono passati quattro o cinque anni. Non ho la più pallida idea di che cosa faccia o continui a fare il tipetto di Acireale, di sicuro nessuno lo ha disturbato più di tanto. Il fatto è che quando da cittadino repubblicano ho a che fare con le strutture reali dello Stato italiano, l’unico mio sentimento è quello di vergognarmi di essere italiano: lo dico dolorosamente, anzi qui lo dico e qui lo nego, perché amo il Paese che ha nome Italia. Epperò il primo e naturale sentimento è quello. Succede ad esempio che un anno e passa fa io abbia bisogno di un mio certificato di nascita. Da Catania (la città dove sono nato) mi arriva ahimè un certificato da cui risulta che mi chiamo “Gianpiero” e non “Giampiero”, il nome con cui ho vissuto e ho fatto ogni cosa della mia vita, a cominciare dalla compera della casa in cui abito. E dunque mi metto in movimento per far cambiare quella “n” in una “m”. E’ un certificato di cui ho bisogno, certo che ne ho bisogno. Ne ho bisogno urgente, certo che ne ho un bisogno urgente. Ebbene ci ho messo un anno di peripezie cartacee tra Roma e Catania, marche da bollo, telefonate a uffici dove non rispondeva nessuno. Un anno. 365 giorni a penare e chiedere. Altro exploit, quello dell’Enpals. Sono un pensionato dell’Enpals e la legge italiana dice che devo continuare a pagare i miei contributi e che ogni cinque anni ho diritto a un aggiornamento della pensione. Succede dunque che per cinque anni io pago alcune migliaia di euro di contributi e al quinto anno compiuto chiedo l’adeguamento della pensione. Un adeguamento irrisorio che non mi cambia la vita ma che è un mio diritto chiedere e ottenere. Ebbene quell’aggiornamento l’ho chiesto nei primi di luglio del 2018, esattamente due anni fa. Non è successo niente di niente. Al patronato dell’Enpals rispondono che “la pratica è in lavorazione”. In questi due anni ho naturalmente continuato a pagare i miei contributi, e ci mancherebbe altro. Purtroppo non ricordo più dov’è la scartoffia dell’Agenzia delle Entrate che mi imputava di pagare una penale di pochi euro perché avevo ritardato di una ventina di giorni il pagamento dei contributi Enpals della mia colf. Venti giorni di mio ritardo una penale a mio carico, due anni di ritardo dell’Enpals niente penale. Sì, mi vergogno di essere italiano. Purtroppo.
Giampiero Mughini: “Ebbi il fegato di ribattere a Montanelli dicendogli..”. Marco Lomonaco il 16/05/2020 su Il Giornale Off. Giampiero Mughini, 79 anni, dandy del giornalismo italiano, opinionista pungente, fine scrittore, oggi si racconta a OFF…
Mughini, ci parli del suo nuovo libro in uscita.
«Proprio in questi giorni sarebbe dovuto uscire il mio “Nuovo dizionario sentimentale”, rimandato credo a settembre. Trent’anni fa infatti scrissi un libro del quale sono molto orgoglioso, “Dizionario sentimentale”. All’epoca erano decisive le ideologie: destra o sinistra. A me però già sembravano una porcheria, perché piuttosto trovavo importanti i sentimenti, le sfumature personali. Il libro venne trattato con sdegno dagli imbecilli di sinistra, perché i cretini sono dappertutto, ma io ebbi a che fare soprattutto con quelli. Ricordo persino che sull’Unità apparve un articolo di insulti su quel libro, scritto da un imbecille qualsiasi del quale nemmeno ricordo il nome. Oggi allora scrivo una nuova versione del “Dizionario sentimentale”, tutt’affato diverso e diversissimo a distanza di tanti anni e alla luce di nuove memorie».
Secondo lei questo governo ha ancora vita lunga?
«E’ un governicchio, quindi ne dubito. Il governo che verrà, invece, dovrà essere guidato da una personalità di spicco come Mario Draghi e affrontare un’economia in picchiata con competenza, senza perder tempo con porcate come il reddito di cittadinanza».
La liberazione di Silvia Romano…
«Una vita è stata salvata e ne sono contento. Naturalmente questa vita è stata pagata, come sempre è accaduto. Solo in un caso l’Italia non pagò per la vita di un suo cittadino: quello del Presidente Aldo Moro. Una vergogna che ancora incombe sulla politica italiana».
A proposito, avrà visto che le Sardine hanno scritto qualche giorno fa su Twitter che Moro fu ammazzato dalla mafia…
«Il livello è questo e bisogna rendersene conto. Lo si vede in televisione come sui social. Scusi, un pensiero di 200 battute che pensiero è? E’ uno schiamazzo, un rutto. Le cose bisogna covarle, prima di scriverle o di dirle. Le racconto un aneddoto: quando ero ragazzo, insieme ad altri amici mettemmo in piedi un centro universitario cinematografico con film introdotti ogni volta da uno di noi. Prima di parlare alla platea, colui che avrebbe introdotto la pellicola veniva però interrogato dagli altri per sondare la sua preparazione. Ecco, questa è la vita vera: un esame, un continuo esame per il quale bisogna essere preparati».
Ci racconti una batosta che ha preso lei invece durante la sua carriera…
«Da ragazzo affrontai con superficialità la traduzione di un libro in francese, lingua che conoscevo molto bene. Da quel lavoro mi sarebbero dovute arrivare 700.000 lire, ma la mia traduzione faceva schifo e non ne ebbi neppure un centesimo. Imparai allora che le cose vanno fatte per bene, perché nessuno ti regala nulla. Pensi che quei soldi mi sarebbero serviti per venire a vivere a Roma da Catania».
Per concludere, ci racconti un episodio OFF della sua carriera, qualcosa che non ha mai raccontato…
«Quando Indro Montanelli mi chiamò per fare una rubrica intitolata “L’invitato” (sul Giornale n.d.r.), mi disse: “Ti do 250.000 lire a pezzo”. Io, che mi trovavo dinnanzi al principe del giornalismo italiano, ebbi il fegato di ribattere: “Dammene 300.000!”. Ero molto orgoglioso e sapevo di valere. Così Montanelli, che sapeva riconoscere il valore delle persone, accettò».
Giampiero Mughini per Dagospia il 22 aprile 2020. Caro Dago, leggo su “Repubblica” un articolo di Francesco Merlo in cui lamenta che dagli altri giornalisti e dagli altri giornali non siano arrivati segnali di solidarietà al suo direttore e amico Carlo Verdelli, bersagliato sui social da manifestazioni tali di odio da essere costretto a girare protetto da una scorta. Confesso che non pensavo al dovere di esprimere una tale solidarietà per il totale disprezzo che porto ai social, una fogna a cielo aperto su cui si esibisce la feccia della società contemporanea. Quelle manifestazioni di odio-anti Verdelli mi sembrano feccia e soltanto feccia, da nemmeno prendere sul serio. Mi scuso e subito l’esprimo a voce forte questa solidarietà, e ci mancherebbe altro. Piena solidarietà a Verdelli, oltretutto un direttore impegnato a dirigere molto più che ad apparire. Quanto al suo giornale, lo compro tutti i giorni da quando debuttò a metà degli anni Settanta. Detto questo, che tra giornalisti e giornali debba esistere una sorta di solidarietà e cavalleria di fondo, come mi pare auspichi Merlo, è una pia illusione. Tutto il contrario. Non esistono sulla terra forme di cannibalismo quali ne esistono tra i giornalisti e i giornali, e di questo cannibalismo e dei suoi episodi più truculenti è zeppo il palinsesto televisivo. E comunque l’episodio più risonante di questo cannibalismo resta il titolo di prima pagina del “Corriere della Sera” all’indomani dell’agguato brigatista a Indro Montanelli. Titolo dove non figurava il nome dell’uomo cui quei due delinquenti avevano sparato alle gambe. (Molti anni dopo Indro comprò e pago da uno di loro un suo ritratto a olio.) Per andare all’oggi gli episodi sono talmente tanti e hanno tutti la stessa valenza che a elencarli annoierei il lettore. Sul “Fatto” è abituale trattare a furia di male parole i giornalisti lontani dalla filosofia di quel giornale. Quando Marco Travaglio nomina il direttore del “Foglio”, lo fa appiccandogli un insulto. Sempre. Nell’idea che se uno dirige il “Foglio” non può non essere insultato, sarebbe un venir meno ai doveri di un giornalista. Per quel che riguarda il sottoscritto, che pure ha i capelli bianchi e di cui è lunga la via crucis professionale, mai mai mai un mio libro è stato recensito sui giornali che non mi hanno in simpatia. Quando una gang di nullità mi strappò via dall’Albo dei giornalisti professionisti, in tutto e per tutto mi mandarono una parola di solidarietà Piero Sansonetti, Gianni Mura e Claudio Sabelli Fioretti. Non uno dei giornalisti con cui avevo lavorato per i trenta o quarant’anni che ho tratto il mio pane dai giornali. Per dire, mi sarebbe piaciuto un cenno di solidarietà dal mio concittadino Merlo.
Lettera di Francesco Merlo a Dagospia il 23 aprile 2020. Caro Dago, sono felice che Giampiero Mughini abbia espresso “a voce forte” la sua “piena solidarietà - “e ci mancherebbe altro” - a Carlo Verdelli, minacciato di morte, “oltretutto un direttore impegnato a dirigere molto più che ad apparire”. Mi dispiace però che Mughini mi rimproveri di non avergli , al contrario, inviato neppure “un cenno” quando, nel maggio del 2007, fu radiato dall’Ordine dei giornalisti. Neppure un cenno? Ho sempre voluto bene a Mughini: per me era quello che capiva due minuti prima degli altri gli errori e gli orrori della sua generazione e perciò in quei due minuti gliene facevano di tutti i colori. Gli volevo bene anche nel 2007, nel tempo in cui, per un fraintendimento, ci eravamo, come si dice dalle mie parti, un po’ “guastati”, dove guastarsi era per me un' altra maniera di non perderlo mai di vista in quel piccolo mondo stretto che ci è stato dato. Dunque Giampiero fu radiato perché aveva interpretato degli spot pubblicitari. L’Ordine prevede infatti l’incompatibilità fra la professione giornalistica e la partecipazione a pubblicità commerciali. Tuttavia la sanzione non mi piacque, e anzi mi parve molto di più che una brutta censura. Solidarietà? L’espulsione di Mughini era una faccenda complessa che meritava, come sempre nella vera solidarietà, un po’di intelligenza. E perciò, qualche tempo dopo, non appena mi si presentò l’occasione di farne, come dice Mughini, “cenno”, ne scrissi sulla prima pagina di Repubblica, all’interno di un lungo articolo politicamente molto polemico verso un Ordine che - era l’epoca del governo Berlusconi e degli errori ed orrori del conflitto di interessi - onorava i giornalisti che “con forza si dicono al servizio della verità mentre poi trafficano sotto banco con il padrone politico” e invece aggrediva la libertà che ha ciascuno di fare quello che gli pare, anche la pubblicità: “…E torno dunque a quell'Ordine dal quale ero partito. Molti in Italia avevamo già il sospetto che si trattasse di una bardatura corporativa, una specie di retaggio medievale nel mondo moderno delle professioni, dalle quali ormai giustamente si entra e si esce con grande libertà. Tutti possono praticare la storiografia, e il giornalista può vendere pizze: c'è una mobilità interprofessionale che è opportunità e ricchezza. Wittgenstein aveva una certa idea dello spazio e senza entrare nell'Ordine degli architetti progettò la casa di sua sorella, dirigendone i lavori. Comunque sia, la discussione che, come si vede, sarebbe interessante, non può neppure cominciare se prima l'Ordine non chiarisce, senza retorica, quali sono i rapporti tra la nostra professione e la politica …C'è già in giro una miserabile censura che cerca il capro espiatorio per verginizzarsi, che si erge a campione del buon gusto e dell'etica. L'Ordine dei giornalisti ha radiato, per citarne uno per tutti, Giampiero Mughini perché apertamente aveva fatto pubblicità (ma gli esempi sono tanti, e tutti buoni). Ora Mughini può essere criticato per mille motivi, anche per le giacche se volete, ma non certo perché faceva accordi sottobanco o prendeva ordini per telefono dai luogotenenti di un politico.” L’articolo, intitolato “ I tartufi del giornalismo”, fu pubblicato il 23 novembre 2007. Caro Dago, come vedi, fu molto più di un cenno. E però proprio quella mia solidarietà, che allora motivai con indignazione, merita oggi una precisazione amara. Come avevo scritto martedì su Repubblica, Carlo Verdelli è da mesi minacciato di morte, non solo sui social. E tra l’espulsione da un Ordine professionale e le minacce di morte, come molto bene Giampiero sottintende - “e ci mancherebbe altro” - non c’è paragone. Francesco Merlo
Giampiero Mughini per Dagospia il 23 aprile 2020. Caro Dago, Francesco Merlo ci tiene a precisare che una cosa sono le minacce di morte di cui è oggetto il suo amico Carlo Verdelli e una cosa ben diversa (nel senso di inferiore) è l’espulsione da un Ordine professionale come è stato il caso mio alcuni anni fa. Forse sì, o forse no o forse non completamente. Il mondo dei social in cui sono espresse e reiterate le ignobili minacce a Verdelli è un mondo a sé, largamente irreale, una fogna a cielo aperto dove tutto è lecito, anzi più ignobile è e meglio è, e dove qualsiasi delinquente la fa franca. Puoi dire e fare quello che vuoi nel mondo dei tweet e dei post. Per fortuna è tutta roba che rimane lì, nel fango della fogna. Ogni tanto mi riferiscono del mare di ingiurie di cui sono bersaglio per avere espresso quella o quell’altra opinione. Non mi viene neppure minimamente la curiosità di andare a vedere di che si tratta. Lo sterco in cui ti imbatti quando vai per strada lo raschi via con un semplice movimento della suola delle scarpe. Lo sterco dei social. Cosa diversa, umanamente e moralmente - te lo assicuro Francesco, per averlo provato sulla mia pelle - è l’entrare in una cameretta dov’è riunito il gran consiglio regionale dell’Ordine dei giornalisti, un’istituzione di cui ovviamente mi ero larghissimamente strafottuto per tutto il tempo del mio lavoro nei giornali, il vedere come mi guardavano quel gruppo di “colleghi”, gli occhi rosi dalla rivalità e dall’invidia, perché di questo e soltanto di questo si trattava. Non uno di loro aprì bocca, me lo sarei mangiato vivo. Solo il loro capo mi chiese se mi avessero pagato per quello spot pubblicitario dove col sorriso sulla bocca dicevo bene di un telefonino, io che nella mia vita non ho mai scritto di telefonini e soprattutto non ho mai scritto una riga di cui non fossi orgoglioso, e io risposi “ci mancherebbe altro”, esattamente come quando ti ho detto della mia solidarietà a Verdelli. Ci mancherebbe altro che non mi avessero pagato, per uno spot in cui non era in questione un ette della mia quarantennale autonomia professionale da tutto e da tutti. Da tutto e da tutti. Un’autonomia pagata con non ricordo più quante dimissioni da vari giornali e con la più perfetta “non carriera” professionale. Non mi dissero altro. Mi arrivò più tardi la comunicazione che ero “sospeso” dall’attività giornalistica. Quale attività giornalistica? A quel tempo, io me ne stavo a casa a scrivere articoli, un diritto che riposa nelle pagine della nostra Costituzione. Naturalmente continuai a farlo. Mi scrissero che non dovevo. Risposi che ero un “autore di qualità” e che non volevo avere niente a che fare con delle nullità come loro. Ci si misero in due a mandarmi la lettera in cui venivo “cancellato” dall’albo dei giornalisti. Su Wikipedia c’è scritto che io sono stato “radiato”, un verbo che sottintende una qualche sozzura morale. Una mia amica una volta me lo chiese, “Perché sei stato radiato?”, e aveva l’aria di pensare che qualcosa di losco lo avevo fatto. Sei siciliano come me caro Francesco, e lo sai che i particolari contano, che i dettagli non si dimenticano. Altro che se è un dettaglio il leggere che sei stato “radiato”, e del resto anche tu hai purtroppo usato il termine “radiato” nel tuo pezzo. E’ una cosa che mi brucia, che mi offende. Che qualcuno da due soldi ti dicesse che non eri degno di stare nell’albo di coloro che scrivono sui giornali eccome se bruciava, se era offensivo. Non è una monnezza che sta sui social, è qualcosa che punga la tua pelle, forse la tua anima. Così come mi offese il silenzio della grandissima parte dei miei colleghi, e per quanto l’unico sentimento che io provi per la buona parte dei miei colleghi sia il disprezzo intellettuale.
Ps. Merlo scrive che sono arrivato “due minuti prima” di tutti gli altri nell’additare gli errori e gli orrori della mia generazione e che in quei due minuti me ne hanno fatti di tutti i colori. In realtà ci sono arrivato dieci o vent’anni prima e in dieci o vent’anni ne succedono di cotte e di crude. E poi c’è che non te lo perdonano di avere capito le cose vent’anni prima di loro.
Barbara Costa per Dagospia il 19 aprile 2020.
Giampiero Mughini, in “Sex Revolution” scrivi: “Monogamia e fedeltà, due valori che io reputo entrambi due bugie grandi così”. E a chi punto dal vivo se ne indigna, ti attacca e ti dice che non è vero, che proprio non è così, che si può, anzi si deve essere fedeli, anche in relazioni più che decennali, e che la loro passione è tale come il primo giorno, tu rispondi che…
«Se per monogamia si intende il fatto che per i dieci o venti o trent’anni che dura un rapporto importante e centrale con un partner, tu non ti accorgi di nessun’altra persona al mondo, questa è una tale porcata da offendere l’intelligenza. Che in quei dieci, venti, trenta anni tu non abbia alcun’altra tensione, tentazione, giramento di testa è semplicemente assurdo. Così è stato nei trent’anni che dura il mio rapporto con Michela - che io abbia avuto altre tentazioni e giramenti di testa, e qualcuno non di poco conto - , e lei lo sa, e quanto a me nemmeno le chiedo dove e come va i pomeriggi in cui resta fuori di casa quattro o cinque ore».
La tua venerazione per Brigitte Bardot è notoria. Le hai dedicato un libro, “E la donna creò l’uomo. Lettera d’amore a B.B.”, e sempre nel tuo “Sex” lamenti il fatto che Andy Warhol non lo abbia potuto fare “quel film che doveva riprendere per 8 ore Brigitte Bardot che dormiva”. Mi racconti che è successo un pomeriggio romano degli anni ’50, sei andato al cinema Barberini, e sullo schermo c’era…
«Quel pomeriggio romano al cinema Barberini, in attesa che partisse il treno che da Roma mi avrebbe ricondotto nella città in cui abitavo, Catania, sono entrato a vedere quello che mi pare fosse il primissimo film della Bardot e comunque di certo il primo film in cui io ero ipnotizzato da una tale dea. Nel liceo e nella città in cui avevo vissuto nulla avevo imparato di una donna se non l’idea che il suo corpo fosse una minaccia. Detto altrimenti, quei teppisti dei miei insegnanti mi avevano inzuppato di sessuofobia. A solo vedere la Bardot ho capito quanto immenso e decisivo fosse il pianeta del desiderio tra i sessi, il pianeta più importante dell’universo».
Che ci ha fatto, Mughini, con quella foto di Brigitte Bardot in sottoveste, che suona la chitarra, e che sta nel libro che le ha dedicato Simone de Beauvoir?
«Credo si capisse perfettamente da come ne ho scritto da qualche parte. Mi ci sono masturbato più e più volte».
Prendo ancora dal tuo “Sex”: “Se per erotico intendete ciò che mette in moto l’anima e la mente”. Tu pensi che ce la faremo mai a porre la pornografia al posto che merita, ovvero tra le arti?
«Ma c’è ancora qualche cretino al mondo che traccia un muro di Berlino a separare la pornografia dall’erotismo? C’è ancora qualcuno che crede che una cosa siano le piroette cinematografiche di dive del porno come Traci Lords, Tori Black, Tera Patrick e tutt’altra cosa la sequenza infinita dei libri, fumetti, illustrazioni che definiamo “erotici”? Siamo ancora al tempo in cui non ricordo più se quindici o sedici editori dissero di no al “Lolita” di Vladimir Nabokov, uno dei dieci romanzi più importanti del Novecento?»
Puntiamo in alto: “Impossible Love”, tra le più celebri raccolte di lavori del fotografo Nobuyoshi Araki, e la sua foto delle dita di una donna tra le natiche di un uomo, a stimolarlo, e che lo stimolo riesce lo vedi dalle contrazioni di lui, vale un Leonardo, un Michelangelo?
«Non è che per essere un linguaggio artistico ragguardevole, deve per forza raggiungere le cime di Leonardo o di Michelangelo. Non è che esiste la pornografia, esistono i diversi autori, i diversi fotografi, i diversi scrittori che utilizzano l’erotica più radicale. E il grande fotografo giapponese Araki è uno dei maestri del genere».
Vinceremo mai la sottovalutazione, la denigrazione a cui è sottoposta la pornografia dalla maggior parte di chi fa cultura e non se ne vuole occupare e, se lo fa, lo fa con disprezzo, come fosse costretto a trattare empietà?
«Dimentichi che l’ipocrisia è una delle leggi fondamentali su cui si regge la nostra Repubblica».
Mi fai un esempio di cosa ti da più fastidio del non detto, o ipocritamente detto, sulla pornografia?
«Nella mia casa precedente dove ho vissuto trent’anni, quella di via della Trinità dei Pellegrini, l’unica stanza dove non c’erano libri era quella in cui accoglievo gli ospiti a cena. In quella stanza erano in bella mostra una ventina di videocassette porno. Mai nessuno dei miei ospiti mi ha chiesto quale fosse la più bella, la più intrigante. Viceversa se veniva una mia amica fidata e le mostravo una di quelle cassette, ne andava in estasi. Una mia giovane amica alla quale mostrai un video porno con Traci Lords protagonista che durava meno di venti minuti, in quei venti minuti venne quattro volte solo col guardare».
Su Pornhub, tu quale genere porno preferisci?
«Purtroppo vado su Pornhub meno spesso di quanto vorrei dato che per tutto il giorno mi rompo i coglioni con le fatture elettroniche, le risposte a chi mi vuole vendere questo o quello, firmare le 30 pagine di cui è fatto ogni contratto Rai, rifiutare cortesemente le due o tre richieste quotidiane di fare un lavoro gratis o magari una volta su cento farlo, e il duro lavoro a scavare il terreno su cui far germogliare le poche cose che scrivo. Non ho preferenze particolari, semmai delle dive particolarmente preferite. La grandissima Envy una di queste. Tori Black poi, lei è fuori discussione. Diciamo che, per quel che è delle donne come persone nella loro completezza, la mia scala ideale è fatta così: al gradino più basso sta Michela Murgia, al gradino più alto Tori Black».
Setaccio ancora da “Sex Revolution”: “Le generazioni post anni ’60 non sono più dentro nessuna rivoluzione, sono dentro un conformismo. Solo conoscono un mondo dove la bellezza dei corpi è diventata la merce e il segno più spiccio, più universale”. Eppure c’è chi mette in attinenza i nudi di “Playboy” con i nudi esposti su Instagram, Twitter.
«“Playboy” era una rivoluzione. Le sciacquette che inondano il web delle loro natiche è solo roba da “puttanelle”, a dirla con Serge Gainsbourg. Hugh Hefner, Larry Flynt, Bob Guccione, in Italia Riccardo Schicchi: ognuno di loro e ognuno a suo modo, spogliando le donne, le ha sublimate. Di tutti i personaggi “storici” del porno, un cenno particolare lo merita Riccardo Schicchi. La sua invenzione della “prima” Cicciolina, quella che sussurrava al telefono notturno di “Radio Luna”, è stata un colpo di genio. Naturalmente sono stato il primo a scrivere di lui (su ”L’Europeo”) per come lo meritava».
Mi fai l’elogio del tuo concetto di “donna troia”?
«Se uso il termine “troia” di una donna, e magari di una donna che conosco, è per farle un gran complimento. Significa una donna che ha l’aria di offrirsi e che dà un gran valore a quell’offerta, piuttosto accennata che reale, una donna che ti guarda dall’alto in basso come a dirti che non sei degno di lei. Io adoro tutto questo».
Nel tuo “Dizionario Sentimentale” descrivi una fellatio. Perché l’hai fatto? Sfida? Noia? Rottura di coglioni del ben-pensare imperante?
«Il dizionario sentimentale di quando avevo quarant’anni volevo ben vedere che non avesse tra i suoi termini e situazioni iconiche quella della “fellatio”, e sono delle povere disgraziate le donne che sproloquiano sul fatto che questa situazione implicherebbe una sorta di “sottomissione” della donna. Davvero non sanno quello che dicono».
Ne “La stanza dei libri”, parli di una storia erotica che hai scritto…
«Una delle sette stanze in cui è suddivisa la mia biblioteca io la chiamo “La stanza delle puttane” ovvero “L’archivio del femminile”. In quella stanza è concentrata la gran parte della mia collezione di libri e riviste e foto e illustrazioni erotiche. Il gioiello ne sono le quattro puntate di una storia porno-chic, “Histoire de J.”, di cui io ho fatto il soggetto e la sceneggiatura e Ernesto Carbonetti le illustrazioni sulla base di indicazioni e foto che io gli suggerivo. Molto di quel materiale proviene dalle storie autobiografiche che mi faceva una modella del web che è stata una mia amica. Quei quattro album non li ha mai visti nessuno. Se divento ricco ne farò un’edizione di lusso in 50 copie da distribuire agli amici pornomani più fidati. A Dago in primis».
Tu e Roberto D’Agostino siete grandi amici da 40 anni. Dì un po’: siete mai andati… a donne insieme?
«Io e Dago andare a donne insieme? Ma sei pazza. Già il termine andare a donne mi fa vomitare. E poi c’è che Roberto è un vero gran sporcaccione, mentre io sono l’uomo più pudico al mondo».
Si può svelare che negli anni ’80 tu hai avuto un flirt con una pornostar? O smentisci categoricamente?
«Non ho avuto un flirt con una pornostar. Sono uscito più volte con lei. Era la più brava ragazza di questo mondo.
Mughini non ha mai frequentato prostitute, e rimane fermo nel suo diniego più assoluto di pagare “i sublimi favori di una donna”, per dirla alla Colette?
«Sono stato con delle prostitute due o tre volte, e ogni volta ho lasciato perdere dopo aver pagato. C’è un limite a tutto. Che ci può essere di attirante in un piacere finto e a pagamento?»
Secondo Mughini, la gelosia è un concetto miserevole. Perché?
«La gelosia è un concetto miserevole perché di solito riguarda la gelosia di un corpo, ed è da babbei pensare che nel mondo tu sei l’unico proprietario di quel corpo. Diversa è la gelosia dell’anima, ma in quel caso io sono protetto dal mio mostruoso complesso di superiorità. Se l’anima di una donna che mi piace tende verso un altro, penso soltanto che lei sia una povera disgraziata».
Tu hai 20 mila follower che ti seguono su Facebook. Vogliamo dire a questi sventurati che quello lì non sei tu, che è un profilo fake, che non sei su nessun social, dacché tu sei a-social, un anti-social?
«Ovviamente non ho nessun profilo Facebook. Ovviamente non figuro nemmeno per una riga o per un’immagine sui Social. Se trovate qualcosa io non c’entro niente di niente di niente. Una volta sono andato alla Polizia postale a denunciare un delinquente che si avvaleva del mio nome sul web. Era un siciliano. Una volta dal tribunale mi arrivò l’avviso di un’udienza contro di lui. Poi più niente».
Ma il Mughini che litiga in tv, ci fa o ci è?
«Io in Tv non litigo mai mai mai, perché reputo “lo scazzo televisivo” un’attività da sottosviluppati mentali, e buona per attrarre sottosviluppati mentali. Se qualcuno mi stuzzica oltremodo replico, se insiste lo minaccio di prenderlo a calci in culo. Se insiste ancora, ci vado, a prenderlo a calci in culo».
Giampiero Mughini per Dagospia il 22 gennaio 2020. Caro Dago, ti confesso che se io fossi in un qualche consesso politico che dovesse decidere se votare sì o no l’intestazione di una strada cittadina al nome di Giorgio Almirante, voterei sì. E vengo a spiegarti il perché, che è semplicissimo. Almirante fa parte della storia italiana che è la nostra e in questa storia ha avuto un ruolo, il recupero alla vita pubblica dei “vinti” del 1945, di quelli che avevano fortemente parteggiato per i “vincitori” del 1922, quel fascismo storico che è impossibile ridurre a mera esperienza criminale. E’ un pezzo di storia del nostro Paese. Nel 1922 tutti menavano le mani. Più tardi, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti vennero uccisi per rappresaglia otto fascisti fra cui un parlamentare. Non erano rose e fiori gli anni Venti e Trenta, da nessuna parte in Europa: non lo furono in Germania, in Austria, in Spagna, dove la guerra civile durò tre anni con orrori a bizzeffe compiuti da una parte e dall’altra. Attenuare quegli orrori, quelle zuffe mortali, quelle guerre civili latenti o guerreggiate significa non capire nulla del secolo appena trascorso. In quel tempo e in quel periodo Almirante debuttò da giovane giornalista in un quotidiano diretto da Telesio Interlandi. Gli sedeva a fianco un coetaneo, Antonello Trombadori, futuro comandante militare dei gap comunisti durante la “Roma città aperta”. Più tardi Almirante divenne una sorta di redattore capo de “La difesa della razza”, la fetenzia antisemita voluta da Benito Mussolini e diretta dallo stesso Interlandi. Una colpa intellettuale morale non da poco, certamente. Alla mattina del 26 luglio, con il suo distintivo fascista all’occhiello Almirante stava recandosi alla tipografia de “La difesa della razza”. Un suo amico lo intercettò e gli disse che non era il caso e lo convinse a starsene alla larga. Le cose poi sono andate come sono andate. Com’è nel diritto di chiunque Almirante - e lo ha scritto impareggiabilmente Mattia Feltri nel suo “buongiorno” di oggi - Almirante ha mutato pelle e identità. L’antisemita degli anni Trenta in lui è morto, esattamente - e tanto per fare un esempio -come “il comunista” da anni Ottanta è morto nel mio carissimo amico Oliviero Diliberto, oggi tutt’altro personaggio e di tutt’altra caratura morale e intellettuale (anche se lui dice di no e sostiene anzi che io sono un “comunista” come lo era lui una volta). La storia ci tritura e ci seleziona, tutti noi raschiamo e raschiamo quello che eravamo ancora ieri e l’altro ieri. Almirante mi raccontò la volta che nell’immediato dopoguerra andò a fare un comizio missino in non ricordo più quale comune “rosso” del nord Italia. A un certo punto gli arrivarono addosso in molti e cominciarono a tempestarlo di cazzotti e pedate. Lui andò giù, ne uscì indenne, si accorse che gli mancava l’orologio. Si rivolse protestando a un dirigente comunista che si trovò innanzi. Dopo pochi minuti l’orologio gli fu restituito. Almirante è stato per 40 anni il testimone vivente di quella parte del Paese che nel fascismo ci aveva creduto. Uno di loro era mio padre, che mi ha pagato gli studi universitari e l’acquisto dei libri Einaudi dai quali ho imparato l’antifascismo. Una volta che avevo scritto delle “squadracce fasciste” mio padre mi chiese se sapevo che lui ne aveva fatto parte. Gli risposi di sì, pronto alla pugna. Papà non aggiunse altro. Per stile di vita e tutto, lui era l’opposto esatto del “fascismo” in cui aveva creduto, come lo era l’avvocato Battista padre del mio carissimo Pigi Battista che gli ha poi dedicato un libro quanto mai toccante. Il fascismo c’è stato nella storia d’Italia, e nessuno lo può cancellare. Nella storia successiva Almirante ha avuto un ruolo, e nessuno lo può cancellare. A dirla in una sola parola, il suo nome ci può stare sulla targa di una strada. La volta che lo intervistai a lungo nel suo studio in via della Scrofa, guardavo dietro di lui alla foto di Mussolini e al gagliardetto della Juventus. Una foto di Mussolini simile a quella che mio padre teneva dietro il suo tavolo da lavoro.
Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia il 5 gennaio 2020. Caro Dago, come sai benissimo io non figuro su alcun social, neppure uno, neppure mezzo. E del resto non avrei nulla da postare, nella mia vita non succede nulla di rilevante, la cosa più elettrizzante che avrei da postare è la pagina di un libro che sto leggendo, purtroppo incomprensibile per gli analfabeti. Ossia la grandissima maggioranza. Succede però che su WhatsApp io riceva una caterva di post da gente che conosco e che spesso non conosco affatto. Prima di cancellarli li guardo un qualche secondo. E non capisco bene perché me li mandino, perché pensino che io dovrei guardarli e soppesarli, perché ai quei post dovrei dedicare qualche nanosecondo, un tempo che alla età cui sono giunto è prezioso e da centellinare con cura. Molti mi mandano delle immagini promozionali di quel che faranno e fin qui li capisco. Tutti cerchiamo di farci strada nella vita, chi più chi meno. Arrangiarsi, arronzare, supplicare che qualcuno ti tenga in conto. Altri sono meno ambiziosi e altrettanto vanesi. Mi mandano un loro primo piano beato di chi sta in villeggiatura o di chi ha appena finito di digerire un ottimo piatto in non so quale ristorante dello stivale. Postano la loro beatitudine, la loro felicità di stare al mondo, la loro leggiadra convinzione che la loro mediocrità sia il modo migliore di stare al mondo. Sono una persona elegante, e dunque figurati se cito non dico i nomi ma i particolari di quei post che potrebbero portare ai nomi e alle loro miserie. Tutto questo solo per dirti il mio sbalordimento innanzi a dei miei contemporanei che spasimano a questo modo pur di essere notati, pur di farsi notare, pur di figurare nell’immane vetrina del mondo, pur di implorare per un minuto o due l’attenzione tua o di chicchessia, pur di averne un “like” da qualche imbecille che non conoscono e che li sopravvaluta. Poveretti. A me, che soffro di un mostruoso complesso di superiorità non verrebbe mai e poi mai in mente di ricorrere a questi mezzucci, a queste cianfrusaglie da quattro soldi della comunicazione contemporanea. Sto magnificamente dove sto, solo e con me stesso. Responsabile di me stesso e delle piccole piccole cose del mio vivere quotidiano.
Giampiero Mughini per Dagospia il 18 gennaio 2020. Caro Dago, stamattina ci siamo ritrovati un gruppo di amici tutti abbastanza stagionati nella chiesa di Santa Maria in Trastevere ad una piccola cerimonia, una messa in memoria di Bettino Craxi. Eravamo non molti ma buoni, tutti delle brave persone. C’era l’ex braccio destro di Bettino, quel Giuliano Amato a me carissimo e di cui non smetterò di apprezzare la volta che di notte tolse dai conti correnti degli italiani qualche spicciolo che serviva a impedire che il rosso del bilancio pubblico esplodesse. Quella sì la scelta di uno statista. C’era Gennaro Acquaviva, che nel 1976 era stato il capo della segreteria politica di Craxi. C’erano gli ex senatori socialisti e miei cari amici Bruno Pellegrino e Luigi Covatta, e con Bruno c’era sua moglie Daniela Viglione, per dire di una donna che non è mai rimasto un passo indietro rispetto al suo uomo. C'era Piero Craveri, che non vedevo da tempo, da quando era stato il compagno di vita di Ludovica Ripa di Meana. C'era Luigino Compagna, figlio dell’indimenticabile Chinchino Compagna. C’era l’ex ministro Andrea Riccardi e anche il mio vecchio amico Alberto Benzoni e anche Filippo Ceccarelli, uno dei giornalisti più indipendenti oltre che più bravi che io conosca, e lui se l’è messa in bocca l’ostia che porgeva il sacerdote, e a una mia domanda ha risposto che lui è un credente, cosa che io non sapevo. Ti ripeto, un gruppo di brave persone, niente affatto adatte a figurare in un tuo “cafonal” che di certo attrarrebbe più che non una cerimonia cui partecipava un gruppo di persone dai capelli largamente imbiancati. Un gruppo di persone orgogliose di essere state lì in mezzo, al tempo della “battaglia delle idee” di cui Craxi fu un protagonista assoluto e indimenticabile. E pensare che lì accanto alla chiesa c’era la prima casa romana in cui aveva abitato l’allora mio grande amico Gianni Amelio, appena sbarcato da Catanzaro. A me è piaciuto eccome il suo film. Talvolta commosso. Così come mi hanno commosso le parole del sacerdote che officiava la messa e che nel riferire il destino umano di Bettino ha detto che è stato un destino pieno di contraddizioni, tumultuoso, drammatico. Un latitante? Solo un cretino potrebbe riempirsi le gote con un tale giudizio e esaustivo giudizio. Un latitante? Lo furono ciascuno a suo modo anche Giuseppe Mazzini e il primo Lev Trockij. Io che in tutto e per tutto lo avrò visto in vita mia per dieci minuti o forse meno, in certi momenti del film di Amelio ero con le lacrime agli occhi. E mai mai mai dimenticherò le immagini di quel discorso alla Camera in cui Craxi rivolgeva il dito puntato a tutto l’emiciclo parlamentare, pronunziando alla maniera sua la domanda se qualcuno di loro ignorasse che la democrazia pluripartica si reggeva sul fatto che ciascun partito prelevasse illegalmente dei fondi. “C’è qualcuno di voi che non lo sa?”, e Bettino continuava a puntare il suo dito sul restante dell’aula. Silenzio assoluto, non un fiato, non una voce. E del resto in quella stessa Camera era stata votata all’unanimità qualche anno prima – nel 1989 – una legge che amnistiava – per tutti i partiti – il reato di prelievo illegale di fondi, il fatto di riscuotere delle tangenti. Sino al 1989 amnistiato completamente quel reato. Da tutti i partiti.
Mattia Feltri per ''la Stampa'' il 18 gennaio 2020. Soltanto Giampiero Mughini poteva scrivere reboante e non roboante, che è la variante scorretta, incolta e cafona predominante in un Paese necessariamente scorretto, incolto e cafone, ma io già qui sono un traditore. Tradisco la grazia delle righe e fra le righe di un uomo che ha fatto della distanza non dogmatica, ma quotidianamente rimediabile, il suo rapporto col mondo. Ci è dentro in pieno, nessuno di noi ne scampa, se non nel tentativo di guardarlo un po' discosti e nel giudicarlo con clemenza. Mughini ha la precisa misura delle cose, rifugge l' attrazione fatale della claque e del sedicente fuoridalcorismo, non maneggia l' ascia del boia, conosce il fascino struggente dell' imperfezione («a chi di noi non è capitato di non dire un paio di migliaia di idiozie nella propria vita?») e l' intera umanità è degna ai suoi occhi e ai suoi polpastrelli onnivori, da Marcello Lippi a Raymond Aron, da Maurizio Mosca a Andy Warhol, soprattutto da Brigitte Bardot a Zoya Kosmodemyanskaya, due donne i cui corpi danno sostanza di carne a quello cui tutti noi siamo riducibili: la speranza e il ricordo. Questo libro (Uffa - Cartoline amare di un tempo in cui accadde di tutto, Marsilio, pp. 235, 18) è la raccolta delle rubriche tenute da Mughini sul Foglio dal luglio 2005 al luglio successivo, e per sua natura sarebbe un libro buono per chiudere un buco in libreria, se non fosse che quei brevi scritti sfuggono alle leggi del tempo, come sempre succede al bello, cioè all' atto che coglie la legge immutabile. Per dire: la ricerca affannosa e inesausta di qualcosa che abbia un consenso più che un senso e che ci consegna al frastuono, il desiderio di impiccare il fascista all' albero più alto, e che fa dell' antifascista un preclaro fascista, lo straripante onore di un ladro nel gesto di rubare, il disonore più disonorevole che talvolta ha cittadinanza nel marmo dei codici, la nostra identità che ha radici piuttosto in quello che leggiamo e in cui crediamo che nella zolla di terra su cui siamo stati casualmente precipitati, e naturalmente i tempi della rivincita dei signori nessuno, i signori zero, i signori nulla di nulla a cui gli eventi tecnologici hanno consegnato un palcoscenico (illusorio) su cui trattare alla pari col governatore della Banca d' Italia o col Papa. Mi rifiuto di credere che questo libro sia stato scritto quattordici e quindici anni fa, è stato scritto fra quattordici o quindici anni, o tre secoli fa, cioè in una data imprecisabile, il giorno in cui uno scrittore ha infilato dei pensieri in una bottiglia e li ha gettati in mare.
Mughini: "Che noia i sacerdoti del bene". Intervista con il noto giornalista ed opinionista."Le sardine? mi sono simpatiche ma credo saranno un fenomeno di breve durata". Panorama il 17 gennaio 2020. «Uffa», e basta la parola. Basta quell’esclamazione o quell’intercalare per figurarcelo subito, Giampiero Mughini: la postura, la chioma, l’occhio irrequieto, le giacche pittate e la parlata pittorica, la tonalità in levare, le mani roteanti per sostenere il ramificato argomentare. Presto Uffa campeggerà sulla copertina del libro in uscita da Marsilio (sottotitolo «Cartoline amare da un Paese in cui accadde di tutto»). Sarà un’antologia di corsivi pubblicati dal Foglio tra il 2005 e il 2006 - «anno fatale» - incorniciati da riflessioni sul presente per attualizzare polemiche mai sopite, anzi, ciclicamente risorgenti. La magistratura, Calciopoli, il terrorismo, l’Italia guelfa e ghibellina, divisa in fazioni pro e contro un leader più o meno divisivo, Silvio Berlusconi allora, Matteo Salvini oggi... Mughini risponde a Panorama tra un’ospitata televisiva, la parte minore e più redditizia del suo lavoro, e l’immersione nella poliedrica biblioteca, luogo dell’anima.
Perché nel libro Uffa è senza punto esclamativo a differenza del titolo della rubrica sul Foglio?
«Perché l’Uffa! originale era uno scatto nervoso, breve e tagliente nelle intenzioni, mentre chi leggerà adesso vi coglierà un ragionamento o lo spicchio narrativo di un pezzetto d’Italia. Sul giornale quei testi vivevano lo spazio di un mattino, in un libro hanno una responsabilità diversa alla quale il punto esclamativo non si confà».
È un’espressione che indica un certo snobismo o un moto di sufficienza. Oppure il retropensiero è che basterebbe un po’ di buon senso per smontare tante polemiche?
«La seconda che ha detto».
Retropensiero del retropensiero: viviamo in un’epoca autistica in cui ognuno segue i propri ragionamenti, incapace di ascoltare, dialogare, relazionarsi?
«È assolutamente così. Ognuno di noi insegue le proprie ossessioni, asserragliato in topografie dove dirimpetto c’è un nemico, sempre quello. Personalmente, quando inizio un ragionamento talvolta non so come lo finirò».
Perché non possiede certezze?
«Non possiedo verità ultimative. Più gli anni passano e meno ne so. Dare addosso a Salvini o esaltare le sardine 24 ore al dì è un pensiero che non si avvicina nemmeno all’anticamera del mio cervello».
Restando sull’incomunicabilità, quanto è lontana una pacificazione sugli anni del terrorismo?
«Non è lontanissima perché oggi non c’è un terrorista che si alzi a sostenere di aver avuto ragione. Erano delinquenti di strada e onestamente la più parte di loro lo ammette sia a sinistra che a destra, come mi testimoniano gli amici Valerio Morucci e Giusva Fioravanti».
Persiste qualche clamorosa eccezione, come Barbara Balzerani.
«Vero, Balzerani fu assai sgradevole quando parlò del mestiere della vittima. Detto questo, non sono sicuro che l’Italia abbia digerito bene quella stagione. Oggi nessuno estrae più una pistola, però tantissimi spasimano per fare a botte verbali. In tv, per esempio, se mi succede di essere coinvolto in un cosiddetto telescazzo me ne avvilisco».
Quelli che sono andati più vicini a una pacificazione sono la famiglia Calabresi e gli assassini del commissario Luigi, anche se di recente la vedova Pinelli ha ribadito le sue insinuazioni sulle circostanze della morte del marito?
«Penso che, se dopo aver abbracciato la vedova Gemma Calabresi, qualcuno ricomincia a dire di sapere come in realtà è andata o, più precisamente, pensa che nella stanzuccia della Questura di Milano qualche funzionario si sia avventato su Giuseppe Pinelli, la pacificazione non è possibile. Purtroppo, benché privi della pur minima prova, anche scritti recenti di autori di quella parte insistono sull’ipotesi del massacro».
Perché questa antologia di scritti riguarda l’annata 2005-2006?
«Perché il caso è divino. Nel luglio del 2005 mi chiamò il mio amico Giuliano Ferrara chiedendomi di iniziare quella rubrica due giorni dopo. Poi in quell’anno successe di tutto di più. Sia nella vita civile, per esempio con Calciopoli che, per milioni di italiani tifosi fu più importante di Tangentopoli, sia nella vita privata, perché i medici guardarono dentro e videro un tumore. Motivo per cui fu un anno molto particolare, al termine del quale capii che «prevenzione» è più importante di «rivoluzione»».
Woody Allen dice che l’espressione più desiderata al mondo non è sentirsi dire «ti amo», ma «è benigno».
«(Risata). Non sono Woody Allen e gli aforismi non mi vengono altrettanto bene».
Il suo aforisma ha risvolti culturali più significativi. L’amarezza citata nel sottotitolo del libro è aumentata o diminuita dal 2005?
«È aumentata esponenzialmente, innanzitutto per il fatto che data la mia età il compimento del mio destino personale si avvicina irreparabilmente. E poi a causa dello scombussolio e della degradazione della vita pubblica. Cito un fatto quasi banale. Ogni settimana vado per lavoro un paio di giorni a Milano, risiedo nel quartiere Isola dove la mia compagna possiede un piccolo appartamento. E ogni settimana ci trovo una novità, un’invenzione utile per la vita quotidiana. Quando ci si arriva provenendo da Roma, sembra di entrare in uno Stato progredito del Nord Europa. Pensare che Milano appartenga allo stesso Paese della Calabria, della Campania o della Sicilia è una balla che ci raccontiamo. Quand’ero ragazzo i giornalisti che venivano a Catania ne parlavano come della «Milano del Sud». Oggi a nessun emulo di Indro Montanelli o Luigi Barzini verrebbe in mente di usare un’espressione del genere per qualsiasi città meridionale».
Il lavoro cui fa riferimento è quello di opinionista televisivo che, da quanto si legge, lei sembra vivere con un certo disagio.
«Quello televisivo è solo una parte infinitesimale del mio lavoro, ma è la parte che vivo con maggior disagio nel timore che qualcuno mi fermi e mi dica che mi riconosce per gli occhiali che porto. Ringrazio la tv perché senza, con la crisi dei giornali cartacei, sarei in un ospizio. Assisto alla lenta scomparsa del mio mondo naturale e ho spesso la percezione che scrivere un libro significhi rivolgersi alla nicchia di una nicchia. A meno che non si scrivano libri contro Berlusconi o contro la camorra. Ma neppure se mi offrissero un milione mi conformerei a una tale banalità. Chi li scrive ha tutto il diritto di farlo, ma in genere i sacerdoti del bene mi annoiano».
Sono la categoria più popolare del momento.
«Con qualche risvolto grottesco, come quello che riguarda una simpatica ragazza sedicenne trasformata in una diva planetaria. Non c’è nulla di più lontano dalla mia idea di vita intellettuale: una terra nella quale il mondo diviso in bianco e nero non è previsto. Gli articoli dei sacerdoti e sacerdotesse del bene non li leggo, né seguo le loro prediche in tv».
La televisione non è adatta agli spiriti problematici e all’esercizio dei distinguo?
«Dipende da come la si usa. Ci sono anche cose buone... Una domenica sono stato ospite di Fabio Fazio per raccontare il primo romanzo di Italo Svevo e ho avuto la percezione della potenza della televisione, imparagonabile alla forza d’urto di un pur lucido e penetrante articolo di carta stampata. Milena Gabanelli, la miglior giornalista italiana, sintetizza in cinque minuti argomenti complessissimi rendendoli accessibili al grande pubblico».
Che cosa pensa del fatto che, secondo Worlds of journalism study i giornalisti italiani sono quelli più a sinistra d’Europa a fronte di una cittadinanza più moderata? Dipenderà anche da questo il calo delle vendite dei nostri giornali?
«Che i giornalisti volgano più spesso a sinistra è un fatto. Ma non dipende certo da quello che i ventenni e magari i trentenni non sappiano più che cos’è un giornale di carta».
In senso più lato, esiste una superficialità dei media e ancor più dei social media per cui i sentimenti più preziosi ne risultano distorti?
«Come si fa a frenare l’eruzione di esibizionismo e vacuità di quelle che chiamano influencer perché indirizzerebbero scelte e comportamenti dei seguaci in molti casi facendo sfoggio di culi e cosce?»
Secondo gli analisti, gli influencer stanno rivoluzionando il concetto di lavoro e il rapporto tra tempo libero e occupato.
«Non sono iscritto a nessun social media, ma su WhatsApp mi arrivano post di ragazzi che ridono, discettano e subissano i follower con messaggi autopromozionali. Sono nato in un’epoca in cui ci avevano insegnato a dire sempre una cosa in meno piuttosto che una in più. Nei suoi ultimi 20 o 30 anni, per suo stile di vita, mio padre mi avrà rivolto trenta frasi in tutto. Ma con ognuna di quelle parole mi ci nutrivo per mesi».
L’autorità esisteva.
«Mi ricordo che una volta, al ritorno da una manifestazione antifascista mi si avvicinò: «Tu sai che io stavo da quella parte…». «Sì, papà». Mi aspettavo una replica, qualcosa. Invece, non disse una parola al figlio che insultava la sua storia; nulla. Ancora oggi rabbrividisco al pensiero di quel suo silenzio».
Oggi l’esibizione del privato fa conquistare le copertine...
«Mi deprime l’esibizione sconcertante dello scorrazzamento da un letto all’altro pur di ottenere un numero maggiore di «like»».
È corretto se dico che il punto dove lei è meno problematico è la condanna di Matteo Salvini?
«Non troverà una mia parola offensiva nei suoi confronti neanche col microscopio. E dal momento in cui ha ipotizzato Mario Draghi capo del governo sono attento a certi percorsi zigzaganti che potrebbero portare delle sorprese. Giancarlo Giorgetti è una figura che arricchisce le posizioni di Salvini, destinate a galvanizzare l’elettorato. Penso che se andassi a cena con Giorgetti condividerei il 50 o 60 per cento dei suoi argomenti».
Se la sovranità che appartiene al popolo è citata nel primo articolo della Costituzione non sarà un’idea tanto fascista, o sbaglio?
«La parola «sovranità» è una scodella che si può riempire di contenuti i più vari. Dipende da come viene esercitata nel rapporto con i Paesi vicini. Senza dimenticare il fatto che abbiamo il terzo debito pubblico del mondo».
Le sardine la persuadono?
«Persuadermi no, mi sono simpatiche, ma credo saranno un fenomeno di breve durata. Ho visto spesso in tv Mattia Santori e l’ho ascoltato dire che non metterà mai piede a Rete4. Siccome io vado spesso a Stasera Italia di Barbara Palombelli mi sono sentito offeso».
Approva un movimento che nasce solo anti qualcuno?
«Apprezzo il fatto che dimostrino che la piazza può essere occupata anche da gente con silhouette diverse da quella di Salvini».
Un movimento filogovernativo e fiancheggiatore dell’establishment?
«No, perché oggi è tutto mescolato. Non è come al tempo in cui le schiere dell’eskimo stavano sulla sponda opposta rispetto alle schiere dei Ray-Ban. Le ripartizioni novecentesche non aiutano a sezionare questo grande ceto medio che comprende quasi tutta la società, eccezion fatta per pochi poveri e ancor meno straricchi».
Ha anche lei la sensazione che, come i «girotondi» e il «popolo viola», anche le sardine sembrano un movimento che presume di rappresentare la parte migliore dell’Italia?
«La presunzione è un peccato di gioventù. Da ragazzo pensavo di sapere tutto e le prime volte che parlavo in pubblico avevo un’insopportabile aria da guru. Mentre in realtà non sapevo un cazzo di niente».
È fuorviante coccolare questi giovani inesperti e proporli come modello?
«I mass media vivono di questo. Appena è comparsa Greta Thunberg sono esplosi i peana. Cosa può sapere una sedicenne della complessità dello sviluppo economico e dei cicli climatici? Eppure c’è chi l’ha proposta per il Nobel della pace. Succede. Ma di fronte allo spettacolo che offrono certi adulti che si azzuffano in Parlamento prima di rimproverare i giovani ci penso due volte. Avevo apprezzato l’apertura del loro leader romano che si era detto favorevole alla presenza di CasaPound alla manifestazione in Piazza San Giovanni. Forse era eccessivo, ma era un bel segnale».
È un movimento contro l’odio, ma a volte, pensando di essere nel giusto, sembra che sia più violento l’odio degli altri.
«Questa è una buonissima riflessione sulla quale mi esercito da decenni. Mi vanto di essere uno che ha collaborato tante volte a placare gli animi. Nel 1981 realizzai per la Rai Nero è bello, un documentario in cui da sinistra raccontavo in modo civile e rispettoso i militanti della nuova destra. Vorrei che sulla mia tomba fosse scritto: «L’autore di Nero è bello»».
Quanto durerà questo governo? Ed è giusto che stia in piedi a ogni costo?
«Potrebbe durare tre ore o anche tre anni, ma penso che sarebbero anni di mediocrità. Io sono favorevole a una coalizione repubblicana perché ritengo che, in un momento di grave difficoltà come questo, possa aiutarci a superare la paralisi e a rispondere alla domanda relativa al fatto che, da 25 anni, l’economia italiana ha il peggiore indice di produttività di tutti i Paesi moderni».
Giampiero Mughini per Dagospia l'11 gennaio 2020. Caro Dago, era tempo che spasimavo di dirti l’eccellenza di una roccaforte editoriale del liberismo moderno quale la casa editrice liberilibri di Macerata. Aspettavo l’occasione buona, ossia un libro che tra i tantissimi bei libri da loro pubblicati fosse di tale implacabile urgenza e intelligenza da meritare di essere celebrato nelle poche righe di un mio scritto a te destinato. Ebbene il Sogno e realtà dell’America Latina del premio Nobel Mario Vargas Llosa, un breve saggio del 2009 che funge adesso da numero 142 di una delle più belle collane della casa editrice maceratese, è l’occasione perfetta per farlo. Trenta sugosissime paginette dello scrittore peruviano che demoliscono senza lasciarne pietra su pietra “le stravaganti imposture” che per almeno mezzo secolo hanno avuto cittadinanza eccome nelle generazioni europee che volgevano a sinistra, quelle generazioni (quorum la mia) che s’erano abbeverate a un famosissimo libro del 1967 di Régis Debray venduto a centinaia di migliaia di copie e dov’era scritto che bisognava “fare come a Cuba”. Sì, fare a Parigi oppure a Milano oppure ad Amburgo quello che i “barbudos” avevano fatto a Cuba, cacciar via un tirannello indecente e apprestarvi la lotta contro tutte le ingiustizie e le indecenze di una società spaccata tra i pochi “che hanno” e i moltissimi che “non hanno”. E come se questo presepe da due soldi corrispondesse minimamente alla realtà e alla articolazioni sociali delle moderne società industriali. In Italia questa bandiera è stava sventolata innanzitutto da Giangiacomo Feltrinelli, che giudicava la Sardegna il luogo italiano adatto da cui far partire i guerriglieri e la loro lotta di liberazione. (Resterà uno dei grandi misteri della nostra storia editoriale il caso dell’autobiografia di Fidel Castro alla quale il più bravo redattore della Feltrinelli, Valerio Riva, lavorò per anni e anni e poi non se ne fece niente. Perché? La libreria antiquaria Pontremoli di Milano è di recente entrata in possesso di un giro di bozze del libro tutto annotato da Riva. Inutile aggiungere che mi sono precipitato a comprarlo. E’ un cimelio di tutta una stagione dell’editoria e dell’anima europea.) A proposito di quelli che si invasarono del mito castrista tanto Vargas Llosa quanto l’ex magistrato Carlo Nordio (intelligente prefatore del libro di cui sto dicendo) accennano sprezzantemente al viaggio di pochi giorni a Cuba che Jean-Paul Sartre _ purtroppo “un cattivo maestro” come pochi altri ce ne sono stati _ fece al tempo dell’invasamento filocastrista di tanti, un viaggio di pochi giorni dal quale lui ne uscì pontificando sulla democrazia di qualità superiore che c’era a Cuba. Chiacchiere, bugie, falsificazioni indecenti, farneticazioni ideologiche senza alcuna base di fatto. Quella castrista era ed è una dittatura, la più lunga di quelle che hanno avvelenato quest’ultimo mezzo secolo di storia dell’America Latina. Scrive Vargas Llosa: “Vero è che quasi mezzo secolo dopo tali avvenimenti, quella rivoluzione si scolorì e perse il suo splendore paradisiaco per molti europei, incluso lo stesso Régis Debray. Ma è anche vero che c’è ancora chi, nel Vecchio Continente si ostina a non vedere la realtà così com’è, e chi, come Ignacio Ramonet, direttore di “Le Monde diplomatique”, cantore aulico di Fidel Castro _ e del comandante Hugo Chávez _ continua a promuovere come esemplare una dittatura che si è guadagnata l’onore di essere la più duratura che l’America Latina abbia mai conosciuto e che, molto probabilmente, nessuno di loro accetterebbe nel proprio Paese”.
Maurizio Caverzan per Panorama l'8 gennaio 2020. «Uffa», e basta la parola. Basta quell’esclamazione o quell’intercalare per figurarcelo subito, Giampiero Mughini: la postura, la chioma, l’occhio irrequieto, le giacche pittate e la parlata pittorica, la tonalità in levare, le mani roteanti per sostenere il ramificato argomentare. Presto Uffa campeggerà sulla copertina del libro in uscita da Marsilio (sottotitolo «Cartoline amare da un Paese in cui accadde di tutto»). Sarà un’antologia di corsivi pubblicati dal Foglio tra il 2005 e il 2006 - «anno fatale» - incorniciati da riflessioni sul presente per attualizzare polemiche mai sopite, anzi, ciclicamente risorgenti. La magistratura, Calciopoli, il terrorismo, l’Italia guelfa e ghibellina, divisa in fazioni pro e contro un leader più o meno divisivo, Silvio Berlusconi allora, Matteo Salvini oggi. Mughini risponde tra un’ospitata televisiva, la parte minore e più redditizia del suo lavoro, e l’immersione nella poliedrica biblioteca, luogo dell’anima.
Perché nel libro Uffa è senza punto esclamativo a differenza del titolo della rubrica sul Foglio?
«Perché l’Uffa! originale era uno scatto nervoso, breve e tagliente nelle intenzioni, mentre chi leggerà adesso vi coglierà un ragionamento o lo spicchio narrativo di un pezzetto d’Italia. Sul giornale quei testi vivevano lo spazio di un mattino, in un libro hanno una responsabilità diversa alla quale il punto esclamativo non si confà».
È un’espressione che indica un certo snobismo o un moto di sufficienza. Oppure il retropensiero è che basterebbe un po’ di buon senso per smontare tante polemiche?
«La seconda che ha detto».
Retropensiero del retropensiero: viviamo in un’epoca autistica in cui ognuno segue i propri ragionamenti, incapace di ascoltare, dialogare, relazionarsi?
«È assolutamente così. Ognuno di noi insegue le proprie ossessioni, asserragliato in topografie dove dirimpetto c’è un nemico, sempre quello. Personalmente, quando inizio un ragionamento talvolta non so come lo finirò».
Perché non possiede certezze?
«Non possiedo verità ultimative. Più gli anni passano e meno ne so. Dare addosso a Salvini o esaltare le sardine 24 ore al dì è un pensiero che non si avvicina nemmeno all’anticamera del mio cervello».
Restando sull’incomunicabilità, quanto è lontana una pacificazione sugli anni del terrorismo?
«Non è lontanissima perché oggi non c’è un terrorista che si alzi a sostenere di aver avuto ragione. Erano delinquenti di strada e onestamente la più parte di loro lo ammette sia a sinistra che a destra, come mi testimoniano gli amici Valerio Morucci e Giusva Fioravanti».
Persiste qualche clamorosa eccezione, tipo Barbara Balzerani.
«Vero, Balzerani fu assai sgradevole quando parlò del mestiere della vittima. Detto questo, non sono sicuro che l’Italia abbia digerito bene quella stagione. Oggi nessuno estrae più una pistola, però tantissimi spasimano per fare a botte verbali. In tv, per esempio, se mi succede di essere coinvolto in un cosiddetto telescazzo me ne avvilisco».
Quelli che sono andati più vicini a una pacificazione sono la famiglia Calabresi e gli assassini del commissario Luigi, anche se di recente la vedova Pinelli ha ribadito le sue insinuazioni sulle circostanze della morte del marito?
«Penso che, se dopo aver abbracciato la vedova Gemma Calabresi, qualcuno ricomincia a dire di sapere come in realtà è andata o, più precisamente, pensa che nella stanzuccia della Questura di Milano qualche funzionario si sia avventato su Giuseppe Pinelli, la pacificazione non è possibile. Purtroppo, benché privi della pur minima prova, anche scritti recenti di autori di quella parte insistono sull’ipotesi del massacro».
Perché questa antologia di scritti riguarda l’annata 2005-2006?
«Perché il caso è divino. Nel luglio del 2005 mi chiamò il mio amico Giuliano Ferrara chiedendomi di iniziare quella rubrica due giorni dopo. Poi in quell’anno successe di tutto di più. Sia nella vita civile, per esempio con Calciopoli che, per milioni di italiani tifosi fu più importante di Tangentopoli, sia nella vita privata, perché i medici guardarono dentro e videro un tumore. Motivo per cui fu un anno molto particolare, al termine del quale capii che <prevenzione> è più importante di< rivoluzione>».
Woody Allen dice che l’espressione più desiderata al mondo non è sentirsi dire «ti amo», ma «è benigno».
(Risata). «Non sono Woody Allen e gli aforismi non mi vengono altrettanto bene».
Il suo aforisma ha risvolti culturali più significativi. L’amarezza citata nel sottotitolo del libro è aumentata o diminuita dal 2005?
«È aumentata esponenzialmente, innanzitutto per il fatto che data la mia età il compimento del mio destino personale si avvicina irreparabilmente. E poi a causa dello scombussolio e della degradazione della vita pubblica. Cito un fatto quasi banale. Ogni settimana vado per lavoro un paio di giorni a Milano, risiedo nel quartiere Isola dove la mia compagna possiede un piccolo appartamento. E ogni settimana ci trovo una novità, un’invenzione utile per la vita quotidiana. Quando ci si arriva provenendo da Roma, sembra di entrare in uno Stato progredito del Nord Europa. Pensare che Milano appartenga allo stesso Paese della Calabria, della Campania o della Sicilia è una balla che ci raccontiamo. Quand’ero ragazzo i giornalisti che venivano a Catania ne parlavano come della <Milano del sud>. Oggi a nessun emulo di Indro Montanelli o Luigi Barzini verrebbe in mente di usare un’espressione del genere per qualsiasi città meridionale».
Il lavoro cui fa riferimento è quello di opinionista televisivo che, da quanto si legge, sembra vivere con un certo disagio.
«Quello televisivo è solo una parte infinitesimale del mio lavoro, ma è la parte che vivo con maggior disagio nel timore che qualcuno mi fermi e mi dica che mi riconosce per gli occhiali che porto. Ringrazio la tv perché senza, con la crisi dei giornali cartacei, sarei in un ospizio. Assisto alla lenta scomparsa del mio mondo naturale e ho spesso la percezione che scrivere un libro significhi rivolgersi alla nicchia di una nicchia. A meno che non si scrivano libri contro Berlusconi o contro la camorra. Ma neppure se mi offrissero un milione mi conformerei a una tale banalità. Chi li scrive ha tutto il diritto di farlo, ma in genere i sacerdoti del bene mi annoiano».
Sono la categoria più popolare del momento.
«Con qualche risvolto grottesco, come quello che riguarda una simpatica ragazza sedicenne trasformata in una diva planetaria. Non c’è nulla di più lontano dalla mia idea di vita intellettuale: una terra nella quale il mondo diviso in bianco e nero non è previsto. Gli articoli dei sacerdoti e sacerdotesse del bene non li leggo, né seguo le loro prediche in tv».
La televisione non è adatta agli spiriti problematici e all’esercizio dei distinguo?
«Dipende da come la si usa. Ci sono anche cose buone… Una domenica sono stato ospite di Fabio Fazio per raccontare il primo romanzo di Italo Svevo e ho avuto la percezione della potenza della televisione, imparagonabile alla forza d’urto di un pur lucido e penetrante articolo di carta stampata. Milena Gabanelli, la miglior giornalista italiana, sintetizza in cinque minuti argomenti complessissimi rendendoli accessibili al grande pubblico».
Che cosa pensa del fatto che, secondo Worlds of journalism study i giornalisti italiani sono quelli più a sinistra d’Europa a fronte di una cittadinanza più moderata? Dipenderà anche da questo il calo delle vendite dei nostri giornali?
«Che i giornalisti volgano più spesso a sinistra è un fatto. Ma non dipende certo da quello che i ventenni e magari i trentenni non sappiano più che cos’è un giornale di carta».
In senso più lato, esiste una superficialità dei media e ancor più dei social media per cui i sentimenti più preziosi ne risultano distorti?
«Come si fa a frenare l’eruzione di esibizionismo e vacuità di quelle che chiamano influencer perché indirizzerebbero scelte e comportamenti dei seguaci in molti casi facendo sfoggio di culi e cosce?».
Secondo gli analisti gli influencer stanno rivoluzionando il concetto di lavoro e il rapporto tra tempo libero e occupato.
«Non sono iscritto a nessun social media, ma su whatsapp mi arrivano post di ragazzi che ridono, discettano e subissano i follower con messaggi autopromozionali. Sono nato in un’epoca nella quale ci avevano insegnato a dire sempre una cosa in meno piuttosto che una in più. Nei suoi ultimi venti o trent’anni, per suo stile di vita, mio padre mi avrà rivolto trenta frasi in tutto. Ma con ognuna di quelle parole mi ci nutrivo per dei mesi».
L’autorità esisteva.
«Mi ricordo che una volta, al ritorno da una manifestazione antifascista mi si avvicinò: “Tu sai che io stavo da quella parte…”. “Sì, papà”. Mi aspettavo una replica, qualcosa. Invece, non disse una parola al figlio che insultava la sua storia; nulla. Ancora oggi rabbrividisco al pensiero di quel suo silenzio».
Oggi l’esibizione del privato fa conquistare le copertine…
«Mi deprime l’esibizione sconcertante dello scorrazzamento da un letto all’altro pur di ottenere un numero maggiore di like».
È corretto se dico che il punto dove lei è meno problematico è la condanna di Matteo Salvini?
«Non troverà una mia parola offensiva nei suoi confronti neanche col microscopio. E dal momento in cui ha ipotizzato Mario Draghi capo del governo sono attento a certi percorsi zigzaganti che potrebbero portare delle sorprese. Giancarlo Giorgetti è una figura che arricchisce le posizioni di Salvini, destinate a galvanizzare l’elettorato. Penso che se andassi a cena con Giorgetti condividerei il 50 o 60% dei suoi argomenti».
Se la sovranità che appartiene al popolo è citata nel primo articolo della Costituzione non sarà un’idea tanto fascista, o sbaglio?
«La parola “sovranità” è una scodella che si può riempire di contenuti i più vari. Dipende da come viene esercitata nel rapporto con i paesi vicini. Senza dimenticare il fatto che abbiamo il terzo debito pubblico del mondo».
Le sardine la persuadono?
«Persuadermi no, mi sono simpatiche, ma credo saranno un fenomeno di breve durata. Ho visto spesso in tv Mattia Santori e l’ho ascoltato dire che non metterà mai piede a Rete 4. Siccome io vado spesso a Stasera Italia di Barbara Palombelli mi sono sentito offeso».
Approva un movimento che nasce solo anti qualcuno?
«Apprezzo il fatto che dimostrino che la piazza può essere occupata anche da gente con silhouette diverse da quella di Salvini».
Un movimento filo governativo e fiancheggiatore dell’establishment?
«No, perché oggi è tutto mescolato. Non è come al tempo in cui le schiere dell’eskimo stavano sulla sponda opposta rispetto alle schiere dei Ray-ban. Le ripartizioni novecentesche non aiutano a sezionare questo grande ceto medio che comprende quasi tutta la società, eccezion fatta per pochi poveri e ancor meno straricchi».
Ha anche lei la sensazione che, come i girotondi e il popolo viola, anche le sardine sembrano un movimento che presume di rappresentare la parte migliore dell’Italia?
«La presunzione è un peccato di gioventù. Da ragazzo pensavo di sapere tutto e le prime volte che parlavo in pubblico avevo un’insopportabile aria da guru. Mentre in realtà non sapevo un cazzo di niente».
È fuorviante coccolare questi giovani inesperti e proporli come modello?
«I mass media vivono di questo. Appena è comparsa Greta Thunberg sono esplosi i peana. Cosa può sapere una sedicenne della complessità dello sviluppo economico e dei cicli climatici? Eppure c’è chi l’ha proposta per il Nobel della pace. Succede. Ma di fronte allo spettacolo che offrono certi adulti che si azzuffano in Parlamento prima di rimproverare i giovani ci penso due volte. Avevo apprezzato l’apertura del loro leader romano che si era detto favorevole alla presenza di Casapound alla manifestazione in Piazza san Giovanni. Forse era eccessivo, ma era un bel segnale».
È un movimento contro l’odio, ma a volte, pensando di essere nel giusto, sembra che sia più violento l’odio degli altri.
«Questa è una buonissima riflessione sulla quale mi esercito da decenni. Mi vanto di essere uno che ha collaborato tante volte a placare gli animi. Nel 1981 realizzai per la Rai Nero è bello, un documentario in cui da sinistra raccontavo in modo civile e rispettoso i militanti della nuova destra. Vorrei che sulla mia tomba fosse scritto: “L’autore di Nero è bello”».
Quanto durerà questo governo? Ed è giusto che stia in piedi a ogni costo?
«Potrebbe durare tre ore o anche tre anni, ma penso che sarebbero anni di mediocrità. Io sono favorevole a una coalizione repubblicana perché ritengo che, in un momento di grave difficoltà come questo, possa aiutarci a superare la paralisi e a rispondere alla domanda relativa al fatto che, da 25 anni, l’economia italiana ha il peggiore indice di produttività di tutti i paesi moderni». Panorama, 8 gennaio 2020
· Gianni Rodari.
C’era una volta...Grazie Gianni Rodari, il maestro che ci ha insegnato la rivoluzione della fantasia. Trasformare tutto. Sognare in grande. E non avere paura di sbagliare. A 100 anni dalla nascita dello scrittore che ha portato a scuola un mondo incantato, il ricordo di chi tra i banchi c’era veramente. Donatella Di Cesare il 29 gennaio 2020 su L'Espresso. Gianni Rodari circondato da bambini nel 1979La scuola Piccinnini sembrava lontana, lontanissima, oltre ogni periferia. Solo la via Tiburtina riusciva ad arrivarci. Per il resto era circondata da prati incolti - aridi d’estate, fangosi d’inverno. Percorrerli ogni mattina mi sembrava una punizione ulteriore; si aggiungeva a sventure e tracolli che in quel periodo inseguivano la mia famiglia, da poco rientrata a Roma. L’insofferenza non si stemperava in classe, una quinta elementare frequentata da figlie di operai e disoccupati che nei volti, nei gesti, nelle parole portavano incisi le difficoltà, gli stenti, i soprusi che vivevano quotidianamente fuori. La maestra si dava da fare. Ma i suoi sforzi non erano ripagati. Ogni tanto perdeva la pazienza - volava qualche schiaffo. Era ancora solo ottobre e la situazione appariva stagnante. Un giorno arrivò un nuovo maestro, o meglio, un maestro ausiliario, che avrebbe dovuto dare una mano. Era un uomo minuto, un po’ timido. Non alzava la voce e sorrideva spesso. Eppure era inflessibile. In poco tempo tutto fu rivoluzionato. Cambiò l’aula, cambiò l’atmosfera e cambiammo noi. Le ore passavano rapidamente una dopo l’altra. Anzi, restavamo a scuola anche nel pomeriggio. I nostri impegni si erano moltiplicati e noi, prima così riottose e maldisposte, avevamo finito per essere addirittura entusiaste. D’un tratto la scuola era diventata un mondo incantato. Ma non era una favola – era un’utopia. E noi avevamo scoperto di esserne le protagoniste. Stava a noi preparare e anticipare con zelo e fantasia. Questo ci aveva fatto capire in pochi giorni il nostro nuovo maestro Gianni Rodari. Così uscimmo presto dal ruolo triste e passivo di scolare dimenticate di un’opprimente periferia romana. Ciascuna ebbe un compito in quella piccola, grande trasformazione. Non che avessimo smesso di studiare storia, geografia, aritmetica. Anzi! Lo facevamo con una nuova passione e un fervore esplorativo. Che parte avrei potuto avere io che, oltre a essere la più piccola, mi sentivo così estranea e rifiutata? Rodari me ne assegnò ben due. Fui il postino della classe. Smistavo le lettere che ciascuna indirizzava al maestro, ma anche a una compagna, per parlare di sé, per sfogarsi, lamentarsi, confidarsi. Così avrebbero potuto essere superati piccoli attriti e futili malintesi. Nulla impediva, poi, di scrivere lettere a personaggi reali o fittizi, esistenti o immaginari. Oltre a giocare questo ruolo, quasi interpretativo e psicanalitico (molte lettere venivano lette insieme e commentate), fui «occhio sul mondo». Così mi chiamò il maestro Rodari. Non tutte le mie compagne avevano accesso ai giornali. Io potevo invece procurarmeli a casa o tra i parenti che non abitavano lontano. “L’Unità”, “Paese sera”, qualche volta “Il Messaggero”. Insomma, quello che riuscivo a trovare. Mi occupavo delle notizie che arrivavano dall’estero. Ogni mattina portavo i ritagli dei giornali e li incollavo su grandi cartoni. Erano i nostri tazebao. Mi rendevo conto che la gerarchia era importante. Così mettevo in alto tutto quello che riguardava la guerra in Vietnam che trovavo profondamente ingiusta. Almeno mezz’ora in classe era dedicata alla discussione di quelle notizie. Erano gli ultimi mesi del 1965. Noi tutte avevamo problemi di ogni sorta che ci attendevano fuori dal portone. Avremmo potuto soccombere, ripiegate su noi stesse. Il maestro ci insegnava ad alzare gli occhi, a considerare la nostra situazione in una prospettiva più ampia, guardando a tutto quello che accadeva nel mondo. Fu così che, «sognando in grande», come lui ripeteva, decidemmo di pubblicare noi un nostro giornalino utilizzando il ciclostile della scuola. Facevamo una vera e propria riunione di redazione. Articoli e idee non mancavano. E tuttavia Rodari non sembrava soddisfatto. Dovevamo osare di più. Quelle stesse ali leggere che ci innalzavano nei cieli dell’immaginario avrebbero dovuto spingerci a conoscere e indagare una realtà così vicina che avremmo forse preferito rimuovere. Fioccavano le proposte. Ma Rodari scuoteva la testa. A me venne in mente un’idea che poteva sembrare bizzarra. Non lontano c’era una grande fabbrica, la Fiorentini. Ci passavamo accanto per tornare a casa, quando sceglievamo il percorso più lungo ma più agevole. Perché non intervistare gli operai? Aspettarli all’uscita dal loro turno? Per capire quali fossero i loro timori, le loro angosce, le loro lotte? Ci andammo in gruppo. Ricordo ancora lo sguardo stupefatto e compiaciuto degli operai davanti a quelle ragazzine davvero originali, giornaliste improvvisate, che prendevano la loro parte così seriamente. Il giornalino fu un successo. Si complimentò persino un burbero ispettore venuto da fuori. In quell’occasione Rodari volle mostrargli come noi avevamo imparato a giocare con gli errori. Perché, certo, in quella classe difficile ce n’erano in abbondanza. Di qualcuno ho trovato poi traccia nei suoi libri. In sé l’errore non era mal visto. Errare e trasgredire sono quasi sinonimi. E così poteva nascerne una trasgressione poetica. Ci piaceva il paese con la “s” davanti, quello dello “scannone”, che disfa la guerra anziché farla, e dello “staccapanni”, che non serve per appendere i vestiti, ma per staccarli quando occorre. È il paese dove per i bambini che ne hanno bisogno i cappotti sono gratuiti come l’aria e l’acqua. Si avvicinavano le feste. La povertà era un brutto spettro che girava inarrestabile in quella scuola. Nulla sembrava più chimerico che preparare i regali. Rodari ci disse di portare da casa quello potevamo. La mia compagna di banco arrivò con un pezzo di lenzuolo bianco. Ridemmo – non senza amarezza. Che cosa ne voleva fare? Il maestro, accigliato, ci rimproverò. Tutto si poteva trasformare, tutto si poteva riparare. Il pezzo di lenzuolo diventò una splendida rosa. Non ce n’erano altre così belle, perché quella aveva l’aura del riscatto. Durante le vacanze mio zio Armando, che mi esortava sempre a leggere, mi regalò “La freccia azzurra”. Ho ancora l’edizione originale con la sua dedica. Lì per lì lasciai il libro da parte, perché mi sembrava strano e incomprensibile che Gianni Rodari, il mio maestro, scrivesse anche per altri bambini. Lo lessi solo più tardi. E ritrovai molto del suo insegnamento in quella singolare storia di giocattoli che, nella notte dell’epifania, fuggono dal negozio e salgono su un trenino elettrico, la freccia azzurra, per raggiungere i bambini che non possono comprarli. Fra loro ci sono anche le Tre Marionette che nello scompartimento battono i denti tanto forte, da impedire agli altri di dormire. «Ma non potete lasciarci in pace? Non avete un po’ di cuore?», chiedono gli altri giocattoli. «No, non ce l’abbiamo», rispondono le Tre Marionette. «Siamo di legno e di cartapesta; se avessimo il cuore, non avremmo così freddo». Dalla scatola dei pastelli guizza fuori il rosso – tre segni, ed ecco il cuore. «Dopo qualche minuto sentirono caldo anche alle orecchie, anche alle mani e ai piedi, ossia nei punti più lontani dal cuore, ove il freddo si diverte a tormentare la povera gente». Gli esami finali andarono bene, più o meno per tutte. Rimpiangevamo già quella scuola su via Tiburtina che prima ci sembrava il luogo più desolato del mondo. «Lei studierà storia! O filosofia! O forse farà la giornalista. Insomma mica vorrai scegliere matematica?». Sono queste le ultime parole di Rodari che ricordo. Negli anni universitari in Germania ho studiato, quasi per caso, Novalis, quel poeta e filosofo che Rodari amava molto e che, con la sua “fantastica”, lo aveva ispirato. Dal mio maestro ho imparato, nei miei limiti, la forza della trasgressione, la necessità dell’utopia, il valore della resistenza e della rivolta, l’impegno di cambiare il mondo.
· Gianni Vattimo.
Antonio Gnoli per “Robinson - la Repubblica” l'8 gennaio 2020. Ora che da un po' ha superato gli ottant' anni dice che non se li aspettava così. Dice che essendo stato un giovane brillante - per alcuni perfino un enfant prodige - che ha smosso le acque provinciali in cui di solito navighiamo, forse è un modo di pagare un conticino. A chi? Boh. Non lo sa. Dio e gli uomini hanno un modo strano di esercitare la giustizia: tu fai una cosa bella e ricevi un premio. Ne fai una brutta e paghi pegno. Questo almeno in teoria. Ma quando sei vecchio, quando, diversamente da altri vecchi, senti il peso della materia che si disgrega, allora ti chiedi perché proprio a me? «Sai, ho fatto un sogno l' altra notte», dice Gianni Vattimo. «Ho sognato che stavo giocando con la mia vecchiaia e che mi sentivo leggero. E bello come un tempo. Poi quando mi sono svegliato ho pensato: ma ero io quello? Ero proprio io? E se ero io che cazzo mi significava quel sogno?».
Partiamo se vuoi da questo interrogativo chi sei oggi?
«Non lo so, vorrei saperlo. Ci sono vari strati di me. Vari dolori. Alcuni lontani, altri recenti. I dolori raccontano la tua storia, la circoscrivono, a volte. Oppure l' amplificano. E poi, ci sono i dolori della memoria e quelli del corpo».
Quali prevalgono in questo momento?
«Mi vedi, no? Faccio fatica a camminare. Quattro o cinque anni fa mi hanno diagnosticato un Parkinson. Allora che faccio? Provo a convivere con il signor Parkinson. Gli dico, beh vediamo di non farci troppo male. Io non dò fastidio a te e tu non ne dai a me. Poi scopro che quel signore lì è molto esigente. Paziente ma insidioso. Ti giuro che se fosse stato per me non l' avrei mai invitato. Si è presentato senza neanche farsi annunciare, senza un biglietto da visita, senza un mazzo di fiori. Capisci?»
Capisco. Però siamo qui, nella tua casa, mentre parliamo e mangiamo quello che è stato apparecchiato a tavola. E non mi sembri così malandato.
«Non lo sono, è vero. Ti piace il risotto?».
Mi piace il risotto. Ma mi piacciono anche altre cose di te.
«Cosa ti piace? Scusa la curiosità».
Beh alcune cose che hai scritto sono state importanti per questo paese. Hai sdoganato Heidegger, ti sei inventato il "pensiero debole", e non hai mai tromboneggiato da accademico.
«Sai è stata la scuola di Luigi Pareyson da cui provengo a formarmi. Rigorosa ma anche molto appartata. Lo scelsi perché era il professore più giovane della facoltà. Esistenzialista e cattolico. Amico di Karl Jaspers. Io, allora, ero sedotto da Adorno. Dai tedeschi che erano usciti dalla guerra. Ma se lei vuole studiarli veramente si dedichi a Nietzsche, mi disse Pareyson. Era un personaggio complicato. Bisogna farsi le ossa con i maestri e poi lasciarli andare. Se non lo fai finisci nella gabbia».
Eri molto brillante?
«Credo di sì. Provengo da una famiglia dignitosa ma povera. Padre carabiniere. Madre sartina. Ho frequentato l' Azione Cattolica. Posso dire che all' università ero decisamente brillante».
Il tuo cattolicesimo ha conosciuto alti e bassi. Ora dove si colloca?
«Non lo so, onestamente non saprei collocarlo. Adoro questo papa che mi pare sia rimasto il solo anticapitalista in circolazione. Qualche tempo fa gli ho fatto avere il mio ultimo libro Essere e dintorni nella speranza che lo leggesse. Ci sono, infatti, diverse considerazioni sul cristianesimo».
E Francesco l' ha letto?
«Letto non lo so, certo lo ha sfogliato. Tramite un amico comune, un argentino, Luis Liberman, gli è arrivato il libro. Mi ha telefonato per ringraziarmi del dono. E io gli ho spiegato che era un libro su Heidegger».
La tua ossessione.
«Bisogna pur vivere di qualche passione intellettuale. E poi come lui ha detto: soltanto un Dio ci può salvare».
Ma questo Dio dove lo andiamo a cercare?
«Certo non nelle costruzioni metafisiche e neppure in quelle mitologiche. Dio non può essere ispirato da ragioni teoretiche».
Tu hai scritto che "Essere e Tempo" - l'opera più importante del primo Heidegger - rispondeva a una domanda storica e non a una esigenza astratta e universale. A questo pensi?
«L' essere di cui parla Heidegger non è quello di cui discute la metafisica. È l' evento. Dire evento significa che qualcosa accade. Dove? Nel linguaggio, nella storia, nel mondo. Dell' evento non puoi dare una spiegazione scientifica, oggettiva. La nascita di Gesù non è dimostrabile. Eppure è un evento che accade nella storia ed è all' origine della cristianità. Io mi sento tanto cristiano quanto heideggeriano. E tutto questo non ha niente a che vedere con la verità oggettiva. Per cui l' unica ragione che mi consente di chiamarmi cristiano è perché non credo nell' oggettività delle cose, non credo, come non crede Heidegger, nella metafisica».
Secondo te papa Francesco ha chiaro in testa questo tuo ragionamento?
«Non lo so e non lo pretendo. Però so che lui ha rimesso la Chiesa al centro di una discussione profonda. Mica facile, perché un corpaccione bimillenario non lo sposti facilmente. Le resistenze che il suo magistero incontra sono pazzesche».
È in corso un forte scontro religioso in seno allo stesso cristianesimo.
«C' è una posta in gioco altissima. Né la scienza né la filosofia tout court sono in grado di vincere il piatto. Penso che Heidegger fosse consapevole di questo quando nella meditazione degli ultimi anni in maniera drammatica non vedeva soluzione umana al problema della desertificazione del mondo».
E affidava la salvezza a un Dio?
«Proprio così, nella direzione indicata da Lutero, e prima ancora da Paolo, per cui non sono le nostre opere che ci salveranno ma la grazia di Dio».
In questo modo viene meno la responsabilità dell' atto umano. Puoi essere nazista o decidere di bruciare l' Amazzonia tanto non dipende dalle tue opere la salvezza.
«Ma è proprio perché ti salvi che le tue opere avranno un senso tutt' altro che nichilista. Siamo irresponsabili nella misura in cui saremo costretti a restare inautentici. E inautentico è il nostro mondo dominato dalla metafisica, dall' oggettivazione, dal calcolo, dall' utilitarismo, dalla tecnologia che tutto divora. Ci sarà un nuovo inizio? È ciò che Heidegger spera, ma non dipenderà dalla decisione dell' uomo. Del resto, cose in parte analoghe le pensava Wittgenstein, almeno il Wittgenstein che si ribella a Russell e al pensiero anglosassone».
Ci sono due Heidegger come pure due Wittgenstein.
«Mi sono occupato della "svolta" di entrambi. Però Ludwig era certamente più tormentato. La frequentazione dei suoi amici analitici non lo aiutava. Era credente, frocio e pieno di sensi di colpa. Quando cede tutti i suoi beni alle sorelle lo fa anche perché ribolle di turbe mentali».
Tu hai mai avuto sensi di colpa?
«Ma sì, ogni volta che ti scompare una persona che ti è cara ti chiedi cosa hai fatto per essa. E perché gli sopravvivi».
Pensi a qualcuno in particolare?
«Penso ai miei due compagni di vita. Giampiero morto tragicamente di Aids e Sergio per un cancro ai polmoni. Sono stati rapporti bellissimi, importanti. Sergio morì in volo, tornavamo dagli Stati Uniti, aveva espresso il desiderio di vedere il museo di San Francisco. Spirò tra New York e Francoforte. È buffo andarsene mentre sei su un aereo e ho pensato che il cielo in quel caso era la via più breve per il paradiso. Mi chiedevi dei sensi di colpa».
Sì.
«Ho paura di essere diventato un po' cinico. Se mi raccontano una sciagura il primo impulso è di pensare sì vabbè ma allora io, io che ne ho viste e passate di molto peggio che dovrei dire?».
Ti infastidisce la gente che si lamenta?
«Ma no, la sto ad ascoltare. Però loro che ne sanno della mia stanchezza, della mia vecchiaia che mi ha sorpreso come un ladro nella notte».
Ti viene mai il dubbio che come filosofo avresti potuto dare di più?
«Credo di aver smantellato, decostruito, rottamato buona parte del pensiero forte. Sulla scorta di Nietzsche e di Heidegger mi sono preso la briga di porre un freno alla filosofia come etica del dominio».
Eppure proprio Nietzsche con il superuomo e Heidegger con l' adesione al nazismo hanno facilitato quel dominio.
«Ma il superuomo di Nietzsche non è volontà di potenza è l' oltreuomo che libera se stesso e l' Heidegger nazista si riduce a qualche frase di adesione allo spirito del tempo».
Non sei un po' riduttivo?
«La giro in un altro modo: se li vuoi trattare come due fanatici sanguinari allora brucia pure le loro opere. Ma è questo che vogliamo? Ho trascorso dei lunghi periodi in Germania, lavorato con Gadamer, penso che la filosofia sia un' esperienza ermeneutica. Non c' è verità che non sia interpretazione».
Cosa vuoi dire?
«Che la verità è legata al linguaggio. E che non ci sono fatti ma solo interpretazioni».
Prima accennavi a Pareyson e alla sua scuola.
«Fui fortunato. Venimmo da lì io e Umberto Eco e poco dopo si aggiunsero Mario Perniola e Sergio Givone».
Però ognuno per la sua strada.
«Avevamo la libertà di scegliere. Con Umberto siamo restati amici. Facemmo insieme il concorso in Rai. Ci siamo frequentati fino all' ultimo. Non so però se l' ho davvero conosciuto. Per certi versi era imperscrutabile. Io non gli avevo mai rivelato le mie tendenze sessuali. Però una volta ebbi l' impressione che mi prendesse in giro. Siccome ero con un amico mi disse, forse scherzando, ma allora ti sei deciso. Fu l' unica volta che sfiorò l' argomento. Dietro la sua grande estroversione c' era molto riserbo».
Dovuto a cosa?
«Aveva orrore di dover parlare di sé. Credo che tutta la sua verve barzellettistica discendesse da questa cesura: il comico che uccide o rimuove una parte della vita. Del resto si può leggere perfino Il nome della rosa in questa chiave».
Hai mai avuto la tentazione del romanzo.
«Mi piace leggerli non scriverli».
Meglio la filosofia?
«Chi può dirlo? Se lo chiedi a uno scrittore ti ride dietro».
E tu?
«Non ho messo la mia vita nelle mani della filosofia. Semmai ho messo un po' di filosofia nella mia vita. Sono obliquo come il volo degli uccelli».
Dove ti vorresti posare con il pensiero?
«Mi piacerebbe scrivere su cristianesimo e heideggerismo. Ho pensato di cominciare con una frase: se non fossi heideggeriano non sarei cristiano, e se non fossi stato cristiano non sarei stato heideggeriano. Ma ogni tanto mi vengono dei dubbi sull' utilità di un discorso del genere».
Perché?
«A parte il peso o la fatica dell' argomentazione, a chi interesserebbe? A volte mi metto davanti al computer e sto lì fisso, come un babbeo. La mia vita è fatta ormai di pause. Un sogno ce l' ho».
Quale?
«Che la mia opera, per quel tanto o poco che vale, non vada dispersa».
· Giordano Bruno.
Carlo Nordio per ''Il Messaggero'' il 15 febbraio 2020. Tra due giorni, il 17 febbraio, ogni intelletto liberale e libertario ricorderà la morte di Giordano Bruno, scrittore, filosofo ed eretico frate domenicano, spedito al rogo dall' Inquisizione Romana nell' anno 1600. Fu una pagina buia nella storia della Chiesa, allora dominata dall' austera figura del Cardinal Bellarmino, che tanta parte avrebbe poi avuto nel processo a Galileo. Per la condanna di quest' ultimo, il Papa ha ammesso l' errore. Per quella di Bruno, ha solo espresso rammarico. Quanto a Bellarmino, è stato santificato. Filippo Bruno era nato a Nola nel 1548, e cambiò nome in Giordano quando, a 17 anni, entrò in monastero a Napoli. Non era una scelta di fede, ma di convenienza, perché il giovane aveva già maturato forti perplessità sulla teologia cristiana, ma il convento offriva la tranquillità e la biblioteca propizie allo studio che tanto lo appassionava. Fu affascinato dalla mitologia pagana, dall' atomismo di Democrito e di Lucrezio, dagli scritti di Avicenna e Averroè, dal misticismo medico di Paracelso e dall' occultismo di Cornelio Agrippa. La sua mente, intimamente agitata da tensioni passionali, era inadatta a ordinare questo mélange in una visione coerente, e il suo fisico intemperante non la aiutava in uno studio sistematico. Era ossessionato dall' erotismo, e vide nella sessualità una sorta di forza insopprimibile, che, opportunamente manipolata, poteva agire come arma di seduzione universale. Alcuni secoli dopo qualche psicanalista avrebbe accolto queste idee stravaganti.
LE CORTI EUROPEE. Abbandonò presto la tonaca (che avrebbe episodicamente recuperato in prosieguo), e cominciò a peregrinare per l' Itala e l' Europa accattivandosi il favore di nobili e di sovrani con il magnetismo della sua personalità, l' arditezza delle sue teorie e la potenza della sua memoria. Seguendo il consiglio di Cicerone, (memoria minuitur nisi eam exerceas) imparò ad allenare questo muscolo cerebrale con risultati sorprendenti, che la neurofisiologia oggi conferma, indicando nell' attività mentale un buon antidoto alle degenerazioni senili. Stupì in questo modo le Corti di Londra e Parigi che gli aprirono le porte delle università di Oxford e della Sorbona. Per un momento, fu considerato il più geniale intelletto europeo. Nel frattempo scriveva con foga incandescente. Maturò una visione quasi estetica del mondo, dominato da un' energia divina, infinita ed eterna, che di cristiano non aveva più nulla. La Chiesa cominciò ad allarmarsi, mentre calvinisti e luterani, ancor più intolleranti dei papisti, ne pretendevano l' arresto, o almeno l' espulsione, ovunque mettesse piede. Bruno reagì con il suo eroico furore, definendosi professore della più pura ed innocua saggezza in un mondo di asini, di opportunisti e di turlupinatori. L' inganno maggiore, secondo lui, risiedeva nel cristianesimo, e l' imperterrito frate auspicò lo spaccio, cioè la rovina, della bestia trionfante, che molti identificarono nella Chiesa cattolica. Il Santo Uffizio decise di intervenire. Minacciato di arresto, Bruno nel 1591 lasciò Francoforte e si recò a Venezia, che allora aveva fama di relativa libertà religiosa, e, come l' Impero Romano, tollerava le fedi diverse purché non interferissero negli affari statali.
GLI ASINI IPOCRITI. Tuttavia la Serenissima era pur sempre una terra cristiana. Se Bruno avesse tenuto una condotta prudente, nessun lo avrebbe toccato. Ma l' imperterrito esule continuò a tempestare il mondo di libelli offensivi e blasfemi: definiva i frati asini ipocriti, negava la Trinità, assimilava Cristo e gli Apostoli ai fraudolenti prestigiatori, ed esaltava un coribantico delirio sessuale. Il suo ospite, Giovanni Mocenigo, allarmato da queste pericolose provocazioni, lo consegnò all' inquisizione locale, il Senato veneziano, che dopo qualche esitazione, e rilevando che Bruno era cittadino di Napoli e non di Venezia, il 27 febbraio 1593 lo spedì a Roma in catene. Qui cominciò il suo lungo calvario. Fu tenuto in stretto isolamento, ripetutamente interrogato e forse torturato. Bellarmino non voleva farne un martire, e si sarebbe accontentato di una ritrattazione formale. Ma il prigioniero non cedette, ed anzi rilanciò con maggior vigore le sue tesi. Papa Clemente VIII, esasperato, ordinò una sollecita sentenza. La condanna fu inevitabile, e Giordano Bruno impenitente, ostinato e pertinace, dopo essere stato consegnato al braccio secolare fu portato nudo a Campo dei Fiori, e arso vivo. Che dire di lui? Non fu un filosofo, perché gli mancò una sistematica speculativa dove inserire la sua moderna visione del mondo. E non fu uno scienziato, perché la sua intelligenza febbrile era troppo offuscata dalla magìa e dai pregiudizi. Tuttavia anticipò l' astrofisica moderna, definendo l' Universo un insieme di mondi infiniti, e lo stesso Einstein, affermando l' interconnessione, e quindi la relatività, dello spazio, del tempo e del moto. Oggi anche questi concetti sembrano vacillare, e alcuni sostengono che l' Universo sia limitato, in mezzo ad altri Universi paralleli, e che anche la teoria di Einstein, come la geometria euclidea, valga solo a certe condizioni. Le verità della scienza sono sempre provvisorie.
IL PANTEISMO. In realtà Bruno era un mistico poeta della Natura, roso e corroso da un' emotività incontenibile, che tra banalità ed esaltazioni gli ispiravano una nebulosa confusione di dogmi e di superstizioni. Il suo stesso panteismo (o meglio pan-enteismo) non ebbe la formulazione solenne di Spinoza e si perdette in elucubrazioni tanto eccentriche quanto quelle che combatteva. Il nostro eretico domenicano credeva nell' influenza dei pianeti, nelle qualità occulte di oggetti e di numeri, nella natura demoniaca delle malattie e nella loro guarigione attraverso amuleti o improbabili rituali. La sua sfrenata sessualità gli impedì la quieta riflessione del saggio, e le immagini torbide che lo ossessionarono per tutta la vita si trasferirono nell' astio delle sue polemiche e nell' oscurità del suo linguaggio. Come tutti gli eretici fu di incorreggibile intolleranza e di inaudita violenza verbale. Nessun dubbio che se fosse stato al posto del Cardinal Bellarmino si sarebbe comportato con severità assai maggiore. E tuttavia questo predicatore apocalittico, anche se non ci ispira simpatia, ci impressiona per il suo vigore e la sua indipendenza. Le parole indirizzate ai carnefici - Forse voi che pronunciate la sentenza siete in maggior tema di me che la ricevo - anche se non fossero vere sono verosimili, perché in sintonia con la forza morale del condannato ribelle. Cosicché oggi, ogniqualvolta passiamo in Campo de Fiori, guardiamo con rispetto quella statua un po' lugubre come l' anima del suo rappresentato, e ci inchiniamo riverenti davanti a un uomo che ha difeso con la vita le proprie idee, per quanto singolari.
· Giordano Bruno Guerri.
Luca Telese per “la Verità” il 27 aprile 2020.
Che cosa pensa Giordano Bruno Guerri dell' incubo che stiamo vivendo?
«Sono uno storico, posso risponderti con la storia?».
Devi.
«La peste del Trecento, in Europa uccise 20 milioni su 60 milioni di abitanti».
Una apocalisse.
«Fatte le proporzioni è come se oggi morissero 100 milioni di europei, capisci?».
Tabula rasa.
«Ebbene: oggi si studia quel disastro immane per i suoi effetti benefici. Curioso, no?».
A quali effetti ti riferisci?
«Carenza di uomini e di braccia in agricoltura, per esempio. La conseguenza è che furono abbandonate le coltivazioni non funzionali per concentrarsi sui terreni ad alta redditività».
Un salto evolutivo.
«E non fu l' unico. Le corporazioni medievali non facevano entrare nessun nuovo membro. Furono costrette dalle morti a quello che non avrebbero mai voluto fare, per non sparire».
Sangue fresco nelle vene di società bloccate.
«Ma il più importante fattore di modernizzazione fu un altro».
Ci fu una strage di amanuensi. I monaci morirono quasi tutti.
«Perché i monasteri furono l' equivalente delle case di riposo per anziani. E così si centuplicarono gli sforzi per arrivare alla stampa. Forse Gutemberg arrivò 100 anni prima grazie alla peste».
E cos' altro?
«Si sviluppò la tecnologia delle armi da fuoco. C' erano meno braccia...».
E quindi dovevano poter sparare di più, meglio.
«Tutto questo grazie alla peste. Pensa a quanto ci insegna sul corona, questa storia apparentemente terribile».
Parlo con Giordano Bruno Guerri da un capo all' altro d' Europa, a cavallo tra politica e sanità, tra cronaca e riflessione, tra storia e futuro. Giornalista, storico, direttore del Vittoriale. Come accade in certi dialoghi che rendono fortunato un intervistatore, parliamo a ruota libera: ma alla fine, Guerri chiude sempre tutti i fili.
Giordano, rifletti sulle conseguenze della pandemia?
«Sono sicuro di una cosa: il Covid, come tutte le disgrazie, ci cambierà. Apparentemente in peggio».
A che ti riferisci?
«Il virus sta già cambiando il nostro modo di vivere e di pensare. Anzi, lo ha già fatto. È sotto gli occhi di tutti».
Fammi un esempio.
«Aumenta la diffidenza: cresce la lontananza fisica tra le persone, non sarà facile tornare indietro».
L' euforia della «liberazione» dal lockdown cancellerà i vincoli della paura?
«No. L' euforia non è un sentimento che lascia traccia. Non vedo nessun motivo di ottimismo».
E poi?
«Sta arrivando una crisi economica drammatica e tremenda. Il Covid ne è l' antefatto, e noi ne saremo le vittime».
Arriveranno solo disastri?
«No, altrimenti non ti avrei parlato dell' Europa del Trecento».
Però oggi è più difficile immaginare i benefici...
«Alcuni sono già in atto. Uno degli effetti positivi immediati è la rivoluzione digitale a cui siamo stati costretti: ci ha spinto a crescere».
Alfabetizzazione forzata.
«Conta anche il modo in cui reagiamo. Nel mio piccolo ho deciso di fare una follia».
Cioè?
«Il Vittoriale per dare un senso di vitalità di vivacità e di speranza apre nel suo parcheggio un drive in per proiettare film all' aperto».
Geniale. Così risolviamo il problema dei cinema chiusi. Ma il tuo Vate approverebbe?
«Questo è sicuro. D' Annunzio si era fatto fare un cinema in casa, per proiettare pellicole».
Un cinema con un unico spettatore?
«Non proprio: amici, cameriere, e persino le cuoche vedevano i film con lui».
Il sommo e aristocratico Vate che vede i film con la sua cuoca?
«Si chiamava Albina, e lui ne andava matto: la chiamava "suor intingola" o "suor ghiottizia". Lui le scriveva lettere ispirate e ci infilava 1.000 lire di gratifica».
Corrispondenza erotica?
«Macché! Albina è l'unica donna vicina a D' Annunzio che non sia stata assaltata».
Cosa provocava quelle sontuose gratifiche?
«Cito: "Albina! Hai fatto la frittata più bella della mia vita. Ecco 2.000 lire di mancia". Lo stipendio di tre mesi, ah ah ah».
Come nasce questo drive in?
«C' è un grande parcheggio sotto il Vittoriale. Possono entrarci 100 spettatori con 50 macchine. Cinque euro di biglietto a testa».
E ci rientrate?
«Ovviamente no. Non coprono nemmeno il costo di noleggio delle apparecchiature e dei film».
Cinema all' aperto in perdita?
«È il nostro primo segnale di vita! Un progetto pilota costruito con la Regione Lombardia».
L' assessore Galli incoraggia come «cavia»?
«Come avanguardia, direi. Il punto è questo: servirà un cambio di mentalità. Uno scarto. Un azzardo. E noi proviamo a metterci su questa strada».
Sarà l' unico cinema del Nord aperto?
(Risata). «Non essere riduttivo: il primo cinema di tutta Italia, direi. La rinascita è anche ambizione».
«Pilota» di cosa?
«Vedi il pensiero della crisi? Si parla solo di danni e ferite. Si dubita. Iniziamo a rimboccarci le maniche e a fare».
Ma il museo è chiuso?
«Appena riaprono i parchi pubblici chiederò al prefetto di riaprire il nostro. Sai che il Vittoriale nel 2012 è stato considerato il più bel parco d' Italia?».
Il più folle, mi dirai.
«Con un incrociatore da guerra interrato, due fiumi, il laghetto».
Dove ti ha incastrato il virus?
«Mi sono trovato bloccato in Spagna. Trattato come un untore!».
Addirittura?
«Nei primi giorni bastava essere identificato come italiano per diventare oggetto di improperi».
Nella civilissima Spagna?
«Ho sperimentato su di me che cosa significa essere banditi e considerato un marginale, un pericolo, un infetto».
Tu vivevi felice tra Italia e Spagna.
«I miei figli studiano in una scuola ispano-britannica. Parlano spagnolo e inglese».
Nicola e Pietro.
«Nicola, il mio "primo genio", 13 anni. Pietro, il mio secondo genio, 8».
E cosa hai imparato con due ragazzini in Spagna?
«Che con la didattica a distanza i più piccoli impazziscono».
E gli altri?
«La scintilla del possibile si annida nel grigiore della quarantena».
Cosa intendi?
«Da anni pensiamo a corsi online fatti dai premi Nobel, e poi seguiti dal lavoro di un insegnante che spezza il pane e fa il maieuta. Oggi ci siamo arrivati».
Stai facendo un quadro luci e ombre.
«Sì. Ma ce n' è alcune, le più cupe, che temo di più. Quella del potere, ad esempio: appena sente l' odore del sangue ci si affeziona. Il Covid è stato questo, un battesimo del sangue per tanti aspiranti autocrati».
È una denuncia dura.
«Come potrei tacere? Abbiamo esecutivi che controllano tutto, sospensione della Costituzione, soppressione, temporanea spero, di libertà costituzionali, dominio sui cittadini e sulle persone: un rischio enorme».
Sembri stupito.
(Sospiro) «Non dal fatto che ci provino».
Da cosa, allora?
«È sorprendente la facilità con cui la gente è stata privata, e si è fatta privare, della libertà. Questa è la scoperta più brutta di questi mesi. Ma altri mostri incombono».
Ad esempio?
«Il braccialetto elettronico. La app. Il controllo dei dati sensibili. Se ci pensi, agli aspiranti emuli del Grande Fratello mancava solo l' ultima frontiera: il controllo fisico, quello sulla mobilità delle persone. Bene, ci siamo arrivati».
Il controllo poliziesco ti spaventa?
«Sì. Anche quando diventa una necessità bisogna avere consapevolezza del rischio».
Un altro effetto collaterale?
«La paura del virus resterà come un freno alla tendenza naturale che l' umanità ha ad aggregarsi».
Si inverte una tendenza innata nella storia dell' umanità?
«Siamo partiti dalle tribù e siamo arrivati agli imperi. Abbiamo costruito una identità europea comune malgrado i governi e la politica: ma adesso tornano steccati e barriere, pregiudizi e guerre, anche se non combattuti in armi».
Fino a quando?
«La fine di questa storia è molto lontana. Ti faccio notare che in Italia un referendum costituzionale è sospeso a tempo indeterminato senza che nessuno lo rimpianga, e che un secondo turno delle elezioni in Francia non si è celebrato».
È vero.
«Le forme della democrazia novecentesca e parlamentare entrano in sospensione».
Vorrei che l' intellettuale Guerri cedesse per un attimo la parola al manager.
«Ah ah ah... Il 2020 era l' anno del nostro trionfo: 300.000 visitatori. Avremmo dovuto inaugurare l' anfiteatro pavimentato di marmo rosso veronese, il sogno di D' Annunzio».
Doveva avvenire il 12 marzo.
«Adesso l' anfiteatro è finito, ma nessun piede ha calpestato quel meraviglioso sogno, oggi realizzato. Tutto questo è sospeso».
Come ti consoli?
«Progettando la peste del Trecento sul nostro futuro».
Aiutami a capire.
«Mentre noi chiacchieriamo, nel mondo, qualcuno sta sfruttando la quarantena per inventare nuove cose. Io lo so».
Tipo?
«Uno Steve Jobs che si rompe le scatole della didattica a distanza renderà possibile lo schermo in sospensione o l' ologramma in 3D».
Quello che abbiamo visto nel bar di Guerre stellari nel 1977!
«Lo aspetto da allora. Poi arriva il salto evolutivo e... zac».
E tu ora che fai?
(Sospiro) «Vado a fare una lezione di matematica ai ragazzi. E per giunta devo farla in inglese».
Fantastico.
(Ride). «Pensa che ricordo drammatico gli resterà di questi giorni!».
· Giorgio Forattini.
Alberto Mattioli per lastampa.it il 6 ottobre 2020. Vivere circondati da un muro di facce. Volti del passato, incorniciati dai favoriti o sommersi dalla parrucca, chiusi nell'armatura o strizzati nel corsetto, impegnati a fumare, leggere, giocare con animali domestici, vezzeggiare bambini, o semplicemente a posare. Facce, facce, facce, a decine, a centinaia, su ogni centimetro quadrato: una vita sotto lo sguardo di infiniti occhi. Già sarebbe curiosa, una casa così piena di ritratti; curiosissima se è quella romana di Giorgio Forattini, vignettista principe del giornalismo italiano, uno che con i ritratti altrui, sia pure nella versione deformata e sarcastica della caricatura, ha divertito alcune generazioni di lettori (a suo tempo, a che quelli della "Stampa") e ha guadagnato i soldi che gli servivano per comprare altri ritratti: la quadratura del cerchio, insomma. Le facce di casa Forattini si possono vedere anche senza ricevere un invito o commettere una violazione di domicilio. Vanno infatti all'asta, il 14 a Genova da Cambi, e oggi e domani sono in mostra nella sede milanese della nota Casa genovese, in via San Marco. Nel catalogo, la signora Ilaria Forattini spenga anche perché: «Non ho vissuto per 36 anni con una persona sola, ma con altre 1.500. In ogni nostra casa (tre, a Roma, Parigi e Milano, ndr) almeno 500 ritratti mi hanno accompagnata, osservata, giudicata! Adesso mi sono ribellata e ho chiesto a Giorgio un drastico cambiamento: voglio essere contornata solo da paesaggi idilliaci e da interni di belle case, insomma voglio sognare». Inde asta e, come si dice malinconicamente in questi casi, dispersione della collezione. Peccato, però. Non ci sono forse opere d'arte irripetibili e irrinunciabili, ma questa galleria di illustri, sconosciuti e illustri sconosciuti ha un fascino notevole. Si parte con dame in guardinfante e cavalieri ancora in armatura per approdare al Settecento imparruccato. Ma forse i ritratti più affascinanti sono quelli dell'Ottocento che scopre le gioie della famiglia (in precedenza, si direbbe, soprattutto un fastidio) e comincia a sfornare ritratti di gruppo, come il bellissimo quadro francese d'inizio Ottocento con lui in culottes e lei grassa con la vita alta Impero che sorvegliano amorevoli la bambina e il bambino serissimi ed elegantissimi ma con i relativi balocchi. Gli uomini sono spesso in divisa e mostrano fieramente medaglie e cavalierati; le donne, ovviamente, sono soprattutto mogli e madri. Ritratto di famiglia in un inferno è invece l'artista ferito in duello curato da amici e parenti: sarà stata così la morte di Puskin? Insomma, ce n'è per tutti i gusti e, a giudicare dalle stime, anche per tutte le tasche. Resta di capire perché l'uomo che ha disegnato ventimila vignette fosse così monomaniaco. Cominciò, ricorda adesso, «a Porta Portese, negli Anni Sessanta. Si trovavano ancora a poco prezzo antichi ritratti a olio. A quel tempo non avevo tanti soldi. Iniziai la collezione con parsimonia. Poi, quando iniziai a guadagnare con le vignette, questa mania dei volti diventò follia». Già, ma perché? Perché proprio le facce? «Devono comunque essere dei signori che rappresentano un'epoca. Mi interessa vedere come erano vestiti, come si pettinavano». E poi ci sono le agnizioni inaspettate. Nel mare di volti, Forattini ha pescato due sé stesso in abiti Ottocento: il primo è uno sconosciuto, l'altro è Thorvaldsen. Più un Alberto Ronchey di fine Settecento e un Gian Antonio Stella in versione macchiaiolo. «Volevo anch'io riuscire a dipingere così - racconta Forattini a Lauretta Colonnelli sul catalogo -. Quando sono andato in pensione mi sono iscritto a una scuola d'arte a Parigi. Eravamo tutti allievi di una certa età. L'insegnante ci metteva davanti un ritratto classico e ci diceva di copiarlo. E a un certo punto tutta la classe, guardando il mio lavoro, scoppiava a ridere. Senza che io volessi, il mio dipinto si trasformava inevitabilmente in una caricatura». Sempre facce sono.
· Giuseppe Peri.
GIAN GUIDO VECCHI per il Corriere della Sera il 21 settembre 2020. Un'estate degli Anni Trenta, Roma, solito caldo atroce. Il padre gesuita Giuseppe Peri raccontava che era ancora un novizio e guardava con soggezione e un filo di sconcerto il suo maestro seduto alla scrivania «nella sua stanza piena di libri» mentre scorreva fra le mani svariate schede tracciate a penna, un'immagine che non avrebbe mai dimenticato: «Faceva impressione perché, da quanto era preso dal suo lavoro, per non perdere la concentrazione si dimenticava di togliersi il soprabito, ed eravamo in pieno agosto!». Quello studioso perduto tra i suoi foglietti aveva un nome che all'inizio di ogni anno scolastico torna attuale e da ottant' anni almeno due milioni di ragazze e ragazzi hanno associato a un oggetto dall'aspetto vagamente minaccioso, tanto amato quanto temuto, una sorta di monolite blu in forma di volume: Lorenzo Rocci, anzi «il Rocci», vocabolario di greco antico per antonomasia che gli studenti, in genere, non pensano di associare a un essere umano. E invece «il Rocci» era un uomo in carne e ossa, un padre gesuita capace di portare a termine un'impresa quasi inconcepibile nell'età della Rete, tra pc, programmi di scrittura, copia e incolla e lavori di équipe. Padre Lorenzo fece tutto da solo, a mano: foglietto per foglietto, parola per parola, ricercando e trascrivendo lemmi e citazioni per vent' anni, dal 1920 alla prima edizione del 1939, più altri quattro tra le edizioni del '41 e del '43: 2.074 pagine, 4.148 colonne, centocinquantamila parole con relative traduzioni ed esempi. Fino a quel momento non esisteva un vocabolario greco-italiano pensato nella nostra lingua. Circolavano traduzioni dal tedesco del Passow - il progenitore di tutti i vocabolari di greco, pubblicato nel 1819 - e dall'inglese del Liddel-Scott-Jones, stampato nel 1843. E così ci pensò quello studioso nato nel 1864 a Fara in Sabina - il padre era probabilmente un artigiano - ed entrato nella Compagnia di Gesù quando aveva sedici anni, a Napoli. Poi la capitale: studi teologici e filosofici alla Gregoriana, classici alla Sapienza, laurea in Lettere nella Regia università di Roma e, nel 1892, l'ordinazione sacerdotale. Dal 1903 al 1920 aveva insegnato greco e latino nel Collegio dei gesuiti di Villa Mondragone, vicino a Frascati; ci tornò come preside dal 1939 al 1946, durante la guerra il collegio aveva nascosto sfollati ed ebrei. In mezzo, due decenni di lavoro sul vocabolario e la vita da religioso a Roma, soprattutto come confessore degli universitari alla Sapienza. Quando morì, nel 1950 - si racconta che il suo ultimo desiderio sia stato di fumarsi un sigaro - padre Lorenzo era già diventato «il Rocci». I diritti d'autore alla Compagnia di Gesù hanno finanziato per decenni missioni nei Paesi poveri e borse di studio. Per cinquant' anni, di fatto, c'è stato solo «il Rocci», una sorta di monopolio finché, nel ' 95, uscì da Loescher «il Montanari». Nei licei classici continuano ad affrontarsi i sostenitori dei due partiti. Ma è la stessa Società editrice Dante Alighieri, che pubblica il Rocci, a riportare le parole del grande grecista e filologo Franco Montanari: «Il debito verso Rocci è indiscutibile perché è stato il frutto del lavoro di un uomo armato solo di schedine e appunti e privo di computer. Un opus magnum incredibile. Per realizzare il mio dizionario hanno collaborato 30 ricercatori». Anche all'aggiornamento del Rocci, nel 2011, hanno lavorato 15 studiosi ed esperti. Il nuovo Rocci, tra l'altro, ha reso più comprensibili alcuni arcaismi nelle traduzioni e introdotto il grassetto a scandire lo scorrere indistinto dei lemmi che attentava alle diottrie dei ragazzi. Intanto è uscita un'edizione ridotta, il Rocci «Eisagoghé-Starter Edition». Ma il fascino del monolite blu resta intatto come il timore reverenziale che lo accompagna. E resta la ricchezza di citazioni che ha aiutato svariati studenti («c'è tutta la frase tradotta!») nei compiti in classe. Un longseller dell'adolescenza , come Siddharta o Il giovane Holden , solo un filo più inquietante. Ma c'è poco da fare. Che siano i versi di Omero o Saffo oppure la prosa di Platone, la bellezza si paga cara: per coglierla, tocca affrontarlo.
· Giuseppe Ungaretti.
Bruna Bianco: «Con il mio “Ungà” è stato un rapimento». Eugenio Murrali su Il Dubbio il 2 giugno 2020. Intervista all’ultima musa di Ungaretti: «Quando lo conobbi era curvo, poi buttò via i bastoni, camminava dritto come un fuso. Io non mi sono mai accorta di quanti anni avesse, era l’uomo per me». Nella notte tra 1 e 2 giugno 1970, mezzo secolo fa, l’Italia perde il suo grande poeta, Giuseppe Ungaretti. Quattro anni prima, nel ’66 è a San Paolo del Brasile per visitare la tomba del figlio Antonietto. In questo viaggio incontra l’amore: una giovane donna e poetessa, Bruna Bianco, piemontese, emigrata con la famiglia dieci anni prima. Bruna, poi divenuta un’importante avvocata, cambia la vita di Ungaretti ed è da lui cambiata grazie all’intensità di un amore che tutt’ora la accompagna. Il loro sentimento ha dato vita a uno scambio epistolare intensissimo raccolto nel volume Lettere a Bruna pubblicato da Oscar Mondadori nel 2017, curato da Silvio Ramat. «Ho avuto una fortuna inimmaginabile, che tutte le donne dovrebbero avere almeno una volta nella vita», confessa al Dubbio. E nel raccontarci il suo straordinario incontro con Ungaretti, ci parla anche delle traduzioni realizzate dal poeta, proprio ora che tornano in libreria le sue Visioni di William Blake, curate da Mario Diacono.
Com’è andata quel giorno di agosto ’ 66 con Ungaretti, il suo Ungà?
«È stato quel rapimento di cui parla anche Leopardi. È accaduto allo stesso tempo e a tutti e due. Siamo rimasti folgorati. Quando poi Ungà è partito, nel distacco, nella distanza, avevamo bisogno di ricevere ogni giorno delle lettere, che erano come la nostra droga, capaci di scomporre tutto l’essere. È degno di studio un caso simile. Quando lo conobbi era curvo, poi buttò via i bastoni, camminava dritto come un fuso. Io non mi sono mai accorta di quanti anni avesse, era l’uomo che volevo per me».
Una corrispondenza di tre anni, con molte riflessioni anche sulla poesia. Le ha scritto che le cose più poetiche sono quelle “sussurrate”. Che cosa ha imparato?
«Lui insisteva sul fatto che la poesia fosse destinata a rimanere, in tutte le sue forme, parola semplice, oltre che un atto di armonia, di adesione della persona a ciò che la circondava. Mi insegnava principalmente a distruggere la gabbia dell’eccesso di retorica, dell’enfasi, che rovina la poesia, ne falsa il giudizio».
Che cosa le diceva?
«Lui me le faceva rivedere, levigare. Mi diceva che la poesia, in un tempo in cui ci sono tanti, troppi privilegi, non deve essere solo per alcuni. Tutti gli uomini devono essere ammessi alla poesia. Secondo lui, grazie all’arte, alla scienza, alla cultura, la società deve conseguire un assetto più umano. Nessuno è più amareggiato dell’artista, se la sua parola rimane indecifrabile a tanta parte degli uomini».
Nelle lettere spesso Ungaretti le si rivolgeva come un maestro. Le dava fastidio questo?
«Io lo adoravo. Assorbivo tutto quello che mi diceva, come una droga da bere per vivere quella felicità che solo lui mi aveva permesso di provare, perché è stato l’uomo completo, che mi ha fatto sentire amata. Come potevo non essere grata? Mi raccontava solo la meraviglia. Per esempio, non mi parlò mai della trincea, del fango, di guerre, ma solo di cose melodiose, di gioia di vivere. È stato veramente un incontro soprannaturale. Avevamo bisogno di starci vicino e di avere sempre l’insistenza e la presenza dell’amore reciproco. Volevamo sposarci e abbiamo preparato tutto per farlo il giorno del mio compleanno».
Poi le cose non andarono così…
«Ungaretti subì molte ingiustizie a quell’epoca, ingiustizie gravissime. Non era ricco, non aveva una casa di proprietà in cui vivere con me. Lui sperava nel Nobel, perché con una parte avrebbe comprato una casetta a Capri, dove ci saremmo trasferiti per fare le traduzioni, infatti a lui piaceva tradurre con me i grandi classici. Il Nobel non venne… e fu una vergogna».
Lei ha conservato tutte le cartoline, i cataloghi e gli altri doni che Ungà le inviava?
«Tutto. Quando ho deciso di venire ad abitare in Italia, perché il Brasile viveva un momento politico di molte incertezze, ho caricato un container su una nave e ho portato tutti i libri che mi ha dato Ungaretti, le stampe, le medaglie, la penna, il tagliacarte, i bastoni, i foulard che mi regalò e che io non ho usato più dopo la sua morte, i vestiti. Ho comprato una casa a Canelli, in Piemonte, l’ho ristrutturata e vi ho trasferito tutti i suoi libri. Per l’anniversario dei cinquant’anni dalla sua morte avevo preparato una teca dove mettere questi libri meravigliosi per permettere, a chi volesse, di osservarli o studiarli. Con il coronavirus tutto è rimandato».
In questi giorni esce una nuova edizione delle traduzioni che Ungà fece di Blake. Voi ne parlavate nell’epistolario. Cosa caratterizzava il lavoro di traduzione di Ungaretti?
«Aveva una sensibilità tale da riuscire a vivere il momento del poeta che aveva scritto le poesie. Andava a vedere i luoghi, perché non si può tradurre un componimento parola per parola, non si arriva mai alla verità dell’emozione. Bisogna conoscere anche dove si compie l’avvenimento. Lui leggeva i testi e poi li riproduceva nel suo pensiero, senza perdere il movimento, l’ambiente in cui erano stati composti gli originali. Aveva questa capacità formidabile».
Diceva che avete lavorato insieme…
«Mi ricordo quando traducemmo passi dell’“Odissea”. Eravamo andati a Capri perché lui avesse un po’ di pace. Siamo stati dieci giorni e lavoravamo anche la notte alle traduzioni. Doveva essere febbraio o marzo del ’ 68, c’era un freddo terribile a Capri. Lui, a mezzanotte, quando io non resistevo già più in piedi, mi prendeva per mano, mi portava ai muraglioni, la strada era ancora un sentiero, e mi faceva sentire il canto delle sirene. Tutte le sue traduzioni dei grandi poeti sono magnifiche».
Dove si trovava quando ha saputo che Ungaretti non c’era più?
«Generalmente al mattino uscivo di buon’ora. In Brasile si comincia a lavorare presto. Quando tornavo, verso mezzogiorno, di solito trovavo la sua lettera ad aspettarmi sul pianoforte. Io a volte neppure riuscivo a mangiare, per leggere. Quel giorno, arrivata a casa, ho detto a mia madre che mi sentivo stanca. Sono andata a riposarmi. Mi ero coricata, stavo leggendo il giornale, O Estado de São Paulo, lo stesso che mi aveva dato la notizia dell’arrivo di Ungaretti nel ’ 66. Mi assopii. Suonò il telefono e una mia amica, che conosceva Ungà e aveva viaggiato alle volte con noi, mi disse: “Bruna, mi dispiace tanto della morte di Ungaretti”. Gettai giù il telefono e cominciai a singhiozzare forte. Dopo un po’ mia madre entrò in camera, mi confortava e io gridavo, piangevo, non riuscivo a darmi pace. Mia madre aveva nascosto la pagina del giornale con la notizia. Piansi, piansi, piansi molto, ma ero così lontana ed era già successo. Solo piansi, piansi, e lo presi con me Ungà e sarà sempre con me».
· Giuseppe Verdi.
Umano, mai troppo umano. Ecco il segreto del Maestro. "Verdi a Parigi" di Paolo Isotta è una rilettura dell'opera del compositore. Fra musicologia e storia della cultura. Paolo Isotta, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. La letteratura verdiana si divide in due fronti: quella nostrana e quella straniera, per lo più anglo-americana. In quella nostrana, a fianco di grandi scrittori come Mila, Conati e Della Seta, abbonda una serie di autentici cretini. Essi sostengono che l'aver scritto Verdi, il campione dei valori patriottici, Opere in lingua francese, fosse impresa di prostituzione; e sono portati a negare valore artistico a capolavori che vanno dalla Jérusalem al Don Carlos. Dall'altro, gli anglo-americani, nell'affrontare la storia dell'Opera francese sette-ottocentesca e del Grand-Opéra ottocentesco, attribuiscono la primazia a compositori indubbiamente rispettabili quali Hérold, Auber, Meyerbeer, Halévy, e altri; gl'Italiani sono per loro un fenomeno secondario. Ma la storia dell'Opera francese è fatta da Italiani. Da Gluck (che da compositore italiano divenne francese), da Salieri, da Cherubini, da Spontini, da Rossini, paradossalmente dallo stesso Meyerbeer, da Donizetti; e, per ultimo, da Verdi. Tale palese verità viene sovente sottaciuta o oppugnata. Contro le Opere in francese di Verdi si uniscono due opposte congiure. Vi sono poi le Opere del Maestro di argomento francese, o perché in Francia si svolgono o per esser desunte dalla letteratura gallica. A parte l'impareggiabile intelligenza, Verdi era un uomo divenuto sempre più colto e dunque, a parte la sempre maggiore conoscenza della lingua francese, s'era vieppiù internato nella società parigina e nella cultura francese. Nei suoi rapporti con l'Opéra il teatro che al mondo amava meno era trascorso da Luigi Filippo alla Terza Repubblica. C'è qualcosa di più importante. Per scontroso e poco amante della vita mondana che fosse, la società francese la conosceva come casa sua. La Traviata, con le sottilissime distinzioni sociali che noi sappiamo per aver letto Balzac e Flaubert, poteva comporla solo chi intendesse che cos'è il monde, che cos'è il demi-monde, e gli strati intermedî e inferiori a questi. Va aggiunto qualcosa che sovente sfugge alla letteratura. Quando scrive in francese, il melos di Verdi, come quello di Donizetti, che ne teorizza, acquisisce un carattere particolare e diverso: l'importanza delle vocali mute vale per lui più che per molti compositori di lingua madre gallica. E così via. Infine, il carattere unitario come pochi altri della composizione di Verdi tende un filo fortissimo tra tutte le sue Opere, quali ne siano epoca e argomento. In tutte c'è un aspetto comune. Egli è la natura più vicina a Virgilio, Shakespeare e Mozart, che l'arte abbia generata: nulla gli è estraneo, tutto gli è egualmente prossimo e distante, come all'occhio di Dio. Quindi egli dà pari realtà artistica a qualsiasi carattere e a qualsiasi situazione. Ma certo l'eros gli è personalmente distante; gl'interessa e naturalmente è quasi sempre quello femminile quando si sublima in capacità di sacrificio. Meno di per sé. In questo non v'è alcuna differenza fra le sue Opere francesi o quelle italiane e d'argomento europeo. L'unitarietà appena ricordata dello stile e dell'idea creativa del Maestro impone che effettualmente io parli di Verdi in sé; altrimenti avrei scritto una tesi universitaria, non un libro: e il tempo mi rende assai più prossimo alla tomba che alla tesi. La grande opera di Julian Budden, che resterà insostituibile, è degli anni Settanta: credo che ogni generazione abbia il dovere di tentare un proprio ritratto del nostro compositore nazionale, senza per ciò pretendere di sostituirsi a chi ci è superiore. Anche per questo, una parte del mio lavoro è dedicata al tentativo di ricostruzione dell'estetica di Verdi: che pare solo pratica, ma scaturisce da riflessione profonda espressa in modo forse troppo sintetico. In ciò, egli è davvero l'opposto di Wagner! Eppure qualcosa, fra le tante, ma la più importante, con Wagner Verdi ha in comune. Quando incomincia a presentarsi al successo, ossia col Nabucco, del 1842, il Maestro scrive in un «genere» operistico così permeato dall'influenza del Grand-Opéra da non poter nemmeno tentare di difendersene. Onde lo stesso Nabucco, come le Opere successive, salvo alcune, a partire dall'Ernani, è un Grand-Opéra in tutto e per tutto, al quale mancano solo i Divertissements, i Balletti, per esserlo sotto ogni profilo. Ma ecco il punto: ciò che rende Verdi diverso e unico è ciò; e segue l'Autore del Guillaume Tell e quello della Favorite. Il Grand-Opéra francese è la realizzazione di una formula, conseguita la quale esso si sente perfetto. Per Verdi la formula è il punto di partenza: giacché a lui preme il raggiungimento drammatico di quel che Wagner pure sostiene di prefiggersi, e certo vi perviene, ossia il Rein-menschliches. Questo complesso neologismo, quale solo dal suo pensiero poteva scaturire, io lo traduco così: l'umano nella sua purezza, ossia l'umano, la qualità dell'esser uomo, spogliata dagli orpelli melodrammatici di ogni epoca, ma soprattutto proprî del Grand-Opéra. Mon coeur mis à nu. Volendo esprimermi in termini più moderni, in luogo di «orpelli melodrammatici» direi funzioni teatrali. Un carattere unico e inconfondibile. Ecco in che cosa, a titolo d'esempio, l'esotismo dell'Aida differisce da quello dell'Africaine di Meyerbeer. Per non terrorizzare l'eventuale lettore, preciserò che il Verdi a Parigi non è un libro di musicologia in senso stretto, pur se parti musicologiche contenga. È un libro di storia della cultura e, persino, di storia della società: Verdi ne fa parte a pari titolo che della storia della musica. Chiudo citando l'ultima frase della prefazione al I volume (1787) della Storia della decadenza e della caduta dell'Impero Romano del mio adorato Gibbon. «La favorevole opinione fin qui ricevuta potrà forse incoraggiarmi a proseguire un'opera che, per quanto possa sembrare faticosa, è la più gradevole occupazione delle mie ore d'ozio».
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 4 marzo 2020. Trovatomi davanti al libro di Paolo Isotta, dedicato a Verdi a Parigi (Marsilio, pagine 668, 28), ho subito capito che tutto avrei fatto con questo monumento alla musica, a Verdi, a Parigi, alla lingua italiana, fuorché sciuparlo girando le pagine con le mie dita indegne, e strapazzarlo con la mia ignoranza e lieve idiosincrasia nei confronti dell' opera lirica. Strimpello il pianoforte, ho anche suonato l' organo in chiesa, evitando accuratamente la musica sacra e suscitato così il dispetto finto e il divertimento vero del prete, dato che avevo accompagnato l' elevazione dell' ostia con Summer Time. Poi però prima di passare il volumone per una congrua recensione a un musicologo o a uno storico, ho piluccato qua e là, e ho scoperto tratti inediti del Cigno di Busseto, e una lettura originale del cuore e del cervello di questo genio padano (ma secondo Isotta pure "napoletano", quanto a scuola e ispirazione). Per cui mi sono immerso come un bambino che cerca di imparare a nuotare in queste acque profumate della prosa unica di Paolo Isotta, che - l' ho già scritto, ma mi piace ripetermi - è sì uno scienziato della concertazione, dell' armonia e della fuga (della figa no, proprio no), ma è per me il massimo cultore dell' arte della scrittura, che risuona come uno Stradivari di echi antichissimi, e rime nuove. Questa biografia parigina di Verdi diventa così una sorta di poema universale, dove al lettore viene offerto il «ritratto generale, estetico e anche politico» di Giuseppe Verdi, ma il tutto scavando nelle partiture ritrovate e dimenticate, nelle interpretazioni vere e fasulle del Don Carlos (capolavoro assoluto di Verdi, secondo Isotta, purché riproposto in cinque atti e non in quattro, ché sarebbe bestemmia). Salta fuori quella che a me affascina sempre di più, mano a mano che lo leggo: l' idea della vita e il giudizio sul mondo in generale, e sull' Italia in particolare, di Paolino (Isotta), mio imperdibile amico. È doverosa una sintesi delle tesi di questo lavoro, che nonostante la mole, è stato scritto di getto, in pochissimi mesi. Stessa caratteristica delle creazioni di Verdi: era come se l' animo si caricasse delle acque montane, e poi tracimasse di colpo a valle, per inesorabile destino. Così il sapere di Isotta sul grande emiliano, musicista sommo, drammaturgo geniale, industriale agricolo d' avanguardia anche sociale, filantropo (un ospedale da lui voluto, e pagato!, a Villanova d' Arda è ancora funzionante, ed è da sempre un' eccellenza, oggi dedicato alla riabilitazione) si è accumulato per decenni, fino a rovesciarsi sulle pagine. Il problema è che l' italiano di Isotta è intraducibile. Non si può sintetizzare. Ci si immerge. Ci provo, fate la tara. Scrive Isotta che, parlando di Verdi, il periodo francese è spesso dimenticato da molti. Si parla sempre della Trilogia Popolare (Rigoletto, Il trovatore e La traviata), dell' Otello e dell' Aida. Eppure, tra i capolavori massimi del Cigno di Busseto c' è il Don Carlo. Anzi, il Don Carlos: la lingua originaria di quest' opera, frequentata dai teatri meno di quanto meriti, è il francese. Don Carlos andò in scena all' Opéra di Parigi. In quell' epoca, nella seconda metà dell' Ottocento, Parigi era la capitale culturale e mondana (oltre che demi-mondana) d' Europa, un po' come New York oggi. Quello che sfondava a Parigi, dava garanzie d' aver successo anche altrove. mai da comprimario Qui, per consuetudine, all' Opéra andavano in scena i grandi drammi storici in cinque atti di compositori come Meyerbeer o Halévy. Che fece Verdi? Si adeguò alla convenzione, tuttavia non da comprimario. Secondo Isotta, proprio da Verdi, dal Verdi italiano, parmense, campagnolo, nacque il più grande tra questi "grand opéra" (così tecnicamente si chiamano). E certo non è un caso se l' altro grandissimo esempio di questo genere venne da Rossini, col suo Guglielmo Tell (anzi, Guillaume Tell). Lo stesso Meyerbeer, capofila del genere, prima di recarsi a Parigi ebbe un lungo periodo di gavetta operistica in Italia. Per cui, è sbagliato ridurre Verdi, come ha fatto troppa critica italiana, a provinciale fenomeno patriottardo italico. Così com' è un errore derubricarlo a stanco e opportunistico volpone, capace di adeguarsi alle grandi convenzioni sceniche francesi (ivi compresa la presenza del balletto, che nel Don Carlos si chiama La Peregrina), ma quasi di malavoglia e per pure esigenze alimentari, ossia di franchi sonanti. Nossignori: Isotta richiama la profonda immedesimazione anche estetica del maestro di Busseto in queste convenzioni, forse sclerotizzate ma all' epoca normative a Parigi. In parole povere: Verdi è un uomo di teatro, capace di sguazzare nell' elemento teatrale in ogni sua forma. Il teatro francese, forse ancor più di quello italiano, aveva mantenuto un particolare legame tra musica e parole, e pure in prosa era un "teatro di parola" forse più di ogni altro. Bene: sappiamo (quasi) tutti quanto Verdi tenesse alla «Parola scenica» (sono espressioni sue). Naturale che in un teatro del genere si trovasse a suo agio, altro che passivo adeguamento. il coraggio La grandezza di Verdi nell' opera francese, per Isotta, consiste nella capacità di mettere a nudo l' umanità, anche in un organismo così sovraccarico di orpelli melodrammatici (anzi «funzioni teatrali», Paulinus scripsit), danze, balletti, divagazioni. È il miracolo del raggiungimento dell' essenzialità, del cuore del problema, anche in carrozzoni esteriori come quelli che andavano per la maggiore a Parigi. E questo, dice Isotta, a ben vedere è ciò che rende il maestro italiano prossimo a Wagner: la focalizzazione sul carattere dell' uomo. Pagato il prezzo alla musicologia, balzo in considerazioni che riguardano l' autore del grandioso tomo. Pur stimandosi moltissimo, Isotta ha il coraggio di fustigarsi per gli antichi errori. Dopo aver passato a filo di penna gli ignoranti che motivano la riduzione a quattro atti del Don Carlos per ragioni estetiche, e «i cretini» che invece lo spiegano con il «cinismo» di Verdi, Isotta si include nel novero degli sciagurati: «Alla pletora debbo aggiungere anche me stesso. Per superficialità e mala disposizione non avevo per lunghi anni affrontato il caso studiando seriamente, ossia studiando, ed ero, horribile dictu, paladino della versione in quattro anni», pag.557). Eh sì, horribile dictu! Ti perdono. Quanto alla visione della vita e al sapore delle cose ci sono alcune note della Postilla finale sul "Verdi italiano" che meritano un prossimo libro. Isotta protesta contro il blaterare di chi vorrebbe il maestro di Busseto come colui che «ha contribuito a creare gli italiani, a conformarli al suo modello etico» (pag. 644). Falso. È stato sì uno dei padri della patria, protagonista del Risorgimento. Ma «non è il modello dell' italiano. Ne è l' antimodello. È l' italiano che avrebbe dovuto e potuto essere e non è stato. Gli italiani veri ed eterni sono Don Abbondio e Don Rodrigo, due risvolti della stessa persona; quello attuale lo vediamo nelle opere di Fellini e Sordi, anch' essi degni di esser collocati nel pantheon per la spietata visione della realtà» (pag. 647). Purtroppo, scrive Isotta, noi italiani fingendo di adorarlo, abbiamo rinnegato Verdi. «L' uomo per il quale il rispetto della parola data, l' adempimento dell' obbligazione, erano un valore di peso quasi religioso». Figuriamoci... «Gl' italiani hanno sviluppato l' arte per non adempire, sono diventati da fascisti antifascisti in ventiquattr' ore». Conclusione: «Una Nazione che rinnega le radici è priva di presente e di futuro». Isotta con questa sua esplosiva fatica ha fatto il suo per farcele ritrovare. Come diceva Kant: «Fa' quel che devi, accada quel che può». Ma si può poco, temo ormai.
· Goffredo Fofi.
Paola Zanuttini per Il Venerdì – la Repubblica il 25 novembre 2020. Nella sua lunga carriera di saggista e critico militante, Goffredo Fofi ha pubblicato una settantina di libri, anzi: certo di più, visto che la sua opera omnia sembra renitente alla catalogazione metodica. Oggi ne ripubblica uno che risale agli anni 80, con le dovute revisioni e aggiunte: Il secolo dei giovani e il mito di James Dean (La nave di Teseo). La revisione fondamentale è questa: se il Novecento, oltre che breve, è stato giovane, nel senso che ha consentito alle nuove generazioni, reduci da due guerre mondiali e dalla Grande Depressione, di tentare di prendere la parola e finalmente ottenerla, nel XXI secolo non è proprio aria. L'aggiunta fondamentale è l'entrata in campo, e in pagina, della giovanissima ecologista svedese Greta (Thunberg) segnalata senza cognome, come un'altra mitica Greta (Garbo), sua connazionale: "Che tante Greta nascano e lottino, cercando e trovando nuove alleanze!" auspica Fofi. Dean è morto sulla sua Porsche nel 1955, a 24 anni. Con tre film all'attivo: La valle dell'Eden di Elia Kazan, Gioventù bruciata di Nicholas Ray e Il gigante di George Stevens.
Lei racconta che per Kazan dirigerlo era come dirigere la "fedele Lassie", cioè un cane. Niente a che vedere con Brando. E allora perché è diventato un mito?
"Il giudizio di Kazan è la verifica della grande intuizione di Hitchcock: "Gli attori sono bestiame". Una crudeltà, però in quel tipo di cinema era anche vero. Ma Kazan e Ray avevano capito Dean: con Stanislavski, l'Actors Studio, la psicoanalisi, erano riusciti a trasformare un bamboccetto nevrotico in una figura di riferimento per gli adolescenti americani cresciuti nel Dopoguerra e a disagio nel primo benessere. Berkeley, il manifesto di Port Huron, il processo ai Chicago Seven sono in qualche modo collegati a James Dean. Il titolo originale del film di Ray era Rebel Without a Cause: non c'era ancora una causa per ribellarsi, ma l'idea la dava già".
In questo secolo, oltre Greta, non vede davvero altre gioventù ribelli?
"Le vedo, altrimenti meglio spararsi, ma in generale i giovani non contano un accidente, reagiscono agli stimoli di internet come i cani di Pavlov".
Invece nel Novecento...
"Per un periodo hanno avuto un'importanza enorme. È stata ricerca di autonomia esplosa per minoranze infime dopo la Prima guerra mondiale, perché in fondo le rivoluzioni le fanno i giovani - e quei giovani venivano dalla guerra - e le avanguardie. Era una rivoluzione contro la borghesia che aveva mandato al macello milioni di ragazzi. André Breton va ai funerali di Anatole France - Nobel onorato da tutto il Paese, che probabilmente nel privato legge e apprezza anche lui - e distribuisce un volantino intitolato Un cadavere. Lo fa perché France era l'emblema di quella cultura borghese che aveva consegnato allo sterminio la sua generazione. Anche la rivoluzione fascista, più borghese e piccolo borghese, e quella gramsciana nascono da rivolte giovanili. E questo va avanti in maniera evidente con la Grande Crisi in America, che ha generato Woody Guthrie e, per discendenza, Bob Dylan, che dio ce lo conservi. Grande Crisi vuol dire anche Hemingway, che ha fatto la Prima guerra mondiale e raccontato Caporetto come nessuno in Italia, ha girato il mondo, vissuto la Depressione e inventato il personaggio del loser, il perdente, che al cinema si chiama Humphrey Bogart, Robert Mitchum, John Garfield".
Come dire che tout se tient: storia, società, letteratura, cinema.
"Infatti. Poi c'è la Seconda guerra mondiale e i reduci Hemingway, Mitchum, Garfield raccontano il confronto con la società che cambia e porta il benessere. Così si arriva a Dean, un anticipo del '68. Stimo molto Edgar Morin - dio ci conservi anche lui - perché ha capito che quelle immagini erano una produzione collettiva: se un film ha successo è perché il pubblico lo decreta".
Qui però non si parla di Vietnam, che in materia di movimenti giovanili si è dato un bel da fare.
"Il movimento studentesco americano nasce dal benessere come, in seguito, il nostro '68. Certo, il Vietnam risveglia le coscienze. C'è anche il problema dei neri, ma quello è un periodo straordinario nella storia dell'umanità. E gli storici continuano a trascurarlo. Ci sono le rivoluzioni in India, Cina e America Latina, la decolonizzazione in Africa, le socialdemocrazie europee, perfino la destalinizzazione in Russia. Una stagione esplosiva e straordinaria: in Italia è durata dal 1945 al '78, alla morte di Moro, un trentennio di grandi riforme operate da una minoranza che si è trovata per strani motivi al centro della Storia. E negli Usa l'onda lunga è arrivata fino a Obama".
Un'epoca che il cinema ha raccontato straordinariamente bene.
"C'è un film del 1977 di Chris Marker, Le fond de l'air est rouge, che copre il periodo dal 1945 al 1977, diviso in due parti: Le mani fragili e Le mani tagliate. Queste rivoluzioni, incluso il '68, avevano le mani fragili, mani spietatamente tagliate dal capitale. La storia delle rivoluzioni è finita in quegli anni e ora ci troviamo in una società dove ha vinto il dominio del denaro".
Io intendevo anche un cinema più godibile.
"Quello appunto in cui non contava solo il denaro. La preoccupazione centrale di Arthur Penn non era il dollaro, come per Spielberg, che è bravo, ha talento, mi piace nonostante tutto, ma si venderebbe la madre per gli incassi".
Lei trova le ragioni del tramonto di ogni ideale collettivo, protesta o spinta propulsiva nel saggio La cultura del narcisismo di Christopher Lasch (1979). Le diffonda, prego.
"C'è stata una sconfitta generale e un ripiegamento nella cultura del narcisismo, appunto. Giovani, femministe, gay, scrittori, musicisti, tutti a dire io, io, io. Lasch ha scritto anche un altro saggio, Rifugio in un mondo senza cuore in cui li avvisa: se buttate a mare anche la famiglia non vi resta più niente. Ha ragione, non c'è altro che solitudine e macchinette, ma farsi le seghe al computer non è come una bella scopata. Con la persona amata, per di più. E il narcisismo nuoce anche alla creatività e alla cultura: rende tutti uguali e scemi. Quella era un società viva, mobile, questa è in stasi prefinale. E senza conflitti coi padri, che si son fatti furbi, castrano alla nascita i figli di cui vogliono essere coetanei".
Greta Thunberg salvaci tu?
"Anche Roma è piena di piccole e buone iniziative di quartiere, i miei amici giovani sono operatori sociali molto bravi, ma cosa gli manca? Gli intellettuali. Ne parlavo con De Rita, che viene dal Movimento di collaborazione civica, dove sono stato anch'io dieci anni dopo: ai corsi residenziali nel castello della principessa Caetani, venivano a parlarci Ernesto Rossi, Capitini, Chiaromonte, Calogero, Angela Zucconi: c'era un legame straordinario tra generazioni intellettuali. Oggi c'è solo l'università, il principale nemico di ogni progresso che, insieme a internet, produce stupidi segaioli incapaci di agire. Un paradosso: ogni anno le mafie uccidono, salvo stragi, non più di venti persone, l'università ammazza un milione di cervelli. Li decervella, come diceva l'Ubu roi di Jarry".
Rimedi?
"Quando trovo giovani bravi, il primo limite che cerco di smontare è il pensare di farcela da soli. Avrei anche quattro comandamenti: resistere, studiare, fare rete (non nel senso di internet!), rompere le scatole".
Tornando a Dean: per diventare miti aiuta essere un po' stupidi?
"Aiuta morire giovani. Poi gli artisti consapevoli del loro ruolo sono pochi. Ero amico di Fellini e Pasolini: non si amavano, ma si rispettavano e temevano, come Bernini e Borromini".
Neanche lei era tanto tenero con loro.
"Però li amavo e se ne accorgevano. Poi Fellini mi chiese perché da giovane ce l'avevo con lui. Gli risposi: perché io volevo la rivoluzione e tu no. E lui: 'La rivoluzione io? Ma sei scemo?'".
E lei quando ha smesso di volere la rivoluzione?
"Abbastanza presto, standoci dentro ho visto che finiva tutto malamente. E attecchivano i prodromi del narcisismo".
· Hans Christian Andersen.
Hans Christian Andersen, “Un’intera storia sulla punta di un ago da rammendo”. Giovanna Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 20 dicembre 2020. “Un giorno Odense si illuminerà a festa per ricevere tuo figlio”, disse la vecchia indovina alla donna che le sedeva davanti. Odense era la città danese in cui la donna era nata e nella quale aveva messo al mondo un figlio che era convinta fosse una creatura speciale, destinato a una sorte eccezionale. Lo sapeva ben prima delle parole della vecchia e lo sapeva, lei povera e analfabeta, solo osservandolo giocare con le farfalle, seguire i corsi d’acqua o incantarsi a fissare un fiore. Tutte le volte, però, le si stringeva il cuore: pensava che al loro pari fosse un essere delicato e fragile, con la propria bellezza offerta al mondo in quella maniera disarmata. C’era una volta un bambino magro, ossuto e allampanato. Aveva un naso così lungo che i compagni gli dicevano sarebbe arrivato prima lui a casa ad annunciare il ritorno del figlio. Il bambino si rifugiava solitario nel verde dei prati e nel vento dei cieli, li faceva parlare tra loro. Preferiva andare all’Ospizio e restare ad ascoltare le vecchie ospiti che si raccontavano storie e leggende. Aveva un padre che gli leggeva le storie, da Holberg a Shakespeare. Quel padre per tutti era un semplice ciabattino ma non per se stesso: era talmente importante da essere imparentato con la famiglia reale, poco importa se non fosse vero. I compagni additavano il bambino perché viveva, con la famiglia, tutta in una stanza. La stanza era minuscola e la famiglia poverissima. Quando il bambino diceva questo alla madre e alla nonna, loro lo prendevano sulle ginocchia e gli raccontavano storie, vecchie storie contadine tramandate da generazione in generazione. Questo era quello che avevano. Un giorno il padre decise di tentare la sorte per assomigliare all’immagine gloriosa di sé che aveva negli occhi, partì, lasciò la famiglia, si ammalò e morì quando il bambino aveva solo undici anni. La madre si risposò dopo poco, iniziò a lavorare duramente per mantenere la famiglia, bevve senza più smettere. Il bambino fu solo, senza più genitori e senza storie, senza alcuna istruzione regolare. A quattordici anni partì dal suo paese per tentare la fortuna nella capitale, per lunghi anni non vi fece più ritorno. È il 1867, Hans Christian Andersen ha 62 anni, è uno scrittore ormai noto in tutto il mondo, dall’Italia agli Stati Uniti d’America, viene accolto nella sua città natale Odense, per l’occasione illuminata a festa. Gli viene conferita la cittadinanza onoraria, più tardi gli sarà eretta una statua, ancora in vita, nell’atto di leggere un libro di fiabe ai bambini. Chissà se Andersen, solcando le strade umide, riflettenti le luci tremolanti, di Odense ha pensato a quella vecchia profezia dell’indovina. Chissà se ci pensava quando, appena arrivato a Copenaghen, era costretto a fare il garzone di bottega e l’operaio in una fabbrica di sigarette, mentre i compagni di lavoro irridevano la sua alta goffaggine, i suoi piedi enormi, lo sguardo trasognato. Nella maggior parte delle fiabe di Andersen i protagonisti delle storie sono angariati o emarginati perché percepiti come diversi. Sopportano molte sofferenze e molto dolore ma, alla fine di tutto, sono esseri felici. Non per un qualche scontato lieto fine, a volte non ve n’è affatto, ma perché sono gli unici che riescono a vedere e a gioire dell’irriducibile diversità di ogni essere del mondo e, spesso, per preservarla arrivano a sacrificare se stessi o la loro opportunità di felicità terrena. Molti hanno paragonato Andersen ai fratelli Grimm, altri hanno tracciato delle linee d’unione che vanno da Esopo, a Fedro a Le Fontaine fino a lui, ma forse l’essere letterario cui Andersen somiglia maggiormente è il personaggio creato da un altro grande scrittore: il Peter Pan di J.M. Barrie. Andersen come Peter Pan è uno spirito puro, pieno di meraviglia per le cose del mondo. È un osservatore malizioso e inafferrabile, ingenuo e saggio, la sua vita non ha nulla di convenzionale, non ha legami. Viaggia per il mondo come un bambino sperduto che a ogni passo si racconta storie, storie nelle quali mostra come sperduti siano invece tutti quegli uomini e donne adulti attorno a lui. Le fiabe di Andersen non attingono dalla tradizione orale, o se lo fanno è per discostarsene fortemente, prendendone il volo. Andersen ammanta di fiaba il suo mondo e dà solidità di realtà alla fiaba. Le sue non sono fiabe, ma una biografia favolistica di se stesso, dell’uomo, del mondo che sa leggere così bene, pur tenendosene sempre a parte. Le fiabe di Andersen ci rendono capaci, come scrisse Gianni Rodari, di affrontare la realtà, non di sfuggirla, di “inventare dei punti di vista per osservarla, di vedere l’invisibile come lo scienziato vede le onde elettromagnetiche dove nessuno aveva mai visto nulla; insomma, proprio come Andersen vede un’intera storia sulla punta di un ago da rammendo”. E forse questa è una di quelle doti eccezionali che la madre di Andersen aveva visto in lui bambino: la sua capacità di scoprire “nuove sorgenti del meraviglioso” in ogni angolo del mondo. Andersen in vita viaggiò moltissimo, visitò tre continenti, raccontò i suoi viaggi come fosse il primo uomo approdato sulla luna e insieme un abitante di quei luoghi eterno e atavico. Accanto alle fiabe, scrisse molti romanzi ampiamente apprezzati, testi teatrali, diari e poesie. Non fu mai ricco, visse sempre ai limiti dell’indigenza. Ebbe rapporti di amicizia e di conoscenza con Dickens, Wilde e molti altri. Ma forse uno degli incontri più importanti fu, ancora adolescente, povero e trasandato, quello con il re Federico VI, che, per qualche motivo, lo prese in gran simpatia e volle finanziargli personalmente gli studi, permettendogli di frequentare il collegio e poi l’università. Chissà che avrebbe detto il padre. Andersen morì a 70 anni, quando il mondo gli tributava molti onori. Si dice avesse chiesto che fosse scritto sulla sua lapide “Non sono morto davvero”. C’era una volta uno scrittore che per tutta la vita dissolse il suo spirito in centinaia di fiabe. Appariva in esse, qua e là, nel guizzo di una sirena o nel toc toc di legno di un soldatino, nella voce petulante di una principessa o nel richiamo eternamente solitario di un cigno che un tempo era anatroccolo. Accadde che quello scrittore ebbe una serie di sofferenze in vita ma, nonostante questo, fu una persona a volte estremamente felice, come possono esserlo solo i fiori, le nuvole o le acque zampillanti dei ruscelli. Quando morì gli fu concesso allora quello che è concesso soltanto ai fiori, alle nubi e alle acque dei fiumi: di continuare eternamente sotto altre forme. Il suo spirito da allora si tramanda all’infinito in storie, raccontate ai bambini, conosciute dagli adulti. Si dice che questo, lo scrittore, lo sapesse già quando era ancora in vita. Forse quella stessa indovina che alla madre predisse il suo successo, le disse anche che egli, come pochi altri, un giorno non sarebbe morto.
· J. K. Rowling.
Da "ilmessaggero.it" il 15 settembre 2020. JK Rowling, la “mamma” di Harry Potter, di nuovo accusata di transfobia. Nel suo ultimo libro, infatti, il cattivo è un serial killer maschio che si veste da donna per uccidere le sue vittime. “Troubled Blood”, scritto dalla Rowling sotto lo pseudonimo di Robert Galbraith, uscirà il 15 settembre nel Regno Unito e racconta le gesta del detective Cormoran Strike, impegnato a capire cosa è successo a Margot Bamborough, comparsa nel nulla. Il detective teme che la donna sia caduta vittima di Dennis Creed, che è stato soprannominato un “serial killer travestito” per aver ucciso le sue vittime indossando abiti femminili.
La recensione. Una prima recensione del libro di 900 pagine è apparsa sul Daily Telegraph. Il critico del magazine britannico afferma che «la morale del libro sembra essere: non fidatevi mai di un uomo travestito». Immediatamente, l'opinione negativa ha fatto il giro del web e la Rowling ha visto di nuovo il suo profilo Twitter sommerso di accuse di omofobia e transfobia. Follower furiosi si sono precipitati su Twitter per condividere i loro pensieri, rendendo #RIPJKRowling uno dei principali trend Twitter del Regno Unito. In minoranza i lettori che, invece, hanno detto che «Troubled blood» non è affatto transfobico e che i detrattori sono troppo ansiosi e dovrebbero leggerlo prima di saltare alle conclusioni. Il giornalista dell'«Observer» Nick Cohen ha scritto: «Ho letto l'ultimo romanzo di Strike e dire che è anti-trans è una cazzata totale. Non posso dire perché senza rivelare il finale. Quindi finché non lo leggerete voi stessi, cosa che dovreste fare, dovrete fidarvi di me». «Non è anti-trans in quanto tale - gli risponde su Twitter un follower - ma gioca con il timore che le donne trans siano maschi cis che vogliono copiare le donne». Alché Cohen ha risposto: «Leggi il dannato libro».
Polemica femministe -transgender, il tweet di J. K. Rowling che si schiera. Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ippolito. La creatrice di Harry Potter, la scrittrice J. K. Rowling, è scesa in campo nella polemica che da tempo oppone in Gran Bretagna le femministe ai sostenitori dei transessuali: e si è beccata un torrente di insulti sui social media, dove è stata accusata di essere «transfobica» e bollata con l’ormai famigerato epiteto di Terf (che sta per Femminista Radicale che Esclude i Trans). È successo che la celebre autrice si è schierata in difesa di una ricercatrice che ha perso il posto di lavoro in un think tank per aver sostenuto che il sesso biologico è un dato oggettivo e che le donne transessuali non sono vere donne. Maya Forstater, una femminista convinta, si era rivolta al tribunale contro il suo licenziamento, ma se lo è visto confermare con la motivazione che le sue vedute erano «incompatibili con la dignità umana e con i diritti fondamentali degli altri». A questo punto è intervenuta la Rowling, che ha scritto su Twitter, dove ha 14 milioni di seguaci: «Vestitevi come vi pare, fatevi chiamare come vi pare, andate a letto con qualsiasi adulto consenziente: ma cacciare le donne dal loro posto di lavoro per aver affermato che il sesso è una cosa reale?». La querelle si inserisce nella spinosa polemica attorno alla proposta del governo britannico di autorizzare le persone a identificarsi come uomini o donne in base alla loro preferenza personale e indipendentemente dal sesso biologico o da qualsiasi certificazione medica: basterà dire di sentirsi donna (o uomo) per aver diritto a essere considerati tali in qualsiasi ambito. La proposta è sostenuta dai transessuali e dai loro difensori, i quali argomentano che il genere (maschile o femminile o non-binario) non dipende da alcun dato biologico: non è questione di pene o di vagina ma di cervello. Tuttavia la cosa ha scatenato la reazione delle femministe, che temono che gli spazi delle donne vengano invasi da uomini che si proclamano femmine: in pratica, potrebbe succedere che un uomo si presenti in una piscina o una palestra dichiarando di sentirsi donna e avere così accesso a spogliatoi e docce femminili. Per non parlare delle prigioni e dei dormitori. E infatti la Forstater ha affermato che la sentenza che l’ha condannata «abolisce i diritti delle donne» oltre che la libertà di opinione e di parola. Ma sia lei che la Rowling sono state crocefisse in nome dei diritti dei transessuali: perfino Amnesty International è intervenuta per dire che «i diritti trans sono diritti umani». La polemica continua.
Alessandro Zoppo per ilgiornale.it il 20 dicembre 2019. In tempi di social network basta un tweet “politicamente scorretto” per scatenare una vera tempesta. È quello che è capitato a J.K. Rowling, scrittrice da 500 milioni di copie grazie alla celebre saga di Harry Potter. La mamma del maghetto di Hogwarts ha preso una posizione scomoda su Twitter e l’ha difesa con le unghie e con i denti. Rowling ha postato un cinguettio in favore di Maya Forstater, una ricercatrice britannica licenziata dal Centre for Global Development di Londra (una nonprofit che si occupa di sviluppo sostenibile) per aver sostenuto, sempre via social, che un uomo non può cambiare il proprio sesso biologico e diventare donna. “Ciò che mi sorprende – è il tweet incriminato della ricercatrice, considerato discriminatorio – è che persone intelligenti che ammiro, che sono assolutamente a favore della scienza in altri settori e che si battono per i diritti umani e per i diritti delle donne, si fanno in quattro per evitare di dire la verità: gli uomini non possono trasformarsi in donne (perché questo potrebbe ferire i sentimenti degli uomini)”. La scienziata, come reso noto dal Guardian, ha fatto ricorso in Tribunale ed è uscita sconfitta: il giudice James Tayle ha stabilito che il licenziamento è valido poiché le convinzioni di Forstater riguardo al sesso biologico sono “assolutistiche” e non sono “degne di rispetto in una società democratica”. La vicenda di Maya Forstater sta facendo molto discutere nel Regno Unito e nel leggere questa notizia, J.K. Rowling ha deciso di schierarsi dalla parte della ricercatrice. “Vestitevi come volete – la replica della scrittrice su Twitter –. Chiamatevi come volete. Andate a letto con ogni adulto consenziente che volete. Vivete la vostra vita al massimo, in pace e sicurezza. Ma far perdere il lavoro alle donne per aver dichiarato che il sesso è una cosa reale?”. Il tweet si conclude con gli hashtag #IStandWithMaya (“Io sto con Maya”) e #ThisIsNotADrill (“Questa non è un’esercitazione”). Il post ha scatenato inevitabili polemiche, sollevate soprattutto dalla comunità LGBTQ. Contro la scrittrice si sono schierate la Human Rights Campaign e la collega Casey McQuiston. L’autrice del romanzo queer per giovanissimi Red, White and Royal Blue, inserito nella lista dei Bestseller del New York Times, non ha citato esplicitamente Rowling ma, mandando a quel paese quello che dicono “i tuoi eroi d’infanzia”, si è riferita a chi ha un’idea di femminismo “bigotta”, ribadendo che “le persone trans esistono e meritano di essere protette, riconosciute, sostenute e amate”.hi. breaking my hiatus real quick just to say: fuck what your childhood heroes say. trans people are real. trans people deserve to be protected, recognized, supported, and loved. if that infringes on your idea of feminism, you’re not actually a feminist at all. you’re a bigot.
Simone Tagliaferri per movieplayer.it il 7 giugno 2020. J.K. Rowling, l'autrice di Harry Potter, è stata accusata di transfobia per la pubblicazione di alcuni tweet in cui ha irriso una definizione di donna forse un po' troppo politicamente corretta. Il tutto è partito dall'articolo di Marni Sommer intitolato "Opinion: Creating a more equal post-COVID-19 world for people who menstruate" (trad. Opinione: creare un mondo post-COVID-19 più equo per la persone che hanno le mestruazioni) che la Rowling ha commentato con un certo sarcasmo "Persone con le mestruazioni. Sono certa che c'era una parola per definire questa gente. Qualcuno mi aiuti. Donnole? Dandole? Dinnole?" La battuta non è piaciuta alla comunità LGBTQ+ che l'ha considerata offensiva per i trans, provando a spiegare il perché alla scrittrice. In realtà la Rowling ha da tempo sposato l'ala del femminismo che trova assurda la negazione del sesso biologico operata dalla comunità LGBTQ+. Già in passato si era schierata a favore della ricercatrice Maya Forstater, licenziata proprio per aver affermato che non è possibile cambiare il proprio sesso biologico. Comunque sia, questa volta la Rowling ha spiegato più in dettaglio la sua posizione, affermando di trovare assurdo che donne come lei, da sempre empatiche verso i trans e i loro problemi, siano considerate transfobiche perché ritengono che la sessualità sia una cosa reale. La Rowling ha quindi ribadito di rispettare i trans e di riconoscerne tutti i diritti, affermando che arriverebbe anche a marciare con loro se fossero discriminati per ciò che sono. "Allo stesso tempo la mia vita è stata determinata dal mio esser e donna. Non credo che dirlo significhi odiare."
Luigi Ippolito per "corriere.it" l'11 giugno 2020. «Sono stata vittima di un assalto sessuale e di un marito violento»: è la rivelazione choc fatta da JK Rowling, la scrittrice che ha creato Harry Potter, per difendere le sue posizioni nella polemica che l’ha vista accusata di essere transfobica». L’autrice, qualche giorno fa, aveva postato su Twitter un commento ironico all’espressione «persone che mestruano»: «Ci deve essere una parola per queste persone – aveva scritto -: dinne? dunne? danne?». Un modo per dire che il sesso biologico esiste, che le donne sono donne, contrariamente a quanti sostengono che il genere è una mera questione di auto-identificazione: in Gran Bretagna è infatti in discussione una legge per consentire alle persone di identificarsi come uomini o donne (e di godere di tutti i diritti conseguenti) indipendentemente dal dato fisiologico. Invece JK Rowling, semplicemente per aver ricordato che le donne esistono in natura, si è vista bollata con l’epiteto ormai abusato di Terf (Trans Exclusionary Radical Feminist, ossia femminista radicale che esclude i trans): infatti la polemica su sesso e genere vede su fronti opposti i sostenitori dei diritti dei transessuali e le femministe che rivendicano l’inviolabilità degli spazi femminili. E la scrittrice ha spiegato ieri in un breve saggio pubblicato sul suo sito web che sono proprio le traumatiche esperienze patite in gioventù che l’hanno convinta della necessità di mantenere spazi per sole donne: la sua opinione è che il problema maggiore con la difesa a oltranza dei diritti dei transessuali è che gli uomini potrebbero aver accesso agli spazi femminili semplicemente dichiarando di sentirsi donne.«Quando apri le porte di bagni e spogliatoi – ha scritto – a ogni uomo che si crede donna, allora apri la porta a tutti gli uomini che vogliono entrare. Questa è la semplice verità». E in Inghilterra si sono già verificati casi paradossali in nome del diritto all’auto-identificazione: come lo stupratore incallito che ha detto di sentirsi donna e ha ottenuto di andare in un carcere femminile – dove, come c’era da aspettarsi, ha stuprato le compagne di cella. JK Rowling ha scritto che le sue opinioni sulla necessità di spazi femminili sicuri sono dovute a un «grave assalto sessuale» subito da ventenne: e che le memorie di quella violenza le giravano nella testa quando ha postato il suo tweet sulle «persone che mestruano». «Non riuscivo a tenere fuori quei ricordi – ha spiegato nel saggio – e trovo difficile contenere la mia rabbia e la mia delusione per il fatto che il mio governo sta giocando con la sicurezza delle donne e delle ragazze». La scrittrice ha anche raccontato della sua difficoltà a sfuggire al suo primo, «violento» matrimonio: «Le ferite lasciate dalla violenza e dall’assalto sessuale non scompaiono, non importa quanto sei amata e quanti soldi guadagni. Il mio essere sempre all’erta è una barzelletta di famiglia, ma prego che le mie figlie non abbiano mai le mie stesse ragioni per odiare i rumori improvvisi o l’accorgermi di persone dietro di me che non ho sentito arrivare». In conclusione, ha affermato la Rowling, «io rifiuto di piegarmi a un movimento che sta facendo un danno dimostrabile cercando di erodere la donna come classe politica e biologica e che sta offrendo un paravento ai predatori».
Da fanpage.it il 13 giugno 2020. Efe Bal, la transessuale sex-worker più famosa d’Italia, a Fanpage.it commenta le parole di J.K. Rowling, la scrittrice della popolare saga di Harry Potter, che ha riaperto il dibattito sulle identità di genere. "Io sostengo perfettamente il suo punto di vista. Esiste l'uomo e la donna. Tutto il resto, viene dopo" - dichiara Efe Bal, sostenendo il punto di vista della Rowling e spiega - Io sono un uomo. Lo puoi scrivere, sono un uomo e sono fiera di essere un uomo. Lo puoi dire perché lo sostengo con fierezza. Sono fiera di quello che sono". Secondo la transessuale infatti, indipendentemente dall'aspetto fisico "Il tuo sguardo, il tuo modo di riflettere su un argomento, quando ti incazzi, quando agisci, quello che sei resta tale. Cioè: sei un uomo. Punto. Quello non lo puoi mai cambiare. Il genere binario esiste, l'uomo e la donna esistono". Efa Bal prosegue soffermandosi sul genderless: "Sono argomenti che non esistono. - spiega - Non sopporto quelli che parlano di ‘fluo'" e rivela di aver vissuto raramente episodi di omofobia "Con tutto il rispetto, io sono qui da 21 anni come transessuale, con il mio nome da uomo, Efe Bal. Vivo nello stesso stabile da 20 anni, in pieno centro di Milano e tutti quelli che abitano qui sanno che faccio la prostituta. Io quando esco mica mi cambio. E non ho mai avuto problemi di omofobia". "La scrittrice ha ragione. - conclude Efa Bal sulla Rowling - Puoi fare quello che vuoi, cambiare da uomo a donna e viceversa, ma il tuo pensiero resterà quello del tuo genere di appartenenza. Rifletterai e penserai come un uomo, se sei uomo. Come una donna, se sei donna. Finché avrai un cervello da uomo, o da donna, non cambierai".
Da "huffingtonpost.it" il 13 giugno 2020. “L’ho presa a schiaffi, ma non l’ho maltrattata. Non sono dispiaciuto”. Così parla il primo marito di JK Rowling, Jorge Arantes, dopo le dichiarazioni dell’autrice di “Harry Potter” che, all’indomani le polemiche per alcuni suoi controversi tweet sulle persone transgender, era ritornata sulle sue posizioni in un blog, facendo anche riferimento alle violenze subite in gioventù. Il 52enne ex giornalista televisivo portoghese, come riporta il britannico Sun, avrebbe detto di non aver letto nel dettaglio l’articolo della Rowling tenendo però a specificare: “Ho schiaffeggiato Joanne, ma non si è trattato di abusi sistematici. Non mi sento dispiaciuto”. “Non c’è stata violenza domestica e neanche violenza sessuale”, ha aggiunto. E ancora: “Ciò che dice dipende da lei. È sua responsabilità, non mia. Non ci sono stati abusi prolungati”. Nel suo blog JK Rowling, oltre ad aver rivelato un’aggressione sessuale subita a vent’anni, aveva aggiunto di portare ancora i segni psicologici degli abusi domestici sofferti durante il primo matrimonio. “Le ferite lasciate dalla violenza e dall’aggressione sessuale non scompaiono, non importa quanto sei amata e quanti soldi guadagni. Prego che le mie figlie non debbano provare mai le mie stesse paure”, erano state le parole della creatrice di Harry Potter. Jorge Arantes è stato il primo marito di JK Rowling e dalla loro relazione è nata una figlia che oggi ha 27 anni. La coppia si è sposata nel 1992 e separata nel 1995. L’autrice è attualmente sposata con Neil Murray, con cui è convolata a nozze nel 2001.
Caterina Soffici per “la Stampa” il 13 giugno 2020. Avrete anche voi pensato: ma chi glielo fa fare? Cosa ha spinto J.K. Rowling, l'autrice di Harry Potter, la scrittrice più ricca e famosa del mondo, a ingaggiare un corpo a corpo (si fa per dire, perché è piuttosto uno scontro virtuale a colpi di cinguettii su Twitter), con il mondo degli attivisti Lgbtq+, che l'hanno insultata a morte accusandola di essere transfobica e Terf. Transfobica è chiaro: persona che odia i trans. Terf è un acronimo sconosciuto ai più, ma chi ha seguito la polemica nell'ultima settimana ne ha imparato il significato: sta per Trans Exclusionary Radical Feminist, ossia una femminista radicale che esclude i trans. Che la Rowling sia una femminista è cosa arcinota. Da una madre single scozzese, così povera da dover andare a scrivere in un bar per stare al caldo, portando con sé la figlia nel passeggino, è facile aspettarsi che diventi una paladina dei diritti delle donne. Ma anche per capire la polemica con i trans bisogna fare un salto indietro, a quei tempi bui di ragazza povera. Perché anche per una donna come la Rowling, che oggi ha tutto e non potrebbe desiderare altro, il passato può nascondere incubi e mostri. Ieri in un lunghissimo post sul suo blog - quasi un piccolo saggio - ha ripercorso tutta la vicenda, spiegando in cinque punti la sua posizione e rivelando che da giovane è stata vittima di abusi sessuali e di un primo marito violento. «Non lo dico per attirare le vostre simpatie - ha scritto - ma per solidarietà con l'enorme numero di donne che hanno storie come la mia, e sono state accusate di essere delle bigotte perché difendono il diritto delle donne di avere spazi per sole donne». La cosa sembrerebbe entrarci poco con i trans. In realtà il discorso va inserito nel contesto del mondo anglosassone, e in particolare della nuova legge in discussione in Gran Bretagna che dà la possibilità a una persona di scegliere il genere a cui appartenere semplicemente dichiarandolo. Se un uomo dichiara di essere donna, automaticamente può comportarsi da donna. Ha scritto: «Quando apri le porte di bagni e spogliatoi a ogni uomo che si crede donna - senza intervento chirurgico o ormoni - allora apri la porta a tutti gli uomini che vogliono entrare. Questa è la semplice verità». Con conseguenze gravi. Per esempio, è già successo che un uomo condannato per abusi sessuali abbia dichiarato di sentirsi donna e ottenuto di andare a scontare la pena in un carcere femminile, dove ha puntualmente stuprato le compagne di cella. I diritti dei trans ledono i diritti delle donne? Per la Rowling - e a una parte della galassia femminista - la risposta è sì. Essere donne non è questione di genere, ma si sesso biologico, dicono. La vicenda è iniziata a dicembre, quando la Rowling ha difeso una ricercatrice licenziata per aver sostenuto su Twitter che il sesso biologico non si può cambiare. Si è scatenato l'inferno. Una tempesta socialmediatica da migliaia di tweet, lettere, minacce e altro che hanno indotto la scrittrice a sospendere il suo account. Fino a un mesetto fa, quando ha messo online gratuitamente la favola per bambini in lockdown The Ickabog, chiedendo di postare disegni e commenti. Con Twitter attivo, la settimana scorsa non ha potuto resistere e ha commentato con un cinguettio sarcastico il titolo di una ricerca che definiva le donna «persone con mestruazioni». Ha ironizzato: «Sono sicura che ci fosse un tempo una parola per quelle persone. Qualcuno mi aiuti: Wumben? Wimpund? Woomud?», con un gioco di parole dove il suono ricorda Women, donne. Altra tempesta, ancora più violenta, che dura da giorni. Con minacce di morte. Sei come Voldemort (il mago cattivo). Feminazi. Cagna. Strega. E di peggio. Preoccupati da ripercussioni sulla propria immagine, l'attore Daniel Radcliffe, l'Harry Potter della saga ed Eddie Redmayne (volto di Animali Fantastici) hanno preso le distanze dalla loro «creatrice», criticando le posizioni sui trans. Lo stesso ha fatto Emma Watson (volto della rossa Hermione Granger), anche lei super attiva sul versante femminista, ma che non vede minacce da parte dei trans: «Le persone trans sono chi dicono di essere e meritano di vivere la propria vita senza essere costantemente interrogate o informate di non essere chi dicono di essere». Così si arriva al lungo sfogo di ieri. Scrive la Rowling: «Non ho mai parlato prima non perché mi vergogno delle cose che mi sono successe, ma perché sono traumatiche da ricordare... Le cicatrici lasciate dalla violenza e dalle aggressioni sessuali non scompaiono, non importa quanto tu sia amato, e non importa quanti soldi hai fatto. Il mio stare all'erta perenne è diventato una barzelletta in famiglia, ma prego che le mie figlie non abbiano mai le stesse ragioni per odiare i rumori forti e improvvisi o il trovarmi persone dietro di me che non ho sentito arrivare». Affermando di credere nell'importanza del sesso biologico, dice che questo non deve ledere i diritti dei trans. Anche loro persone deboli e spesso oggetto di violenza. «Voglio che le donne trans siano al sicuro. Ma al tempo stesso voglio che lo siano anche le donne nate donne». In sostanza, dice «rifiuto di piegarmi a un movimento che sta facendo un danno dimostrabile cercando di erodere la donna come classe politica e biologica e che sta offrendo un paravento ai predatori. Stiamo vivendo il periodo più misogino che abbia mai vissuto. Non ho mai visto donne denigrate e disumanizzate nella misura in cui sono ora».
· Johann Wolfgang von Goethe.
Goethe, viaggio in Italia alla ricerca del Bello (senza saperlo sempre cogliere, però). Una mostra dedicata al celebre tour dello scrittore tedesco nel nostro Paese. Vito Punzi, Mercoledì 26/08/2020 su Il Giornale. Lo ricorda bene Peter Assman nel breve scritto presente nel catalogo della mostra Il viaggio in Italia di Goethe. Un omaggio a un Paese mai esistito al Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruckm (fino al 26 ottobre): lo scrittore-scienziato tedesco visitò l'Italia «con gli occhi dell'arte». Un «magnifico viaggio», come scrisse lo stesso Goethe, il cui scopo era conoscere «se stesso nel rapporto con gli oggetti». Ecco il motivo per cui va elogiata la mostra austriaca che raccoglie oltre cento pezzi, tra statue, dipinti, disegni, stampe, bozzetti, acquerelli (alcuni dei quali dello stesso Goethe, provenienti dalla Klassik Stiftung di Weimar, dall'Albertina e da altri musei austriaci e tedeschi, ma anche la serigrafia su cartone di Andy Warhol del 1982 (da Chemnitz). Divisa per sezioni, l'esposizione ricorda anzitutto che la Weimar di allora, dove Goethe arrivò nel 1775 come precettore del duca Carlo Augusto, era il centro tedesco dell'italianità, introducendoci poi all'estetica del classicismo, ai temi del Laocoonte (molto belle alcune sanguigne di Johann Georg Dominikus Grasmair), all'Arcadia e ad alcune tappe del viaggio, scelte tra nord, centro e sud Italia. Il catalogo è bilingue (tedesco-italiano) e certamente ben fatto, ma fin troppo ricco di contributi (ben 15) e pretenzioso nella volontà di affrontare temi non propriamente necessari per apprezzare il viaggio goethiano. Svoltosi tra il 1786 e il 1788 e narrato nell'Italienische Reise (pubblicato in Germania in tre parti tra il 1816 e il 1829), del viaggio in Italia goethiano vale la pena ricordare, al di là di idealizzazioni e mitizzazioni, anche errori e distrazioni. «Gaffes critiche ed estetiche», come le ha chiamate Italo Alighiero Chiusano, convivono infatti con osservazioni che sono vere opere d'arte, perché formulate secondo i criteri dettati dal suo genio, senza tenere conto dei gusti correnti. Già a Verona iniziano le considerazioni critiche di Goethe sull'arte gotica e sull'arte cristiana in generale, laddove dice di preferire i defunti così come vennero immortalati dai pagani, perché, a differenza di quelli cristiani, «non giungono le mani, non guardano in cielo, ma sono, quaggiù, quello che erano e quello che sono». Arrivato a Padova con gli occhi ripieni delle architetture di Andrea Palladio, che definisce «un grande poeta», Goethe giudica la basilica del Santo un «edificio barbarico» e non fa alcune menzione né di Donatello, né del Giotto degli Scrovegni. È piuttosto l'Orto Botanico a ispirarlo, richiamandogli alla mente la sua vecchia idea, tra lo scientifico e il mistico, secondo la quale esisterebbe una Urpflanze, una pianta archetipa dalla quale deriverebbero tutte le metamorfosi vegetali. Dopo aver trascorso due settimane a Venezia, senza aver provato alcuna emozione particolare rispetto all'arte di Tiziano, Carpaccio, Bellini, Lotto (qualche apprezzamento la riserva solo per Tintoretto), si reca appositamente a Cento, perché patria di Guercino, uno dei pittori cari al neoclassicisti, dunque anche a lui. Apprezzamento quindi, ma anche critica all'arte sacra cattolica (non dimentichiamo la sua formazione protestante), perché tutto in essa è «sempre anatomia, patibolo, scorticatoio, sempre sofferenze dell'eroe, mai azione, mai interesse attuale, sempre l'attesa di qualcosa di fantastico proveniente dall'esterno». Goethe non sopportava di trovarsi fronte «o malfattori o santi in estasi, o delinquenti o pazzi». Considerazioni esclusivamente contenutistiche, quelle del tedesco, senza alcuna valutazione in merito ai valori espressivi, alla resa in bellezza. Salvo poi andare letteralmente in estasi a Bologna, di fronte alla Santa Cecilia di Raffaello.
· Leonardo Da Vinci.
Emanuela Minucci per “la Stampa” il 7 ottobre 2020. Spiace per Dan Brown che si appassionò non poco al giallo. E per l'Università di San Diego in California che come prova regina portò le tracce di «un inequivocabile nero fiorentino» nascosto dietro il muro affrescato dal Vasari. E anche un po' per Wikipedia che ancora parla di mistero irrisolto «in grado di scatenare le fantasie di molte persone». Perché oggi agli Uffizi, proprio sul luogo del delitto, all'Auditorium Vasari, i più autorevoli esponenti della storia dell'arte e del restauro, (insieme con restauratori, esperti di chimica e fisica applicata ai Beni Culturali) spiegheranno - documenti alla mano - che non c'è più materia d'indagine: perché Leonardo da Vinci non arrivò mai a dipingere sulle mura del Salone dei Cinquecento, a Palazzo Vecchio, la celeberrima Battaglia di Anghiari (databile all'inizio del Cinquecento) che in teoria, in un secondo tempo, venne occultata dall'affresco di Vasari con una seconda battaglia, quella di Scannagallo. Gli attesi documenti che dimostreranno quanto sia stata vana una ricerca durata decenni verranno presentati oggi in diretta Facebook sul sito delle Gallerie degli Uffizi alle 11. Titolo della conferenza-rivelazione: «La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Dalla configurazione architettonica all'apparato decorativo». Nell'annuncio nulla di clamoroso, ma si sa come sono i professori: preferiscono i contenuti. Eppure Roberta Barsanti, Gianluca Belli, Emanuela Ferretti, Cecilia Frosinini hanno messo nero su bianco su un librone-verità (edito da Olschki) teorie in grado di cancellare la presenza del fantasma di Leonardo da quel principesco salone. Scorrendolo, già nella prefazione, si legge di «una lettura parziale e affrettata delle fonti» che nel 2012 indussero l'amministrazione comunale, allora guidata da Matteo Renzi, a realizzare con l'aiuto di microsonde una serie di piccoli prelievi murari dietro l'affresco di Vasari che di fatto, secondo alcuni, ne misero a repentaglio l'integrità. Fu così che l'intervento scatenò le ire di 300 intellettuali che spedirono una petizione all'allora sovrintendente Cristina Acidini e al ministro dei Beni Culturali Lorenzo Ornaghi. E il governo bloccò i prelievi. Fu uno dei più importanti firmatari, Francesco Caglioti della Normale di Pisa, autorità degli studi sul Rinascimento, a convincere il ministero a «sospendere lo scempio». E come anticipa a La Stampa Cecilia Frosinini, storica dell'arte e ricercatrice all'Opificio delle Pietre Dure, nonchè autrice del libro, questo volume giunge a quattro, rivoluzionari, punti fermi: «Il primo è che nessuna analisi seria e filologica delle fonti attesta che Leonardo sia mai arrivato a dipingere la Battaglia di Anghiari nel Salone. Il secondo è che i documenti arrivano solo a testimoniare che all'artista vennero fatte forniture di materiali non pittorici, ma destinati a un cartone preparatorio e intonaci murari». Secondo il pool di esperti autori del libro, poi, le vicende storiche e costruttive della Sala e del Palazzo Vecchio attestano trasformazioni di uso, demolizioni, ricostruzioni tali che nessuna traccia del capolavoro - se mai ci fosse stata - avrebbe potuto sopravvivere. I tre campioni che Maurizio Seracini nel 2012 estrasse dai buchi negli affreschi di Vasari sono stati analizzati dal maggior esperto chimico dei Beni Culturali, Mauro Matteini, che condusse le analisi sull'Ultima Cena di Leonardo. Qui, l'ultimo colpo di scena: «Si deduce - conclude Frosinini - che non si tratta di materiali pittorici, ma di elementi costitutivi dei mattoni e della muratura». Ed è così che dal punto di vista storico e scientifico si può affermare che la Battaglia di Anghiari va considerata una «leggenda metropolitana», buona per il Codice da Vinci, ma non degna di uno studio serio.
Chi ha perduto davvero la “Battaglia di Anghiari”. A ben leggere il racconto vasariano, sulla impresa di Leonardo a Palazzo Vecchio non c’è riferimento agli affreschi. Vittorio Sgarbi su Il Quotidiano del Sud l'11 ottobre 2020. Mischia tra cavalieri, un ponte e figure isolate, Leonardo: dettaglio di uno studio per la Battaglia di Anghiari (dal sito delle Gallerie dell’Accademia, Venezia). Fu un generoso entusiasmo a spingere Matteo Renzi, allora amatissimo sindaco di Firenze, a sostenere, con determinazione, l’impresa impossibile di ritrovare la “Battaglia di Anghiari” di Leonardo, sulle pareti del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze, un’opera leggendaria ritenuta per lungo tempo distrutta, e poi coperta dai grandi affreschi del Vasari. Sembrava una follia, ma era credibile. E Renzi si affidò a un twitter: “dimostrato che La Battaglia di Anghiari c’è, chiedo al Governo di autorizzarci a modificare le condizioni in cui è. Di tirarla fuori”. Era il marzo del 2012, e raccolse subito le entusiastiche adesioni di quanti ritengono che Dio è ovunque lo vedono, in una dimensione immanente. E sa chi accogliere e chi respingere. All’epoca si stabilirono opposte tifoserie, e Renzi fu molto ostacolato; dalla sua parte si schierò il formidabile e serissimo diagnostico, Maurizio Seracini, e insieme sondarono e cercarono finché non furono bloccati dalla Sovraintendenza, che era stata sempre ambigua in questo caso, e senza precise convinzioni. La prima idea di Renzi sembrò confortata dal ritrovamento di alcune misteriose tracce, ma non bastarono; e il sogno di Renzi fu infranto. Eppure non mancavano illustri precedenti, come il ritrovamento degli affreschi di Pisanello in Palazzo Ducale a Mantova, per la tenacia di Giovanni Paccagnini: un miraggio per molti. A distanza di qualche anno, le conclusioni di alcuni studiosi contraddicono l’entusiasmo di Renzi, non per ritenere invasiva la tecnica di ricerca. Bensì inutile. “Una rigorosa rilettura dei dati e dei documenti noti da tempo e di altri nuovi e più recenti” testimoniano che Leonardo da Vinci “non dipinse mai la “Battaglia di Anghiari”, afferma Francesca Fiorani, docente di storia dell’arte moderna alla University of Virginia, durante un convegno agli Uffizi. Con queste nuove ricerche, la domanda è stata spostata da dove fu realizzata a se fu eseguita la Battaglia di Anghiari. Sia in base alle ricerche sulle trasformazioni architettoniche del Salone dei Cinquecento sia in base ai documenti” la “Battaglia di Anghiari” non solo non esiste più, ma nemmeno fu mai realizzata. All’epoca delle ricerche intensive l’Opificio delle Pietre Dure chiese di poter rifare le analisi sui materiali prelevati (che erano stati analizzati da un laboratorio privato) ma questi non vennero forniti perché risultarono scomparsi. Quei materiali repertati vennero allora magnificati e addirittura si disse che quel pigmento nero sarebbe stato il “nero della Gioconda”. Cecilia Frosinini chiarisce: “si tratta di un’affermazione senza senso, perché per secoli è sempre stato usato lo stesso pigmento nero, da Giotto a Leonardo, a Caravaggio. In realtà non si tratta di materiali pittorici ma materiali murali, di frammenti di muro”. In risposta, Maurizio Seracini, responsabile della ricerca del 2012 sugli affreschi del Vasari, afferma: “Preferisco non replicare a certe argomentazioni, anzi a certe polemiche, perché io mi considero un uomo di scienza e la scienza predilige il confronto allo scontro. Sono sereno, verrà anche il mio tempo, quello in cui pubblicherò i risultati delle mie ricerche, dal 1975 al 2012, con cui, nei tempi e nei modi opportuno, illustrerò i dati oggettivi emersi e che quindi si potranno discutere in sede scientifica”. Tutto è possibile, ma è rassicurante che su quei muri non ci sia traccia certa della mano di Leonardo. D’altra parte, rispetto alle comprensibili illusioni, e al di là delle conclusioni degli studiosi citati, per l’altissima considerazione che ho sempre avuto dell’intelligenza e della responsabilità storica di Giorgio Vasari, non troviamo nella sua vita di Leonardo nessun riferimento probatorio. Infatti, l’artista e grande scrittore manifesta una straordinaria considerazione per Leonardo, delle sue capacità e del suo merito, sia tecnico sia estetico. C’è in lui affetto e riconoscenza quando scrive “Trovasi che Leonardo, per l’intelligenza dell’arte, cominciò molte cose e nessuna mai ne finí, parendogli che la mano, aggiugnere non potesse alla perfezione dell’arte ne le cose, che egli si immaginava, con ciò sia che si formava nella idea alcune difficultà tanta meravigliose, che con le mani, ancora che elle fussero eccellentissime, non si sarebbono espresse mai”. E ancora: “E veramente il cielo ci manda talora alcuni che non rappresentano la umanità sola, ma la divinità istessa”. Un vero e proprio culto, che mi ha sempre fatto pensare impossibile che, di fronte a una pur esigua reliquia della pittura di Leonardo, invece che consacrarla potesse cancellarla e dipingervi sopra le sue storie: una scelta contronatura. E infatti, a ben leggere il racconto vasariano, sulla impresa di Leonardo a Palazzo Vecchio nella precisione dei dati, non c’è alcun riferimento agli affreschi, o a pitture su muro, ma a un “cartone” …. “nel quale disegnò un groppo di cavalli che combattevano una bandiera, cosa che eccellentissima e di gran magistero fu tenuto per le mirabilissime considerazioni che egli ebbe a fare in quella fuga. Perciocché in essa non si conosce meno la rabbia, e lo sdegno e vendetta negli uomini che nei cavalli”. La descrizione, come di chi quel cartone ha visto, è minuziosa. Ogni riferimento è al disegno: “né si può esprimere il disegno che Leonardo fece negli abiti dei soldati variatamente variati da lui; simile ai cimeli e agli altri ornamenti senza la maestria incredibile che egli mostro nelle forme e nei lineamenti dei cavagli: i quali Leonardo meglio di ogni altro maestro fece di bravura, di muscoli e di garbata bellezza. L’anatomia di essi scorticandoli lì disegnò, insieme con quella degli uomini, e l’una e l’altra ridusse alla vera luce moderna. Dicesi che per disegnare di getto il cartone, fece un edifizio artificiosissimo, che stringendo s’alzava .et allargandolo, s’abbassava”. Il solo riferimento alla pittura su muro è evasivo: più un progetto che una realtà compiuta: “et immaginandosi voler a olio colorire il muro, fece una composizione di una mistura sì grossa, per lo incollato del muro, che continuando a dipingere in detta sala, cominciò a colare, di maniera che in breve tempo abbandonò quella”. Le stesse parole: “mistura” e “abbandono” rimandano a un tentativo tecnico sperimentale e alla rinuncia, lasciando intendere che su quei muri non dovette rimanere traccia del grande impegno nell’invenzione nel disegno di Leonardo. Una avventura conclusa per lui e per noi, non dovendo continuare a cercare ciò che non c’è.
I SEGRETI DELLA MONNA LISA. DAGONEWS il 27 settembre 2020. È una delle opere più famose di Leonardo da Vinci, ma ancora oggi dopo secoli la Gioconda è in grado di riservare sorprese. Come quelle scoperte dall’analisi multispettrale effettuata dallo scienziato Pascal Cotte che ha scoperto una serie di dettagli sorprendenti che potrebbero mandare in frantumi una serie di convinzioni sul dipinto. Usando il Layer Amplification Method (LAM) su immagini scattate da una fotocamera multispettrale in grado di rilevare la luce riflessa su 13 lunghezze d'onda, si è scoperto che Leonardo ha usato una tecnica chiamata spolvero che avrebbe permesso al pittore rinascimentale di trasferire uno schizzo sulla sua tela di legno usando polvere di carbone. I segni, che suggeriscono che l’opera non fosse interamente realizzata a mano libera, sono già stati scoperti anche in altre opere di Leonardo da Vinci. Sotto la Gioconda, sono stati trovati segni di spolvero lungo l'attaccatura dei capelli e la mano. Appena a destra della testa si nota quella che sembrava essere la parte superiore di una forcina. Il signor Cotte ha detto: «Questa forcina sospesa in cielo appena a destra della testa della Monna Lisa non può appartenere al ritratto perché nella città di Firenze non era di moda all'epoca». Il signor Cotte afferma che questo tipo di forcina era più tipicamente utilizzato per una "donna irreale come una dea", come allegoria della giustizia o della bontà, o in un dipinto della Vergine Maria.
Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 6 luglio 2020. La postura di Monna Lisa. La medesima posa delle mani. L'acconciatura sofisticata. Il corpo offerto agli sguardi, coperto solo da un drappo. La Gioconda nuda, dipinto a olio su tela derivato dal cartone Femme nue dite La Joconde nue del Musée Condé a Chantilly, attribuito a Leonardo da Vinci o alla sua bottega, da oggi sarà esposta a Villa Farnesina. Il biglietto di ingresso si potrà acquistare solo on line. L'opera è stata data dalla Fondazione Primoli in comodato all'Accademia Nazionale dei Lincei per essere esposta in modo permanente a Villa Farnesina e, in attesa di stabilire la collocazione definitiva nel percorso, fino al 3 ottobre sarà nella sala che ospitava lo studio di Agostino Chigi. L'evento A Villa Farnesina una Gioconda per il banchiere segna un ritorno a casa o quasi: la Gioconda nuda, infatti, dopo il restauro, è stata alla Farnesina da ottobre 2019 a gennaio 2020, nella mostra Leonardo a Roma. L'esposizione ora è anche un'interessante opportunità di studio. Documentata nella galleria del Fesch, cardinale e zio di Napoleone, vissuto a Roma dal 1814 alla morte nel '39 - nulla di certo si sa delle precedenti provenienze - l'opera è poi entrata nella collezione del conte Giuseppe Primoli. Nel catalogo della vendita Fesch, che animò le cronache del tempo, il dipinto anticipava un lotto di Bernardino Luini, leonardesco, che, nel primo inventario della Fondazione Primoli è indicato come autore del lavoro, registrato proprio come Gioconda Luini. Stando alle indagini più recenti, il cardinale sarebbe stato proprietario pure del disegno-modello conservato a Chantilly, con cui il dipinto mostra un chiaro legame. Diversamente dal cartone, nella tela figurano la gamba della donna e la veduta di fondo. Secondo alcuni critici, la Gioconda nuda era tra le opere nello studio francese di Leonardo documentate a ottobre 1517 dal cardinale d'Aragona.
Il tempo di Leonardo 1452-1519. Le celebrazioni del cinquecentesimo anniversario dalla morte di Leonardo da Vinci ai Musei Reali di Torino. Carlo Franza il 17 gennaio 2020 su Il Giornale. Le celebrazioni del cinquecentesimo anniversario dalla morte di Leonardo da Vinci proseguono ai Musei Reali di Torino con un nuovo percorso tematico di approfondimento. Ho appena terminato di vedere la mostra che raccomando ai cultori di Leonardo e della sua epoca. Fino a domenica 8 marzo 2020, la Biblioteca Reale del Museo Musei Reali di Torino propone la mostra Il tempo di Leonardo 1452-1519. Attraverso i preziosi materiali custoditi in Biblioteca, l’esposizione ripercorre oltre sessant’anni di storia italiana ed europea, un periodo di grande fermento culturale in cui si incrociarono accadimenti, destini e storie di grandi protagonisti del Rinascimento, da Michelangelo a Cristoforo Colombo, dal Savonarola a Cesare Borgia, dalla caduta dell’Impero Romano d’Oriente all’avvento del Protestantesimo e all’invenzione della stampa, eventi che mutarono per sempre il corso della storia. Il percorso si snoda nelle due sale al piano interrato della Biblioteca Reale: il primo caveau, la Sala Leonardo, accoglie una selezione di opere di artisti italiani contemporanei a Leonardo da Vinci, accanto al Codice sul volo degli uccelli. Nove disegni autografi del maestro vinciano accompagnano il celebre Autoritratto: è l’occasione per ammirare uno dei più noti capolavori della storia dell’arte dopo la recente esposizione Leonardo da Vinci. Disegnare il futuro, progettata dai Musei Reali dal 15 aprile al 21 luglio scorso. La seconda sala presenta manoscritti miniati, incunaboli, cinquecentine, preziose carte geografiche antiche, disegni e incisioni, affiancati da un ricco corredo didascalico, per illustrare i personaggi e i principali eventi storici occorsi durante la vita di Leonardo. Leonardo nasce a Vinci, piccolo borgo alle porte di Firenze, il 15 aprile 1452. L’anno successivo Costantinopoli è conquistata dai turchi ottomani guidati da Maometto II e l’Impero Romano d’Oriente cessa di esistere. La sua caduta segna non solo la fine dell’Impero Romano, ma soprattutto la fine di un’epoca: molti storici datano al 1453 l’avvento dell’era moderna. Di questo evento straordinario, la Biblioteca Reale conserva preziose testimonianze quali manoscritti, alcuni di provenienza orientale, ed edizioni a stampa antiche. Negli stessi anni, tra il 1453 e il 1455, il tipografo e orafo tedesco Johannes Gutenberg, nella sua officina di Magonza, lavora con l’incisore Peter Schöffer alla produzione del primo libro stampato a caratteri mobili: La Bibbia delle 42 linee. L’intuizione del tipografo tedesco genera una vera e propria rivoluzione culturale: la produzione dei libri diventa una attività̀ seriale, riducendo tempi e costi rispetto alla realizzazione della copia manoscritta. La Bibbia delle 42 linee è uno dei libri più preziosi al mondo e gli esemplari completi di cui si abbia notizia sono quarantanove, nessuno dei quali conservato in Italia. La Biblioteca Reale possiede una carta del prezioso incunabolo che, in quest’occasione, viene esposta con altri esemplari di volumi per illustrare le principali tappe della diffusione del libro a stampa e le trasformazioni culturali e sociali generate. Tre anni dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1456, il passaggio della cometa che prenderà il nome dall’astronomo Edmund Halley fa nascere nuove paure in Europa: la sua coda a forma di sciabola, infatti, sembra annunciare altri trionfi islamici. Papa Callisto III ordina ai cristiani preghiere, digiuni e penitenze. Il forte impatto dell’evento nella coscienza collettiva è testimoniato in numerose pubblicazioni e nell’iconografia di libri a stampa e manoscritti. La Firenze medicea nella quale Leonardo si è formato, esaminata dall’anno della congiura dei Pazzi, il 1478, è una magnifica fucina culturale dove si intrecciano le vite dei più grandi protagonisti del Rinascimento italiano quali Lorenzo de’ Medici, Agnolo Poliziano, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Sandro Botticelli. Nell’ottobre del 1480, Botticelli, Cosimo Rosselli, Domenico Ghirlandaio e Pietro Perugino lasciano Firenze per dirigersi a Roma, chiamati ad affrescare le pareti della Cappella Sistina: in mostra è esposto un disegno preparatorio del Perugino per la scena del Battesimo di Cristo. Deluso per non esser stato scelto tra i frescanti della Cappella di Sisto IV, per cercare affermazione lontano da Firenze, nella primavera del 1482 il giovane Leonardo si reca nella Milano di Ludovico il Moro, narrata nelle splendide miniature del manoscritto Leggendario Sforza–Savoia. In mostra sono presenti diverse testimonianze della vita di corte nella seconda metà del Quattrocento e, tra queste, un affascinante trattato manoscritto sul gioco degli scacchi e il Codice Sforza del giovane Ludovico il Moro. Nel 1487 il navigatore portoghese Bartolomeo Diaz, proseguendo le esplorazioni lusitane lungo le coste occidentali dell’Africa, raggiuge e doppia per la prima volta il promontorio all’estremità meridionale dell’Africa, detto Capo Tormentoso, rinominato Capo di Buona Speranza dal re Giovanni II di Portogallo, in riferimento alle interessanti prospettive commerciali ravvisabili dopo la sua scoperta. Vasco da Gama, inviato da Giovanni II nel 1497, porta a termine il tragitto verso le Indie affrontando un viaggio che ridisegna le mappe del mondo medievale, con conseguenze paragonabili all’impresa di Cristoforo Colombo, che raggiunse invece le coste americane nel 1492. L’esperienza di ingegnere civile e militare, acquisita da Leonardo alla corte milanese, torna utile nel 1502 quando Cesare Borgia lo convoca per sostenerlo nelle sue lunghe e sanguinose campagne militari. In quest’occasione, Leonardo consolida l’amicizia con Nicolò Machiavelli, che probabilmente aveva già avuto modo di conoscere nei suoi trascorsi fiorentini. Nel 1503, con l’elezione al soglio pontificio di Giulio II, mecenate di progetti dallo straordinario impatto culturale, riprende la Renovatio Urbis politica e culturale di Roma. Al papa della Rovere si deve anche l’incarico a Michelangelo Buonarroti di ridipingere la volta della Cappella Sistina. In mostra è esposto uno splendido studio di Sibilla, opera di Michelangelo, e alcuni fogli coevi raffiguranti dei particolari della volta affrescata. Il successore di Giulio II, Leone X de’ Medici, chiama Leonardo a Roma; qui l’artista continua i suoi studi senza tuttavia ricevere commissioni ufficiali. Grazie al papa, Leonardo incontra a Bologna Francesco I, re di Francia e mecenate delle arti, che seguirà nel 1517 trasferendosi ad Amboise. La mostra analizza anche le figure di Cosimo I de’ Medici, nato nel 1519, e di Carlo V, incoronato imperatore del Sacro Romano Impero nell’anno di morte di Leonardo. Immancabili i riferimenti anche ad altri grandi personaggi dell’epoca, quali Albrecht Dürer ed Erasmo da Rotterdam. Carlo Franza
· Leonardo Pisano Bogollo, noto a tutti come Fibonacci.
Pisa celebra gli 850 anni dalla nascita di Fibonacci. Orlando Sacchelli il 2 ottobre 2020 su L’Arno e Il Giornale. Ottocentocinquanta anni fa a Pisa nasceva uno dei più grandi matematici di tutti i tempi, Leonardo Pisano Bogollo, noto a tutti come Fibonacci. Autore della sequenza numerica che porta il suo nome (in cui ogni termine, a parte i primi due, è la somma dei due che lo precedono), era figlio di un facoltoso mercante, Guglielmo dei Bonacci: seguendo il padre ebbe modo di trascorrere alcuni anni in Algeria, nella città di Bugia (attuale Bejaïa), dove apprese alcune nozioni di aritmetica provenienti dal mondo arabo. Rimase folgorato da un sistema di calcolo chiamato “indiano” che, con sole 9 cifre più lo zero, riusciva a indicare qualunque numero, facilitando moltissimo i calcoli (e non solo). Viaggiò molto Fibonacci. Tornato in Italia l’imperatore Federico II lo volle incontrare e la Repubblica Marinara di Pisa gli concesse un vitalizio che gli permise di vivere continuando a studiare e a perfezionarsi. La conoscenza di quell’arte mi piacque così tanto – scrisse all’inizio del suo volume Liber abaci – che continuai ad apprendere con grande passione e con molte dispute quanto di essa se ne studiava in Egitto, Siria, Bisanzio, Sicilia e Provenza, dove mi recai per i miei viaggi commerciali“. La città della Torre pendente si prepara a celebrare l’850° anniversario della nascita del proprio grande concittadino. Il Comune di Pisa insieme all’Università di Pisa e in collaborazione con la Scuola Normale Superiore e la Scuola Superiore Sant’Anna hanno organizzato quattro giorni di eventi, dal 20 al 23 novembre, dedicati proprio a Fibonacci: convegni, incontri, mostre e presentazioni di pubblicazioni. Ma non sarà solo una celebrazione a carattere locale il Ministero dello Sviluppo Economico tramite Poste Italiane emetterà un francobollo commemorativo, il primo in Italia dedicato al matematico. Tra le numerose iniziative in programma anche alcuni concerti di musica classica ispirati dalla sequenza numerica e la pubblicazione di alcuni racconti di fantascienza scritti appositamente da scrittori del genere quali Rudy Rucker, Bruce Sterling, Paul Di Filippo, Ian Watson, Nicoletta Vallorani, Linda De Santi. “La nostra amministrazione comunale – spiega il sindaco di Pisa Michele Conti – sta facendo un grande lavoro per valorizzare e divulgare la storia della città e le figure che qui sono nate, si sono formate e che hanno contribuito al progresso dell’uomo, basti pensare a Galileo Galilei. Pertanto, era importante celebrare la ricorrenza della nascita di Leonardo Fibonacci, nell’850° anniversario. E questo è stato possibile grazie al coinvolgimento attivo del nostro Ateneo, della Scuola Normale Superiore, della Scuola Superiore Sant’Anna che hanno affrontato la sua figura in modo interdisciplinare per restituirci in modo completo il valore dei suoi studi e la sua attualità in molti campi del sapere”. “Se oggi l’Università di Pisa è una delle più importanti e prestigiose in Italia e nel mondo è anche grazie all’eredità che Leonardo Fibonacci, con le sue intuizioni uniche, ci ha lasciato”, ha ricordato il rettore dell’ateneo pisano Paolo Mancarella -. I suoi ”numeri magici”, come li ha definiti Keith Devlin in un suo libro di qualche anno fa, hanno d’altronde un’applicazione quasi universale che dall’aritmetica ci conduce alla geometria e alla biologia. Ma quella sua sequenza ha ispirato dall’arte fino all’informatica che qui a Pisa ha mosso i suoi primi passi. Celebrarlo a 850 anni dalla sua nascita significa per noi rendere omaggio ad un uomo che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’umanità”.
· Leonardo Sciascia.
Sciascia, rimpianto con ipocrisia. Marcello Veneziani su La Verità 19 novembre 2019. Ah, Leonardo Sciascia, il letterato, il polemista, il siculo acuto e scontento, arabo e illuminista. Quanto ci manca l’intellettuale non conformista fuori dal coro, ripetono in coro i conformisti a trent’anni dalla sua morte, il 20 novembre del 1989. Per accontentarli, vorrei ricordare cinque spunti di Sciascia che non si ricordano volentieri. Il primo fu la sua polemica aperta col catto-comunismo, contro il compromesso storico e in polemica con gli intellettuali organici che reggevano la coda. Sciascia lasciò nel 1977 il Pci, di cui era consigliere comunale a Palermo. Giorgio Amendola, che rappresentava la destra comunista ma ortodossa, accusò Sciascia di disfattismo e nicodemismo, e subito un codazzo d’intellettuali plaudì alla scomunica. Sciascia non si lasciò intimidire e paragonò Amendola al famigerato Ministro Liborio Romano, che era passato dai Borboni ai Savoia senza lasciare la sua poltrona di ministro. Con disinvoltura i comunisti passavano da avversari a consociati della Dc, che avevano criticato per una vita accusandola pure di mafia e corruzione. Il secondo spunto, famoso, riguardò le Brigate rosse. Oggi prevale la favoletta della neutralità di Sciascia tra lo Stato e le Br, il famoso né né. In realtà Sciascia riteneva poco credibile la linea della fermezza dopo decenni di connivenza, di zona grigia e di cedimento dello Stato a ogni livello. E denunciava la rete larga di complicità intorno al terrorismo rilevando che “è in atto un’espansione del partito armato che sta trovando insediamenti sociali” mentre si continuava a negare la matrice comunista. “Le Brigate rosse – scrisse Sciascia – erano rosse e non nere come tutti i partiti del cosiddetto arco costituzionale desideravano che fossero”. Anzi, notava Sciascia, le Br si appellavano alla stessa fonte di legittimazione dello stato democratico e antifascista: “La Resistenza è un valore indistruttibile anche per le Brigate rosse: credono di esserne i figli”. Le azioni terroristiche delle Br per lui saldarono il sistema, non lo fecero saltare. Il terzo spunto, connesso al precedente, fu il suo giudizio sul potere democristiano e su Aldo Moro. Le sue interpretazioni furono espresse già nel ’76 in Todo Modo e poi ne l’Affaire Moro e dispiacquero non solo alla Dc, ma anche al Pci e ai grandi giornali. Berlinguer arrivò a querelarlo. Scalfari lo stroncò prima che il suo libro sul caso Moro uscisse. Sciascia denunciò in Moro lo scarso senso dello Stato. Per lui Moro non era uno statista ma “un grande politicante”. A Moro rimproverò pure di non aver speso una parola nelle sue tante lettere dal carcere per la sua scorta trucidata in via Fani. E come Pasolini, anche Sciascia ritenne che Moro avesse inventato un linguaggio incomprensibile, di cui fu detentore ma anche vittima (perché nessuno colse i messaggi cifrati delle sue lettere dal carcere delle Br), che secondo Sciascia serviva a tenere oscura e impenetrabile la chiave del potere. La lingua di Moro era per lo scrittore siciliano come il latino usato dalla Chiesa per rendersi incomprensibile al volgo e così alimentarne l’ossequio devoto. La lingua morotea a suo dire corrompeva la democrazia perché rendeva i percorsi del potere politico inaccessibili e arcani al popolo sovrano. Il quarto spunto di Sciascia è sulla sinistra antifascista. Mi limito a due citazioni riassuntive, tratte da Nero su nero: “il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è”. E poi: “intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero solo a destra e perciò l’evento non ha trovato registrazione”. Ecco l’antifascista di sinistra, intollerante ma cretino. Mirabile sintesi, assai attuale. Infine, in tema di Sicilia e di malgoverno, Sciascia dette una lezione di non conformismo, paragonando l’inefficacia e la corruttela che aveva accompagnato i terremoti avvenuti durante la repubblica italiana con quel che invece era accaduto ai tempi “nefasti” della controriforma e della vituperata dominazione spagnola. Nel 1693, nella Sicilia sotto la prepotenza spagnola, un terremoto colpì una cinquantina di comuni, tra cui Catania, Avola, Lentini e Noto. Si recò sul luogo del disastro il duca di Camastra, vicario del vicerè, con pieni poteri e con la benedizione della Chiesa. Il signorotto, la chiesa, i fondi da gestire: il triangolo perfetto del malaffare meridionale. E invece quel duca brusco, altero e devoto, che passava a cavallo tra le macerie, in pochi mesi ricostruì al meglio quei paesi. Il duca, scrisse Sciascia, temperava il rigore cattolico con il culto della bellezza; non si dirà lo stesso dei democratici che gestirono i terremoti più recenti e i loro fondi. Sono riusciti a far rimpiangere la dominazione spagnola. E Sciascia, volterriano laico, onestamente lo riconosceva. Quanti dei signorini che oggi lo invocano e lo rimpiangono avrebbero fatto altrettanto? Certo, Sciascia ha scritto ben altro, non si può ridurre la sua opera a queste polemiche. Ma ogni volta che comincia la messa cantata su Pasolini e Sciascia che ci mancano (a noi mancano anche tanti altri scrittori rimossi perché dalla parte sbagliata), allora vorrei far notare che per questo loro non conformismo subirono in vita linciaggi verbali e peggior sorte avrebbero avuto oggi. Magari anche dalle mafie culturali che ne piangono la scomparsa. La Verità 19 novembre 2019
Paolo Isotta per “Libero quotidiano” il 31 dicembre 2019. Ho confessato più volte che se la musica è la mia passione, il mio vizio è la lettura. Nulla mi piace quanto passare il pomeriggio a letto insieme col bassotto Ochs a leggere in due. Or, pochi giorni fa, rievocando il trentennale della morte di Georges Simenon, ho scritto che nel Novecento i sommi ai quali non è stato conferito il Nobel sono Céline, Borges e Simenon. Dimenticavo Leonardo Sciascia, del quale pure quest' anno cade il trentennale della scomparsa. Le opere complete di Leonardo Sciascia le tengo sempre a portata di mano; sebbene i libri che ho sempre con me siano Lucrezio, Virgilio, Orazio, Leopardi, Manzoni, Flaubert: un anno I promessi sposi, un altro la prima versione, da lui rifiutata, convenzionalmente denominata Fermo e Lucia. Giovanni Macchia la giudica superiore e, certo, basterebbe l'atroce romanzo nel romanzo dedicato alla Monaca di Monza a farci gioire che tale versione non sia stata distrutta e sia stata ritrovata. Manzoni e Leopardi sul cuore umano, sulla politica, sulla massa, hanno, con Flaubert, scritto le cose più rivelatrici di ogni tempo. Sciascia è un manzoniano e su Manzoni gli si debbono ricerche erudite che, come tutte le sue opere storiche, sono fra le perle della sua creazione. È un seguace di Manzoni nell' indagare il cuore umano e il suo indurirsi in rapacità e abiezione. Adorava le petites histoires, che spesso nascondono macigni. Nessuno come lui è capace di trarre da un piccolo fatto, che pare insignificante, una storia terribile o grottesca. Lo studio che il grande Racalmutano fa dell'uomo parte sempre dalla Sicilia, sebbene s'allarghi in senso universale. L'attaccamento dei siciliani di ogni tempo alla roba, che si fa addirittura una metafisica della roba, non è dell'italiano tutto, se non dell' uomo assolutamente? E qui va osservato l'attaccamento alla roba proprio dei preti. Certo, di tutti; ma il clero siciliano, col suo particolarismo, la sua autonomia, ne è un emblema. Anche per l'essere il popolo siciliano, secondo Leonardo, superstizioso, sì, ma soprattutto irreligioso, a-cristiano se non ateo. In questo di alta meditazione è la ricerca storica Morte dell' inquisitore, la storia di un monaco secentesco detenuto e torturato dall' Inquisizione il quale, prima del rogo, riesce colle manette a strangolare l'Inquisitore palermitano. Sempre sul tema, di acre ironia è la Recitazione della controversia liparitana; e di deliziosa ironia Il Consiglio d' Egitto. L'avesse scritto un Francese, si definirebbe uno dei capolavori del romanzo neo-volterrano, insomma uno dei capolavori del romanzo del Novecento. Perché a Sciascia non hanno offerto il Nobel, che avrebbe onorato questo premio sempre più spento? Ma perché dalle opere dei premiati deve scaturire una rappresentazione del mondo ottimistica, basata sul concetto che l'uomo sia fondamentalmente buono e capace di redenzione. Fosse esistito nel Settecento, l'avrebbero dato a piene mani a uno degli scrittori che più disprezzo e più mi è antipatico, Jaen-Jacques Rousseau. Di Voltaire avrebbero detto: «Ma che vuole, costui?» Sciascia era un sommo pessimista, ed era divorato dal tarlo del dubbio. Inoltre, e questo suscita diffidenza, in lui è spesso difficile distinguere la narrazione pura (appunto, alla Simenon) dalla narrazione mista col saggio, come nel suo, e mio, Pirandello. Aveva risolto indagini storiche memorabili: una storia terribile, di tortura e rogo, suggeritagli da quel "chilo agro e stentato" che il Vicario di Provvisione stava facendo durante la rivolta dei forni, nel capo XIII dei Promessi sposi. Il dubbio e la ricerca della verità: Così aveva potuto esser stato comunista, poi socialista, poi radicale, poi nulla. Uno dei casi più clamorosi. Sciascia era (è) andato più vicino di quasi tutti alla comprensione del mistero del rapimento e del delitto Moro. C' era una verità ufficiale che faceva comodo a tutti: le "Brigate rosse", ai comunisti, ai democristiani, ai Tedeschi, agli Americani. Renato Guttuso, un pittore di grande talento che spesso tale talento ha sprecato, era parlamentare del Pci. Si allineò vilmente a tale "verità". Di Sciascia del troppo intelligente scrittore isolato alla Camera, complice Guttuso, il pittore si vide recapitare un pacco da un commesso. Erano stati grandi amici. Il pacco conteneva un prezioso dipinto di Guttuso che anni prima aveva donato allo scrittore. Pacco e quadro: senza una parola. Negli ultimi anni doveva chiedere ospitalità ai quotidiani; e chissà se lo compensavano. Era un bibliofilo e un esperto di ceramiche. E riusciva sempre a scoprire quel ch' è nascosto sotto un verso, una frase, una storia. Alla mafia Sciascia si è dedicato con passione e lungimiranza: lo narrano Il giorno della civetta e A ciascuno il suo. Il bel libro recentissimo di Nando Dalla Chiesa ''Una strage semplice'' rievoca l' assassinio di Paolo Borsellino e mette in luce come tuttora esso, tra mandanti e coperture e depistaggi, sia avvolto dal buio; e sebbene Sciascia su Borsellino abbia fatto il suo solo errore, subito emendato, questa storia a me pare eminentemente sciasciana, quasi la realtà, ancora una volta, si sia sulla creazione artistica modellata. Ma questa creazione artistica partiva, nel caso di specie, da un' analisi della realtà effettuale. L' ho frequentato, sia pur brevemente. Ora è come se fossimo intimi. A Milano colla moglie, Mimmo Porzio lo invitava sempre a cena. Una boccata di fumo tra un boccone e l'altro; taciturno, uno sguardo di pazienza insondabile e disperata. La sua pagina è per me, oltre che modello stilistico, soccorso al disagio del vivere. La disperazione, se si fa arte, aiuta. Una volta mi aiutò anche la sua ironia. Avevo scritto che il rock (oggi aggiungerei il rap: pensate a Fedez e agli affari della sua "compagna") è uno strumento di consenso sociale, giacché gli sventurati sfogano consumandolo ogni carica di rivendicazione ed eversione. Mi attaccò su "Repubblica" un intrattenitore televisivo, un certo Beniamino Placido. Chissà quale pensione percepiva costui, ex funzionario parlamentare. Scriveva che gli aristocratici napoletani non possono abbassarsi a capire niente. Risposi con una citazione di Nero su nero: «È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino. Oh i bei cretini d' una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l' olio e il vino dei contadini.» Se fosse ancora con noi, dialogherebbe con Manzoni, Baudelaire, Serpotta, la Tragedia greca, Lucrezio e Virgilio. Non aprirebbe nemmeno il giornale. Allora si diceva di lui: "il bravo scrittore e romanziere". Oggi si potrebbe definire solo un gigante. A volte accade persino: veritas filia temporis.
La storia di Caterina, donna torturata e mandata al rogo raccontata da Manzoni e Sciascia. Matteo Moca de Il Riformista il 31 Gennaio 2020. Nel capitolo XXXI dei Promessi Sposi, quello dedicato alla descrizione della peste a Milano, la ricostruzione storica precisa e dettagliata di Alessandro Manzoni dedica poche parole a un’amara vicenda, quella di «una povera infelice sventurata» che è stata, in precedenza, bruciata sul rogo come presunta strega. Manzoni non fa il nome della donna, ma di chi contribuì a farla condannare, il «protofisco Lodovico Settala», colui che, dopo essere stato lodato dalla folla per i tentativi di salvare la città dalla peste, fu vittima della sua irrazionalità, per aver contribuito a mandare al rogo la povera donna. Proprio alla vicenda di Caterina Medici, Leonardo Sciascia ha dedicato un libro, La strega e il capitano, recentemente riproposto dall’editore Adelphi. Non si tratta però semplicemente di una minuziosa ricostruzione microstorica, non lo è mai per Sciascia, basti sfogliare le pagine del Consiglio d’Egitto o di La scomparsa di Majorana, quanto invece del racconto di un rapporto sbilanciato, quello che si crea nell’esercizio del potere tra i sistemi dominanti e la «povera gente». Caterina Medici, nata nei pressi di Pavia nel 1573, fu condannata al rogo a Milano nel 1617 con l’accusa di essere una strega, non prima però di essere stata torturata («la tortura è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla» ha scritto Piero Verri nelle sue Osservazioni sulla tortura, riprese da Sciascia in questo volume) e poi condotta sopra un carro fino al luogo del patibolo, «percorrendo le vie e i quartieri principali della città col tormentarla nel corpo con tenaglie roventi». La condanna arriva dopo le accuse mosse dalla famiglia Melzi, famiglia di vicari e questori, secondo la quale la donna, che lavorava come governante nella casa, era una «strega professa» e aveva praticato dei malefici contro il senatore Luigi Melzi (viene riportato che nel cuscino del senatore erano presenti «tre cuori fatti con nodi di filo di refe; e i nodi, di artificio diabolico, involgevano capelli di donna»). Solo attraverso questa motivazione soprannaturale era possibile dare una spiegazione al persistente mal di stomaco che affliggeva da mesi l’ex vicario della città, un mal di stomaco di cui i medici non riuscivano a scoprire la causa. Facendo riferimento alle fonti dell’epoca, soprattutto agli incartamenti del processo, in questo libro Sciascia ricostruisce tutta la vicenda di Caterina Medici mettendo in scena un triste spettacolo dove la voce dei vari protagonisti, i figli di Melzi, delatori e accusatori, giudici e membri dell’Inquisizione, sembrano uscire fuori dalle carte per urlare la colpevolezza della donna e la necessità della sua condanna. A fare da contraltare a questo assordante e sciocco grido di reità, sono altre voci, che però rimangono affogate nel silenzio: Caterina infatti, convinta a un certo punto che dichiararsi colpevole le avrebbe garantito la definitiva assoluzione religiosa e la libertà, chiama a testimoniare una serie di persone sue vittime o complici, ma le loro dichiarazioni non sono rintracciabili tra le carte processuali, forse perché, come suggerisce Sciascia, prevedibili discordanze avrebbero rallentato il processo, mentre tutti i protagonisti desideravano una veloce conclusione. Un processo di semplificazione dunque per arrivare dritti alla condanna di Caterina: «È potuto accadere – scrive Sciascia – e crediamo che accada. Terrificante è sempre stata l’amministrazione della giustizia, e dovunque. Specialmente quando fedi, credenze, superstizioni, ragion di Stato o ragion di fazione la dominano o vi si insinuano». Da questa breve citazione emerge il meccanismo che regola l’operazione di Sciascia, volta a oltrepassare il semplice richiamo alla memoria di un evento tanto violento e ingiusto. Lo scrittore siciliano infatti, riflettendo sull’esercizio del potere, procede continuamente in un confronto tra la vicenda di Caterina Medici e il mondo contemporaneo: talvolta questo paragone è apertamente dichiarato, altre volte solamente suggerito, ma l’analisi di Sciascia emerge continuamente attraverso questo sapiente intreccio tra passato e presente. È difficile, se si ignora questo meccanismo, arrivare a comprendere fino in fondo la requisitoria che Sciascia costruisce contro il potere dei sistemi dominanti, nel caso specifico di questo libro, contro il controllo totale dell’aristocrazia milanese e le violenze della Chiesa cattolica. Parlando per esempio di come la Chiesa desiderasse annientare i pericoli a suo parere nascosti nella cultura popolare, una cultura che si trasforma in una religione del male, Sciascia scrive che questo dispositivo di controllo individua in quel tipo di cultura un pericolo «per l’ovvia ed eterna ragione che ogni tirannia ha bisogno di crearsene uno, di indicarlo, di accusarlo di tutti quegli effetti che invece essa stessa produce di ingiustizia, di miseria, di infelicità tra gli assoggettati». Il libro di Sciascia è prezioso perché è testimonianza di un compito altissimo della letteratura, quello di dare voce alla marginalità di chi si trova a subire le violenze della Storia: questo è il dovere della scrittura, innalzarsi a smascherare le forme distorte del potere e rimuovere i veli appannanti che coprono i volti turpi della giustizia nella Storia.
Leonardo Sciascia, l’eretico etico. Filippo La Porta de Il Riformista il 19 Novembre 2019. Nell’opera di Leonardo Sciascia è impossibile separare la letteratura dall’impegno, la scrittura dalle battaglie civili (perciò sbaglia Citati a respingerne l’ultima parte in quanto “politica”: anche le Parrocchie di Regalpetra – 1956 – sono “politiche”!). Per una semplice ragione: l’impegno è sempre impegno verso la verità – oltre ogni ideologia e perfino oltre ogni “eresia”, come il suo Candido – , e la letteratura è “figlia della verità”. Il suo stile – conciso, nitido, di sobria eleganza (ispirato a Manzoni, Stendhal, alla prosa d’arte e a Brancati) – è segretamente intessuto di barocco siciliano, benché si tratti di un barocco trattenuto, inesploso. Geometriche puntigliosità, digressioni, parentesi dentro parentesi, ellissi. Ed è un barocco diverso da quello, poniamo, di Manganelli, dove l’alchimia delle parole e il gioco estenuato della lingua servono a esorcizzare la morte, il nulla. No, Sciascia la morte intende guardarla in faccia, con serietà e compostezza, come il commissario Vice, protagonista del suo penultimo libro, Il cavaliere e la morte. In ciò vicino ai suoi scrittori spagnoli, ad esempio a Machado per il quale il colpo secco della bara che scende nella fossa è qualcosa di «maledettamente serio». È vero quello che ha detto il suo principale e simpatetico studioso, Claude Ambroise: i suoi personaggi si progettano tutti come uomini in rivolta, dal capitano Bellodi del Giorno della civetta all’avvocato Di Blasi del (meraviglioso) Consiglio d’Egitto, dall’ispettore Rogas del Contesto fino allo stesso Moro in carcere, e tutti verranno ammazzati. In rivolta contro che? Contro il potere, che proprio sulla morte – limite oscuro dell’esistenza, destino inappellabile – costruisce il suo spaventevole edificio di bugie e soprusi. Il giudice, l’inquisitore, il boss mafioso, in fondo dando la morte si illudono di starne al di sopra, come il “tiranno” di cui parla Elias Canetti. Si credono immortali e vivono dentro la irrealtà, mentre Sciascia vuole restare fedele alla realtà, enigmatica, limitata eppure mai risolta. Di qui affiora un carattere di misteriosa incompiutezza della sua opera, rifinita ma inafferrabile. La contraddizione – che è parte costitutiva della realtà – non viene mai risolta, come invece nei labirinti ingegnosi e senza minotauro dell’estetizzante Borges (da lui amato). L’intera, multiforme produzione di Sciascia mi sembra cioè, come quella di Pasolini, felicemente esposta a un semifallimento. Gialli senza soluzione, romanzi spaesanti e metafisici travestiti da thriller, riscritture imperfette di classici, parodie spesso incomprese, pamphlet solitari e battaglie perdute. Libri di artigianale perfezione, lavorati all’estremo, ma anche aperti all’inconcluso della esperienza. Lo scrittore insegue la verità – ambigua, prismatica, cangiante – delle cose con piglio ostinato e illuministico. Un erede di Voltaire che ha letto Pirandello. Anche per questa ragione a me sembra che il genere letterario che più corrisponde alla vocazione di Sciascia sia quello del personal essay di Montaigne, autore da lui prediletto, un genere digressivo, antisistematico e divagante che schiude la modernità, e che – a ben vedere – troviamo al centro della tradizione italiana cinquecentesca, sia pure in una forma carsica, più nascosta, a partire da Machiavelli e dai Dialoghi di Tasso. Una volta parlando di Savinio, illustre esponente del genere, Sciascia evoca Guicciardini, cui Savinio somiglierebbe anche fisicamente, e che anticipa di qualche decennio lo stesso Montaigne con i suoi aforismi morali e politici. Nei Ricordi (ammonimenti) Guicciardini osserva che «è grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente assolutamente… perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varietà delle circostanze». Ecco: lo stile di Sciascia sempre aderisce fedelmente alla varietà delle circostanze, alla unicità degli eventi, alla irripetibilità dell’esperienza del singolo. Una volta ebbe a dire: «Credo di essere saggista nel romanzo e narratore nel saggio». Ma anche solo quella sua frase dimostra un primato del personal essay, poiché un saggio che comprende la narrazione è appunto il saggio moderno e “dilettantesco” di Montaigne, da lui travasato in libri popolari e di grande affabilità comunicativa. Benché amasse romanzi-fiume come il Chisciotte e Anna Karenina Sciascia optava personalmente per la “brevitas”, per una asciuttezza scandita tuttavia da pause interne, da uno sciame di chiose, digressioni e postille. E di ciò si sostanzia il suo illuminismo insulare, la sua alterità “saracena”, sorprendentemente capace di parlare a tutti, senza rimuovere il tragico e senza banalizzare il mistero.
Basta ergastolo, quello schiaffo che sarebbe piaciuto a Sciascia. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 30 Ottobre 2019. Ci vorrebbe Leonardo Sciascia per sottolineare a modo suo gli schiaffoni che ancora bruciano sulle gote dei “professionisti dell’antimafia” in seguito a una serie di provvedimenti che hanno riportato qualche pillola di civiltà giuridica nel nostro paese. Le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, prima di tutto, ma anche la sentenza della Corte di cassazione che, quasi fosse ancora in servizio un Corrado Carnevale, ha fatto le pulci a chi aveva voluto a tutti i costi vedere la mafia a Roma laddove c’era la “normale” delinquenza se pur organizzata, con tutte le conseguenze processuali, detentive e anche mediatiche del caso. E ha stabilito che a Roma la mafia non c’è. Il primo schiaffo arriva dall’uggioso cielo di Strasburgo, pur se in stagione estiva, il 13 giugno di quest’anno. Riguarda un caso specifico, quello di Marcello Viola, ergastolano per reati di mafia, che si è sempre dichiarato innocente. Non si tratta di un detenuto qualunque, ma di un fantasma destinato a morire da prigioniero in seguito a una sciagurata decisione dell’ultimo imbelle governo della prima repubblica, che, incapace di sconfiggere la mafia che aveva assassinato Falcone e Borsellino con gli strumenti della repressione ordinaria, ricorse a una legge emergenziale. Una legge incostituzionale, dicemmo in pochi, in parlamento e fuori, in quell’estate del 1992, palesemente finalizzata a costruire il “pentitificio” come unico strumento di lotta alla mafia. Nacque così l’ergastolo ostativo, cioè quel “fine pena mai” che impedisce ai condannati all’ergastolo per gravi reati come mafia e terrorismo, di uscire prima o poi dal carcere come persone diverse da quelle che avevano commesso i reati e dopo il percorso rieducativo previsto dall’art. 27 della Costituzione. Salvo che non si siano trasformati in “pentiti”. Era il caso del detenuto Viola, che , essendosi sempre dichiarato innocente e non potendo collaborare con la magistratura, vedeva respinta ogni richiesta per i benefici penitenziari e la liberazione anticipata. Così presentò ricorso alla Cedu. La sentenza del 13 giugno ha condannato l’Italia. Lo schiaffo è pesante, perché mette in discussione proprio la costrizione alla collaborazione, il ricatto che impedisce il ritorno alla libertà del detenuto, ancorandolo per tutta la vita alla pericolosità del momento in cui aveva commesso il fatto. Eri delinquente a 18 anni? Lo sarai anche a 70, se non denunci qualcuno. Così dice l’Italia, e l’Europa la condanna. Dopo quella prima decisione si agita subito la corporazione delle toghe e di conseguenza il governo nei cui ministeri, forse non tutti lo sanno, si annidano molte toghe in veste di “tecnici”, molto sensibili al richiamo della casta e molto potenti. Il ricorso del governo Conte primo e secondo contro la Corte di Strasburgo pare scontata, del resto anche il ministro di giustizia Bonafede è sempre lo stesso. È quello che vuol rendere eterni i processi, lasciando nel limbo dell’incertezza sia gli imputati che le vittime bloccando la prescrizione, figuriamoci se non vuol rendere eterna anche la detenzione. Il governo presenta dunque il suo ricorso, adducendo alcune sentenze della nostra Corte costituzionale che in effetti aveva prodotto nel corso degli anni una giurisprudenza quanto meno contraddittoria sul tema, ma soprattutto spiegando all’Europa che, poiché in Italia c’è la mafia, sarebbe lecito violare lo Stato di diritto e la stessa Costituzione con ripetute leggi emergenziali. Quando si avvicina la data della decisione della Cedu sul ricorso italiano, fortissime sono le pressioni di coloro che ancora oggi Sciascia definirebbe “professionisti”. Il pubblico ministero della direzione nazionale antimafia Nino Di Matteo ha facilità a emergere per la forza delle sue argomentazioni sul presidente della commissione antimafia Nicola Morra e sullo stesso ministro guardasigilli. L’eliminazione dell’ergastolo ostativo, spiega ai suoi colleghi d’oltralpe, sarebbe un segnale ai capimafia e una “riaffermazione del loro potere”. Insensibili al grido di dolore si mostreranno però l’una dopo l’altra sia (9 ottobre) la Cedu che la stessa (23 ottobre) Corte costituzionale italiana. Che mettono, si spera, alcuni punti fermi. L’organo di Strasburgo mette l’accento sulle norme dell’ordinamento penitenziario ( in particolare l’art. 4 bis ) che vanno modificate, soprattutto sul principio dell’automatismo, per rimettere nelle mani del magistrato il compito di giudicare caso per caso. La mannaia viene infine calata dalla Corte presieduta da Giorgio Lattanzi che dichiara l’incostituzionalità proprio di quell’articolo che trasformava i detenuti in fantasmi e l’ergastolo nella pena di morte. Due concetti che non riescono a penetrare nella cultura della maggior parte dei politici attuali, se escludiamo i radicali e l’associazione Nessuno tocchi Caino che si batte da sempre per l’abolizione della pena di morte nel mondo e di conseguenza contro l’ergastolo ostativo. All’appello del pm Di Matteo che continua a esortare la politica “a reagire” (vorremmo sapere con quali strumenti che non violino la Costituzione), rispondono compatti da Salvini a Zingaretti fino alla truppa dei grillini: obbedisco.
Sciascia, dal Pci ai radicali: in direzione ostinata e contraria. Biagio Castaldo de Il Riformista il 19 Novembre 2019. È l’epitaffio di Villiers che Leonardo Sciascia scelse per essere ricordato, un inno che restituisce il suo ultimo paradosso: sfidare la scommessa di Pascal sull’esistenza di Dio. Il ritorno alle terre di zolfare dell’agrigentino che gli ha dato i natali nel 1921, dalla quale eredita l’umorismo pirandelliano e il materiale narrativo dei suoi primi libri, Le parrocchie di Regalpetra (1956) e Gli zii di Sicilia (1958), che destano immediatamente l’attenzione della critica letteraria più engagé. La Sicilia, le indagini sulla mafia e quel relativismo della conoscenza, per cui la realtà è più ingarbugliata di come appare – Gadda pubblica negli stessi anni Il Pasticciaccio – inaugurarono la stagione del giallo. Il giorno della civetta (1961), scritto in seguito all’assassinio del sindacalista Miraglia nel 1947, e A ciascuno il suo (1966), che scavalcano la definizione confinante di giallo e nobilitano a livello sociale un genere letterario da sempre bistrattato. Intanto si trasferisce a Palermo, comincia a collaborare con il Corriere della sera e a dedicarsi al romanzo, Il contesto, pubblicato poi nel 1971: una critica nelle vesti di divertissement al sistema giudiziario di una terra immaginaria, nella quale è facilmente riconoscibile l’Italia degli anni 70. Il contesto gli vale la candidatura al premio Campiello, che Sciascia decide sapientemente di ritirare in seguito alle forti polemiche suscitate dal dibattito politico-intellettuale. Nel ’74 Todo modo è l’occasione di polemizzare con le alte gerarchie ecclesiastiche, attraverso un poliziesco di «cattolici che fanno politica», cardinali e uomini politici impegnati tra riti spirituali e delitti. Nel 1975 scrive La scomparsa di Majorana (avvenuta nel 1938), un’indagine rielaborata in forma di prosa sulla scomparsa del fisico Ettore Majorana, e nello stesso anno viene eletto segretario regionale del Pci alle elezioni comunali di Palermo. Incarico che abbandonerà due anni più tardi, quando assumerà posizioni molto critiche nei confronti della direzione del partito, alla quale aveva manifestato tutta la sua contrarietà a proposito del compromesso storico. Il caso Moro porta Sciascia sulle tracce delle lettere di prigionia dell’onorevole durante i 55 giorni di sequestro, delineando un urgente ritratto di «opera di verità», pubblicata nel ’78 con il titolo di L’affaire Moro. Sebbene il caso avesse tratti al limite del romanzesco, ricordando certe pagine di Pasolini, Sciascia investe qui la letteratura di un ulteriore ruolo: svelare il senso della tragedia dietro la solitudine di un uomo, prima ancora che di un politico incatenato. Il 1979 consacra l’entrata di Sciascia tra i Radicali, candidandosi sia al Parlamento europeo che alla Camera, vincendo entrambe le elezioni, ma preferendo dapprima la sede di Strasburgo e dopo appena due mesi accettando l’incarico a Montecitorio, dove rimarrà fino al 1983. Come membro della Commissione parlamentare d’inchiesta, Sciascia si occupa della strage di via Fani, dell’assassinio di Moro, del problema terrorismo in Italia, a proposito del quale mantiene posizioni antigiustizialiste. Si schiera dapprima contro la legislazione d’emergenza, che in quegli anni inasprì la pena per molti reati, poi nel 1982 quando il Partito Radicale denuncia le torture inflitte dalla polizia ai brigatisti, Sciascia prende una posizione inamovibile. Intanto continua a muoversi tra l’attività parlamentare, quella di curatore di mostre e quella giornalistica con il lucido sguardo che caratterizzò sempre la sua attività e polemizzando nel ’87 sulle colonne del Corriere con quelli che definì gli «eroi della sesta», i magistrati palermitani del pool antimafia, tra i quali capitò anche Borsellino, accusandoli di carrierismo. Due anni dopo, a causa di un male incurabile, il 20 novembre 1989 muore da laico. E noi, su questo pianeta, lo ricordiamo ancora.
Il paradosso di Sciascia: denunciò i professionisti dell’antimafia e gli diedero del mafioso. Valter Vecellio su Il Riformista il 19 Novembre 2019. Ricordare Leonardo Sciascia a trent’anni dalla morte… non è facile, non è semplice. Un modo, forse ne sarebbe contento, potrebbe essere l’invito del ministro dell’Istruzione Pubblica a tutte le scuole, agli studenti, ai professori, di dedicare qualche ora per leggere un paio di pagine tra i tanti libri che ci ha lasciato. Credo proprio che gli farebbe piacere. Per lui un efficace impegno anti-mafia era magari una marcia in meno, ma leggere un libro di più. Un antidoto simile a quello suggerito dal grande amico Gesualdo Bufalino: «Per combattere Cosa Nostra più maestri di scuola». La cultura, insomma. Contro la mafia, l’ignoranza, il cretino. Sciascia: poco dopo l’alba del 20 settembre, stanco, logorato da una malattia che non ha rimedio, finisce di soffrire. Un soffio; china la testa di lato. La lunga agonia finisce. Come parlarne, senza scadere nel cliché? Qualche sua pagina, appunto, sulla sua “ossessione”: la giustizia, su come viene amministrata. Per un libretto scritto con Raffaele Genah, Storie di ordinaria ingiustizia, gli chiedo un paio di cartelle da utilizzare come prefazione. Si viene afferrati da un senso di avvilimento, nel constatare quanto siano attuali. Scrive dell’errore giudiziario, e raccomanda di tener sempre a mente il monito di Manzoni: «…quasi sempre si tratta di “errori” ben visibili ed evitabili; e in particolare visibili ed evitabili proprio da parte di chi li commette: “trasgredir” le regole ammesse anche da loro…se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa…». Per dare spiegazione di come l’amministrazione della giustizia sia quella che è, spiega che «deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto a estrovertirlo, a esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano l’arbitrio. Quando i giudici godono il loro potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto…». Un’altra citazione viene in soccorso da Una storia semplice, l’ultimo libro, scritto con grande fatica, straordinariamente lucido. Un vecchio professore è interrogato dal suo ex alunno, diventato magistrato inquirente. «Posso permettermi di farle una domanda?… Poi ne farò altre, di altra natura…», dice ammiccante il magistrato. «Mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Una volta mi ha dato cinque: perché?». «Perché aveva copiato da un autore più intelligente», risponde il professore. Il magistrato scoppia a ridere: «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». Il professore fulminante: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe ancora più in alto». Può bastare per comprendere l’amara, radicale, “visione” di Sciascia non tanto della giustizia, quanto di come (e da chi) viene amministrata. Sul capo di Sciascia, in vita (ma anche dopo), si rovesciano una quantità di insulti. È una parzialissima, antologia di meschinità quella che segue: «Codardo»… «Sprazzi di autentica balordaggine»… «Amara e inutile vecchiaia»…«Lancia avvertimenti mafiosi»… «Precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese»… «Travolto dagli anni e da antichi livori»… «Stregato dalla mafia»… «La sua funzione è esaurita»… «Non ci serve più»… «Fa l’apologia della mafia… «Iena dattilografa»…«Trozkista»… «Quaquaraquà»… Ascolto, ma soprattutto osservo Emanuele Macaluso, da sempre amico di Sciascia. Gli ricordo che qualcuno ha detto che Il giorno della civetta è un libro che esalta la mafia. «Questa sciocchezza che purtroppo è stata detta da un parlamentare… della sinistra – sillaba Macaluso – è la stupidità più clamorosa che ho sentito su Leonardo. Quel libro fu il primo che fece capire cos’è la mafia: non una delinquenza comune, ma personaggi che avevano anche un rapporto politico con la politica, ma anche con la gente: la Grande Mafia, la mafia-mafia che ha contato, aveva un rapporto politico con il potere, ma anche con la popolazione: si prestava a risolvere i problemi, una specie di tribunale per le questioni… altrimenti non era mafia, era delinquenza…Per la prima volta Sciascia fa capire che cos’è la mafia: con un carattere, una storia…Perché altrimenti non si capisce perché la mafia c’è da più di cento anni, e si discute ancora del suo potere». Mafiologi ai quattro formaggi non sanno (non vogliono) cogliere l’essenza di quel romanzo: il “metodo” che anni dopo adottano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Boris Giuliano e i tanti caduti nella lotta alla mafia. Il capitano Bellodi, a un certo punto si rende conto che il capomafia, grazie alle protezioni politiche, gli sta per scappare di mano; ha la tentazione di far uso di quei metodi al di sopra e al di là della legge del prefetto Cesare Mori, negli anni della dittatura fascista. Tentazione/illusione che subito rigetta, perché non bisogna uscire mai dai binari della legge, del diritto; sempre e comunque. Piuttosto «…bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena, e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende: revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze, o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…». Questo è il romanzo che «fa piacere alla mafia e la esalta». Questo il destinatario del sanguinoso insulto «quaquaraquà», quando pubblica sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987 l’articolo redazionalmente titolato “I professionisti dell’antimafia”. Tra i non molti, lo difende Tullio De Mauro, il celebre linguista, fratello di Mauro, il giornalista de L’Ora, atteso da sicari mafiosi sotto casa: rapito, neppure il corpo viene mai stato trovato. Racconta Tullio: «I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fatto folcloristico siciliano. Sciascia si è sempre esposto in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 con la scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in un’altra serie innumerevole di circostanze…». Mi confida Macaluso: «Una cosa ignobile. Una cosa vergognosa e ignobile del cosiddetto Comitato Antimafia di Palermo, dove c’erano alcuni personaggi che non voglio ricordare…Sciascia aveva espresso un’opinione che non coinvolgeva tanto – era solo un esempio – Borsellino, quanto un metodo di affrontare la questione delle carriere…quando Leonardo individuò in quei metodi del Csm dei limiti e delle storture, credo che avesse ragione: i fatti recenti ci dicono che quelle polemiche non erano campate in aria o strumentali, ma avevano un fondamento…». Non solo il Csm, e i suoi metodi di nomina. Francesco Forgione, ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, è autore di un libro, I Tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti; utile, preziosa lettura, ricco com’è di fatti ed episodi che documentano come una parte dell’antimafia abbia fatto uso di un impegno di facciata per raggiungere ben altri. Per tornare a Sciascia: dopo aver consigliato la lettura di alcuni libri, presuntuoso, ne segnalo uno recentissimo, mio: Leonardo Sciascia, la politica, il coraggio della solitudine (Ponte Sisto editore). Scritto con l’obiettivo di ragionare su un aspetto che si tende – non a caso – a omettere, ignorare: il suo essere stato scrittore politico, immerso consapevolmente e totalmente nella realtà; il suo aver voluto sempre fare politica in senso etico. Il motivo per cui, pur deluso da precedenti esperienze, dopo aver rifiutato gli inviti a candidarsi nelle liste del Psi e del Pli, accetta di farlo in quelle del Partito Radicale: un partito a cui era sempre stato vicino, come Elio Vittorini, Ignazio Silone, Pier Paolo Pasolini. Ma a candidarsi non ci pensa proprio, ed è ben intenzionato a dire un cortese “No, grazie” a Pannella, volato a Palermo per convincerlo. Vecchia volpe, Pannella sa trovare la chiave giusta: «Non ti chiediamo di aderire al nostro programma. Siamo noi radicali che aderiamo al tuo». È fatta: accende l’ennesima sigaretta, con lo sguardo osserva le volute del fumo; infine, passa dal “Lei” al “Tu”: «Hai bussato perché sapevi che era già aperto».
Una volta un tal Leonardo Sciascia scrisse («I professionisti dell'antimafia» da «Il Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987) «... l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. ... chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno».
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Citazioni di Leonardo Sciascia, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo all’acqua di rose:
«…l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà... Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini... E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi... E ancora più in giù: i piglianculo, che vanno diventando un esercito... E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre... » (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).
«.. Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).
«Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole, vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966).
«I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia ?» (Leonardo Sciascia, I professionisti dell'antimafia, da Il Corriere della Sera, del 10 gennaio 1987).
“Persecuzioni che vanno evitate” scriveva Lino Iannuzzi sul “Tempo” del 23 ottobre 2008. riferendosi all’assoluzione di Calogero Mannino.
“Più che condannarlo per mafia, ne volevano fare un pentito, il primo grande pentito della politica. Se ci fossero riusciti, probabilmente la storia dei grandi processi di mafia ai politici darebbe stata diversa, i professionisti dell'antimafia non ne sarebbero usciti così clamorosamente sconfitti.”
Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).
Basta mafia e illuminismo, Sciascia è un vero poeta. Il volume che ne raccoglie la produzione narrativa dà la sua esatta dimensione di artista: nel lettore instilla dubbi, non certezze, scrive Bruno Giurato su “Il Giornale”. Oggetto tagliente, oscuro, pericoloso da maneggiare, Leonardo Sciascia. Da circa sessant'anni l'intelligenza italiana cerca di incasellarlo in una definizione: «illuminista», «scrittore civile», garantista a oltranza, o addirittura mitizzatore della mafia. E sono circa sessant'anni che i tentativi di definire (e farla finita con) lo scrittore di Racalmuto falliscono. Spesso con scorno di chi aveva polemizzato con lui: oggi, come notò Pierluigi Battista in un articolo sul Corriere del 2009, sarebbero in molti a dovergli chiedere scusa, cominciando da quelli che, al tempo della sua polemica con i cosiddetti «professionisti dell'antimafia», lo massacrarono: da Eugenio Scalfari che lo considerava esempio del tradimento degli intellettuali, al coordinamento antimafia che lo definì con le parole del boss de “Il giorno della civetta”: «un quaquaraquà». Per non parlare di chi se la prese a morte per il suo addio al Pci. Il fatto è che, a dispetto degli intellettuali più o meno organici, Sciascia con le prese di posizione ideologiche, se non politicamente strumentali, c'entra nulla. L'idea si rafforza leggendo l'edizione Adelphi delle opere, curata da Paolo Squillacioti: 2000 pagine per un volume dedicato allo Sciascia narratore, autore teatrale, poeta e traduttore di poesia. Seguiranno altri due volumoni, centrati, rispettivamente, sullo Sciascia pamphlettista e autore di «Inquisizioni» alla Borges, e sulla saggistica letteraria, storica, artistica, «civile». L'edizione adelphiana arriva dopo quella curata per Bompiani da Claude Ambroise, e comprende diversi scritti poco noti e dispersi. Ora, se è vero che in Sciascia non si dà narrazione senza saggistica e viceversa, far ruotare il prisma Sciascia in modo da metterne a fuoco il lato fictionist serve a svelare alcuni gangli poco considerati, ma fondamentali. Per esempio, appunto, lo Sciascia poeta. Fino al 1952 la poesia per Sciascia è stata «il grezzo della prosa», poi la produzione in versi si è andata rarefacendo. Lo scrittore di Racalmuto, oltre a scrivere poesie in proprio ha anche tradotto dall'inglese e dallo spagnolo: da Walt Whitman a García Lorca. Il volume curato da Squillacioti riporta, oltre a diverse traduzioni, una sezione di poesie disperse, tra cui l'inedita “L'ora” riporta tortore dal fiume, in cui il piglio quasi fauvista (è il giudizio di Pasolini sulla lirica sciasciana) cede all'inclinazione tragica: «e giungono improvvise/ un frullo d'ali che s'annoda alla botta dello schioppo/ la feroce allegria del nostro occhio/ del cuore per un attimo sospeso/ a un vertice di morte». Ed è ancora la vena pessimista che spicca in un articolo pubblicato nel 1981 su un numero dell'Espresso dedicato alla P2 di Licio Gelli, il Dialogo tra Candido e l'Inquisitore.
E attenzione, siamo di fronte a un confronto simbolico, i cui antecedenti ritroviamo in Voltaire e Dostoevskij: la fiducia nella razionalità del mondo (Candido) contro l'Inquisitore, che qui tesse un grande elogio del potere grigio, «il mio colore. Il colore che si addice all'invisibilità». E già che ci si trova in tema, il lettore può tornare a leggersi il racconto Candido. Un sogno fatto in Sicilia, e notare che rispetto all'originale di Voltaire (fulminante, quasi fumettistico, esempio di marketing filosofico-illuminista), l'autore siciliano sembra confezionare una parodia nera. A cominciare dal protagonista che avrebbe dovuto, nelle intenzioni del padre, chiamarsi non Candido ma Bruno, in onore del figlio scomparso di Mussolini. Rileggendo le novelle di Sciascia (classici come “Il contesto”, “Il consiglio d'Egitto” e soprattutto “A ciascuno il suo” e “Il giorno della civetta”) certe volte si ha la sensazione che l'autore abbia usato le forme narrative illuministe (brevi e documentate) per svuotarle dall'interno, realizzando un'osmosi fatale verso il noir umoristico. Risultato artistico straordinario e inquietante, ma abbastanza inutile per chi crede in una qualsivoglia ideologia «progressiva». Altrettanto irresistibile il realismo cinico del mafioso don Mariano Arena nel Giorno della civetta, secondo il quale l'umanità è «un bosco di corna (...) E sai chi se la spassa a passeggiare sulle corna? Primo (...) I preti; secondo: i politici, e tanto più dicono di essere col popolo tanto più gli calcano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me». Ricordiamo che per pagine del genere Sciascia è stato accusato di avere mitizzato la mafia. E fu lo stesso Totò Riina, durante un'udienza di un processo, ad affermare che i mafiosi in carcere lo leggevano. Il fatto è che Sciascia si è permesso un lusso quasi inaudito in Italia. Non essendo né un chierico né un clericale-laico, non regala soluzioni, non elargisce consolazioni. I suoi libri rifilano il lavoro di sintesi alla coscienza, buona o cattiva, del lettore. Sciascia ha fatto quel che ha da fare qualsiasi vero artista: regalare dubbi, e paura, a futura memoria.
morte di Paolo Borsellino e della sua scorta in via d'Amelio a Palermo mi sembra giusta riproporre e rileggere una polemica che vide contrapposti lo scrittore Leonardo Sciascia ed il magistrato ucciso dalla mafia con la complicità di pezzi dello Stato. Lo facciamo con il pensiero di Paride Leporace. Questa è la storia di un paradosso siciliano che nasce nella redazione del principale quotidiano italiano e che apre una contesa che dura ancora oggi, anche se molti confondono fatti e personaggi. Paolo Borsellino si oppose a qualunque trattativa con Cosa Nostra. Leonardo Sciascia ben prima degli altri fece comprendere come la mafia non fosse solo un fenomeno siciliano. Tutto nasce grazie un redattore culturale che oggi gode di ottima fama, Riccardo Chiaberge. Nel gennaio del 1987 deve impaginare un articolo di uno degli intellettuali di punta del Corriere della Sera. Leonardo Sciascia ha trattato il suo ragionamento a partire delle lettura di un saggio pubblicato da una piccola casa editrice calabrese, la Rubettino di Soveria Mannelli, che proprio grazie a questa celebre polemica assurgerà da allora a notorietà nazionale. "La mafia durante il Fascismo" è un volume scritto da Christopher Duggan, un allievo dell'autorevole storico Denis Mack Smith, autore della prefazione in cui offre la chiave di lettura sulla paradigmatica vicenda del prefetto Mori, passato alla storia come "Prefetto di ferro". Il saggio non spiega la "mafia in sé" ma si sofferma su quel che "si pensava la mafia fosse e perché". Sciascia nel suo articolo sa di scrivere questioni eretiche. Infatti nell'attacco del pezzo pone due autocitazioni tratte da suoi due celebri romanzi sulla mafia siciliana: "Il giorno della civetta" e "A ciascuno il suo". Mossa preventiva per ammonire le critiche che arriveranno da "quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi dopo le Cinque giornate, denomineranno eroi della Sesta". Deve argomentare di mafia e antimafia Sciascia. Con lessico e documentazione da par suo. Raccontando per esempio di un capitolo scomparso di una piece sulla mafia di Don Sturzo e poi riadattata con finale positivo da Diego Fabbri. La morale di fondo dell'articolo è che anche l'antimafia è uno strumento di potere. Per rafforzare la sua tesi Sciascia conclude il suo articolo traendo spunto dalla cronaca. Pur senza citarlo Sciascia mette alla berlina Leoluca Orlando ("sindaco che per sentimento o per calcolo comincia ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso"). Lo scrittore lancia una previsione: chi si opporrà a lui in consiglio comunale o nel partito sarà giudicato un mafioso. Se sul sindaco l'esempio è considerato ipotetico, sulla magistratura Sciascia si poggia su un dato che considera "attuale ed effettuale". La parte finale del lungo articolo si conclude con la pubblicazione di uno stralcio del Notiziario straordinario del Csm che in burocratese stretto comunica l'esito dell'assegnazione del posto di procuratore capo di Marsala a Paolo Borsellino alla luce "della particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare". L'illuminista Sciascia fa a pezzi la prosa ministeriale giudiziaria dell'intero passo e non si accorge di essere finito tra i conservatori difendendo il concetto di anzianità per la nomina al Csm fino a quel momento imperante a Palazzo dei Marescialli. Scrive Sciascia: "I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso". E' periodo caldo in Italia su quel fronte. Si attende la sentenza del maxiprocesso a Palermo istruito dal pool di Caponnetto. Chiaberge legge il contenuto e conia un titolo che resterà a futura memoria per usare una frase sciasciana: "I professionisti dell'Antimafia". Oggi, con il senno del poi, il celebre giornalista Chiaberge si pente di quella titolazione, come ha dichiarato in un'intervista del 2004 alla rivista "Scriptamanent" e in seguito ripresa dal sito "Bottegaeditoriale.it". Perché quel titolo come ben sappiamo è diventato uno slogan adoperato da uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglia in culo e quaquaraquà per screditare la magistratura antimafia che fa il suo dovere. Esplode una furibonda polemica con parole di fuoco da parte di Nando Della Chiesa, figlio del generale ucciso dalla mafia a Palermo, ma non è da meno neanche Giampaolo Pansa su Repubblica. La polemica consegna comunque notorietà negativa ad un serio magistrato come Paolo Borsellino che certamente non meritava una gogna mediatica di questo tipo. Per giunta firmata dall'intellettuale che con i suoi romanzi fino a quel momento aveva meglio svelato storia e natura psicologica della mafia. Un opinion leader che spesso al Paese aveva dato quella morale che la politica non aveva saputo mai far diventare senso comune. Borsellino si sentì molto ferito da quell'articolo. Anche per il magistrato il maestro di Racalmuto era stato un padre intellettuale. Sciascia con quella riflessione aveva procurato un vestito nobile a tutti i politici collusi con la mafia e ai professionisti della disinformazione che da allora potranno farsi scudo con l'ormai celebre definizione sintetizzata dal titolo di Chiaberge. Sciascia molto malato in quel periodo, aveva raccolto una soffiata da ambienti socialisti e radicali, impegnati in quella fase sul caso Tortora e sulla campagna sulla giustizia giusta. Sciascia, garantista autentico e disinteressato, evidentemente si era lasciato coinvolgere da suggeritori interessati. Lo comprenderà lo scrittore e in un'intervista alla rivista "Segno" correggerà la rotta nei confronti del magistrato. I due s'incontreranno per un chiarimento. Sciascia dirà personalmente a Borsellino, (che non conosceva quando scrive l'articolo), nel corso di un colloquio molto cordiale, che era stato ingiusto personalizzare sulla sua nomina e chiede scusa dell'accaduto. Borsellino nei giorni della polemica aveva detto alla sorella Rita: "Non posso prendermela con Sciascia, è troppo grande. Sono cresciuto con i suoi libri. E' stato malconsigliato e manovrato". Giuseppe Ayala in un libro di memorie sostiene che quell'articolo era giusto nei contenuti ma l'esempio su Borsellino profondamente sbagliato. Una tesi su cui concorda il giornalista e scrittore Alexander Stille: "Non era giusto mettere sullo stesso piano due figure diverse come Orlando e Borsellino". Un conto era la retorica della politica, un altro l'impegno giudiziario nella trincea infuocata della procura di Palermo. Tra l'altro Borsellino abbandonava la sua città per andare a lavorare in un difficile posto di provincia come Marsala. Aumentava le sue spese personali visto che era costretto a prendere in fitto un piccolo appartamento vicino il commissariato di Marsala recandosi a Palermo dalla famiglia solo nel fine settimana. Quindi il successo alla fine comportava per lui anche sacrifici economici e personali. Il vero successo è determinato dalla polemica che si apre sui giornali anche con grandi confusioni. Borsellino assunse un tono nobile ma fermo. In un'intervista rilasciata a Felice Cavallaro del Corriere della Sera, il neoprocuratore di Marsala che conquista all'epoca in maniera non voluta la scena nazionale, afferma: "Nutro preoccupazione per i segni di cedimento che avvertiamo in Sicilia. E' pernicioso che si allenti, adesso, la tensione, in qualsiasi modo e da qualsiasi parte. Non si è ancora capito che questo è un momento delicatissimo della lotta alla mafia". In molti infatti cominciavano a cambiare atteggiamento. Anche a Palermo il cardinale Pappalardo, il prelato delle omelie segnanti ai grandi funerali di Stato, aveva messo in guardia sulla spettacolarizzazione del maxiprocesso e aveva fatto riflessione sul fatto che l'aborto ammazza più innocenti della mafia. Nella stessa intervista Borsellino approfittava per informare gli italiani del suo curriculum di magistrato: "Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno". In quei giorni la polemica dimentica infatti i molti magistrati che avevano dato la loro vita nella lotta senza mediazioni contro la mafia. Il direttore del Corriere della Sera, il liberale Piero Ostellino, prima di lasciare il giornale nel suo ultimo editoriale difese lo scrittore e sostenne: "L'antimafia rischia di trasformarsi in una sorta di mafia, sia pure di segno contrario". Oggi sappiamo qualcosa in più sulla vicenda grazie ad una testimonianza affidata da Ostellino al volume curato da Antonio Motta, "Leonardo Sciascia vent'anni dopo". L'ex direttore del Corsera ricorda che quell'articolo metteva in evidenza i pericoli del "pensiero unico" sulla mafia considerato che chi non la pensava come i "professionisti" veniva giudicato come alleato "oggettivo" della mafia. Gli attacchi che hanno ricevuto Ostellino e Sciascia sono giudicati dal giornalista come "una porcata tipica di bigotti e farisei". Oggi Piero Ostellino ci fa sapere che dopo il suo abbandono Sciascia fu spinto a lasciare via Solferino approdando a La Stampa. Scrive Ostellino nella sua nota: "Il responsabile non fu il nuovo direttore, Ugo Stille, che di fatto manco si occupava della fattura del giornale, ma chi, dietro le quinte, ne dettava la linea, il classico radical-chic. Del quale non faccio il nome per carità cristiana e perché non mi piace criticare chi non può replicare perché è morto". Confesso che non riesco a capire chi è stato l'autore dello scempio. Mi resta da ricordare che Borsellino tornerà con la memoria a quell'episodio durante i drammatici 57 giorni che separano il botto di Capaci da quello di via D'Amelio, tornati drammaticamente attuali per le vicende della trattativa tra Stato e mafia. Nel suo ultimo intervento pubblico a Palermo, Borsellino sosterrà che Falcone aveva cominciato a morire quando "Sciascia bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'Antimafia". Recentemente la moglie del giudice ucciso, Agnese, sempre poco prodiga di parole e sempre misurate ad Attilio Bolzoni ha dichiarato: "Leonardo Sciascia vent'anni fa aveva capito tutto prima di altri". La figlia di Sciascia, Anna Maria, riflette nello stesso articolo di Bolzoni: "Il suo era solo un richiamo alle regole, ce l'aveva con quella direttiva del Csm e con una certa retorica dell'antimafia [...] Fu isolato solo perché aveva lanciato una riflessione sull'arbitrio, sul rischio che si creassero centri di potere, sull'intoccabilità dell'antimafia." Mi piacerebbe tanto conoscere oggi il parere di don Leonardo sulla trattativa, sulla strage di via D'Amelio e i condannati ingiustamente per quel mattatoio ordito da mafiosi e malacarne in divisa ed in toga. Ma di Sciascia in giro se ne vedono pochi, e di pari talento e coraggio di Borsellino non c'è notizia. A vent'anni dalla strage la cronaca è piena ancora di professionisti dell'antimafia.
Bisogna gridarlo ai quattro venti: la mafia ti rovina la vita; lo Stato ti ammazza la speranza!
Per coloro che dell’infamia e del vituperio fanno arte di vita: denigrando gli “infedeli”, riporto il pensiero del mio vate, che di mafia, egli sì era un dotto.
Leonardo Sciascia per zittire i corvi delle nostre vite, inibenti la sacra libertà.
…direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l'intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese. In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D'Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l'imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia. In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di "impiegati d'ordine"; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri "cavalieri d'industria"; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia. (da Il Globo, 24 luglio 1982 [...] pp. 24-25)
...La sicurezza del potere si fonda sull'insicurezza dei cittadini. (da Il cavaliere e la morte)
...Cattolici per modo di dire, mai conosciuto in vita mia, qui, un cattolico vero: e sto per compiere novantadue anni... C'è gente che in vita sua ha mangiato magari una mezza salma di grano maiorchino fatto ad ostie: ed è sempre pronta a mettere la mano nella tasca degli altri, a tirare un calcio alla faccia di un moribondo e un colpo a lupara alle reni di uno in buona salute. (da A ciascuno il suo)
....Il cretino di sinistra ha una spiccata tendenza verso tutto ciò che è difficile. Crede che la difficoltà sia profondità. (citato in Sergio Ricossa, Straborghese, Editoriale Nuova, Milano 1980)
....È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia un cretino. [...] e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto, tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l'olio e il vino dei contadini. [...] La nostra giornata è fatta, come tutta la vita, di misteriose rispondenze, di sottili collegamenti. [...] Quando c'è in giro tanta pietà per gli animali, pochissima ne resta per l'uomo. [...] Si è così profondi, ormai, che non si vede più niente. A forza di andare in profondità, si è sprofondati. [...] Soltanto l'intelligenza, l'intelligenza che è anche «leggerezza», che sa essere «leggera», può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità. [...] Tutti i nodi vengono al pettine. Quando c'è il pettine. [...] Un orologio che va male non segna mai l'ora esatta, un orologio fermo la segna due volte al giorno. Un'idea morta produce più fanatismo di un'idea viva; anzi soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte. (da Nero su nero)
....Ricordando una frase che è nella voce «letterati» del dizionario di Voltaire – «la più grande sventura dell'uomo di lettere forse non è quella di essere oggetto della gelosia dei colleghi, vittima dell'intrigo, disprezzato dai potenti; ma quella di essere giudicato dagli imbecilli» – possiamo aggiungere, ricordando questa frase, che Borgese ebbe, davvero in questo senso, «tutto»: tanti altri scrittori lo invidiarono, qualche intrigo fu ordito a suo danno, qualche potente lo disprezzò al punto di volerlo perdonare. Ma sopratutto ebbe quella che, secondo Voltaire, è la sventura maggiore: che molti imbecilli lo giudicarono e forse ancora, senza conoscerlo, continuano a giudicarlo. (Nota di Leonardo Sciascia a Le belle, p. 176)
Leonardo Sciascia (1921-1989). L’intransigenza di Leonardo Sciascia. «Scrivo solo per fare politica». «A ciascuno il suo». Il libro divenne un film diretto da Elio Petri con Gian Maria Volontè, scrive Felice Cavallaro il 7 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Bisogna scartabellare fra i cimeli del Museo del cinema di Torino per immergersi nel carteggio fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri, il regista che portò sul grande schermo A ciascuno il suo, il secondo giallo dello scrittore di Racalmuto dopo Il giorno della civetta. Contesti analoghi per raccontare già a metà degli anni Sessanta i disastri della corruzione e della mafia. Con un omicidio passionale trasformato in paravento per celare un mix di forze occulte impastate di mafia e omertà. Un intrigo «politico», nel solco di una vocazione enunciata fra le lettere della media-biblioteca piemontese. Materia prima per Petri, stupito dall’intransigenza di Sciascia nel carteggio analizzato da uno studioso universitario, Gabriele Rigola, autore di un saggio sulla rivista di studi sciasciani «Todomodo». Severa intransigenza espressa da Sciascia, dopo una intervista di Petri al «Popolo», nella lettera dell’8 settembre 1966, a ridosso delle riprese, contrariato dalla sbandierata scelta del regista di non fare un film «politico». E lui, il maestro di Regalpetra, con aria di rimprovero: «Io scrivo soltanto per fare politica: e la notizia che il mio racconto servirà da pretesto a non farne non può, tu capisci bene, riempirmi di gioia...». Immediata la replica di Petri, appena arrivato a Cefalù per le prime scene del film con Gian Maria Volontè, protagonista della storia ispirata dall’assassinio del commissario di polizia Cataldo Tandoj, caduto sei anni prima ad Agrigento. Romanzo che ruota attorno alla traduzione dal latino di «unicuique suum», frase stampata sulla lettera minatoria introdotta come reperto di indagine sin dalle prime pagine del racconto. E del film. Inquietante missiva composta con vocali e consonanti ritagliate da una copia de «L’Osservatore Romano». Petri legge e risponde ai colpi di fioretto. Si smusserà infine l’equivoco, ma intanto la replica è a prima vista stizzita: «Tu credi che quando sullo schermo appariranno i preti, i notabili, “L’Osservatore Romano”, tu credi che il film non sarà politico? Intendiamoci sulle parole, forse faremo prima: io, per politico, intendo ogni film che si presenti apertamente, massicciamente come libello, o come teorema politico, come un’opera sulla cui materia di ricerca, prevalga — incomba — una tesi politica, che in questo senso è propagandistica». E sempre più incisivo: «Potrei rovesciare il discorso così: volevo fare un film politico non didascalico». La stima era fuori discussione e Sciascia faceva precedere quel rimprovero da una convinzione: «Ho fiducia che farai un buon film, ma sarà in ogni caso un film che non avrà niente a che fare col racconto...». Considerazione confermata dopo aver visto il film, il 10 marzo 1967: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare che non c’è stato alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un’altra cosa». Emerge dal dialogo a distanza un’idea del rapporto e della libertà rivendicata per la scrittura di un libro e di un copione, convinto di «dover lasciare all’autore del film ogni possibile libertà, ma evitando accuratamente di diventarne complice». Puntualizzazioni taglienti. Sfumate tre mesi dopo nei progetti che lo scrittore anticipa parlando di un tema che troveremo ne Il contesto, da Francesco Rosi tradotto nel 1971 in Cadaveri eccellenti. Ma quattro anni prima Sciascia lo confida a Petri: «Caro Elio, sono quasi tentato di buttare giù, come soggetto, la mia storia dell’uomo che ammazza i giudici...». E Petri, allora trentottenne, si dannava: «Così è il cinema. Mi viene un grande sconforto se penso che a 50 o 60 anni mi troverò a dover affrontare sempre i medesimi problemi. Come si fa a convincere un produttore che una storia è bella, se non dopo averla realizzata?». Dieci anni dopo, sempre con Volontè, avrebbe trasferito sullo schermo Todo modo, ma intanto Petri si godeva i successi targati «unicuique suum». Inquietante collage sull’omicidio connesso a un mondo politico di funzionari corrotti e poteri forti, nel microcosmo di un paese siciliano, laboratorio di analisi politica e metafora proposta al Paese con la tecnica del giallo. Ma chi si aspetta un giallo in cui il detective incastra l’assassino resterà deluso. Perché a indagare è il professore d’italiano e latino Paolo Laurana armato con gli strumenti del sapere e della ragione, rifiutando assuefazione e tolleranza al delitto, al malaffare, alla connivenza di un intero paese. E il pessimismo sciasciano si specchia nel più bieco cinismo. Non a caso sul professore, ormai vicino alla verità e per questo ucciso, echeggerà l’arrogante epitaffio di uno dei personaggi, «un cretino». Come se connivenza e convivenza fossero intelligenza. Un contrasto per porre davanti all’opzione fra Bene e Male, il lettore e il cittadino. A cominciare dallo stesso Petri che nel carteggio non ha dubbi: «Nella scelta di un personaggio si parte sempre — e comunque — da un processo di identificazione: riderai, se ti dico che io mi sento un poco come Laurana?». Quesito capace di cancellare ogni equivoco, pur lasciando a ciascuno il suo.
Sciascia si misura con il Vangelo. Gli esercizi spirituali del potere. In «Todo modo», pubblicato nel 1974, la decadenza della classe dirigente, ma anche una riflessione profonda sulla natura del messaggio cristiano, scrive Carlo Vulpio il 14 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Succede, ai grandi. E succede con precisione aritmetica a quei grandi che diventano dei classici quando ancora sono in vita. Com’è accaduto a Leonardo Sciascia, che con il passare degli anni, e soprattutto dopo la sua morte, avvenuta nel 1989, non si è mai più liberato della pletora di sciasciani (e passi) e di sciascisti (e qui, le cose si complicano, perché dall’esegesi all’arte divinatoria il passo è breve), che spesso gli hanno fatto dire cose che non ha detto e non si sono invece accorti di quelle che ha detto, e a volte ha pure ripetuto con insistenza. Prendiamo Todo modo, per esempio. Pier Paolo Pasolini disse che questo è il miglior romanzo di Sciascia. E in effetti lo è. Non perché lo abbia detto Pasolini, ma perché chi abbia frequentato Sciascia sine ira ac studio non può che ritrovarsi a dare lo stesso giudizio. Tutti i libri di Sciascia sono magnifici per i temi che trattano e per come vengono trattati: il bene e il male, la libertà e il potere, la legge e la giustizia, l’uomo e Dio, l’apparenza e la realtà, la verità e la menzogna, la mafia e l’antimafia, il dubbio e il dogma, l’individuo e lo Stato, ma Todo modo li contiene tutti, e dopo quarantadue anni (fu pubblicato da Einaudi nel 1974) ha la stessa freschezza, non perché sia «attuale» — questo schiacciamento sulla «attualità» rischia anzi di tradursi in una diminuzione —, ma perché parla alla nostra coscienza, alla nostra intelligenza, alla nostra natura miserabile di uomini con la forza di un «classico», cioè di un’opera originale, imprescindibile, valida sempre, quasi un canone, da poter quindi essere persino imitabile, ma unica, irripetibile. Todo modo è la locuzione iniziale della massima di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine dei Gesuiti — Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina, «Qualunque mezzo per cercare e trovare la volontà divina» — ed è lo scopo dichiarato o quanto meno apparente di don Gaetano, il prete protagonista del romanzo, che guida gli esercizi spirituali di alti esponenti della classe dirigente del Paese riuniti in un albergo-eremo siciliano. Nel quale tutto accade, compresi tre omicidi, anch’essi apparentemente senza colpevoli, fuorché l’elevazione spirituale dei partecipanti, descritti come «figli di puttana» costretti da don Gaetano a recitare il Rosario andando su e giù in fila. Sono ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali, «quella che si suole chiamare classe dirigente e che in concreto cosa dirigeva? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro». Il potere come dominio, certo, quel «cummannari è megghiu ca futtiri» («comandare è meglio che scopare»), proverbio siciliano di portata universale che Sciascia cita in altre sue opere, ma anche il potere come trappola per gli stessi suoi detentori, che esercitandolo se ne inebriano, fino a non riuscire più a farne a meno, come tossicodipendenti. Quando, due anni dopo l’uscita del libro di Sciascia, Elio Petri ne trasse il film omonimo, tutti concordarono che era del personale politico democristiano degli anni Settanta che si narrava, perché allora la Dc era il partito-Stato, mentre tutti gli altri, più o meno, se non potevano andare assolti, erano estranei a questa microfisica del potere tutta democristiano-cattolica. Vero. Ma anche sbagliato. E infatti il film di Petri, per quanto ben fatto, non è all’altezza del Todo modo Sciascia, perché schiaccia un classico sull’attualità del momento e ne depotenzia la universalità. Perché universale è il messaggio cristiano e il discorso sul cristianesimo, e dunque sull’uomo e sul suo rapporto con i suoi simili e con Dio, che pervade il romanzo. Sia quando questo discorso ricorre ai paradossi: «I preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, si deve più ai preti cattivi che ai buoni»; sia quando approfondisce la riflessione sul cristianesimo che crede, sbagliando, «che Cristo abbia voluto fermare il male», mentre, scrive Sciascia, Gesù Cristo ha rovesciato questo convincimento, poiché «nella sua vera essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è permesso. Delitto, dolore, morte». Delitto, dolore, morte non sono soltanto rubriche del codice penale — di cui anche in Todo modo, come in altri romanzi, si occupa un magistrato supponente e mediocre —, ma sono anche gli effetti di quel «maneggiare e modellare come cera» la coscienza altrui, come fa don Gaetano, e come fa, appena ne abbia la opportunità, chiunque eserciti una qualsiasi forma di potere. Tanto negli anni del partito-Stato, quanto (e forse anche peggio) nell’era del web «libero», anzi a «democrazia diretta», che per i suoi «esercizi spirituali» non ha nemmeno bisogno di organizzare incontri in qualche appartato albergo-eremo. Come uscirne? Sciascia, ancora una volta, gioca con le parole, rovescia i concetti, ribalta il senso comune. E invita, anzi istiga il lettore a fare altrettanto. Cummannari? E se invece fosse la libertà la parola chiave? «La libertà è megghiu ca futtiri»: non suona meglio, non è persino più efficace? Dice Giovanni nel suo Vangelo: «La verità vi farà liberi». Ma se rovesciamo anche queste parole non otteniamo: «La libertà vi farà veri»? Può anche darsi che non basti. Ma in Todo modo, quando accade che prevalga la libertà, nemmeno don Gaetano può farci niente.
Sciascia e quello sguardo profetico. Lo scrittore che inaugurò un genere. L’autore aprì gli occhi della letteratura su guasti di società e politica e ne rivelò vizi segreti e pubbliche immoralità. Il «Corriere» lo celebra con un’iniziativa editoriale, scrive Felice Cavallaro il 25 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Ricorre spesso un aggettivo quando si discute di Leonardo Sciascia. E succede anche ad Andrea Camilleri di usarlo per dire che il suo amico nato, come lui, a due passi dalla Girgenti di Luigi Pirandello era «profetico». Basta scorrere anche solo i titoli dei libri, in gran parte scritti nella sua casa di campagna, in Contrada Noce, fra le vigne, i pini e i mandorli di Racalmuto, per cogliere questa straordinaria capacità di prevedere con grande anticipo gli sviluppi spesso devastanti della società italiana. Questo manca a Camilleri: «Sciascia aveva la capacità di intervenire costantemente sui nodi della società italiana, non solo sulla politica. Acuto nel prevedere, interpretare, anticipare. I suoi romanzi sono lì. Io, quando ne ho bisogno, spesso, me li rileggo. Mi manca però la risposta di Sciascia alle domande di oggi». Una risposta talvolta ignorata in passato. E i libri da leggere o rileggere stanno lì, a provarlo. L’Italia scopre Tangentopoli nel 1992 ma Sciascia aveva messo tutti in guardia dalla mala politica parlandone trent’anni prima con L’onorevole, descrivendo compromessi e arricchimento di un deputato, con sorpresa della sua stessa moglie. Affresco della corruzione negli anni Sessanta, oggi decantati come gli anni del boom. Un allarme inascoltato. Lo Stato capisce nel 1982, con il sacrificio di Pio La Torre, seguito da quello di Carlo Alberto dalla Chiesa, che bisogna mettere le mani nei portafogli dei mafiosi, ma con Il giorno della civetta, vent’anni prima, Sciascia suggeriva la via da battere, quella di assegni, flussi finanziari, banche. Ed è così per una vasta produzione che resta attualissima, al di là di ogni odiosa polemica talvolta riproposta sui cosiddetti «professionisti dell’antimafia», materia oggi sulla bocca di tanti, delusi da false icone frettolosamente pompate anche dai media. È il tema dell’impostura analizzato nel romanzo che ha per protagonista l’Abate Vella, il cappellano dei Cavalieri di Malta, un fanfarone artefice della grande menzogna che, però, osserva con diffidente pessimismo Sciascia, talvolta si mostra più forte della verità. Un suggerimento a essere guardinghi. Come fu lui davanti ai voltagabbana del dopoguerra. Come provò ad anticipare per quanto rischiava di avvenire perfino nel pianeta antimafia, quando erano inimmaginabili le scivolate di tanti falsi eroi del Bene. Tema di forti contrasti con posizioni spesso osteggiate. Come accadde per la difesa di Enzo Tortora e per la necessità di trattare la liberazione di Aldo Moro. Tormentate pagine vissute da Sciascia anche da deputato del Partito radicale, dopo una brevissima esperienza di consigliere comunale eletto a Palermo nelle file del Partito comunista italiano. Aggrappato sempre alla ragione come religione di riferimento. Anche contro la fanatica caricatura della religione trasformata in strumento di potere, di oppressione. Illustrata da Sciascia in Morte dell’inquisitore. La storia di Fra Diego La Matina, frate a Racalmuto, il presunto eretico che, recluso nelle segrete, riesce a uccidere con in suoi ferri l’inquisitore durante l’interrogatorio o, meglio, durante la tortura. Le maggiori intuizioni anticipatrici restano quelle descritte nei libri a sfondo politico. A cominciare da Il contesto, un apologo della travagliata situazione italiana all’inizio degli anni Settanta quando l’ispettore Rogas, davanti a subbugli di «gruppuscoli» e delitti in quantità, scopre l’immaginario (ma non troppo) «partito rivoluzionario» essere tessera bene inserita nel sistema o sistema esso stesso. Come Sciascia con implacabile ironia lascia sussurrare al vicesegretario: «Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione...». Un affronto per politici e intellettuali allora organici o contigui a Sinistra e movimenti extraparlamentari, tutti pronti a scagliarsi contro l’eretico Sciascia. Una prova per lui, visto che si apriva con Il contesto la stagione più sperimentale e innovativa della sua attività, quella di Todo modo e Candido, della Scomparsa di Majorana e L’affaire Moro, di Nero su nero o Cruciverba, come osserva Paolo Squillacioti, lo studioso che cura per Adelphi l’opera completa di Sciascia, sulla scia del curatore delle opere in Francia, Claude Ambroise, e del biografo del «Maestro di Regalpetra», Matteo Collura. Se Il contesto può essere considerato una impietosa radiografia del Pci quando era tempo di intellettuali organici, l’altra chirurgica zoomata di Sciascia sugli intrighi politici del mondo democristiano è Toto modo. Lo scrittore affonda il bisturi fra i vizi di dirigenti politici, banchieri, prelati e industriali, tutti all’opera fra le varie correnti di partito. Un affresco su lobby, logge e parrocchie che rende attualissima la lettura dell’autore delle Parrocchie di Regalpetra, il testo pubblicato sessant’anni fa dopo un carteggio con Vito Laterza, proprio in questi giorni in mostra a Racalmuto, nella Fondazione che Sciascia avrebbe voluto intitolare a Fra Diego, l’eretico.
Sciascia, lo sguardo sulla Sicilia: un rigore lucido ed eretico. A chi vuole narrare la mafia, l’autore ha lasciato soprattutto un metodo di lavoro. Ma la lezione più grande è un’altra: solo la finzione letteraria restituisce la verità, scrive Alfio Sciacca il 28 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Sosteneva Leonardo Sciascia: «Lo scrittore è un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia il piacere di vivere. Anche quando rappresenta cose terribili». Tutto semplice, apparentemente. Se non fosse che nel far «vivere la verità» il maestro di Regalpetra ha finito per trasformarsi in una sorta di «cattivo maestro». Come lo sono quanti svelano cose autentiche, che spesso sono laceranti. Generazioni di siciliani sono cresciute leggendo i libri di Sciascia, in un continuo gioco di specchi in cui sentirsi, allo stesso tempo, registi, attori e comparse delle sue trame. E molti ne hanno tratto anche lezioni di impegno civile da trasferire nella vita e nel lavoro. La prima: essere testimoni del proprio tempo, perché in ogni piccola Regalpetra si può scoprire il mondo. C’è poi la straordinaria capacità di lettura del fenomeno mafioso in una terra che negli anni Sessanta ne negava ancora l’esistenza e l’intuizione del salto di qualità che stava compiendo nel passaggio dalla campagna alla città. Anticipo di quella «mafia imprenditrice» che è la forma più corrosiva assunta da Cosa Nostra. A chi in qualche modo si è trovato a raccontare la Sicilia e, di conseguenza, a scrivere di mafia, Sciascia ha offerto soprattutto un metodo di lavoro: indagare sempre in modo asciutto e senza forzature ideologiche. Non a caso le parole che più si ricordano de Il giorno della Civetta sono pronunciate da un mafioso, don Mariano Arena, con la sua classificazione dell’universo umano in «uomini, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà». Curiosità e attenzione che non è certo fascinazione o cedimento morale. Approccio che non è mai piaciuto a certi «professionisti dell’antimafia», ossessionati da un manicheismo di maniera se non di comodo. C’è infine (ed è veramente tanto) il rigore della narrazione, la cura dei dettagli, i dialoghi e le ambientazioni che sono vere e proprie sceneggiature. Tutti insostituibili strumenti di lavoro. Ma quando ci si illude di aver in mano quello che serve per decifrare la Sicilia si scopre, forse, la più lacerante delle lezioni lasciate da Sciascia. E prima di lui da Federico De Roberto e Tomasi di Lampedusa. In Sicilia c’è una sola arma che ti permette veramente di inchiodare i colpevoli e di rendere giustizia alle vittime. E non è la cronaca, l’inchiesta o l’indagine sul campo, ma il romanzo e la costruzione apparentemente di fantasia. Solo la finzione letteraria restituisce verità palesi che invece evaporano quando si pensa di averle afferrate. In Sicilia giornalisti, ricercatori, poliziotti, magistrati (ognuno nel loro campo) a un certo punto sperimentano la strana sensazione di perdersi. Per la semplice ragione che mettere in fila i fatti non sempre porta alla verità. E anzi, troppo spesso, la verità ufficiale è autentica impostura. Forse questo intendeva Sciascia per far «vivere la verità». E così si torna ai suoi libri. L’unico modo per dar pace ai tanti professor Laurana (A ciascuno il suo) che inseguono la verità tra complici e collusi morendo da «cretino». O rendere giustizia a chi come l’avvocato Di Blasi (Il Consiglio d’Egitto) ha la colpa di aver scoperto l’impostura dell’abate Vella e che per questo finisce decapitato. Perché spesso l’impostura è sistema. «Se in Sicilia la cultura non fosse impostura — dice Di Blasi —. Se non fosse strumento in mano al potere baronale e quindi continua finzione e falsificazione della realtà e della storia, l’avventura dell’Abate Vella sarebbe impossibile». Non ci sono colpevoli anche tra potenti e prelati nell’eremo di Zafer (Todo Modo) e chi indaga finisce per sentirsi più colpevole dei colpevoli. Mentre dunque Sciascia rende «semplice ciò che è complesso», grazie al registro del racconto, a molti siciliani lascia il senso di frustrazione in una terra che, ancora oggi, stenta a distinguere tra vittime e i carnefici e non ha certo risolto i suoi problemi anche dopo aver mandato in galera migliaia di mafiosi. E non occorre andare oltre lo scenario siciliano (Il Contesto, Il caso Majorana) per aggiungere inquietudine a inquietudine. Per questo Sciascia ha finito per trasformarsi in un fantastico tormento che spesso ci fa essere sagaci conversatori da salotto, incapaci però di incidere sulla devastazione che affligge la Sicilia. Tormento che forse ha sperimentato lo stesso Sciascia quando si è cimentato con la politica o l’attività pubblicistica. Una trappola che non perdona. In fondo cos’è la polemica sui «professionisti dell’antimafia»? Con decenni di anticipo Sciascia denuncia una verità scandalosa: l’antimafia usata come strumento di potere e carriera. Ma per dare sostanza all’analisi è costretto a fare un nome, quello di Paolo Borsellino. Un dettaglio veramente diabolico che (nonostante tutti i chiarimenti) sarebbe sufficiente per mandare al rogo l’eretico che vede in anticipo la luce accecante della verità.
Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).
Sciascia: «Scrivo solo per fare politica», scrive il “Il Giornale”, venerdì 05/02/2016. Due modi di intendere l'arte. E anche due modi di intendere la politica. Fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri la stima correva spedita in entrambe le direzioni, ma con prospettive senza dubbio differenti. Il dato emerge dalla pubblicazione, sulla rivista di studi sciasciani Todomodo (Olschki editore), dell'epistolario fra lo scrittore di Racalmuto e il regista romano. Siamo fra il 1966 e il '67 e il tema del confronto è il film A ciascuno il suo, tratto dall'omonimo romanzo. «Ho fiducia - scrive Sciascia l'8 settembre '66 - che farai un buon film, ma sarà in ogni caso, un film che non avrà niente a che fare col racconto. Il mio personale rammarico (che tu hai già avvertito e dichiarato: e mi riferisco all'intervista pubblicata sul Popolo) riguarda soprattutto la tua intenzione di non fare un film politico. Io scrivo soltanto per fare politica: e la notizia che il mio racconto servirà da pretesto a non farne non può, tu capisci bene, riempirmi di gioia». Due giorni dopo, ecco la risposta di Petri: «Potrei rovesciare il discorso così: volevo fare un film politico non didascalico. Tu credi che quando sullo schermo appariranno i preti, Rosello, i notabili, l'Osservatore Romano, tu credi che il film non sarà politico? Intendiamoci sulle parole, forse faremo prima: io, per politico, intendo ogni film che si presenti apertamente, massicciamente come libello, o come teorema politico, come un'opera sulla cui materia di ricerca, prevalga - incomba - una tesi politica, che in questo senso, è propagandistica». Sciascia comprende ma non si adegua, il 2 ottobre successivo: «Nel mio atteggiamento nei tuoi riguardi non c'è stata altra ragione che quella dell'autore di un libro che ritiene di dover lasciare all'autore del film ogni possibile libertà ma evitando accuratamente di diventarne complice». Il 22 febbraio '67 uscì il film di Petri, e il 10 marzo Sciascia resta sulle proprie posizioni: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare, in tutta sincerità, che non c'è stato tra noi alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un'altra cosa». Dieci anni dopo, un altro film di Petri tratto da un libro di Sciascia parrà a tutti decisamente più politico (in senso sciasciano) del primo: Todo modo. Anche questa volta con nel cast Gian Maria Volonté, il più grande attore «politico» d'Italia.
Sciascia, lo scrittore che volle farsi immortale. L’eterno trasformismo. La nascita dell’antipolitica. Il cambio di editori. Una meditazione sull’ars moriendi. L’uscita dei "saggi sparsi" rivela gli aspetti più nascosti dello scrittore siciliano, scrive Piero Melati il 4 febbraio 2016 su “La Repubblica”. Zolfo. Piombo. Inchiostro. Di queste tre elementi è fatta l’immaginaria città di Regalpetra. Del primo elemento, scrive Leonardo Sciascia nel 1975, a proposito della sua nativa Racalmuto: «Tutto ne era circonfuso, imbevuto, segnato». L’aria, l’acqua, le strade: «Scricchiolava vetrino sotto i piedi». Ci si friggeva anche il pesce, nello zolfo. Per circa due secoli la Sicilia ne ebbe il monopolio. Era il petrolio dell’epoca. Nel 1834 l’isola contava 196 miniere. Per oltre un secolo, ci morivano i carusi. A salvarli, più che la legge, fu l’avvento dell’energia elettrica. Il secondo elemento di cui è fatta Regalpetra è il piombo. Quando Sciascia nacque (1921) Racalmuto era il Far West: «Una lite per confini o trazzere fa presto a passare dal perito catastale a quello balistico». Poi c’era la mafia. E infine, ricorda il biografo di Sciascia, Matteo Collura, «le campagne erano un brulicare di doppiette», per via della caccia. Lo stesso Sciascia era stato uno sniper: «Con un fuciletto ad aria compressa, a dieci metri, colpivo la capocchia di uno spillo». L’inchiostro, infine. «Ne ricordo anche il sapore. Forse qualche volta l’ho bevuto». Ed è l’inchiostro della scrittura ad aver trasformato la Racalmuto reale in Regalpetra la fantastica, ad aver trasmutato il piombo in zolfo, e poi lo zolfo in oro. Le parrocchie di Regalpetra, l’esordio che nel 1956 trasformò un comune insegnante in Sciascia, compie sessant’anni. A undici dalla pubblicazione lui spiegò: «È stato detto che nelle Parrocchie sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io. Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno». Sciascia, dunque, ha scritto un solo libro, sempre dedicato a quel «gomitolo di vicoli» che dista 16 miglia dal mar africano e 68 da Palermo, che ricapitola tutto l’universo. Lo scrittore, nel ‘79, aggiungerà: «La Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani, ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo». Un anno prima Sciascia aveva ultimato un saggio. Lo aveva titolato Fine del carabiniere a cavallo. Il saggio apre il volume di scritti sparsi che Adelphi (con questo stesso titolo) va a pubblicare. Il curatore dell’opera, Paolo Squillacioti, avverte: «Raccogliere tutto Sciascia è molto difficile. Sono infatti quasi 1.400 gli scritti dispersi». Eppure serviranno tutti per conoscere quell’unica storia che Sciascia per tutta la vita scrisse ed ampliò. In un illuminante ritratto di Alberto Savinio, contenuto in questa raccolta, lo scrittore sottolinea: «Sono riuscito a mettere insieme tutti i suoi libri. Ma tutti i suoi libri non fanno “tutto Savinio”: bisognerà raccogliere tutti i saggi, gli articoli e rendersi conto che si tratta, dopo Pirandello, del più grande scrittore italiano di questo secolo».
Sciascia le illusioni di un impolitico. Mai comunista, ma sempre vicino e litigioso con il Pci. Un libro di Emanuele Macaluso. Lo scrittore Leonardo Sciascia in un ritratto di Paolo Galetto, scrive Marcello Sorgi il 12/10/2010 su “La Stampa”. Leonardo Sciascia è diventato un classico, e tutte le sfaccettature della sua complessa personalità artistica, letteraria, intellettuale, sono state ormai sviscerate. Mancava, invece, un’analisi dello Sciascia politico, non solo della sua breve esperienza parlamentare alla Camera con i radicali nel periodo 1979-’83, ma dell’aspetto propriamente e politicamente incisivo della sua opera, in rapporto alla sinistra italiana e in particolare al Pci. A questa lacuna viene ora a porre rimedio il libro di Emanuele Macaluso Leonardo Sciascia e i comunisti (pagg. 160, Feltrinelli), in libreria da domani. Con una tesi che farà nuovamente discutere, a vent’anni dalla scomparsa di uno scrittore già molto discusso in vita. Basandosi sull’amicizia, la conoscenza e la conterraneità durate per quasi mezzo secolo, Macaluso, a lungo dirigente di primo piano del Pci siciliano e di quello nazionale, formula infatti la tesi che Sciascia, pur animato da sincera passione civile, fosse in realtà un impolitico. E che in questa chiave si possano spiegare anche le molte illusioni, e le troppe e repentine delusioni, a cui andò incontro. Sciascia non fu mai comunista, ma nella Caltanissetta della gioventù fu amico di molti comunisti, tra cui lo stesso Macaluso, e portato, come antifascista, ad approssimarsi al Pci. Un Pci che immaginava risolutamente all’opposizione, e nella Sicilia in cui l’alleanza tra mafia e Dc era palpabile, dichiaratamente anti-democristiano. Per lui «potere» e «delitto» erano due entità inscindibili, e in particolare il potere «senza ragioni ideologiche e volto ad assimilare, a degradare e a corrompere perfino le forze che gli si oppongono o che gli si dovrebbero opporre». Una visione così pessimistica, all’inizio degli Anni Settanta, è al centro del Contesto, uno tra i suoi più famosi romanzi, che lo portò diritto in collisione con il Pci. Sciascia aveva intuito, in anticipo sul Berlinguer del «compromesso storico», che la collaborazione con le forze di governo avrebbe portato la sinistra a una degenerazione dei propri valori e dei propri comportamenti. In realtà Sciascia aveva cominciato a prendere le distanze dal partito ancora prima, alla fine dei Cinquanta, ai tempi della famosa «Operazione Milazzo» con cui i comunisti siciliani, alleandosi perfino con il Msi, avevano mandato all’opposizione la Dc. Sul Corriere della Sera era arrivato a definire «di impronta mafiosa» il governo milazzista voluto proprio da Macaluso, che in quegli anni dirigeva il Pci siciliano. Qui salta agli occhi la prima contraddizione dello scrittore, che non nascondeva affatto questo aspetto del suo carattere (volle per sé un curioso epitaffio: «contraddisse e si contraddisse»). Se Sciascia era davvero, e prima di tutto, contrario alla Dc, come non si stancava di ripetere, perché attaccò il Pci l’unica volta che era riuscito a mandarla all’opposizione, e invece, pur restando critico, si schierò con i comunisti al momento del «compromesso»? L’adesione militante (pur senza tessera) dello scrittore alla campagna elettorale del 1975, solo poco tempo dopo le stroncature subite dai giornali e dalla cultura comunista al Contesto, resta inspiegabile per Macaluso, contrario all’accordo con i democristiani soprattutto in Sicilia, dove significava venire a patti con la parte più confinante con la mafia. Eppure, in quell’ambito, Sciascia si muove senza remore: «A chi mi conosce personalmente o attraverso quello che scrivo, appare chiaro che non potevo trovarmi altrove - dice nel discorso che annuncia la candidatura al Consiglio comunale di Palermo, ma rivela la consapevolezza che molti possano non aspettarsela -. Il fatto che io abbia avuto spesso degli attacchi più da sinistra che da destra, da certi luoghi del Pci più che da altri partiti, dimostra che io sono più vicino al Pci che a qualsiasi altro partito». È lo stesso Sciascia che s’è battuto fino ad allora contro le debolezze e le acquiescenze del Pci, che in una famosa polemica con Giorgio Amendola, poi rinnovata con Ugo La Malfa, ha attribuito ai comunisti parte della responsabilità dell’avanzata del Msi e della rinascita di una cultura di destra nel 1972. Ancora, lo stesso Sciascia che aveva criticato i dirigenti comunisti degli Anni Cinquanta, responsabili della svolta milazzista, adesso scopre i «giovani dirigenti» che stanno per allearsi con la Dc paramafiosa di Gioia e di Lima. Ma conoscendone l’integrità morale e l’assoluta buona fede, Macaluso ricorda di aver pronosticato breve durata per quel fragile coinvolgimento, di averne pure parlato con Berlinguer, per metterlo in guardia da una rottura che quando avverrà, di lì a poco, sarà clamorosa. Oltre alla noia delle sedute notturne del Consiglio comunale e all’isolamento che avverte tra i politici di professione, Sciascia, infatti, a un certo punto, si sente usato e preso in giro. Ne verrà un risentimento inesauribile. E un incidente piuttosto imbarazzante tra il segretario comunista e lo scrittore, intanto approdato alla Camera con i radicali. In un pranzo a tre con Renato Guttuso, Berlinguer accennò alla possibilità che le Brigate Rosse, durante il caso Moro, avessero potuto godere di appoggi logistici da parte della Cecoslovacchia. Sciascia utilizzò questa confidenza in Parlamento, nella commissione d’inchiesta sul sequestro. Berlinguer querelò lo scrittore, che a sua volta lo controquerelò, ma fu smentito da Guttuso, schieratosi per disciplina con il leader del partito. Così, oltre al rapporto con il Pci, si ruppe anche l’amicizia tra due grandi siciliani. Gli ultimi anni di Sciascia sono quelli delle famose polemiche sul processo alle Br di Torino, in cui lo scrittore si schierò a favore dei cittadini che si rifiutavano di fare i giurati popolari, condividendone il senso di sfiducia nello Stato, e sui «professionisti dell’Antimafia». Sciascia subì nuovi durissimi attacchi non solo da sinistra, ma dalla parte più militante dei giornalisti, degli intellettuali e della società civile, nonché dai Comitati Antimafia, da cui il Pci non volle mai prendere le distanze per difenderlo. Macaluso descrive un partito ingessato dalla necessità di «non delegittimare la magistratura» e Natta, il successore di Berlinguer, incapace di sviluppare una sua posizione autonoma sui lati oscuri e sugli eccessi del pentitismo. Il racconto della solitudine di Sciascia negli ultimi giorni della sua vita è toccante, come quello dell’addio tra i due vecchi amici. Ma adesso che sono passati vent’anni - conclude l’autore - perché la sinistra non prova a riscoprire Sciascia, sottraendolo all’ingiusta appropriazione che ne sta consumando la destra?
Leonardo Sciascia, nel 1963 denunciava il cretino di sinistra, scrive il 27 maggio 2009 Iacolare Francesco Saverio. Il grande scrittore siciliano, Leonardo Sciascia, nel 1963 scopriva il verificarsi di un evento senza precedenti: l’ascesi del cretino di sinistra. Fino a quell’epoca, i cretini erano solo di destra.Il grande Leonardo Sciascia diceva: “i cretini di sinistra sono molto più pericolosi di quelli di destra perché alla loro imbecillità si aggiunge il fanatismo per il potere e il disprezzo per il governo”. Sono trascorsi 45 anni e un intellettuale del calibro del prof. Gianfranco Pasquino, molto apprezzato dalla sinistra che conta ha dichiarato:” Alla sinistra riesce bene tenersi stretto il potere”. Accusa il PD di ricusare ogni forma di cambiamento perché quella attuale garantisce, comunque, di conservare il potere che possiede. Pronostica che le prossime elezioni amministrative di maggio di Bologna saranno vinte dal centro destra. Siamo di fronte ad un apparato di mostruosità privo della più elementare forma di dignità. Infatti, la Finocchiaro si dichiara disponibile per la segreteria al posto dell’inutile Veltroni. D’Alema ha la sua televisione e crede di essere il padrone del partito, non sopporta di stare nell’ombra come tale, preferisce il ruolo della prima donna. L’anima comunista non è mai morta nel cretino di sinistra, aveva ragione Leonardo Sciascia. Il momento drammatico di crisi, che offende milioni di italiani nella dignità sociale, è una questione che non appartiene alla sinistra. Essa è sempre contro a prescindere perché non ha cultura di governo, ma solo di potere. In un ‘Italia che vive momenti drammatici di caduta etica e morale, ove l’economia è stata ridotta a squallida operazione finanziaria, priva di produzione reale, solo ricchezza virtuale, la sinistra invece di proporre vie di soluzioni condivise, armata dall’eterno odio, contro chi governa propone lo sciopero generale senza consultare la base, non solo, ma contro la volontà di tutti i sindacati. Questa becera sinistra non è la vera sinistra, questa predica ancora l’odio di classe, nonostante i suoi dirigenti possiedano panfili come Ulisse II e casa a New York. Bravi, Veltroni e D’Alema. Il cretino di sinistra vuole avere sempre ragione. Egli è di una superiorità intellettuale indiscutibile perché ignora l’altro, anzi lo disprezza. La sinistra ha sempre conquistato il potere con l’infallibile arte di fottere il suo interlocutore. Il popolo è sempre stato il paravento sociologico dietro il quale nascondersi compiendo poi le nefandezze del potere. Una sinistra senza dignità che nega perfino il pentimento e la conversione del fondatore del comunismo, che alla fine dei suoi giorni, illuminato dalla Grazia, ha chiesto la presenza di un sacerdote per chiedere il Viatico per l’ultimo viaggio. Questa negazione rappresenta lo sbando totale del cretino di sinistra che abita tra noi. Uno sbandamento provato dall’occupazione delle istituzione che detiene come potere, incapace di governare. I poveri cattolici si sono fatti fagocitare dall’illusione di ciò che non esiste, non si sono ancora resi conto che i loro compagni di viaggio non potranno mai diventare democratici, essi sono privi della cultura dell’alterità, quella cultura che ti permette di riconoscere il volto di chi ti guarda, come il volto del fratello che cerca aiuto. La nostra sinistra non conosce il fratello, conosce il compagno, perché nega l’esistenza del Padre. Oggi cosa resta della sinistra? La squallida ipocrisia di sempre, l’odio per chi non pensa con le loro aberranti categorie mentali, il limite del confronto di chi pensa al di sopra degli schemi, in modo particolare il terrore e la paura con la Trascendenza perché incapaci di un atto di umiltà come quello di Gramsci. L’odio di D’Alema nei confronti di Veltroni è stato evidenziato da E. Scalfari, il quale ha detto che sta lavorando per denigrare il segretario Veltroni. L’amico di merenda di D’Alema, Latorre, accusa Veltroni di praticare una politica fallimentare. Povera sinistra, ma quale sinistra? Quella degli “utili idioti”, una formula inventata da Lenin, ripetuta da Stalin, Gramsci, Togliatti per indicare coloro che dinanzi alla storia hanno firmato un’adesione contraffatta di una stupida disponibilità nel nome del potere. Certo non bisogna cretinizzare tutta la sinistra. Vi sono uomini di grande dignità e intelligenza, questi non vanno confusi con gli attuali qua qua ra qua in cerca del potere. Questi uomini che hanno a cuore la salvaguardia della dignità dei nuovi poveri bisogna rivolgere l’appello di cercare insieme nuove soluzioni possibili per il bene di tutti i bisognosi. Purtroppo la “sensibilità “della ricchezza non incontrerà mai l’ascolto della dignità del povero. Continuare a parlare, oggi, di destra e di sinistra è una grave offesa alle intelligenze a dimensioni planetarie .Noi abbiamo un ferito grave assalito dai briganti sulla strada di Gerico, dobbiamo aspettare il samaritano ,oppure tutti vogliamo essere dei samaritani. Francesco Saverio Iacolare.
Da quello di Sciascia a quello su Twitter, genealogia del cretino moderno, scrive di Guido Vitiello il 19 Novembre 2012 su “Il Foglio”. Non ci sono più i cretini di una volta. Leonardo Sciascia li ricordava quasi con rimpianto: quei bei cretini genuini, integrali, come il pane di casa, come l’olio e il vino dei contadini. La loro scomparsa seguì a breve giro quella delle lucciole, e chissà che tra i due fenomeni non ci sia un nesso misterioso. Poi venne l’epoca della sofisticazione, per gli alimenti come per gli imbecilli: “E’ ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino”, annotava sconsolato in “Nero su nero”. A rendere possibile questa confusione incresciosa, a intorbidare le acque era stata l’improvvisa disponibilità di gerghi intimidatori dietro cui far marciare le banalità più indifese. Sciascia sceglie una data convenzionale, il 1963, anno in cui comincia l’ascesa, a sinistra, di un tipo nuovo di cretino, il cretino “mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare”. Si annunciava la stagione d’oro del cretino dialettico, operaista, maoista, strutturalista, althusseriano, insomma il cretino a cui Paolo Flores d’Arcais e Giampiero Mughini avrebbero eretto il monumento del “Piccolo sinistrese illustrato”. Sciascia era persuaso che il più insidioso mascheramento della stupidità fosse la complicazione non necessaria, l’arzigogolo, e scelse per metafora il berretto di Charles Bovary: Flaubert impiega mezza pagina a descriverne la fattura assai composita, per concluderne che in fin dei conti somigliava alla faccia di un imbecille. Altri tempi, altri cretini. Oggi quel tipo lì lo riconosci a vista, i gerghi non gli fanno più da scudo, anzi ne segnalano a colpo d’occhio la cretinaggine, irraggiandola in ogni direzione come l’evangelica lampada sul moggio. Certo, vanta ancora le sue glorie mondane, scrive i suoi trattati, assiepa i suoi vaniloqui, fonda le sue rivistine, raduna attorno a sé i suoi circoletti (pur predicando, magari, di “moltitudini”), ma tutto sommato è facile impedirgli di nuocere. Sono altri, quelli da cui dobbiamo guardarci. Oggi il cretino, a destra come a sinistra, sembra aver ritrovato la sua originaria semplicità e una perversa concisione. Ma attenzione a non confondersi, è una semplicità contraffatta, una sofisticazione di secondo grado: è il segno che la specie si è evoluta per sfuggire agli artigli dei suoi predatori. Il cretino di buon senso è come quelle mele rosse rosse che per evocare un Eden perduto si servono di tutte le diavolerie della chimica. Ti guarda in faccia e ti dice, che so, “la cultura è un bene comune, come l’aria”, e tu temporeggi dietro un mezzo ghigno contratto, e ti sembra così candido che sei quasi sul punto di assentire, di sciogliere la mandibola e ricambiargli il sorriso, e devi aggrapparti con tutte le forze all’albero maestro del tuo intelletto per non soccombere all’incantesimo e capire che sì, probabilmente hai davanti a te un imbecille. E non è il solo da cui stare in guardia, il cretino di buon senso. Se al tempo di Sciascia la strategia per mimetizzarsi era la blaterazione fantascientifica, la proliferazione cancerosa dei gerghi, la zecca sempre aperta delle parole che coniano altre parole, oggi il cretino si rintana nelle forme brevi. Ecco, sarebbe da prendere quel dibattito soporifero tanto caro ai giornali – “Twitter ci rende stupidi?” – e capovolgerne l’assunto: Twitter ci rende intelligenti. C’è in questo qualcosa di prodigioso, e di terrificante: ci sono cretini certificati, abituali, della cui cretinaggine abbiamo prove da riempirci un dossier, che nel giro breve di quei centoquaranta caratteri riescono non si sa come, per un istante, a ricordarci Karl Kraus, Oscar Wilde, o male che vada Giulio Andreotti. Possibile? L’aforisma, il Witz, che un tempo era un’arma formidabile contro la stupidità di tutte le maniere, è diventata il nuovo rifugio degli imbecilli, la freccia più velenosa nella loro faretra. Eppure non c’è granché da fare. Già che la stupidità ci assalta a tradimento, e senza logica, ne consegue, suggeriva Carlo Cipolla nel suo trattatello sul tema, che “anche quando si acquista consapevolezza dell’attacco, non si riesce a organizzare una difesa razionale, perché l’attacco, in se stesso, è sprovvisto di una qualsiasi struttura razionale”. Il meglio che possiamo fare è metterlo nero su nero. Guido Vitiello
L’oblio su Sciascia politico. Non soltanto i rapporti contrastati col Pci, né la sua elezione con i Radicali. Lo scrittore siciliano divise l’establishment con le domande su giustizia e potere, scrive Gianfranco Spadaccia, già segretario, deputato e senatore del Partito radicale, il10 Luglio 2014 su “Il Foglio”. Pubblichiamo stralci della prefazione di Gianfranco Spadaccia a “La memoria di Sciascia”, collezione di saggi e articoli dello scrittore messicano Federico Campbell (1941-2014), appena pubblicata in Italia da Ipermedium Libri. A quasi un quarto di secolo dalla scomparsa di Leonardo Sciascia, questo libro dello scrittore messicano Federico Campbell ci offre l’occasione di una rilettura critica dell’intera sua opera letteraria e ci invita a una riflessione, oggi più che mai opportuna e necessaria, sull’importanza che essa ha avuto nella letteratura italiana ed europea e nella vita politica e civile del nostro paese. Perché Sciascia è stato durante tutta la sua vita e in tutta la sua opera scrittore politico. Lo è stato più di qualsiasi altro uomo di lettere del suo tempo, più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più dello stesso Pier Paolo Pasolini. Scrittore politico per eccellenza e non certo per i suoi contrastanti rapporti con il Pci o per essere stato per un breve periodo consigliere comunale a Palermo e poi, nella legislatura 1979-1983, deputato Radicale ma perché tutti i suoi libri – non solo gli articoli, i saggi, i pamphlet ma anche i romanzi e i racconti – sono sempre attraversati dagli interrogativi, dalle gravi questioni etico-politiche che riguardano la vita del paese e il governo della polis: i rapporti fra il Potere (i poteri) e i cittadini, fra lo Stato e il diritto, fra la verità e l’impostura. E’ strano che questa sua qualità di scrittore politico non si ritrovi fra le molte definizioni che di lui sono state date: da quella, perfino scontata, di “scrittore illuminista” per il suo costante riferirsi ai valori dell’Enciclopedia, e in particolare a Voltaire e a Diderot, a quella discussa di “scrittore barocco” (che Belpoliti riprende da Calvino), a quella singolare che Campbell in questo libro riprende da Bufalino di “scrittore secco” per la sua straordinaria concisione letteraria contrapposta a quella di “scrittore umido” che Bufalino attribuiva ad altri letterariamente più ridondanti scrittori e anche a se stesso. E’ come se gli estimatori di Sciascia ritenessero che la sottolineatura della politicità della sua opera potesse concorrere a offuscarne o a sminuirne in qualche misura la grandezza letteraria. Se fosse così si tratterebbe di una preoccupazione sbagliata perché politicità e qualità artistica e letteraria nell’opera di Sciascia vanno di pari passo e si alimentano a vicenda ma sarebbe anche una preoccupazione inutile perché proprio per la sua politicità ogni suo libro ha profondamente diviso sia l’opinione pubblica sia la stessa società letteraria. E’ forse in base a queste preoccupazioni che Piero Citati, pur riconoscendone la qualità e la grandezza, è giunto ad affermare che dalla sua opera bisognerebbe cancellare “l’ultimo Sciascia (allo stesso modo del primo Calvino)” per essersi esposto troppo nell’agone politico. A Citati però bisognerebbe chiedere dove secondo lui comincia l’ultimo Sciascia: comincia con “L’Affaire Moro” o bisogna risalire molto più indietro a “Il Contesto”, a “Todo Modo”, a “Candido”? D’altronde l’autore di questi romanzi non è affatto “l’ultimo Sciascia” perché, dopo “L’Affaire Moro”, scrisse ancora saggi, racconti, romanzi che occupano una parte del secondo volume e quasi per intero il terzo volume delle “Opere complete”, edite da Bompiani e curate da Claude Ambroise. In altra circostanza ho riconosciuto il mio debito nei confronti di Sciascia per l’influenza che i suoi libri hanno avuto nella mia formazione culturale, sentimentale e politica fin da quando, giovanissimo, mi imbattei all’inizio degli anni 60 ne “Le Parrocchie di Regalpetra” e in “Morte dell’Inquisitore”, molto prima dunque che le vicende politiche dei tardi anni 70 e dei primi anni 80 ci facessero trovare dalla stessa parte e perfino nello stesso gruppo parlamentare radicale. Il messicano Campbell, che ha studiato e amato lo scrittore siciliano fino al punto di servirsi anche delle sue lenti per leggere alcuni aspetti della realtà del Messico, conosce perfettamente le sue vicende politiche e letterarie e tuttavia, non influenzato dalle polemiche e dalle strumentalizzazioni italiane che le hanno accompagnate, ci restituisce l’immagine di uno scrittore eretico che in tutta la sua vita si confronta con una realtà siciliana e italiana rimasta, a sinistra non meno che a destra, profondamente controriformista e lo fa seguendo sempre la stessa ispirazione ideale. Ed esprime un’opinione uguale alla mia: “Non c’è opera di Sciascia che non sia politica. E’ un autore politico. E’ uno storico. E’ un romanziere. E’ uno scrittore”. Non c’è soluzione di continuità fra il primo e l’ultimo Sciascia, fra lo Sciascia di “Le parrocchie di Regalpetra”, di “Morte dell’Inquisitore”, del “Giorno della civetta”, di “A ciascuno il suo” e lo Sciascia di “Todo modo”, del “Contesto”, di “Candido”, de “L’Affaire Moro”, fra lo Sciascia di prima della rottura con il Pci e lo Sciascia di dopo la rottura con il Pci. E infatti Alberto Asor Rosa ha spinto il proprio dissenso e la propria censura fino al punto di pretendere di cancellarne l’intera opera dalla storia della letteratura italiana. E un mediocre sociologo che non merita di essere citato, assurto per meriti giustizialisti agli onori della politica, dopo le polemiche sulla mafia dei primi anni Ottanta ha sentito il bisogno di coinvolgere nella propria polemica e nella propria condanna anche il “primo” Sciascia del “Giorno della civetta” e di “A ciascuno il suo”, inventandosi un eccesso di compiacenza nei confronti dei protagonisti mafiosi dei due romanzi con i quali per primo affrontò il tema, fino ad allora negato o misconosciuto, dell’esistenza della mafia e dei rapporti oscuri fra classi dominanti, potere politico e criminalità mafiosa. Con le sue scelte e prese di posizione politiche, ma soprattutto con i suoi libri, Sciascia ha diviso anche il suo campo. E non solo la sinistra, quella sinistra a cui ha fatto sia pure con grande autonomia e spirito critico a lungo riferimento perché in essa si riconoscevano le famiglie dei “carusi” che avevano frequentato le sue lezioni di maestro elementare a Racalmuto e gli operai delle solfare, la cui vita e le cui sofferenze conosceva da vicino per aver frequentato la solfara gestita da suo padre; divise anche il suo campo culturale, l’intellighentia laica, “liberal”, non inquadrata e non inquadrabile negli apparati, sempre oscillante fra il sostegno ai governi centristi o di centro-sinistra e il sostegno offerto al Pci magari attraverso la cosiddetta “sinistra indipendente”. Sciascia, che non amava la parola “intellettuale” a cui preferì sempre quella di letterato o di uomo di lettere, non fu mai, neppure nel periodo di vicinanza al Pci siciliano, intellettuale “impegnato” e tanto meno “organico”. L’unico impegno che concepì, fu nei confronti delle proprie convinzioni e della propria coscienza. Campbell ricorda che, per questo, ebbe come riferimenti Gide che, da comunista, si impegnò nella condanna di Stalin e dello stalinismo e Bernanos che, da cattolico, combatté il sostegno offerto al generale Franco da parte della chiesa cattolica nella guerra civile spagnola. La prima rottura, a lungo maturata tra il colpo di stato cecoslovacco del 1968 (si pensi alla dedica della “Controversia liparitana” ad Alexander Dubcek, indicato con le iniziali A.D.) fino alla proposta berlingueriana del “compromesso storico”, si manifestò pienamente nei confronti della politica della fermezza e al momento delle trattative per la formazione del governo di unità nazionale del 1976 ed esplose durante il “caso Moro”. A causa di essa Sciascia divenne l’obiettivo di una feroce campagna polemica da parte del Pci e degli intellettuali più vicini al Pci, che lo indusse nel 1979 ad accettare la proposta di Marco Pannella di presiedere le liste radicali nelle elezioni politiche. Durante tutto questo periodo trovò però al suo fianco, oltre ai radicali, anche personalità come Norberto Bobbio, Dario Fo, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Bocca per citare solo alcuni dei nomi più significativi. Questa coincidenza di posizioni e questa vicinanza politica vennero però meno quando Sciascia, che non era un garantista a senso unico, si trovò a sostenere negli anni 80 gli stessi princìpi che aveva sostenuto al momento del confronto con il terrorismo rosso e nero, per contrastare i poteri eccezionali che vennero invocati nella lotta alla mafia. Non intendo attribuire a lui sentimenti miei. Parlerò quindi per me. Questa seconda rottura fu particolarmente dolorosa perché avveniva con personalità della sinistra democratica che ci erano state vicine e ci avevano sostenuto nelle nostre lotte per i diritti civili: Bobbio con i suoi scritti filosofici su socialismo democratico e comunismo aveva influenzato fortemente la nostra formazione, Alessandro Galante Garrone aveva fatto parte con Loris Fortuna della presidenza della Lega Italiana del Divorzio, quando fui arrestato per la disubbidienza civile contro il reato d’aborto uno dei primi telegrammi che mi giunse in carcere recava le firme di Dario Fo e Franca Rame. Le posizioni di Sciascia e dei radicali, condotte in difesa dello Stato di diritto e della legalità democratica in condizioni di minoranza, avevano fatto emergere il persistere all’interno della sinistra democratica, liberalsocialista e azionista e anche all’interno del liberalismo italiano di una componente giacobina che da allora in poi ha fortemente influenzato la politica e la magistratura, imponendo soluzioni che sono state definite “giustizialiste” in contrapposizione al garantismo ma hanno poco a che fare con la giustizia e la legalità, anzi hanno nell’ultimo quarto di secolo largamente contribuito a devastarle. E’ significativo che le aspre polemiche che accompagnarono le due rotture fossero innescate da due falsi, che lungi dall’esprimere il suo pensiero ne rappresentavano al massimo una grossolana estremizzazione. Nel 1977/78 gli fu attribuita una frase – “Né con lo Stato né con le Bierre” – che non aveva mai pronunciata (certo non con le Br, ma – era la legittima domanda – “con quale Stato?”). La seconda rottura fu provocata da un articolo sul Corriere della Sera in cui criticava i criteri improvvisamente modificati per la scelta dei capi delle Procure, che dovevano occuparsi di criminalità mafiosa: gli fu rinfacciata la frase “I professionisti dell’antimafia” che non compariva nel testo del suo articolo ed era invece il titolo scelto dalla redazione del Corriere. In entrambi i casi Leonardo Sciascia, al pari dei Radicali, fu accusato nella migliore delle ipotesi di equidistanza fra lo Stato e le Bierre e fra lo Stato e la mafia ma molti si spinsero oltre fino al punto di ipotizzare una vera e propria contiguità con le prime e con la seconda. Imperdonabili infamie se solo si pensi alla distanza siderale che separava l’illuminista Sciascia e i nonviolenti Radicali dal rozzo e violento stalinismo delle Brigate rosse e al fatto che nei primi anni Sessanta era stato nei suoi romanzi il primo uomo di lettere a occuparsi di mafia e della collusione fra essa e il potere. L’illuminista Sciascia, che si scoprì antigiacobino, semplicemente pensava che contro i tentativi eversivi delle Bierre come contro la criminalità mafiosa lo Stato dovesse combattere in nome del diritto e dei propri princìpi costituzionali senza cedere, a causa dell’emergenza, a leggi e politiche eccezionali. Nessuna emergenza può giustificare la sospensione delle libertà individuali come delle garanzie giuridiche e costituzionali, se non a prezzo di un abbassamento dello Stato allo stesso livello dei criminali che deve combattere. Allo stesso modo, durante e dopo il sequestro dell’onorevole Moro, per la sua polemica contro la politica della fermezza fu iscritto d’ufficio nel “partito della trattativa”. In realtà anche a rileggere oggi le parole di Sciascia appare chiaro come fossero rivolte a sollecitare non un cedimento ma una maggiore iniziativa nelle indagini e nei rapporti mediatici nei confronti delle Br, impedita dalla conclamata fermezza della Stato che si traduceva purtroppo in inerzia e nella attesa immobile, fatalistica della morte di Moro. Sciascia infatti non mancò di manifestare la propria opposizione e di denunciare la contraddizione della Dc quando, qualche tempo dopo, i suoi dirigenti accettarono di trattare per la liberazione dell’assessore regionale Cirillo sequestrato in Campania. E mostrò cosa si dovesse intendere per politica di iniziativa nei confronti delle Br quando contribuì invece con i radicali a creare le condizioni per la liberazione di un altro sequestrato, il giudice D’Urso, che avvenne senza cedimenti, senza concessioni, ma attraverso un’iniziativa politica e mediatica e un confronto polemico condotto sotto gli occhi dell’opinione pubblica grazie ai microfoni di Radio Radicale e ad alcuni giornali e telegiornali che ebbero il coraggio di rompere un assurdo silenzio stampa. Quell’iniziativa, nella quale Sciascia si espose senza riserve, ruppe dunque l’unità corporativa dei giornalisti ma provocò anche una rottura fra i brigatisti in carcere e i terroristi che avevano operato il sequestro, che si rivelò determinante per la salvezza del giudice.
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(…) Sciascia scrisse di sé che avrebbe voluto essere ricordato come un uomo che “contraddisse e che si contraddisse”. (…) Quanto al “si contraddisse” sono invece possibili più letture e diverse spiegazioni. (…) Ad esempio a proposito della mafia. Non c’è uno Sciascia intransigente contro la mafia, che diventa improvvisamente lassista o peggio, come è stato insinuato, connivente nei confronti della mafia. Basta rileggere “Il Giorno della civetta” per rendersi conto che il Capitano Bellodi, nel momento in cui ha difficoltà a inchiodare alle sue responsabilità il capomafia Arena, respinge la tentazione delle scorciatoie e condanna con decisione i metodi del Prefetto Mori, adottati durante il fascismo. Al contrario invoca e in qualche modo prefigura più efficaci metodi di indagine che potrebbero consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie, penetrando nelle maglie del segreto bancario, allora un tabù per il nostro sistema giuridico, e di colpire i clan mafiosi nei loro patrimoni, anticipando così molto tempo prima la strada che sarà seguita da Falcone e Borsellino e che porterà, con successo, a celebrare il maxi processo di Palermo contro la Cupola di Cosa Nostra. Muta dunque l’obiettivo polemico – alle connivenze della Dc e dello Stato si sostituisce l’attacco alle strumentalizzazioni politiche dell’antimafia – ma Sciascia continua a muoversi all’interno della medesima ispirazione e convinzione ideale. E anche se, come ho prima sottolineato, non pronunciò e non scrisse mai la frase “I professionisti dell’antimafia”, coloro che lo avevano attaccato, insultato, indicato al pubblico disprezzo, furono gli stessi che, comportandosi proprio come tali, riuscirono a impedire la nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura di Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale Antimafia. “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte – scrisse poco prima di morire in “A futura memoria” – con coloro che non credevano o non volevano credere nell’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”. C’è tuttavia per quel “si contraddisse”, io penso, una spiegazione più plausibile e una più intima ragione. “Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me – disse a Marcelle Padovani nel libro-intervista La Sicilia come metafora – Prendiamo, ad esempio, la realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo ‘con dolore’ e ‘dal di dentro’: il mio ‘essere siciliano’ soffre indicibilmente del gioco al massacro che perseguo. Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in ogni siciliano, continuano ad essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, io lotto anche contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione. Lo stesso avviene per quanto riguarda la donna siciliana: nel mio modo di descriverla e di condannarla c’è anche una condanna di me stesso. Soffro di dover raccontare della donna di Sicilia nel suo ruolo storico, vale a dire come elemento negativo dell’evoluzione della società insulare, nella sua funzione matriarcale, schiacciante e conservatrice, quale ha pesato sui nostri nonni e padri e quale può pesare ancora oggigiorno. Ma nel momento stesso in cui la giudico, io mi sento responsabile della sua condizione, responsabile atavicamente”. (…) Questo non scalfisce in nulla il suo essere, anche, scrittore illuminista. Ho sempre pensato che la qualità e grandezza di Sciascia sia proprio in questa intima e vitale contraddizione tra l’adesione alla sua terra e alla cultura della sua terra e il suo costante, eretico contrapporvisi in nome di pochi, essenziali valori: la laicità, la democrazia, la tolleranza, una profonda religiosità, la giustizia, il rispetto della dignità umana, la verità. (…)
Lettere inedite dei familiari di Moro a Sciascia: sono conservate in Fondazione ad Agrigento. Ma la famiglia dell’ex presidente del Consiglio ucciso dalle Br non ha autorizzato la lettura pubblica, scrive Alan David Scifo il 17 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Da quasi trent’anni quelle lettere sono lì: la busta strappata e l’indirizzo della casa di Leonardo Sciascia, che intanto scriveva il suo “Affaire Moro” avanzando numerosi dubbi sul ruolo dello Stato e della politica durante i giorni del rapimento di Aldo Moro, segretario Dc, ucciso in seguito dalle Brigate Rosse. Dall’altra parte c’era la moglie di Aldo Moro che si rivolgeva allo scrittore nei giorni successivi all’uccisione del leader della Democrazia Cristiana e sua figlia che scriveva altre missive all’autore, fortemente impegnato in politica e personaggio con un ruolo di rilievo nella società del tempo. Quelle lettere, consegnate insieme ad altre 14mila alla Fondazione Sciascia di Racalmuto, oggi sono rimaste conservate e poco si conosce sul contenuto, nonostante una lettura potrebbe probabilmente portare più chiarezza in uno dei casi più bui della storia italiana. Quello che si sa è che, mentre le lettere della moglie di Aldo Moro, Eleonora Chiavarelli, hanno un contenuto esiguo, quelle della figlia, Maria Fida, sarebbero molto più lunghe e si rivolgerebbero allo scrittore ponendo delle domande e dei quesiti, per dei dubbi che Maria Fida Moro voleva fugare. Sono proprio queste tre lettere quelle impossibili da leggere a causa della mancata autorizzazione data dalla diretta interessata, e che rimarranno in questo stato se la negazione continuerà. Questo accade per un fatto semplice: le lettere infatti, pur essendo state donate dagli eredi di Sciascia alla Fondazione voluta proprio dallo scrittore qualche anno prima della sua morte, non sono di proprietà della stessa, ma della famiglia. Se questa ha comunque dato l’autorizzazione alla lettura, la legge impone che anche dall’altro lato ci sia il nulla osta per poter leggere e pubblicare, cosa che non è mai avvenuta. Quelle lettere però potrebbero essere importanti ai fini della ricostruzione della vita del presidente del Consiglio ucciso il 9 maggio del 1978. Così come si scoprì che erano importanti, ma solo diversi anni dopo la sua morte, le missive che Enzo Tortora, presentatore al centro di un clamoroso caso di malagiustizia, inviava dal carcere a Leonardo Sciascia. Oggi quelle lettere sono in un caveau, mentre l’unica bibliotecaria a 15 ore settimanali continua il suo non facile lavoro di inventario, volto a collegare le lettere esistenti, per un archivio ancora fermo alla lettera C nonostante un lavoro che dura da più di 30 anni. Mentre quelle decine di migliaia di lettere giacciono all’interno delle stanze della grande Fondazione costruita nell’ex centrale Enel, la Regione taglia i fondi e addirittura gli addetti ai lavori non riescono a pagare neanche le bollette della luce e in alcuni casi sono costretti a dover spegnere i riscaldamenti a giorni alterni al fine di rientrare nel budget annuale. Oltre a quelle dei familiari di Moro, che sono rimaste inedite, a creare scalpore è il fatto che altre lettere oggi sono sconosciute ai più solo per l’assenza di un lavoro mirato che cerchi di ricostruire la genesi degli autori, al fine di chiedere l’autorizzazione per la pubblicazione di missive che da sole potrebbero dare un quadro più chiaro degli anni che vanno dal Settanta ai Novanta, forse i più bui della storia italiana. Tutti infatti, come il boss Giuseppe Sirchia (lui dal carcere) scrivevano a Sciascia, consci della sua influenza nella società di quegli anni. Anni di misteri, di uccisioni, di mafia e di strani suicidi.
Ripensando a Moro attraverso Sciascia, scrive Valter Vecellio su "L’Opinione” il 24 settembre 2016. Piaceva, a Leonardo Sciascia, “frugare” nelle cataste di libri degli antiquari, alla “caccia” di quella preziosa edizione francese, o di quell’acquaforte ritratto di uno scrittore ammirato e amato. Capitava di accompagnarlo in quel suo girovagare, come quella volta che, felice, aveva recuperato una ventina di volumi de “La Scala d’Oro”, libri che aveva letto e gustato da ragazzo, e che voleva leggessero e gustassero gli amati nipoti. E a dispetto dell’immagine-cartolina che lo vuole taciturno, immusonito, guardingo, era un parlare di tutto e su tutto, e con grande spirito di divertita e paziente ironia. Ma, anche, naturalmente, discorsi e conversare molto serio; come quella volta che, già nella Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, eletto deputato del Partito Radicale, racconta perché aveva voluto scrivere “L’Affaire Moro” che tante polemiche aveva sollevato; e poi perché aveva accettato di entrare nella Commissione d’inchiesta: “Volevo e voglio smascherare quello che mi pareva e mi pare un delitto. Perché Moro è stato ucciso due volte: dalle Brigate Rosse e da coloro che lo hanno negato, che lo hanno disconosciuto, che hanno detto cioè di non riconoscere nel prigioniero delle BR il Moro di prima”. E ancora: “Quelli che lo hanno negato, non possono restare nascosti dietro la ragione di Stato. La ragione di Stato potevano anche difenderla, ma non dicendo che Moro era diventato un altro. Moro era rimasto indefettibilmente fedele a se stesso, a se stesso cristiano, soprattutto democristiano. Presentarlo come impazzito di paura è stato, cristianamente, umanamente, un delitto”. Nel ripensare a quelle parole, come non riconoscere che dobbiamo farli, eccome, i conti con Aldo Moro; e più propriamente, forse, si deve anche dire che Moro aspetta dal 16 marzo del 1978, che tutti noi si faccia i conti con lui. E sono tanti, a partire proprio dai suoi ultimi cinquantacinque giorni di vita, da quel 16 marzo quando viene rapito dalle Brigate Rosse, al 9 maggio, quando viene ritrovato morto a Roma, dentro la famosa Renault rossa, in via Caetani. In che senso fare i conti: nel senso che ne dà Leonardo Sciascia in una lunga intervista al settimanale francese “Le Nouvel Observateur” nel giugno del 1978: “Moro morendo, nonostante tutte le sue responsabilità storiche, ha acquistato un’innocenza che rende tutti noi colpevoli, dunque anche me. Sono rimasto molto scosso dalle sue ultime volontà, che mi rammentano quelle di Pirandello. Il fatto è noto... Pirandello era fascista, ma ha voluto essere sepolto completamente nudo per paura che lo vestissero con la divisa fascista, come avevano allora l’abitudine di fare per i dignitari del regime. Morendo, Aldo Moro si è, per così dire, spogliato della tunica democristiana. Il suo cadavere non appartiene ad alcuno, ma la sua morte ci mette tutti sotto accusa”. Per “L’Affaire Moro”, che ancora oggi è di preziosa lettura, Sciascia patisce una delle innumerevoli “lapidazioni” che di volta in volta gli sono riservate da destra e da sinistra. Il punto centrale della questione è questo: si accredita, si è accreditato, un Moro di prima, “grande statista”; poi un Moro prigioniero che non ha il senso dello Stato. Moro uno e due, insomma. Una grande mistificazione. Aver accreditato, aver letteralmente inventato un Moro “grande statista” (mentre è stato un grande politico, ma senza il senso dello Stato, che ne aveva, per esempio, un Alcide De Gasperi), è quello che, per Sciascia, è il secondo delitto consumato; da chi, appunto, lo ha disconosciuto. Il punto centrale, il nodo del dramma: Moro anche in quei 55 giorni di prigionia è lucido e continua a pensare come ha sempre pensato; e lo si riduce a un “pazzo”, un “plagiato”. Ci è stata offerta in quei giorni quella terribile mistificazione. Moro è solo, negato, tradito. È in quei 55 giorni, e attraverso le lettere che Moro può scrivere e far recapitare, che abbiamo il ritratto più autentico del personaggio: politico con due soli princìpi: la sua radicata fede cattolica e lo spirito di libertà. Per il resto, come osserva Sciascia, “c’erano la trattativa, la mediazione, la duttilità continua. Non era un uomo da cozzare contro la realtà. Era un uomo che qualsiasi realtà si proponeva di far ingoiare nelle sabbie mobili del cattolicesimo italiano”. Per quel che riguarda il dover fare i conti con noi stessi: si tratta appunto di quel pantano, quella micidiale sabbia mobile fatta di mistificazione e conformismo che si muove contro il Moro senza più potere, e avvolge l’intero Paese, tutti noi. Innegabile, per esempio, che i principali mezzi di informazione si siano comportati ignobilmente, in quei giorni; per non parlare della classe politica, con pochissime eccezioni; e per tutti quei pochissimi faccio tre nomi: Bettino Craxi, Marco Pannella, Umberto Terracini, il Partito Socialista, il Partito Radicale, un comunista “eretico”, per il quale la verità contava sempre più e prima del partito. Sciascia comincia sempre i suoi lavori con una frase emblematica che è un po’ il simbolo-guida di quello che vuole scrivere. “L’Affaire Moro” si apre con un paio di righe tratte da “La provincia dell’uomo” di Elias Canetti: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto ‘al momento giusto’”. Agghiacciante e terribile. Più oggi, forse, di allora.
· Ludovica Ripa di Meana.
Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it il 14 novembre 2020. Ludovica Ripa di Meana è una cantastorie che, per passione e curiosità, è entrata nella vita degli altri – Gadda, Contini, Zeri, tanto per dire – per raccontarceli e farceli conoscere da angolazioni diverse, sotto luci sfumate, poco patinate, più intime e vere. Senza diploma liceale, i libri sono stati la sua indiscussa e infallibile guida. (…)
Se non erro, eravate sette fratelli; a quale era legato, anche per affinità caratteriali e culturali, in modo particolare?
«In età adulta le affinità le ho avute, e le ho, con le mie sorelle. Da giovane, ero legata molto a Carlo, allora avevamo molte affinità e interessi comuni. Cesare Cases, che era un grande germanista, oltreché un amico comune, ci diceva che io e Carlo parlavamo il “meanico”, tanto era forte il nostro legame. Carlo è stato un fratello che ho molto amato, era molto intelligente con un vero talento politico di mediatore, ma nella seconda parte della sua vita non mi è piaciuto il suo sodalizio con Marina».
Perché non le piaceva?
«Non mi piaceva perché era un sodalizio che ha fondato e diffuso la sguaiataggine, l’incontinenza verbale, insomma, il trash prima in televisione poi nei social. Erano esibizionisti, trasgressivi, e avevano spesso un comportamento, anche eticamente, molto discutibile».
Marina Ripa di Meana è stata, nel nostro Paese, un’icona. Donna esuberante, intelligente, trasgressiva, vanitosa come pochi. Che rapporto avevate?
«Intanto, mi lasci dire che Marina era una donna bellissima, e capivo perché Carlo si fosse innamorato di lei. E agli inizi i nostri rapporti erano anche buoni, perché Marina non era così volutamente estrema. Spesso ho pensato che Marina non fosse molto equilibrata mentalmente, aveva degli sbalzi umorali ciclotimici, poco comprensibili e insopportabili per gli altri».
Da ragazzina, scoprì i libri. In ogni occasione, si è sempre definita un’accanita lettrice. Com’è nato il suo amore per i libri?
«Fondamentali sono state le letture quando ero bambina. La governante mi leggeva le favole in tedesco, e io adoravo quelle dei Grimm soprattutto. E poi, crescendo, scoprivo nuovi mondi con i libri che avevamo in casa; penso, tanto per fare un esempio, all’enciclopedia per ragazzi, la biblioteca rosa e la biblioteca dei ragazzi».
Le letture, come spesso accade per chi ha interrotto gli studi, sono state irregolari. Come si orientava nella scelta degli autori?
«Di solito, mi documentavo. Ma, spesso, sceglievo anche istintivamente. Per esempio, io ho letto Gadda e Joyce pur non avendo nessuna attrezzatura linguistica e filologica per leggerli e capirli. E invece io, che avevo solo la quinta ginnasio, li capivo e sentivo con naturalezza e li vivevo come se li conoscessi da sempre».
Quali autori, nella sua vita, considera imprescindibili, vitali? E perché?
«Alla fine della vita, nello stadio in cui mi trovo, sicuramente Dante (anche per la consuetudine che ne ho avuto con Vittorio), Shakespeare, Simone Weil, Gadda, Paul Celan, Rilke, Proust, Puskin, la Bibbia e i Vangeli. Sono testi e autori che reputo assoluti. (..)»
Oltre ai giornali cartacei, le capita di curiosare e informarsi anche su Dagospia?
«Ho conosciuto Roberto D’Agostino da ragazzo quando lui lavorava in banca e io all’Europeo, e voleva collaborare tenendo una rubrica di musica leggera sul settimanale. Mi sembrava intelligente e simpatico, quindi perorai la sua causa e riuscii a convincere, credo Valerio Riva, a affidargliela. No, di solito non pratico Dagospia anche perché non frequento molto i social, forse son troppo vecchia per apprezzare la liquidità del web. Capisco di non essere gentile dicendo questo, dato che questa intervista, che sono contentissima di fare, uscirà proprio sul web».
Pensa anche lei, come Roberto D’Agostino, che il pettegolezzo non sia affatto da criticare, ma che nella diceria, ci sia, piuttosto, la vita vera delle persone?
«Ma credo che la vita vera è dappertutto, basta aver voglia di cercarla.(…)»
L’incontro con Vittorio Sermonti le ha cambiato la vita. Un amore adulto, maturo, avvenuto quando lei aveva cinquant’anni. Aspettare Sermonti ne valeva la pena, tutte le pene, ha detto lei. Perché?
«Era l’amore che cercavo fin dall’inizio della vita. Vittorio e io ci siamo incontrati e siamo diventati un ermafrodito. Sentivamo le stesse cose, pensavamo allo stesso modo, e poi avevamo delle affinità anche in relazione ai nostri talenti».
Nell’amore per Sermonti ha mai provato un senso di debolezza, di fragilità, sensazioni dettate quando ci si concede all’altro?
«Io sentivo, capivo le sue, di debolezze: le donne, forse perché partoriscono, sono più coraggiose, temerarie dei maschi, anche nell’indagine di sé».
Si, ho capito, ma quali sono state le debolezze o fragilità di suo marito?
«Beh, quando l’ho incontrato, ad esempio, l’attività editoriale ed intellettuale di Vittorio non era riconosciuta e apprezzata per quel che valeva. Ricordo che quando faceva delle traduzioni per la Rai, veniva pagato una miseria. Pochi, all’inizio soprattutto, avevano capito la grandezza e bravura di Vittorio; anche se uno di questi fu Roberto Longhi. Gli Agnelli, con i quali era imparentato per via del suo primo matrimonio con la figlia di Suni, lo trattarono quasi come un paria. Che vergogna! La mancanza di riconoscimento lo frustrava, per certi versi l’aveva indebolito, fiaccato. Sono stata io, avendo capito il suo talento, a sobillarlo e stimolarlo a non arrendersi, a insistere».
Cesare Segre, sempre nella sua autobiografia, ha detto che il plagio, tra gli scrittori, è una cosa indegna. Come ha vissuto il “furto” di Benigni che, in occasione di uno spettacolo su Dante, fece una dedica alla moglie Nicoletta, rubando, letteralmente, le parole che Vittorio, invece, aveva dedicato a lei, e senza citarlo?
«Benigni, per promuoversi, ha saccheggiato (persino nella dedica!) la geniale opera che Vittorio ha fatto sulla Commedia di Dante, facendola passare per farina del suo sacco: mi fa pena».
· Luigi Mascheroni.
"Vi racconto 90 anni passati a studiare il cuore italiano". Il grande sociologo compie 90 anni e racconta: da ragazzino sotto il fascismo agli anni del boom, dalla contestazione alla crisi della coppia fino ai "movimenti" di oggi. Fra politica e infatuazioni. Luigi Mascheroni, Venerdì 27/12/2019, su Il Giornale. Diecimila volumi in libreria (il calcolo è empirico, basato sul numero di scaffali lungo le pareti), oltre 60 titoli in bibliografia - dalla prima ricerca pubblicata nel 1960 sui fattori culturali dello sviluppo economico fino alla nuova edizione aggiornata di “Leader e Masse” uscita l’anno scorso – con in mezzo almeno due-tre longseller pesanti – poi un saggio previsto la prossima primavera con La nave di Teseo sul rapporto tra Tempo e Amore («Quando sei innamorato vuoi sempre sapere cosa sta facendo l’altro, lo pensi, lo chiami, mandi un messaggino...L’amore ha un carattere di continuità: quando sei con la persona amata non ti accorgi del passare del tempo, mentre senti con dolore quando non c’è...»), un paio di collaborazioni giornalistiche, col ”Giornale” e una immemorabile con “Dipiù” («Mi fanno scrivere quello che voglio, senza mai dirmi nulla... Si ricorda vero che dal 1982 al 2011, ogni lunedì, sul “Corriere della Sera” tenevo la rubrica intitolata “Pubblico e privato”? Beh, un giorno il direttore, Ferruccio De Bortoli, mi dice: “Ma, insomma, professore, una persona del suo livello che parla di reggiseni e mutandine...». Forse non sapeva che io, come sociologo, ho cominciato proprio da lì, studiando che tipo di lingerie volevano le donne italiane, e peraltro indovinando il futuro del Paese, a 26 anni... Comunque, lì ho capito che mi stavano mandando via»), un giornale online, “Alberoni magazine” («Non lo faccio da solo, però ci scrivo quasi tutti i giorni, mi diverto molto...», titoli degli interventi più recenti: Pene d’amore e fantasie di morte, L’amante segreto, Il tempo dell’innamoramento...), una carriera universitaria durata 40 anni (alla Cattolica e alla Statale di Milano, a Catania, a Roma e a Losanna); due rettorati (a Trento e allo IULM), tre mogli («No, in realtà una prima moglie, una compagna e poi la seconda moglie... Sì, potrei anche sposarmi un’altra volta, certo. Cos’è il matrimonio oggi? Una scelta che molti fanno per tranquillizzarsi, ma è un’istituzione sempre più minacciata dai grandi cambiamenti della società: avendo sdoganato completamente la sessualità, si tende a mescolare sempre di più sesso e amore, ma se li mescoli male, sono guai, perché si destabilizza la coppia»), quattro figli, un elegante appartamento dentro la cerchia a Milano («Ma sto partendo per Forte dei Marmi») e 90 anni tra una settimana, il 31 dicembre. A proposito: Auguri. Francesco Alberoni – basetta lunga, dolcevita a collo alto e nessuna paura della morte («Ho troppe cose da fare per pensarci») - non è nemmeno più un professore, è un eponimo. Alberoni – nomen omen della sociologia in Italia – è l’innamoramento, l’Amore, i movimenti collettivi, lo Stato nascente...
Nasce a Borgonovo Val Tidone, Bassa piacentina: 31 dicembre 1929.
«La mia era una famiglia piccolo borghese, sono nato a casa della nonna, poi dopo pochi mesi ero già a Piacenza. Ho studiato alla Scuola Alberoni, c’era via Alberoni, il Collegio Alberoni... Un cognome molto diffuso. Poi, scoppiata la guerra, siamo sfollati a Cortemaggiore, in campagna. Io avevo quindici anni, e volevo solo starmene fuori da tutto. Mi sono imboscato».
Cosa fu per Lei, ragazzino, il fascismo?
«Anche se ero piccolo, ho capito cos’era il culto del capo e la forza della propaganda. Anni dopo seppi dei campi di sterminio nazisti e, attraverso un amico il cui padre era un comunista molto addentro dei segreti del Partito, venni a sapere tutto sullo sterminio dei contadini, le purghe staliniane, il massacro degli anarchici spagnoli... Insomma, col tempo mi resi conto che la politica, a destra e a sinistra, è una terrificante miscela di ideologia e mito, di fede ed eroismo. Ma anche di cinismo, tradimento, menzogna, crudeltà».
E la cosa l’ha resa diffidente verso l’agire politico.
«Ma mi ha spinto a studiare le esplosioni sociali da cui hanno origine i partiti, le rivoluzioni e le guerre: i movimenti collettivi».
E la guerra, cosa fu per Lei?
«Più che un pericolo, un fastidio. Non si poteva studiare in modo regolare, non ci si poteva muovere, niente libri...».
Dopo la guerra si è rifatto.
«Liceo Scientifico a Piacenza. Avrei preferito il Classico, ma non puoi fare sempre quello che vuoi. E ciò che non mi ha dato quel liceo, dove pure ebbi insegnanti ottimi, l’ho imparato da autodidatta. Poi mi sono iscritto a Medicina a Pavia. Volevo fare psichiatria e occuparmi dell’animo umano, come Freud o Jaspers, i miei modelli. A vent’anni avevo letto tutto Freud, Abraham, Melanie Klein. A ventuno tenni la prima conferenza sulla psicoanalisi davanti a professori e studenti... E alla fine mi laureai in Medicina legale con una tesi sperimentale sulla psicologia della testimonianza».
E con la laurea, da Piacenza se ne va a Milano, primi anni ’50.
«Ero un po’ sprovveduto. Mi ero messo in testa di incontrare Padre Agostino Gemelli, il fondatore dell’Università Cattolica, che guidava il più importante istituto di Psicologia italiano. Volevo mostrargli delle ricerche sperimentali che avevo condotto per conto mio: studiavo psicoanalisi e statistica. E un giorno, dopo molte insistenze, mi permettono di vederlo. Scendo in questo sotterraneo dell’università, lui era in fondo, a leggere, sembrava Giona nel ventre della balena. Aveva in mano delle carte e mi chiede: “Lei hai fatte tu queste ricerche?”. Aveva letto tutto il mio lavoro, e gli era piaciuto».
La strada era aperta.
«Vinco il concorso per una borsa di studio, poi divento libero docente in Psicologia nel 1960 e in Sociologia nel ’61. Nel 1963 scrivo “L’élite senza potere”, una ricerca sul divismo».
E cosa scoprì?
«Che i divi non erano più solo figure idealizzate ma anche gli “oggetti selezionati del pettegolezzo collettivo” dentro una società sempre più internazionalizzata».
Ci vide giusto, mi sa. Poi nel ’64 arriva la cattedra di Sociologia.
«Ma io intanto continuavo a lavorare nel campo della Psicologia sperimentale. Però le ricerche americane, come i test, mi sembravano stupide. Preferivo campi più originali, la ricerca empirica, il rapporto tra società e consumi. Tanto che a un certo punto fu lo stesso Padre Gemelli a consigliarmi di fare ricerche per le aziende».
La prima fu proprio una ricerca su reggiseni e lenzuola...
«Seconda metà anni ’50. Le Telerie Bassetti mi affidano una ricerca sul ‘corredo’. Volevano sapere cosa preferivano le donne italiane: se dovevano continuare a produrre le lenzuola bianche tradizionali oppure buttarsi sulle novità: cioè il colore. Io prendo la mia Fiat 500 scassata, parto da Bolzano e vado fino al Meridione profondo, e ritorno».
E cosa scopre?
«Che tutte volevano il corredo e la lingerie colorata. E soprattutto che i contadini, in particolare le donne, volevano emigrare in città perché lì c’era il benessere e il futuro. E - a differenza delle emigrazioni in America e in Europa - non pensavano minimamente di tornare al paesello. Altro che pianti e nostalgia. Avrebbero voluto fermarsi per sempre nelle grandi città. Sceglievano la nuova vita urbana prima ancora di arrivarci. E predissi che ci sarebbero state migrazioni interne pazzesche. E così è stato».
E come finì con la ricerca?
«La Bassetti fece i suoi investimenti, e io la mia fortuna».
Docenza in Sociologia a 32 anni...
«Fu Padre Gemelli che prima di morire, nel ’59, mi disse: “Ho bisogno di un sociologo”. E io: “Che cosa? Cos’è?”. Mi fece mandare 50 libri, tutto quello che era stato tradotto in Italia sulla materia. Capii che eravamo troppo indietro in quel campo...».
Però Le piaceva.
«Feci una scoperta. Vede, io ho un pensiero astratto, molto intuitivo. Magari non riesco a dimostrare un modello matematico, ma lo capisco, lo vedo... Insomma, mi ero convinto che per passare da uno stato strutturato A ad uno stato strutturato B, si deve per forza passare da uno stato di transizione, il cosiddetto stato nascente. Cioè la “condizione nascente”, il momento in cui la leadership, le idee, la comunicazione si fondono dando origine al movimento, che poi è destinato a diventare istituzione. Detto così sembra un pensiero banale. Ma quando lo applicai ai movimenti collettivi – come il Sessantotto, in cui capii che i contestatori, i “rivoluzionari”, non sarebbero durati in eterno, ma si sarebbero presto stabilizzati, e infatti gli hippie dopo aver predicato e vissuto la libertà assoluta si organizzarono in comunità stabili, cioè un altro stato strutturato - ne vennero fuori riflessioni interessanti. E poi lo stesso schema lo applicai all’innamoramento. Che altro non è se non lo stato nascente di un movimento collettivo formato da due sole persone».
E dopo l’innamoramento, cioè il tentativo effettuato da due persone di operare una “rivoluzione” affettiva delle loro vite, si passa a un nuovo stato: l’amore, e poi al matrimonio.
«Oggi sembra una cosa semplice, scontata. Ma fino ad allora nessuno lo aveva scritto. Tutti parlavano dell’innamoramento come dell’eccitamento di una persona. Io parlai di due protagonisti. Concettualmente la differenza è un abisso. Nel 1979 pubblicai “Innamoramento e amore”. Fu un successo mondiale».
Che molti non le hanno mai perdonato.
«A volte sono stato riconosciuto dal popolo più che dall’accademia».
E più amato dagli studenti che dai colleghi professori. Un po’ quello che accadde all’Università di Trento, dove fu rettore in un momento cruciale, dal ’68 al ’70.
«Ero appena rientrato dagli Stati Uniti, dove ero andato a studiare i movimenti giovanili e dove avevo incontrato Timothy Leary, lo psicologo diventato il guru delle droghe psichedeliche... Intanto succede che a Trento occupano l’Università e molti docenti danno le dimissioni. E così vengono da me chiedendomi se voglio andarci io».
La facoltà di sociologia di Trento all’epoca era frequentata dai leader di punta del ’68 e alcuni poi avrebbero scelto la lotta armata.
«Non mi lusingava tanto l’idea di diventare Rettore, mi interessava l’idea di studiare sul campo il “movimento”. Così decisi di andare a vedere. Arrivo a Trento e partecipo a un’assemblea degli studenti. Mi siedo in fondo all’aula, per terra, ad ascoltare. A un certo punto entra un allievo di Pepin Vidal Beneyto, un mito per gli studenti, un tipo alla Che Guevara che avevo conosciuto in Spagna, negli ultimi tempi del franchismo, dove aveva fondato una scuola di sociologia. Comunque, appena questo ragazzo mi vede mi chiama - “Francisco! Francisco!” - e mi abbraccia davanti a tutti. A quel punto avevo conquistato i suoi compagni, cioè tutti gli studenti... Iniziava qualcosa di nuovo».
Come fu?
«Un periodo divertentissimo. Gli studenti lavoravano con me, decidevamo in comune i programmi, i laboratori, mi confrontavo coi capi del movimento: Rostagno, Boato, Curcio... Facevamo riunioni pubbliche al cinema. Avevo creato un gruppo formato da sei studenti e sei docenti che si riuniva attorno un tavolo – ci chiamavano i 12 apostoli – e discuteva su tutto, insieme. Fu un’esperienza unica».
Poi cosa accade?
«Che l’anno successivo arrivò di tutto: si era diffusa la voce che Trento era la “città rivoluzionaria”, e tutti i coglioni d’Italia si diedero appuntamento lì. Io non ebbi la forza di chiudere le iscrizioni, e passammo da mille iscritti – gli studenti del primo anno, tutti “scelti”, motivati – a 4-5mila, per lo più baluba... Non si poteva più lavorare seriamente, troppi problemi di gestione e di bilancio, e me ne andai».
A Catania. Poi alla Statale a Milano, a Roma, Rettore dello IULM dal 1997 al 2001... Lei ha passato una vita dentro l’Università. Com’era quella di ieri e com’è quella di oggi?
«Ieri come oggi ci sono isole di eccellenza in mezzo a un panorama mediamente scadente. Il nodo è il meccanismo dei concorsi, che non funziona: tu come rettore dovresti poter chiamare le persone che vuoi che lavorino con te, che sono utili alla Facoltà, invece alla fine ti mandano un collega di cui non te ne fai niente... Più in generale, poi, credo che un tempo l’Università aveva come compito principale quello di formare dei veri scienziati, oggi invece di sfornare insegnanti per le medie. Si fa sempre meno ricerca e studi originali e si dà attenzione soltanto alla didattica. Invece un buon professore dovrebbe insegnare sempre qualcosa di nuovo, quello che lui stesso ha imparato sul campo».
Lei infatti ha sempre affiancato all’insegnamento universitario le ricerche per le aziende.
«Con la Bassetti, come Le ho detto. Con Bonomi alla Postal Market e alla Miralanza, con Giuseppe Stefanel per il lancio della sua catena di negozi...».
Con la Barilla.
«Erano i primi anni ’70. Il gruppo stava attraversando un momento di cambiamenti: alla produzione tradizionale della pasta, i cui profitti avevano avuto una contrazione, volevano affiancare una produzione da forno. Biscotti, insomma. Sì, ma di che tipo? Con quale confezione? Non certo le vecchie scatole di metallo... E lo slogan? Così io, Manfredi, Allodi e Mambelli cominciamo a lavorare sotto il coordinamento di Giovanni Maestri per creare un nuovo marchio».
E nel ’74 nasce il Mulino Bianco.
«Era l’epoca delle Br, delle sparatorie nelle strade, della crisi del petrolio... L’Italia era un Paese sul baratro, in mano ai sindacati, con la paura che i comunisti avrebbero preso il potere. Un momento di pessimismo e paura».
E voi gli regalaste un sogno.
«No, qualcosa di concreto: un messaggio di ottimismo e speranza. Come si stava bene “Quando i mulini erano bianchi...”. La “nostra famiglia”, prima contadina e poi urbana, era affidabile e rassicurante. La gente comprava la serietà, prima ancora che i biscotti. Che poi erano buoni, intendiamoci. Ma l’idea lo era di più».
Le hanno rinfacciato spesso di essere l’ideologo di quella “schifezza” del Mulino Bianco?
«Abbastanza. Ma ho sempre continuato a occuparmi di prodotti, di consumi, di società, di movimenti...».
Come il grillismo, che Lei fu tra i primi a prendere sul serio. Oggi ci sono le sardine.
«Mi sembra un movimento debole, analogo ad altri fenomeni nati a Sinistra – il popolo arancione, il movimento Arcobaleno, i Girotondi – cioè ondate di piazza che hanno una base anche larga ma non un nucleo “ideologico” forte, militante. Al contrario dei grillini che invece avevano una loro ideologia, anarchica se vuole, ma c’era, e infatti hanno preso il potere e condizionato il Paese. No, le sardine in questo sono deboli, finiranno col buttarsi sull’ecologismo alla Greta Thunberg».
Professore, come passerà il compleanno dei 90 anni?
«A casa, ho invitato i miei amici. Tanti amici».
L’amicizia, sulla quale scritto molto, è il valore più importante?
«No. Il valore più importante è il rispetto. A me non interessa essere amato, criticato o disprezzato. A me interessa essere rispettato, per come sono e per le mie idee. Ci pensa cosa potrebbe essere la politica, e la società, se ognuno, prima di tutto, rispettasse l’altro?».
· Luigi Pirandello.
Il Nobel dell'amore allo scrittore impazzito per la sua Jenny. Ecco le sorprendenti lettere inedite mandate dal giovane autore alla fidanzata di Bonn. Alessandro Gnocchi, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. «Jenny, mi son messo due volte a comporre / dei versi sulle vostre mani, e non ci son riuscito. / È meglio confessarlo: la mia arte non può nulla / dinanzi a un'opera così squisita della natura». «Sono a Roma, nella città eterna, nella città della mia anima (...) Questa gioia della natura, questo sole divino, il cielo, l'aria dolce, tutto mi sembra un'ironia... Era meglio il tempo del nord per l'anima mia - C'è sempre l'inverno in essa; il vento del mio desiderio non ha mai pace, mai!». «Posso nutrire col mio dolore i miei desideri malati e dolci. Ma sì! I desideri... - malati come me, e dolci come Te». Chi è quest'uomo che ha perso la testa per una donna lontana, a Bonn, in Germania? Chi è questo autore appassionato, che si dichiara ormai pazzo d'amore e ammette di non sapere neppure cosa scrive? È Luigi Pirandello, fino a qui considerato alla stregua di un sessuofobo. Beh, insomma. Non si direbbe a giudicare da Un amore primaverile. Inediti di Luigi Pirandello e Jenny (Mauro Pagliai editore, pagg. 252, euro 22) a cura di Giuseppe Faustini, docente di letteratura italiana allo Skidmore College di New York. Nel libro, accompagnate da un esauriente saggio storico-filologico, troviamo diciannove lettere inedite del premio Nobel, tradotte dal tedesco, e altri scritti che raccontano l'amore con Jenny Schulz-Lander, la giovane renana conosciuta al tempo degli studi universitari a Bonn. L'amore più felice e spensierato di Pirandello, durato lo spazio di un paio di anni (1890-1891), in cui lo scrittore cambia strada: laureato in filologia romanza, invece di intraprendere la carriera accademica a Bonn, decide di tornare a Roma per inseguire la sua vocazione letteraria. Ma Jenny resterà in Germania. L'inizio è un colpo di fulmine. Il 19 gennaio 1890 si festeggia il carnevale renano alla Gala-Masken-Ball del Beethoven Halle, a Bonn. Lo studente Luigi Pirandello, appena arrivato dall'Italia, decide di partecipare al ballo in maschera. Il giorno dopo scrive ai genitori: «una mascherina azzurra... che mi si attaccò al braccio e non mi lasciò per tutta la sera. A mezzanotte, ora in cui è costume tor via le maschere, fui meravigliatissimo di riconoscere nella mia diabolica incognita, una delle bellezze più luminose, che io abbia mai visto. Oggi... mi sono recato a farle visita in casa... Ella ha nome Jenny Lander, ha vent'anni». Voilà, un minuto e Pirandello le scrive sul ventaglio, in italiano: «Possano i freschi venti / che tu bella / verso di te procuri / essere dolci baci». Ma chi si crede di essere, Gabriele d'Annunzio? Potrebbe anche darsi. Infatti l'amore di Pirandello si tinge subito di colori consapevolmente feticistici. Le mani di Jenny, ad esempio. Non ci sono solo i versi trascritti in apertura di questo articolo. C'è anche un testo datato 17 aprile 1890 dedicato per intero alle mani dell'amata. Chiusura: «La verità è questa, Jenny, che io professo alle belle mani un culto strano, e che di più belle, in vita mia, non ne ho mai vedute». La storia finisce quasi subito. Ma l'amore? Jenny è una presenza discreta ma assidua nelle poesie di Pirandello. Può essere scontata in Pasqua di Gea (1891) o nelle Elegie renane (1895). Ma nell'ultima raccolta, Fuori di chiave (1912),è forte il rimpianto per aver abbandonato Jenny, che nel 1892 si trasferirà negli Stati Uniti: «E vedi, Or ella piange. / Vile forse son io?». E c'è anche il ricordo delle notti d'amore: «Pian l'uscio s'apre, e un dito sulla bocca, / entra scalza Jenny... Libro latino, / di ravvivare il fuoco ora ti tocca». È la poesia Convegno, pubblicata per la prima volta nella Rivista d'Italia (ottobre 1901) e passata appunto in Fuori di chiave, a testimonianza dell'importanza che Pirandello le attribuiva. Jenny ha lasciato le sue memorie in inglese, e naturalmente scrive di Pirandello. Lui, fin dalla prima sera, è incantato da... indovinate cosa? Le mani. Gliele bacia in continuazione. Lei è stupita. Ancora di più quando lo studente italiano, il 15 aprile 1890, si trasferisce nelle due stanze vacanti a casa Schulz-Lander. Esatto. Con un colpo magistrale, anzi: da Nobel per l'amore, Pirandello ora vive in affitto sotto lo stesso tetto di Jenny. I genitori di lei sospettano? Non si sa. In compenso Jenny spiega che la corrispondenza si interrompe quando lei decide di trasferirsi in Ohio. Tra i testi inediti, si segnala il libretto manoscritto Gedanken (cioè Pensieri, 1890): Pirandello traduce in tedesco per Jenny le poesie di Mal Giocondo (1890) e le prime stesure di altre che saranno pubblicate in seguito. Nella dedica leggiamo: «La felicità che abbiamo sognato, che vive dei nostri desideri e di essi si nutre, è l'unica gioia della vita. Una felicità che abbiamo goduto è sempre una felicità perduta». È già un addio, ad amore appena iniziato.
· Louis-Ferdinand Céline.
"Sartre e altri scrittori troppo stupidi per me". La mattanza degli artisti contemporanei nelle pagine dell'autore di «Morte a credito». Alessandro Gnocchi, Domenica 09/08/2020 su Il Giornale. Quanto siete disposti a sacrificare per una battuta sulfurea ben riuscita? Tutto? Niente? Céline non aveva timore di giocarsi la reputazione. L'iperbole spinta fino all'assurdo caratterizza non solo i suoi pamphlet, primo fra tutti il famigerato Bagattelle per un massacro, ma anche la sua corrispondenza. Non fa alcuna differenza se gli interlocutori sono i lettori, le amiche o il suo editore. Céline va a tavoletta, ottenendo sempre l'effetto voluto: sorprendere, scandalizzare, disorientare. A volte viene il sospetto che Céline metta alla prova chi legge e si chieda: mi prenderanno sul serio? Capiranno il grottesco delle mie esagerazioni? Era inevitabile prendere sul serio. Céline non mentiva. Si limitava (si fa per dire) a portare la sua opinione all'eccesso per evitare il rischio di essere noioso, verboso, intellettualoide. Un esempio interessante e molto divertente di questo modo di esprimersi si trova in La Bibliothèque de Louis-Ferdinand Céline, a cura di Laurent Simon & Jean-Paul Louis, Du Lérot éditeur (due volumi, pagg. 374+382, euro 90). Un lavoro monumentale, accuratissimo, utile allo studioso, formidabile per il semplice appassionato. In sostanza è un dizionario degli autori e delle opere citate da Céline negli scritti e nelle interviste. L'opera illumina alcuni aspetti centrali di Céline che rivela le sue fonti di ispirazione, per niente scontate. Da dove nasce, per esempio, la piccola musica, lo stile «jazzato», frenetico, fondato su una punteggiatura particolare, i famosi tre puntini di sospensione? Nelle pagine della Bibliothèque si trova risposta. Non è l'unico pregio dei due tomi. Viene fuori di prepotenza la cultura di Céline, lettore non particolarmente moderno, anzi, attardato su nomi e movimenti che, specie dopo la Seconda guerra mondiale, molti avrebbero ritenuto sepolti. Ne esce infine una mappa esilarante degli scrittori contemporanei divisi nettamente in due categorie: amici (due o tre) e nemici (due o tre legioni). Ecco un assaggio di cosa potete trovare nella Biblioteca di Céline.
MAESTRI. Paul Morand «lo riconosco come mio maestro come il Barbusse del Fuoco». Morand, autore di innumerevoli capolavori come Lewis et Irène, e Henri Barbusse (solo quello del Fuoco, però) sono modelli di stile. Entrambi hanno contribuito alla idea della «piccola musica», Morand per la prosa «jazzata», Barbusse per le innovazioni introdotte nei dialoghi. Il terzo nume è il romanziere svizzero Charles Ferdinand Ramuz, autore di Joie dans le ciel, per la concezione di prosa «oralizzata» spiegata nella Lettre à Bernard Grasset (1929).
AMICI. Pochi ma buoni. Marcel Aymé: «Come autore di racconti è meglio di Maupassant». L'autore del Passamura è stimato anche per il suo coraggio. Passato indenne dall'epurazione, nonostante l'assidua presenza tra le colonne di Je suis partout, rivista dei collaborazionisti, Aymé si batterà contro la vendetta dei vincitori, difenderà Maurice Bardèche e rifiuterà la Legione d'onore. Roger Nimier: «Gli scrittori francesi rinnegano la lingua francese, preferiscono il francese da traduzione ... Tutti eccetto Nimier». Nimier, autore delle Spade e dell'Ussaro blu, era stato l'enfant prodige della letteratura del Dopoguerra. Divenuto consulente di Gallimard, è tra i principali responsabili della riabilitazione «editoriale» di Céline. Fu il caposcuola degli Ussari, corrente anticonformista, reazionaria, in opposizione al dominio di Sartre. Tra questi scrittori, Céline apprezzava anche Antoine Blondin. Ma Nimier era un vero amico, uno dei pochissimi presenti al funerale di Céline. Tra i «buoni», Céline ammette anche tre italiani. Al Curzio Malaparte di Kaputt è imputato uno stile brillante, per quanto giornalistico. Di Gabriele d'Annunzio resta soprattutto il personaggio intravisto nel 1914 a Parigi. A Pirandello invece sono tributati grandi onori: «Certamente, con Gordon Craig, è il maestro del teatro della nostra epoca». Per il resto, Céline non sembra dare alcuna importanza a quanto accaduto in Italia dopo Machiavelli. Come dargli torto?
NEMICI. In questo ambito c'è solo l'imbarazzo della scelta. Escludiamo l'impubblicabile ovvero gli insulti spietati a D.H. Lawrence, Marcel Proust, James Joyce. Prendiamo Louis Aragon. Si erano conosciuti attraverso l'editore Robert Denoël. Aragon, surrealista, comunista, autore di Aurélien, provava un vivace interesse per Céline, che in cambio lo riteneva un «superidiota». Aragon voleva arruolare Céline tra i filosovietici e gli intimò di schierarsi. Céline rispose a modo suo, con il pamphlet Mea culpa, una secchiata di vetriolo in faccia al socialismo reale. Per ricucire, nel 1944, Céline invio ad Aragon una copia di Guignol's Band. Ottima la dedica: «Ad Aragon, il prossimo procuratore generale del comitato della grande purificazione». Che diplomatico...Molto nota la vicenda dell'odio nei confronti di Jean-Paul Sartre. Aggiungiamo solo che Céline annuncia di fare marcia indietro, a modo suo: «L'individuo è davvero troppo stupido, è scoraggiante». Meno nota la sorte di Allen Ginsberg e William Burroughs, padrini della Beat Generation, in visita a Céline. Piccolo particolare. Ginsberg ignorava il disprezzo viscerale di Céline nei confronti della letteratura a stelle e strisce. Primo esempio, William Faulkner: «Non mi assomiglia per niente e non è un mio discepolo. Tutto ciò che è americano o inglese mi è completamente indigesto». Secondo esempio, Ernest Hemingway: «Uno sbruffone e un dilettante». Ginsberg e Burroughs sono ricevuti gentilmente nel 1960. Il primo regala Howl a Céline. Il secondo porge una copia del romanzo Junky. Céline osserva i libri con negligenza e li appoggia nell'angolo più lontano della scrivania. Burroughs capisce il messaggio: Céline non ha tempo da perdere con le loro opere e sprofonda nell'imbarazzo mentre Ginsberg dà prova di logorrea. Il sarcasmo verso la repubblica delle lettere è spietato. Céline si lamenta della pubblicità e del consenso ottenuto da personaggi di cartapesta: «Visto che F. Sagan (l'autrice di Bonjour tristesse, ndr) è indicata dalla stampa mondiale come un genio del calibro di Rimbaud, mi dovrete collocare, una volta per tutte, tra Rabelais e Dostoïevski, e senza esitazioni». Questi sono semplici assaggi, per dare un'idea di quale sia La Bibliothèque de Louis-Ferdinand Céline. Si possono costruire percorsi «personalizzati» che portano sempre a scoperte interessanti. I classici latini erano assai presenti nella cultura di Céline. Tra i filosofi, sembra spiccare Blaise Pascal ma Céline conosceva anche Friedrich Nietsche e Oswald Spengler. In Danimarca, durante la reclusione, Céline meditò molto Chateaubriand (non le opere narrative) e gli aforismi di La Rochefoucauld. Alessandro Gnocchi
Giuseppe Marcenaro per “il Foglio” il 13 aprile 2020. Perverso in tutto. Radicalmente. In politica, è noto. Con le donne se ne può aver conferma gettando un voyeuristico sguardo nelle lettere inviate alle "amiche". Eufemistica definizione delle avventizie diverse amanti, con le quali è superbamente menzognero. Dispensatore di sé qual tipo "leggendario". Esibisce, con strane carinerie, pur tra le più trucide circonvenzioni, la propria imago di cavaliere dell' ideale. In realtà punta soltanto a portarsi a letto il femminaio che via via frequenta in giro per l' Europa. E quelle beate donne stanno al gioco erotico. Lui, a quel tempo, il medico Louis -Ferdinand Destouches, è in procinto di trasfigurarsi nello scrittore Céline: un uomo groviglio. A modo suo vittima delle proprie pulsioni: cerca di esorcizzare la paura con il furore dell' immaginazione. Il suo dramma sta in una totale mancanza di equilibrio. Un combattimento impari, tutto interiore, tra la piena intelligenza con cui affronta la realtà e la sua inesistente resistenza morale. Un immoralista. Meglio, un amorale. Si lascia coinvolgere dal gioco delle passioni, dei risentimenti, dei ciechi e assurdi furori. Le "Lettere alle amiche" (ed. Adelphi, 260 pp., 15 euro) sono in questo caso un catalogo esemplare di nefandezze mascherate: un gioco a rimpiattino, il cui fine è sempre e comunque una invarigolata tra le lenzuola, benché sembri parlare d' altro. Una propedeutica a ciò che avverrà. Per rinnovellare, con la scrittura di una lettera, quanto è già avvenuto. E' immaginabile come un provetto amatore? Capace di lasciare un segno per la sua perizia? Scriveva il 4 novembre 1932 da rue Lepic, ai piedi di Montmartre dove allora abitava, a Erika Irrgang: "Divenga decisamente viziosa sessualmente. E' una cosa che aiuta molto e libera dal romanticismo, la peggiore delle debolezze femminili - e delle debolezze tedesche soprattutto. Impari a fare l' amore 'da dietro'. E' una cosa che aiuta tantissimo a far contenti gli uomini senza alcun rischio. Davanti è una rovina. Attenzione! Massima attenzione!". L'"angoscia" che una delle sue amanti potesse rimanere incinta è una costante in tutte le lettere. Per poi passare a parlare di sé e del suo recentissimo "Voyage au bout de la nuit": "Il libro è molto stroncato e molto favorevolmente accolto dalla critica... Staremo a vedere. In fondo ha poca importanza. Dopo dieci anni un libro è vecchio più del giornale di ieri! Per quanto vitale sia stato: ogni cosa muore...". Erika Irrgang era un studentessa tedesca che sarebbe diventata giornalista e romanziera. Sarà lei a raccontare l' incontro con Céline. A rievocare le settimane trascorse a Parigi, nella casa di rue Lepic, le visite che lui le fece a Breslavia, a Berlino e a Cambridge. Una nuvola di lettere dove Céline assume verso la giovane un atteggiamento affettuoso e paterno. Con brutali sfondoni erotici. Céline al tempo del loro primo incontro ha trentotto anni. Aveva forse immaginato Erika come una possibile anima gemella "inquieta, intraprendente e un po' perversa". Doveva aver proiettato le difficoltà della sua sorte sulla sorte di lei. Il rapporto tra i due sembr' essere una specie di gioco "al quale in qualche modo abbiamo già perso in partenza e in cui, per avere la minima possibilità di vincere, bisogna lottare con molta durezza e furbizia, eliminando qualunque forma di vita sentimentale a beneficio della sicurezza professionale, sociale e politica". Le lettere, siamo nei primi anni Trenta, non si limitano al privato, fanno vedere l' incombenza in Germania di una forza nefasta che avrebbe mutato i destini dell' Europa. Con terribili profezie da parte di Céline. Il 17 febbraio 1934: "Qui accadono cose piuttosto tragiche. Tutto questo finirà fra cinque o sei anni: l' unione europea si farà nel sangue". Per concludere con saluti di inquietante e tragica ironia: "Heil Hitler!", "Heil Goering!". E' già il polemista. Il nazista a livello embrionale. Più tardi, nel 1965, Erika Irrgang avrebbe riepilogato il proprio "viaggio al termine della notte": "Andavamo in giro attraverso le strade notturne di un quartiere malfamato. Louis si metteva a parlare con dei vecchi ubriaconi e delle prostitute pallide. Dava a un poveraccio che sputava i polmoni una ricetta per un ricovero in un dormitorio municipale. Alzava poi le spalle quando il malato stesso ce la strappava davanti agli occhi. Dopo, mi faceva una conferenza sull' inutilità di aiutare la gente, e descriveva con dei dettagli orrendi la 'corte dei miracoli' che si parava davanti a noi. Fui molto colpita da queste escursioni nella notte. Credo che le facesse per me, come esempio, per mostrarmi come fosse importante prendere le distanze dalla vita sulla strada. Per rallegrarmi, una volta mi propose di andare al Bois de Boulogne per veder sorgere il sole. Era un mattino magnifico. Parlammo pochissimo, e non in contrammo anima viva sino al momento di far colazione in uno dei caffè del parco. Non riuscivo a capire come l' insonnia non gli lasciasse il minimo segno di stanchezza, sia sul volto sia sulla sua attenzione. E quando dopo queste avventure notturne tornavo a dormire all' appartamento in rue Lepic, lo attendevano ancora molte ore di servizio alla clinica". E le altre amiche? Tra note e anonime una lista del tipo "Madamina il catalogo è questo". Tutte quante hanno "avventure brevi". Dovevano pensare all' amante tale a un satiro perennemente infoiato. Tuttavia, dopo essersele fatte, non le abbandona. Prosegue il combine con un confidenzialissimo compagnonage. Attraverso le lettere. Continua a scoparle, con la scrittura. Coinvolgendole anche nella sua avventura letteraria, confidando, menzognero, indifferentemente all' una e all' altra: "Mi ha ispirato per una parte di 'Mort à credit'". Un "grande amore" sembrerebbe aver tuttavia segnato il tourbillon "sentimentale" del satiro. Quello per Elizabeth Craig, cui dedicherà "Voyage au bout de la nuit". Elizabeth e Louis si erano conosciuti nel 1926 in una libreria di Ginevra. Elizabeth veniva dall' America, da Los Angeles. Ballerina a New York nel celebre spettacolo Ziegfeld Follies. Era poi arrivata in Europa per seguire corsi di danza a Parigi. Céline, medico, lavorava presso la Société des Nations. A Ginevra si sentiva solo, lontano dalla moglie Edith Follet, sposata nel 1919, rimasta in Bretagna. Elizabeth ha ventiquattro anni. Emana ardore. Per lei Céline perde la testa. Sui due piomba però il dramma. La Société des Nations non rinnova il contratto a Céline. Deve tornare in Francia. Va a vivere a Clichy. Poi a Parigi, dove trova un alloggio in rue Lepic. Elizabeth lo raggiunge. Vivranno insieme fino al giugno 1933. Céline, nonostante la passione per la bella americana, non perde certo il "vizio": una, due, tre donne contemporaneamente. Fa tutto scopertamente. Possibile si trovino nel letto della casa di rue Lepic anche in tre. Poco dopo la pubblicazione di "Voyage au bout de la nuit" si consuma la rottura con Elizabeth. Lei torna in America. Céline vivrà il distacco dolorosamente. La storia, confessa, lo lascerà "humainement infecte, vraiment américaine, hélas!". Il ricordo di lei non lo abbandonerà e tenterà di riconquistarla, durante un viaggio che farà in California nel 1934. A Hollywood cercherà, senza successo, di vendere i diritti cinematografici del "Voyage". Gli resterà nell' animo un amarume cupo quando scoprirà che "l' imperatrice", come chiamava Elizabeth, aveva sposato un ebreo, Benjamin Tankle, agente immobiliare. Qualcuno avanza una curiosa ipotesi: il tipo che gli ha rapito il grande amore possa essere la sorgente del suo efferato antisemitismo. L' uomo però non si perde d' animo. All' orizzonte affiorano, ininterrotta giostra, Erika Irrgang e poi, una certa N., ebrea austriaca, insegnate di ginnastica a Vienna, vivace frequentatrice di influenti personaggi della cerchia psicoanalitica, con cui ruffianamente Céline si svela: " ... amore... non amore... importa poco. Ciò che conta è vivere soffrendo il meno possibile. Le donne mi attizzano, per quanto cerchi di resistere. M' attraggono molto le perversioni. Bisognerà pure che si vada a letto tutti insieme un giorno o l' altro. Del resto sono andato a letto con quasi tutte le donne attraenti che conosco. E lei, modestamente, lo sa bene. Per me è solo una conversazione più sincera di altre, una conversazione sui culi. La mia fidanzata Elizabeth non rientra prima di gennaio (la lettera è dell' ottobre, ndr). A Vienna sarò dunque da solo. Spero che il suo nuovo amore non le impedisca di dedicarmi un po' di tempo... Se non può evitare di ricevere il suo filarino, starò volentieri nella stanza accanto. Anche questa cosa mi fa molto piacere. Tutto mi fa piacere. Dal momento che mi diverto e imparo... Si diverta pensando a me. Si possono amare molte persone contemporaneamente. E' una verità che quasi sempre uno scopre quando muore". Nel girone anche Evelyn Pollet, giornalista e scrittrice. Pubblicò un libro su Céline che ebbe un grande successo dove evocava l' uomo e l' artista che le aveva lasciato un segno indelebile. Alla memoria degli approcci erotici rimase coinvolta per tutta la vita. Ricordava le sue mani intelligenti capaci di far fremere il corpo. A oltre ottant' anni evocava i rendez-vous con nostalgia: "Gli occhi di quest' uomo duro avevano una straordinaria espressione languida, di confidenza, di richiamo". Evelyn Pollet è morta centenaria nel 2005. Si vede che le intime confidenze con Céli ne erano corroboranti: infatti un' altra amante, la giornalista e reporter francese Elisabeth Porquerol, morirà nel 2008, a centotré anni. Il catalogo delle femmine le cui identità sono arrivate fino a noi prosegue con Karen Marie Jensen, ballerina danese sempre in giro per il mondo. Anche se, pare, trovasse il tempo di vivere con Céline approcci ravvicinati. Gli era stata presentata da Elizabeth Craig. Con Karen si confidava per il perduto amore con "l' imperatrice" e nelle lettere sputava tutto l' odio per il marito che la Craig aveva scelto: "... mi vendico come posso... ah! Il piccolo Romeo, più bello, più ricco, più giovane arriva tutto pimpante... un' impotenza spirituale inaudita. Un lirismo da Galeries Lafayette, entusiasmi da ascensore... l' anima da luccicante trombone che vive in una nazione di garagisti ubriachi e tra non molto completamente giudei". Entrò poi nel corteo Lucienne Delforge, una giovanissima pianista, agli inizi d' una carriera musicale che avrebbe fatto di lei una vedette internazionale. Céline, un uomo già maturo, celeberrimo autore del "Voyage au bout de la nuit", la vide il 4 aprile 1935. Lucienne dava un concerto alla Salle Chopin a Parigi. Appassionato di musica, Céline cadde in deliquio. Subì come folgore il fascino della giovane interprete. Il 3 maggio successivo la rivide alla Salle Caveau. Entrambi erano tra il pubblico. Nell' intervallo lui la avvicinò. Le confidò che il modo in cui lei aveva eseguito, un mese prima, lo Studio di Chopin noto come "Rivoluzionario", gli aveva chiarito un certo sentimento di crudeltà che aveva dentro di sé, aiutandolo a finire un capitolo del suo nuovo libro, "Mort à crédit". Nei giorni successivi si rividero. Lui le regalò alcuni libri, tra cui "L' Eglise" e "Le Désir", e un dipinto di Marie Laurencin. La storia partì. Un intreccio tra due personalità fortissime. Conoscenza intima nel solito appartamento di rue Lepic. Un weekend a Londra. Poi i viaggi insieme: la Danimarca, la Svizzera, l' Austria. E le lettere. Al culmine della passione lei divenne "tesorino mio". Per proseguire con una lettera di nove pagine: "Comme je t' aime bien. Comme j' ai besoin de toi. Tu sais que je ne mens jamais, que je ne ruse jamais... je t' aime bien fort et pour la vie, forcément". La rottura si consuma nell' estate del 1936. Anche per lei lettere e accorate raccomandazioni. E il proprio ferale dolore della vita. "Sono contento di saperti in forma smagliante. Va tutto bene così. Sii prudente. Bada a te. Non fidarti dei tuoi impulsi troppo rischiosi. Non tentare il diavolo. Lui distrugge... Non ho mai avuto una vita facile... Giorni di macigno seguono a giorni di cacca. In fondo niente potrebbe piacermi di più. E' la buona vita del gaglioffo per cui son fatto. Faccio collezioni di sfighe... Continuo nella notte a essere perseguitato dagli incubi". Al tempo di questa lettera Céline aveva già incontrato Lucette Almanzor, ballerina dell' Opéra comique, che sposerà nel 1943 e con cui condividerà gli ultimi venticinque anni della sua vita. Nel 2005 sei lettere d' amore e poi d' amicizia inviate da Céline a Lucienne Delforge furono vendute all' asta chez Drouot -Richelieu. La stima era piuttosto bassa. Da mille a millecinquecento euro le lettere brevi. Le più lunghe, cinque -seimila euro. I collezionisti si contesero gli autografi, facendo salire il prezzo: tremila euro per le lettere brevi; diciannovemila per le più importanti. Alla fine, un collezionista anonimo, si aggiudicò tutto l' insieme per trentottomila euro. "E' un ottimo risultato. Non avrei mai immaginato di ottenere un tale profitto", commentò il banditore dell' asta.
· Malcom Pagani.
Malcom Pagani per vanityfair.it il 23 settembre 2020. Chi è davvero Francesco Vezzoli? Il più grande artista italiano? Un genio? Un visionario? Un impostore? Un generoso? Un randagio? Un misantropo? Un nostalgico? Un modernista? Un ragazzo malinconico che ama mangiare in solitudine a Milano il 15 di agosto? Un uomo fortunato che non avendo «debiti sentimentali né mariti, amanti, cani o parenti» si prende il lusso di poter vedere alternativamente una televendita, Gomorra, «sono pazzo di Stefano Sollima», o un film di Truffaut sul suo letto alle 4 di mattina? «O forse», sostiene lui, «soltanto un frocetto di provincia che ha finalmente compiuto la sua transizione diventando a quasi cinquant’anni editor di Vanity Fair?». Dopo 2.481 messaggi dal 12 agosto a oggi, dirlo è difficile. Simone Marchetti gli ha affidato il compito di curare uno dei numeri più importanti dell’anno. Lui ha inizialmente accettato con entusiasmo. Poi giocato a fare la diva: «Simone, Paolo Sorrentino e Tommaso Paradiso sono molto più celebri di me, sei proprio sicuro che sia una buona idea?», infine gettato la maschera. Ha prima provato ad affamare chi scrive in un noto ristorante giapponese dove – si sa – il cibo è considerato una volgarità (eravamo a Roma per impostare il lavoro, faceva caldissimo come accade in estate e a saper leggere tra le righe, dell’ossessione che lo avrebbe dominato schiacciando sul suo progetto le nostre misere esistenze piegate all’inventiva e agli orari nottambuli, c’erano nell’aria immobile tutte le premesse), poi messo a dieta i sogni vacanzieri della redazione con chiamate continue, cambi di rotta, perfezionismi più o meno virtuosi. Da allora, nei nostri cuori, si sono succeduti uno spettro di sentimenti non sempre lineari. Vezzoli – non avevamo ancora idea di cosa ci attendesse – è prima diventato l’oggetto della nostra gratitudine, «grazie Francesco, che bello, è un vero onore», poi un’occasione di lamento davanti alla macchina del caffè (il lamento, dei giornalisti, è l’abito mentale proprio come tutte le idi di Marzo redazionali della storia hanno un erogatore di caffè come testimone oculare), infine un incubo: «Sai che stanotte mi ha scritto alle tre e trentacinque?». Ora che il meraviglioso esperimento che ha messo in piedi si è concluso, sollievo e gratitudine si danno la destra. Il giornale è stampato e – per dirla con David Foster Wallace – è stata un’avventura divertente che non faremo mai più. «Pensavate che fosse un gioco? Io ho provato davvero a fare il direttore. Ci ho messo impegno, voglia, ambizione».
Quale ambizione, soprattutto?
«Quella di immaginare un giornale che rispecchiasse le mie fantasie da bambino, che non parlasse di me con il sospetto dell’egoriferimento e che avesse una credibilità editoriale. Prima di scegliere un tema, ho studiato quelli dei miei predecessori a cui avevate affidato la curatela. Figure che – come le dicevo prima – sono molto più note e pubbliche di me. I numeri di Sorrentino, Paradiso e Genovese avevano una loro precisa narrazione. Io, come Francesco Vezzoli, che giornale avrei potuto fare?».
Ce lo dica lei.
«Sessanta pagine di moda su Rei Kawakubo, un reportage su Bret Easton Ellis che viene a Milano e a spese della Condé Nast riscrive Less Than Zero o magari un racconto su Rupert Everett che cerca compagnia su Grindr. Ma un giornale così, oltre a non passare per le maglie della censura, avrebbe venduto trenta copie. È chiaro che avrei potuto farlo “strano”, come direbbe Verdone, riempirlo di mille fantasie o parlare d’arte fino allo sfinimento. Ma non mi interessava».
Cosa le interessava?
«Poter diventare una specie di repertorio illustrativo per una griglia concettuale autonoma. Nella vita ho avuto la fortuna di poter passare molto tempo con figure mitologiche come Ingrid Sischy o Franca Sozzani, persone che pensavano al giornalismo come all’estensione di un immaginario senza confini. A una tavola imbandita in cui i talentuosi potessero sedersi e dipingere una tela collettiva tra una portata e l’altra».
Una tavola l’ha imbandita anche lei.
«Io ho seguito le regole di Maria Angiolillo, la dama dell’editoria che come insegna Roberto D’Agostino metteva intorno al desco santi, potenti e peccatori. C’erano sempre due tavoli da dieci, lì, all’ombra di piazza di Spagna, e non mancavano mai delle signore apparentemente inutili, ma invece fondamentali, che sareste voi giornalisti».
Lei ne ha scelti alcuni con il tesserino nella tasca e ne ha inventati altri al loro esordio. In questo numero Emma Marrone intervista l’omonima Bonino, Isabella Ferrari fa lo stesso con Caterina Caselli e lei si confronta con Maria De Filippi.
«Per questa trovata non mi daranno un premio. Andy Warhol ci aveva pensato molto prima di me e se fosse stato vivo oggi avrebbe detto: “C’è James Franco da intervistare, a chi lo diamo? A Kim Basinger?”. Ho solo scelto dieci figure che incarnassero la cosa più simbolica del loro specifico, ho apparecchiato questa tavola e ho dato al lettore il ruolo più privilegiato: una mosca che può volare sopra tutte le conversazioni».
Sono tante e tutte diverse tra loro.
«Ho provato a comporre una melodia piena di picchi. Tutti questi picchi messi insieme danno un risultato, ma non ho mai voluto eliminare quello che penso sia alla base del discorso giornalistico: lo scambio di punti di vista, la curiosità reciproca, la conversazione che una volta letta ti spinge a cambiare idea o a emozionarti. C’è dialettica e profondità tra Marrone ed Emma sulla problematica della malattia e c’è scoperta nel confronto tra Isabella Ferrari, diciottenne imprigionata nel ruolo di ninfa vanziniana poi capace di evadere da chi avrebbe voluto incasellarla in una sola dimensione, e Caterina Caselli, la nostra Katharine Graham. Alla morte del marito, Katharine aveva ereditato nello scetticismo il Washington Post per renderlo in seguito ancor più pazzesco di prima e Caterina Caselli ha fatto lo stesso con la Sugar astraendosi in fretta dalle scene per rivelarsi una straordinaria imprenditrice e talent scout. Donne capaci di rilevare da un uomo potente entità potenti e di magnificarle ancora di più. Donne che nell’immaginario gay, il mio immaginario, sono alla stregua di divinità assolute».
Tutto il numero è dedicato alle donne italiane. Donne iconiche che lei ha rappresentato con opere ad hoc.
«Tutte le icone sono prigioniere della loro riconoscibilità e visto che alcune delle donne intervistate le conosco e hanno da un lato una personalità che è larger than the image, ma dall’altro sono anche madri e sorelle, mi piaceva l’idea di portarle fuori dalla loro comfort zone. Il numero è un’operazione concettuale che ovviamente è reso vivo dalla risposte delle donne che abbiamo interpellato, ma avrebbe avuto senso anche se Elena Ferrante avesse opposto alle domande di Daria Bignardi, come in un film di Mel Brooks, una serie di no uno dopo l’altro. Nella messa cantata del giornalismo è solo il rifiuto a fare notizia. Se ti alzi e te ne vai, se non rispondi, se giri le spalle, catturi l’attenzione. In certi ambiti non accade quasi mai».
Le sembra un male?
«È un indizio. Si è mai alzato qualcuno per andarsene da Fabio Fazio? No. Ed è un peccato. Magari venisse fuori un alito di vita, uno scazzo, una contrapposizione. La vita, l’editoria e il giornalismo non dovrebbero essere soltanto inchini e bomboniere. Se Fazio mi chiedesse una stronzata mi alzerei e me ne andrei e forse non sarebbe neanche una questione di coraggio, perché non posso negare che il sistema di potere di Fazio non ha nessun potere sul mio sistema».
Siamo tutti contraddittori?
«È la vita a esserlo. Proprio come il desiderio. Ho messo le donne al centro del numero che ho curato ma non ne ho mai provati verso le donne in senso carnale. Ho sempre pensato che le mie pulsioni per i maschi erano talmente genuine e potenti da cancellare ogni altro desiderio verso l’universo femminile. La donna si sarebbe meritata un desiderio all’altezza del desiderio che provo per un maschio, mi sembrava ingiusto darle un desiderio di seconda mano. Certo, quando Mario Testino mi fotografò con Daria Werbowy, me la sarei mangiata di baci, ma non c’era impeto né urgenza. E il sesso è impeto e soprattutto urgenza».
Non va d’accordo con la monogamia.
«La monogamia è un’invenzione preoccupante, difficilissima da gestire, con filiazioni incerte».
Un dono del senso di colpa cattolico?
«Ma io penso che tutte le colpe le abbia più o meno il capitalismo e che un’azienda possa tenere insieme le famiglie molto più di quanto non possano farlo i figli. Le uniche coppie che resistono, salde e amorose, sono quelle che hanno costruito insieme qualcosa. Il commovente frutto di un progetto, di due ambizioni condivise».
Qual era il progetto Vezzoli nell’ambizione dei suoi genitori?
«Era l’amore. Avevo otto anni e loro parlavano ai loro amici delle loro vite. Lui, papà, giocatore di bridge e un po’ playboy. Lei, bionda, perfettamente pettinata, sorridente. A un certo punto uno dei loro amici gli domandò: “Ma in tutto questo, cosa c’entra Francesco?”. Lui la guardò intensamente e disse: “Come cosa c’entra? Francesco è il frutto dell’amore”. Un figlio che ascolta una cosa simile si sente come minimo molto amato».
La prima immagine di donna che ricorda?
«I primi ricordi si hanno più o meno verso i quattro anni e io ho questa memoria precisa: è il 1975, sono sul divano della nonna e vedo Mina e la Carrà in Milleluci in una tv in bianco e nero».
Che cosa hanno rappresentato le donne nella sua vita?
«Moltissimo. Io ero un bambino venuto al mondo dopo un gravissimo lutto familiare che aveva turbato la mia famiglia in maniera molto profonda. Il mio arrivo, accolto almeno inizialmente come un evento conflittuale, poco dopo ha rappresentato un soffio di vita nuova. I miei genitori mi affidavano continuamente alle due nonne: quella materna, di ascendenza altoborghese, e quella paterna, dalle origini più umili. Le due si volevano molto bene e le vacanze a Riccione erano un rito che riuniva entrambi i gruppi e appianava le differenze. Si partiva in nove, a bordo di un furgone a noleggio con nove posti. Le nonne davanti, le grandi valige, il mio sguardo stupito e i miei settimanali preferiti, Novella 2000 e Stop, da divorare tra un tratto di strada e l’altro, subito dietro».
Leggeva i settimanali a nove anni d’età?
«Quando si trattò di partire per andare a trovare i parenti in America sono corso da mia nonna Mimì e le ho detto: “È vero che mi porti allo Studio 54?”. So che sembra una storia inventata, ma è vera. Nei miei ricordi di bambino la carta stampata era il veicolo per sognare, per fare i capricci, per andare altrove con la fantasia. Pochi giorni fa sono tornato a Riccione. Mi si è avvicinata un’ombra del passato e mi ha detto: “Mia madre si ricorda di te con un libro di Gianni Rodari e una copia de la Repubblica sotto il braccio”. Come avrebbe detto il suo amico Tommaso Paradiso, il misfatto si compiva sotto il sole di Riccione e io venivo farcito, proprio come un tacchino ripieno, di una quantità di immaginario forse eccessivo. Viziato da una delle due nonne rimasta vedova troppo in fretta, abbigliato come certi bambini già adulti che in giacca e cravatta furoreggiavano a nove anni al Costanzo Show, con uno sguardo troppo triste e troppo adulto per la mia età, con i miei completini, agli occhi degli altri dovevo apparire un prodotto simile».
Torniamo alla passione per i giornali?
«Dei magazine ovviamente sono un feticista e devo ai magazine molte delle scelte della mia vita. Ho sempre frequentato gente più adulta di me che possedeva sterminate collezioni di i-D o di The Face. Io quei giornali li studiavo e un giorno, invece di andare a Londra con loro, li ho salutati e sono andato alla Saint Martins per conto mio. Attraverso quei giornali, in assenza di Internet e di Instagram, esisteva un luogo dove potevo gravitare con gioia e avvertire un’appartenenza magari inventandomi un ruolo utile a esistere».
Lei su Instagram però non c’è.
«Su Instagram ci sono per spiare e, non è una battuta, spio per motivi puramente antropologici. Essendo uno spione non posso mandare un direct message a uno che mi piace: posso solo guardarlo senza divieti, che è meglio».
Cos’è per lei il divieto?
«Non lo so perché nella mia vita non l’ho mai provato e, almeno dai miei affetti più prossimi, una vera censura non l’ho mai subita. Mi censuravano i professori che al liceo non discutevano certo la mia sessualità, un orientamento che al limite pagavo con la solitudine, ma la mia era presunzione. Non ero neanche un fighetto all’epoca, ero peggio. Ero uno stronzo».
Oggi è ancora uno stronzo?
«No, non credo. Allora mi dovevo difendere, adesso, a cinquant’anni, da cosa mi devo difendere?».
Dalla stessa solitudine che avvertiva al liceo?
«La solitudine, ma l’ho capito con il tempo, è sempre un po’ una scelta. Se vuole il sesso sa dove trovarlo, se vuole l’amore deve impegnarsi, ma alla fine trova anche quello. Se escludiamo tutti quelli che sono colpiti da lutti fisici ed emotivi, per gli altri, per gli abili e arruolati, c’è un mondo in cui è possibile decidere di essere ciò che si vuole. A patto, ovviamente, che si rispetti la neoreligione del corpo».
Ce ne parli.
«Siamo tornati indietro agli stereotipi, ai luoghi comuni. Come dice il commendator Fenoglio all’amante di Alberto Sordi ne Il vedovo, il corpo è ritornato centrale. Il discorso di Fenoglio: “Signorina, una con un corpo come il suo avrebbe avuto una carriera garantita”, oggi è tornato a valere in maniera predominante».
La impressiona? Le sembra una barriera alla libertà di scelta?
«Sarà catalanesco o lapalissiano, ma secondo me ognuno è libero nella misura in cui sceglie di non essere prigioniero. Esistono dei modelli e tu puoi anche decidere che quei modelli non abbiano un impatto su di te: ma devi fare un grande lavoro su te stesso perché questi modelli, oggettivamente, ti assediano. Una volta c’erano le tentazioni del dottor Antonio: “Bevete più latte/il latte fa bene”, mentre adesso gli slogan vellicano la muscolosità e venerano la forma fisica come una seconda religione. La transizione in cui si tende a cambiare radicalmente il proprio corpo, una transizione che abbraccia soprattutto gli uomini, non modifica solo l’estetica, ma cambia in profondità anche i caratteri. Le pubblicità di oggi, piene di corpi in cui il messaggio del before and after è fin troppo esplicito, hanno a che fare con l’identità. Cambia il tuo modo di parlare, la tua relazione con gli altri, il tuo grado di aggressività, non solo la tua taglia di pantaloni».
Cosa se ne deduce?
«Delle due l’una: o milioni di uomini avevano a loro insaputa un Arnold Schwarzenegger dentro di sé oppure sono condizionati da un universo che impone di indossare un immaginario».
L’antidoto?
«Bisogna essere così sicuri di quello che si costruisce da non aver bisogno di mettere in atto questo tipo di transizioni».
Lei ha scelto di mettere sulla copertina di Vanity una donna transgender in un servizio firmato da lei. Cosa voleva dire?
«Che le trans sono meravigliose e anelano esprimere una femminilità gloriosa, fiera e desiderabile. In questo servizio fotografico non le volevo grottesche come quelle di RuPaul, né tristi e pauperiste sul ciglio di una strada in una Suburra di confine. Volevo alzare la posta e averle viscontiane, eleganti, grandiose. È il mio modo di inserirmi nel dibattito sulla transessualità glorificando la loro identità in una maniera plausibile e visivamente fiammeggiante».
Cosa è per lei il conformismo e quanto ne siamo permeati?
«È conformismo anche sventolare la bandiera dell’anticonformismo, ma per me il conformismo peggiore è quello dei rivoluzionari che a proposito di transizione sono arrivati alle poltrone. Quello delle coppie gay con i bambini agli Hamptons e le foto del matrimonio sulla credenza: il matrimonio è un diritto che abbiamo voluto e che ci siamo conquistati, ma come dice Arbasino i matrimoni sono roba da notai».
I matrimoni saranno anche roba da notai, ma i diritti sono diritti.
«E che fa? Mi dà una lezioncina? Io per me un matrimonio non lo voglio, ma non mi deve passare neanche per la testa di impedire a qualcuno di farlo: devo combattere strenuamente perché chiunque abbia quel diritto. Se poi compiere queste scelte ha portato qualcuno in un cul-de-sac piccolo-borghese, è una libera scelta di chi la scelta la compie. I libri li hai e Madame Bovary è sempre lì, a portata di mano».
Cosa le fa paura oggi?
«Il politicamente corretto. È forse vero come sostiene Michele Masneri che in Italia forse non sia mai arrivato, ma l’Italia è uno spicchio di mondo neanche troppo vasto. Ecco, pensandoci meglio e allargando il discorso, il politicamente corretto prospera dove c’è la paura di esprimersi liberamente».
Ci faccia un esempio.
«L’America. Non l’ho mai vista impaurita come oggi, tesa, cupa, isterica, violenta. Ogni dibattito è avviluppato sulla correttezza. Sulle regole, anche lessicali, utili a non offendere le minoranze. L’offesa è odiosa, ma la cappa conformista non è da meno. Prenda le regole per gli Oscar. Gettano chiunque in uno stato di prostrazione, a destra come a sinistra, direbbe Giorgio Gaber. I produttori non sanno più da che parte buttarsi, che film fare per non essere aggrediti all’origine. Aver paura delle reazioni che suscita un film non solo è autocensura indotta – e non ci vuole un genio per capirlo – ma ci restituirà dei film senza contrasto, senza dibattito, di una noia mortale. Ma lei si immagina se qualcuno in Italia andasse da Nanni Moretti e gli dicesse: “Nanni, perché non vai a girare un film sui froci al Pigneto?”».
Lascio la parola frocio?
«Sì, se la dice un frocio va benissimo. L’Academy ha paura esattamente come in questo momento lei ha paura di scrivere una parola detta da me. La responsabilità diventa subito collettiva, quasi universale, e per me questo rappresenta un problema. Questo accadeva anche con il #MeToo. Si confondeva un problema reale prima con una crociata, poi con una caccia alle streghe così violenta da costringere a intervenire Catherine Deneuve: “Lasciateci un po’ di pericolo della seduzione”, scriveva su Libération, e io non mi sento di darle torto».
L’America dove lei ha vissuto a lungo andrà presto al voto in una situazione di paura.
«L’America vive una fase che è paragonabile ai nostri anni di piombo. La popolazione ha paura dei propri politici e i politici sono terrorizzati dal potenziale esplosivo della ribellione e delle rivolte. C’è una tensione politica enorme e dove regnano tensione e terrore, il dibattito politico culturale è congelato».
Colpa di Trump?
«Trump non c’entra. Il problema non è disprezzare Trump, non mi costa nessuna fatica, ma andare oltre e capire. Il punto non è detestare, ma comprendere ciò che accade. Capire è più difficile, meno semplicistico, implica uno sforzo. Il fatto che l’America sia impossibilitata, non incapace, ma proprio impossibilitata ad avere un dibattito sereno è triste e al tempo stesso restituisce una sorta di grande chance all’Europa per diventare l’epicentro di un dibattito pubblico meno isterico».
Una chance che sarà sfruttata?
«Abbiamo solo bisogno di una nuova Maria Angiolillo che invita ai suoi tavoli pensatori e politici degni di questo nome».
· Marcella Pedone, vita da fotografa.
Marcella Pedone, vita da fotografa: «Così ho raccontato le donne». Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Roberta Scorranese. La donna che ha visto trascolorare un secolo ha gli occhi azzurri, la lucidità di una studentessa e la voce ferma. E nonostante sia prossima ai 101 anni (li compirà il 27 aprile) Marcella Pedone ricorda ogni dettaglio della sua incredibile carriera, cominciata alla fine degli anni Cinquanta, quando decise che avrebbe girato l’Italia da sola fotografando persone, donne soprattutto, cambiamenti, paesaggi. Una vita condensata anche nei 177 mila scatti che Pedone ha donato al Museo della Scienza e della tecnologia di Milano, assieme alle sue Rolleiflex, Hasselblad, Mamya e Nikon, con le quali ha lavorato fino ai primi anni del Duemila. Ogni scatto racchiude una storia. «Guardi questo paesino abruzzese», dice mostrando un’immagine con il Gran Sasso sullo sfondo. «Si era svuotato, tutti erano emigrati in cerca di lavoro. Poi sono tornati e hanno rimesso a posto il borgo. Si chiama San Giorgio». Nel salotto della sua casa milanese dove vive da sola tra libri di filosofia e uno sterminato (ma ordinato) archivio, Pedone racconta: «Andavo da sola anche in posti in cui, all’epoca, per una donna era proibitivo recarsi. Una volta in un paesino lucano le signore del luogo mi invitarono a confessarmi. Sbigottita chiesi perché e loro risposero: “perché porti la macchina da sola”. Per loro era peccato». Nata a Roma da genitori toscani, ma vissuta a Milano, Pedone si è inerpicata fino in cima all’Etna, ha scalato le cave di marmo della Toscana assieme ai trasportatori di pietra, ha documentato l’ultima mattanza di tonno in Sicilia e il lavoro nelle risaie del Nord, l’alluvione del Friuli del 1965 e una delle ultime apparizioni di Enrico Mattei. Sempre da sola, prima in auto e poi in roulotte. «Le case editrici appaltavano i lavori solo agli uomini, le grandi aziende diffidavano di una donna che viaggiava senza un maschio vicino. Se eri femmina e spericolata come me le porte del fotogiornalismo si chiudevano. Poco consolava il fatto che tutti, a margine, mi dicessero: “Sappiamo che lei è brava, signorina”». Non è stato facile per Pedone. E forse è anche per questo che le sue foto più belle sono quelle che documentano la fatica delle donne, mai venata di ideologia. Ha ritratto le contadine calabresi che tornavano a casa a dorso d’asino con i bambini addormentati dentro ceste di vimini, le contadine delle Crete senesi che si spaccavano la schiena sotto il sole, le cantanti dei gruppi musicali ambulanti. Ha fotografato le «vedove bianche» e le braccianti del Nord in pieno boom economico. Rischiando, proprio per difendere l’indipendenza lavorativa. «Una volta, in Calabria, rimasi appiedata in cima a un colle e un pastore, senza tanti preamboli, mi chiese: “Quanto costi?”». Pedone ha vissuto tanto: ricorda un prete che la cacciò dalla chiesa perché «peccatrice» ma anche una donna abruzzese che, nella sua locanda, la trattò come una figlia. Nessuna traccia di amori in questo racconto lungo un secolo — che l’8 marzo nel museo milanese verrà ripercorso dalla protagonista in un incontro in occasione di MuseoCity —, perché «ogni volta che qualcuno si avvicinava finiva per diffidare della mia radicale autonomia». Insomma, gli uomini si spaventavano, ma non è solo questo: pochi i cenni alle amicizie («che ci sono state») o alla famiglia («tutti un po’ bizzarri come me»). Dietro Marcella Pedone c’è una tranquilla, solida, intelligente solitudine. Mai dissimulata dalla stessa fotografa, che non smette di fare progetti: «Devo fare tante cose. Ma c’è tempo».
· Marco Lodola.
Marco Lodola: “Questa sinistra sbiadita che teme il confronto…”. Marco Lomonaco il 25/01/2020 su Il Giornale Off. Il grande artista racconta i suoi segreti tra pittura, scultura e Sanremo. Marco Lodola, 64 anni, artista a tutto tondo tra i più noti del panorama italiano contemporaneo. Ama definirsi un elettricista dell’arte… Il gioco dell’arte è parallelo a quello della vita. Filosoficamente è una ricerca quasi inutile, quindi un “passaggio” dell’esistenza da affrontare con leggerezza, ma non con superficialità. Per me oggi non ha senso e non si può definire l’arte, piuttosto si può giocare a fare arte cercando di “sdrammatizzare”. Mi spiego: io amo definirmi un elettricista piuttosto che un artista; faccio sculture luminose le accendo per il piacere di vederle. Ecco tutto, niente di più e niente di meno. Anche perché ormai grazie ai social – ahimé – sono tutti artisti…
A proposito di questo, esiste l’arte sui social network secondo lei?
«Certo, ma bisogna anche saperci fare i conti. I social hanno spalancato a tutti un mondo di possibilità, chiunque infatti può mettersi in mostra. Anche qui, sui social, il bello è saper stare al gioco e utilizzarli correttamente. Non dimentichiamoci che il social in quanto tale può snaturare il senso stesso dell’arte, essendo apparenza pura, un vero e proprio regno dell’invenzione e dell’effimero. Però bisogna convivere coi tempi che corrono e ripeto, fa parte del lavoro dell’artista stare al gioco anche se, fosse per me, tornerei a impastarmi le mani coi colori su una casupola in riva a un fiume».
Come definirebbe il suo lavoro di artista?
«Per me è il lavoro è terapia: sono un professionista terapeuta di me stesso. In giro si trovano tanti artisti che voglio spiegarti verità assolute sulla loro arte – che poi si rifanno sempre ai tabù classici di sesso, morte e soldi. Io invece quando lavoro voglio essere semplice, immediato: come il colore! Senza troppe spiegazioni complesse che alla lunga diventano ridicole».
Lei è uno storico collaboratore del Festival di Sanremo, quest’anno per altro iniziato forse con qualche polemica di troppo…
«Decisamente è iniziato con troppe polemiche. Su Amadeus posso dire che ha detto quella frase “infelice” con assoluta innocenza e senza nessuna pretesa. Per quanto riguarda invece la visibilità che si sta regalando a Junior Cally, non so che dire: se non che se si voleva criticare il suo stile forse non è stato fatto nel modo giusto, visto che da giorni è sulle prime pagine di tutti i giornali e sulla bocca di tutti».
Il primo ricordo di Sanremo e l’ultimo?
«Nel 2008 abbiamo avuto l’idea di creare una vetrina esterna all’Ariston illuminata che potesse raccontare il Festival anche a chi non avrebbe avuto la possibilità di entrare. Quest’anno invece, tra le altre cose, ho realizzato un omaggio luminoso a Domenico Modugno».
Marco, un artista che si rispetti non si sottrae nemmeno al “gioco politico”, giusto?
«Certo, anche perché l’artista è politico! Io personalmente ho sempre cercato di prendere le cose buone da ogni partito ma mi meraviglio sempre come quando nella più palese manifestazione di cazzate, se uno ha appartenenza di sinistra allora è salvo. Io la vedo diversamente: se Salvini dice una cosa giusta, allora sono d’accordo con lui, la stessa cosa però vale se la dice Renzi. Io non voglio etichette appiccicate in fronte ma piuttosto cerco di guardare al buon senso delle proposte».
Riguardo alle Sardine invece…
«Ecco, queste Sardine non mi vanno a genio: a loro preferisco altre “sardine”, ovvero le giovani e belle donne sarde. A parte gli scherzi: è un movimento partito con un certo spirito libero che si è immediatamente fatto contaminare dai partiti promuovendo solo “idee contro” (Salvini, ndr) e nulla “a favore”. Insomma, una delusione».
Domani in Calabria ed Emilia-Romagna si vota. Come arrivano gli schieramenti alle urne?
«In queste elezioni è il centrosinistra che ha tutto da perdere, in particolar modo in Emilia-Romagna: storicamente per loro una roccaforte. La sconfitta sarebbe l’ennesima conferma che è arrivata l’ora di votare, anche alla luce del fatto che il Pd pochi mesi fa è rientrato al governo dalla finestra dopo essere stato cacciato dalla porta principale. C’è paura del confronto vero, delle elezioni. Io rispetto la vera sinistra, ma questa, quella sbiadita del Pd e del Movimento 5 Stelle non molto. In particolare questi ultimi mi fanno sorridere: nati col vaffa… ora rischiano di andarci loro!»
Ci racconti un episodio OFF della sua carriera.
«I miei episodi OFF sono gli incontri inaspettati… Quelli con persone genuine, con le quali ho trovato affinità, senza guardare ad appartenenze di destra o di sinistra. Tra questi incontri metto sicuramente quello con Red Ronnie: uno spirito libero che, suo malgrado, viene massacrato per aver dato spazio a Salvini. Quando invitava Franceschini nelle sue trasmissioni però andava tutto bene.
L’ultimo numero di #CulturaIdentità è dedicato agli artisti italiani: lei che è un grande artista vuole dare un consiglio ai suoi giovani colleghi emergenti?
«Fate l’accademia, studiate, prima imparate le basi e poi mischiate le carte, anzi… stravolgetele!»
· Maurizio Cattelan.
Maurizio Cattelan compie 60 anni: «Il mio debutto? Quando falsificai la firma di papà». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 21 settembre 2020. Maurizio Cattelan è l’artista italiano vivente più quotato al mondo. Nel 2016, il suo Hitler inginocchiato è stato venduto per 17,2 milioni di dollari. Lui, il 21 settembre, compie 60 anni e ci scherza su. Dice: «Finalmente sono consapevole di essere maggiorenne. Sto pensando di prendere la patente, mi sento pronto». E sembra di vedere il ragazzo che, alla sua prima personale, appese fuori dalla galleria un cartello con scritto «torno subito» e non tornò mai e che, a un’altra, espose solo una denuncia per il furto di un’opera invisibile.
Di tutte le cose che dicono di lei — che è un genio o un imbroglione mitologico o uno Zorro dell’arte, o che prende per i fondelli critici, direttori di musei, collezionisti — quale la convince di più?
«Voglio pensare che in molti abbiano chiamato provocazioni quelle che per alcuni possono diventare riflessioni. Prenda Him, ad esempio, il mio Hitler. Per ritardi nella produzione, l’ho visto solo già dentro al museo: mi ero ripromesso di distruggerlo se non mi avesse convinto. Quando ho visto le reazioni all’apertura della cassa, ho capito che andava oltre la semplice provocazione e poteva innescare qualche considerazione sulla natura umana. L’arte in fondo serve a questo».
Una volta, rischiò l’arresto perché rubò delle opere per esporle come sue, più volte ha mandato un altro a spacciarsi per lei. Le sue strategie di evasione, la sua inafferrabilità, sono sberleffo, sociopatia, ansia da prestazione o che altro?
«Fin da bambino, mi è capitato di soffrire perché mi sentivo nel posto sbagliato: a scuola, a casa, al lavoro, ma mi succede spesso anche al bar. Se mi avvicini il microfono o una telecamera poi, è panico totale. Negli anni, ho dovuto inventarmi qualcosa per sopravvivere: semplicemente, non mi sono fatto trovare quando la mia assenza era più funzionale della mia presenza».
Mi dà un’immagine che racconti il bambino Maurizio Cattelan?
«Sospeso in prima elementare, ho passato il pomeriggio in un parco a cercare di falsificare la firma di mio padre. È il giorno in cui ho capito che l’inganno paga».
Come ha spiegato a casa che voleva essere un’artista?
«Che non avessi tutte le rotelle a posto l’avevano capito molto prima di me e comunque, a 40 anni suonati, già da tempo non credevano più a quello che gli raccontavo».
La prima sua opera di cui disse: è buona?
«C’è voluto molto tempo, circa 25 anni. Quando li ho visti finiti per la prima volta, la sofferenza, la tragedia e il silenzio dei nove corpi di All chiusi nei loro sacchi mi hanno fatto tremare le vene sotto pelle».
Perché la morte è così presente nelle sue opere? Penso anche al Pinocchio annegato, alla donna inchiodata al muro, a lei nella bara…
«Uno dei monumenti più visitati al mondo sono le piramidi, lussuosissime, giganteggianti tombe. Il mistero della morte è forse l’unico su cui l’umanità non ha mai smesso di interrogarsi, e con lei l’arte. Non importa quanto possiamo essere evoluti tecnologicamente, la vita è comandata sempre da due leggi basilari: si nasce e si muore. I temi simbolici, universali, sono sempre gli stessi, cambiano i segni in cui questi simboli si traducono, segni che l’artista individua e espone al pubblico. In questo senso, l’arte può avere l’arduo compito di mostrare quello che tutti hanno paura di esprimere».
Da ragazzo, ha lavorato come infermiere e ha pulito cadaveri in un obitorio. In pandemia, come ha ripensato a quei giorni?
«Ho fatto prima l’infermiere dei vivi, poi ho chiesto di essere assegnato all’obitorio. Il rapporto con un paziente è molto più forte e impegnativo di quello con un cadavere, che ti lascia solo un senso di pace. Da infermiere, ho capito che i miei turbamenti non avrebbero aiutato il malato: l’energia di chi ti è vicino in momenti in cui sei così fragile è fondamentale. Perciò la morte solitaria provocata dal Covid mi ha colpito profondamente».
Nel 2012, che effetto le ha fatto vedere la sua opera omnia al Guggenheim di New York?
«Ogni opera finita e esposta al pubblico è un figlio che abbandoni nel mondo e di molte si perdono le tracce. La mostra al Guggenheim è stata una grande e molto attesa riunione di famiglia dove abbiamo passato ricordato i tempi andati. Belli, brutti, simpatici, sporchi e incompiuti, ognuno mi ha ricordato un frammento della mia vita. Ma non sono un sentimentale: dopo due mesi, ero felice che i figli fossero tornati ognuno a casa propria».
Quelle opere appese al soffitto trasmettevano precarietà, pericolo. Lei che sensazione aveva immaginato? E perché subito dopo annunciò il ritiro?
«Regalavano però anche una visione senza precedenti. Un elefante guardato negli occhi è tutto diverso quando lo vedi dal sedere. In quel ribaltamento, con il vuoto al centro della spirale riempito di lavori e i muri lasciati vuoti, ognuno poteva circondare con lo sguardo ogni opera, e trovare il proprio punto di vista. L’idea della pensione è arrivata insieme a quella mostra, non dopo. È nata dall’esigenza di tirare una linea tra me e quello che avevo fatto fino a quel momento: quella visione complessiva mi ha fatto digerire tanti errori, chiudere un cerchio».
Com’è andata la pensione e, ora, cosa vorrebbe fare?
«Mi sono divertito molto con Toilet Paper, il magazine fotografico che ho fondato con Pierpaolo Ferrari, ma un artista non è molto diverso da un serial killer: ha sempre bisogno di una nuova vittima. Se potessi esprimere un desiderio, sarebbe quello di un grande intervento in una città. Se potessi scegliere il titolo di questa intervista, la intitolerei: AAA cercasi sindaco-mecenate per commissione d’arte in spazio pubblico».
Il Guggenheim ha appena acquisito «Comedian»: una banana vera appesa al muro con nastro adesivo. L’originale esposto a Miami l’anno scorso era stato rubato e mangiato da David Daduna. Dica la verità: eravate d’accordo per fare clamore?
«È stato molto meno appassionante di così. Non c’è stato alcun intrigo internazionale. Ho giocato con una banana per qualche mese, prima di plastica, poi di metallo, ma nessuna versione mi convinceva abbastanza da esporla. Ho ancora qualcuno di quei test a casa. A un certo punto, l’idea più semplice ha vinto: perché non presentare una banana così com’era, senza reinterpretazioni? Ha funzionato a tal punto che altri hanno ritenuto vantaggioso appropriarsene. L’arte, in fondo, è tutta una questione di riciclo, una sorta di buffa staffetta tra brocchi».
Può dimostrare che il furto del wc d’oro «America» al Blenheim Palace non è stata una mossa di marketing?
«Posso dire solo che avrei voluto che l’opening durasse tutta la notte, così forse avremmo ostacolato i ladri».
Può giurare che non chiamò il Wc «America» pensando a Donald Trump?
«In comune hanno, al massimo, che entrambi valgono tanto oro quanto pesano. Scherzi a parte, il contesto sociale in cui è nato America è lo stesso in cui è nato Donald Trump come personaggio politico: non sono legati in rapporto di causa-effetto, ma sono generati dalla stessa disparità. Rendendo utilizzabile a chiunque un oggetto irraggiungibile per quasi tutti, America era in qualche modo l’esemplificazione del sogno americano, dava a tutti un’opportunità. Non importa cosa mangi, può essere un pranzo da duecento dollari o un hot dog da due. Il risultato è lo stesso, visto dalla tazza del wc».
Nel 1999, presentò come opera vivente il gallerista milanese Massimo De Carlo, appendendolo a una parete. Nel 1994, persuase il suo gallerista parigino Emmanuel Perrotin a passare un mese nella propria galleria abbigliato come un coniglio rosa che sembrava un pene.
Il senso è farsi beffe delle persone da cui dipende il suo lavoro?
«Cosa c’è di meglio che divertirsi con le persone con cui si lavora o si passa molto tempo? A Massimo e Emmanuel devo molto e credo sia bello ringraziare un gallerista facendolo diventare opera nel suo spazio».
De Carlo ha detto: «Maurizio non è un artista che dedica la sua vita all’arte ma è un artista che dedica la sua vita al successo nell’arte». È così?
«Ha anche detto: “Il fritto piemontese mi rimane indigesto, ma lo mangio lo stesso” e una volta durante un opening davanti a tutti l’ho sentito dire “meglio il buffet delle opere”».
Riappenderebbe i tre bambini a un albero di Milano? Cos’era quella immagine per lei?
«Le fiabe raccontano storie di lupi squartati, bambini presi in trappola da streghe, principesse avvelenate e sfruttamento minorile. I bambini appesi sono il ricordo della mia lettura di Pinocchio, angosciato dal fatto che lo impiccassero, insieme all’idea di diventare un asino. Ancora oggi, da adulto, penso spesso a cosa succederebbe se mi svegliassi da sogni inquieti sdraiato su una schiena dura come una corazza, con sei zampette pelose che si agitano nell’aria. Per alcune paure non si è mai abbastanza cresciuti».
Quale retroscena resta da raccontare su L.O.V.E, l’enorme dito medio esposto davanti alla Borsa di Milano?
«Quell’opera l’ha caldeggiata l’assessore Finazzer, l’ha raffreddata il sindaco Moratti e l’ha cementata l’architetto Boeri. Comunque, visto che quella piazza è un parcheggio, L.O.V.E è più una rotonda che un monumento».
Cos’era per lei il Papa abbattuto da un meteorite?
«C’è chi sceglie di passare anni in analisi e chi, come me, decide di esorcizzare i propri demoni in autonomia, o autoanalisi. Qualche volta è doloroso, qualche volta è appagante, è comunque sempre un lavoro su se stessi che dura tutta la vita. Vista da questa prospettiva, forse, La Nona Ora è stata un’uccisione del padre, la più classica delle figure psiconalitiche».
Nel docufilm «Be Right Back», una sua ex ha detto di lei: «Credo che finirà per rimanere da solo, lo pensa anche lui». È cosi?
«A casa mia, si diceva sempre ognuno ha quel che si merita… Ma in realtà penso che più cresciamo e più diventiamo consapevoli di quello che ci piace e ci fa stare bene. Negli anni, la speranza è di essere arrivati a cesellare a tal punto il proprio desiderio da avere accanto qualcuno che lo condivida».
È vero che odia le sue opere e di tutte dice: oddio, è una schifezza, non posso guardarla?
«Non è del tutto vero, ma neanche del tutto falso. Ogni lavoro corrisponde a una parte di me con cui non ho voglia di avere più a che fare, è come guardare un album di vecchie foto: non ho mai capito perché dovrebbe essere desiderabile quel misto di nostalgia e rimpianto per qualcosa che avrebbe potuto essere migliore».
Perché le sue case sono vuote, hanno due sedie, massimo un divano?
«Perché lotto ogni giorno per essere libero e la libertà dalla schiavitù delle cose è una parte sostanziale di questa ricerca. Spero che, superata la pandemia, la sharing economy continui la sua espansione verso un mondo più sostenibile. È il principio dell’ombrello: non appartiene mai a una persona sola per tutta la vita».
Da aspirante artista, ha vissuto a New York con cinque dollari al giorno. Oggi, che pensa delle sue quotazioni milionarie?
«Che anche quando ero sfortunato ho avuto la fortuna di avere intorno a me tante persone che hanno capito di me più di quanto ne potessi capire io: i miei genitori, i galleristi che mi hanno aiutato, i curatori che hanno trattato le mie opere e anche qualche buona idea, qualche volta di altri».
In definitiva, lei si sente un’opera d’arte o un’artista?
«Sono uno che fa arte per dare agli altri i miei problemi».
· Mauro Corona.
Da video.corriere.it il 23 settembre 2020. Scontro in diretta tv tra Mauro Corona e Bianca Berlinguer a Cartabianca su Rai 3. Lo scrittore, ospite fisso della trasmissione, ha alzato la voce e rivolgendosi alla conduttrice ha detto: «Se mi vuole qui tutta la stagione, mi fa dire le cose. Altrimenti la mando in malora e me ne vado. Da stasera la trasmissione se la conduce da sola, gallina. Stia zitta, gallina!». Berlinguer ha quindi replicato: «Non posso accettare che lei diventi maleducato e sgradevole, insultandomi mentre conduco la trasmissione. Non si permetta di dirmi gallina». Corona era stato richiamato da Berlinguer perché stava nominando un albergo e la conduttrice lo ha invitato a non fare pubblicità.
Mauro Corona, Bianca Berlinguer "gallina" a #Cartabianca? Urla al giornalista: "Andate affanculo". Libero Quotidiano il 24 settembre 2020. Altro che scuse a Bianca Berlinguer. "Stai zitta gallina", ha ripetuto Mauro Corona a #Cartabianca, creando l'ennesimo caso a Raitre e a viale Mazzini. La Zarina se l'è legata al dito, rispondendo al suo ospite fisso per le rime in diretta ("Senta io non posso accettare che lei diventi maleducato e sgradevole, insultandomi mentre conduco la trasmissione. Quindi gallina lo dice a chi le pare, ma non si permetta di dirlo a me. Chiaro il concetto?") e poi a mezzo stampa, adombrando l'ipotesi di un allontanamento definitivo dello scrittore (che ha già annunciato l'addio a fine stagione): "Lo lascio un po' in sospeso - spiega la Berlinguer a Non è un paese per giovani su Radio2 -, perché effettivamente martedì ha esagerato, per quanto io sia preparata alle sue uscite... Francamente ha esagerato e senza un motivo preciso". E Corona? Il burbero alpinista-intellettuale, raggiunto telefonicamente dal Corriere della Sera, non torna sui suoi passi (che l'hanno portato a lasciare il collegamento in diretta), o perlomeno non pubblicamente. "Contattato - spiega il Corsera - Corona non ha voluto parlare e ha urlato: 'Io ho scritto 30 libri e mi chiamate per il gossip. Andate a fanculo...'". E due.
Mauro Corona cacciato da #Cartabianca: "Gallina? Lascio in sospeso", Bianca Berlinguer offesa. Libero Quotidiano il 23 settembre 2020. Dopo l'ultima puntata di #Cartabianca con il litigio tra Bianca Berlinguer e Mauro Corona è scontato chiedersi se rivedremo lo scrittore nel talk-show in onda su Rai Tre, la settimana prossima. "Questo lo lascio un po’ in sospeso, perché effettivamente ieri ha esagerato, per quanto io sia preparata alle sue uscite... francamente ha esagerato e senza un motivo preciso". Ha risposto così Bianca Berlinguer alla domanda di Tommaso Labate e Massimo Cervelli, intervenendo su Rai Radio2 a Non è un paese per giovani, dopo lo scontro andato in scena ieri con lo scrittore, ospite fisso del programma. "Gallina", ha detto Corona rivolgendosi alla giornalista. "Fa parte un po’ del rapporto tra me e Corona, lui come sempre ha esagerato e gli ho risposto quello che pensavo fosse giusto rispondere", ha concluso la conduttrice.
Maria Volpe per il “Corriere della Sera” il 24 settembre 2020. «Stai zitta gallina». Non sono nuovi Bianca Berlinguer e Mauro Corona a bisticci e liti. Ma ogni volta l'asticella si alza un po' di più e - come era prevedibile - si è arrivati all'offesa. Martedì sera a Cartabianca , in prima serata su Rai3, non sono andati in onda solo i commenti ai risultati elettorali, ma anche un acceso diverbio tra la giornalista e lo scrittore che vive in montagna. Corona stava parlando di un albergo: lei pensa che lui voglia fare pubblicità e lo ferma, lui si innervosisce. Dopo poco sbotta: «Senta Bianchina se lei mi vuole qui tutta la stagione mi fa dire le cose, se no la mando in malora e me ne vado». Replica Berlinguer: «Lei può fare quello che vuole, ma non può fare pubblicità su un albergo». Arrabbiato: «Ma stia zitta una buona volta, gallina! Allora da stasera la sua trasmissione se la conduce da sola, gallina». Risentita: «Senta io non posso accettare che lei diventi maleducato e sgradevole, insultandomi mentre conduco la trasmissione. Quindi gallina lo dice a chi le pare, ma non si permetta di dirlo a me. Chiaro il concetto?». Offeso: «Basta, basta, basta. Non dico più niente, mi stia bene» (si alza e se ne va). La lite non è passata inosservata e sul web viene riportata la baruffa tra due volti noti da tempo protagonisti di scambi vivaci, ma che alla fine sono sempre lì, ogni martedì. Raggiunta al telefono, Berlinguer ha preferito non rilasciare dichiarazioni (anche Corona contattato non ha voluto parlare e ha urlato: «Io ho scritto 30 libri e mi chiamate per il gossip. Andate a ...»). La giornalista, ospite di «Non è un paese per giovani» su Radio2, alla domanda se rivedremo Corona la prossima settimana, ha risposto: «Lo lascio un po' in sospeso, perché effettivamente martedì ha esagerato, per quanto io sia preparata alle sue uscite... francamente ha esagerato e senza un motivo preciso». E parlando del loro rapporto ha detto: «Lui come sempre ha esagerato e io gli ho risposto quello che pensavo fosse giusto rispondere». Forse molto più arrabbiate di lei sono la Rai e la direzione di rete che hanno presentato le proprie scuse al pubblico di Cartabianca e «in special modo a quello femminile. Il signor Mauro Corona si è esibito in una serie di inaccettabili offese nei confronti della conduttrice, e verso le donne in genere. In tal modo ha violato le disposizioni normative e i principi etici volti a promuovere la parità di genere e il rispetto dell'immagine e della dignità della donna». Pertanto la Rai intraprenderà tutte le azioni del caso nei confronti di Corona «al fine di tutelare l'immagine e la dignità culturale e professionale della conduttrice e il ruolo di servizio pubblico della Rai». Ancora più dura la capogruppo pd in commissione di Vigilanza Rai, Valeria Fedeli: «Uno spettacolo indegno del servizio pubblico. Un profluvio di insulti e attacchi sessisti contro Bianca Berlinguer da un personaggio che non si capisce perché la Rai abbia deciso di trasformare in ospite fisso e anche ben retribuito. Il direttore di Rai3 intervenga subito a tutela della dignità di Berlinguer e dei cittadini che non pagano il canone per subire una tv violenta, sessista e volgare». E il segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, su twitter: «A Cartabianca toccato il punto più basso. La Rai, con centinaia di giornalisti vuole continuare a far commentare politica e attualità a un alpinista maleducato e offensivo?».
Caterina Soffici per “la Stampa” il 24 settembre 2020. Ci risiamo. È ancora baruffa tra Mauro Corona e Bianca Berlinguer. Lo invitano apposta, direte. Ma questa volta è andato veramente oltre. Trascrizione del battibecco: «Senta Bianchina, se lei mi vuole qui tutta la stagione mi fa dire le cose, sennò la mando in malora e me ne vado». Di fronte alle resistenze della Berlinguer, Corona si fa ancora più pesante: «Adesso lei stia zitta. Stia zitta una buona volta, gallina. La sua trasmissione da stasera se la conduce da sola, gallina». Bianca Berlinguer replica: «Senta, io non posso accettare che lei diventi maleducato e sgradevole, insultando me che sono qui a condurre la trasmissione. Quindi "gallina" lo dice a chi vuole ma non si permetta di dirlo a me. Chiaro il concetto? Dopodiché ci sono regole che anche lei deve rispettare». A questo punto Corona si alza e abbandona in anticipo il collegamento. Lo schema non è nuovo. Il siparietto tra la Bella e la Bestia ha sempre funzionato perché i due sono così diversi. Lui, lo scrittore dei boschi, selvatico e beone che dichiara di lavarsi una volta alla settimana; lei in tubino nero e tacchi alti, intellettuale di sinistra con pedigree garantito dalla lunga carriera e dal nobile cognome. Lei che lo stuzzica sulla cellulite, lui che la invita a tirarsi su la gonna per controllare. Lui che fa il galante (le bacerei la mano), lei che lo sgrida benevolmente. Lui che fa il geloso, lui che alza la voce, lui che insulta. Lei che ogni volta alza il sopracciglio. Lui che beve birra in diretta e ammette di essere un alcolizzato, lei che alla fine gli taglia le ultime due puntate della scorsa stagione. Lui, che nonostante tutto viene ingaggiato di nuovo come ospite fisso a 500 euro a puntata, perché è sanguigno e ruspante, e piace a chi non piace la Berlinguer e quindi tira su l'audience di "Cartabianca". Lei la signora che ogni volta si scandalizza e lo rimprovera come un bambino cattivello, ma alla fine abbozza perché il siparietto creerà polemica e visualizzazioni, mentre il web si dividerà tra gli scandalizzati ("sessismo inaccettabile pagato con i soldi del contribuente") e i machi entusiasti che gioiscono ("Corona uomo vero"). Ma i personaggi come Mauro Corona, come i Vittorio Sgarbi e tutti gli altri urlatori, vengono invitati proprio perché sono incontenibili. Mi si nota di più se sto buono e dico cose sensate? O se inizio a urlare, mi alzo indignato e lascio la trasmissione? La risposta è ovvia. E infatti anche noi, miseramente, siamo qui a scriverne e a dedicare questi centimetri quadrati di preziosa carta di giornale, per raccontare che il selvaggio ha dato di gallina alla conduttrice. Allora vorrei andare oltre e non sprecare il prezioso spazio che mi rimane per fare un appello agli autori e ai conduttori di trasmissioni. Smettetela di invitare i Corona. E gli Sgarbi. E le Santanché. E i Briatore. E tutta l'altra genia urlante. Fate un patto, voi conduttori. Chiudete il rubinetto di queste incandescenze, perché c'è già abbastanza rabbia in giro per non alimentarla anche in video. Potete rinunciare a un paio di punti di audience per rendere - non dico il mondo - ma almeno quello virtuale un luogo un po' più civile? Fatelo per le vittime degli abusi. Per le ragazze che vengono insultate e stalkerate. Anche per i giovani maschi - i ragazzi - che replicano un linguaggio disumanizzante senza neppure più capirne la gravità. Non è tanto la gallina oggi, ma cosa diventerà domani. E' l'esempio. E' lo sdoganare un frasario e dei comportamenti che rotolano come palle di neve e diventano sempre più grossi, fino a diventare irrefrenabili palle d'odio. Da un insulto si passa velocemente a uno schiaffo. Da uno schiaffo a prendere a calci una persona, a tirare fuori un coltello. La violenza, come insegna la cronaca, non rimane mai solo verbale. In Inghilterra la Law Commission ha proposto che la misoginia diventi reato perseguibile con aggravanti come nel caso degli altri "crimini d'odio". Dietro quella frase: zitta gallina, ci sono troppe cose a cui non dovrebbe essere data eco mediatica. Il concetto patriarcale del controllo sulle donne e sulla loro parola e sul loro corpo. Gli odiatori della rete usano le stesse parole. Dallo "stia zitta gallina" di Corona al "se non stai zitta ti violento" del consigliere comunale di Tricase Vito Zocco rivolto alla collega Francesca Sodero, il passo è breve. Gli ulteriori passi sono ancora più brevi.
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 24 settembre 2020. Che finisse a male parole era ampiamente prevedibile, verrebbe quasi da dire un momento ricercato, voluto. Il teatrino tra Bianca Berlinguer e l'alpinista scrittore Mauro Corona va in scena da molto tempo: gli autori di #cartabianca si sono resi conto che l'apertura è il momento di massimo ascolto perché gli opposti non solo si attraggono ma anche attraggono il pubblico. Meglio ancora se litigano. Corona è intervenuto per fare una precisazione a un suo intervento della settimana scorsa, ma nel farlo ha citato una struttura ricettiva. Immediato lo stop della Berlinguer e il suo tentativo di rimediare all'errore e spiegarne i motivi: «No, non si può parlare di questo albergo perché è pubblicità e noi non possiamo fare pubblicità in televisione». Corona è andato su tutte le furie: «Stia zitta una buona volta, gallina. Se mi vuole qui tutta la stagione, mi fa dire le cose. Altrimenti la mando in malora e me ne vado. Da stasera la trasmissione se la conduce da sola, gallina!». Ecco, perché si parla di pollaio quando si accenna a qualche zuffa televisiva. Ma il grande errore è quello di utilizzare Corona come esperto, addirittura come politologo su materie che visibilmente ignora. Corona è un furbo montanaro che viaggia di buon senso e di recita: fa il buffone per avere visibilità e per vendere più libri. Non si capisce mai se fa sul serio o se finge, se è pulito o non si lava, se è sobrio o se ha buttato giù qualcosa. L'abbiamo scritto più volte: Corona si è inventato la parte dell'orco sovranista delle montagne, gioca il ruolo del fool, del village idiot (il mattocchio del villaggio), che interviene su qualsiasi argomento tanto per dire la sua, come si fa all'osteria. E ogni tanto ci riesce, trasformando la tv in osteria. Ci sarà la settimana prossima o verrà cacciato ignominiosamente? Immagino che gli autori della trasmissione stiano facendo i calcoli sulle perdite di audience. Se sono contenibili, via per sempre. Diversamente, assisteremo a come fare buon viso a cattivo gioco (frase da alpinista scrittore). Ps: a interrompere il dilemma (o il giochino della riappacificazione cui abbiamo assistito più volte) è intervenuta la Rai con una dura nota che sembra non lasciare scampo: «Corona ha violato le disposizioni normative e i principi etici volti a promuovere la parità di genere e il rispetto dell'immagine e della dignità della donna».
Mauro Corona chiede scusa a Bianca Berlinguer: "Sono stato un cretino". La Repubblica il 25 settembre 2020. Intervistato da Daria Bignardi ne Le mattine di Radio Capital - L'intrusa, lo scrittore si scusa con la conduttrice, a cui aveva urlato "Stia zitta, cretina!" in diretta tv, sulla Rai. "Sono stato maleducato e cafone - ha ammesso Corona - sono stato interrotto più volte ma ho agito seguendo l'istinto e non ho alcuna giustificazione".
Mirella Serri per “la Stampa” il 27 settembre 2020. “Sono stato maleducato e cafone. Sono stato interrotto più volte, ma ho agito seguendo l’istinto e non ho alcuna giustificazione. Non chiedo scusa per paura di ritorsioni ma perché la mia coscienza mi ha detto: sei un cretino”. Mauro Corona, intervistato da Daria Bignardi per la trasmissione “Le mattine di Radio Capital – L’intrusa”, ha porto le sue scuse a Bianca Berlinguer per averle dato della “gallina”. Si è autodefinito, giustamente, “maleducato e cafone”. Si è qualificato come un “cretino” anche se comunque ha seguito il suo istinto che gli suggeriva di ribellarsi al fatto che qualcuno lo interrompeva (non l’aveva mai vista prima la tivù?). E ha affermato di chiedere scusa non per timore di ritorsioni ma perché ha seguito la sua coscienza. Di quali ritorsioni ha paura? Di non apparire più in video? Oppure? Qualche funzionario editoriale lo ha magari rimbrottato? Uscirà a ottobre il suo nuovo romanzo, “Vita di Celio” (Mondadori), una storia molto ben scritta, "alla Corona", con montagna, povertà, sofferenza, violenza (spesso sulle donne) e vino, tanto vino. Da tempo si dice che lo scrittore montanaro scalpiti per conquistarsi il premio Strega. Questo avrebbe potuto essere l’anno buono anche perché la sua casa editrice dal 2012 non porta a casa il prestigioso riconoscimento. E Corona potrebbe piacere al pubblico stregonesco come il grande irregolare della lettura italiana. In questa direzione andavano da tempo le sue richieste a Segrate. Ma adesso, dopo l’incidente della “gallina”, potrà Corona recuperare il terreno perduto? E come lo prenderebbero i votanti dello Strega un narratore che si lascia andare a simili epiteti nei confronti di una signora? Le “ritorsioni” che lo scrittore teme, e su cui ieri lo ha messo in guardia qualche angelo custode mondadoriano, potrebbero anche essere la perdita di credibilità nella gara romana. Però non tutto è perduto, almeno per la Mondadori: a fregarsi le mani per l’incidente in cui è incorso lo scrittore di Baselga di Piné tirando in ballo lo squalificato volatile potrebbe essere Antonio Pennacchi. Anche il narratore di Latina sta andando in libreria proprio in questi giorni con “La strada del mare”, una nuova, epica saga della famiglia Peruzzi attraverso le cui vicissitudini il narratore-operaio racconta gli anni Cinquanta delle paludi Pontine, ritrovando il mondo di “Canale Mussolini” con cui si è conquistato lo Strega nel 2010. Pure Pennacchi, che pubblica a sua volta con Mondadori, si dice che sia da mesi in fibrillazione. Da quando Veronesi ha raddoppiato la vittoria al Ninfeo con “Il colibrì”, l’ex dipendente della Fulgorcavi vorrebbe proporsi per bissare il prestigioso riconoscimento. A Segrate si temeva una sfida all’ok corral tra due temperamenti sanguigni e focosi come quello dell’ex operaio e dello scalatore. Adesso forse uno dei due è precipitato dalla roccia inciampando su una “gallina”.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 26 settembre 2020. L'uomo del monte ha detto "Scusa". Dove non poterono l'indignazione della conduttrice e il discredito pubblico da parte delle femministe, riuscì il timore di perdere l'ospitata fissa e di conseguenza un bel po' di quattrini. E così l'alpinista-scrittore Mauro Corona, volto noto di Cartabianca, il programma condotto da Bianca Berlinguer, dopo aver offeso la giornalista dandole della «gallina», è tornato sui propri passi, si è cosparso il capo di cenere (sporcandosi i capelli ancora di più) e ha fatto richiesta di perdono a "Bianchina". senza vino Intervenendo al programma radiofonico di Daria Bignardi, L'intrusa su Radio Capital, Corona ha ammesso di essersi «espresso da maleducato, cafone e rozzo», accorgendosi che «non era il caso di reagire in quel modo, soprattutto in tv»; e pertanto ha chiesto «scusa alle persone che hanno sentito e soprattutto a Bianca Berlinguer» dopo che «la mia coscienza mi ha detto: sei un cretino». Corona ha anche motivato le ragioni per le quali ha offeso la conduttrice, spiegando che «non è stata una reazione sessista. In tutti i miei libri la donna ne esce con dignità e onore, figuriamoci se nelle mie intenzioni volevo offendere le donne». Ma che tutto è stato dovuto a un attacco collerico in quanto «sono abbastanza nervoso, da 40 giorni non tocco una goccia d'alcool e, dopo anni di bevute, ho degli scompensi. Mi accorgo di essere abbastanza aggressivo e intollerante». È la prima volta che qualcuno giustifica la propria reazione verbale violenta non con il fatto di aver bevuto troppo, ma con il fatto di non aver bevuto affatto. Offesa in stato di mancata ebbrezza. Scusate, non ero lucido, non ho bevuto neppure un bicchierino Ora, non crediamo affatto che Corona sia sessista, però la sua difesa pare deboluccia. Non è che più del vino c'entra il grano? L'ospite della Berlinguer è consapevole che una sua mancata conferma nella trasmissione gli costerebbe un bel danno, essendo la sua presenza ben remunerata dal servizio pubblico. E allora Cartabianca val bene una Scusa, e che si adduca pure il pretesto dell'astinenza dal bianchino per farsi riaccogliere da Bianchina. giochino Al di là del caso specifico, è evidente che nel programma si è costruito un gioco delle parti, un teatrino in cui Bianca e Mauro, la conduttrice snob e il rude montanaro, battibeccano e si lanciano frecciatine. In questa sceneggiatura, che frutta al programma ottimi riscontri di audience, ci sta che ogni tanto si alzino i toni e la tensione. Solo che, nell'ultima puntata, si è inserito un elemento imprevisto: la presunta offesa sessista. E questo ha fatto crollare il giochino: quando Corona ha detto «Stia zitta una buona volta, gallina. Altrimenti la mando in malora e me ne vado. Da stasera la trasmissione se la conduce da sola, gallina», la Berlinguer in primis ha perso le staffe replicando «Non posso accettare che lei diventi maleducato e sgradevole, insultandomi», e poi è intervenuta direttamente la Rai parlando di una violazione «dei principi etici volti a promuovere la parità di genere» e annunciando di voler «intraprendere tutte le azioni del caso nei confronti di Corona». Ecco, considerando che lo scrittore-alpinista non fa altro che corrispondere al personaggio di Corona-vir, ossia di uomo irsuto, burbero e un po' rozzo, e considerando che a volte basta una battuta per spegnere le polemiche, fossimo stati nella Berlinguer avremmo risposto a tono, sempre in chiave zoomorfa: «Se io sono una gallina, lei è una capra». Tanto, da bravi animali televisivi, sanno benissimo entrambi di avere bisogno l'uno dell'altra.
Da liberoquotidiano.it l'1 ottobre 2020. Non c'era Mauro Corona a #Cartabianca. Il "gallina" indirizzato a Bianca Berlinguer durante la clamorosa rissa in diretta una settimana fa non ha lasciato altra scelta alla conduttrice e ai vertici Rai se non quella di sospendere lo scrittore-montanaro, ospite fisso del talk di Raitre. Scelta dolorosa, perché la coppia Corona-Berlinguer era una delle colonne della trasmissione. Ma stavolta l'opinionista l'ha sparata troppo grossa. Ed è significativo che su Twitter gli ultimi post di Corona risalgano al 25 settembre e siano tutti una richiesta di perdono più o meno diretta alla Berlinguer. Il silenzio social dello scrittore, che ha addebitato l'uscita infelice al nervosismo per il periodo di disintossicazione dall'alcol a cui si sta sottoponendo con grande fatica, è rotto da alcune "condivisioni" dei link dell'intervista che ha rilasciato a Daria Bignardi per Radio Capital, in cui chiedeva ufficialmente scusa alla "Zarina" Bianca per le sue intemperanze. Una dolorosissima ammissione di colpa e un brusco cambio di atteggiamento, visto che nelle ore immediatamente successive alla piazzata lo scrittore aveva semplicemente e ripetutamente "mandato "affanculo" (letteralmente) i giornalisti che gli chiedevano conto di quella uscita. Per ora, da viale Mazzini tacciono: non è dato sapere se quella di Corona sia una sospensione o una espulsione definitiva. Il diretto interessato, qualche settimana fa, aveva già annunciato che questa sarà la sua ultima stagione in tv.
Da capital.it l'1 ottobre 2020. A Cartabianca su Rai3 è andata in onda una lite tra l’ospite fisso del programma Mauro Corona e la conduttrice Bianca Berlinguer. Intervistato da Daria Bignardi e Chicco giuliani ne ‘Le Mattine di Radio Capital – L’Intrusa‘, lo scrittore ha chiesto scusa in maniera molto sentita e sincera. “Sono abbastanza nervoso perché è da 40 giorni che non tocco alcool. So però che non è una giustificazione”
Da "liberoquotidiano.it" il 21 ottobre 2020. Niente Mauro Corona a CartaBianca neppure nella puntata di ieri sera, martedì 20 ottobre, in onda su Rai 3. Ve ne abbiamo dato conto in questo articolo. Insomma, non basta il "perdono" di Bianca Berlinguer allo scrittore e alpinista, cacciato dalla trasmissione dopo averle dato della "gallina". La Berlinguer, la scorsa settimana infatti aveva affermato: "Ci tengo a dire a tutti che se non è tornato non è per mia scelta e per mia responsabilità. L’ho detto: si è comportato in modo molto sbagliato e grave ma si è scusato pubblicamente e privatamente. Io sono assolutamente convinta della buona fede delle sue scuse, lo conosco da un po’, so che è un uomo sincero che non dice bugie". Insomma, fosse per lei Corona potrebbe rientrare. Non per la Rai. E da TvBlog arriva qualche informazione più precisa. Sul sito specializzato si legge che "il veto, pertanto, giungerebbe dai piani alti (di Viale Mazzini, ndr), con il Cda Rai che avrebbe puntato i piedi rifiutando per adesso ogni possibilità di ritorno in onda". Insomma, rivedere Corona dalla Berlinguer sembra davvero difficile.
CartaBianca, bomba di Dagospia: "Ecco chi non vuole che Mauro Corona torni". Il nome: "Forse rosica ancora perché quel giorno..." Libero Quotidiano il 21 ottobre 2020. A risolvere il giallo ci pensa Dagospia, che svela come dietro al veto circa il ritorno di Mauro Corona da Bianca Berlinguer a CartaBianca in onda il martedì sera su Rai 3 non ci sarebbe il cda di Viale Mazzini, ma il direttore della terza rete in persona, Franco Di Mare. La stessa conduttrice, nei giorni scorsi aveva precisato che l'assenza dello scrittore che, in diretta tv qualche tempo l'aveva chiamata "gallina", non era dipeso da lei. Anzi la giornalista aveva anche fatto sapere di aver perdonato lo scrittore. È lo stesso Dagospia a svelare il motivo della assenza dai teleschermi di Corona voluta dal direttore Di Mare: "Magari ancora gli rode la sconfitta al premio Bancarella del 2011 quando il libro dell’alpinista, La fine del mondo storto, superò di gran lunga Non chiedere perché del giornalista, arrivato secondo", commenta maliziosissimo Dago.
Marco Leardi per davidemaggio.it il 23 ottobre 2020. L’«ostracismo» di Mauro Corona da Rai3 perdura ormai da un mese. Da quando – era lo scorso 22 settembre – lo scrittore bisticciò a Cartabianca con la conduttrice, definendola “gallina”. A partire da quello scontro le ospitate dell’alpinista sono state interrotte, nonostante la volontà pacificatrice di Bianca Berlinguer. Quest’ultima, accettando le scuse del suo sparring partner, aveva infatti lasciato intendere che il divieto non arrivasse da lei. Una versione confermata anche dallo stesso Corona, che, raggiunto da Striscia la Notizia per la consegna di un tapiro d’oro, ha affermato: “Pare che la Berlinguer mi voglia. È qualcun altro che non vuole…“. Incalzato dall’inviato Valerio Staffelli – che gli chiedeva se il responsabile fosse il direttore di Rai3, Franco Di Mare – lo scrittore si è sbottonato ed ha espresso rammarico per “l’improvviso ostracismo” da parte del giornalista, che inizialmente “manifestava l’amicizia“. Poi ha gli lanciato un appello: “Franky Di Mare, non ho niente da dire sul fatto che non mi vuoi più. Vorrei però capire perché non me l’hai detto prima, perché io ho i messaggini tuoi in cui mi dici: "fratello della montagna". Almeno chiarisci questo tuo cambiamento di marcia nei miei confronti. Sappi però che io non mi impicco, se non vengo più lì“. Nel corso del suo intervento a Striscia, Corona ha anche alluso alle proprie performance televisive con Bianca Berlinguer. Ed ha commentato: “Da quel che intuisco non hanno bisogno dei picchi d’ascolto, se mi cacciano via, perché qualche punto lo facevo la Bianca e io“.
"Non è lei a non volermi" Corona ora rivela tutto. L'opinionista è stato raggiunto a Belluno da Valerio Staffelli per la consegna del Tapiro d'Oro e ha svelato il motivo del suo addio alla trasmissione della Berlinguer. Novella Toloni, Venerdì 23/10/2020 su Il Giornale. L'allontanamento dalla Rai di Mauro Corona è ormai definitivo. Lo scrittore e opinionista è stato escluso dalla trasmissione di Rai Tre Cartabianca dopo aver dato della "gallina" alla conduttrice Bianca Berlinguer durante una discussione. A svelare il perché del suo definitivo addio al programma è stato lo stesso Corona che, nel ricevere il Tapiro d'oro da Striscia la Notizia, ha vuotato il sacco sulla vicenda. Da ormai tre settimane Mauro Corona non compare a Cartabianca. Ospite fisso del programma di Bianca Berlinguer, lo scrittore e alpinista è stato messo alla porta per una discussione avvenuta in diretta, sfociata in bagarre con insulti e epiteti rivolti alla conduttrice. Non era la prima volta che Corona sbottava contro la Berlinguer, ma in quell'occasione per molti è stato superato il limite. Soprattutto per i vertici di viale Mazzini che, sin da subito, hanno intrapreso la linea dura, promettono di "prendere seri provvedimenti" contro l'opinionista. A poco è valsa l'intercessione benevola della Berlinguer, che ha "perdonato" lo scrittore, la Rai avrebbe messo fine al contratto con l'opinionista. Così dopo settimane di assenza e mistero sul suo "destino" - nonostante le scuse - è il tg satirico Striscia La Notizia a svelare le sorti di Corona. Valerio Staffelli ha raggiunto lo scrittore a Lago di Misurina, in provincia di Belluno, per consegnargli il Tapiro d'Oro per quanto accaduto a Cartabianca. Davanti alle telecamere Mauro Corona ha svelato: "Posso garantirvi che non è la Berlinguer a non volermi in trasmissione. È qualcun altro". Il suo atteggiamento non è piaciuto alla direzione Rai che, dopo l'ennesima lite in diretta televisiva, ha deciso di mettere alla porta l'opinionista. L'inviato di Striscia, Valerio Staffelli, nel consegnare il Tapiro ha incalzato Mauro Corona, chiedendogli se il responsabile del suo addio fosse Franco Di Mare. Così lo scrittore ha lanciato un chiaro messaggio al direttore di Rai 3: "Franky Di Mare, non ho niente da dire sul fatto che non mi vuoi più. Vorrei però capire perché non me l’hai detto prima, invece di continuare a mandarmi messaggi di amicizia e chiamarmi il tuo "fratello della montagna". Almeno chiarisci questo tuo cambiamento di marcia nei miei confronti. In ogni caso, sappi che io non mi impicco, se non vengo più lì".
Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 24 ottobre 2020. Hanno litigato tante volte, come fanno le mogli con i mariti. Si sono allontanati, hanno fatto pace, si sono separati di nuovo. Ma questa volta la crisi tra Mauro Corona e Bianca Berlinguer è più profonda del solito. La colpa di solito sta nel mezzo, ma in questo caso (non per dare per forza tutta la responsabilità agli uomini) è interamente dello scrittore boscaiolo. Dare della «gallina» alla padrona #Cartabianca non è stata una mossa geniale da parte di Corona; se voleva mantenere l'ingaggio di 500 euro a puntata (lo rivelò lui stesso) ci vengono in mente altre mille idee più intelligenti. Lui attribuì la causa della reazione bizzosa all'assenza di alcol in corpo: stava cercando con immensa fatica di abbandonare la damigiana e la cosa lo faceva alterare. piani alti Comunque è passato un mese. Si scopre che Bianca Berlinguer, conduttrice della trasmissione di Raitre, non è la responsabile dell'epurazione dello scrittore. Lei era molto arrabbiata, lo aveva asfaltato, aveva ammesso che aveva esagerato, ma di porgere l'altra guarda sarebbe anche stata disposta. La verità è che il veto arriva dai piani alti. Corona, durante la consegna del Tapiro d'oro da parte di Striscia la notizia, espone la sua versione: «Posso garantirvi che non è la Berlinguer a non volermi. È qualcun altro». Valerio Staffelli lo incalza, gli domanda se lo «stop» arriva da Franco Di Mare, il direttore di Raitre. Lo scrittore lancia un chiaro messaggio: «Franky Di Mare», risponde lo scrittore, «non ho niente da dire sul fatto che non mi vuoi più. Vorrei però capire perché non me l'hai detto prima, invece di continuare a mandarmi messaggi di amicizia e chiamarmi il tuo "fratello della montagna". Almeno chiarisci questo tuo cambiamento di marcia nei miei confronti. In ogni caso, sappi che io non mi impicco, se non vengo più lì». Di sicuro anche i telespettatori se ne faranno una ragione. Le provocazioni di Corona erano divertenti fino a un certo punto, poi la maleducazione ha prevalso. Di Mare non perdona, la Rai nemmeno. Le parole ufficiali a caldo di Viale Mazzini, all'indomani dello show di Corona dello scorso 22 settembre, erano durissime. La Rai si era scusata soprattutto con le donne che quella sera seguivano #Cartabianca e avevano sentito apostrofare la Berlinguer con il nome di un pennuto. «Nel corso della trasmissione», si leggeva, «il signor Mauro Corona si è esibito in una serie di inaccettabili offese nei confronti della conduttrice. I suoi reiterati insulti costituiscono un'offesa non solo alla Dott.ssa Berlinguer ma verso le donne in genere. In tal modo il signor Corona ha violato le disposizioni normative e i principi etici volti a promuovere la parità di genere e il rispetto dell'immagine e della dignità della donna - continuava la nota - A tali inderogabili principi è improntata la programmazione della Rai che pertanto intraprenderà tutte le azioni del caso nei confronti del sig. Corona al fine di tutelare l'immagine e la dignità della conduttrice e il ruolo di servizio pubblico della Rai». Lo scrittore, all'inizio della stagione, aveva giurato che sarebbe stata l'ultima. Ma è durato poche puntate. Come direbbe Barbara d'Urso: «Corona, salutame a soreta».
Mauro Corona, lo strazio a L'Assedio e il messaggio a Bianca Berlinguer: "Ho visto mia mamma presa a sprangate e andare in coma". Libero Quotidiano il 29 ottobre 2020. Dopo l'esclusione a Cartabianca per il litigio con Bianca Berlinguer, Mauro Corona è ospite de L'Assedio. Durante la puntata di mercoledì 28 ottobre del programma in onda sul Nove e condotto da Daria Bignardi, lo scrittore si lascia andare a tristi confessioni. "Ho visto la violenza sulle donne. Ho visto mia mamma presa a sprangate e andare in coma. Ecco perché le donne le ho sempre difese, anche nei miei libri", spiega in merito allo screzio e alla "gallina" data alla conduttrice di Rai Tre. Corona infatti ammette di essere troppo "impulsivo". Questo il motivo di molte sue discussioni. Un messaggio dunque alla conduttrice di Cartabianca: "Mi manca non andare più dalla Bianca. Mi sarebbe piaciuto avere una possibilità di chiedere scusa, in pubblico. Perché è importante chiedere scusa in pubblico", conclude poi sperando in un ritorno a viale Mazzini. «Sì, mi manca non andare più dalla Bianca. Mi sarebbe piaciuto avere una possibilità di chiedere scusa, in pubblico. Perchè è importante chiedere scusa.
Mauro Corona torna in tv dalla Bignardi: "Cartabianca mi manca. Non tocco alcol da 70 giorni, non dormo la notte". Libero Quotidiano il 28 ottobre 2020. Il doloroso ritorno di Mauro Corona in tv. Ospite di Daria Bignardi a L'Assedio sul Canale Nove, lo scrittore-montanaro ha presentato il suo nuovo romanzo L’ultimo sorso, vita di Celio, ma soprattutto ha commentato la sua assenza da Cartabianca, dovuta alla clamorosa rissa in diretta avvenuta un mese fa con Bianca Berlinguer ("Stai zitta gallina", le ha urlato). "Non tocco alcol da 72 giorni. Non è facile, non si dorme la notte. Spesso tornano le ombre. Non sono felice, ma pacifico e tranquillo. Ho deciso di fare tutto da solo senza chiedere aiuto”. La Rai ha deciso di lasciarlo fuori da Cartabianca, nonostante le scuse pubbliche già espresse alla Berlinguer e accettate dalla conduttrice. "Mi ero affezionato a quel programma, mi manca l’appuntamento del martedì. Non mi è stata data neppure la possibilità di chiedere scusa in una puntata della trasmissione, dove tutto è accaduto", è il commento rammaricato di Corona. "Quando ho detto quella frase non avevo bevuto ma non cerco giustificazioni. Ho sbagliato e chiedo di nuovo scusa. Ma io non ho offeso tutte le donne ma solo Bianca alla quale ho chiesto subito scusa". Pare per che il direttore di Raitre Franco Di Mare non sia intenzionato a far tornare Corona nel programma.
Bianca Berlinguer in tv: «Mauro Corona ci manca. Fosse per me sarebbe già tornato». Da corriere.it il 4 novembre 2020. «Approfitto della presenza di Oscar Farinetti per salutare Mauro Corona. Io spero che il dialogo costruito con lui possa riprendere al più presto. Voglio che voi lo sappiate, lo abbraccio con tanto affetto». Così Bianca Berlinguer durante il suo programma Cartabianca, parlando del suo ospite fisso, Mauro Corona, che da più di un mese è assente dagli schermi della trasmissione. La sua mancanza è conseguenza di un brutto battibecco avuto proprio con la conduttrice. «Se mi vuole qui tutta la stagione, mi fa dire le cose. Altrimenti la mando in malora e me ne vado. Da stasera la trasmissione se la conduce da sola, gallina. Stia zitta, gallina!» aveva detto alzando la voce dopo essere stato richiamato da Berlinguer per non fare pubblicità ad un albergo. Corona e Berlinguer si erano poi chiariti e la Rai aveva presentato le proprie scuse al pubblico di Cartabianca e in special modo a quello femminile.
Novella Toloni per ilgiornale.it. Da una parte Bianca Berlinguer spinge per farlo tornare in trasmissione, dall'altra Mauro Corona chiede nuovamente scusa e piange la mancanza della conduttrice. Nel mezzo si è trovata, suo malgrado, Barbara Palombelli che nell'ultima puntata della trasmissione Stasera Italia ha ospitato lo scrittore e alpinista. Mauro Corona è intervenuto nella trasmissione di Rete 4 per commentare lo spoglio delle elezioni americane, ma alla fine il discorso è tornato, ancora una volta, sull'addio a Cartabianca e a Bianca Berlinguer. L'opinionista è stato "silurato" dal direttore di Rai 3 dopo la lite avvenuta in diretta con la conduttrice di Cartabianca quasi un mese fa. Un episodio spiacevole a cui i telespettatori avevano assistito già altre volte. Ma l'ultima violenta discussione avvenuta in prima serata è stata la cosiddetta goccia che ha fatto traboccare il vaso e - sebbene Bianca Berlinguer abbia accettato le scuse di Mauro Corona e fosse disposta a riaverlo in puntata come opinionista - il direttore ha posto il veto, mettendolo alla porta. Da allora Corona non è più apparso su Rai Tre e a poco sono valse le sollecitazioni della Berlinguer a far rientrare l'opinionista nel programma. Nell'ultima puntata di Cartabianca la giornalista è stata chiara: "Approfitto della presenza di Oscar Farinetti per salutare Mauro Corona. Io spero che il dialogo costruito con lui possa riprendere al più presto. Voglio che voi lo sappiate, lo abbraccio con tanto affetto". Un messaggio diretto forse più che a Corona al direttore di rete. Dopo settimane di oblio televisivo e un Tapiro d'Oro ricevuto da Striscia La Notizia Mauro Corona è tornato sul piccolo schermo. A Stasera Italia, però, invece di parlare di politica ed elezioni ha virato la discussione sulla polemica apertasi con Rai Tre. "Torno a scusarmi per l'ennesima volta - ha spiegato lo scrittore a Barbara Palombelli - è stato un modo di fare sbagliato e lei non se lo meritava. Avrei delle giustificazioni ma sarebbero da vile. Non voglio scusarmi per avere la possibilità di tornare in tv possono farne a meno". Lo scrittore ha ringraziato la Palombelli per l'invito ma, prima di parlare di politica, ha voluto ribadire come l'assenza della conduttrice di Cartabianca sia per lui pesante: "Mi piaceva stare con la Bianchina, le chiedo scusa di nuovo, perché avevamo creato una coppia quasi comica, oserei dire. Stavo bene non per la mia faccia in tv, ma perchè dopo una vita miserabile, ho chiesto anche l'elemosina, avevo un'opportunità di riscatto".
Striscia la Notizia intercetta Franco Di Mare: "Mauro Corona? Perché non è più ospite gradito in Rai", ma la Berlinguer...Libero Quotidiano il 06 novembre 2020. “Voglio salutare Mauro Corona, spero che il dialogo costruito con lui possa riprendere al più presto, lo abbraccio con tanto affetto”. Con queste parole Bianca Berlinguer a Cartabianca aveva ribadito che non dipende da lei il veto posto sull’opinionista, che si era reso protagonista di un eccesso verbale, dando della “gallina” alla conduttrice. Tra loro tutto però sembra essere risolto, quindi è diventata sempre più credibile la voce secondo cui sarebbe Franco Di Mare a non voler cedere sul ritorno in tv di Corona. Intercettato da Striscia la Notizia tramite Valerio Staffelli, che gli ha consegnato un tapiro d’oro, il direttore di RaiTre ha dichiarato che “la questione è seria e riguarda i diritti delle donne, che sono stati vilipesi e calpestati. Non è una questione privata tra Berlinguer e Corona, ma riguarda i principi etici a cui l’azienda fa riferimento”. Parole dure, forse troppo per la realtà dei fatti: c’è stata una mancanza di rispetto di Corona nei confronti della Berlinguer, questo è evidente, ma parlare di altro per questo caso sembra davvero troppo.
Da vigilanzatv.it il 6 novembre 2020. Vi ricordate la lite tra Mauro Corona e Bianca Berlinguer a #Cartabianca, quando l’alpinista definì “gallina” la conduttrice? Corona venne sospeso dalla trasmissione ma VigilanzaTv svelò un retroscena peculiare. Una sfuriata tra il direttore di Rai3 Franco Di Mare, intenzionato a cacciare Corona, e Bianca Berlinguer che invece, malgrado gli epiteti ricevuti, voleva tenerlo in trasmissione per gli ascolti. Ebbene, la conferma che il nostro scoop era veritiero è stata corroborata dalle recenti parole di affetto della Berlinguer a Corona, escluso dalla trasmissione. Per questo motivo che delinea, come da noi svelato, un netto disaccordo tra la rete e la conduttrice, questa sera, venerdì 6 novembre 2020, a Striscia la notizia verrà consegnato il Tapiro a Franco Di Mare. Di Mare intercettato da Valerio Staffelli, leggiamo da un comunicato ufficiale della trasmissione, ha dichiarato: «La questione è seria e riguarda i diritti delle donne, che sono stati vilipesi e calpestati». A nulla sono valse le scuse dell’opinionista accettate pubblicamente dalla giornalista, Di Mare è categorico: «Non è una questione privata tra Berlinguer e Corona, ma riguarda i principi etici a cui l’azienda fa riferimento». E sottolinea: «È l’azienda che fa questa scelta». E se questa è la nuova posizione della Rai in materia si profilano molte sorprese e molti nuovi tapiri…”. E noi di VigilanzaTv anticiperemo come sempre i retroscena che ne decreteranno la consegna.
Da striscialanotizia.mediaset.it il 10 novembre 2020. Nel giro di pochi giorni il direttore di Rai 3 Franco Di Mare guadagna il suo secondo Tapiro d’oro. Molti spettatori sono rimasti meravigliati dalla dura condanna verso Corona, perché ben ricordano che lo stesso Franco Di Mare in passato ha avuto comportamenti molto poco corretti, specie con la collega Sonia Grey. Stasera Striscia mostrerà le immagini di quando Di Mare molestava sia Sonia Gray, toccandole il sedere, facendo volgari apprezzamenti sul suo seno, sia l’attrice Irene Ferri. Valerio Staffelli, consegnandogli il Tapiro gli ha ricordato alcuni episodi del passato: «Si ricorda il famoso gioco della carota in cui lei cercava di mettere in imbarazzo Sonia Grey? Si ricorda tutti i doppi sensi che utilizzava nel programma?». Ma il direttore di Rai 3 ha negato spudoratamente: «Io? Non è vero». Incalzato dall’inviato di Striscia: «È peggio dare della gallina alla Berlinguer o fare il “polipone” con Sonia Grey, come faceva lei?» lo stizzito Di Mare ha preferito fuggire anziché rispondere alle domande. Ma non ci sono solo le colleghe cui il “polipone” Di mare dovrebbe chiedere scusa per “palpatine”, doppi sensi e occhiate maldestre. Molti, tanti, aspettano da tempo le scuse del conduttore per quando ospitò in studio, tessendone le lodi, Salvatore Buzzi, poi rivelatosi uomo chiave di Mafia Capitale. E ancora di quando “bluffò” facendo passare un attore per il testimone di mafia Mario Nero e negando, una volta scoperto, di essere a conoscenza della cosa, sbugiardato però dal filmato che andrà in onda stasera. Il servizio si conclude con Valerio Staffelli che accusa Di Mare di usare “due pesi e due misure”: da una parte le sue parole recenti «Non è una questione privata tra Berlinguer e Corona, ma riguarda i principi etici a cui l’azienda fa riferimento», dall’altra i suoi comportamenti ben poco etici.Il servizio completo andrà in onda questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35).
Da liberoquotidiano.it l'11 novembre 2020. Quella del tg satirico contro Franco di Mare è una autentica crociata. Infatti nel giro di pochi giorni il direttore di Rai 3 guadagna il suo secondo Tapiro d’oro. Molti spettatori sono rimasti meravigliati dalla dura condanna del dirigente verso Mauro Corona, che continua a non volere in Rai, perché ben ricordano che lo stesso Franco Di Mare in passato ha avuto comportamenti molto poco corretti, specie con la collega Sonia Grey. Striscia la notizia mostra le immagini di quando Di Mare molestava sia Sonia Grey, toccandole il sedere, facendo volgari apprezzamenti sul suo seno, sia l’attrice Irene Ferri. Valerio Staffelli, consegnandogli il Tapiro, gli ha ricordato alcuni episodi del passato: «Si ricorda il famoso gioco della carota in cui lei cercava di mettere in imbarazzo Sonia Grey? Si ricorda tutti i doppi sensi che utilizzava nel programma?». Ma il direttore di Rai 3 ha negato spudoratamente: «Io? Non è vero». Incalzato dall’inviato di Striscia: «È peggio dare della gallina alla Berlinguer o fare il “polipone” con Sonia Grey, come faceva lei?» lo stizzito Di Mare ha preferito fuggire anziché rispondere alle domande. Ma non ci sono solo le colleghe cui il “polipone” Di mare dovrebbe chiedere scusa per “palpatine”, doppi sensi e occhiate maldestre. Molti, tanti, aspettano da tempo le scuse del conduttore per quando ospitò in studio, tessendone le lodi, Salvatore Buzzi, poi rivelatosi uomo chiave di Mafia Capitale. E ancora di quando “bluffò” facendo passare un attore per il testimone di mafia Mario Nero e negando, una volta scoperto, di essere a conoscenza della cosa, sbugiardato però dal filmato che andrà in onda stasera. Il servizio si conclude con Valerio Staffelli che accusa Di Mare di usare “due pesi e due misure”: da una parte le sue parole recenti «Non è una questione privata tra Berlinguer e Corona, ma riguarda i principi etici a cui l’azienda fa riferimento», dall’altra i suoi comportamenti ben poco etici. Ricordiamo che Corona è stato allontanato da Cartabianca per aver definito Bianca Berlinguer una "gallina".
"Hai fatto il polipone...?": Franco Di Mare in imbarazzo in tv. Franco Di Mare è stato raggiunto da un secondo tapiro per l'affair Corona: il direttore si nega ma Striscia lo inchioda con alcuni filmati. Francesca Galici, Mercoledì 11/11/2020 su Il Giornale. Come spesso accade, Striscia la notizia non molla l'osso e continua il suo assedio a Franco Di Mare, direttore di Rai3. Il tg satirico di Antonio Ricci ha messo il giornalista nel mirino dopo la sua decisione di allontanare a tempo indefinito Mauro Corona dal programma Cartabianca, consegnandogoli il secondo tapiro in pochi giorni. Il filosofo alpinista è noto per il suo carattere fumantino e per il suo modo di fare poco politically correct ma Bianca Berlinguer sembrava aver trovato con lui un equilibrio, nonostante gli scontri tra i due non siano mancati. L'ultimo, quando Corona ha definito la conduttrice "gallina", ne ha decretato l'oscuramento, anche contro il parare della Berlinguer, che dopo aver ricevuto le scuse del filosofo era pronto a riaccoglierlo in studio. Ma a quel punto è stato proprio Franco Di Mare a fare ostruzionismo impedendone il ritorno e ora Striscia la notizia ha deciso di riportare a galla alcuni episodi del giornalista, non troppo distanti da quanto fatto da Mauro Corona, se non anche peggiori. Stupisce la forza con la quale il direttore di Rai3 si stia opponendo al ritorno in video di Mauro Corona nonostante le sue scuse e le reiterate dichiarazioni di Bianca Berlinguer che ne chiede a gran voce il ritorno nel suo programma. La persona offesa dall'atteggiamento del filosofo dovrebbe essere lei ma se da parte sua non c'è più nessun rancore ma, anzi, c'è la volontò di riaccogliere a braccia aperte Corona, perché l'azienda glielo impedisce? Questa è la domanda che si fanno spesso i telespettatori di Cartabianca, affezionati alla Berlinguer quanto al filosofo. Erano una coppia ormai rodata e affiatata, totalmente distonica ma forse, anche per questo, amata dal pubblico. Proprio per dare voce al pubblico e spingere Franco Di Mare a ripensare alla sua decisione, Striscia la notiza ha deciso di consegnare il secondo tapiro al giornalista, ricordandogli di quando era lui a compiere qualche scivolone in tv. Il programma di Antonio Ricci, infatti, ha mostrato le immagini di quando Franco Di Mare faceva il piacione con Irene Ferri e Sonia Grey, con apprezzamenti spinti sul suo seno o con mani troppo lunghe sul suo lato B. "Si ricorda il famoso gioco della carota in cui lei cercava di mettere in imbarazzo Sonia Grey? Si ricorda tutti i doppi sensi che utilizzava nel programma?", ha chiesto Valerio Staffelli al giornalista, ricevendo un secco "no, non ricordo" come risposta. Valerio Staffelli non farebbe questo lavoro se mollasse la presa al primo colpo e così ha incalzato il direttore di Rai3: "È peggio dare della gallina alla Berlinguer o fare il 'polipone' con Sonia Grey, come faceva lei?". A quel punto Franco Di Mare si è chiuso nel silenzio ed è scappato dall'inviato di Striscia la notizia. Valerio Staffelli, quindi, ha voluto mettere il direttore di rete davanti alla realtà dei fatti di un non tanto celato doppopesismo. Solo poche settimane fa, infatti, nel rispondere nel merito della questione di Cartabianca, Franco Di Mare ha dichiarato che "non è una questione privata tra Berlinguer e Corona, ma riguarda i principi etici a cui l’azienda fa riferimento" mentre dall'altra parte Striscia la notizia ha voluto evidenziare quelli che sembrano comportamenti poco etici da parte dello stesso giornalista, per i quali all'epoca non furono presi provvedimenti.
Da striscialanotizia.mediaset.it il 12 novembre 2020. Il caso “Corona” continua ad agitare le acque… Di Mare! La dura condanna del direttore di Rai Tre verso lo scrittore montanaro – allontanato da viale Mazzini per aver dato della “gallina” a Bianca Berlinguer – ha stupito molti spettatori che ben ricordano quando Franco Di Mare si lasciò andare a doppi sensi, “palpatine” e occhiate maldestre nei confronti sia della collega Sonia Grey sia dell’attrice Irene Ferri. Un classico “due pesi e due misure” che gli è valso un doppio Tapiro d’oro da parte di Striscia la notizia (vedi servizi del 6 e del 10 novembre). Pizzicato nell’orgoglio, Di Mare ha esondato sui suoi profili social definendo quelli di Striscia la notizia “monnezzari e gentaglia” e scrivendo: «Sonia Grey, tirata in ballo da un servizio di Striscia come se io l’avessi molestata, racconta la verità in un suo post che mi ha girato». Forse il direttore di Rai Tre pensava di cavarsela, stiracchiando la verità a suo uso e consumo, invece, ancora una volta, è stato smentito. È proprio Sonia Grey, “attapirata” dopo aver letto le parole del “polipone”, ad aver contattato la redazione di Striscia per dare la reale versione dei fatti: «Non ho fatto alcun post a difesa di Di Mare. Io il servizio di Striscia non l’avevo nemmeno visto, ho solo lasciato un commento sulla sua pagina perché lui mi ha chiesto il favore di farlo! Sono dispiaciuta perché sono stata usata e mi dissocio dalla strumentalizzazione che è stata fatta». Insomma, ci troviamo di fronte all’ennesimo caso di “DiMareide”, la bizzarra patologia che colpisce chi non perde il vizio di negare la realtà. Come quando venne beccato a presentare in una convention pubblicitaria una finta edizione straordinaria del TG UNO: una marchetta di oltre sette minuti per un’azienda di pannolini. Anche in quel caso Di Mare dichiarò in un’intervista con Beatrice Borromeo del Il Fatto Quotidiano che il falso telegiornale era stato trasmesso a sua insaputa e comunque di aver poi chiesto scusa al pubblico. Peccato che qualche tempo dopo, sempre Il Fatto Quotidiano pubblicò il filmato originale della convention in cui si vedeva Di Mare prima presentare l’edizione speciale del TG UNO poi ringraziare degli applausi il pubblico in sala. Altro che scusarsi!
Da liberoquotidiano.it il 13 novembre 2020. Mauro Corona torna a parlare di Bianca Berlinguer e della sua "cacciata" da CartaBianca, il programma di Rai 3 che lo vedeva ospite tutti i martedì. Dopo la litigata con la conduttrice, da lui definita "gallina", e le scuse, lo scrittore non è stato ancora perdonato. Non dalla diretta interessata però, ma pare da Franco Di Mare, il direttore della Terza Rete di viale Mazzini. “Sono triste perché ho scoperto un falso amico. Perché non posso più essere al fianco di Bianca Berlinguer, in tivù a difendere la povera gente. Per il resto scrivo, scolpisco e scalo, la mia vita continua", dice a Repubblica senza peli sulla lingua. L'alpinista teme che sotto il suo allontanamento ci sia qualcosa di più: "Ora in discussione non c’è più la mia maleducazione. Di quella mi sono scusato subito e pubblicamente. Il punto è capire perché l’Italia non è più abituata alla verità e accetta di finanziare un servizio pubblico che la nega”. Corona ne è certo: "Bianca è avvilita e delusa: chiede invano il mio ritorno, mi dice che non vede l’ora di riavermi con lei". Insomma, lo scrittore sarebbe "vittima di una guerra interna in Rai”. Ma Corona non lascia nulla all'immaginazione e scende nel dettaglio: “I fatti: a cacciarmi non è stata Berlinguer e nemmeno l’ad Salini. Mi ha fatto fuori il direttore di Rai 3, Franco Di Mare - conferma -. Dedicandomi un suo libro, o invitandomi alle sue trasmissioni, mi chiamava fratello di montagna. Diceva in giro di essere mio amico: alla prima occasione mi ha piantato il pugnale nella schiena”. La guerra politica per l'alpinista si gioca tra i partiti al governo: "Dietro c’è un braccio di ferro tra Cinque Stelle e Pd. Lo spazio in Rai lasciato alla sinistra ormai sembra esagerato”, conclude.
Mirella Serri per “Tutto Libri – la Stampa” del 20 novembre 2018. Se la strada del piacere passa per la violenza: donne strangolate, fanciulle fustigate e rese irriconoscibili, bambine concupite e assaltate. Solo così riescono a soddisfare i propri appetiti erotici i feroci protagonisti di “Nel muro” (Mondadori, pp. 278, e. 19, 00) di Mauro Corona. Alpinista, scultore, scrittore di libri di gran successo, in quest’ultimo romanzo si cimenta con il genere pulp e mette crudamente in scena le pulsioni che spingono i maschi impotenti e solitari a spargere il sangue di tante vittime innocenti. Dopo aver narrato nelle opere precedenti la bellezza e il potere salvifico della natura, parossisticamente Corona svela il lato buio e la follia che si annidano nelle sue montagne. In questo delirio (concepito in 15 mesi di psicofarmaci ingollati con boccali di vino o di birra, come racconta lo stesso autore) i torturatori infieriscono pure sugli amati animali. Il gusto del supplizio da parte dei più turpi si esercita sulle bestie compagne di vita e fonte di sopravvivenza. Con l’espediente del racconto gotico e con la vicenda di tre mummie trovate in un’intercapedine del muro, il romanziere cerca di dare spiegazioni a tanta abiezione. Ma il pulp non ha bisogno di un eccesso di motivazioni. Basta il punto di vista degli assassini poiché Corona sa egregiamente raccontare la perversione, la viltà e la disonestà degli uomini che odiano le donne. Il male appare in tutta la sua nefandezza. Scavare, in senso metaforico e reale, non serve.
Da striscialanotizia.mediaset.it il 13 novembre 2020. La DiMareide è la strana patologia che colpisce chi non perde il vizio di negare la realtà. Come Franco Di Mare, da cui la patologia appunto prende il nome. In questo servizio vi mostriamo qualche esempio per riconoscerne i sintomi --- Di mare in peggio: striscia chiamato da Sonia Grey scopre che il direttore paragrillino, dopo lo sputtanamento del tg satirico, le ha chiesto di scrivere un messaggio di solidarietà sui social sulle accuse di molestia, ma poi ha manipolato un suo post su Facebook. Non solo. Ricci mette insieme tutti i messaggi mandati dal direttore paragrillino a Mauro Corona prima di farlo fuori da “Cartabianca” - stesso trattamento riservato a Salvo Sottile con l’esclusione da “Mi Manda Raitre” - e scova un finto Tg1 organizzato da Di Mare e da Attilio Romita per fare pubblicità ai pannolini Lines. Di mare all’epoca negò di sapere che fosse un vero telegiornale ma “Striscia” ha rilanciato il filmato della marchetta scovato dal “Fatto”. I giornalisti, come si sa, non possono fare pubblicità, glielo vieta l’Ordine dei giornalisti.
Giampiero Mughini per Dagospia il 13 novembre 2020. Caro Dago, dal fatto che tu te ne occupi sovente ritengo che ci siano parecchi tuoi lettori cui interessa questa acre contesa tra uno scrittore un tantino esotico e la trasmissione Rai condotta da Bianca Berlinguer che gli ha sottratto i 500 euro lordi a botta che pure gli erano stati assicurati. Tutta colpa di Franco Di Mare, il direttore del canale televisivo in questione? Chissà. Per quanto mi riguarda - e fermo restando il mio rammarico per la sottrazione di 500 euro lordi a uno che deve lavorare per vivere -ne resto allibito. Chi di noi lavora in quella che chiamiamo comunicazione (per iscritto o per orale) lo sa a memoria che oggi ci sei e domani sparisci, e senza che venga fatto un qualche corteo funebre. Se collabori a un giornale, è sufficiente che in quel giornale arrivi un caposervizio cui non stai simpatico e quella collaborazione cessa, si schianta. In quaranta o cinquant’anni che campo di chiacchiere (per iscritto o per orale), non è che questo sia successo qualche volta: al contrario, è successo sempre. Sempre. E’ un campo il nostro dove i lavori nascono per poi finire, raramente durano. Tutto è appiccicato “con la sputazza” per dirla in siciliano, a cominciare dal fatto che di soldi per sostenere il mondo della comunicazione non ce n’è più. In questi ultimi mesi i miei committenti mi hanno chiesto tagli del cachet tra il 30 e il 50 per cento. Da stupirsene? Ma nemmeno per sogno. Semmai è un miracolo che ti offrano ancora qualche dindino a contraccambio del parlare (o scrivere) del più e del meno. Pandemia a parte, è sempre stato così. Avevo lavorato a lungo in una trasmissione televisiva piuttosto rinomata, dove mi facevano anno per anno un contratto a inizio della stagione televisiva. Un’estate di alcuni anni fa qualcuno mi telefonò da un giornale a chiedermi se era vero che non facevo più parte di quella trasmissione. Non ne sapevo nulla. Lessi più tardi che era proprio così. Non feci nemmeno una telefonata a chiederne il perché. Alcuni anni fa sono andato a una trasmissione Rai i cui autori mi riempivano di complimenti persino imbarazzanti. Mi fecero ipso facto un contratto per cinque puntate. Andai un paio di volte, poi non li ho mai più sentiti. Mai più, né gli autori né il conduttore che prima mi faceva tanti bei salamelecchi. Nel contratto c’era scritto che avevo diritto al 10 per cento del cachet relativo alle 3 puntate che non avevo fatto. Ho usato quel contratto per nettarmi il fondoschiena, né ho mai fatto una telefonata a chiedere il chi e il perché. E’ sempre andata così, sempre, e poco conta che a comandare quel tal giornale o quella tale trasmissione fosse qualcuno che si professava mio amico. E’ un mondo che funziona e funzionerà sempre così. E quanto a me, munito come sono di un mostruoso complesso di superiorità, mai e poi mai chiederò spiegazioni all’uno o all’altro misirizzi. Altro che eccitare l’umanità sul torto che mi è stato fatto.
Estratto articolo di Alessandro Ferrucci per "Il Fatto Quotidiano" il 29 novembre 2020. [...]
Il vostro inizio era un punto fermo.
«Quel ruolo è nato piano piano, mi divertivo e quando c'è stato il lockdown il riscontro del pubblico è stato intenso: ci scrivevano per ringraziarci di quella mezz' ora di vero intrattenimento».
E quando le ha detto gallina, cosa ha pensato?
«In quel momento gli ho risposto con durezza, ma non pensavo si sarebbe arrivati a tanto. E ripeto: non mi è stato lasciato il diritto di gestire l'offesa».
Estromessa.
«È diventata una questione tra maschi».
Con Di Mare ha parlato?
«La sera stessa del fattaccio, Di Mare mi ha inondato di messaggi, da mezzanotte alle due del mattino, con un solo contenuto: "Mai più Corona in trasmissione". E io: "Ne parliamo domani"».
L'incontro.
«Molto acceso ed è finito male; appena sono entrata nella sua stanza, l'incipit è stato: "Quell'uomo non tornerà più nella tua trasmissione, questa offesa non può passare impunita". E io: "Non spetta solo a te valutare l'entità dell'offesa. Sono in grado di risolverla da sola"».
Che danno le ha arrecato l'assenza di Corona?
«Gli ascolti vanno bene, ma con lui sarebbero andati sicuramente meglio; il danno è anche per me, mi manca un po' di leggerezza e gli spettatori se ne lamentano continuamente. D'altra parte, ci sarà un motivo se una volta escluso da #Cartabianca, Corona viene richiesto da tutte le trasmissioni concorrenti».
Perché Franco Di Mare si è impuntato?
«Non lo so. E me lo sono chiesta ripetutamente. I nostri rapporti si sono limitati al caso Corona, per il resto non ho mai avuto alcun confronto con lui».
Come ne uscirete?
«Per ora non ci sono margini. E la vicenda ha accentuato la mia sensazione di solitudine in Rai».
Come mai?
«Neanche quando Campo Dall'Orto mi ha rimossa da direttore del Tg3 ho avvertito qualcosa di simile: con lui ci siamo incontrati, confrontati, scontrati, mentre adesso sento di non avere interlocutori».
Mancano a lei, o è una questione generale?
«Non lo so. Un esempio: mentre La7 e Mediaset portano avanti una politica di squadra molto decisa e compatta, e vietano ai loro volti di frequentare altre tv, la Rai si muove in ordine sparso e così capita che, più volte, mentre è in onda la mia trasmissione, su La7 siano presenti figure note dell'azienda, addirittura una sua ex presidente».
Dagospia il 10 dicembre 2020. Da striscialanotizia.mediaset.it. «Con quello che accade oggi, con un numero di morti che è come se cadessero tre aerei di linea ogni giorno io devo occuparmi di Corona»: un Franco Di Mare sprezzante ha affrontato stamane l’audizione in Commissione parlamentare. Costretto, suo malgrado, a rispondere della querelle che lo vede coinvolto con Bianca Berlinguer e Mauro Corona, il direttore di Rai 3 è stato ancora più tranchant: «La violenza fisica di genere arriva sempre dopo la violenza psicologica e verbale. Non è possibile sentire queste parole in televisione. Il signor Corona offendeva e questo non è possibile». «Mi limito ad applicare i regolamenti, il Contratto di servizio è il nostro faro. Se poi qualcuno mi dice che non è questa la strada, faccio un passo indietro» ha concluso un Di Mare pronto persino a immolarsi sull’altare del politicamente corretto. Poco prima e con tutt’altro registro, ossequioso e assai compreso nella parte, Di Mare aveva usato parole dolci per Fabio Fazio: «Il pubblico ha premiato il ritorno a casa di Fabio Fazio con il 2,30% di share in più – ha dichiarato. Credo davvero che sia un valore assoluto per l'intera tv pubblica, nella quale ha trascorso tutta la sua vita professionale, e mi auguro resti con noi per molto tempo ancora». Tutto bene, verrebbe da dire. Ma neanche un po’, invece! Quello che resta dopo tante chiacchiere è l’evidente e contraddittorio atteggiamento del nostro “ballerino in perizoma leopardato” (Botteri dixit). Da una parte condanna senza appello il montanaro Mauro Corona, dall’altra non dice una sola parola su quello che è andato in onda domenica scorsa a Che tempo che fa dell'“amato” Fazio. Durante il suo monologo Luciana Littizzetto ha mostrato una foto (nuda a cavallo) pubblicata sui social da Wanda Nara, moglie del calciatore Mauro Icardi. E ha così commentato: «Ho visto la foto di Wanda Nara, sai è una appassionata di cavalli. E questa settimana si è fatta una foto, in sella al suo destriero: quando si dice cavalcare a pelo. Io mi chiedo come l’hanno issata su, cioè l’hanno messa su a peso e poi si sta tenendo su con la sola forza delle unghie e, credo, della jolanda prensile. Il cavallo non starà immobile, spiegami dove è il pomello della sella. Secondo me si arpiona in questo modo. Si sta specializzando per fare il Palio di Siena nella contrada della passera». Su questo utilizzo del corpo di una donna, non in linea con il rigoroso Codice etico applicato nei confronti di Corona, Franco Di Mare non ha detto una sola parola e, usando pesi e misure diverse, non ha preso alcun provvedimento nei confronti del programma. Evidentemente la trasmissione di Fabio Fazio è dotata di un “Caschetto” di protezione.
Dagospia il 10 dicembre 2020. Da striscialanotizia.mediaset.it. Un compleanno “attapirato” per Bianca Berlinguer, orfana del suo Mauro Corona, lo scrittore montanaro epurato da Cartabianca con un “editto bulgaro” emesso dal direttore di Rai Tre Franco Di Mare. Per questo ieri l’inviato di Striscia la notizia Valerio Staffelli ha atteso la giornalista per consegnarle uno specialissimo Tapiro “dedicato”, completo di coroncina e candelina. "Questa decisione – ha dichiarato Bianca Berlinguer – è stata presa senza il mio consenso: Franco Di Mare ha tirato in ballo l’onore di tutte le donne senza però considerare il mio e alla fine, una questione che avrebbe dovuto gestire una donna, la sottoscritta, è diventata un diverbio tra due uomini. Con Di Mare ci ho parlato solo il giorno dopo l’episodio incriminato e mi ha detto che Corona non avrebbe mai più messo piede in trasmissione, nonostante io non fossi d’accordo. Peccato, perché oltre a me anche tanti nostri telespettatori lo rivorrebbero.
Estratti dal libro “Nel muro” di Mauro Corona. Ogni volta che son andato con donne, a fine coito mi facevano schifo. Non rimanevo oltre nemmeno un minuto o le avrei prese a sberle. Questo mi succedeva. E ancora mi succede, non posso farci niente. A voler dire tutta la verità, ce n'è stata una con cui le cose sembravano diverse. Ma non e questo il momento di parlarne. L'unica soluzione e stare lontano dalle donne, sono la rovina dell'umanità. E riproducono umanità per seguitare a rovinarla. Nient'altro che questo. A me le femmine mi piacciono, mi sono sempre piaciute, ma ho difficoltà a digerirle. Una volta, prima di scoprire la verità, credevo di sapere perchè mi succedeva questo. Da piccolo, aveva si e no dieci, undici anni, forse meno, ho visto mia mamma fare quelle robe con diversi uomini. Mio padre lavorava in bosco e lei se la spassava con quelli del paese. Prima uno e dopo l'altro, a seconda dei casi. Se li portava nella camera alta, di fronte la stalla, e io dal fienile vedevo. La prima volta fu per caso, come succede a molte scoperte. Poi mi appostavo di proposito. Ero andato sul fienile a spiare i piccoli del codirosso. In seguito spiavo mia mamma. La vedevo a gambe larghe sul letto, stesa sulla coperta scura che si portava appresso. E l'uomo di turno sopra di lei che dava colpi e grugniva e lei miagolava come una gatta. Ma pareva che piangesse. E dopo un po' abbaiava anche lui qualcosa mentre accelerava i colpi. Poi finiva e si tirava via. Allora vedevo mia mamma ancora con le gambe larghe e le tette una per parte e quella macchia nera di pelo fin sulla pancia. L'avrei uccisa volentieri. Mi ricordo che alcuni uomini finivano presto ma altri la tiravano lunga. E lei sotto sempre a miagolare. Io poi quegli uomini li incontravo per le vie del paese e li riconoscevo, ma ho sempre fatto finta di niente e tirato dritto. Non ce l'avevo con loro. Stranamente non li odiavo per il fatto che montavano mia mamma. Odiavo lei che si faceva montare. Probabilmente fu da allora che iniziai a odiare le donne. Ma, devo dire, dopo che ho conosciuto la storia che ancora non mi decido a raccontare, posso affermare con certezza che la faccenda e un'eredità antica, un lascito maledetto. A ogni modo, tornando a mia mamma, mi accorgevo quando andava coi suoi amanti. Prendeva la coperta. Doveva farlo di giorno, alla sera rientrava mio padre. Quando arrotolava la coperta, facendo finta di niente, uscivo e mi arrampicavo sul fienile. E li, attraverso un buco nel fieno che copriva la finestra, vedevo tutto. Piu tardi ho anche capito perchè usa- va la coperta. (….) Se avessi rivelato solo la meta di ciò che combinavano, sarebbero finiti in galera. Ora che sono morti, voglio dire che razza di gente mi circondava, pochi ma buoni mi vien da dire. Non che io fossi migliore, quello no, ma certe cose sulle donne non le ho mai fatte. Pensate si, messe in pratica no. Un giorno uno dei due trovo una fidanzata. La faccenda non duro molto. D'estate andavano a spasso per pascoli e bai- te e lui la torturava con le ortiche. All'inizio lei pensava che scherzasse. Allora scappava qua e la con la gaiezza dell'amo- re. Il mio amico la rincorreva brandendo un mazzo di ortiche che le passava sulle gambe, sulle braccia e pure sul viso. La donna capi e si preoccupo. Lui mi raccontava queste cose e rideva. Quando era ben gonfia e infiammata, la obbligava a fare l'amore. Diceva che dopo quella cura diventava brutta. Solo cosi riusciva nel suo sfogo di maschio. Se era normale si bloccava, perciò doveva deturparla. Diceva inoltre che in quelle condizioni era più calda. E da qui si dilungava in una contorta e allucinante spiegazione sul potere delle ortiche di scaldare il sangue e farlo confluire nel punto giusto del sesso. Mi disse che meglio ancora sarebbero state punture di api ma troppe avrebbero rischiato di ucciderla. Secondo me era fuori di testa e, devo confessare, a volte mi faceva paura. Quando lei lo mollo la minaccio di morte. Fu costretta a passare ancora un'estate con lui. E con le ortiche. La mamma ogni tanto notava le gambe e le braccia arrossate di sua figlia, il viso gonfio e deturpato. Ne chiedeva conto. La ragazza raccontava che era lei stessa a sfregarsi le ortiche per attivare una circolazione pigra e assonnata. Quando non c'erano ortiche, il fidanzato la sporcava di fuliggine per abbruttirla. In ultimo le infilava una maschera di legno con la bocca senza denti e i capelli di stoppa. Alla fine, stanca di maltrattamenti e paure, dopo un anno e mezzo fuggi. Dicono in Svizzera, ma di preciso nessuno lo sa. L'unica certezza e che da quel giorno non si fece più viva.
(ANSA il 10 dicembre 2020) - ''La signora Berlinguer è stata più volte invitata da me a non rilasciare più dichiarazioni, in base anche alle indicazioni del codice interno, e non ha ascoltato: sono fortemente aziendalista e sono sicuro che i vertici sapranno cosa indicare alla signora Berlinguer sulla questione delle interviste". Lo ha detto in commissione di Vigilanza il direttore di Rai3 Franco Di Mare, tornando sul caso dell'esclusione di Mauro Corona dal programma #cartabianca e prendendo le distanze da alcune interviste rilasciate dalla giornalista e conduttrice del programma. "In generale - ha aggiunto Di Mare - trovo indecente che un dirigente venga attaccato in questo modo, evidentemente è nel destino dei direttori". Peraltro, ha ricordato, "le interviste vanno autorizzate da parte dell'azienda, dei vertici". Di Mare ha comunque rivendicato la scelta di allontanare Corona dopo le sue dichiarazioni riferite alla stessa Berlinguer ("Sta' zitta, gallina"): "La violenza fisica di genere - ha detto - nasce da quella psicologica e verbale: 2,1 milioni di donne secondo l'Istat vengono vessate quotidianamente da fidanzati e mariti. Corona era già stato sospeso una volta, non solo per le parole incontinenti, ma anche per i comportamenti aggressivi, beveva in diretta, faceva pubblicità in diretta. E questo non è consentito. Nulla di personale, mi sta anche simpatico, ma certi atteggiamenti verbalmente violenti, aggressivi, offensivi, non sono consentiti. Berlinguer lo ha perdonato, sono contento. Ma in base al Contratto di servizio e al Codice Etico è bene che stia fuori dell'azienda, per quello che ha fatto e detto". Di Mare ha citato il caso della sospensione di Detto Fatto dopo il tutorial sulla spesa sexy: "Come si può quindi tollerare che si dica 'zitta tu, gallina'? continuando a fare finta di niente? Mi limito ad applicare i regolamenti, il Contratto di servizio è il nostro faro. Se poi qualcuno mi dice che non è questa la strada, faccio un passo indietro".
(ANSA il 10 dicembre 2020) - "Il 25 novembre ho inviato all'ad Salini una mail in cui, in sintesi, definivo sconcertante e bizzarro che Botteri e Maggioni avessero partecipato al programma concorrente di #cartabianca, ho chiesto conto di questa cosa". Lo ha spiegato il direttore di Rai3 Franco Di Mare, rispondendo alle domande dei parlamentari in commissione di Vigilanza. "Ho autorizzato invece il vicedirettore Ranucci a partecipare (a diMartedì, ndr) perché andava lì a testimoniare quello che Report aveva fatto la settimana prima: abbiamo pensato che potesse essere uno stimolo, una sottolineatura rimarchevole del lavoro svolto da Rai3 fino a quel momento. E quella sera #cartabianca non ha perso niente in termini di ascolti, non c'è stato danno".
(ANSA il 10 dicembre 2020) - Sigfrido Ranucci, curatore e conduttore di Report e vicedirettore di Rai3, è al lavoro su "Report Lab, che sarà un laboratorio, una factory di giornalismo d'inchiesta, in grado di formare giornalisti investigativi, che è anche una forma di tutela e verifica dello stato di democrazia nel nostro Paese". Lo ha annunciato il direttore di Rai3, Franco Di Mare, in commissione di Vigilanza. "Sapersi districare con competenza tra bilanci aziendali, documentazioni bancarie, visure catastali, non è un lavoro facile - ha aggiunto -, non si improvvisa: di qui l'impegno a pescare non solo all'esterno, nell'informazione giovane e veloce, che si trova anche sul web, ma soprattutto tra i giornalisti interni alla Rai". "Report Lab vuole anche far nascere eventi speciali, con una sorta di spin off della trasmissione: è una formula fortemente innovativa su cui puntiamo molto", ha sottolineato il direttore di Rai3.
(ANSA il 10 dicembre 2020) - "Nei primi tre mesi d'autunno lo share di Rai3 è cresciuto del 10% sull'intera giornata e del 12% sul prime time rispetto allo stesso periodo di un anno fa, ponendola come terza rete assoluta fra le sette generaliste, con un salto di due posizioni, attestandosi dopo Rai1 e Canale 5". Lo ha rivendicato il direttore di rete, Franco Di Mare, nel suo intervento in commissione di Vigilanza. "Su tutte le proposte della rete - ha aggiunto - svettano Che tempo che fa e Report: Fazio, tornato a casa su Rai3, ha visto crescere la media del programma del 2,30%, cioè 750mila spettatori in più rispetto al 2019. So che non tutti hanno la stessa opinione di Fazio, ma credo davvero che sia un valore assoluto per l'intera tv pubblica, nella quale ha trascorso tutta la sua vita professionale, e mi auguro resti con noi per molto tempo ancora". "Altro beniamino di Rai3 - ha detto - è Sigfrido Ranucci, il più noto, stimato e temuto giornalista d'inchiesta in Italia. Spesso i servizi di Report anticipano la magistratura, come è appena accaduto con la vicenda Oms. Report ha guadagnato 2.68 punti di share e 780mila spettatori in valori assoluti".
Maria Corbi per “la Stampa” il 21 novembre 2020. Quando racconta Mauro Corona colora le parole con la ruvidezza di un montanaro e la dolcezza trattenuta di un uomo malinconico. L' ultimo sorso. Storia di Celio è il suo ultimo libro uscito per Mondadori. «Celio sono io, almeno per un 90 per cento», spiega lo scrittore che ha però l' urgenza di parlare di altro, della sua cacciata dalla trasmissione Carta Bianca per volere del direttore di Rai 3 Franco Di Mare dopo una frase infelice rivolta alla conduttrice, Bianca Berlinguer: «Stai zitta gallina». Ma mentre lei dopo aver risposto per le rime e avere accettato le scuse ripetute e contrite di Corona, ha considerato la vicenda chiusa, Di Mare ha deciso che in nome del rispetto delle donne fosse necessario non rispettare la volontà della Berlinguer che chiede a gran voce il ritorno del suo opinionista in trasmissione. Iniziamo da qui perché , come ripete Corona, non è il suo primo obiettivo parlare del libro. «Non è come ha detto Franco Di Mare. Io ho sempre rispettato le donne».
Però le è scappata una frase, certamente poco rispettosa, almeno verso la padrona di casa.
«Cosa crede che non mi sia dispiaciuta quella sparata alla Bianchina? Mi sono dispiaciuto con il cuore, non per riparare al danno. Avevo chiesto a Di Mare un' opportunità, tornare in tv una volta per chiedere scusa ai telespettatori e alla Bianca».
Ma lui è stato inflessibile?
«Mi è dispiaciuto perché si diceva mio amico e mi chiamava "fratello della montagna".
Adesso ti leggo il suo messaggio in cui dice cose non vere. Per scaricare la sua ferocia ha incolpato altri».
Chi?
«Ti leggo il messaggio. "Amico mio carissimo ti capisco e non ti ho rotto i coglioni scrivendoti prima perché immagino come ti senti dopo quella improvvida sfuriata. A tutti dico che siamo amici. Ma la situazione, ahimee, è sfuggita al nostro controllo: il tuo certo; ma anche il mio. Ci sono prese di posizioni della commissione Pari Opportunità della Rai, non c'è partito politico che non abbia chiesto misure, non c'è consigliere Rai che non si sia espresso. Io temo che lo stop debba andare oltre il semplice giro di giostra così come auspicato da Bianca. Un po' di pazienza. Facciamo decantare. Ti abbraccio". Nessun vertice Rai si è espresso e nemmeno i partiti tranne un rimbecco di Ansaldi. A me questo sms ha fatto male perché io nell' amicizia credo. E non può dire che io ho offeso le donne. Ne ho offeso solo una, la Bianca, e sono mortificato. La verità è che lui ha usato me per danneggiare lei. Eravamo una bella coppia, che faceva ascolti, la gente ci voleva bene. Di Mare avrebbe dovuto permettermi di tornare per chiedere scusa e poi sarei sparito. Ma mi aspettava al varco, voleva scombinare l' armonia che avevamo creato. O forse ha un vecchio rancore perché 11 anni fa gli fregai il premio Bancarella».
Però ha subito tradito la Berlinguer con la Palombelli dove è andato ospite.
«No, io ci sono andato con il permesso della Bianca. Pensa che etica ho io».
Parliamo del libro. Chi è Celio?
«Un eteronimo totale. Celio è esistito ma non è solo lui in questo personaggio, e c' è molto di me».
Più un bilancio o testamento?
«Sono entrambi. Perché anche chi ha vissuto a volte dimentica la sua vita e riscriverla è anche una sorpresa, per le cose che saltano fuori in corso d' opera. E sicuramente, tra le righe - come diceva Mozart la musica è tra le note - è anche un testamento».
Prima di questo libro aveva mai raccontato il dolore vissuto nell' infanzia ai suoi figli?
«Qualche accenno. Non volevo gravarli perché già ci pensa la vita a farlo. L' ho buttata lì in maniera quasi ironica più che tragica. Non potevo vendicarmi di mio padre raccontandogli quello che mi faceva. Certo ho accennato dicendo "quando non aveva tempo di badarci ci legava al palo", ma ridendo. Però ci legava anche 10 ore al palo, facendoci ingurgitare olio di ricino e botte. Riflettevo l' altro giorno sul fatto che mio padre che è stato un criminale con i suoi figli ha fatto in modo che io mi comportassi in maniera totalmente diversa. Quindi alla fine sono stato educato al bene e gli dovrei riconoscenza».
Parole che significano perdono?
«Mio padre si è fatto disprezzare. E anche mia madre che ci abbandonò quando io avevo sei anni, mio fratello, 5 e quello più piccolo solo 4 mesi. Tornò che avevo 13 anni, ma ho la certezza che scappò per non essere ammazzata da lui. Perché allora non potevi denunciare le violenze. Mia mamma è andata 3 volte in coma e noi abbiamo visto il sangue. Questo non giustifica poi le scelte che ho fatto...».
Sta parlando dell' alcolismo?
«L' alcolismo, le spacconate, i comportamenti. Non li giustifico alla luce della mia infanzia difficile, io il coltello lo uso dalla parte della lama. Nel libro e nella vita faccio la nuda cronaca di quello che mi è capitato».
L'ultimo sorso. Lo ha dato?
«Riuscii a non bere più molto tempo fa per 5 anni. Poi ci sono ricaduto, coscientemente e lucidamente. Non troviamo scuse. Il 17 agosto, ho detto che volevo provare ancora una volta. E' difficilissimo, ma resisto. Mi hanno convinto i miei 4 figli che ne soffrivano perché della mia salute non me ne frega nulla. E l' ho dimostrato cercando di arrostirmela in ogni modo. Ero mezzo agitato perché non bevevo: ecco perché e mi è scappata una gallina».
Non ha appena detto "niente giustificazioni"?
«E' vero non mi giustifico ma chiedo ancora scusa a Bianca e ai telespettatori».
È a Di Mare cosa direbbe se lo incontrasse?
«Gli direi "andiamo a bere un caffè" perché io sono un vero amico, non riesco a odiare, non è nella mia genetica, ed è per questo che ne soffro di più. Ma la gente deve anche sapere le cose, per questo io mi sfogo con te».
Ad agosto hai compiuto 70 anni. Propositi?
« Non pensavo di arrivarci perché ho vissuto dannatamente a rischio. Ora inizio a godermi i giorni. Non spreco più un minuto».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 3 dicembre 2020. Il grande dramma che attraversa la tv italiana è uno e uno solo: tornerà Mauro Corona a «#cartabianca»? Bianca Berlinguer è disperata: rilascia accorate interviste, lancia appelli in trasmissione chiedendo persino aiuto a Matteo Salvini, non smette di perorare la causa dell'alpinista-scrittore. Che pure in trasmissione le aveva dato della gallina (offesa che nell'attuale humus del dopo #MeToo parrebbe imperdonabile), che si era subito scusato per l'aggressività dando la colpa a 40 giorni di astinenza alcolica. Niente da fare, Corona non torna. Nel frattempo, anche lui fa il giro delle sette chiese tv per chiedere di ritornare dalla sua Bianchina. Perché Berlinguer vuole che torni? Chi è il cattivo che non lo fa tornare? Il motivo che lega indissolubilmente la coppia l'abbiamo spiegato tempo fa, prima che succedesse il fattaccio. È l'unico segmento della trasmissione che funziona: la Berlinguer è una rigidona, ha difficoltà a sciogliersi, fa domande troppo lunghe, legge il copione, è sempre visibilmente impacciata. Mauro Corona era lo sparring partner ideale: le strappava un sorriso, recitava la parte dello studente che si ribella alla maestra, si atteggiava a mattocchio, si mascherava da forestale per chiederne il ritorno. Bene gli ascolti e soprattutto ottimo riscaldamento per la conduttrice. In tv, l'audience vale più di un'offesa. A questo punto entra in scena il cattivo, nelle vesti del neodirettore di Rai3 Franco Di Mare, assunto alla carica in quota pentastellata. Ha convocato la conduttrice e le ha detto: «Quell'uomo non tornerà più nella tua trasmissione, questa offesa non può passare impunita». Pare di vederlo, mentre pronuncia l'anatema! Storie così fantastiche (o tragiche o farsesche o patetiche) si prestano a mille letture, ma è evidente che Di Mare vuole mettere i bastoni fra le ruote di «#cartabianca». Buttiamola in politica, così il dramma parrà meno dramma.
Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 6 dicembre 2020.
Quando lo ha sentito l’ultima volta?
«Ieri sera. Questa separazione è stata dolorosa per tutti e due».
Mauro Corona non è più ospite fisso di #cartabianca dal 22 settembre scorso, quando apostrofò come «gallina» la conduttrice Bianca Berlinguer, già direttrice del Tg3. Un’offesa che lei stessa rispedì al mittente in diretta tv. Il giorno dopo la direzione di rete si scusò con il pubblico. La decisione successiva, irrevocabile e inappellabile, fu l’allontanamento di Corona dal programma. Domenica scorsa sul Fatto Quotidiano Berlinguer ha contestato la scelta del direttore di Rai 3 Franco Di Mare: «È diventata una questione tra maschi». E adesso, con il Corriere, puntualizza: «In nome dell’offesa al genere femminile, Di Mare si è dimenticato di prendere in considerazione proprio l’opinione della persona che si sarebbe dovuta sentire offesa, che sono io».
Partiamo dall’inizio. Com’è nato il sodalizio professionale con Corona, nel 2018?
«Conducevo ancora #cartabianca quotidiano. Volevamo occuparci di ambiente e un autore mi suggerì di invitarlo. Vidi che aveva una resa televisiva molto intensa. Inaspettatamente nacque un bel dialogo tra me e lui e la collaborazione è diventata stabile».
E ben remunerata?
«500 euro lordi a puntata, assai meno di quanto altre trasmissioni offrono ai propri ospiti».
La prima volta che l’ha chiamata Bianchina le è preso un colpo?
«Non mi piaceva perché mi ricordava il nome di una mucca e gliel’ho detto. Però faceva parte di questa intesa divertente tra me e lui».
Le ha cantato: «Lanciami le tue belle trecce...». Le ha dato della Befana, del «vecchio alpino». Ha anche detto: «Tradisco la moglie, ma non la Berlinguer».
«Era anche per me un momento di leggerezza in una trasmissione tutta politica».
La volta che lui bevve una birra in diretta, lei lo sospese. Sarebbe dovuto rientrare, ma dopo un’intervista poco generosa con il programma, lei scelse di troncare con due puntate di anticipo la collaborazione. Era giugno 2019.
«Sì, presi io quella decisione. Poi lo feci ritornare alla fine dell’ultima puntata per scusarsi con il pubblico. Fu una mia scelta sia l’interruzione, che la ripresa».
Questa volta lei non ha scelto niente.
«In nome della presunta tutela del genere femminile è stato un maschio a decidere della gravità dell’offesa e della sanzione, ignorando l’opinione della parte lesa».
L’insulto, però, c’è stato.
«Indubbiamente. Ma a fronte di ripetute scuse, pubbliche e private, si è intervenuti di autorità sui contenuti del mio programma, mortificando completamente la mia autonomia. Questo, peraltro, è stato l’unico momento in cui il direttore si è interessato della trasmissione».
Corona ha detto a Maria Corbi su La Stampa: «Di Mare ha usato me per danneggiare Bianca». Lo pensa anche lei?
«Non posso immaginare neanche lontanamente che un dirigente voglia danneggiare una trasmissione di cui è responsabile. Sarebbe un danno non solo per Rai 3, ma per l’azienda. L’assenza di Corona si sente: lo testimoniano le centinaia di messaggi che arrivano ogni volta che vado in onda. E, per inciso, il nostro pubblico è soprattutto femminile».
Sua figlia Giulia cosa dice?
«Lei non guarda mai la tv come quasi tutti i giovani. Ovviamente ne ha sentito parlare e mi ha detto che le sembrava tutto molto eccessivo».
Perché lo difende?
«Perché privatamente lui ha chiesto scusa subito, la sera stessa. E perché credo di aver reagito in modo adeguato in diretta. Magari avrei valutato una sospensione temporanea. Ma cacciarlo senza appello, nonostante la mia evidente contrarietà, mi è sembrato davvero troppo».
A Daria Bignardi, su Radio Capital, lui spiegò che da 40 giorni non toccava l’alcol.
«So bene quali fossero le preoccupazioni di Corona quel giorno: e l’alcol è solo un aspetto di una situazione molto difficile. Ma di questo solo lui può parlare. E comprendo in quale stato d’animo e con quale personale sofferenza sia arrivato a sbagliare».
Ci tiene molto a lui.
«Per me il passaggio dal Tg a un settimanale non è stato facile: un conto è lavorare seguendo il flusso quotidiano delle notizie, un conto ben diverso è costruire una sceneggiatura per tre lunghe ore di trasmissione. Ho dovuto reinventarmi nonostante non fossi più una ragazzina e dentro questa parte del mio lavoro è entrata anche la scelta di avere un interlocutore così diverso da me».
Qual è il contributo più grande dato da Corona?
«I nostri dialoghi hanno avuto l’effetto di tirare fuori un mio lato che il pubblico non conosceva: più spontaneo, improvvisato, meno costruito».
Sorpresa anche lei?
«No, io lo conoscevo già. Ma esito sempre a manifestarlo. Nella mia famiglia siamo stati educati alla riservatezza. In questo c’è una traccia del carattere sardo di mio padre. Mia madre mi ha insegnato a difendermi da sola, come avrei voluto fare anche in questo caso».
Mercoledì è il suo compleanno. Le piacerebbe, come regalo, che Corona ritornasse in trasmissione?
«Sarebbe bellissimo».
Dagospia il 4 dicembre 2020. Dal “Tg Zero di Radio Capital”. Mauro Corona, perché non la fanno tornare a "Cartabianca"?
Bianca Berlinguer l'ha perdonata, eppure...
«Ce l'avevano tempo fa con Berlusconi che aveva epurato Luttazzi e Santoro. Questa persona qui (Franco Di Mare, direttore di Rai 3) si spacciava per mio amico...io lo chiamo Frank Di Lago perché il mare è un'entità troppo grande, troppo possente, troppo nobile...che si accontenti di un bel lago! Io e Bianca facevamo due punti in più di ascolto. Facendo così credo che lui vada anche contro l'azienda. Siccome io vinsi il premio Bancarella gli dico: "Franco vieni qui e te lo prendi il Bancarella!". Io non so che farmene, non so neanche dove l'ho messo, deve essere in qualche sottoscala».
L'anno in cui lei vinse il premio Bancarella (il 2011 ndr), gareggiava anche Franco Di Mare e perse. E' dunque invidioso?
«Io lo penso. Ho chiesto scusa alla Berlinguer e lei ha accettato perchè è una buona persona. Lui invece con la scusa di eliminarmi e di danneggiare anche lei - aprite bene le orecchie - si è eretto a paladino delle donne offese. Io ne ho offesa solo una, le donne le ho sempre difese e ci sono le prove televisive. Lui no, l'ha beccato pure "Striscia la notizia" a palpeggiare qua e là! Quindi vorrei capire da lui, che mi chiamava "il fratello della montagna" e mi ha mandato anche un messaggino molto molto bugiardo, cosa gli ho fatto? Perché? Io sono dispostissimo a stare fuori, anche se mi piacerebbe tornare a fare il comico con Bianca. Ma non permetto a Frank Di Lago di accampare scuse, di dire che ho offeso le donne d'Italia. No caro Franco, ne ho offesa una solo e ho chiesto scusa, non per comodo ma perchè mi sono sentito veramente male dopo quella sparata lì».
Che si può fare allora?
«Facciamo un referendum: chi vuole Corona e chi non lo vuole. Questa è una cosa che mi dispiace, di questo caso non dice nulla nessuno. Frank di Lago ha buttato fuori anche Morra. Ma chi sei? Anche Nicola Morra ha sbagliato, ha detto una frase oscena, ma da lì a epurare bisogna stare attenti».
Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 4 dicembre 2020. Oggi parliamo di pollame. È noto al pubblico che Bianca Berlinguer litigò con Mauro Corona, scrittore montanaro abbastanza sfacciato, poiché una sera costui, ospite fisso del programma denominato Cartabianca, volendo prendere la parola disse alla cortese conduttrice: «Taci, gallina». La signora si adontò e con i nervi a fior di pelle ordinò all' ospite di togliersi dai piedi. Lo licenziò senza esitazioni. Peccato che l' assenza del simpatico valligiano provocò un contraccolpo: la trasmissione perse interesse. Il che ha allarmato la figlia del defunto segretario comunista, la quale pertanto ha tentato giustamente di rimorchiare di nuovo l' uomo delle nevi nella speranza di recuperare il successo svanito. Più o meno, questa la sua dichiarazione: pazienza se Corona mi ha dato della gallina, lo perdono e, se tornerà da me, sarò contenta di proseguire la collaborazione. Ha ragione lei. Per fare bene il lavoro, non bisogna tenere conto della propria suscettibilità. Tra l' altro il termine "gallina" non è affatto offensivo. Si tratta di un animale delizioso, particolarmente intelligente, per verificarlo basta osservare una chioccia alle prese con i suoi pulcini. Non ne trascura uno solo, li accudisce con attenzione e amore, capisce tutto e alla fine della sua attività viene crudelmente sbattuta in padella, neanche un po' di gratitudine nei suoi confronti benché abbia generosamente fornito al padrone del pollaio uova in quantità tale da nutrire una famiglia. Penso che madame Berlinguer abbia riflettuto e concluso che essere definita "gallina" in realtà suoni come un complimento. E bene ha fatto a pretendere che il ruvido eppure innocente Corona rientri trionfalmente nella sua squadra. Il direttore di Raitre, Franco Di Mare, eccellente giornalista, tuttavia tentenna. Egli preferirebbe che lo scrittore rustico rimanesse sui bricchi e non frequentasse più gli studi televisivi. Non sappiamo come si concluderà la vicenda. Ma noi siamo dalla parte di Bianca, la gallinella dalle uova d' oro. Allo scopo di incoraggiarla nella sua opera di persuasione le segnaliamo un curioso video che gira sulla rete: un gallo assolutamente geniale se ne va a spasso col suo proprietario, il quale lo ospita in un veicolo come fosse un cagnolino. Insieme uomo e volatile vivono in simbiosi e si fanno compagnia con grande tenerezza. Questo sodalizio ci ha colpiti e dimostra che i pennuti, se ben tenuti dai loro custodi, non sono affatto stupidi. Come non lo è Bianca Berlinguer. Preghiamo Di Mare di fare "chicchirichì".
Dagospia l'11 dicembre 2020. Anticipazione da “La Confessione”, in onda stasera alle 22.45 su "Nove". "Cosa è successo con il direttore di Raitre Franco Di Mare? Non permetto a nessuno di dire che ho offeso tutte le donne, non solo d'Italia, ma del pianeta, per eliminarmi". Così Mauro Corona, ospite di Peter Gomez a 'La Confessione' in onda stasera 11 dicembre alle 22.45 su Nove, ha spiegato al conduttore quanto è accaduto da quando, il 23 settembre scorso, a seguito di un battibecco con la conduttrice di 'Cartabianca', Bianca Berlinguer, nel quale l'alpinista e scrittore si era rivolto a lei chiamandola "gallina", non ha più potuto partecipare come ospite fisso al programma a causa del veto del direttore di Raitre, Franco Di Mare, nonostante le scuse più volte fatte e accettate dalla stessa Berlinguer, che si è espressa a favore del ritorno di Corona in trasmissione. "Lei mi ha detto subito che c'era il direttore che non voleva più saperne di Corona - ha raccontato Corona, in libreria con 'L'ultimo sorso. Vita di Celio' (edizioni Mondadori) - Quello che mi ha dato fastidio, e ho accettato questa confessione con lei, Gomez, per chiarire alcune cose, è che l'hanno messa come se io abbia offeso tutte le donne, non solo d'Italia, ma del pianeta: io ho offeso una donna e non permetto a nessuno di campare scuse per eliminarmi facendo il paladino delle donne d'Italia o del pianeta". Lo scrittore ha ammesso di essere "sinceramente pentito" e di essersi scusato "non per opportunismo": "Sia chiaro, non l'ho fatto assolutamente per tornare lì, ci tornerei volentieri - ha detto a il direttore de ilfattoquotidiano.it - ma che si usi la difesa delle donne offese da Corona per eliminarmi non lo tollero e non lo permetto a nessuno, né al direttore di Raitre né a chicchessia".
Antonella Baccaro per il "Corriere della Sera" l'11 dicembre 2020. Franco Di Mare, da direttore di Rai3, lei ha presentato in commissione di Vigilanza i dati d' ascolto e anticipato la creazione di Report Lab, una Factory per formare giornalisti investigativi, diretta da Sigfrido Ranucci, ma quello che tutti le hanno chiesto è se Mauro Corona tornerà a «#cartabianca»...
«È una decisione della Rai, se l' azienda cambia idea...».
Come? Non ha deciso lei che non tornasse?
«Mi sono basato sulle norme e ho consultato il Comitato di controllo sul Codice etico che mi ha detto che non si poteva».
Su quale principio?
«L' articolo 1 del Codice etico e il 9 del contratto di servizio che, tra l' altro, impegna la Rai a utilizzare un linguaggio rispettoso della dignità delle donne».
In Vigilanza ha denunciato il fatto che la conduttrice Bianca Berlinguer abbia rilasciato interviste, non autorizzate dall' azienda, in cui l' attaccava.
«Non ce l' ho con lei, ma anche qui c' è una norma da rispettare. Berlinguer era stata invitata un mese fa a non rilasciare interviste. Invece vengo aggredito periodicamente».
Intanto qualcuno ha autorizzato Ranucci ad andare a La7 in concomitanza con «#cartabianca».
«Ranucci ci è andato per parlare di una sua inchiesta di Report, a sostegno di un prodotto della rete. Una settimana prima, quando a essere ospitate a La7, sempre contro Berlinguer, erano state Botteri e Maggioni, avevo scritto all' ad perché in quel caso il loro intervento era a titolo di columnist ».
Gli ascolti di «#cartabianca» sono calati senza Corona?
«No, tra l' 8 settembre e il 24 novembre ha guadagnato sull' anno precedente uno 0,3%. A dicembre è in linea con l' anno scorso».
Se il conduttore fosse lei e il direttore le togliesse un ospite?
«La responsabilità della linea editoriale non è del conduttore ma della direzione della Rai che, se vuole, sospende una trasmissione: è successo a "Detto Fatto"».
Che però è ripartita.
«Cambiata però».
Perché ha bloccato all' ultimo la partecipazione del presidente dell' Antimafia, Nicola Morra, a «Titolo V»?
«Era stato invitato tre giorni prima per parlare di sanità in Calabria. Le dichiarazioni su Jole Santelli il giorno stesso della trasmissione stavano però creando un caso che ha raggiunto il suo apice poco prima dell' inizio. A quel punto non eravamo in grado di garantire un contraddittorio perché gli altri ospiti erano lì per parlare d' altro. Ho quindi deciso di rinviare la sua presenza. Qualsiasi direttore cambia la prima pagina».
Poi c' è la lettera di scuse letta da Lucia Annunziata.
«Sì, scuse per il metodo».
E sul merito di quello che Morra ha detto su Santelli?
«Tutte le forze politiche hanno stigmatizzato le sue parole. Mi sembra che basti».
Fabio Fazio su RaiTre funziona?
«Ha aumentato di 2,3 punti lo share sull' anno scorso, quando era a RaiDue».
Scade l' anno prossimo.
Resterà?
«Lo auspico: è una colonna. Ma dipende dalla volontà dell' azienda».
«Agorà» con Luisella Costamagna fa meno ascolti?
«Ha sfiorato il 9%. Mi piace come ha saputo adattarsi al nuovo ruolo».
Sì, ma fa meno di Serena Bortone.
«Uno 0,57% in meno. Ma sull' ultimo anno di Bortone. Lei è al primo».
«Titolo V» fa scoop ma non ascolti.
«È una trasmissione complicata, non un talk. Serve tempo».
Report Lab farà concorrenza alla scuola Rai di Perugia?
«Non è una scuola, è una factory che prende giornalisti già formati dalle scuole e dà loro una specializzazione in giornalismo investigativo».
Quando parte?
«Non abbiamo ancora una sede. Speriamo entro qualche mese».
Dagonews il 13 dicembre 2020. Mauro Corona cacciato da Raitre per avere insultato la Berlinguer e’ comparso sabato su Raiuno a Linea Bianca per promuovere il suo libro e parlare di montagna. Ma come? La stessa Rai che, secondo il direttore di Raitre ne aveva bollato ‘collegialmente’ l’allontanamento definitivo? Eh già proprio quella. Il direttore di Raitre parlando alla commissione di vigilanza Rai - settimana scorsa - aveva spiegato che la decisione di allontanare Corona non era solo sua ma della commissione paritetica della Rai che bloccava a corona qualsiasi ospitata nella rete pubblica. Lui si era limitato ad applicare il regolamento. Il faccione di Corona mandato in onda su Raiuno non solo ha smentito ciò che ha detto detto Di Mare alla vigilanza ma ha fatto piovere sull’ad Salini non solo le proteste del direttore di Raitre ma anche le telefonate infuriate della stessa Bianca Berlinguer . ‘Ma come Corona a Raiuno si e da me , a Cartabianca no?’. Al direttore di Raitre alla vista di Corona su Raiuno pare sia andata la giornata di traverso. Ha capito che di nemici ne ha tanti anche all’interno della tv pubblica. A Raiuno ufficialmente parlano di ‘svista in buona fede’. Ma se non fosse cosi? Se fosse invece un trappolone montato ad arte per isolare il sempre più isolato e attaccato direttore ‘col customino leopardato’ per citare un tormentone di striscia la notizia che dedica a Di mare ormai quasi un servizio a settimana ? A capo di Linea Bianca c’è Angelo Mellone, appena nominato vicedirettore in quota fratelli d’Italia. E’ lo stesso partito che in vigilanza settimana scorsa aveva rimproverato a Di Mare ‘toni trionfalistici da Istituto Luce’ per mascherare i flop dei programmi da lui voluti, a cominciare dal costosissimo Titolo V (2 per cento di share e due studi attivi a Milano e Napoli)
Conosco il vecchio lupo Di Mare, Franco, dai tempi del Premio Bancarella (2011) quando era finalista assieme a me. Si...Pubblicato da Mauro Corona su Martedì 15 dicembre 2020. Da "liberoquotidiano.it" il 16 dicembre 2020. Mauro Corona e Franco Di Mare, la storia infinita. A pochi minuti dalla messa in onda di CartaBianca di martedì 15 dicembre, lo scrittore friulano ha pubblicato un post su Facebook in cui parla ancora una volta del “vecchio lupo” Di Mare, colui che lo ha escluso dalla trasmissione adducendo a “decisione dei vertici dell’azienda”, gli stessi vertici che però gli hanno consentito di partecipare a Linea Bianca su Rai1 per promuovere il suo libro. Da allora è chiaro che si tratta di una questione personale, anche se il direttore di Rai3 non vuole ammetterlo. “Si professava amico e ancora lo afferma - ha scritto Corona - gli chiesti una possibilità sulla stessa rete per porgere le scuse a Bianca e ai telespettatori. Mi rispose con un messaggio che riporto di seguito tale e quale, in modo che chi segue questa pietosa vicenda capisca con che razza di amico ho avuto a che fare”. Ecco di seguito il messaggio di Di Mare: “Amico mio carissimo. Ti capisco. E non ti ho rotto i cogl*** scrivendoti prima perché immagino come ti senti dopo quella improvvida sfuriata. A tutti dico che siamo amici. Ma la situazione ahimè è sfuggita al nostro controllo: il tuo certo; ma anche il mio. Ci sono prese di posizione della commissione pari opportunità della Rai, non c’è partito politico che non abbia chiesto misure, non c’è consigliere Rai che non si sia espresso. Io temo che lo stop debba andare oltre il semplice giro di giostra, così come auspicato da Bianca. Un po’ di pazienza. Facciamo decantare. Ti abbraccio”.
Striscia la Notizia, il gesto clamoroso di Mauro Corona: "Senza contratto né liberatoria", uno sfregio a Di Mare? Libero Quotidiano il 17 dicembre 2020. Nessuna tregua tra Franco Di Mare e Mauro Corona. Per sotterrare l'ascia di guerra lo scrittore ha chiesto aiuto a Striscia la Notizia e ha affidato a Valerio Staffelli il "Premio Bancarella" che vinse nel 2011, arrivando avanti proprio al direttore di Rai 3. "Se è quello il problema, gli do subito il premio. Ma non si dica che io offendo le donne. Ho offeso una donna, che mi ha perdonato", ha spiegato Corona. Prima della consegna del premio da parte dell'inviato di Striscia a Di Mare, però, la situazione si è complicata. Lo scrittore, infatti, ha pubblicato un post di fuoco su Facebook accusando il direttore di Rai 3 di non avergli fatto alcun contratto per le prime partecipazioni al programma CartaBianca: "Nelle prime puntate di quest’anno sono andato in onda senza contratto né alcuna liberatoria". All'arrivo di Staffelli, Franco Di Mare non ha voluto sentire ragioni e ha rifiutato il "Premio Bancarella" offerto in segno di pace. "Lui l’ha vinto molto meritatamente", ha detto il direttore, per poi chiudersi in macchina e andare via, senza rispondere a nessuna delle domande dell’inviato.
L'audizione di Franco di Mare in Vigilanza: ''Corona ha un problema con l'alcol''. DAGONEWS il 17 dicembre 2020. Di Mare in peggio: Corona ha problemi con l’alcol, è stato Salini a volerlo fuori dalla Rai, gli ho scritto un messaggio perché ha problemi con l’alcol e ha bisogno di essere accompagnato in una comunità di recupero. Imbarazzante audizione del direttore di Raitre Franco Di Mare che, accompagnato da Sigfrido Ranucci (esposto come simulacro del giornalismo duro e puro), abbandona la tesi del comitato etico (responsabile nella sua prima versione della cacciata di Corona), scarica tutto su Salini e si dichiara custode delle leggi, come nel Settimo Sigillo. Imbarazzo in Vigilanza tra i consiglieri di destra e sinistra che hanno contestato a Di Mare la sua versione su Corona - cacciato da Raitre e ricomparso a Raiuno a Linea Bianca - e la gestione della rete. Lui per tutta risposta da dell’ubriacone a Corona. "Mi era simpatico e ho empatia per chi ha problemi".
(ANSA il 17 dicembre 2020) - "Nel caso Corona ci troviamo davanti a una reiterazione dei comportamenti. Era stato già sospeso per intemperanza dei comportamenti. Aveva già subito una sanzione. Non voglio discutere il fatto che venga scelto perché piace alla conduttrice per il suo modo di porsi. Questo non riguarda me, mi riguarda solo la violazione del contratto di servizio e del codice etico. Mi sono rivolto al comitato etico per sapere come muovermi e mi ha risposto che il suo comportamento non era consono. Ho chiesto all'ad come muovermi, è un'azione concordata. Per quanto mi riguarda, se l'azienda dovesse decidere che in deroga al codice etico Corona può tornare io non ho difficoltà". Lo ha detto il direttore di Rai3, Franco Di Mare, in audizione in Commissione di Vigilanza Rai, in merito all'esclusione di Mauro Corona da #Cartabianca. "Ho empatia e considerazione per una persona che ha veri problemi con l'alcol, che andrebbe accompagnato in un programma di recupero - ha aggiunto -. Mi era simpatico e gli volevo dare una mano, ma Corona voleva imporre il suo rientro quando voleva lui". "Parlare in questa sede di Report, della vicenda tra Corona e la Berlinguer e' un'intromissione su decisioni editoriali, da cui questa commissione dovrebbe tenere una distanza sacrale. Mi dissocio poi dalle definizioni date su 'Report' come di un programma di manipolazione dell'informazione, una trasmissione spargi fango, questo è grave. Guai a metter bocca sull'indipendenza editoriale di un programma. Il Cda si confronterà sulla proposta di riduzione di certi stipendi tra cui quello di Vespa, che sta presentando il suo libro edito anche dalla Rai. Qui in Commissione abbiamo approvato un atto contro l'utilizzo di risorse esterne, proprio da un punto di vista economico, come danno erariale per l'azienda rispetto all'utilizzo di agenti esterni. Tra questi, su RaiTre c'è Fazio, che non è diventato un interno Rai". Così, intervenendo in Commissione di Vigilanza Rai, il senatore del MoVimento 5 Stelle Alberto Airola durante l'audizione del direttore di Rai3 Franco Di Mare. "La Commissione di Vigilanza Rai tradisce la sua missione, che dovrebbe essere ben altra rispetto a valutare trasmissioni, interviste, domande fatte o non fatte. Invito Di Mare e Ranucci a continuare a lavorare in modo autonomo. Report mi troverà sempre al suo fianco come baluardo di un giornalismo di inchiesta e investigativo che mi piace sia proprio del servizio pubblico. Ma trovo deprimente parlare delle interviste alla Meloni. Sta alla libertà del giornalista e alla sua responsabilità mettere ciò che è utile al programma nell'ambito di un'intervista. Questo conteggio è una cosa fuori luogo. Così come chiedere il numero delle cause vinte, perse. È del tutto evidente che quando in una Commissione di così alto profilo si fanno domande di questo tipo si vuole far un processo a un programma. Evidentemente a qualcuno sta a cuore marcare stretta questa trasmissione. Ma gli editori di questa trasmissione sono i cittadini quindi è giusto che ci sia il massimo dell'autonomia". Così, intervenendo in Commissione di Vigilanza Rai, il vicepresidente della Commissione Primo Di Nicola, del MoVimento 5 Stelle, durante l'audizione del direttore di Rai3 Franco Di Mare. Per quanto riguarda invece, ha proseguito, "la partecipazione di giornalisti Rai in altre reti, bisogna capire che linee guida ci siano in merito. Così come sulle interviste di dipendenti Rai che vengono rilasciate con fortissime critiche che arrecano un danno alla stessa azienda e spesso si traducono in vere campagne con obiettivi che spesso non si capiscono ma si traducono in un danno evidente per il servizio pubblico. Nelle aziende private non accade. Su questo come Commissione faremo delle ulteriori riflessioni". "Una cosa è insultare, altra cosa è la satira, in cui una donna può prendere in giro un'altra donna, che ha pubblicato una sua foto nuda. Si trattava di un giudizio espresso in un programma di satira, che può essere anche corrosiva e può non piacere". Lo ha detto il direttore di Rai3, Franco Di Mare, in merito alle polemiche sulla battuta di Luciana Littizzetto su Wanda Nara.
Da corriere.it il 14 dicembre 2020. Ancora un caso Mauro Corona per la Rai: ieri, sabato 12 dicembre, su Rai1, nel corso di «Linea bianca», il nuovo programma sulla montagna condotto da Massimiliano Ossini, è andata in onda un’intervista allo scrittore-alpinista al centro di precedenti polemiche per le affermazioni giudicate offensive rivolte alla giornalista e conduttrice Bianca Berlinguer nel corso del talk «#cartabianca», e per questo allontanato dallo stesso. Immediate le critiche per questa scelta della rete ammiraglia, che ora si scusa, riconoscendo «la disattenzione di non essersi attenuta alla linea aziendale riguardante la presenza di un ospite che in un altro contesto si è asciato andare ad un’espressione inaccettabile sul piano della parità di genere in violazione del Codice etico della Rai». L’episodio per cui Corona è stato allontanato dalla terza rete del Servizio pubblico risale a fine settembre. Ospite del programma di Bianca Berlinguer, lo scrittore-alpinista aveva zittito la giornalista e conduttrice, per poi apostrofarla con un insulto: «gallina». Corona si era poi scusato intervenendo alla nuova trasmissione radiofonica di Daria Bignardi. «Mi sono accorto la notte stessa di aver esagerato — si era giustificato —, di essermi espresso da maleducato, cafone e rozzo... però chiamarla subito poteva sembrare una cosa di comodo per cui ho lasciato un po’ sedimentare. È stato un istinto, non trovo scuse, non era il caso di reagire in quel modo, soprattutto in televisione. Chiedo scusa alle persone che hanno sentito e soprattutto a Bianca Berlinguer non perché ho paura di ritorsioni, ma perché la mia coscienza mi ha detto: sei un cretino e un maleducato».
Mauro Corona dice addio alla tv. Poi una drammatica confessione. Lo scrittore e alpinista ha annunciato a sorpresa l'addio alla televisione. Niente più ospitate dalla Berlinguer e a Repubblica svela lati inediti e scioccanti della sua vita. Novella Toloni, Giovedì 13/08/2020 su Il Giornale. Mauro Corona non ha mai avuto peli sulla lingua ma nell'ultima intervista rilasciata a Repubblica è un fiume in piena e la prima mossa la fa lui: "Se non fossi finito a fare il pagliaccio in tivù lei mi avrebbe intervistato?". Lui, che da poco ha spento settanta candeline, è diventato popolare più per i siparietti e gli scontri con la conduttrice Bianca Berlinguer nel programma Cartabianca in onda su Rai Tre che per le sue opinioni. Ma oggi, dopo anni da opinionista, è pronto a lasciare perché "non è più tempo di mentire. Invecchiare è questo: smettere di recitare. Così posso dire che sono stato alpinista, scultore, scrittore e personaggio da talk show solo per vanità". L'addio alla televisione è certo ma non nell'immediato. Mauro Corona sarà ancora al fianco della Berlinguer come opinionista nella nuova stagione della trasmissione della terza rete Rai: "Ho capito di poter fare a meno anche della televisione. Quella che comincia l'8 settembre sarà la mia ultima stagione in video. Ho firmato un contratto, 500 euro a puntata, devo rispettarlo per necessità familiari". Lo scrittore, che in questi lunghi anni di partecipazione televisiva ha collezionato una lunga serie di gaffe, equivoci e piccanti siparietti, nell'intervista non ha nascosto il suo ego. Del resto per stare sul piccolo schermo un po' di narcisismo deve pur esserci e Mauro Corona lo ha ammesso: "Ho sempre avuto il bisogno di essere riconosciuto, ammirato, persino invidiato e fermato per strada. Lo ammetto: ho voluto diventare famoso per cattiveria e in parte per vendetta. Sono nato e vivo in un piccolo paese di montagna. Per quasi trent' anni non ho parlato con i miei. Ho perso un fratello che non aveva 18 anni. Non ero nessuno, nemmeno quando mi sono sposato e ho contribuito a generare quattro figli. Da bracconiere, ho cercato l'unico sentiero per uccidere la mia preda: essere invisibile e non lasciare traccia". Corona confessa di esser pronto a tornare a vestire i panni dello scrittore. Due i libri già scritti e prossimi alla pubblicazione, ma intanto ha scioccato tutti svelando di aver pensato più volte di togliersi la vita: "Negli ultimi anni ho pensato più volte di impiccarmi. Non l'ho fatto per salvare la dignità di chi mi è rimasto vicino". Poi fa un fioretto per la sua ultima stagione da opinionista televisivo: "Sono alcolizzato, non ingenuo. Per i 70 anni mi regalo l'impegno di non parlare più di temi e di personaggi irrilevanti. Voglio pensare solo alle cose piccole e difendere le persone invisibili che non vengono rispettate. Non cadrò più nella trappola dell'analista da bar per far salire lo share".
Da liberoquotidiano.it il 13 agosto 2020. Per Mauro Corona si avvicina l'ultima apparizione in televisione. "Quella che comincia l'8 settembre sarà la mia ultima stagione in video. Ho firmato un contratto, 500 euro a puntata, devo rispettarlo per necessità famigliari. So che Repubblica rispetterà il mio terribile segreto. Ma l'istinto mi dice che ormai sono già visto e che non posso più fare la foglia di fico stesa sopra il vuoto. Appena libero, tornerò a riempire la mia fontana, rimasta secca" confessa al quotidiano di Molinari alla soglia dei suoi 70 anni. L'ospite fisso di Cartabianca, il programma di Rai 3 condotto da Bianca Berlinguer, non nasconde il proprio pessimismo: "La prima domanda oggi la faccio io: se non fossi finito a fare il pagliaccio in tivù, Repubblica sarebbe qui a intervistarmi? La risposta è no. Il problema, nella vita privata e in quella pubblica, è questo: tutti siamo schiavi della notorietà perché il resto non ha più un valore riconosciuto. Soldi e successo sono proporzionali alla fama e da questa droga non si salva nessuno". Neppure Corona che ha deciso di diventare famoso per ripicca: "Prima sentivo un vuoto. Ci sono voluti anni per capire che quel vuoto era il bisogno di essere riconosciuto, ammirato, persino invidiato e fermato per strada. Lo ammetto: ho voluto diventare famoso per cattiveria e in parte per vendetta". E ancora: "Sono nato e vivo in un piccolo paese di montagna. Per quasi trent'anni non ho parlato con mia madre e con mio padre. Ho perso un fratello che non aveva 18 anni. Non ero nessuno, nemmeno quando mi sono sposato e ho contribuito a generare quattro figli. Da bracconiere, ho cercato l'unico sentiero per uccidere la mia preda: essere invisibile e non lasciare traccia".
Estratto dell’articolo di Giampaolo Visetti per “la Repubblica” il 13 agosto 2020. (…) Mauro Corona ha compiuto 70 anni e nel suo laboratorio di Erto dice: «Negli ultimi anni ho pensato più volte di impiccarmi. Non l'ho fatto per salvare la dignità di chi mi è rimasto vicino. Ma la verità è che il dolore è come la ruggine: puoi grattarla via, ma ad ogni limata il metallo diventa più sottile, fino a sparire».
(…) Può essere meno generico?
«Prima sentivo un vuoto. Ci sono voluti anni per capire che quel vuoto era il bisogno di essere riconosciuto, ammirato, persino invidiato e fermato per strada. Lo ammetto: ho voluto diventare famoso per cattiveria e in parte per vendetta».
Contro chi?
«Sono nato e vivo in un piccolo paese di montagna. Per quasi trent' anni non ho parlato con mia madre e con mio padre. Ho perso un fratello che non aveva 18 anni. Non ero nessuno, nemmeno quando mi sono sposato e ho contribuito a generare quattro figli. Da bracconiere, ho cercato l'unico sentiero per uccidere la mia preda: essere invisibile e non lasciare traccia».
(…) Intende dire che ritorna ad essere uno scrittore?
«Ho due libri pronti. Il primo si intitola Quattro stagioni per vivere : parla di un cacciatore che ruba un camoscio a due fratelli per salvare sua madre. Costretto a scappare in montagna per non essere ammazzato, scopre la natura che non conosceva più. E' un romanzo sul distacco definitivo tra uomo e terra».
E il secondo?
«Esce in ottobre e racconta la storia di Celio, un uomo cattivo che attraverso il male indica il bene ad un ragazzo che lo ama. Penso sia la storia della mia vita: mi ha insegnato che a parte una cosa, tutto il resto va fatto da soli».
(…) Perché oggi ha posto come condizione di non parlare di politica?
«Sono alcolizzato, non ingenuo. Per i 70 anni mi regalo l'impegno di non parlare più di temi e di personaggi irrilevanti. Voglio pensare solo alle cose piccole e difendere le persone invisibili che non vengono rispettate. Non cadrò più nella trappola dell'analista da bar per far salire lo share».
Non crede che sia diseducativo esibire le proprie sbornie?
«Io sono un cattivo esempio, figlio di pessimi esempi. Dipendo dall'alcol, per questo mi accompagna la tentazione del suicidio. Finito questo colloquio, vado al bar a bere. E' orrendo: distruggo me e le persone che mi restano vicino. Non dico che smetterò: mi terrorizza sapere di non volerlo fare. Il punto è che non si può diventare i bambini che non si è stati. Agli altri chiedo solo di essere diversi da me».
(…)
Fabiano Filippin per il "Messaggero Veneto" il 12 agosto 2020. È quasi un ritorno alle origini il modo schivo ma allo stesso tempo condiviso con tutto il mondo quello scelto da Mauro Corona per festeggiare i suoi 70 anni. Lo scultore di Erto ha infatti trascorso la giornata di ieri tra le vette del Trentino Alto Adige, lontano da riflettori e eventi ufficiali. Ma è bastato un suo scatto pubblicato su Facebook per scatenare decine di migliaia di followers con i loro like e i calorosi auguri. Corona è nato praticamente per caso a Baselga di Piné, in provincia di Trento: il 9 agosto del 1950 sua madre Lucia Filippin si trovava in quelle zone come venditrice ambulante. Lì trascorse la sua infanzia prima di rientrare con la famiglia in Val Vajont. Ed è proprio tra queste montagne che ieri l’alpinista ha voluto cimentarsi nell’ennesima arrampicata in solitaria. «70 anni sul Corno d’Angolo. La svolta verso il ritorno», ha scritto a metà mattina Corona sulla propria pagina social aggiungendo una foto sulla vetta del rilievo di Dobbiaco. Sempre in mattinata lo scrittore ha ricevuto i saluti degli amici e conoscenti più cari, ringraziandoli per il pensiero. Per natura Mauro non ama le manifestazioni in grande stile, chiassose e traboccanti di gente. Tanto che anche durante il suo compleanno l’autore si è ben guardato dal frequentare locali o strade affollate. Sino a ieri sera nessuno lo aveva visto neppure nel laboratorio di Erto. Sabato l’alpinista ha affidato a Facebook un’altra riflessione sul carattere dolceamaro della vita: il 7 agosto ricorreva infatti il quinto anniversario della scomparsa di Icio Protti, suo fidato amico che per lungo tempo lo ha accompagnato a tutte le presentazioni e iniziative promosse in Italia e all’estero. Di qui il ricordo malinconico online. È dagli anni Settanta che Corona fa parlare di sé come arrampicatore, artista del legno e più recentemente come narratore. Ultimamente il poliedrico artista è anche un volto noto della televisione grazie ad uno spazio fisso su Cartabianca, la seguita trasmissione di Raitre condotta dalla giornalista Bianca Berlinguer. Pure dal piccolo schermo Mauro non scorda mai la propria terra, la sua Erto che evoca sempre nei duetti con la Berlinguer lanciando appelli e spesso ottenendo visite istituzionali di rilievo. Non c’è infatti leader politico nazionale che non sia transitato per la diga del Vajont e ci abbia scambiato qualche battuta. Lo scrittore però si definisce “avulso dai partiti e dalle logiche di potere”. Quella per le idee ambientaliste di Corona è una tematica talmente apprezzata dal pubblico che persino il comico Maurizio Crozza ha voluto dedicargli delle imitazioni in serie. Il rapporto di Mauro con la cultura si esprime però al meglio nei tantissimi libri date alle stampe, molti dei quali illustrati dal figlio Matteo che, come lui, condivide la passione per l’arte. “Mi è capitato di avventurarmi a scrivere ma ritengo che ciò che ho letto nel corso della mia vita sia ben più importante di quanto ho scritto”, ripete spesso questa citazione di Borges quando viene intervistato sulle sue opere, tutte ambientate in paesaggi alpini mozzafiato e boschi popolati da “presenze” del mito o del passato più antico. Infine l’amore per la montagna, quella da affrontare ogni giorno, quella su cui si è spinto fin da piccolissimo insieme al nonno. «A Erto ci sono pareti che ti sfidano all’estremo e che attirano migliaia di appassionati, era inevitabile che io non rimanessi sordo a quel richiamo», ha detto Corona. Non prima di aggiungere che si considera «un gatto che ha usato tutte le sue nove vite e anche di più». «Tra temporali in quota, scivoloni sul ghiaccio e cadute, diciamo che più di una volta me la sono andata a cercare», è stato il messaggio dell’alpinista di Erto a margine del suo compleanno.
· Natalia Aspesi.
Mario Calabresi su mariocalabresi.com il 6 novembre 2020. «La gente è diventata troppo seria, io ho 91 anni ma ho la fortuna di essere molto ironica, così non mi accorgo della presenza della morte che mi osserva da vicino pronta a prendermi, e la mattina continuo ad alzarmi contenta». Mi siedo di fronte a Natalia Aspesi nell’ultimo giorno possibile prima del nuovo lockdown, nella sua casa invasa dai libri. Teniamo sempre la mascherina, ma la sua voce inconfondibile e la sua ironia sono intatte. Natalia è stata inviata di cronaca e costume per “Il Giorno”, critica cinematografica per “Repubblica”, ma è soprattutto una strepitosa raccontatrice degli esseri umani, animata da una curiosità che non ha mai ceduto al cinismo o al disincanto. Sono venuto a trovarla per parlare di vecchiaia al tempo della pandemia, in un’epoca in cui si può sentir dire che: «Gli anziani non sono indispensabili allo sforzo produttivo del Paese». Natalia non si fa pregare e non ha falsi pudori, si definisce “vecchia” e non cerca di mitigare il passare del tempo addolcendo le parole. «Che gli anziani non servissero a mandare avanti il Paese forse poteva essere vero un tempo ma se oggi guardo all’età di molti grandi industriali, architetti, professori, scienziati, spesso vedo settantenni e anche ottantenni. Potrei dirti che chi lo ha detto è un cretino, ma invece ti dirò che è stato utile: ha rotto un’ipocrisia, perché è vero che diamo fastidio. Ci chiamano nonnini, nonnetti, a parole ci vezzeggiano ma poi ci mettono nelle Rsa, prima di metterci nella tomba. L’ipocrisia sui vecchi è tremenda, se non ci salviamo da soli è l’inferno. Ogni giorno vedo ciò che accade intorno a me e come vengono considerate le persone della mia età».
E che cosa vedi?
«Che diamo fastidio perché costiamo, perché siamo una spesa medica e sociale, perché prendiamo le pensioni, perché occupiamo posti negli ospedali e case o abitiamo in quelle dei figli e magari abbiamo la colpa di continuare a fare un lavoro. Io ho una rubrica delle lettere sul “Venerdì di Repubblica”, a un certo punto qualcuno ha cominciato a scrivermi, una minoranza per carità, che era tempo che lasciassi posto ai giovani. Nello stesso momento lo stesso pensiero è passato per la testa di colleghe più giovani. Io non mi considero inamovibile, se mi dicessero che le mie cose non interessano più, che sono rimbambita, non più capace di scrivere o fuori tempo allora farei subito un passo indietro, ma non per una questione anagrafica, non perché sono vecchia. Non è una colpa».
Tu però non sembri curartene troppo di queste critiche e di chi cerca di prendere il tuo posto.
«Ho la fortuna di aver sempre lavorato e risparmiato e di poter essere ancora indipendente, ma te lo ripeto: i vecchi danno fastidio e la gente non accetta che possano ancora lavorare. Dieci anni fa, quando avevo appena passato gli 80, un giorno un giovane tassista che aveva sentito che parlavo di impegni di lavoro al telefono, alla fine della corsa mi chiese: “Ma lei ancora lavora? Ma non è tempo di smettere e riposarsi? Che cosa fa?” Risposi: “Sa, sono una cuoca, continuo a cucinare”. A quel punto lui disse: “Ah, allora ok”. Se stai in cucina può andare bene, non disturbi troppo…».
Che cosa invece provoca più fastidio a te?
«Ti regalo una notizia: non tutti i vecchi sono sordi! Questa è un’altra cosa che mi fa impazzire, ti parlano e gridano o scandiscono le parole, come se fossi sorda o rincretinita. Ci trattano come i bambini e ogni frase finisce con il sorriso. Poi ci sono quelli che vogliono rassicurarti e con tono consolatorio ti dicono: “Dai, che vivrai fino a cent’anni”. Ma fatti gli affari tuoi, io non ho futuro ma ho un bellissimo passato, ho vissuto nell’Italia meravigliosa della ricostruzione e del boom economico e sono piena di memorie che mi tengono compagnia, non ho bisogno di compassione».
E tu, da giovane, come guardavi al mondo degli anziani?
«Io, da giovane, i vecchi nemmeno li vedevo, non ho mai conosciuto i miei nonni e vivevo sempre tra i miei coetanei. Quando avevo 16 anni ricordo che i miei amici erano tutti innamorati di una ragazza bellissima che di anni ne aveva 26, io ero stupita e continuavo a chiedere: ma come fa a piacervi una così vecchia?! Quante cose ho visto, durante la guerra ho assistito al matrimonio di una mia amichetta che aveva 14 anni e che aveva avuto la dispensa dal vescovo per sposarsi con un ragazzo che partiva per il fronte. Mi piacciono tanto le storie del passato, le conservo con cura, ma senza alcun rimpianto».
Perché non scrivi un’autobiografia?
«Non ci penso nemmeno, non ne ho nessuna voglia e penso non interesserebbe a nessuno. E poi non mi piace scrivere libri, la mia capacità di raccontare si ferma a 80 righe, la dimensione dei miei articoli. A me i libri piace leggerli».
Mentre parliamo ci raggiunge la sua gatta, si sdraia sul divano: «Si chiama Mimma, è vecchia anche lei, ha 17 anni, e mi adora». Accanto a sé Natalia ha appoggiato un bel bastone istoriato.
«Porto sempre con me il bastone quando esco, mi aiuta a camminare ma serve anche molto, non tanto per difesa quanto per offesa, mi è utile con i giovanotti maleducati o con i vecchi che non sanno stare al mondo. Poche settimane fa, durante il mio piccolo giro intorno a casa, ho dato dei soldi a un ragazzino africano. Un signore mi ha vista e ad alta voce ha cominciato a criticarmi, dicendo che venivano dall’Africa per colpa di gente come me che li mantiene e li foraggia; gli sono andata incontro mentre continuava a criticarmi, ho alzato il bastone e gliel’ho messo sotto il mento e gli ho detto soltanto: “Non permetterti di dire un’altra parola, fascista”. Si è dileguato».
Come vivi oggi?
«Vivo alla giornata, la mia vita comincia la mattina quando mi sveglio e finisce quando vado a letto la sera, sperando sempre di morire nel sonno. Sai, io non sono vecchia, non sono un’ottantenne, io sono ultra-vecchia, penso spesso che potrei avere un figlio di più di settant’anni».
Come sono le tue giornate?
«La mia giornata era sempre uguale da alcuni anni, mi alzavo alle sette, andavo a fare una passeggiata, tornavo a casa, mi lavavo, facevo colazione e poi cominciavo a lavorare. Certo, il virus ha cambiato anche la mia vita, perché non vado più nei negozi, non faccio più la spesa, ma alla mia età molto era già cambiato, mi ero adattata a trascorrere la gran parte del tempo in casa, passati i novant’anni dove vuoi che vada?»
Come dividi il tuo tempo, come riesci a scrivere ancora così tanto?
«Dopo la colazione mi metto al computer e controllo le mail, poi sfoglio velocemente i giornali – “Repubblica”, “Corriere”, “Fatto”, “Foglio” e “New York Times” – e guardo il sito del “Guardian”, ma senza leggere niente, giusto per farmi un’idea. La mattina è dedicata al lavoro e alla scrittura. Leggo poi dopo pranzo, mi metto sul letto seduta e mi dedico soprattutto alle pagine di cultura e spettacoli, niente economia e sport, di cui non capisco nulla, un po’ di mondo, quasi mai la cronaca, che è stata uno degli amori della mia vita, perché la trovo troppo cupa e truculenta, priva di umanità, e poi poca politica perché mi arrabbio ancora molto. Non ho mai imparato a prendere le cose con un po’ di filosofia e distanza. La politica di oggi è troppo lontana dalla mia mentalità, io a uno che governa chiedo scelte, decisioni, atti, e a chi sta all’opposizione critiche vere e proposte, non recite sterili: foto di panini, vacanze, gite in bicicletta, fidanzate, tutta la parte social per me è oscena. Ma probabilmente sono soltanto vecchia e il nuovo pubblico ama questo spettacolo».
E la sera cosa fai?
«Da quando è arrivata la pandemia non esco più e vado a letto alle otto, prima uscivo tre sere alla settimana per andare al cinema o a teatro, l’ultima volta è stato il 22 febbraio per andare alla Scala, alla Prima, e in questo caso anche ultima, del “Turco in Italia” di Rossini con la regia di Roberto Andò. Da allora sono stata rispettosissima di regole e consigli e non esco più, solo un piccolo giro quotidiano dell’isolato».
Hai paura di ammalarti?
«Non ho nessuna preoccupazione per me, ma per le persone che conosco».
Dicevi che vai a letto molto presto.
«E ho i miei riti: guardo una puntata di una serie di Netflix, mai più di una. Con Netflix faccio il giro del mondo: guardo serie di ogni nazione, dalla Polonia all’Arabia Saudita, dalla Danimarca all’India. Amo scoprire cose che non immagino. Poi, ogni sera leggo un libro, mai libri di lavoro, sempre per piacere, fino alle 11. Non leggo quasi più romanzi, salvo che siano dei classici, per esempio Tolstoj, preferisco i libri di storia, mi è piaciuta tantissimo la trilogia sulla vita di Thomas Cromwell scritta da Hilary Mantel. Ma leggo tantissimo, libri italiani, inglesi, americani, sono in combutta con la libreria Hoepli e loro mi mandano dieci libri alla volta, li chiamo ogni mese per avere gli ultimi titoli internazionali. Spesso mi sveglio durante la notte e allora guardo Facebook e Instagram, rispondendo gentilmente alle persone curiose e intelligenti e villanamente agli scemi e poi leggo ancora qualche pagina».
Sei circondata dai libri e sembrano essere loro il grande amore della tua vita.
«A chi è giovane oggi vorrei dire: “Svegliatevi, informatevi, leggete libri, è una cosa che costa poco, puoi fare da solo e riempie di gioia”. Non è mai tempo perso!»
Che cos’è la libertà per te?
«Per me la libertà è fare quello che voglio, nei limiti della mia età e delle mie energie, ma è qualcosa che sta nella testa. A me questi che rivendicano la libertà di non mettere la mascherina mi sembrano dei deficienti, le libertà sono dentro di noi, non fuori».
Quale sarà la prima cosa che farai quando sarà finita la pandemia?
«Andrò a fare la spesa, scenderò dall’ortolano a scegliere la verdura. Adoro fare la spesa ed è una cosa che mi manca tantissimo. Poi guarderò sul giornale se c’è un bel film quella sera andrò al cinema e vorrei avere ancora l’occasione di tornare alla Scala. Intanto cerco di arrivare a stasera».
Giuseppe Fantasia per huffingtonpost.it il 27 aprile 2020. Da qualche giorno, in Francia, sta circolando un manifesto contro il confinamento delle persone anziane a causa dell’isolamento domestico imposto a livello governativo per contenere il contagio da Coronavirus. Alcuni di loro non ci stanno alla discriminazione e all’autoreclusione, denunciano le misure liberticide ed anticostituzionali, rivendicano pari dignità e hanno, addirittura, minacciato di scendere in piazza. Anche in Italia, è stata ventilata l’ipotesi di farli uscire per ultimi dall’isolamento, ma è rimasta un’ipotesi. Su Facebook, però, c’è chi si è ribellato scrivendo che il primo giorno in cui li terranno abusivamente rinchiusi, dovranno “uscire tutti e camminare in silenzio per le strade a un metro di distanza”. Ne parliamo a telefono con Natalia Aspesi, icona del giornalismo italiano, da pochi giorni anche selezionatrice ufficiale del Torino Film Festival che si terrà il prossimo novembre.
Cosa ne pensa di questa possibile rivolta dell’età dell’argento?
“Sinceramente mi chiedo perché a tutti interessino improvvisamente i vecchi, visto che non hanno mai interessato a nessuno, che sono sempre stati dimenticati e loro sono stati contentissimi di esserlo, almeno io. Penso che molte delle cose che si dicano in questi giorni, siano inutili: abbiamo un Governo che ci dice che cosa dobbiamo fare, anche io ho voglia di uscire, ma se mi dicono di non farlo, non lo faccio. Non capisco questa passione che ognuno ha di dire la sua. Non capisco che Paese siamo. Se mi dicono di non uscire, non esco”.
Lei, oggi, non scenderebbe mai in piazza?
“Ma no. Io ubbidisco. Siccome sono di natura una persona che non ha mai ubbidito in vita sua, davanti a una cosa che non riguarda me, ma riguarda tutti gli altri, ubbidisco. Se muoio oggi che ho novant’anni pazienza, tanto non se ne accorge nessuno tranne me, naturalmente. Penso agli altri, voglio fare quello che mi dicono e malgrado tutto l’orrore del nostro Paese, ho deciso di fidarmi delle persone che ci dicono queste cose. Oggi sul Guardian ho letto addirittura che si rivolgono all’Italia dicendo che è il Paese che ha reagito meglio al Covid. Ci fanno i complimenti, pensi, scrivono che ci avrebbero dovuto imitare, tutte cose alquanto strane per un giornale inglese che di solito non ama molto l’Italia. Che dica queste cose, quindi, mi fa piacere. Tornando alla domanda che mi ha fatto, le ripeto che non vedo perché non dovrei ubbidire. Lo faccio, punto”.
Non riesco ad immaginarmela una Aspesi ubbidiente.
“Senta: io alla mia età, anche quando fuori si poteva andare a fare footing, stavo a casa. Il giorno uscivo per fare la spesa, perché è un mio divertimento e alla sera per andare alla Scala o a casa di amici. Per il resto, ero e sono sempre qui, seduta davanti al mio computer a leggere quel che c’è scritto e a scrivere. La mia vita è cambiata poco”.
Mi descriva la sua quarantena.
“Non faccio niente di diverso rispetto a prima: scrivo, leggo, poi andrò su Netflix e alla sera mi faccio un piattino molto accattivante, cambio sempre. Mi fa piacere far da mangiare”.
È vero che con l’avanzare dell’età si diventa più cattivi?
“È verissimo. Viviamo nell’ipocrisia da secoli. Il vecchietto buono è una vipera che in realtà vorrebbe vedere tutti morti attorno a sé tranne lui. Noi anziani siamo cattivi perché non abbiamo più vita. Siamo qua, ma senza vita. Dobbiamo essere anche buoni? È impossibile. La bontà dei vecchietti è un’invenzione. Facciamo finta, è ovvio, ma sotto sotto siamo crudelissimi. Almeno io – eh - e le mie amiche”. (ride, ndr)
Cosa fate?
“Ci svegliamo alla mattina, ci telefoniamo e ci diciamo come prima cosa: di chi parliamo male oggi?”
Me lo dica: di chi?
“Del Paese, della politica, dei nostri colleghi giornalisti orriiiiiiiiibili per la maggior parte, venduti, gente che non mi piace”.
Fa la giornalista da più di sessant’anni: cosa le ha insegnato questo mestiere?
“Mi ha insegnato a vivere. Cosa vuole che mi abbia insegnato? Poi io sono fuori dal giornalismo ormai, scrivo delle stupidaggini qualsiasi che non sono giornalismo, perché il giornalismo vero – che è quasi scomparso – è far bene la cronaca nera che oramai non esiste più e quando è fatta, è fatta malissimo. Non racconta le persone, racconta solo i fatti. Il giornalismo per me è invece quello. Raccontare le persone e saperlo fare bene. Poi, tutto il resto, parlare di stupidaggini tipo qual è la nostra politica, beh, a quello son buoni tutti, perché si leggono i comunicati stampa dei partiti. Quindi è facile”.
Quando penso a lei e al suo lavoro, mi vengono in mente diversi verbi, ma leggendo uno dei suoi ultimi libri, Festival e funerali(Il Saggiatore) ce n’è uno in particolare che mi piace particolarmente: “intrufolarsi”. Me la immagino mentre si intrufola, come scrive, su un treno regionale con i Beatles o in una stanza di ospedale con Gino Paoli: come ha fatto?
“Vede, da giovane avevo un’aria molto innocente, anche un po’ rincoglionita già da subito. È vero, sono riuscita ad intrufolarmi - come dice lei - da Paoli in ospedale che aveva un proiettile nel cuore, ma forse perché avevo un modo di una persona molto modesta: piangevo, mi dichiaravo parente, ero molto ipocrita e bugiarda ed è stato quello che ha salvato il giornalismo. Se fai il giornalista e fai capire che lo sei, oggi ti menano, ma in passato ti cacciavano. Io ho sempre fatto l’amica di famiglia, l’ammiratrice oppure la benefattrice, perché quando andavo nella casa degli assassini ero sempre una benefattrice, di certo non una giornalista, altrimenti nessuno avrebbe parlato. Ho imparato poi a non prendere mai appunti e a ricordarmi tutto a memoria, oppure, se dovevo fare delle cose particolari, indossavo il visone”.
Il visone?
“Sì, ma allora era una cosa diversa che diceva che io ero una stupida ricca signora che poteva andare dappertutto”.
Splendido escamotage, non c’è che dire.
“Sì, sì, ho passato la vita a divertirmi così. Adesso non è più possibile perché c’è un’informazione talmente diffusa che tutta quella cosa lì si è persa”.
Aspesi che ricorda a memoria e non prende appunti come Scalfari quando è andato dal Papa.
“Sì, ma aspetti: quello lo facevo quando ero giovane. Allora avevo memoria, adesso non mi ricordo neanche quello che le ho detto un minuto fa”.
A proposito di personaggi: tra i tanti che ha incontrato c’è Mina che ha da poco compiuto 80 anni e che le concesse la sua ultima intervista a Forte dei Marmi. Che ricordo ha di lei?
“L’ho ricordata tante volte, anche adesso in un recente libro di Rizzoli, non ho voglia di ripetermi. Comunque sia, la apprezzavo moltissimo, la trovavo bravissima, sicuramente una ragazza al di sopra dei suoi tempi, perché noi eravamo molto più stupide e molto meno coraggiose di lei che era una donna fantastica che ha scelto la libertà. Non è poi cosi importante come crede la gente essere una persona famosa: è più importante essere una persona che ha una vita e lei lo ha scelto”.
Dopo questo lockdown…
(Ci interrompe) “Mi scusi, possiamo parlare in italiano? L’inglese lo so e non lo voglio nell’italiano”.
Certo, ci mancherebbe. Dopo questo confinamento, che ne sarà secondo lei del mondo della moda che ha frequentato e frequenta?
“So di essere una rompiballe, ma perché dovrei saperlo? Non sono mica una maga. Non lo sa nessuno, del resto. Andiamo avanti giorno per giorno e vedremo. Tutto quello che fanno i futurologi, dicendo ‘cambieremo’, ‘diventeremo bravi’, ‘staremo peggio’ eccetera – beh - io non lo sopporto. Personalmente dico che aspetto di vedere cosa succede. Se c’è una cosa che detesto nei talk show è che le domande non siano mai riferite a cosa stia succedendo adesso, ma a cosa succederà. Ci aspettavamo il Covid? No, eppure è successo, quindi aspettiamo di vedere cosa accadrà. Basta fare previsioni. Sa una cosa?”.
Prego, mi dica.
“Io penso che tutto tornerà come prima, ma con più cattiveria. La mia è un’illazione. Il mondo sta andando da quella parte, non certo per colpa del Covid, ma di tutto. Io sono comunque contenta perché tanto sono vecchia e la cosa non mi interessa”.
Il Festival di Cannes è stato rimandato e ieri è stato annunciato che il la Mostra del Cinema di Venezia si farà lo stesso: ci tornerà?
“Queste adesso non sono importanti, sono tutte cose di tipo mercantile. La cosa certa è che diventeremmo in massa più poveri e una parte tanto più ricca, perché ha già cominciato a sfruttarci. Abbiamo vissuto troppo in fretta. Credo che la Terra si sia rotta le scatole e ci abbia puniti. Bisogna andare con lentezza. Quando apro il mio armadio, vecchia come sono, la quantità di roba inutile e di vestiti che ho mi fa vomitare. Non dobbiamo più comprare, ma diventare tutti più poveri e i poveri meno poveri e noi mediamente poveri, più poveri. I ricchi saranno sempre più ricchi ma non hanno neanche loro la felicità, per cui sono infelici lo stesso”.
Delle librerie tenute chiuse e dei tabaccai aperti cosa ne pensa?
“Tenerle chiuse è stato assurdo. È una vergogna averlo fatto. Vuol dire che chi lo ha deciso è gente che non va nelle librerie. Se c’è un luogo in cui non c’è mai nessuno sono proprio le librerie. Non è che c’è la massa come al supermercato: se lei ne vede tre alla volta, sono già tante. È assolutamente necessario che le librerie siano aperte, perché tutto ciò che ci può salvare e che può salvare anche chi si vanta di non leggere mai, sono i libri, è la Storia, è la filosofia, è quello che avremmo dovuto studiare e che non abbiamo fatto. La nostra cattiva coscienza e il nostro costante cattivo umore dipendono dal fatto che non sappiamo nulla, se non molte stupidaggini dell’attualità. Ignoriamo come ha vissuto il mondo e la gente”.
Lei vive a Milano: cosa ne pensa del suo governatore Attilio Fontana?
“Mi scusi, ma io non giudico nessuno della Lega, perché li considero la rovina del nostro Paese. Non li ascolto, non li sento, non mi importa di loro, però vinceranno sicuramente le prossime elezioni. A quel punto, spero di essere morta, sennò pazienza, tanto io sarò chiusa in casa. Sono molto triste, ma l’Italia vuole quello, non vuole la libertà, vuole essere comandata e così l’italiano che vuole sempre uno che risolva per tutti, non vuole preoccupazioni e vuole essere mantenuto…quindi va benissimo la Lega per gli italiani. Per me no, ma infatti io non conto”.
Del suo sindaco Beppe Sala, invece, che mi dice?
“Ognuno ha il suo bene e i suoi limiti, ma nel suo caso, visto che sta salvando Milano e una regione che sta andando in malora, penso che sia una persona stimabile e che faccia bene il suo lavoro, perché Milano è l’unica isola in Italia in cui si sta bene. Il Coronavirus è un’altra cosa, ma a Milano, normalmente, si vive benissimo”.
Da un recente sondaggio, il nostro presidente del Consiglio Giuseppe Conte piace molto alle donne e al mondo omosessuale. Ci sono account ironici su Instagram dedicati a lui. A lei piace?
(Ride di nuovo, ndr) “Non ho mai guardato i politici secondo il loro fisico, perché non è per quello che stanno lì. Se così fosse, al posto di Conte vorrei George Clooney, però non è il caso”.
Anche a uno degli ultimi festival di Venezia mi parlò di Clooney: continua ad essere una sua grande fan?
“È il mio scherzo, perché in realtà mi piace molto anche Roberto Bolle”.
È vero che è stata fidanzata con un gay?
“Ho avuto un fidanzato, sì, un giovanotto che era gay ma non lui non lo si sapeva. Non è che ho detto “è gay, mi ci fidanzo”. Allora i gay non c’erano. O meglio: erano dei giovanotti che si fidanzavano e si sposavano, perché non era possibile esserlo pubblicamente. Io gli volevo bene e lui me ne voleva: era un uomo di un divertimento unico, ci siamo divertiti pazzamente, poi certo, in alcune situazioni c’era qualche…diciamo…”
Impasse?
“Ecco, sì... quando l’ho capito, ci siamo amati ancora di più. È stato l’amico di tutta la vita che purtroppo oggi non c’è più”.
Sempre a Venezia, lo scrittore André Aciman, mi parlo di fluidità, dicendo che oggi siamo tutti fluidi: lei cosa ne pensa?
“Nel mio caso, saranno quarant’anni che il sesso non mi interessa, quindi non so cosa dirle. Se penso alla storia e al passato, ci sono sempre stati dei personaggi che non si capiva chi e cosa fossero, ma non esisteva questa mania della catalogazione. È questo che io trovo inutile e anche un po’ avvilente: catalogare. Io sono gay, sono trans, sono fluido.
Che cosa vuol dire fluido? Che si scopa con uomini e con donne? Beh, ma quella è una cosa che è sempre stata fatta senza dargli un nome. Perché farlo ora? Immagino che anche durante l’età della pietra ci fosse un cavernicolo che si metteva la pelliccia di ermellino anziché di leone, perché era più femminile”.
L’amore ai tempi del Coronavirus: ne parla anche nella sua rubrica Questioni di cuore. Gli amanti oggi come fanno?
“I miei corrispondenti di solito hanno sessant’anni, ma proprio quello è l’età di massimo scopamento sia per gli uomini e le donne. Fanno molto uso di Skype, sicuro”.
Lei lo usa?
“No, perché non voglio farmi vedere tanto sono un cesso”.
Suvvia, non dica così, non è vero…
“Sì, lo so, adesso mi dirà pure che sono un amore, me lo dicono tutti” (ride forte, ndr).
Cosa conta per lei oggi?
“Oggi vorrei davvero che tornassimo o arrivassimo ad una vera democrazia. L’unica cosa che oggi davvero mi interessa non riguarda me, perché ormai sono mezza andata, ma proprio il mio Paese: vorrei che la gente fosse libera e intelligente, che sapesse cosa dice, cosa fa, capisse. Seguendo Facebook – perché sì, sono su Facebook – vedo che la gente non sa niente, non ha letto nulla e mi chiedo cosa ha fatto la scuola. Che brutto non sapere nulla, fidarsi dei cretini che ci propinano stupidaggini. Chiunque mi conosce sa che io non ho studiato, non ho fatto neanche il liceo. Ho avuto comunque un’adolescenza in tempi in cui l’unico divertimento era leggere, per cui per me leggere è stata la fonte della vita e lo è tutt’ora. Leggere non i romanzetti, ma le cose che ti fanno capire cos’è l’umano o perché la storia è andata così, perché sono successe certe cose…secondo me è indispensabile, il resto non importa se non c’è cultura”.
Che Aspesi non abbia studiato, saranno in pochi a crederci…
“Eppure è così. Ho avuto una cultura informativa, superficiale, non so nulla di sociologia, filosofia, economia…queste cose no, non le conosco. Ho una cultura superficiale che non andrebbe bene per un pensatore, ma per un giornalista sì. Ora però è arrivato il momento di salutarci mio caro, basta, non ho più voce, tra l’altro ho anche un po’ di mal di gola. Vado a finire di leggere, appunto, e poi devo cucinare. Le auguro buon lavoro”.
Chiude.
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Tu tu tuuuu
· Oliviero Toscani.
Dagospia il 3 febbraio 2020. Da Circo Massimo - Radio Capital. “Sono amico delle sardine e dirigo Fabrica, ci sono 30 studenti di meno di 25 anni vengono da tutto il mondo, studiano la comunicazione moderna e le Sardine sono il movimento di comunicazione più importante al mondo in questo momento. Dagli Stati Uniti al resto del mondo hanno curiosità per le Sardine. Li ho invitati. Anche le Sardine erano curiosi di sentire dei giovani creativi, di sentire un vento di freschezza. Abbiamo chiacchierato per tre ore su quello che han fatto. Poi venti minuti prima che se ne andassero arriva Luciano Benetton, anche lui era curioso di conoscerli, umanamente e si fa la foto ricordo. Finito”. Così Oliviero Toscani, in Circo Massimo su Radio Capital, spiega come è nato l’incontro tra alcuni rappresentanti delle Sardine e i giovani di Fabrica e come poi è arrivata quella fotografia che ha scatenato tante polemiche e critiche. “Le immagini, le foto – spiega ancora Toscani - sono state postate e hanno fatto il giro, anche online. Ingenuamente non ci avevamo pensato. Era un incontro amichevole e Luciano Benetton non voleva certo rifarsi una verginità, non si farebbe una cosa così”. Sul perché poi siano arrivate tante critiche alle Sardine per essersi accostati al principale azionista di Autostrade Toscani spiega che “è perché in Italia c’è una mentalità da ‘gossip’ da avanspettacolo. Salvini attacca ma non fa mica il politico. Abbiamo parlato molto di Salvini in quelle tre ore di incontro”. Secondo il fotografo le Sardine rappresentano “la voglia di cambiamento, sono intelligenti, pieni di energie, simpatiche, hanno una bella visione del futuro. Sono importanti – aggiunge - non solo per la sinistra ma per tutti, per la civiltà ma ora sono apprezzate solo a sinistra perché quelli di sinistra capiscono prima o capiscono più velocemente, anche se molti della sinistra votano Lega. E’ un casino. Però non fate il paragone con il Movimento 5 stelle, quelli hanno cominciato con il vaffa. Le sardine fanno il contrario. Un po’ di civiltà. A Luciano Benetton piacciono e a Salvini e Meloni no? Sardine piacciono a tutte le persone civili”. Santori dice che la foto è stato un errore? “Sì è vero – risponde Toscani - prima avevamo detto niente giornalisti. Ora penso sarebbe stato meglio invitare tutta la stampa. Sarebbero venuti tutti a sentire la discussione. Sarebbe stato più chiaro. Poi la destra non capisce tanto e quindi si incazza subito. Hanno capito tutti quanto intelligente è Salvini”.
Da adnkronos.com il 5 febbraio 2020. "Mi dispiace che parole estrapolate e confuse possano far pensare una follia come quella che a me non interessi nulla del Ponte Morandi. Solamente la cattiveria può strumentalizzare una cosa simile. A me come a tutti quella tragedia interessa e indigna ma è assurdo che certi giornalisti ne chiedano conto a me". Con queste parole risponde all'Adnkronos Oliviero Toscani, in merito alle polemiche sulle frasi pronunciate in radio sulla tragedia del viadotto ligure.
Ponte Morandi, Benetton «chiude» il rapporto con Oliviero Toscani. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Antonella De Gregorio. Benetton interrompe il rapporto con Oliviero Toscani dopo le affermazioni del creativo sul crollo del Ponte Morandi. «Benetton Group, con il suo Presidente Luciano Benetton, nel dissociarsi nel modo più assoluto dalle affermazioni di Oliviero Toscani a proposito del crollo del Ponte Morandi, prende atto dell’impossibilità di continuare il rapporto di collaborazione con il direttore creativo», è scritto in una nota. Il riferimento è all’intervento di Toscani in una trasmissione di Radio Uno. Il fotografo di fiducia della famiglia Benetton, vicino al Pd, commentando la foto che ritrae i fondatori delle sardine in visita alla fondazione «Fabrica» di Treviso, aveva dichiarato «Ma a chi interessa che caschi un ponte?». E nel corso della trasmissione aveva spiegato che «noi come “Fabrica” con le Autostrade non abbiamo niente da fare, i Benetton sono azionisti di una società della quale la famiglia ha il 30%» salvo poi aggiungere rivolgendosi al conduttore: «Magari anche lei se ha investito, è azionista e responsabile, ma a chi interessa che caschi un ponte, ma smettiamola». Toscani aveva poi provato a minimizzare: «A me non interessa questa storia qui, Benetton sponsorizza un centro culturale (Fabrica, ndr). Avevamo finito la visita, è arrivato Benetton per un saluto e abbiamo fatti una foto ricordo che non sarebbe dovuta diventare una polemica». E, pentito per le parole pronunciate, giovedì mattina il creativo si è spinto a un «mea culpa» completo: «Mi scuso. Di più: ho vergogna anche di scusarmi. Sono distrutto umanamente e profondamente addolorato», ha sostenuto il fotografo che ha reso celebre in tutto il mondo l’immagine dei Benetton produttori di maglioni con le sue pubblicità e le sue foto. «Ho detto quelle parole infelici, ma la mia frase è stata estrapolata dal contesto» seguita, anche se lui voleva solo dire che «Fabrica», la farm creativa della Benetton, «è un centro culturale che non ha nulla a che fare con Autostrade» e «che non stavamo discutendo di quello, del ponte Morandi che è cascato». Scuse rispedite al mittente e rottura affidata a un comunicato. Nel quale Luciano Benetton e tutta l’azienda «rinnovano la loro sincera vicinanza alle famiglie delle vittime e a tutti coloro che sono stati coinvolti in questa tremenda tragedia».
Toscani: "La foto con le Sardine? A Benetton piacciono, non voleva rifarsi verginità. Il resto è gossip". Dagospia il 6 febbraio 2020. Da Radio 24. “Le scuse di Oliviero Toscani? Il problema è che secondo noi, oltre alle scuse nella vita servono dei fatti. Ovviamente le scuse da parte mia sono accettate, ma è chiaro che resta il malessere. Come si dice in questi casi, quanto stendi una persona e pianti un chiodo, poi puoi togliere il chiodo, ma il buco resta”. Così, Egle Possetti, presidente del Comitato Vittime del ponte Morandi, a "Uno, nessuno, Centomilan" su Radio24, commenta le scuse di Oliviero Toscani per l’infelice frase "Ma a chi interessa che caschi un ponte, smettiamola". “Purtroppo la nostra tragedia spesso è utilizzata in modo indecente- continua la Possetti- ci sono alcune persone che la utilizzano a fini propagandistici. In questo caso non posso negare che siamo rimasti basiti da questa affermazione, come credo tanti italiani. Quella frase l’abbiamo sentita tutti. Umanamente posso anche comprendere che lui si sia fatto prendere dalla foga, però a un personaggio della caratura di Toscani questi momenti non dovrebbero capitare. Nel senso che poi lui sa benissimo che questa vicenda è legata alla famiglia Benetton per cui lui ha sempre lavorato, ed è chiaro che le persone collegano la sua figura a quella famiglia. La nostra sensazione è che le persone intorno a noi non capiscano quanto profondo sia il nostro dolore. Noi cerchiamo di superarlo, di andare avanti, di farci forza e di rendere il dolore positivo. Perché lei sa benissimo che per i nostri cari, a parte chiedere giustizia, ormai non possiamo fare più nulla, sono chiusi in una bara. Sicuramente c'è stato qualche corto circuito nella esposizione di Toscani e lui voleva intendere altro, anche perché se avesse voluto intendere veramente quello che ha detto sarebbe da chiedersi se era lucido oppure no. Però – conclude- quella frase fa male. Ecco, fa male perché si aggiunge a tutto il resto”.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 6 febbraio 2020. Il giorno dopo tutti fingono di scusarsi, tutti si esibiscono in una ridicola corsa a prendere le distanze dalla bestialità. Purtroppo, nessuno è sincero. Martedì, a Un giorno da pecora su Radio Uno, Oliviero Toscani ha pronunciato forse la più grossa idiozia della sua vita (pur ricca di scempiaggini). Nel tentativo di difendere le sardine che si sono fatte fotografare assieme al suo padrone, Luciano Benetton, il fotografo ha gridato: «Ma a chi interessa che caschi un ponte, smettiamola». Il riferimento era ovviamente al ponte Morandi. A qualcuno, tuttavia, la tragedia genovese interessa. Forse non a Gennaro Migliore di Italia Viva, che era in radio assieme a Toscani e se n' è rimasto zitto zitto ad ascoltare i ragli del presunto artista. Ma agli altri italiani l' orrore del ponte sta a cuore eccome. Soprattutto alle famiglie che hanno perso qualcuno nel crollo. «A lui potrà non interessare che sia caduto un ponte in Italia nel 2018», ha detto Egle Possetti, presidente del comitato Ricordo vittime Morandi. «Potrebbe essere che lui viaggi sempre in elicottero, in effetti passare su un ponte francamente è un po' da "plebei", purtroppo tanti italiani ci viaggiano ogni giorno e qualche persona sotto quel ponte ci è rimasta per sempre, certamente non per qualche strano fulmine vagante, 43 morti innocenti per lui conteranno poco, ma per noi erano tutto». Poi la Possetti si è rivolta alle sardine: «Noi non possiamo giudicare la volontà di partecipare a una "fucina creativa" dai Benetton da parte delle sardine. Certo che il momento storico, e l' evidente faro mediatico sugli imprenditori che li hanno ospitati, non danno sicuramente la speranza di ricevere un premio oscar per il tempismo». Stavolta, Toscani l' ha fatta troppo grossa. Tanto che - riferisce Dagospia - Maurizio Scannavino, direttore generale di Gedi, avrebbe deciso di chiedere il suo programma Fabrica su Radio Capital. Comprensibile, anche se velatamente ipocrita: in fondo è stata Repubblica, giornale del gruppo Gedi, a ospitare la letterina piagnucolosa di Benetton proprio sul Morandi...Alessandro Benetton, intanto, dichiara il suo «totale dissenso» da Toscani (peccato che la sua famiglia lo abbia coccolato per anni). E pure le sardine, come prevedibile, cercano di smarcarsi. «Non vogliamo più che si strumentalizzi questa storia, noi abbiamo ammesso il nostro errore ed avevamo chiarito il motivo della nostra visita», hanno scritto in un comunicato «Ora chiediamo a Oliviero Toscani e Luciano Benetton di non strumentalizzare ulteriormente questa vicenda che purtroppo grava su cicatrici ben più grandi». Viene da dire che avrebbero potuto pensarci prima di andare in gita a Treviso dall' amico Benetton. Oppure avrebbero potuto prendere una posizione più netta dopo la pubblicazione delle foto. Invece si sono limitati a parlare di leggerezza e se la sono presa con la propaganda sovranista. Anche per questo motivo viene da pensare che le sardine siano molto, molto più simili a Oliviero Toscani di quanto oggi vogliano far credere. Tanto per cominciare, il capo sardina Mattia Santori - come ha mostrato Il Fatto - sul tema delle concessioni ad Autostrade è sempre stato piuttosto morbido, per non dire sulla linea dei Benetton: «Per rescindere un contratto in essere ci deve essere una giusta causa», disse. «Il tema che interessa davvero ai cittadini è capire quando si tornerà ad avere una visione strategica delle infrastrutture». Beh, veramente ai cittadini interessa che i responsabili del crollo siano puniti, e che chi ha intascato fior di denari pubblici si assuma le sue responsabilità. C' è poi un altro punto di contatto tra le sardine e Toscani. Quest' ultimo, ieri, ha imbastito un tweet di scuse per la frase immonda. «Mi dispiace che parole estrapolate e confuse possano far pensare una follia come quella che a me non interessi nulla del ponte», ha detto. «Solamente la cattiveria può strumentalizzare una cosa simile». Come volevasi dimostrare: il fotografo non si scusa, anzi se la prende con chi - mosso da «cattiveria» - osa criticarlo e rimproverargli parole che lui ha pronunciato una per una, altro che frasi estrapolate dal contesto. Fa come le sardine: dà la colpa ai sovranisti crudeli, ai nemici politici. Invece di tacere e chiedere perdono, insiste ad attaccare come un bestione ferito. Anche i pesciolini hanno atteggiamenti simili. E non è un caso, perché Toscani e le sardine appartengono alla medesima cultura politica, prosperano nello stesso humus della sinistra del privilegio. Il fotografo sbraiata alla Zanzara: «Non hanno idee, non hanno immaginazione. Non hanno cultura. La destra italiana è ignorante». Sono idee identiche a quelle di Mattia Santori. Certo, le sardine non si sono mai spinte negli abissi di brutalità raggiunti da Toscani, specie sul ponte, ma in fondo la pensano come lui: ritengono che a destra ci sia solo gente che non merita di parlare, che va cancellata dal consesso civile. Santori è il volto sobrio di Toscani, la versione aggiornata del vecchio fotografo dal talento inaridito che rotea il bastone e sputazza. Per questo si sono trovati belli e sorridenti a Treviso, nella culla calda del progressismo con gli schei. Ora si scapicollano a prendere le distanze, ma è come se volessero separarsi da sé stessi. E allora è meglio che restino nel loro mondo parallelo foderato di spocchia. Ci stiano e si godano la propria supponenza. In silenzio, però.
Ponte Morandi, Benetton rompe con Oliviero Toscani. La decisione del gruppo dopo le affermazioni del creativo sul crollo di Genova. La Repubblica il 06 Febbraio 2020. Benetton interrompe il rapporto con Oliviero Toscani dopo le affermazioni del creativo sul crollo del Ponte Morandi. "Benetton Group, con il suo Presidente Luciano Benetton, nel dissociarsi nel modo più assoluto dalle affermazioni di Oliviero Toscani a proposito del crollo del Ponte Morandi, prende atto dell'impossibilità di continuare il rapporto di collaborazione con il direttore creativo", si legge in una nota in cui si rimarca anche che Luciano Benetton e tutta l'azienda, "rinnovano la loro sincera vicinanza alle famiglie delle vittime e a tutti coloro che sono stati coinvolti in questa tremenda tragedia". Il caso era esploso quando si sono diffuse le esternazioni di Toscani sul crollo del ponte Morandi, che il 14 agosto 2018 provocò la morte di 43 persone. "Ma a chi interessa che caschi un ponte, smettiamola", ha detto a "Un giorno da pecora", quando gli è stato chiesto delle polemiche per la foto che lo ritrae con Luciano Benetton insieme ai fondatori delle Sardine al centro culturale Fabrica. Contro Toscani si sono sollevate critiche sdegnate e il fotografo, dopo le prime tiepide scuse, ha fatto il mea culpa: "Sono umanamente distrutto, mi scuso nel modo più profondo". "43 morti innocenti per lui conteranno poco, ma per noi erano tutto", ha detto Egle Possetti, presidente del comitato Ricordo vittime Morandi. Toscani "è confuso", ha aggiunto, invitando le Sardine a guardare altrove per cercare eccellenze in Italia, non ai Benetton, che controllano Aspi, accusata della tragedia. Il primo a reagire è stato il governatore ligure Giovanni Toti che ha lanciato l'hashtag #ANointeressa, invitando Toscani a scuse immediate, hashtag che è stato rilanciato su molte pagine social, anche da molti cittadini. Il sindaco Bucci ha ricordato che il crollo interessa a "43 persone che hanno perso la vita, ai loro figli, genitori, mogli, mariti e amici. Alle famiglie che hanno dovuto cambiare casa e vita. Il crollo dovrebbe interessare ogni persona dotata di coscienza civile e umana solidarietà". Ha reagito a Toscani anche Alessandro Benetton, che ha preso una via imprenditoriale diversa dalla famiglia: "Mi dissocio fortemente dalle affermazioni fatte da Toscani", ha scritto. Nella nota odierna, Luciano Benetton e tutta l'azienda "rinnovano la loro sincera vicinanza alle famiglie delle vittime e a tutti coloro che sono stati coinvolti in questa tremenda tragedia". Il gruppo Benetton è tra gli azionisti della società Autostrade, titolare della concessione del tratto comprendente il ponte crollato. Da quel tragico evento è in corso un duro braccio di ferro con il governo per quanto riguarda la revoca della stessa concessione ad Autostrade per l'Italia, che i Benetton controllano attraverso Atlantia (a sua volta azionista degli Aeroporti di Roma e per questo coinvolta nel dossier Alitalia).
Atlantia, Patuanelli sulle concessioni autostradali: "Per noi non c'è alternativa alla revoca". La via della revoca è stata indicata fin da subito dal Movimento 5 Stelle, che però si è scontrato con la difficile realizzazione a causa di potenziali indennizzi da versare alla società. Il dossier, su questo fronte, resta aperto.
DAGONOTA il 6 febbraio 2020.- Dopo Alessandro Benetton, che si è pubblicamente dissociato da lui, dalle colonne del Gazzettino arriva oggi anche la condanna del presidente di Edizione Gianni Mion, che ha definito quello di Oliviero Toscani “un attacco di senilità non scusabile”. Sembra quindi che il secondo atto del sodalizio del fotografo con il gruppo di Ponzano Veneto sia vicino alla fine, e per il quasi ottantenne Oliviero calerà definitivamente il sipario. Ma l’ultima parola spetterà come sempre al patron Luciano.
Mario De Fazio e Bruno Viani per “la Stampa” il 6 febbraio 2020. Quanto interesse abbiano scatenato le improvvide parole di Oliviero Toscani sul crollo di ponte Morandi, è stato subito chiaro. Quella frase pronunciata alla trasmissione radiofonica "Un giorno da pecora" - «A chi volete che interessi del crollo di un ponte» - ha riaperto ferite troppo fresche. A cominciare, ovviamente, da quelle dei parenti delle vittime. «Quarantatré morti innocenti per Toscani conteranno poco, ma per noi erano tutto. Noi vogliamo vedere i colpevoli privati della loro libertà, umiliati pubblicamente e in galera» si è sfogata Egle Possetti, che quel 14 agosto ha perso una sorella e due nipoti. Si sono dissociati anche l'ad di Autostrade per l'Italia, Roberto Tomasi («Quella tragedia è stata e sarà sempre gravissima e ingiustificabile») e Alessandro Benetton («Mi dissocio fortemente da Toscani»). A sentirsi offesa l'intera comunità ligure: dagli sfollati alle categorie economiche, dai partiti alle istituzioni, con il governatore Giovanni Toti e il sindaco Marco Bucci tra i primi a reagire con una campagna social all' insegna del motto "A noi interessa". Toscani, però, giura che quelle parole non esprimono il suo pensiero.
Toscani, vogliamo chiarire?
«Ormai non ho nulla da dire, ho mandato un testo. Basta così».
Non basta. È vero che il giorno della tragedia poteva esserci anche lei, tra le vittime?
«Sì, dovevo andare a trovare mio figlio in Francia ma il server della mia casa in Toscana era andato in tilt, ho dovuto aspettare i tecnici. Se non fosse stato per quel contrattempo forse sarei stato lì sul Ponte».
Sta cercando di dire che non avrebbe voluto pronunciare quelle parole?
«Sì, ma è inutile replicare. Purtroppo, se in un mondo da teleidiotizzati le dicono che è storpio, lei resterà storpio per tutta la vita. Potrà anche vincere le Olimpiadi ma per tutti resterà storpio».
Vuole ammettere che l'espressione che ha usato le è venuta male?
«Questo è vero. Ma interrompiamo qui».
Non ha spiegato come è andata e cosa intendeva dire.
«Il conduttore continuava a chiedermi di Benetton e del Ponte, avremmo dovuto parlare della realtà di Fabrica: e anche se noi di Fabrica non abbiamo nulla a che fare col Ponte, lui continuava ad insistere. Volevo dire che il Ponte in quel contesto non c'entrava nulla, si doveva parlare di comunicazione e di futuro».
Non sarebbe il caso di chiedere scusa?
«Mi spiace veramente per le vittime di quella tragedia che si sono sentite ferite: mi ha impressionato la loro umiltà, il loro non strumentalizzare il dolore. Sono un esperto e mi intendo di facce belle; ebbene, tra quelle rivelate dal dolore in questo nostro disgraziato e magnifico paese, ricordo l' impressione che mi fece la signora Egle Possetti, che spesso li rappresenta, le parole che ha sempre saputo trovare, forti e persino scandalose nella richiesta di giustizia ma mai cupamente vendicative. Vorrei averli anche io dei parenti così, se dovessi finire vittima di una tragedia come quella. Sì, ribadisco le mie scuse».
Angela Pederiva per ''il Gazzettino'' il 6 febbraio 2020. Il padovano Gianni Mion è il presidente di Edizione, la cassaforte della famiglia di Ponzano Veneto. La holding controlla il gruppo Atlantia, a cui fa capo la società Autostrade per l'Italia. A sedere nel Consiglio di amministrazione c'è anche Alessandro Benetton.
Come valuta la presa di distanza di Benetton junior?
«Ha fatto molto bene, perché ha espresso il sentimento di molti. Personalmente anch'io ho condiviso molto l'opinione del dottor Alessandro».
Cosa pensa del creativo?
«Non seguo il dottor Toscani».
Troppo istrionico?
«Non è questione di essere istrionici. Quello che ha detto sul Ponte Morandi è una roba assolutamente inconcepibile. Non so neanche che giustificazione possa esserci».
Toscani afferma che le sue parole sono state estrapolate.
«Ma cosa dice? Questa è una roba che proprio... Secondo me sono attacchi di senilità, l'età avanza anche se magari vuol sempre sembrare un ragazzo. Ha presente quei film con attori anziani come Walter Matthau, che poi litigano e ne fanno di tutti colori? Ecco, è lo stesso, solo che quelle sono commedie mentre questa storia non fa ridere per niente».
Cosa ne dirà Luciano?
«Non lo so. Pubblicamente si è espresso solo Alessandro, giustamente penso sia preoccupato per la sua reputazione».
Crede che Alessandro stia meditando uno strappo?
«Spero di no, perché è una risorsa importante e una persona di grande valore. Di talento non ce n'è mai troppo».
Com'è il clima in Edizione, con quello che sta accadendo?
«Quando succedono questi episodi, ti chiedi perché lo fai».
Si è dato una risposta?
«Sì: cerco di difendere le aziende. Parlo di lavoratori e famiglie, ma anche delle aziende stesse, importanti realtà che si trovano in relativa difficoltà per quanto disposto dal decreto Milleproroghe. Bisogna cercare soluzioni e fare proposte al Governo, per vedere di venirne fuori».
È ottimista?
«Non lo so, ma ci provo. Non sono solo. Faccio il mio pezzo, cercando di dare un contributo per le mie capacità. Non sono io il concessionario, ci sono i Cda che tengono molto alla loro indipendenza e autonomia, devo stare attento a non interferire. Però se qualcuno mi chiede aiuto o consiglio, li do volentieri».
Daniele Ranieri per il “Fatto quotidiano” il 6 febbraio 2020. Nel Rinascimento gli artisti erano pagati dai Papi; nell'Olanda del '600 i pittori erano stipendiati dai banchieri; negli anni '80 i fotografi italiani erano sovvenzionati dai Benetton. Ma Oliviero Toscani, il Michelangelo del click, il Tiziano del diaframma, il Raffaello Sanzio del bromuro d' argento, è diventato famoso grazie ai Benetton, o i Benetton sono diventati ricchi grazie alle pubblicità di Toscani? Toscani nasce figlio di fotografo (è di papà Fedele lo scatto di Montanelli sulla Lettera 22) e diventa fotografo di moda, in tutti i sensi di quest' espressione. Elle, Vogue, GQ , Harper's Bazaar, Esquire, Stern. Dove c'è patina, c'è Toscani. Dove c'è il corpo in tutta la sua madida, ambigua, parlante anniottantità, c'è Toscani. Dove (quando) l' arte diventa comunicazione, e i temi sociali sostituiscono il mito e il Vangelo, lì c' è pronto Toscani, col dito sul pulsante. Anche se ha fotografato Picasso e mangiava il panettone con Warhol (c' è un' intervista in cui non l' abbia detto?), a un certo punto il suo destino d' artista ha finito per coincidere col destino imprenditoriale dei Benetton, i fratelli trevigiani dei maglioncini (e di tante altre cose, tutte a 9 zeri). (Maglioncini di lana pregiatissima: dal 1991, la multinazionale famigliare Benetton controlla 900.000 ettari in Patagonia per l'allevamento di pecore da lana. La popolazione indigena dei Mapuche ha denunciato lo sfruttamento di manodopera infantile e l'espropriazione illegittima dei territori, appartenenti per millenni ai Mapuche e poi a Luciano, il fratello Benetton deputato al ramo maglioni. Negli anni 2000, i Padroni hanno acconsentito a ricevere dei delegati Mapuche, a cui hanno concesso un po' di terra in cambio di lavoro. Il sottotesto di tanta grazia, corroborato dalla pubblicità scioccante/provocatoria di Toscani, era: posti di lavoro gratis, col privilegio di contribuire alla vestizione di milioni di giovani metropolitani a caccia del loro futuro, che volete di più?). La biografia di Toscani si sovrappone con l' opera come la mappa col territorio: il bacio tra prete e suora nel 1991, il culo nudo marchiato "Hiv positive" nel 1993 (associazioni di malati di Aids fecero causa alla Benetton; Toscani disse: "Non accusateci di sensazionalismo, noi siamo in un certo senso benefattori dell' umanità", e i suoi committenti sancirono: "Questa campagna non è intesa ad incrementare le vendite. Noi ci limitiamo a sottolineare la coscienza sociale della Benetton e la sua sensibilità ai problemi del giorno d' oggi"); nel 1996 i tre cuori White/Black/Yellow (tre organi umani estratti da cadaveri con scritta a-razziale stampigliata), la modella anoressica nel 2007. Meticciato, malattia, sesso, morte, sangue, latte, preservativi usati, cordoni ombelicali, corpi scheletriti: tutto bello, stante l' ineliminabile aporia che il corpo esposto per scandalizzare i borghesi serviva in realtà ad arricchire i borghesi. Oggi si sa che non c' è niente di più scontato della provocazione; ma allora gli scatti terremotarono le coscienze, e mica solo da noi: nel 1995 la Corte di Francoforte sentenziò: Toscani usa la sofferenza delle persone per fare schockvertising, un tipo di pubblicità atta a "destare nel pubblico un sentimento di solidarietà nei confronti dell' impresa committente, la Benetton" (da Wikipedia). Moralismo borghese, conformismo, e lui continuò: la donna nera e nuda che allatta il bimbo bianco, i condannati alla pena di morte Poi è stato tutto uno smottare, un franare alla ricerca del sensazionale di un uomo intelligente. Nel 2013 ha detto: "Le donne devono essere più sobrie, non si devono truccare, mettersi il rossetto, solo così si possono evitare altri casi di femminicidio" (funziona così, coi geni della comunicazione: condividono le opinioni dei posteggiatori abusivi, senza offesa per quest'ultima categoria). Forse per questo nel 2018 ha ritratto per Maxim, rivista famosa per i calendari di nudo, la ex ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, struccata, sdraiata in un lettone di campagna tra lenzuola di flanella, coi capelli scarmigliati e un camicione di percalle, col risultato di trasformare una piacente donna in carriera in una contadinozza estone del 1950 appena rientrata in cascina dopo aver munto il latte. Poi si iscrive al Pd (come detto, ama il sangue, il disfacimento, la decomposizione). Dirà di essere comunista dissidente, alla Majakovskij, e ostile a Renzi (ecco spiegate le foto atroci alla Boschi), e sulla destra emetterà l'elaborata analisi: "Giorgia Meloni? Poveretta, lei è una ritardata. È brutta e volgare". Di lui Vittorio Sgarbi, che s'è l'è preso come assessore alla Creatività al Comune di Salemi, dice: "È il genio dell'inganno. Ci fa vedere quello che non c'è". Da ultimo, giorni fa: riunitosi commercialmente ai Benetton, per difenderli dal sospetto che le lanciatissime Sardine abbiano avuto la reputazione ammaccata dall' incontro col Padrone dei Maglioni (delle concessioni autostradali), ha detto: "Ma a chi volete che interessi se casca un ponte?", s'intende il ponte Morandi, che crollando ha fatto 43 morti. Per non annoiare, non staremo qui a fare la differenza tra il moralismo e l'essere morali, ma da un sensibile benefattore dell' umanità ci si aspettava di meglio. È il dilemma dell'opera d'arte nell' epoca della sua riproducibilità commerciale, il doppio vincolo psicologico del committente schizoide, direbbero gli antropologi: se un esploratore di valore finisce per incarnare il cinismo e le intenzioni di chi gli ha dato i soldi per la spedizione, può anche succedere che un artista talentuoso, partito per fregare il Capitale, ne rimane fregato.
Paolo Bracalini per “il Giornale” il 6 febbraio 2020. Oliviero Toscani produce vino nella sua tenuta di oltre cento ettari in Toscana, tra ulivi secolari e cavalli da corsa, sua altra passione. Il tasso alcolemico, forse elevato, potrebbe essere una spiegazione delle frequenti esternazioni fuori controllo del fotografo. «Ma a chi interessa che caschi un ponte (il Morandi, ndr), smettiamola» è l' ultima sua geniale affermazione. Mario Giordano su Rete4 ha proposto una spiegazione più pragmatica, che prescinde dalla gradazione alcolica: «È un servo dei Benetton, un leccaculo dei Benetton», chiamando così in causa il rapporto di lavoro di lungo corso e altrettanto lungo conto in banca di Toscani con la famiglia azionista di Autostrade. In effetti già dopo la tragedia Toscani era subito sceso in campo per difendere i suoi ricchi datori di lavoro («È ingiusto prendersela con i Benetton, loro sono delle persone serissime, hanno sempre fatto le cose al massimo. Perché questa cattiveria? Che popolo frustrato quello italiano, che popolo infelice!»). La motivazione è intrigante ma non basta a spiegare la straordinaria frequenza di sparate demenziali di Toscani, che si manifestano in svariati campi, non solo in quelli in cui c' è da difendere gli amici Benetton. Da geniale fotografo Toscani si è trasformato, negli ultimi anni, in un provocatore da rissa televisiva o radiofonica, in una mina vagante (perciò ambito ospite) capace di tirare fuori una frase choc come niente fosse. Il declino fu diagnosticato da Roberto D' Agostino in un memorabile scontro tv anni fa: «Stando in campagna ti sei rincoglionito, te i cavalli e tutti gli altri! Non aprire più quel vino che fai, ne bevi troppo». La vena creativa fotografica si è esaurita da tempo, se negli anni '70 e '80 firmava campagne per i più grandi marchi mondiali (Vogue, Harpe' s Bazaar, GQ, Elle, Missoni, Valentino, Armani, Esprit, Prenatal, Chanel, Elio Fiorucci fino ai famosi United colours of Benetton con messaggio terzomondista paraculo), ultimamente si presta a lavori più modesti, ma sempre con una predilezione per chi ha potere, tipo fotografare Maria Elena Boschi per Maxim, o l' allora vicepremier Di Maio sulla copertina di Forbes Italia. Quello in cui eccelle, invece, sono le polemiche, sempre di basso livello ma di notevole audience per la grevità di cui Toscani è capace, salvo poi lamentarsi per la mancanza di umanità e di altruismo degli italiani, un popolo di «teleidiotizzati», «conosciuti al mondo per essere inaffidabili». Ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri» (poi fu costretto a scusarsi) e ancora «dei mona» (dei fessi) gli stessi veneti per aver votato in massa il referendum sull' autonomia. Ha definito il Vaticano «la più grande organizzazione omosex del mondo», si è augurato l' invasione africana in Italia, «guardate la Germania che è diventata forte per questo o gli Stati Uniti che è un Paese di migranti. I poveri italiani sono tristi, vanno migliorati con gli extracomunitari. Quelli che arrivano non sono delinquenti siamo noi i veri delinquenti, abbiamo insegnato al mondo a essere delinquenti». Suo bersaglio preferito è la Lega, in primis ovviamente Matteo Salvini definito «un imbecille totale» e poi, con stile da Er Monnezza, uno «che fa i pompini ai cretini»» (querelato e condannato a 8.000 euro di multa). Sull' ex sindaco leghista di Padova Massimo Bitonci, disse «è senza materia cerebrale», per concludere «meglio abitare accanto a un rom che a un leghista». Gli potrebbe offrire l' ottimo vino di sua produzione. Ma senza esagerare, si rischia di dire sciocchezze.
Toscani licenziato da Benetton: «Sto benissimo, libero dai loro problemi». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 da Corriere.it. «Mi sento benissimo, mi sono liberato della responsabilità di Autostrade allontanandomi dai Benetton. Io ero lì per fare altre cose e c’era il problema del Ponte Morandi... ora basta, non devo più difendere nessuno, solo me stesso. Sono felice, mi sono liberato. È ovvio che non intendessi dire quello che tutti hanno interpretato». Così il fotografo Oliviero Toscani parla della vicenda che lo riguarda dopo che il gruppo Benetton ha deciso di interrompere il rapporto di collaborazione a seguito delle sue parole sul crollo del Morandi («Ma a chi interessa che caschi un ponte, smettiamola», aveva detto in radio). «Sono un persona corretta e se c’è qualcosa da dire, ne parlerò personalmente con i Benetton», ha dichiarato il creativo all’Adnkronos. «È chiaro che quel giorno lì a Fabrica (il centro culturale da lui diretto e fondato da Luciano Benetton, ndr) l’interesse non era quello di discutere del Ponte Morandi. Questo ovviamente non vuol dire che sono disinteressato alla tragedia, è assurdo pensarlo. Come altri cittadini, come tutti, condivido il fatto che sia tremendo quanto successo a Genova», ha sottolineato Toscani ricostruendo i fatti dalla visita delle Sardine a Fabrica allo scatto che lo ha ritratto insieme ai fondatori del movimento e Luciano Benetton fino all’intervista rilasciata in radio. A proposito di quest’ultima, ad avviso del fotografo è stata «estrapolata» una solo frase, poi «male interpretata». «Ecco, questa è la comunicazione moderna...», lamenta Toscani che ha detto di essere «distrutto umanamente», osservando: «Io, uomo della comunicazione colpito dalla comunicazione stessa: chi di spada ferisce, di spada perisce». In una nota diffusa giovedì, dopo la notizia del licenziamento del fotografo, il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti che per primo aveva lanciato l’hashtag #anointeressa, aveva commentato: «Oggi sono arrivate le scuse e il licenziamento di Toscani dopo la mia mobilitazione, quella del sindaco Bucci e di tutta Italia contro le sue parole oscene. Lo abbiamo fatto perché le famiglie delle 43 vittime meritano rispetto e giustizia. Genova e la Liguria saranno sempre al loro fianco». Intanto, il comitato «Zona Arancione ponte Morandi» (quello dei residenti intorno all’area del ponte crollato) ha annunciato una manifestazione contro le parole del fotografo, spiegando sempre via Facebook che «a noi che sia cascato un ponte interessa eccome!» e dando appuntamento in piazza De Ferrari per lunedì 10 febbraio dalle 18.Pochi giorni dopo, il 14 febbraio, saranno invece i parenti delle vittime del Morandi a fare una manifestazione al casello autostradale di Genova ovest. Ma Toscani insiste: «È tutto passato, finito! Mi lascio alle spalle questa vicenda. Toscani non ha fatto cadere il Ponte di Genova come qualcuno si diverte a ritrarmi sui social. Allora io che dovrei dire?» evidenzia poi, puntando il dito contro «chi in queste ore sta sguazzando in questa situazione e si permette di giudicare». «Ho grandi progetti in giro, finalmente mi dedicherò a quello che mi piace veramente. E non a difendere i “ponti”», conclude.
Dagospia il 7 febbraio 2020. Da la Zanzara- Radio 24. Giorgio Robbiano è il fratello di Roberto Robbiano, che insieme alla moglie Ersilia e al figlio Samuele sono morti sotto le macerie del Ponte Morandi nell’agosto del 2018. A La Zanzara su Radio 24 è intervenuto sulle parole di Oliviero Toscani: “Ho perso tre persone care, mio fratello, la moglie di mio fratello e il loro figlio di otto anni, il più piccolo dei morti del Morandi. Toscani ha libertà di parola, può dire quello che vuole e continuare a dire ciò che vuole. Le sue parole non hanno offeso, hanno ferito ancora di più, hanno aperto ancora di più la nostra ferita. A noi importa anche oggi del ponte caduto. A noi ha importato quando non sapevo che fine avessero fatto i miei parenti, quando non riuscivamo a metterci in contatto con loro. A noi ha importato del ponte caduto quando ho dovuto riconoscere il corpo di un bambino di otto anni. A noi ha importato sapere di un ponte caduto quando ho dovuto dire ad un padre e ad una madre che il loro figlio ed il loro nipote era morto. Quindi le sue parole non offendono, ma feriscono”. “Una persona – dice ancora Robbiano – deve essere in grado di capire quando deve stare zitta. E certe cose non devono essere dette. Anche se le pensa e io sono convinto che lui le pensa, lui pensa chissenefrega di un ponte. Quando uno dice una cosa, deve avere la coerenza di continuare a dire ciò che ha detto”. Toscani dice che la frase è stata estrapolata: “Io critico le sue parole, a prescindere. Le sue scuse non mi interessano. Non me ne frega proprio niente. So che Toscani ascolta la vostra trasmissione e voglio soltanto fargli sapere che le sue parole feriscono. A prescindere dal fatto che siano state estrapolate. La frase è chiara e secondo me è il suo pensiero. Dovrebbe avere il coraggio di dire: questo è il mio pensiero. Se uno si tira indietro è peggio”. Avete intenzione di querelare Toscani?: “No. Non ha senso, non ne vale la pena”. Sei d’accordo che i Benetton lo hanno licenziato?: “E’ un suo problema, non mio. Toscani la spara sempre più grossa per vedere quanto ce l’ha lungo. Non ha un problema sulle sue parole, le dice continuamente, ogni giorno. Benetton ha preso le distanze, probabilmente non voleva immischiarsi”. Dunque rispedisci al mittente le scuse: “Ma sì, delle sue scuse non me ne faccio nulla. Le parole le ha dette. Ci ha ferito. Ha ferito me, ma anche tante altre persone. Non mi cambia la giornata, la giornata me l’ha cambiata quando ho sentito le sue parole. E anche del licenziamento non me ne frega nulla, problemi loro”.
Toscani: «Difendo i Benetton, è gente buona. Mi impegno per i famigliari del Morandi». Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 su Corriere.it da Antonella Baccaro. Il fotografo licenziato: «Con la famiglia ho fatto cose bellissime. Poi è cascato il Ponte e il nome di Benetton non era più presentabile. Ho subito attacchi e pensato di smettere». Il fotografo delle provocazioni per una volta misura le parole. Oliviero Toscani, licenziato dai Benetton dopo la bufera seguita alla sua dichiarazione sul ponte Morandi (“A chi interessa che caschi un ponte? Smettiamola), è sfinito dalle polemiche ma al telefono ruggisce e non lo ammette. «Sono sereno. Rispondo alla mia coscienza». E cosa le dice la coscienza?
«Che non ho mai pensato di dire una cosa del genere contro la gente che è morta». Ma l’ha detta. «Mi sono espresso male. Che un ponte caschi è una cosa tremenda: chi lo nega?. Quello che volevo dire è che nessuno può avere interesse a farlo cascare. Vede, io ho frequentato la famiglia Benetton in questo periodo terribile, tra la tragedia del ponte e la morte di Carlo e Gilberto, e ho capito che ai Benetton veniva data la colpa del crollo del Ponte ma gli si attribuiva anche un’intenzione, addirittura un interesse. Che non può esserci. É gente buona».
L’hanno appena licenziata per quello che ha detto.
«Sì, lo so che sembra strano che li difenda. Ma con Luciano mi sono lasciato bene. Il rapporto ci sarà sempre. E poi mi dispiace che di mezzo ci vada una società, la Benetton, quella per cui ho lavorato per 20 anni. E in cui lavora ancora tanta gente che non c’entra niente con Autostrade, se non per il fatto che la famiglia ne è socio di maggioranza relativa».
Chi lavora per Benetton c’entra poco, ma la famiglia ha delle responsabilità nella gestione delle sue società.
«Io ho sempre pensato che fosse una famiglia per bene. Fino alla tragedia del ponte Morandi nessuno pensava che i Benetton lavorassero male. Con gli Aeroporti di Roma hanno fatto miracoli». Da comunicatore, non pensa che la reazione della famiglia alla tragedia poteva essere diversa? «Col senno di poi è troppo facile dire che avrebbero dovuto dire o fare altro. Io con i Benetton ho fatto cose bellissime. Poi è cascato il Ponte e il nome di Benetton non era più presentabile: mi sono trovato a lavorare per un marchio, cui voglio bene, che era diventato velenoso. Ho subito attacchi incredibili. Qualsiasi cosa facessi, la gente mi diceva:“É inutile che la fai”. Non si poteva più parlare. Avevo le mani legate. Ho anche pensato di smettere». Tornando alla sua uscita sul Ponte, non crede che la gente abbia potuto pensare: «Ecco, il solito Toscani che provoca, ma questa volta ha esagerato»? «É vero che nel mio lavoro sono sempre stato diretto, ho sempre pensato di testimoniare il mio tempo. Ma lì, alla radio, è stata un’altra cosa: continuavano a insistere sul perché le Sardine fossero venute a Fabrica, sul perché c’era anche Luciano, insomma tutto per mettere in connessione quell’incontro con il Ponte, che nemmeno ne abbiamo parlato. Allora ho detto la mia, pensavo di essere stato chiaro, come sempre. Mi sono sbagliato».
Con Egle Possetti, la responsabile del Comitato delle vittime del Ponte ci ha parlato?
«Sì, e la signora ha capito che le mie intenzioni non erano quelle. Toscani non ha fatto crollare il Ponte». Farà qualcosa per il Comitato? «Sì, mi interessa personalmente come testimone del mio tempo. A maggior ragione che ci sono finito in mezzo, almeno mediaticamente». Il presidente di Edizioni holding, Gianni Mion, commentando la sua uscita sul Ponte ha parlato di “attacchi di senilità”. «Questi problemi forse li ha lui che è stato sempre dietro una scrivania, mentre qualcun altro si faceva venire delle idee fantastiche per portare l’azienda al successo. Dovrebbe averne più rispetto».
Dagospia l'8 febbraio 2020. Da “la Zanzara - Radio 24”. “Non penso che mio padre abbia esagerato. Non ha detto niente di male. Questa volta lo difendo. Penso che non abbia sbagliato. Penso che la frase sia stata tirata fuori male, voleva solo dire che non voleva parlare di quell’argomento lì. Poi è chiaro che non aspettassero altro che bastonarlo”. Ma chi? I suoi nemici?: “Sì”. Così Rocco Toscani, figlio di Oliviero Toscani, a La Zanzara su Radio 24 . Poi attacca i Benetton per il licenziamento: “Penso abbiano fatto male a licenziarlo per il modo con cui l’hanno fatto. L’hanno fatto allo stesso modo con cui l’hanno fatto la prima volta. Lui ha sempre difeso quello che era il suo lavoro e l’azienda per cui lavorava. Loro però alla fine lo hanno difeso poco, gli hanno scaricato addosso tutta la colpa. Lo hanno usato come capro espiatorio, sicuramente. Hanno colto la palla al balzo”. “La frase – continua - era un po’ infelice, però ve lo dico conoscendolo, voleva parlare di altro: era come dire non sono qua per parlare di questa storia del ponte. Sono qua per parlare di altre cose. Lui non lavorava per un’azienda che deve difendere per la caduta di un ponte, lui lavorava per un’azienda per cui faceva creatività”. “Quando ho sentito la frase – prosegue - ho pensato: ha detto una frase da cretino. Posso dire però che questa frase lui non l’ha detta nel senso di chissenefrega del ponte. Chissenefrega dell’argomento durante quella conversazione alla radio dov’era stato chiamato per altro”. Dunque lo assolvi?: “Lo assolvo perché so che non l’ha detto in quei termini. Ha detto sicuramente una cagata, sono cose che non vanno dette”. Oggi dice di stare bene, ieri era distrutto: “Fa parte della vecchiaia, ma sicuramente è un uomo a cui piace esser libero, un cavallo pazzo”. Tu voteresti Salvini?: “Piuttosto che votare Salvini…no, Salvini no, mi dispiace. Neanche se fossimo gli ultimi superstiti su un’isola, io e Salvini. La Meloni? Ma neanche. Salvini è un inno all’ignoranza. E’ brutto vedere il proprio paese fare sta fine qua”.
Ora il figlio difende Toscani "Salvini? Inno all'ignoranza". Il noto fotografo, licenziato dai Benetton, era finito tra le polemiche per una frase infelice sul crollo del ponte di Genova. Il figlio Rocco: “Lo assolvo”. Michele Di Lollo, Domenica, 09/02/2020 su Il Giornale. Rocco Toscani difende a spada tratta il padre Oliviero, dopo la brutta figura fatta dal fotografo la scorsa settimana durante la trasmissione radiofonica “Un giorno da pecora”. Il fotografo si era reso protagonista di una dichiarazione infelice sul crollo del ponte Morandi. Aveva affermato in diretta: “Ma a chi interessa che caschi un ponte?” Ne sono seguiti giorni e giorni di polemiche. Poi meno di 24 ore fa arrivano le frasi di assoluzione del figlio, Rocco. “Non penso che mio padre abbia esagerato. Non ha detto niente di male. Questa volta lo difendo. Penso che non abbia sbagliato. Penso che la frase sia stata tirata fuori male, voleva solo dire che non voleva parlare di quell’argomento lì. Poi è chiaro che non aspettassero altro che bastonarlo”. Il giovane Toscani parla ai microfoni di Radio 24, durate la trasmissione La Zanzara. Poi attacca i Benetton per il licenziamento subito dal padre: “Penso abbiano fatto male a licenziarlo per il modo con cui l’hanno fatto. Lui ha sempre difeso quello che era il suo lavoro e l’azienda per cui lavorava. Loro però lo hanno difeso poco, gli hanno scaricato addosso tutta la colpa. Lo hanno usato come capro espiatorio, sicuramente. Hanno colto la palla al balzo”. “La frase - continua - era un po’ infelice, però ve lo dico conoscendolo, voleva parlare di altro: era come dire non sono qua per parlare di questa storia del ponte. Sono qua per parlare di altre cose. Lui non lavorava per un’azienda che deve difendere per la caduta di un ponte, lui lavorava per un’azienda per cui faceva creatività”. La versione del fotografo sulla sua “dipartita professionale” arriva qualche ora dopo la notizia del licenziamento. Toscani è tornato a parlare dopo attimi di silenzio. E lo fa a suo modo suo, difendendo se stesso e provando a spiegare ancora una volta la frase incriminata. “Mi sento benissimo, mi sono liberato della responsabilità di Autostrade allontanandomi dai Benetton. Io ero lì per fare altre cose e c’era il problema del Ponte Morandi...”, fa sapere all’AdnKronos. Ma sono le parole del figlio che vogliamo approfondire ora. “Quando ho sentito la registrazione - prosegue il Rocco Toscani - ho pensato: ha detto una frase da cretino. Posso dire però che questa frase lui non l’ha detta nel senso di chissenefrega del ponte”. Dunque, lo assolvi? Incalzano da La Zanzara: “Lo assolvo perché so che non l’ha detto in quei termini”. Oggi fa sapere di stare bene, ieri era distrutto il povero Oliviero: “Fa parte della vecchiaia, ma sicuramente è un uomo a cui piace esser libero, un cavallo pazzo”. Tu voteresti Salvini? Chiede Cruciani: “Piuttosto che votare Salvini…no, Salvini no, mi dispiace. Neanche se fossimo gli ultimi superstiti su un’isola, io e Salvini”. La Meloni? “Ma neanche. Salvini è un inno all’ignoranza. È brutto vedere il proprio Paese fare questa fine qua”. A stretto giro di posta arriva puntuale anche una dichiarazione dallo stesso Matteo Salvini che in un post su Facebook scrive:“Il figlio di Toscani difende il padre e attacca: “Salvini, un inno all’ignoranza”...Tale padre, tale figlio”.
Antonella Baccaro per corriere.it il 9 febbraio 2020. Il fotografo delle provocazioni per una volta misura le parole. Oliviero Toscani, licenziato dai Benetton dopo la bufera seguita alla sua dichiarazione sul ponte Morandi (“A chi interessa che caschi un ponte? Smettiamola), è sfinito dalle polemiche ma al telefono ruggisce e non lo ammette. «Sono sereno. Rispondo alla mia coscienza».
E cosa le dice la coscienza?
«Che non ho mai pensato di dire una cosa del genere contro la gente che è morta».
Ma l’ha detta.
«Mi sono espresso male. Che un ponte caschi è una cosa tremenda: chi lo nega?. Quello che volevo dire è che nessuno può avere interesse a farlo cascare. Vede, io ho frequentato la famiglia Benetton in questo periodo terribile, tra la tragedia del ponte e la morte di Carlo e Gilberto, e ho capito che ai Benetton veniva data la colpa del crollo del Ponte ma gli si attribuiva anche un’intenzione, addirittura un interesse. Che non può esserci. É gente buona».
L’hanno appena licenziata per quello che ha detto.
«Sì, lo so che sembra strano che li difenda. Ma con Luciano mi sono lasciato bene. Il rapporto ci sarà sempre. E poi mi dispiace che di mezzo ci vada una società, la Benetton, quella per cui ho lavorato per 20 anni. E in cui lavora ancora tanta gente che non c’entra niente con Autostrade, se non per il fatto che la famiglia ne è socio di maggioranza relativa».
Chi lavora per Benetton c’entra poco, ma la famiglia ha delle responsabilità nella gestione delle sue società.
«Io ho sempre pensato che fosse una famiglia per bene. Fino alla tragedia del ponte Morandi nessuno pensava che i Benetton lavorassero male. Con gli Aeroporti di Roma hanno fatto miracoli».
Da comunicatore, non pensa che la reazione della famiglia alla tragedia poteva essere diversa?
«Col senno di poi è troppo facile dire che avrebbero dovuto dire o fare altro. Io con i Benetton ho fatto cose bellissime. Poi è cascato il Ponte e il nome di Benetton non era più presentabile: mi sono trovato a lavorare per un marchio, cui voglio bene, che era diventato velenoso. Ho subito attacchi incredibili. Qualsiasi cosa facessi, la gente mi diceva:“É inutile che la fai”. Non si poteva più parlare. Avevo le mani legate. Ho anche pensato di smettere».
Tornando alla sua uscita sul Ponte, non crede che la gente abbia potuto pensare: «Ecco, il solito Toscani che provoca, ma questa volta ha esagerato»?
«É vero che nel mio lavoro sono sempre stato diretto, ho sempre pensato di testimoniare il mio tempo. Ma lì, alla radio, è stata un’altra cosa: continuavano a insistere sul perché le Sardine fossero venute a Fabrica, sul perché c’era anche Luciano, insomma tutto per mettere in connessione quell’incontro con il Ponte, che nemmeno ne abbiamo parlato. Allora ho detto la mia, pensavo di essere stato chiaro, come sempre. Mi sono sbagliato».
Con Egle Possetti, la responsabile del Comitato delle vittime del Ponte ci ha parlato?
«Sì, e la signora ha capito che le mie intenzioni non erano quelle. Toscani non ha fatto crollare il Ponte».
Farà qualcosa per il Comitato?
«Sì, mi interessa personalmente come testimone del mio tempo. A maggior ragione che ci sono finito in mezzo, almeno mediaticamente».
Il presidente di Edizioni holding, Gianni Mion, commentando la sua uscita sul Ponte ha parlato di “attacchi di senilità”.
«Questi problemi forse li ha lui che è stato sempre dietro una scrivania, mentre qualcun altro si faceva venire delle idee fantastiche per portare l’azienda al successo. Dovrebbe averne più rispetto».
· Oscar Wilde.
Maurizio Fiorino per “la Repubblica” il 22 agosto 2020. «Milord, nun vo' vedè nisciuno!». Sembrerebbe il momento cruciale di un film napoletano. E forse un po' potrebbe esserlo. Con queste parole, Eugenio Zaniboni - passato poi alla storia come il traduttore del Viaggio in Italia di Goethe - fu rimbalzato dalla custode del villino che Oscar Wilde aveva preso in affitto a Posillipo. A incontrarlo, alla fine, Zaniboni ci riuscì. E non fu del tutto gentile. Scriverà di Wilde come «una massa bianca che si dirigeva affettuosamente verso di me e quel saluto che si annunziava troppo cordiale - vi giuro, o lettori - non mi produsse un grande piacere!». Quanto Wilde, di cui quest' anno ricorre il centoventesimo anniversario della morte, amasse l' Italia, l'ha scritto finalmente nero su bianco Renato Miracco, stimato critico e curatore d' arte, che già negli anni '80 si era messo a raccontare in un libro tutto ciò che aveva scovato sul soggiorno napoletano dell' autore irlandese. «Ma il pensiero, in questi anni, ha continuato ad essere stranamente presente nella mia testa. C' era qualcosa di non detto, che non riuscivo ad afferrare» dichiara oggi dal suo studio a Washington. Quel qualcosa è diventato Oscar Wilde. Il sogno italiano (1875-1900) , pubblicato da Colonnese. «È risaputo che Wilde avesse trascorso buona parte dell' ultimo periodo della sua esistenza nel Sud Italia, ma quasi tutti i libri che parlano di lui sembrano non prendere in considerazione quel periodo che, a mio avviso, vale più degli anni in cui era famoso» continua Miracco. Negli Stati Uniti, dove il libro è già stato pubblicato, ha incassato il plauso di due pezzi grossi come lo scrittore Edmund White e il Pulitzer Philip Kennicott, autore della prefazione. «Quando, qualche anno fa, sono andato a trovare i miei genitori a Napoli, ho deciso di fare il giro di tutte le residenze italiane di Wilde e di iniziare le ricerche nelle varie biblioteche. Molte delle corrispondenze erano state pubblicate in ordine sparso, e soprattutto non erano state mai confrontate con articoli e fotografie dell' epoca» spiega. Il saggio su Wilde va ben oltre il periodo italiano dell' autore del De profundis . C' è la storia, terribile, di come l' omosessualità era vista nell' Inghilterra del XIX secolo. Per ricostruirne le tappe, Miracco ha usato le trascrizioni agghiaccianti di arresti e condanne dei casellari giudiziari dell' epoca, scoprendo che «i sodomiti erano accomunati nello stesso zoo sessuale di esibizionisti, pedofili e omicidi sessuali ». Nel migliore dei casi, si legge, venivano visti come «pervertiti o devianti sociali». Va da sé che dopo lo storico verdetto di condanna a Wilde a due anni di reclusione, molti omosessuali inglesi lasciarono il Paese e lo stesso autore, una volta uscito di galera, piuttosto che ritirarsi a vita privata nelle campagne inglesi come gli fu consigliato, decise di venirsene in Italia. «Non posso restare nel Nord Europa: il clima mi uccide. Non è la perversità ma l' infelicità che mi fa andare verso il Sud, anche se il piacere, sono lieto di dirlo, mi circonda da ogni parte» scrisse. Napoli all' epoca era una sorta di porto franco. Luogo di confine della civiltà greca, romana ed egizia. Per non attirare l' attenzione dei curiosi, Wilde scelse di chiamarsi Sebastian Melmoth e tutto filò in maniera più o meno liscia fin quando un reporter a spasso per le vie di Posillipo non lo riconobbe e, il giorno dopo, scrisse di «un uomo obeso dalle guance flaccide, l' aspetto disfatto ma di grande distinzione e, accanto a lui, un bel giovane biondo», ovvero Lord Douglas, il ragazzo che Wilde amerà fino alla fine dei suoi giorni. Quel che fa più effetto, oggi, è la crudele accoglienza riservatagli dal giornalismo locale. «Qualcuno ha annunziato che in Napoli si trovi il decadente inglese che diede così larga copia di argomenti ai cronisti alcuni anni or sono a proposito di un processo ripugnante. Quasi quasi vi era di che ringraziare i giudici britannici per la loro severità in fatto d' infligger pene a gli odiosamente pervertiti!» scrisse Il Mattino. Nulla di eccezionalmente strano, sostiene oggi Miracco. «Tutto ciò rientrava nel movimento contro Wilde che attraversava l' Italia in quel periodo. Appena tre anni dopo la morte, Paolo Valera scrisse che l' oscarwildismo era la religione degli invertiti». L'ostilità dell'intellighenzia partenopea, in netto contrasto con la bellezza dei «monelli raccolti nella suburra napoletana», spingeranno Wilde a fuggire prima a Capri - dove, al suo ingresso nella hall dell' Hotel Quisisana tutti gli inglesi si alzarono dai loro tavoli e minacciarono di lasciare la sala - poi in Sicilia, dove conobbe l' ormai anziano fotografo Barone von Gloenden, celebre per i suoi ritratti a giovanissimi ragazzi nudi. Insomma non furono mesi facili quelli trascorsi in giro per l' Italia. «Sto diventando piuttosto bravo nella mia conversazione. Credo di parlare un misto tra Dante e il peggior gergo moderno» scrisse in una lettera. Non gli piacque il Duomo di Milano, «un orribile fallimento mostruoso e antiartistico» e si innamorò di Palermo, «la città più bella del mondo, i limoneti e gli aranceti erano di una perfezione così totale che sono ridiventato preraffaellita ». In un caffè, ridotto ormai in povertà estrema, fu riconosciuto da un gruppo di studenti. «Con loro grande delizia ho negato sempre la mia identità. Quando mi è stato chiesto il mio nome, dissi che ogni uomo ha soltanto un nome. Mi chiesero quale fosse. Io, fu la mia risposta». Tra gli aneddoti più divertenti c' è un' intervista fatta in un caffè napoletano. «Vuotata quasi mezza dozzina di bicchierini di cognac, il Wilde volle andare via» scrive il giornalista. «Permettete che paghi, gli dissi, e feci tintinnare una moneta sul marmo del tavolino per chiamare il cameriere». Allora Oscar Wilde, senza scomporsi, rispose che «quando si chiamano, i camerieri non vengono mai: bisogna andar via, senz' altro vi correranno subito tutti dietro e pagherete più presto». E così accadde.
Patrizia Cavalli.
Patrizia Cavalli: «Vivo senza amore da anni. Non chiamatemi poetessa, sono un poeta». Roberta Scorranese il 29 agosto 2020 su Il Corriere della Sera.
«Non provo più amore».
Ma da quanto tempo?
«Da anni».
E come si sta senza amore?
«Male, tristi. Con una specie di sapienza a posteriori che non consola. Però sono troppo narcisa per azzardare un sentimento che potrebbe non essere ricambiato».
Ma la felicità non è un rischio? Non sta forse nel «fecondo coraggio», come diceva Natalia Ginzburg, il segreto dell’andare avanti?
«Boh».
Roma, Campo de’ Fiori, l’afa di un agosto deserto di persone, la casa all’ultimo piano — senza ascensore —, Patrizia Cavalli affondata sul divano che cerca da dieci minuti una posizione comoda appoggiando i piedi sul tavolino di fronte. Fogli, quadretti, oggetti inutili e medicine sono il paesaggio di questo incontro, che sarà pieno di pause, sospiri, immaginari salti temporali per riacchiappare ora questo ora quel ricordo. Patrizia Cavalli è il nostro maggior poeta vivente.
Perché si fa chiamare «poeta» e non «poetessa»?
«Perché poetessa fa ridere, dai. Non mi è mai passato per la testa l’idea di farmi chiamare poetessa. Sembra quasi una presa in giro».
La stessa Elsa Morante, quando decise di sostenerla, le disse: «Patrizia, sei poeta, sono felice».
«A lei devo tutto, avevamo un rapporto complesso, umorale, esattamente come la sua natura. Ma ricordo un episodio. Una volta eravamo a tavola io, lei e Sandro Penna. Penna c’aveva quella vocetta gne gne e diceva: “Elsa, Elsa, sei contenta di stare a pranzo con due poeti?”. Morante lo gelò: “Io sono più poeta di voi”».
Nata a Todi nel ‘47. In Umbria l’adolescenza. Poi Roma, alla fine degli anni ‘60 per studiare filosofia. Come sono stati i primi anni romani?
«Disperati».
Perché?
«Difficili anche sul piano topografico: mi perdevo nelle strade e siccome mi vergognavo a chiedere informazioni capitava che vagassi da sola per ore o che rimanessi fissa in un posto come un baccalà».
Poi questa casa, dove lei abita dal 1972.
«Prima occupavo un piano della casa di un tizio sposato ma gay. La moglie piangeva sempre e la capivo: aveva scoperto di stare con uno che amava i maschi. Gli innamorati si somigliano tutti».
Lei non è mai stata attratta dai maschi?
«Solo da ragazzina, sui dodici o tredici anni. Mi piaceva il mio vicino di casa a Todi, ma non era un’attrazione erotica. Era un’altra cosa. Più conformista, direi. Era come se stessi sperimentando qualcosa che non capivo bene».
A Kim Novak lei ha dedicato la sua prima poesia.
«Avrò avuto sì e no dieci anni. Quella donna mi faceva impazzire, mi sembrava un angelo. La poesia — la ricordo benissimo — faceva così:
Chi sei tu dunque
Kim, Kim, Kim Novak?
Sei forse l’angelo che appar di tratto?
Sei forse luce, calore e sogno?
Sì vedo, in te vedo il bene, la luce e la speranza.
Credo, in te credo con l’anima mi’ intera»
«Con l’anima mi’ intera», addirittura un’elisione.
«Evidentemente quello mi sembrava vera poesia, quell’attenzione alla lingua».
Sta scrivendo in questo periodo?
«No, non scrivo da almeno quattro mesi. La malattia, dicono, al momento s’è ritirata ma queste maledette cure che ho fatto mi hanno portato via l’energia e soprattutto la memoria. Come si fa a fare poesia senza memoria? La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere. Le parole devono avere una potenza intrinseca, il lavoro del poeta è sceglierle tra tante altre. Ma io non ci riesco sempre ora».
Che cosa prova in quei momenti?
«Una sensazione di impotenza. Il corpo che cede, la stanchezza, la sensazione di non esserci. Perché il corpo è tutto. Il corpo è il teatro delle nostre cose dell’anima, senza il corpo non ci siamo. La memoria è poi anche conforto, con la memoria ci sentiamo interi. Io invece adesso non mi sento la vita davanti. Qualche volta risorge, a tratti e all’improvviso e allora corro a catturarla, a fissarla. Con immagini o con parole».
Il «corpo è tutto»?
«E certo, e di che vuoi parlare, dell’anima? Ma dai. Il corpo è dove sperimentiamo la conquista e la perdita».
Nel libro «Con passi giapponesi» uno dei brani più belli è quello in cui si racconta lo sguardo delle donne sulle altre donne: chirurgico, spietato.
«Vero. Uno sguardo che ho sentito più volte su di me e che ho visto spesso da donna a donna. Come uno sguardo unico, che mai sarà rivolto agli uomini».
Una delle poche cose che nessun uomo riuscirà a mai a prenderci?
«Forse».
Lei ha trascorso molto tempo senza pubblicare.
«Non sono una che apre la bocca per dargli fiato. Ho scritto cinque libri di poesie, è tanto. Non mi pesa stare senza scrivere».
Ma a settembre uscirà una nuova raccolta, «Vita meravigliosa».
«È fuori dal tempo, un libro dove ho messo tante cose. Compreso un poemetto dal titolo “Con Elsa in paradiso”».
Quando Elsa (Morante) decideva chi portare in paradiso si creava la coda: «anche io, anche io!» dicevano tutti. Morante però ci portava sempre Patrizia, perché Patrizia lo meritava.
«Ecco, a un certo punto scrivo “ah come mi piaceva questo andare facile, sicuro, senza dover competere”. Non sono stati anni felici, ma ricordo che succedevano cose, che preparavo cene, che sapevo cucinare benissimo e che c’era sempre tanta gente. Adesso, alla sera, il trovare gente da avere intorno è una preoccupazione».
Non riesce a stare da sola?
«Non mi piace, alla sera non ci riesco».
Quali sono stati i suoi anni felici?
«Non credo che ci siano anni felici. Ci possono essere stagioni felici. O giorni».
Lei racconta di una gita in un paesaggio svizzero e parla di felicità.
«Sì, quella volta sì. C’erano tutte le cose che mi rendono felice. C’era un luogo pianeggiante, d’acqua o di terra, poco importa. Poi c’erano dei sentieri, poi un qualcosa da salire o da scalare. Il bosco. Sì, quella volta sono stata felice».
Bella la parte in cui descrive il cicaleccio delle persone che erano con lei, persone che non stanno bene da nessuna parte e che si riconoscono perché non sanno stare zitti.
«Davvero ho scritto questo? Non me lo ricordo».
Ha scritto tanto di sé.
«Ma nella poesia il lato biografico conta poco. Certo, io ho parlato e parlo tanto di me, le poesie in cui parlo d’altro saranno sì e no un terzo».
Perché?
«Perché ogni tanto la vita mi si ripresenta accanto e allora cerco di catturarla e di scriverla».
Patrizia Cavalli ha una pelle bellissima. Questo è un fatto concreto, qualcosa che può toccare con mano.
«L’ho sempre avuta. Mi dicono anche che ero bella da ragazza ma io non me ne sono mai accorta. Ecco, forse sono stata felice ma non me ne sono accorta. Forse è stato un godimento oggettivo, quello della mia bella giovinezza, ma non soggettivo. Non c’ero e dunque non ho vissuto. A volte si vivono intere vite senza esserci».
(Una delle poesie della nuova raccolta finisce così: «senza sapere che in realtà ero bella»)
Lei è gelosa?
«Moltissimo. Lo sono sempre stata. Gli amori sanno essere diversi l’uno dall’altro e modulare ogni risposta è fatica, ad un certo punto tutto diventa lotta e rivalsa».
E che adolescente è stata?
«Ricordo un anno tremendo, ad Ancona, dove ci eravamo spostati per motivi di lavoro di mio padre. Volevo comandare i giovani ufficiali della Marina che alloggiavano vicino a casa nostra. Avevo promesso loro di rifornirli di divise di nordisti e sudisti, ci avevano creduto. Li comandavo, mi ubbidivano. Ero forte».
Patrizia, ma è vero?
«Nella poesia conta il vero?»
No. Crede in Dio?
«Ma che domanda è?»
Una domanda legittima. Risponda.
«No, piuttosto allora preferisco Apollo».
· Patrizia Valduga.
Patrizia Valduga, la diva della poesia: «Le altre poetesse mi copiano e poi mi odiano». Gianmarco Aimi per rollingstone.it l'8 ottobre 2020. Diva della poesia, maestra della forma chiusa, nostra signora della quartina. È stata definita in tanti modi, quasi sempre in sua assenza. D’altronde, non aveva bisogno di apparire: le opere parlano da sole. Ma per la prima volta Patrizia Valduga, in via del tutto eccezionale, ha deciso di aprirci le porte del suo mondo – artistico ed emozionale – concedendosi a una lunga intervista proprio nella casa che ha condiviso con l’amore di una vita, il grande poeta Giovanni Raboni. «Qui hanno mangiato soltanto Paolo Volponi e Giacomo Manzoni con le consorti» ha premesso. Mitizzata, emulata, vilipesa (non riuscendo a imitarla) è in grado di inserire negli stessi versi l’auto)erotismo e la morte, il sarcasmo più feroce e la malinconia pura, così come la politica senza timore di prendere parte. E infatti porta fieramente una spilletta con falce e martello: «Nel mio cuore sarò sempre comunista». Una lunga chiacchierata nell’abitazione di via Melzo a Milano, dove le librerie hanno preso il posto delle pareti e in bagno sono affisse – in segno di massimo rispetto – le foto degli artisti amati Ian McKellen, Ignacio Matte Blanco, Tadeusz Kantor, Beckett, Testori-Branciaroli, Gassman-Ronconi, Werner Herzog e dei genitori da adolescenti. L’attenzione all’estetica è in ogni dettaglio. Dal pacchetto di sigarette senza immagini delle conseguenze del fumo: «Ho tenuto quelli vecchi e li sostituisco», al manichino vestito di tutto punto che ci accoglie nello studio, fino al teschio (vero) che sorveglia in una vetrinetta i preziosi copricapo anni ‘20: «Questo me l’ha portato un amico da New York. L’ho utilizzato varie volte, per poi scoprire che era una abat-jour…». Dal 1981 è “sulla piazza” come ripete spesso e fra poco festeggerà i 40 anni di attività, ma sarà difficile vederla in eventi promozionali. L’unico lusso che si concede è uno spritz a La belle aurore, un localino in stile déco a cinque minuti a piedi che ha un solo difetto: «Il titolare non mi vuole comprare lo champagne perché dice che è da ricchi». Se volete incontrarla non portate in dono le vostre poesie, meglio la verdura dell’orto: «Adoro i pomodori come niente al mondo, quando sono buoni il profumo è cocaina», anche perché a chi le invia componimenti spedisce «una frase fatta, la copio e la mando». Non ha neppure i social, anzi, scopre di essere su Instagram a sua insaputa proprio mentre ne parliamo: «Che orrore, li denuncerò!», ma su internet ha cercato nuove conoscenze «solo che tutti vogliono dei soldi», perché in fondo, ha confessato, «vorrei morire tra le braccia di un uomo». Quando le ho chiesto di essere intervistata di persona mi ha risposto: «Voler incontrare uno scrittore che si ama è come amare il pâté e voler conoscere l’oca». Si rimane sempre delusi. La persona ha dei limiti, quello che conta è l’opera. È lì che un autore dà il meglio di sé e risulta più vero. Un artista può essere noioso e miserabile dal vivo. Non mi riferisco ai poeti, ma ai romanzieri. La poesia ha un legame più profondo con la logica dell’inconscio: si capisce subito se un poeta bluffa. Non si può essere grandi poeti e nello stesso tempo vili e truffatori. Mentre un narratore può essere anche un delinquente, perché tanto registra il mondo intorno senza parlare troppo di sé.
Visto che lei è una poetessa e quindi non bluffa, partirei dalla sua difesa di Tariq Ramadan, l’icona della sinistra filo-islamica europea accusato di stupro. Sul Fatto Quotidiano scrisse un lungo articolo in sua difesa e fu molto criticata.
«Quale donna entra nella camera da letto di un uomo per consigli spirituali? Io ci sono entrata soltanto quando non mi dispiaceva l’idea di scoparci. Difendo lui e tutti quelli accusati dal Me Too, ma per Ramadan mi sembra che ci sia stato un atteggiamento un po’ razzista, quando hanno detto di lui: «Dice cose giuste e condivisibili ma non le pensa». Come si permettono, sono forse nella sua testa? Se qualcuno lo dicesse di me lo denuncerei. Su Dagospia mi hanno dato della vecchia puttana, che voleva scopare con lui. Non mi piacciono gli uomini più giovani di me!»
Quindi non solidarizza con le donne che hanno denunciato molestie o violenze in questo periodo?
«Il Me Too mi fa schifo. Ci dovrebbe essere una prescrizione anche per le molestie. Come si fa a denunciare dopo 30 anni uno che ti ha toccato il culo o l’altro ti ha toccato una tetta?»
A lei non è mai capitato niente del genere?
«Mai! Sono sempre stata io ad assaltarli. Tutt’al più sono gli uomini che possono accusarmi di violenza. Sono contro queste cose «di genere», perché di generi ormai ce n’è un’infinità? Jules Michelet parlava dei “due sessi dello spirito”. Ecco: penso che gli artisti uomini abbiano la parte femminile più sviluppata rispetto agli altri uomini, e le donne quella maschile».
Eppure, Harvey Weinstein è stato incriminato per altri sei capi di imputazione legati a violenze sessuali proprio in questi giorni.
«Mi fa veramente pena, vorrei testimoniare a suo favore. Ma, lo giuro, non sono così stronza da sostenere in assoluto questa posizione. Se una donna è costretta contro la sua volontà, per non perdere il lavoro, ad esempio, lo trovo detestabile. Ma una donna libera, che invece vuole solo fare carriera, la considero una che si vende. Quelle che sono state con lui e poi lo hanno accusato per me sono delle prostitute, come minimo. E anche Jacqueline Kennedy, che mise per contratto un solo rapporto al mese con Onassis, mi sembra una prostituta. Allora sono meglio quelle che ‘battono’ per le strade di Milano».
Lei fu legata per ventitré anni al poeta e critico Giovanni Raboni. Cosa le manca di lui?
«Che assurdità…mi manca lui. Era un genio! Capiva tutto, prevedeva le mie mosse, i miei pensieri, mi aiutava in tutto. Mi sentivo in una fortezza. Adesso invece sono in balìa di me stessa, della mia solitudine e delle mie angosce. Ho cercato un fidanzato, ma non l’ho trovato neanche in internet».
Non mi dirà che l’ha cercato sui social?
«Macché, sui siti per incontri! Solo che vogliono tutti dei soldi e a me non va di pagare».
Dobbiamo lanciare un appello?
«Per carità! Si fa peggio ancora. Dal vivo nessuno osa. Pensi che chiesi al giornalaio di esporre una mia foto con il numero di cellulare. A fine giornata non mi arrivò neanche una chiamata. Ce ne saranno di persone che passano in Piazza Oberdan, no? In città è molto difficile conoscere gente. Una donna sola non viene mai invitata nelle case private: quando è giovane non la vogliono le mogli e quando è vecchia non la vogliono i mariti. E poi non è neanche una questione estetica, ma di attrazione mentale, di elettricità mentale. Insomma, una persona non intelligente non la reggo».
Effettivamente di poeti c’è scarsità in giro.
«I poeti non li voglio più vedere. Avrei bisogno o di uno psichiatra, che fa sempre comodo, o di un avvocato, per fare tante belle cause, o di un idraulico, visto che ho spesso problemi in casa. Qualcuno che si rendesse utile, insomma. Un poeta no, il confronto con Raboni non è sostenibile».
C’è mai stata una follia che avete fatto insieme?
«Una cosa che i parenti hanno giudicato una follia è stata la fuga con un Cessna dall’ospedale di Kassel in Germania. Raboni aveva avuto un infarto. Quando ancora non poteva alzarsi dal letto, stanco di una lingua che non capiva e del cibo che non gli piaceva, voleva tornare a Milano. Con un po’ di tedesco e un po’ di inglese ho organizzato il viaggio: lui, io, due medici e un pilota. Un’ambulanza ci aspettava a Linate. Era il 1987: ci è costato 12 milioni».
Non mi dica che è l’unica in ventitré anni.
«Quello che faccio di solito è folle per tutti ma non lo è per me. Raboni, invece, era una persona molto riservata. Amava rileggere Dickens, Flaubert, Dostoevskij e la Austen. Era questo il suo piacere: più della poesia. La prima volta che siamo andati a Parigi insieme, mi disse: «Abbiamo un pomeriggio libero: cosa vuoi fare?» Ero incerta se andare al mercato delle pulci, oppure a portare dei fiori alla tomba di Céline. Siamo andati a Meudon: un viaggio vero e proprio. Gli portai un gran mazzo di roselline selvatiche. Avrei fatto meglio ad andare al mercato delle pulci. Raboni si comprava le camicie usate a Porta Portese: aveva una eleganza innata. Gliene regalai io una nuova, di lino blu, che mi costò un capitale. Ci sono poeti che portano vestiti firmati ma sembrano dei mendicanti, Giovanni invece era vestito con abiti vecchi eppure sembrava un aristocratico».
Non le manca un figlio?
«No, ho abortito nell’87. Mi sentirò sempre figlia… Se non ho mai dimostrato i miei anni è anche per questo. Non si invecchia scendendo gradino per gradino, ma si precipita rampa dopo rampa. Si rimane tramortiti per un po’ e poi si riparte. L’ultima rampa l’ho scesa l’anno scorso e spero di rimanere così ancora per un po’. L’età che uno dimostra è la media aritmetica di tutte le sue età, soprattutto quella affettiva, erotica e intellettuale. Certo, ci sono anche l’età biologica, anagrafica e sociale, ma contano meno. La mia età affettiva è 14 anni, l’età intellettuale 80, e quella erotica 2».
E tutto l’erotismo presente nelle sue poesie?
«Appunto, è un erotismo che non ha 2 anni. Le poesie erotiche ognuno le legge con la propria sensibilità. Per Moni Ovadia sono “arrapanti”, per un amico con problemi psicologici “drammatiche”, per uno psicotico che mi ha mandato un commento “tragiche”, per mia sorella che vede l’aura delle persone “mistiche”. Non so più cos’è l’erotismo, non lo chieda a me. Ogni stagione ha i suoi modi di interpretarlo. Nell’800 era erotico se una donna mostrava la caviglia, oggi forse se una si spoglia sul cellulare. Cosa vuole che ne sappia, io non ce l’ho quella roba lì».
Non usa gli smartphone?
«No, ho un vecchio telefonino perché quelli nuovi non mi stanno in tasca. E siccome detesto la borsetta, preferisco questo che è abbastanza piccolo. E deve chiudersi, se no mi partono le chiamate senza che me ne accorga».
Almeno il computer lo usa?
«Quello sì, però, a dire la verità, non ho la connessione internet a casa. L’ho avuta, ma il modem si scaldava e rischiavo di far sciogliere la scrivania di Raboni. In più, se andava via la luce si bloccava la linea del telefono di casa e questo mi metteva in ansia. Mi hanno regalato questo telefonino, ma lo uso solo per internet con l’hotspot. Le cose tecniche… Se penso alla lavatrice…»
Cosa le è successo?
«Mi si era rotta e così ne ho comprata una nuova. Ma sa cosa vuol dire vivere sola? Sono riuscita a prenderne una da otto chili. Ha un oblò grande così! Mi fa paura. Non l’ho ancora usata, ci sta dentro troppa roba. Potrei fare il bucato per un esercito».
Alcune settimane fa un altro suo articolo ha fatto parecchio discutere, dove sosteneva di non confondere i “grandi” col pop. Così come in passato disse di voler morire prima che a Milano venga eretta una statua ad Adriano Celentano. Non ha un buon rapporto con la musica contemporanea?
«Adriano Celentano non lo prendo neanche in considerazione. Non me ne frega niente di quel tipo di musica. Non ho mai visto Sanremo in vita mia. Mi fanno schifo anche Francesco De Gregori, Paolo Conte e Roberto Vecchioni. Li detesto tutti quanti. In quell’articolo dicevo che si intitolano strade e giardini e aiole e crocicchi a persone che hanno qualche notorietà, non una vera importanza culturale: glorie passeggere. Un artista dovrebbe essere giudicato dal suo spessore estetico e morale e non dalle vendite. Non avevo nessuna simpatia neppure per David Bowie, ma quando è andato alla trasmissione di Celentano e ha detto: «Appena l’ho visto ho capito subito che era un idiota», l’ho amato immediatamente. Deve essere stato molto intelligente…»
Una delle sue caratteristiche in poesia è di aver sempre scelto la forma chiusa. Oggi però sembra sempre più raro trovare qualcuno che la utilizza.
«Qualcuno in giro c’è ancora. Quando mi chiedono come mai non uso il verso libero, rispondo che non esistono versi liberi, ma io personalmente non saprei quando andare a capo. Non li so fare. E poi è un mio piacere personale. Imparo a memoria le poesie che amo, per lo più in rima. Da Guittone d’Arezzo a Giovanni Raboni. E anche gli stranieri, per esempio ne so a memoria diverse di Baudelaire. Ne vuole sentire una?»
Certo…
«Si intitola À celle qui est trop gaie. Ta tête, ton geste, ton air/Sont beaux comme un beau paysage;/Le rire joue en ton visage/Comme un vent frais dans un ciel clair…»
Di poeti non ne vuole più conoscere, ma di poetesse ce ne sono moltissime che vorrebbero frequentarla o farle leggere le loro poesie. Basta scorrere sui social o il web.
«Le poetesse, o mi detestano soltanto o mi copiano e mi detestano insieme. Sono sulla piazza dal 1981 e ho sempre detto i miei versi a memoria e per la successione delle quartine, scrivevo su un foglietto il primo verso, lo guardavo per ricordarmi l’inizio e poi lo mettevo in tasca. Adesso lo fanno in parecchie, anche davanti a me! Non ne posso più… Ma, dico, non si ha neanche un po’ di carattere, un po’ di personalità? È da una vita che non voglio assomigliare a nessuno».
Alle giovani poetesse che copiano il suo stile, cosa consiglia?
«Magari fossero le giovani, sono più decrepite di me… Ecco il mio consiglio: leggete qualcuno di più bravo, come Pound, Baudelaire e Raboni. Se vi annoiate con questi tre, la poesia non è la vostra partita, datevi a qualcos’altro. Non si può esser poeti se ci si annoia leggendo i grandi poeti. Io non mi annoio neanche con i più piccoli».
Quindi di oggi non c’è nessuno o nessuna che apprezza?
«Non leggo più i vivi. Preferisco stare con i morti. E poi è inutile fare le antologie delle poetesse italiane, come l’ultima della poesia femminile del ’900. Allora fai anche quella maschile. Vuoi leggere qualcosa di femminile? Leggi gli uomini. Vuoi leggere qualcosa di maschile? Leggi le donne».
L’ultimo che l’ha stupita?
«Francamente nessuno. Quando ho fondato la rivista Poesia, quelli che mi piacevano li ho pubblicati lì. Purtroppo, sembra che il Covid sia arrivato a mio personale nocumento. Per la prima volta stavo organizzando a Milano, alla Centrale dell’Acqua, un ciclo di incontri che si intitolava “Rime alla ribalta con quattro poeti, Marco Ceriani, Riccardo Held, Gabriele Frasca e Emilio Rentocchini”. Loro oggi sono i migliori nella forma chiusa».
Com’è che fondò la rivista Poesia e rimase soltanto un anno?
«Perché Nicola Crocetti mi ha esasperata. Pensi la cattiveria delle persone, ho inventato la rivista e l’ho costruita materialmente, poi l’ho lasciata a lui e me ne sono andata. Dopo il lancio aveva un pacco di ritagli stampa alto così, a detta sua. E lui, per tutta gratitudine, non mi ha mai recensita. O meglio, mi ha fatto stroncare un libro da un’altra poetessa e ultimamente dichiara che l’ha fondata lui. Ma se qualcuno va a vedere i primi numeri, la differenza salta agli occhi. Io avevo copiato Il Politecnico di Albe Steiner e la copertina era a riquadri, variabili. Quella di Crocetti sembra il diario delle signorine, una vera ‘enciclopedia della fanciulla’. Una sola foto in copertina e la scritta Poesia non più quadrata ma con i ricciolini. Insomma, la mia sembrava fatta da un uomo, la sua da una donna. Ma il problema di Crocetti è di non essere un poeta».
Quali sono i suoi poeti preferiti?
«Quello a cui torno più spesso è Raboni. Poi Pascoli, prima di lui Tasso, e ancora più indietro Dante e Petrarca, ora l’uno ora l’altro».
E Patrizia Valduga che posto avrà nella storia?
«Non ne ho idea, ma non è cambiato niente rispetto al passato. Ci sono poche persone con orecchio, animo, cuore, spirito e mente per godere della poesia. La maggior parte vuole cose facili e leggere. Ai tempi di Virgilio non era lui il più grande poeta, ma Ennio. Quando lo hanno accusato di rubare da Ennio, ha risposto che era sua facoltà trovare perle nei letamai. Marziale è scappato da Roma andando a Imola dicendo sarebbe tornato appena diventato un citaredo (suonatore di cetra, lira o arpa, nda), un cantautore, si direbbe oggi. Solo quelli piacevano già allora. Andando avanti, crede che Baudelaire fosse il poeta più importante nella sua epoca? No! Era Béranger, che nessuno legge più, né in Italia né in Francia. Quindi, cosa dobbiamo aspettarci…. Oggi vanno per la maggiore quattro poeti, che spacciano per poesia la degradazione facile, addomesticata della poesia, con belle e nobili parole, invece la grande poesia è per pochi e sempre lo sarà. Crede che tra duecento anni sapranno chi erano Umberto Eco o Andrea Camilleri? Non credo, ma leggeranno ancora Paolo Volponi».
E pensare che la poesia spopola sui social. Ho visto che anche lei ha un profilo su Instagram.
«Come ho un profilo su Instagram? Ma quella non sono io. E vedo che pubblica delle poesie con delle immagini porno, che orrore! Lo dica che non mi faccio pubblicità in questo modo. Solo 70 followers, poi? Poveracci! È uno sfruttamento, li denuncerò! Anche su Facebook ho dovuto far cancellare delle pagine. Una volta arrivo a Ravenna e una persona mi dice: «Sono contento che ti piaccia il jazz». Cosa? Io detesto il jazz! Allora, se uno usa il mio nome per dire quello che faccio, va bene, ma non se lo usa per esibire i suoi gusti personali».
Le propongo alcuni versi dei poeti social più seguiti in questo momento. Cosa ne pensa?
«È poesia? Oddio, poi i versi messi a bandiera sono insopportabili. Che schifo!… non hanno niente a che fare con la poesia, vanno solo a capo. D’altronde neanche i giornalisti sanno cos’è la poesia, così come i critici, per cui non c’è da stupirsi. Vuole sentirne una vera? Una delle Canzonette Mortali di Raboni».
Molto volentieri.
«Le volte che è con furia / che nel tuo ventre cerco la mia gioia / è perché, amore, so che più di tanto / non avrà tempo il tempo / di scorrere equamente per noi due / e che solo in un sogno o dalla corsa / del tempo buttandomi giù prima / posso fare che un giorno tu non voglia / da un altro amore credere l’amore».
Per la poesia è fondamentale l’esposizione orale?
«Sì, e io so dire i versi meglio di chiunque altro, e a memoria. Se me li facessero leggere alla radio, sarei la persona più felice del mondo. Qualcuno mi ha detto che la mia voce e i miei versi messi insieme sono un propellente per missili… Chissà, magari potrei far scopare chi non scopa da tempo… Che qualcuno mi faccia lavorare in una radio! Ma ci pensa, sono sulla piazza dall’81 e mi avranno invitato sì e no tre volte».
Quando la definiscono “la diva” della poesia italiana le fa piacere?
«Mi piace! Amo molto gli anni ’20 e ’30, però non sono una diva, mi piacciono quelle dive. È da quando ho 14 anni che giro i mercatini dell’usato per vestirmi. Guardi il video “Nove lustri di Valduga” su YouTube, che vestiti stupendi possiedo. Io amo il cinema muto. C’è un film di Sternberg che si intitola Underworld, in italiano Le notti di Chicago, dove la protagonista è sempre vestita con delle piume. La prima volta che l’ho visto ho detto a Raboni: «Mi sento male, muoio, voglio quelle piume!»».
Si è mai pentita di aver scelto la strada della poesia?
«Non l’ho scelta. Sa come è avvenuto? Volevo diventare medico, anzi, come molti un po’ fuori di testa, psichiatra. Siccome non ce l’ho fatta, ho ripiegato su una facoltà meno impegnativa come Lettere. Ma già quando frequentavo Medicina avevo letto tutto Landolfi e Céline al posto di Anatomia, che ai miei tempi erano sei volumi in con foto in bianco e nero e non si vedeva un accidente. Un giorno, durante il corso su Mallarmé, vedo un professore di filosofia sul ciglio di un canale a fissare l’acqua. Magari voleva solo pisciare, invece io ho pensato che volesse buttarsi. Allora gli ho scritto un sonetto e l’ho sedotto. Però il piacere che ho provato nell’accoppiarmi con lui è stato nettamente inferiore a quello che ho provato nello scrivere il sonetto. Così, con lui è finita, invece i sonetti sono continuati».
Quale considera il suo capolavoro?
«Sono affezionata a Belluno. Avevo appena visto in Tv una mediocre edizione del Don Giovanni quando sono partita da Milano: un po’ quella visione, un po’ l’amarezza che il Corriere della sera non mi avesse aiutato per intitolare il Lazzaretto a Raboni, tutto insieme quel groviglio di pensieri mi ha portato al "punto di sella". Il "punto di sella" è molto affascinante. Ha spiegato questo concetto nel volume Per sguardi e per parole (Il Mulino) e in un incontro a Parma con il neuroscienziato Vittorio Gallese. È quel punto in cui due sistemi contrapposti stanno in equilibrio. È così: si sta bene, ci si sente vivi quando c’è equilibrio tra razionalità e sentimento o, per dirla con il più grande teorico della psicoanalisi dopo Freud, Ignacio Matte Blanco, tra logica asimmetrica e logica simmetrica, cioè tra le due logiche che governano la mente. E che cos’è l’arte, la poesia, se non questo punto di equilibrio? Come dice una quartina Omar Khayyâm, poeta persiano vissuto nel XII secolo, ritradotta da me: "Se sono sobrio, ogni gioia è proibita, / ubriacato, è svanita. / Ma c’è un momento, tra ebbrezza e sobrietà: / lui mi possiede, lui solo è la vita"».
Da quanto non lo raggiunge?
«Da anni. Speravo che mi aiutasse a settembre a recuperare un po’ di emozione Christian Thielemann, che avrebbe dovuto dirigere Strauss al Teatro alla Scala, ma è stato annullato. Il Covid mi ha rovinato intellettualmente, sono anche un po’ rimbecillita… e disperata! Comunque, scrivendo Belluno ho rischiato di andare veramente oltre».
In che senso?
«A un certo punto tutto quello che dicevo e scrivevo era in endecasillabi. Anche quando uscivo a fare la spesa camminavo a due metri da terra. Ho avuto un ‘punto di sella’ ininterrotto di dieci giorni. Non vedevo l’ora di alzarmi la mattina per leggere quel che avevo scritto e vedere se mi faceva ancora ridere. È stato bellissimo. Con tutti i miei libri è stato più o meno così. Non metto mai insieme poesie, ma è una massa che arriva di colpo come una valanga. Torna ogni sette-dieci anni. Belluno quindi è il più sincero e strampalato, ma a un certo punto ho avuto paura».
Addirittura, ha avuto paura?
«Perché le rime arrivavano con una tale violenza che un giorno ero seduta alla scrivania e hanno cominciato a formarsi versi nella mia mente che non avevano nessun senso: ero passata dall’altra parte, nel delirio del sogno che non si deve avere da svegli. Di solito ce l’hanno i pazzi! Mi sono stesa sul divano ferma immobile e non ho pensato più a niente. Era la prova del "punto di sella". Anche Proust ne La Recherche parla di questo momento in cui si inizia a sentire la propria voce, prima che ci si addormenti, che dice cose assurde».
È una delle poche che attraverso la poesia esprime anche concetti politici, con vere e proprie prese di posizione. Che giudizio ha dell’attuale classe politica?
«In questo momento benedico, anzi, voglio bene a Giuseppe Conte. Prima pensavo che avesse bisogno di un logopedista, poi mi ci sono affezionata. Mi sembra una persona che si comporta con grande dignità e onestà. Ma nel mio cuore, non posso negarlo, sono e sarò sempre comunista».
Non ha timore di essere etichettata?
«No, e trovo spaventoso che paragonino il nazismo o il fascismo al comunismo. Ho fissata nella mente una frase di Kazimierz Brandys che dice: «Il nazismo era il male evidente, il comunismo lo stravolgimento del bene». Sono sicura che arriverà prima o poi una società in cui ci sia giustizia sociale ed economica e rispetto e dignità per tutti. Non è forse questo il comunismo?»
Ma nei vari schieramenti, a parte il premier Conte, c’è qualcuno che apprezza?
«Berlusconi è stato una vergogna. Però, più che Berlusconi, che ormai è un vecchio deforme con un piede nella fossa, mi faceva orrore la gente che lo sosteneva. Salvini lo considero osceno. Quando prende in mano il rosario dovrebbe essere denunciato per oscenità in luogo pubblico. La Meloni come apre la bocca mi si chiudono le orecchie. Renzi all’inizio l’ho votato e sostenuto nel referendum, per salvare il governo, però ho preso un abbaglio e mi pento amaramente. Apprezzavo anche Cofferati e Bertinotti, ma sono state altre due grandissime delusioni. Invece non sopporto Veltroni, che ama sentirsi parlare. Un giorno lo ascoltavo in un dibattito con un fascistone come Staiti di Cuddia che, rispetto a lui, parlava un italiano stupendo, che mi ha mandato in estasi».
Lei ha affiancato alla poesia anche un meticoloso lavoro come traduttrice. Quali autori ha più amato?
«In poesia mi considero un piccolo epigono, ma come traduttrice nessuno al mondo è più bravo di me. Ne ho tradotti diversi, come Donne, Mallarmè, Flaubert… Forse la mia traduzione migliore è quella di Carlo Porta. Ma nessuno mi cita, nessuno mi ha mai invitata a parlarne e ho perso tutti i premi a cui ho partecipato. Eppure, sono la migliore».
Sembra ferirla il non vedere riconosciuto questo merito.
«Non mi ferisce non avere avuto riconoscimenti, che vadano a quel paese, peggio per chi non capisce. Una persona onesta prova piacere a fare le cose quando gli vengono bene. È lì che gode. Poi se arrivano premi e complimenti tanto meglio, ma è un fattore narcisistico. Lavorare scrivendo e traducendo e soprattutto arrivando al "punto di sella", questi sono i veri piaceri. Vuole un esempio?»
Sono qui apposta.
«Ho visto il Riccardo III di Ian McKellen e non ho capito niente, ma sono rimasta incantata. Così mi misi a tradurlo. Quando Riccardo seduce Lady Anne, alcuni hanno tradotto: “Ho ucciso vostro marito e sarei pronto a uccidere il mondo intero per vivere un’ora solamente nel vostro dolce grembo”, oppure “per vivere un’ora soltanto nel tuo dolce seno”. Io ho dovuto rinunciare, dolorosamente, a “dolce”, però senta che dolcezza il mio endecasillabo perfetto: “Per un’ora di vita in grembo vostro”».
Quali sono per lei le traduzioni peggiori?
«Il Baudelaire di Bufalino e il Proust di Fortini».
E nella narrativa chi sono i suoi punti di riferimento?
«Volponi e Landolfi. Ho amato anche Federigo Tozzi. Mi è capitato di vedere in televisione Mauro Corona con alle spalle due libri girati di copertina, uno suo e l’altro di Martin Heidegger. Roba da non crederci, ho cambiato canale. Ricordo il confronto Tv a Mixer cultura fra Giovanni Raboni e Aldo Busi, che fu presentato come il più grande scrittore contemporaneo. Ricordo bene quando Corrado Augias lo invitò presentandolo come il più grande scrittore e Busi entrò quasi danzando: Raboni si arrabbiò moltissimo. Nel libro che si intitola Meglio star zitti è contenuto un articolo che inizia così: “Scherzava? Non scherzava?”. Io non sono mai riuscita a leggerlo. Le sue vere provocazioni non sono state quelle sessuali, quanto l’essersi permesso di riscrivere il Decameron di Boccaccio, una cosa inconcepibile per me».
Ma esiste ancora la critica letteraria?
«Se lo chiedeva già Raboni negli anni ’70. Penso che succeda qualcosa di fisiologico. Un giovane e appassionato trova delle cose belle e interessanti, poi invecchia, le emozioni non gli arrivano più come prima, gli amici si rincoglioniscono, si imbolsiscono e si ingaglioffiscono e comincia a dire di tutto “è peggiorato”. E così si inizia verso i 50 anni a sostenere che la lingua è in decadenza, che le frasi sono ripetitive, che non se ne può più. Io lo posso dire alla mia età, ma un giovane no. Crediamo che peggiorando noi, il mondo peggiori. Invece era uguale anche prima».
Una visione particolarmente pessimistica.
«Si guardi intorno, sono tutti attaccati al cellulare, ma a volte penso che, forse, è meglio guardare il telefonino che quello che ci circonda. I tromboni ci sono sempre stati, solo che adesso i tempi fanno veramente schifo, bisogna dirlo. Non sono solo io a essere peggiorata. Prenda il canale 5 della radio: ci infilano persino la pubblicità, oltre alle musiche da film… Ci sono scrittori che accettano di essere recensiti sui social. Ma io voglio il giudizio di persone competenti e autorevoli, non di quello che passa per la strada. Sennò vado dalla portinaia a chiedere cosa ne pensa. Ai tempi di Raboni almeno c’era lui a dire qualcosa sul Corriere della sera».
Qual è il suo primo ricordo di bambina?
«Gli incubi notturni. Ne ho parlato nel Libro delle laudi. Ne facevo ogni notte ed erano tutti abbastanza simili: persone con amputazioni, facce spaventose, che io non volevo vedere, che mi arrivavano davanti e mi svegliavo con la tachicardia. Ho scoperto che nascevano dalle sovrapposizioni dei visi, che quindi si deformavano».
Crede in Dio?
«Quando è morto mio padre Raboni mi ha visto disperata. Non ricordo cosa gli dissi, però lui mi rispose: “Ma noi crediamo nelle anime”. Aveva ragione, come sempre. Anch’io credo alle anime. Non solo delle persone care, anche dei grandi che amo. A volte è come se li sentissi vicini. Una volta mentre traducevo Shakespeare, ho avuto la netta sensazione che fosse al mio fianco e mi sorridesse».
Come vorrebbe morire?
«Presupponendo che io sia viva – perché si è vivi se si ha un po’ di energia psico-erotica e io non ce l’ho, mi sento premorta, un fantasma, un cadavere – però, presupponendo che io sia viva, vorrei morire tra le braccia di un uomo».
· Pier Filippo d’Acquarone.
Pier Filippo d’Acquarone. Pronipote del ministro che fece cadere il Duce. «Ho cercato la verità sullo zio Cesare, ucciso nel 1968 ad Acapulco». Il mio bisnonnoToscanini rifiutò il fascismo, io i lacchè. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Stefano Lorenzetto. Si è dimesso sei anni fa per «non tirare fuori la lingua», che nel suo linguaggio felpato significa non dover leccare stivali. Noblesse oblige. Oggi il duca Pier Filippo d’Acquarone non ha né stipendio né pensione. Pochi dei telespettatori che lo vedevano condurre il Tg4 conoscono gli enciclopedici intrecci familiari di questo giornalista «colto, distinto, rassicurante» (Klaus Davi, massmediologo). È nato a New York dieci giorni dopo la morte del bisnonno Arturo Toscanini. La madre Emanuela di Castelbarco Pindemonte Rezzonico era figlia di Wally, secondogenita del celebre direttore d’orchestra e sorella di Wanda, che sposò il pianista Vladimir Horowitz. Il nonno, Pietro d’Acquarone, ministro della Real Casa dal 1939 al 1944, fu il tessitore del colpo di Stato che il 25 luglio 1943 portò alle dimissioni e all’arresto di Benito Mussolini e alla nomina del maresciallo Pietro Badoglio a capo del governo. La nonna, Maddalena Trezza di Musella, era l’erede della società anonima finanziaria che ebbe in appalto dal Regno d’Italia l’esazione di dazi e tributi in oltre 700 Comuni. Lo zio, Cesare d’Acquarone, ex amante di Eleonora Rossi Drago, l’attrice reduce da infelici relazioni con Amedeo Nazzari e il principe Alfonso di Borbone, fu assassinato nel 1968 ad Acapulco dalla suocera.
Manca all’appello solo suo padre, il duca Luigi Filippo d’Acquarone.
«Il titolo di duca e la “d” apostrofata furono due regalie di Vittorio Emanuele III al nonno, che aveva anche insegnato al principe Umberto come si va a cavallo. I miei si separarono quando avevo 5 anni. Papà faceva il floricoltore a Sanremo. Io andai a stare a Roma con la mamma. Vissi le sue storie d’amore, la più lunga con Aldo Borletti, l’industriale dei “punti perfetti”, detto Micio. Non potevo raggiungere mio padre in Liguria. Lui si risposò ed ebbe altri due figli, fatti nascere a Londra per non dare scandalo».
Credevo che aveste abitato insieme nella tenuta veronese della Musella.
«Solo per brevi periodi. La villa settecentesca è stata poi venduta dai miei fratellastri a un magnate russo, o forse kazako, che la usa di rado. Sua moglie, patita di agricoltura biologica, pare abbia piantato rapanelli nel giardino che mia nonna Maddalena fece disegnare a Russell Page, l’architetto del verde prediletto da Gianni Agnelli. A me sono rimasti 5 dei 400 ettari di parco, un legato in sostituzione della legittima, oltre alla casa dell’ultimo mezzadro e a un posacenere di bachelite che ho ritrovato nell’emporio della Comunità di Emmaus».
Suo padre era iscritto alla sezione del Pci di San Martino Buon Albergo.
«La tessera non l’ho mai vista. Però è vero che lo chiamavano “il duca rosso”. A Sanremo coltivava le rose e andava a venderle con il motocarro Ape, come i suoi operai. Girava in Fiat 500 Giardinetta o in Citroën Ds Pallas, mai avuta la Ferrari. La svolta comunista avvenne da presidente della società Trezza, quando nel municipio di una grande città il sindaco gli donò una Divina Commedia dicendogli: “A casa legga alla pagina 320”. Dentro c’era una mazzetta che avrebbe dovuto agevolare l’appalto per la riscossione delle tasse. Si dimise e cambiò mestiere».
Un puro.
«Un mite, chiamato Celeste per il colore degli occhi. Di poche parole. Difficile conversare con lui su un tema che non fosse la caccia. A differenza di mia nonna Wally, gran chiacchierona che riuscivo a reggere solo tappandomi le orecchie, non parlava mai di chi non conosceva. Gli presentai due mie compagne ed entrambe le volte sbuffò: “Stai perdendo tempo”. Una volta gli dissi che volevo andare in analisi. “Vai a puttane”, ribatté».
Lei quante mogli ha avuto?
«Due. La prima fu Antonella, la più giovane delle quattro figlie di Federico Gallarati Scotti e Lavinia Taverna, suoceri adorabili che mi adottarono. La seconda Elizabeth Dallimore Mallaby, meglio conosciuta come Spray Mallaby, la bionda con il flauto dei Gatti di Vicolo Miracoli delle origini. La conobbi a Rete 4 e la invitai a cena. “Che peccato, devo sposarmi fra una settimana”, si scusò. Passati tre anni, tornò a cercarmi».
Davvero Elizabeth è figlia di una spia?
«Di due spie, Cecil Richard Mallaby e la moglie Christine, inglesi. Il padre, paracadutato per due volte nel lago di Como, ebbe un ruolo decisivo nelle trattative fra gli Alleati e Badoglio che l’8 settembre 1943 condussero all’armistizio».
Dal matrimonio è nata la sua unica figlia, Viola Veronica, giusto?
«Sì. In arte Veyl, musicista elettronica. Per la Sony classical ha lavorato ai cd di Enzo Bosso e all’album “Mina Fossati”».
Sua figlia ha dichiarato che il trisavolo Arturo Toscanini «si metterebbe le mani nei capelli» se ascoltasse la sua musica.
«Non credo. Ne sarebbe incuriosito. E chissà che cosa direbbe di Nicoletta Gemnetti, collega della Radiotelevisione svizzera, la meravigliosa compagna che mi sopporta da 17 anni. Sa, il mio bisnonno aveva un credo: “Una sola famiglia, una sola patria”. Fu tenuto al riparo dalle turbolenze sentimentali di mia nonna Wally, corteggiata da Gabriele D’Annunzio, alle cui profferte mai cedette perché diceva che la sua bocca la faceva inorridire, e di Charlie Chaplin, che la volle conoscere dopo essersi innamorato di un suo ritratto oggi custodito da me. Prossimo alla fine, si dispiacque molto di non poter vedermi nascere».
Perché ha fatto il giornalista?
«Il mio sogno era diventare regista. Mi comprai una reflex. Wally inorridì: “Sarai mica frocio come Luchino?”. Parlava di Visconti, del quale si vociferava che fosse figlio naturale di mio nonno. Mi affidò all’amico Valerio Zurlini. Avrei dovuto diventare suo assistente alla regia in Di là dal fiume e tra gli alberi, un film che non fu girato. Dopo la naia, andai a vivere a New York. Entrai alla Rai corporation, dove Antonello Marescalchi mi commissionò un documentario di tre minuti sulle foche uccise a randellate in Canada. Mai andato in onda: troppo sangue. Quando la Abc fece un accordo con la Mondadori per Rete 4, fui comprato da Silvio Berlusconi insieme con i mobili».
Nel 2014 se ne andò. Perché?
«Intervistai più volte il Cavaliere e nessuno mi disse mai: “Fa’ così, fa’ cosà”. Da Emilio Fede, che è stato mio direttore per quasi 30 anni, una lezione potevo accettarla, perché era un fuoriclasse. Da altri no. Un conduttore tv tiene le sue opinioni per sé e non fa da megafono a quelle altrui. Al Tg4 arrivò Giovanni Toti. Poi Mario Giordano. Lo accolsi recuperando quattro riposi arretrati. L’ultimo giorno che ero a casa, mi chiesi: ma perché dovrei tornare a stringergli la mano? E non mi ripresentai mai più al lavoro».
Invece il rapporto con Fede com’era?
«Schietto, con momenti di elevata ostilità. Una volta mi scaraventò addosso un’intera pila di libri, che purtroppo colpirono il collega Mauro Buffa. Bastardissimo come tutti i direttori, se ti ammalavi tirava fuori il meglio dalla sua agendina per farti curare. Molti redattori, io compreso, gli devono la vita».
Toscanini espatriò dopo essere stato schiaffeggiato a Bologna dallo squadrista Guglielmo Montani per non aver eseguito «Giovinezza». Che avrebbe detto del pronipote in un tg di centrodestra?
«Di sicuro mi avrebbe dato del pirla».
Suo zio Cesare fu ucciso ad Acapulco quando lei aveva 11 anni. Come lo seppe?
«Ero con mia madre nel Castello di Avio, che nel 1977 avrebbe donato al Fai. M’informò mentre in auto accorrevamo a Verona. Lo zio, appena 42 anni, aveva fondato la Aeralpi e sposato Claire Diericx, splendida ventenne, figlia di un diplomatico belga con la faccia da nazista. Mio padre si rifiutò di partecipare ai funerali nella tenuta della Musella».
Per quale motivo?
«Quando era uscito dalla società Trezza, suo fratello gli aveva bloccato i conti in banca. Papà non ha mai creduto che Cesare fosse stato ammazzato “per errore” con cinque colpi di pistola dalla suocera messicana Sofia Bassi de Celorio, che si autoaccusò del delitto. La Walther 32 non spara a ripetizione».
Secondo lei, che cosa accadde?
«Sulla scena del delitto c’erano altre persone insieme con Claire e sua madre, forse il padre e il fratello, forse la bambinaia inglese Nancy Hargreaves. La vedova non ereditò, quindi il movente non va cercato nei motivi d’interesse. Nel 1973 in Messico ebbi un incontro con mia zia. Capii che sapeva, ma che non voleva raccontarmi la verità. Credo che viva ancora là, quasi cieca. Invece la figlia Chantal, mia cugina, si è trasferita in Italia. Da ragazzo a volte fui loro ospite sulla Montecristo, una motovedetta militare adattata a yacht che tenevano ancorata in Costa Azzurra, dove mia nonna Maddalena Trezza possedeva Villa Isoletta».
Benché i titoli nobiliari siano stati aboliti dalla Costituzione, si sente duca?
«No».
Vede in giro padri nobili della patria?
«Li devo cercare tra i defunti. Conducevo il Tg4 delle 19 quando Giovanni Falcone cadde nella strage di Capaci. Ai funerali a Palermo vidi Paolo Borsellino e capii che avrebbe fatto la stessa fine».
Conosce qualcuno di casa Savoia?
«Vittorio Emanuele, la moglie Marina e il figlio Filiberto, superficialmente».
Si trova meglio con Conte e Di Maio.
«Ora non esageriamo».
Pier Luigi Duvina, presidente della Consulta dei senatori del Regno, mi disse: «Solo il re è super partes, perché non deve concedere favori per essere eletto».
«Per quello resiste ancora la monarchia da qualche parte del mondo. Però io mi sento molto democratico. Sono lontano da tutti gli “ismi”. Ho votato Pri e Pli, mai Forza Italia o più a destra».
Che significa essere nobili?
«Avere comprensione verso gli altri».
· Piero ed Alberto Angela.
Mario Manca per vanityfair.it il 12/10/2020. Se Piero Angela è arrivato a 91 anni con la stessa energia e lo stesso entusiasmo che aveva quando mise per la prima volta piede in Rai nel 1951 deve dire grazie al colesterolo e alla glicemia. «Le ho entrambe basse, e questo vuol dire che il sangue circola ancora bene. Se non si hanno delle malattie gravi, si può e deve continuare» spiega al telefono dalla sua casa di Roma, prendendosi le pause giuste e nuotando nei ricordi come se la memoria fosse un’enorme piscina da perlustrare a bracciate e a sforbiciate. Dopo il successo dell’ultima edizione di SuperQuark andata in onda nella prima estate post Covid-19 della nostra storia, Angela torna su RaiPlay con il secondo ciclo di episodi di SuperQuark+, 10 racconti di scienza della durata di 15 minuti che cercano di affrontare gli argomenti più diversi in maniera completa, chiara, mai volgare. Un invito ai giovani a rimanere informati e a stare attenti, vigili verso un futuro ricco di insidie che dovrà fare i conti non solo con la denatalità crescente, ma anche con un aumento sempre più alto di anziani cui versare la pensione. «Secondo le proiezioni di uno studio commissionato dall’università di Washington, l’Italia in futuro potrebbe avere una popolazione di appena 28/30 milioni di abitanti. La classe produttiva dovrà reggere non solo i pensionati, ma anche i giovani che dovranno impegnarsi per pagare le pensioni. Oltre a questo, sarà necessario che il nostro Paese sia competitivo sul piano internazionale, altrimenti il debito pubblico per ognuno di noi salirà e nessuno comprerà più i nostri titoli di Stato, cosa già in corso d’opera, tra l’altro». Piero Angela, giornalista, divulgatore, 38 libri all’attivo e 11 lauree honoris causa appese alle pareti, però, ci tiene a sottolineare di non essere un «profeta di sventure», ma solo un messaggero: «Dobbiamo dimostrare che il futuro non sarà così, il tempo è brevissimo». Il giorno dopo la conferenza di SuperQuark+ tutti hanno parlato delle sue dichiarazioni sul Covid-19, quando spiegava che sarebbe dovuto intervenire l’esercito per controllare il corretto utilizzo delle mascherine da parte dei cittadini. Si aspettava tanto clamore?
«Qualsiasi cosa dicano i personaggi viene spesso utilizzata per fare dei titoli. Una volta non era così, credo che ci sia molto sensazionalismo oggi nell’informazione».
Per questo è finito nei Trend Topic di Twitter: ha famigliarità con il digitale?
«No, per niente. Non sono né su Facebook né su Twitter, non ho nessuna chat. Niente. Dico sempre che mi piace navigare su un’altra tastiera, quella del pianoforte. Tutto il tempo che gli altri spendono per questi interventi io lo dedico alla musica».
Eppure SuperQuark+ sbarca proprio su una piattaforma digitale, RaiPlay.
«Molto si sta spostando lì, soprattutto i giovani. Le interazioni digitali li attraggono di più».
Il format prevede puntate molto brevi che, però, lei aveva già «predetto»: negli anni Ottanta testò le Pillole di Quark che duravano appena 30 secondi.
«Mi resi conto che eravamo visti solo dalle persone che sceglievano di vedere i nostri programmi, ma io volevo provare ad arrivare anche agli altri. Così mi vennero in mente delle pillole di 30 secondi da distribuire come coriandoli un po’ dappertutto, infilandocele tra i programmi e le pause pubblicitarie. Nell’Almanacco del giorno dopo, che andava in onda prima del telegiornale ed era seguitissimo, ce n’erano addirittura 2, una in testa e l’altra in coda. Parlavano un po’ di tutto, di musica, di letteratura, di educazione civica, dei pericoli della casa. Ci fu anche Renzo Arbore che partecipò con degli spot divertentissimi contro il fumo».
A proposito di spot: lei nel 1988 ne girò uno che andò in onda a reti unificate e che spiegava il corretto utilizzo del preservativo. Ebbe mai problemi con la Chiesa?
«Prima di andare in onda ci furono due sondaggi tra le suore e i preti e venne fuori che il loro programma preferito era il mio. Sono sempre stato molto attento a separare scienza e fede: quello che va in onda nei nostri prodotti si trova nelle riviste di divulgazione scientifica, che si parli di cosmo o di corpo umano».
In SuperQuark+ ci ha messo anche del suo: nella puntata sui capelli, ha detto che comprò a New York una parrucca e un paio di baffi finti per poi metterseli a Roma. Lo fece sul serio?
«Me li misi a Carnevale. Non metterei mai una parrucca, altrimenti. I giovani soffrono molto per la caduta dei capelli, ma io non ho mai avuto questo complesso, tant’è che non ho mai fatto niente per farli ricrescere».
Una volta disse che in Italia il pensiero scientifico era un po’ emarginato. Oggi è ancora così?
«Le televisioni funzionano con un criterio: collocare i programmi con un ascolto più alto in prima serata in modo da favorire gli introiti pubblicitari dai quali derivano i soldi per andare avanti. Questo succede indipendentemente dal fatto che il programma sia di cultura o meno. Mio figlio Alberto l’ultima volta ha battuto “l’isola delle tentazioni” (Temptation Island, ndr): si dice sempre che la prima serata di Raiuno è quella che paga gli stipendi».
Lei li guarda i programmi di Alberto?
«Certo. Guardo anche i miei perché cerco i difetti. C’è chi si irrita quando qualcuno gli fa un’osservazione, mentre io le critiche vado a cercarle tra la gente, cercando di capire se c’è un modo per migliorare, se qualcosa piace o non piace».
Siamo sinceri: lei di critiche ne riceve pochissime.
«La cosa che mi colpisce è che sono amato dai giovani di tutte le età e le categorie professionali e culturali. È una gratificazione che mi rende felice perché questi ragazzi vivranno un secolo per niente facile e dobbiamo stare loro vicino affinché arrivino preparati. Non devono vivere alla giornata, ma applicarsi negli studi e conoscere la scienza, perché è in grado di aiutarli. Lasceremo questo mondo non solo ai posteri, ma ai figli e ai nipoti che sono già qua e vanno a scuola».
La scuola fa abbastanza per i giovani d’oggi, secondo lei?
«A scuola l’insegnamento procede ancora con il retrovisore: si insegnano la storia, il greco, il latino, la letteratura, tutte robe del passato che vanno benissimo, per carità, perché è necessario saperle. Dobbiamo, però, anche capire un po’ cos’è il presente e quello che ci aspetta. A scuola si insegnano le scienze, ma non la scienza e il suo metodo. Quando io l’ho scoperta ho capito meglio tantissime cose e mi sono appassionato».
Perché il futuro la preoccupa così tanto?
«Non lo vivrò perché non sarà roba mia, ma delle prossime generazioni. Ho avuto la fortuna di vivere nel periodo migliore di tutta la storia dell’umanità. Sono nato l’anno dopo che Lindbergh attraversò l’Oceano».
E pensare che rischiò di morire quando aveva un anno per la polmonite.
«Ho pagato il mio biglietto di ingresso genetico. Penso anche di aver vissuto la guerra, ma di aver avuto la fortuna di non andare sotto le armi».
Nel 1967, però, fu arrestato quando era in Iraq. Come andò?
«Stavamo girando di nascosto un servizio sul petrolio per Tv7: quando arrivammo, avevano già impiccato 11 persone per spionaggio perché c’era la sindrome degli Israeliani e in quel momento l’Italia aveva adottato un atteggiamento pro-Israele. Un giorno riprendevamo da lontano, ma qualcuno ci ha visti e così, poco dopo, è arrivata una camionetta con i mitra spianati che ci ha portato prima in commissariato e poi in prigione. Pochi parlavano inglese, i telefoni non funzionavano, ma a mezzanotte venne il capitano dei servizi e capì la situazione in cui eravamo finiti. Ci sequestrarono tutto, ma ci liberarono».
Nella sua lunga vita ha dovuto anche affrontare uno scherzo malevolo da parte di alcuni colleghi: quando stava per partire il primo telegiornale sul secondo canale che lei avrebbe condotto, le fecero arrivare la notizia falsa della morte di Moravia. Come la prese?
«Malissimo, non si fanno queste cose. Soprattutto perché stavamo iniziando un telegiornale nuovo: un’ora prima di cominciare arrivò questa notizia che ci sballò tutta la scaletta, contattammo l’amico di Moravia Enzo Siciliano e iniziammo a lavorare sugli approfondimenti e su cosa avremmo detto. Quando nessuna agenzia di stampa confermava la notizia ci venne il dubbio e scoprimmo che era uno scherzo di quelli del primo canale. Ricordo benissimo che richiamai Siciliano per dirgli che era uno scherzo e lui mi disse che aveva già cominciato a telefonare a tutti gli amici per dire che Moravia era morto. “No, fermi tutto”, gli dissi».
È possibile, invece, che lei non abbia mai visto il Festival di Sanremo?
«Confermo. Vidi quelli con Nilla Pizzi negli anni Cinquanta, poi stetti via 13 anni fuori fuori dall’Italia e, quando tornai, continuai a non vederlo perché non mi interessava. Sono un jazzista, per noi le canzonette sono come fumo negli occhi, infatti non ho mai visto neanche adesso nessun programma di canzoni. Non le saprei fischiettare nessun brano di quelli attuali. Però ammetto che una volta a Sanremo ci andai con Rita Levi Montalcini per promuovere la sua fondazione per le donne e la Sla».
Il primo incontro con la Levi Montalcini, però, non andò benissimo.
«Ci incontrammo perché volevo parlare della sua ricerca sul fattore di crescita nervoso, quella che poi le valse il Nobel. Arrivai all’incontro informatissimo ma, quando le spiegai come sarebbe stato il programma e che avremmo trasmesso 3 minuti sul suo lavoro, mi raggelò: “Solo 3 minuti?”. Rimasi paralizzato. Anni dopo la incontrai in stazione e mi disse di avere un debito con me: da lì siamo diventati grandi amici. Al tempo non sapeva che un documentario è fatto di diverse tessere che vanno a comporre un quadro d’insieme».
Un altro suo grande amico era Enzo Tortora, che però lei trovava «poco naturale» in tv. C’è qualcuno che le piace tra i presentatori oggi?
«Li trovo bravi nel loro genere, specie se sono divertenti e attenti al loro pubblico. La televisione è uno strumento che arriva alle famiglie e ritengo che ci voglia molta attenzione per evitare che vadano in onda cose che danno fastidio. È importante dire le cose in maniera educata, “in punta di penna”, senza inseguire la volgarità, il sensazionalismo e la ricerca assoluta dell’applauso o dell’emozione».
Oltre alla tv, è molto legato al cinema. Il film che non si stancherebbe di rivedere?
«Quelli di Fellini li riguarderei tutti perché mi considererei molto fortunato nel farlo. Quando ero ragazzo andavo di più al cinema e ricordo titoli come Miracolo a Milano e Ladri di biciclette, che rividi 10 volte ma che fu un flop d’incassi fino a quando non vinse un premio in Belgio. Il problema è che questi film oggi non li danno più».
Molti sono sulle piattaforme streaming, come Netflix o Prime Video.
«Dovrei abbonarmi perché ho visto che ci sono offerte di vecchi film che rivedrei volentieri. A cominciare da quelli di Kubrick, un genio».
Kubrick rispose di persona a una sua lettera quando gli chiese se poteva usare delle scene di 2001 Odissea nello spazio per un suo documentario. La conserva ancora?
«Sì, dovrei recuperarla. Quando gli scrissi non mi aspettavo che mi rispondesse, ma fu molto cordiale. Le case di produzione mi dissero che le immagini del film erano bloccate e che il nullaosta doveva arrivare solo da Kubrick. Dissi, benissimo, mi date il suo indirizzo?».
Intraprendente.
«Se uno bussa a tutte le porte qualcosa succede, specie se lo si fa in buona fede e con cortesia, come dice un famoso proverbio veneto».
Nelle ultime interviste che ha rilasciato le chiedono sempre della morte: la infastidisce?
«Sono un novantenne, per forza lo chiedono. La morte non piace a nessuno. Nel momento in cui succede di solito le persone entrano in un piccolo letargo e non si rendono conto del momento del trapasso. Dico sempre che la vita è un’avanzata verso le pallottole e le mitragliatrici: quando sei lontano ne senti il fischio, poi, man mano che ti avvicini, è sempre più difficile cavarsela, e prima o poi ti beccano. Dobbiamo rassegnarci, ma anche vivere al meglio perché non saremo mai più giovani come in questo momento. Sono, però, d’accordo con Woody Allen che, a un giornalista che gli chiese cosa ne pensasse della morte, rispose “non ho cambiato idea. Sono decisamente contrario”. Ecco, anch’io la penso come lui».
È consapevole, però, di aver scritto la storia? Il suo nome probabilmente lo studieremo per tanto tempo in futuro.
«Ho aiutato la diffusione del sapere. Le lauree mi sono state date non per quello che so, ma per l’aiuto che ho dato per diffondere la cultura scientifica. Mi fa piacere perché vuol dire che il lavoro che ho fatto era serio, ma non posso non pensare a Ruggero Orlando, che era il corrispondente della Rai a New York, un personaggio molto popolare e caratteristico. Mi sono reso conto che ormai se lo ricordano solo quelli che hanno più di 50 anni. Magari nessuno si ricorderà di me: forse i bambini, ma solo perché mi hanno visto in tv. I libri di divulgazione hanno una vita breve, quelli di letteratura sono eterni».
Anche i dischi. Il suo di musica jazz a che punto è?
«Non riesco mai a esercitarmi abbastanza, ma sono arrivato a buon punto e penso di farlo».
(Finita l’intervista, Piero Angela mi saluta così: «Mi piace parlare e fare divulgazione. Anche con un solo spettatore»).
Anticipazione da “Oggi” l'8 luglio 2020. «Mia moglie mi ha aiutato molto. È più di metà del mio successo. Ha rinunciato alla carriera e portato pazienza per le mie assenze. Mi ha seguito in tutte le mie peregrinazioni. Ha tirato su due figli magnifici», racconta al settimanale OGGI, in edicola da domani, Piero Angela, in partenza il 15 luglio con «Superquark.» Il giornalista, di solito, molto riservato sulla vita privata concede a OGGI un tenero dettaglio della sua vita familiare: «Sono piemontese, anche se levigato da anni all’estero e a Roma. Nel nostro dialetto non esiste il verbo “amare”: usiamo il più contegnoso vorej bin, voler bene. E non esiste neppure la parola bacio: diciamo basin, bacino. Se vale, se questo mi “salva”, le ho detto tante volte: T’veuj bin, ti voglio bene». Il programma di Piero Angela compie 40 anni e il giornalista ricorda come nacque lo stile che l’ha reso il più amato dei divulgatori: «Andavo in onda dopo “Dallas” e dovevo evitare che gli ascolti scendessero di uno “scalino”, trattenere gli spettatori su Rai 1. Bisognava “fidelizzarli” e allora forgiai il mio arsenale: varietà di argomenti per catturare un pubblico vasto, ritmo vivace come antidoto alla noia, esposizione limpida».
Elvira Serra per il “Corriere della Sera” l'1 maggio 2020.
Piero Angela, come sono andate queste settimane in isolamento forzato?
«Bene, sono un tipo paziente, non ho sofferto la prigione. Quando mi hanno proibito di uscire di casa, io ho obbedito. Però ho un balcone soleggiato e ogni tanto sono andato lì a prendere un po' di sole».
Ginnastica?
«Ogni giorno cammino avanti e indietro per tutta la lunghezza dell' appartamento.
E faccio le flessioni sulle gambe. Avevo un fisioterapista che naturalmente ha smesso di venire. Sono un ultranovantenne che ha problemi con le ossa e soffro di ernia del disco da quando avevo 25 anni».
Con tutti i suoi viaggi chissà che dolori!
«Ho sempre sofferto in silenzio. E le valigie le ha sempre portate mia moglie».
Che cosa le è mancato di più in questi due mesi?
«Gli amici, i miei figli, i nipoti.. Ogni tanto facciamo la video chiamata, però è una cosa un po' meccanica, la trovo fredda: stare insieme è un' altra cosa...».
Cosa farà il 4 maggio quando comincia la «Fase 2»?
«Io continuerò a essere prudente e a non uscire. Però penso che verranno qui i miei nipoti e sarà un momento importante: è tanto tempo che non ci vediamo e non era mai successo prima, perché abitiamo vicino».
La preoccupa il rientro alla normalità?
«Temo questa "apertura dei cancelli", anche se molto graduale. L' influenza di stagione ogni anno in Italia colpisce mediamente 5-6 milioni di persone, con cinquemila decessi. Il nostro organismo è predisposto con le difese immunitarie, e basta stare a letto per guarire. Adesso, invece, non siamo preparati. Se si guardano i contagiati ufficiali il numero è ancora basso, ma la mortalità è molto più alta rispetto alla normale influenza. Dobbiamo stare attenti finché non ci sarà il vaccino».
I no-vax lo faranno?
Ride. «Ognuno si regola come vuole, però il mio lavoro, anche con il Cicap, è di dare una informazione corretta. Poi, ognuno è libero di buttarsi dalla finestra, purché sappia che non è una cosa che migliora la salute!».
Da divulgatore, l' ha sorpresa questo coronavirus?
«Il mio amico Lorenzo Pinna ha scritto un libro che si intitola Cinque ipotesi sulla fine del mondo e la prima è un virus. Un po' qualcosa di simile c' era già stato in passato. Mia madre si era ammalata di spagnola, che ha fatto 50 milioni di morti. Per fortuna lei si salvò: raccontava che qualcuno le lasciava da mangiare fuori dalla porta, un po' come è successo da noi nelle varie zone rosse».
Gli italiani hanno reagito bene?
«Gli italiani sono indisciplinati per natura, ma in questa occasione si sono spaventati, quindi hanno obbedito alle regole».
Come è cambiata la sua quotidianità?
«Lavoro molto da casa, da sempre. Con i miei collaboratori ho preparato dieci nuove puntate di Superquark per RaiPlay: in questa fase era sufficiente usare telefono e email».
Cos' altro ha fatto?
«Ho rimesso a posto tutte le carte che si erano accumulate in anni e anni. Ho tanti dossier, tengo tutto: ritagli di giornale, di riviste, testi di programmi, testi di prefazioni che ho scritto, pezzi di cose che non ho mai pubblicato.
Certe pile altissime...».
Ha scritto un nuovo libro?
«No, e poi un' autobiografia l' avevo già scritta. Però chi ha tenuto un diario di questi giorni lascerà una testimonianza preziosissima per le future generazioni».
E il pianoforte?
«A novembre mi sono rotto il braccio e sono rimasto per tre mesi ingessato. Ma ho ripreso a suonare. Devo dare un po' di forza alle dita, ma sto migliorando. Da un' eternità vorrei incidere un disco e adesso siamo entrati in una fase più concreta. Una parte sarà piano solo e una parte con una piccola formazione che avrà un grande solista del jazz: Dino Piana. È vicino ai 90 anni e ha ancora fiato!».
È riuscito a leggere?
«Sì, un po' di tutto. L' ultimo è il saggio Il cervello è più grande del cielo , del famoso neurochirurgo Giulio Maira».
C' è qualcosa a cui ha dovuto rinunciare e le spiace?
«Ho dovuto interrompere un ciclo di conferenze, "Prepararsi al futuro", partito tre anni fa al Politecnico di Torino. Speriamo di riprendere in autunno».
Cosa ha imparato?
«Quanto sono importanti cose piccole come un pranzo con gli amici e con i parenti. In queste settimane ho perso un amico carissimo da quasi sessant' anni, Piero, con cui ci si vedeva tutti i giorni...».
Mi dispiace... Covid-19?
«No, un' altra malattia. Un pomeriggio mi ha chiamato per dirmi che voleva salutarmi e abbracciarmi... Cosa insolita, perché ci sentivamo sempre la sera, ma era consapevole di quello che gli stava capitando. Per me è stato un momento doloroso, soprattutto perché non ho potuto salutarlo. L' hanno cremato a Viterbo, a Roma non c' era posto. Non è potuto andare nessuno, nemmeno i familiari. È stata una cosa molto dura...».
Valentina Tosoni per “la Repubblica” il 3 aprile 2020. «Ho avuto l’impressione di vivere in un film di fantascienza quando ho visto al telegiornale le strade deserte con le macchine della polizia che passavano con l’altoparlante e quell’annuncio "restate in casa"». Piero Angela, 91 anni, il primo e più autorevole divulgatore scientifico della televisione italiana, racconta la sua quarantena.
Non si esce fino a dopo Pasqua, i contagi diminuiscono, ma non dobbiamo mollare la presa per non vanificare ciò che ci ha portato fino a qui.
«È vero, i contagi diminuiscono, ma questa sarà una cosa lunga: lo dicono tutti, i virologi per primi. Dobbiamo stare attenti ad abbassare la guardia, questo virus è molto pericoloso e bisogna tenerlo a distanza. Questa cosa è stata gestita navigando a vista giorno per giorno. Un po’ tutti non hanno capito da subito la gravità e la velocità del contagio. Mi riferisco anche a grandi esperti di virus ed epidemie, che poi si sono ricreduti. Ma il nostro governo, appena le cose sono apparse nella loro gravità, ha preso le decisioni giuste. Forse poteva fare meglio, ma è facile dirlo oggi».
Come sta trascorrendo il suo tempo a casa?
«Ho un sacco di cose da fare. Per il nostro Superquark web sto preparando servizi, lavoro che si può fare per telefono. E poi finalmente trovo un po’ di tempo per suonare il pianoforte perché io sono un jazzista. Per un po’ non mi ci sono dedicato per via del braccio sinistro che mi sono rotto. Adesso ricomincia a funzionare e posso di nuovo suonare e quando sarò guarito voglio fare un disco. È un progetto che ho da tempo e questa è l’occasione per studiare e per prepararmi un po’».
A chi non deve lavorare o studiare cosa suggerisce di fare?
«Io sto dando un consiglio un po’ a tutti, specialmente a coloro che hanno una certa età: scrivano le loro memorie. È una cosa non solo utile per passare il tempo, per riscoprire la propria vita, per riflettere, ma anche per lasciare ai propri nipoti e pronipoti un mondo che va perso. A me piacerebbe avere un diario, uno scritto sulla storia di famiglia fatto dai miei bisnonni: io non so neanche bene chi fossero, cosa facevano, cosa pensavano. Ho sollecitato anche mia sorella, che ha un anno più di me e sta benissimo di testa, a scrivere quella parte di storia che non conosco. Sono stato fuori Torino per tanto tempo: prima ho studiato, poi sono stato inviato all’estero e lei ha ricordi che mi mancano. Cercare le proprie radici è importante. Adesso si possono cercare anche quelle genetiche, è un test che abbiamo fatto… anche per vedere quanta parte di Neanderthal abbiamo in noi».
Parlando del Covid 19 ha dichiarato: "È dura ma non è la guerra". Ci spiega il senso?
«C’è una bella scritta che circola sul web: "i nostri nonni sono stati obbligati a partire per la guerra, a noi chiedono di stare seduti sul sofà". Ma anche stando a casa si prendevano tante bombe in testa. Io ho preso tanti di quei bombardamenti e non colpivano per caso, erano bombe dirette alle popolazioni civili. Erano bombardamenti terroristici fatti per fiaccare il morale delle popolazioni. Nel dopoguerra si partiva dalle macerie, ma c’era ottimismo. Io ero giovanotto, quando è finita la guerra avevo 17 anni e ricordo che tutti guardavano con fiducia il futuro. Insomma, c’era uno spirito diverso, ci si adattava a guadagnare poco. Oggi credo che ricostruire una società così complessa non sarà facile, ci vorrà molta buona volontà e abilità e allora bisognerà dar retta agli esperti. Purtroppo, ci lasciamo spesso convincere da persone che sanno muovere bene gli istinti primordiali e non da quelli che parlano alla mente razionale. Questo è quello che io cerco di fare da tanti anni».
Però ora sembra esserci un ritorno ad avere fiducia nella scienza, nelle competenze.
«Adesso tutti dicono: ascoltiamo la scienza. Sono promesse da marinaio, perché sono convinto che passata questa vicenda tutto riprenderà come prima. È come quando uno passa e vede un incidente stradale, rallenta e diventa prudente poi, dopo un po’, riprende a pigiare sull’acceleratore. Però certamente la lezione è: bisogna affidarsi a persone competenti quando occorre prendere delle decisioni difficili e mi auguro che questo possa rimanere nel nostro cervello e nei nostri comportamenti».
Piero Angela, dal jazz alla scienza. La vita e gli auguri dal papà di Quark. «Dobbiamo recuperare la razionalità. Fu l’insegnamento principale di mio padre, medico antifascista. Il problema non sono i problemi, ma i comportamenti». Paolo Baldini il 25 dicembre 2019 su Il Corriere della Sera. Pensa ai giovani, ai ragazzi che avranno quarant’ anni nel 2060 e dovranno affrontare un mondo diverso, accelerato, forse disorientato. «L’ altro giorno passavo davanti a un giardinetto, a Roma. Osservavo i bambini di 4-5 anni che dondolavano sulle altalene e pensavo: loro vedranno tutto il secolo, arriveranno fino al 2100. Ma come sarà l’ Italia allora?». Il tempo delle riflessioni: Piero Angela, il divulgatore scientifico più amato, dodici lauree honoris causa, centinaia di libri e di ore in televisione, 91 anni compiuti il 22 dicembre, festeggerà compleanno e Natale in famiglia, nella bella casa di Roma, con la moglie Margherita, i figli Christine e Alberto, il suo alter ego in tv, e i cinque nipoti: Simone e Alessandro (figli di Christine), e poi Riccardo, Edoardo e un altro Alessandro (figli di Alberto). Età compresa tra i 15 e i 35 anni. Dice: «Natale è un’ occasione unica per cementare gli affetti, per mettere da parte gli impegni e ritrovarsi intorno a un buon panettone artigianale con uva passa e canditi, caro ricordo della mia infanzia a Torino». Stavolta non siederà al pianoforte per suonare l’ adorato jazz. «Mi sono rotto l’ avambraccio cadendo in casa e porto un fastidioso tutore. Peccato, ma ci saranno altre occasioni». Il pianista lascia il posto al nonno. «Anche se il jazz è un virus meraviglioso da cui non si guarisce più».
I rancori e le speranze. Rammenta un Natale antico, di un Dopoguerra con pochi mezzi ma più serenità. «Penso ai titoli delle canzoni di allora, forse ingenui ma pieni di ottimismo. E così al cinema, alle commedie delle nostra giovinezza. Sarebbe possibile oggi un film come Il sorpasso ? Vedo un mondo arrabbiato, rancoroso, che rischia di smarrirsi. Il pensiero va a quest’ Italia che non cresce e non dà occupazione, incapace di consegnare certezze ai suoi ragazzi». Un motivo di speranza, osserva, può nascere dalla solidarietà. «Dal moltiplicarsi dei volontari e delle associazioni che si occupano degli anziani, dei disabili, degli ultimi, dell’ ambiente in rovina. Sette milioni di persone che dedicano tempo ed energie a migliorare le cose sono un bel segnale». L’ atmosfera del Natale, racconta, la sente dentro. «Quando ero bambino, a Torino, i doni più desiderati erano il meccano, il biliardino, il cavallo a dondolo. Oggi distribuiamo montagne di regali, troppi». Si fa accorato: «Il mondo in apparenza sembra più facile. In realtà è più complicato. La vita un tempo era frugale, più semplice. Si risparmiava su tutto. Abiti, scarpe, cibo. Spesso ho portato i cappotti di mio padre rivoltati. Penso alle calze di seta che quando si sfilavano venivano rammendate cn cura e oggi vengono buttate».
Con i giovani. ‘ impegno per i giovani è forte: «Al Politecnico di Torino da tre anni organizziamo un ciclo di conferenze con competenze di alto livello per aiutare i ragazzi a capire il mondo che li aspetta. Partecipano i 400 migliori studenti del Politecnico e dei licei. Ma gli incontri possono essere visti da chiunque in streaming. Tentiamo di dare prospettive e orizzonti alla nuova classe dirigente, che ahimè non può permettersi di sbagliare». Lo stesso avviene a Roma, all’ università di Tor Vergata. «La scuola insegna il passato. Filosofia, storia, geografia, greco, latino, storia dell’ arte, letteratura, matematica, scienze. La specializzazione arriva tardi. Noi spostiamo il punto di vista. Ci chiediamo come sta cambiando l’ economia o come la demografia modificherà la struttura sociale del Paese. Poi ci sono i temi ambientali, con i rischi connessi al riscaldamento degli oceani e alle conseguenze per l’ agricoltura e la filiera del cibo. L’ idea è di far confluire tutto questo sapere in un prodotto Rai».
Al lavoro. Natale di festa. Natale di lavoro: sta per partire una nuova serie di Superquark per il web. «Si chiamerà Superquark Più e saranno puntate di 15 minuti». Approfondimento e divulgazione, un marchio di fabbrica. Il tema è: dove stiamo andando? «C’ è una parte del mondo che avrebbe la possibilità di migliorare le cose, diciamo l’ Occidente. Che con i suoi sprechi e le sue dissennatezze ha creato molti problemi, ma che è anche in grado di risolverli. Vede, il problema vero sono gli uomini e i loro comportamenti. Ci stiamo spingendo in una direzione sbagliata. La politica è condizionata da un’ ottica di breve termine e le conseguenze poi si pagano». Sostiene che è come quando si gioca a scacchi, un’ altra delle sue passioni: «Occorre osare, se prevale la paura di perdere è la fine». Aggiunge: «Cediamo alla protesta, e va bene. Ma poi si apre la fase successiva: costruire. L’ opinione pubblica deve essere bene informata per accettare decisioni che possono sembrare impopolari. Invece tutti puntano sulle emozioni, sulla pancia». Parla della razionalità come di un bene perso di vista. «Fu uno degli insegnamenti più importanti di mio padre, il medico antifascista Carlo Angela», insieme all’ educazione piemontese, rigida e severa, di chi si tiene sempre un passo indietro. «In questo momento storico avremmo molto bisogno di razionalità. Invece prevale l’ opposto. Le tecnologie stanno rivoluzionando il nostro modo di vivere. E soprattutto c’ è il nodo demografico».
Facciamo i figli. La sfida è lanciata: «Undici anni fa, nel 2008, scrissi un libro, Perché dobbiamo fare più figli. Le impensabili conseguenze del crollo delle nascite in cui sostenevo la necessità che ci fossero almeno due figli per famiglia. Niente è cambiato da allora. Si sono persi tanti anni. Tra un po’ saremo tutti vecchi con inevitabili ricadute sul sistema pensionistico, la sanità, il lavoro. Ci sono Paesi che hanno studiato politiche ad hoc come la Francia: dove in un gruppo di quattro persone, papà, mamma e due figli, in cui solo il capofamiglia abbia un reddito, le tasse complessive vengono divise. Tre non hanno redditi e sono esentati, il capofamiglia paga un quarto della cifra totale. La speranza di farcela, per tutti, sta in un insieme di piccole, lungimiranti, importantissime idee».
Alberto Angela: 20 anni di "Ulisse", sempre dalla parte del pubblico. "Mai temere il futuro". Pubblicato martedì, 15 settembre 2020 su La Repubblica.it da Silvia Fumarola. Il divulgatore torna da domani su Rai 1 con uno dei programmi più amati. "Faccio le domande che farebbero gli spettatori. Per il Covid non abbiamo potuto viaggiare, ma voliamo con la fantasia". Si parte con Roma dall'alto, poi Raffaello, la regina Elisabetta e JFK. Vent’anni di divulgazione, in un panorama televisivo che è cambiato: Ulisse-Il piacere della scoperta festeggia un compleanno importante; torna dal 16 settembre su Rai 1 con Alberto Angela sempre più entusiasta: “Diciamo che lo scafo prende bene l’acqua, il programma esiste e resiste perché rappresenta la curiosità della gente”, spiega “fa immedesimare lo spettatore. Mi faccio le stesse domande del pubblico e ho la possibilità di approfondire un argomento per due ore, che è un grande privilegio. Oggi nel panorama televisivo in cui i programmi offrono varietà di argomenti, sono rapidi, saltano da un tema all’altro, io mi faccio trasportare da una storia e porto con me lo spettatore”. Pubblico fedelissimo “che abbiamo abbracciato e non facciamo mai sentire solo, specie in questi tempi difficili”, Ulisse dal sabato trasloca il mercoledì. Le regole anti Covid-19 hanno penalizzato il programma, che ha fatto di necessità virtù: la prima puntata è dedicata a Roma vista dall'alto, poi sarà la volta dell'omaggio a Raffaello per i 500 anni dalla morte, quindi due ritratti d'eccezione, quello della regina Elisabetta II e di John Fitzgerald Kennedy (puntata che andrà in onda a ridosso delle elezioni americane). Alberto Angela, torna "Ulisse": dopo Roma vista dall'alto, tre grandi personaggi: Raffaello, Elisabetta II e Kennedy.
Angela, che effetto fanno i vent’anni di Ulisse?
“Non eravamo partiti con l'idea di durare vent'anni, è stata una grande avventura, noi ce l’abbiamo messa tutta, tutta la cura possibile, la curiosità. Ma abbiamo avuto dalla nostra parte il pubblico, che è cresciuto. La nostra storia parte da lontano, se pensa che Passaggio a Nord ovest sta per festeggiare i 23 anni...”.
Avete girato dopo il lockdown, da giugno ad agosto: niente viaggi, niente visite speciali. Come avete lavorato?
“Essendo un programma di viaggi siamo stati penalizzati. Durante il lockdown avevamo fatto molti progetti, discusso molte idee senza sapere in quale situazione ci saremmo trovati. Il nostro gruppo di lavoro può contare su troupe corpose, facciamo riprese in 4 k e 6 k, per capirci abbiamo due operatori su una telecamera, una tecnologia che richiede una certa cura. Non puoi esporre nessuno al rischio covid il primo pensiero è stata la messa in sicurezza di tutto il gruppo, quindi abbiamo costruito le puntate viaggiando con la fantasia. Senza viaggiare”.
Partite dal cielo di Roma: avete usato i droni?
“Quando ero sulle cupole di Venezia e vedevo piazza San Marco, uno dei luoghi più popolati, c’era una pace. Dall’alto vedi le città con un’angolazione diversa. Vedere Roma dall’alto è un’esperienza, scoprirla volando con elicotteri e i droni alti e bassi è meraviglioso. Daremo la sensazione di volare stando seduti in poltrona, di trasformarsi in una rondine o in un passerotto per volare non sulle nuvole ma tra i tetti. E noi porteremo gli spettatori lassù, per vedere la città con una prospettiva diversa passando da Trinità dei Monti a Piazza del popolo a Piazza Navona, per scendere con i movimenti verticali e riprendere il volo verso un’altra zona, come Peter Pan”.
Poi la puntata dedicata all’arte, a Raffaello a 500 anni dalla morte.
“Tutti lo conoscono ma mentre per Michelangelo ti vengono subito in mente le opere, quando si parla di Raffaello devi fare mente locale: cosa ha fatto? Alla gente un po’ sfugge invece è stato un artista a tutto tondo, a 15 anni ha dipinto una Madonna sulla parete della cucina di casa sua”.
Cosa ha scoperto della regina Elisabetta?
“Che attraverso il modo in cui porta la borsetta lancia segnali... Curiosità a parte, è una straordinaria testimone del 900, una donna che si è trovata in una situazione straordinaria e ha accettato con incredibile spirito di sacrificio di dedicare la sua vita alla nazione. Una storia da film: durante il viaggio di nozze in Kenya con Filippo viene richiamata a Londra, il padre muore: sale sull’albero principessa a scende regina. Dovevamo andare a Londra, non abbiamo potuto e quindi abbiamo portato Londra da noi. Abbiamo usato il chroma key, sembra di stare in una grande vasca tutta verde e puoi muoverti come se fossi nei luoghi dove le cose accadono. La telecamera grazie a una serie di sensori entra nell’immagine”.
Avete usato la stessa tecnica per la puntata dedicata a Kennedy?
“Sì. In altre parole abbiamo filmato la zona dell’attentato a Kennedy per poi girare intorno alla macchina. ‘Entri’ nell’azione. Racconteremo la famiglia, il padre di JFK che sogna la Casa Bianca, la vita con Jackie. Raccontando JFK viene fuori lo spirito degli anni 60, la voglia di costruire. Oggi il futuro fa paura. Ricordo sempre un discorso del presidente Ciampi che spiegava ‘i ragazzi di oggi non sono più come noi, Livorno era distrutta dopo la guerra, ma tutti si sono rimboccati le maniche. Ogni epoca ha le sue brutture e le sue bellezze, ma il passato si ci insegna che qualunque sia la tua epoca hai l’obbligo di credere nel futuro”.
Qual è la sua sfida dopo vent’anni?
“Incuriosire il pubblico, volevamo conquistare giorno dopo giorno la nostra sopravvivenza, abbiamo pensato a ogni passo più che alla meta. Quando ti accorgi che un programma comincia a far parte della storia di tutti, hai raggiunto lo scopo. Non me l’aspettavo ma lo speravo. Se ogni puntata è una pagina, tu speri che venga fuori un romanzo: in questo caso è il racconto della scienza e dell’arte. Il titolo che abbiamo scelto, Ulisse, non è casuale. E’ una figura che affronta l’ignoto usando la razionalità e un guizzo di creatività”.
La stagione è appena iniziata: cosa prevede?
“Abbiamo dovuto interrompere Stanotte a Napoli e a novembre, se tutto va bene, siamo pronti a ricominciare, poi c’è ancora Ulisse ma mai come questo anno stiamo navigando a vista, con molta prudenza. Basta che si ammali un tecnico e tutto si ferma. Ci vuole la massima cautela, è il tempo della pazienza e dell’attesa. Non si devono fare cose avventate”.
Le fa paura il Covid?
“Mi fa paura la reazione di certa gente, perché l’importante è mantenere il fronte unito. Non è un’emergenza che durerà a lungo, sono fiducioso che progressivamente scomparirà ma di nuovo stiamo entrando in una situazione pericolosa per comportamenti irresponsabili. Questo è il momento della responsabilità per se stessi e per gli altri. Non bisogna scordarsi di Bergamo e delle persone che non ci sono più, dobbiamo rispettarle e ricordarle. In confronto agli altri paesi l’Italia si sta comportando bene, se vedo com’è messa la Francia. La pandemia non è uno scherzo, adesso deve prevalere il buon senso”.
Riceve manifestazioni di affetto, è un idolo dei social: la fiducia è anche una responsabilità?
“Mi fa tanto piacere ma non perché sono un conduttore televisivo ma umanamente. Siamo passeggeri di un secolo: quando ti accorgi che riesci a trasmettere il bagaglio delle tue conoscenze e a unire nei momenti di difficoltà, cosa puoi volere di più? Vedo la nostra cultura come un inno nazionale, quello mi fa piacere, mi ritengo un servitore della conoscenza, della ricerca. I grandi eroi sono quelli che stanno nei laboratori. Io posso gettare la luce sul loro lavoro. Al di là dei risultati è importante andare in prima serata e esserci. Vale come testimonianza”.
Alberto Angela: svelo i segreti di Cleopatra, la Lady Gaga dell'antichità. Pubblicato lunedì, 08 giugno 2020 su La Repubblica.it da Silvia Fumarola. Il potere e la suggestione della parola per raccontare la Storia: Alberto Angela ha realizzato per Audible il podcast del suo libro Cleopatra donna e regina in cui racconta "il potere di una donna moderna, che parlava le lingue, ha segnato il corso degli eventi. Nella figura di Cleopatra" spiega il divulgatore "vedo tante cose positive, la prima è la condizione della donna nella società; quando ha gli stessi diritti di un uomo automaticamente ti cambia la storia. A quell'epoca era qualcosa di rivoluzionario. Cleopatra era un'abilissima stratega di politica internazionale, con colpi di teatro che solo Lady Gaga riuscirebbe a fare". Insieme a Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, e a Marco Azzani country manager Audible per l'Italia, Angela racconta come ha lavorato a un progetto che non è la lettura del libro, ma un racconto "come a cena tra amici" spiega "quando inizi un discorso trasmettendo le tue emozioni. Il podcast è una lente di ingrandimento. Vorrei vivere mille anni per raccontare le storie in versione podcast, aiutano a calarti nelle situazioni anche se tecnicamente è strano, non hai un pubblico e devi stare immobile perché la voce è fondamentale. All'inizio non è stato facile, un po' come quando debutti davanti alla telecamera: non vedi gli occhi delle persone, l'obiettivo ti mette a disagio. Così col podcast ci sei tu e la tua voce, poi cominci a sentire te stesso, tiri fuori le frasi. L'immagine televisiva è quello che vedi, mentre stavolta chi ascolta immagina, è lasciato libero, diventa lo sceneggiatore del racconto". Christian Greco, sottolinea come gli oggetti e i reperti storici parlino, come una visita nel museo sia un'esperienza straordinaria. "È vero" dice Angela "Quando leggi un papiro è un podcast, e lo fa un singolo visitatore quando legge le didascalie accanto agli oggetti di un museo. Riuscire a stabilire un legame col passato è straordinario. Nel podcast ho voluto mettere le suggestioni: se sono nella rada di Alessandria si devono sentire i gabbiani, come il suono metallico delle truppe. L'emozione dipende dai sensi, il nostro cervello lavora. Il miglior effetto speciale è la nostra immaginazione, è emozionante perché il rapporto col pubblico è più intimo". "Fondiamo il nostro successo sulla parola", dice Azzani di Audible "per noi è fondamentale, nel caso nel podcast di Alberto è stata una sfida, abbiamo reinventato il modo di comunicare la Storia. Sappiamo che il podcast è ascoltato dal pubblico under 30 che - come ci dice l'Istat - ha scarsa frequentazione con i libri di carta e i musei, questo è un formato veloce che puoi ascoltare con lo smartphone e con Alexa, in momenti diversi della giornata. Con gli audiolibri è successo così, non sono alternativi ai libri classici ma attirano un pubblico nuovo: lo stesso cerchiamo di fare coi podcast. Con Alberto pensiamo anche ad altri progetti". Per Angela un'esperienza interessante. "Ripeto, non è la lettura dei capitoli ma reinterpreti le pagine. Le prime cento sono dedicate all'uccisione di Giulio Cesare: ho cercato di far emergere le persone, le atmosfere e i luoghi, di dare una suggestione". Racconta di aver registrato prima del lockdown "un'esperienza unica, perché dovevi stare attento a un nemico invisibile, con tutte le incertezze del caso. Le repliche del mio programma su Rai 1 hanno tenuto compagnia a tanta gente che aveva bisogno di non sentirsi sola. Le parole sono anche sentimenti, e le repliche sono state importanti". E a proposito di sentimenti, si capisce che il divulgatore più riservato della tv per Cleopatra nutre una vera passione. "Il nome Cleopatra, significa "gloria del padre" in greco. Non era egizia, teneva i capelli raccolti in una crocchia, Alessandria d'Egitto era una città greca, la troviamo in un periodo della storia in cui unisce il mondo romano e quello egizio. Con la sua morte Augusto lancia l'idea dell'Impero. Se avesse vinto lei, il mondo sarebbe greco-orientale". "Era una donna diversa dalle altre" dice Angela molto ispirato, "era colta, aveva frequentato l'università, parlava molte lingue: era una mamma una regina una sovrana a seconda del momento della giornata. Appena metti una donna moderna in un'epoca antica ti cambia la storia della civiltà. Il suo volto preciso non è chiaro, abbiamo chiamato i Ris, nel Museo Egizio di Torino è conservato un busto che potrebbe essere quello di Cleopatra. Forse non era neanche così bella ma era potente, forte, una figura unica. Anche la sua tomba non si trova ma a duemila anni di distanza riesce ancora a conquistare le prime pagine".
Giulio Pasqui per ilfattoquotidiano.it il 22 febbraio 2020. Alberto Angela come non l’avete mai visto, protettivo e battagliero per il figlio. Il divulgatore scientifico più famoso d’Italia è stato fotografato dal settimanale Oggi mentre discute apertamente con un paparazzo, tale Mattia Brandi, che lo aveva pizzicato insieme con il figlio Alessandro. Le foto non erano altro che semplici scatti in cui padre e figlio passeggiano assieme per le vie di Roma, ma la situazione tra il divulgatore e il fotografo (sempre secondo quel che racconta il settimanale) sarebbe degenerata. Alberto Angela non avrebbe apprezzato quegli scatti e avrebbe quindi chiesto al paparazzo di poter cancellare le foto incriminate. Da qui l’incredulità di Mattia Brandi, che al settimanale ha raccontato: “Gli ho spiegato che non avevo fatto nulla di male, che lui è un personaggio pubblico, ci trovavamo in un luogo pubblico e la legge consente di scattare. Continuava a chiedermi di cancellare, dicendo che il figlio è minorenne. Gli ho assicurato che sono un professionista da vent’anni, so bene che non si può pubblicare il volto di un minore e infatti l’avrei “pixelato”. Ma lui insisteva: ‘Che ne so io se poi queste foto finiscono sui social o nel deep web?’. Ero stupefatto, non mi è mai successo che un vip reagisse così…”. Alla fine, per placare gli animi, è dovuta intervenire la polizia. Una volta prese le generalità delle persone coinvolte, i poliziotti se ne sono andati.
Alberto Angela torna su Rai1: 9 cose che non sapete su di lui. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Renato Franco. 9 cose che non sapete su Alberto Angela. Personaggio cult, icona sexy (per etero e gay), l’esordio in tv sulla Svizzera Italiana: quello che spesso non si conosce del conduttore tv. Che da tempo non più soltanto il figlio di Piero. Torna Alberto Angela con la terza edizione di Meraviglie, stasera alle 21.20 su Rai1 . Ma chi è, chi non è e chi si crede di essere Angela jr? Ecco la sua vera storia.
L’accusa più superficiale: è in tv grazie al padre, Piero. In realtà Alberto Angela non è un semplice divulgatore scientifico, ma un paleontologo. Per oltre 10 anni, negli anni Ottanta, ha svolto attività di scavo e di ricerca sul campo nell’ex Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), in Tanzania, Oman, Etiopia e Mongolia.
L’esordio in Svizzera. Volto della tv italiana, Alberto Angela era un capitale all’estero: il suo esordio in video vero e proprio fu grazie alla Televisione Svizzera Italiana nel 1990. Il debutto in Rai invece avviene tre anni dopo sui Rai1 con il padre con il programma Il pianeta dei dinosauri.
Il rapimento in Niger e l’isola di Pasqua. Nel 2002 Alberto Angela e la sua troupe sono stati vittime di un rapimento lampo in Niger, l’esperienza più brutta della sua vita: «Mitra puntato addosso, stavo per essere ucciso». L’isola di Pasqua invece il ricordo più bello: «Una piccola terra che emerge dal nulla, in mezzo all’Oceano, tra vento e silenzio, dove si innalzano queste incredibili statue alte 5-6 metri, unico lascito di una civiltà scomparsa e monito per gli esseri umani del XXI secolo. In qualche modo la Terra è un’isola di Pasqua nell’universo».
Collezionista di sabbia. Alberto Angela colleziona sabbia: «Ho iniziato anni fa, quando partivo per le mie spedizioni da paleontologo, prima di cominciare con la tv. Riempivo con la sabbia i rullini fotografici poi, tornato in Italia, travasavo il materiale nelle boccette di vetro. Ne ho più di una ventina, e dai colori riesco sempre a identificare il deserto di provenienza».
Un asteroide e una specie marina. Gli sono stati dedicati un asteroide (80652 Albertoangela) e una rara specie marina (Prunum albertoangelai) dei mari della Colombia. Il Museo di Storia Naturale di New York gli ha chiesto di prestare la sua voce per la versione italiana di un filmato sull’esplorazione dell’Universo. Per la versione inglese sono stati ingaggiati personaggi come Tom Hanks, Harrison Ford, Jodie Foster, Liam Neeson.
Caffé e piscina. Due i riti a cui non rinuncia. La mattina «due espressi, uno di seguito all’altro. E quando sono all’estero mi porto sempre il caffè dall’Italia, non riesco a farne a meno, ovunque mi trovi». L’altro rito è la piscina: «Pratico molto nuoto, con costanza, e mi faccio sempre un chilometro e mezzo».
Icona sexy. Gentiluomo colto ed educato, Alberto Angela piace a destra e sinistra, a etero e gay. Così ormai è diventato un personaggio cult. Si favoleggia anche sulle sue doti e i social network abbondano di gif animate («come rimorchia Alberto Angela») e meme.
Moglie e figli. Etero e gay però pare si debbano mettere l’anima in pace. Una fede al dito non è sicurezza di fedeltà, ma certo garanzia di impegno. Alberto Angela — per alcuni il Chuck Norris della cultura, per altri l’Indiana Jones della tv — è sposato con Monica dal 1993 e ha tre figli maschi: Riccardo, Edoardo e Alessandro.
Il suo credo: la tv non mente. «Nei dieci anni in cui ho lavorato come ricercatore ho sempre sentito che mancava un intermediario e mi sono chiesto: perché queste cose devono rimanere confinate nei libri o nei circoli scientifici e culturali e la gente non le sa? Se vuoi fare divulgazione, su un qualsiasi argomento devi fare le stesse domande che farebbe chiunque: il tuo barista, il notaio. E a quelle devi rispondere, entrando nel cuore delle persone attraverso la mente. Certo, la credibilità devi conquistartela sul campo: né io né mio padre, ad esempio, abbiamo mai fatto pubblicità né ospitate in qualche programma per sparare sentenze. La tv non mente: se un conduttore è simpatico, lo è anche nella vita».
Il misterioso caso di Alberto Angela, il divulgatore diventato sex symbol. A furia di guardare le Meraviglie il pubblico ha attribuito la bellezza delle cose mostrate a chi le presenta. Eppure il figlio d'arte è sempre abbastanza simile all'imitazione cult che ne fece Neri Marcorè. Beatrice Dondi il 4 maggio 2020 su La Repubblica. Quando è accaduto esattamente che Alberto Angela ha smesso di essere l’imitazione di Neri Marcorè e si è trasformato un’icona sexy universalmente riconosciuta? A un certo punto la percezione del personaggio imitato, pur conservando quegli stessi identici caratteri che avevano fatto nascere l’interpretazione comica meglio riuscita degli ultimi vent’anni, ha trasformato il ridicolo in seducente. Come è potuto succedere? Una domanda appassionante (sempre nei limiti per carità), quasi come quelle che puntualmente propone il figlio d’arte della divulgazione scientifica. Ma che resta lì, appesa come una gruccia in tintoria. All’improvviso testate autorevoli hanno cominciato a descriverlo come il Chuck Norris della cultura, l’Indiana Jones della tv, i suoi capelli sono diventati “boccoli dei serafini”, la sua voce “soave”, la sua immagine “da marito ideale incapace di tradimenti” e sono spuntate miriadi di pagine Facebook come “Sexy Alberto Angela & Friends” ( dove in un Giudizio universale formato social di Dio Piero tocca il dito del figlio ovviamente nudo), “Aggiornamenti giornalieri sull’attività sessuale di Alberto Angela”, fino alla deriva porno il cui esempio più casto è “Sesso selvaggio nell’antica Roma con Alberto Angela”. Eppure lui è sempre lo stesso, derivato eccellente della creazione firmata Ottavo nano del lontano 2001. Con l’incedere morbido e quella gestualità didascalica che da anni accompagna le sue trasmissioni da record. «Vedete?» dice sottolineando col dito nell’aria. E senza interrompere il flusso linguistico semplice, gentile e alla portata di tutti chiede mostrando una statua: «Le sue dita sono spezzate. E voi vi chiedere perché ? Perché si sono rotte». Con la medesima armonia descrittiva usa un’aggettivazione senza particolari guizzi, secondo la quale le atmosfere di Firenze sono indimenticabili, Matera ha una storia plurimillenaria, Venezia sembra incantata. Quindi non resta che immaginare che all’improvviso a furia di guardare un programma bello come le “Meraviglie” lo spettatore abbia traslato il concetto e che McLuhan ci perdoni, percepito come meraviglia il medium stesso. In questo caso il bell’Alberto. A cui si può incolpare ben poco, visto che la sua attività è costellata di meriti, non ultimo quello di distogliere pubblico dall’inutilità del sabato sera per portarlo nella cappella Sistina. E il fatto che sia diventato un sex symbol probabilmente è più un macigno che pesa sulla sua sahariana che un vanto. Ma il mistero di questo invaghimento fisico collettivo resta. Chissà, magari prima o poi ci dedicherà una puntata.
· Primo Levi.
Primo Levi, ritrovata pagina manoscritta di «Se questo è un uomo». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. «Che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà». Sono parole che Primo Levi riferisce nel suo libro più emozionante Se questo è un uomo in cui racconta la sua esperienza di deportato in un lager nazista. Quelle parole sono di un altro internato ex sergente dell’esercito austroungarico Steinlauf, che, «per restare vivi, per non cominciare a morire», invita Levi a lavarsi «la faccia senza sapone», a «camminare diritti», a non «strascicare gli zoccoli». Strane cose all’orecchio di Levi che le accetta solo in parte: rappresentano la parte finale del capitolo «Iniziazione». Un capitolo che nella prima edizione del libro del 1947 non c’è e che Primo Levi aggiunge solo nell’edizione Einaudi del 1958, quella che tutti noi conosciamo. Questa pagina autografa di Se questo è un uomo è stata acquistata dalla Biblioteca nazionale centrale di Roma e sarà mostrata al pubblico da lunedì 27 gennaio, giornata della Memoria, un nuovo spazio dedicato a Primo Levi nel museo Spazi900, ideato e progettato dal direttore Andrea De Pasquale e curato da Eleonora Cardinale. All’interno della seconda Galleria degli scrittori, tra chi ha vissuto direttamente e chi indirettamente i tragici eventi della Storia, di fronte alla sezione dedicata ad Alberto Moravia e Natalia Ginzburg, un nuovo spazio accompagnerà il visitatore alla scoperta della vita e dell’opera di Primo Levi. La pagina ritrovata è doppiamente importante perché Primo Levi volle raccontare i meccanismi infernali della società costruita nei campi di sterminio, senza muovere accuse, ma testimoniando quello che aveva visto. E proprio l’esigenza della testimonianza è il tema su cui torna introducendo il capitolo «Iniziazione» per l’edizione del 1958, collocato tra i precedenti «Sul fondo» e «Ka-Be«. «Di fronte a questo complicato mondo infero - scrive Levi -, le mie idee sono confuse; sarà proprio necessario elaborare un sistema e praticarlo? o non sarà più salutare prendere coscienza di non avere sistema?». La pagina autografa presenta varianti e un finale differente rispetto alla stesura definitiva: il capitolo si conclude con un riferimento alla morte dell’ex sergente, poi eliminato nel testo andato in stampa. Come hanno ricostruito gli studiosi e in particolare Giovanni Tesio, Se questo è un uomo, dopo il rifiuto di tre grandi editori tra cui Einaudi, venne pubblicato per la prima volta nel 1947 dalla casa editrice De Silva che ne stampò 2500 esemplari. Non tutti vennero venduti, tanto che al momento dell’acquisizione della De Silva dalla casa editrice fiorentina La Nuova Italia, nel 1949, ne risultavano ancora copie in magazzino. Solo nel 1958, dopo un ulteriore rifiuto nel 1952, Einaudi pubblico il libro nella collana dei Saggi, creando i presupposti per una fortuna editoriale che l’ha portato a vendere centinaia di migliaia di copie. Primo Levi tornò sul tema della deportazione nel 1963 con il libro La tregua, in cui ha raccontato lo sfiancante viaggio a piedi per tornare in Italia dopo la liberazione dal lager. Infine nel 1986, con un piccolo saggio I sommersi e i salvati, che riprendeva il titolo che Primo Levi aveva dato al manoscritto di Se questo è un uomo. La pagina che il 27 gennaio viene presentata al pubblico della Biblioteca nazionale di Roma appare un’eccezionale prova dell’intenso lavoro di riscrittura del testo da parte di Levi. Probabilmente proviene da un quaderno nel quale lo scrittore ha raccolto «le aggiunte autografe appositamente pensate per l’edizione Einaudi» del 1958, come rivela Giovanni Tesio che lo ha potuto visionare per un suo studio del 1977 sulle varianti del libro. Sempre sul finire degli anni Settanta, Bianca Vallora, nella torinese Bottega del Borgo Nuovo, organizza una mostra sulla scrittura alla quale partecipano pure gli amici «Einaudi» con i loro autografi. Tra questi è presente anche Primo Levi che lascerà poi in dono a Bianca il manoscritto esposto: la pagina di Se questo è un uomo. Oltre a pannelli iconografici e biografici, il percorso espositivo è arricchito da due video che documentano il viaggio di andata e di ritorno da Auschwitz di Primo Levi, realizzati e gentilmente concessi dal Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino. Dal 27 gennaio si può visitare la nuova sezione dedicata a Primo Levi anche virtualmente sul portale Spazi900 dal sito della Biblioteca.
· Robert Schumann.
Amore, musica e follia. L'ultimo atto del genio Schumann. Piero De Martini si addentra nella fase finale della vita del compositore Robert Schumann. Claudia Gualdana, Sabato 11/07/2020 su Il Giornale. In Robert Schumann (1810-1856) c'è molto della sua epoca, più che in altre menti geniali. Un po' come se il talentuoso compositore fosse una finestra spalancata sul tempo, la prima metà dell'Ottocento. Tempo in cui essere artista, per di più tedesco, significava essere prima di tutto un artista romantico. Come il poeta Friedrich Hölderlin, più vecchio di quarant'anni, che Schumann amava e di cui condivise il destino maledetto. Quando questi morì pazzo, nel 1843, il musicista viveva gli anni gioiosi dell'esistenza: si era sposato da poco con Clara Wieck, figlia del suo maestro di pianoforte e grandissima pianista essa stessa, nonostante i Wieck fossero contrari, per l'instabilità mentale e per gli eccessi alcolici dell'affascinante pretendente. Uno psichiatra direbbe che la morte del padre, quando aveva solo sedici anni, e il suicidio della sorella Eugenia ne avevano segnato per sempre l'anima. Eppure la sua vita era stata ed era un'infilata di successi, per lo più di critica, ma anche di pubblico: incarichi prestigiosi, composizioni che a sentirle facevano e fanno tremare i polsi, abissi di dolcezza e malinconia sonore senza fine. Qualcuno potrebbe pensare che forse non fosse necessaria una nuova biografia su un protagonista della musica tanto famoso, dal quale si recavano in pellegrinaggio Brahms e Liszt ancora giovani. E invece sì, perché Piero De Martini, già autore di libri su Mozart e Chopin, inizia laddove altri hanno gettato la spugna. Gira il coltello nella piaga degli anni della follia, dello sdoppiamento di personalità e infine del ricovero in manicomio, dove Schumann morì nel 1856 a soli 46 anni. In Schumann. L'ultimo capitolo (ilSaggiatore, pagg. 212, euro 25), ci sono i risultati dei viaggi di De Martini a Düsseldorf, nella sua ultima dimora in Bilker Strasse e nella casa di cura di Endenich, dove il genio si rovescia in follia e Robert diparte per una malattia misteriosa. Fruttuose le ricerche da rabdomante tra le sue opere perdute, in modo particolare il Concerto per violino in Re minore, emerso dal passato solo quando Joseph Goebbels, il ministro nazista della propaganda, lo strappa all'oblio per farne un manifesto della vera musica tedesca: fu eseguito a Berlino nel 1937 e poco dopo negli Stati Uniti. Il tutto contro la volontà della vedova Clara Schumann, e degli amici Joseph Joachim e Johannes Brahms, che ne avevano sepolto la partitura nella Biblioteca di Stato di Berlino stabilendo che sarebbe stato possibile rivederla solo cento anni dopo. Una decisione incomprensibile, mentre il suo autore, nei rari momenti di lucidità, chiedeva che ne fosse stato della sua musica. Si citava sopra Hölderlin, il pensiero corre alla sua torre a Tubinga, in cui visse gli ultimi 36 anni. Nessuno può dire cosa balenasse nei suoi pensieri; il paragone con i due anni di Schumann a Endenich viene spontaneo, per quanto siano così pochi in confronto, perché altrettanto dolorosi e definitivi. E poi De Martini inizia il libro con un capitolo dedicato proprio alla mente del compositore, e qui si scoperchia un mondo di cui Hölderlin fa parte. Il musicista fu infatti un avido lettore della sua poesia, come di quella di Novalis, ma anche per il vezzo di firmarsi talora con nomi italiani, che non può essere casuale. Hölderlin aveva scelto Salvator Rosa, Buonarroti, Scardanelli; Schumann Eusebio e Florestano, due maschere del Carnaval, op. 9. L'uno è un tipo riflessivo, l'altro un bel matto, un eroe romantico spumeggiante. Un tipo alla Ugo Foscolo, se vogliamo continuare i riferimenti all'Italia. Schumann era infine coltissimo, in cima alle sue preferenze c'erano Goethe, Schelling e Schiller; a modo suo era anche un po' filosofo, credeva in un dio panteista e cullava un forte sentimento della natura. Gli piaceva passeggiare e cogliere fiori di campo. Soprattutto lungo il fiume Reno, così pregno di significati per l'identità teutonica. Nel 1850 compone Renana, «la più equilibrata e anche la più tedesca delle quattro sinfonie», scrive De Martini. Ed è sempre nel Reno che cerca la morte quattro anni dopo, senza successo. È l'inizio della fine: il ricovero in clinica, da lui stesso voluto, con gli incubi sonori che non gli davano tregua e l'assenza, la misteriosa e remota assenza dei folli. Non c'erano molte definizioni a quel tempo per le persone cadute nel buio della mente, da cui in verità Schumann da sempre temeva di essere inghiottito. Sembra si animasse solo quando la moglie e gli amici gli facevano visita. Per parlare di musica, naturalmente.
· Roberto Capucci.
Alba Solaro per “il Venerdì di Repubblica” il 26 agosto 2020. Quante persone al mondo hanno sul balcone una rosa creata in loro onore? Sulla terrazza lunga come un campo di calcetto, le rose Roberto Capucci prendono il sole. Sono di un rosa delicato, lo stilista le avrebbe preferite fucsia col cuore verde; da vicino, i boccioli ricordano gli abiti scultura del maestro, che oggi sono patrimonio dei Beni culturali e girano per il mondo nei musei d' arte. Osare l' impossibile non è mai stato un problema per questo stilista raffinato, novant' anni quasi, la voce morbida e strascicata da aristocrazia capitolina, una bella scintilla di ironia negli occhi chiari. La sua ultima avventura lo porterà il 28 agosto al Festival dei Due Mondi di Spoleto per la prima mondiale di Le Creature di Prometeo/ Le creature di Capucci, concerto-balletto su musiche di Beethoven, coreografie di Simona Bucci, direzione di Daniele Cipriani. E 15 lisergici costumi disegnati dal maestro: esseri fantastici adornati di spirali, artigli, fiori, per raccontare il trionfo della creatività. Sul bavero del suo gilet color glicine spicca una spilletta. «Me l' ha data il presidente della Repubblica Ciampi nel 2002. È la spilla da Cavaliere di Gran Croce, la devo mettere perché ogni tanto incontro il vecchio cerimoniere, abita qua vicino. Se non ce l' ho, mi sgrida. Gli spiego che la metto la sera, se vado a teatro "No, la deve mettere tutti i giorni!". Non lo voglio deludere. È un onore essere Cavaliere di Gran Croce. Anche se non andrò mai a combattere».
Però le sue battaglie le ha fatte.
«Eh sì, la prima quando ho aperto la sartoria, nel 1950. Avevo 19 anni, e mia madre non vo-le-va che facessi questo lavoro. Sperava che, come tutti i figli di buona famiglia, diventassi ingegnere, o avvocato Immagina: io avvocato! Poi capì, del resto fin da piccolo avevo la mania dei colori».
E non le è passata.
«Alla tenera età di novant' anni, guardi che sinfonia di colori che ho addosso.
Facevo i compiti, perché ero un ragazzino noioso da quanto ero preciso, poi scappavo in giardino, tagliavo i fiori che mi piacevano, e chiamavo la mamma: vieni a vedere che bei colori! E lei: belli, però i fiori non li devi tagliare».
Alla fine capì che non poteva fare l' avvocato.
«Ma della sartoria non era convinta. Mi aiutò una giornalista, Maria Foschini, che aveva settant' anni ed era affascinata dai miei disegni. Li portò a Firenze da Giovanni Battista Giorgini, che stava organizzando la prima leggendaria sfilata di moda italiana a Palazzo Torrigiani. Lui mi disse: "Non la posso invitare ufficialmente, perché lei dimostra 14 anni. Ma le farò vestire mia moglie e le mie figlie per il ballo di chiusura. Mi raccomando però, silenzio". Purtroppo quella mattina Luciana Angiolillo, una mannequin di allora, incontrò Schuberth nei corridoi dell' Excelsior e gli spiattellò tutto. Schuberth avvertì gli altri sarti: ma come! Un ragazzino! E Giorgini non ci ha avvertito! Bloccarono tutto. Io ero in lacrime, perché avevo speso una follia; mantelli foderati di ermellino, di leopardo Per aiutarmi, Giorgini mi portò al suo tavolo; e arrivò Oriana Fallaci per farmi la mia prima intervista».
A un ragazzino sconosciuto.
«Era incuriosita. Mi chiese: perché questi vestiti sontuosi? "Perché io credo nell' Alta Moda". E poi venivo dall' Accademia di Belle Arti. Non avevo lo spirito del vestito bello, avevo lo spirito della creazione, della forma, dei volumi».
Quindi il disastro si trasformò in pubblicità.
«E in amicizia con molti dei sarti: la principessa Caracciolo di Carosa, Simonetta Colonna di Cesarò Era un altro mondo. Simonetta, che aveva avuto una nonna alla corte degli zar, e la principessa Irene Galitzine, russa pure lei, si sfidavano in celebri pranzi a chi cucinava meglio le pietanze russe».
Quante altre battaglie nella sua vita?
«Non così tante. Sa perché? Ero individualista. Non seguivo mai quello che facevano gli altri. Mi piaceva esporre da solo, infatti nel 1960 mi sono trasferito a Parigi. Per ragioni sindacali ho dovuto prendere tutto personale francese. La direttrice veniva da Balenciaga; la prima tagliatrice era stata con Dior ai tempi del New Look, era incredibilmente brava, ma cattivissima. Riprendeva anche la duchessa di Windsor, "Madame s' il vous plaît, ne touchez pas"».
Perché poi è tornato in Italia?
«Ero un mammone. E mia madre era rimasta vedova per la seconda volta; in più, il giudice tutelare le aveva affidato Sabrina, mia nipote, figlia di mio fratello Fabrizio e di Catherine Spaak, che si erano appena separati. E la bambina aveva solo due mesi».
Nessun rimpianto?
«Un pochino sì. Le francesi erano bravissime, certo chi puliva i portacenere non chiudeva le finestre; chi chiudeva le finestre non rispondeva al telefono Ma sono stati sei anni felici».
Il 2 dicembre compirà 90 anni.
«La creatività mi tiene vivo. Quando disegno sono felice, è come una droga, anche se non le ho mai provate, solo le sigarette. Viene tutto da qui dentro (indica la testa, ndr)».
E come nutre la sua testa?
«Con grandi mal di testa! Guardi, so solo che per disegnare devo essere sereno. Allora faccio un punto al centro del foglio. Quel punto è l' anima del disegno che nascerà».
È sempre stato uno sperimentatore audace.
«Mi incuriosiva l' Arte povera. Nel '68, con dei sassi stupendi presi in riva al mare in Sicilia, feci cinte, collari, polsini: un successo folle. Nel 1970, al ninfeo di Valle Giulia, feci sfilare le modelle senza trucco, capelli sciolti, scarpe basse. I tessuti li prendevo dall' Antico Setificio Fiorentino, come l' ermesino: un taffetà di seta cangiante che arriva dalla Persia, però chi se lo mette oggi? Tutto finito, cara mia».
Una volta ha detto: ho dovuto scegliere tra essere ricchissimo e essere me stesso.
«Per questo mi sono dimesso dalla Camera della Moda. Nel '92 ho fatto un abito celebre chiamato Oceano, 172 sfumature di blu. Me l' aveva chiesto il ministero degli Esteri per il padiglione italiano dell' Expo di Lisbona. Ci ho messo cinque mesi, cinque ragazze al lavoro. Come posso fare un' intera collezione ogni sei mesi, quando in cinque ho fatto un unico vestito?».
Parliamo delle Capuccine, le sue adepte.
«Il termine lo ha coniato Irene Brin, scrittrice adorabile. Ho vestito donne non sempre belle ma con carattere. Come la principessa Pallavicini, che aveva le sue regole: mai nero, se non si è a lutto; vita stretta; e gli abiti da sera sempre con un po' di coda».
Come quella che ha messo a Rita Levi-Montalcini per il Nobel.
«Uh, non voleva: "Capucci, la coda non la porto". Le dissi: professoressa, lei è l' unica donna che prende il Nobel, gli altri sono tutti uomini in frac. Quando la chiama il re, lei si deve alzare e avere lo strascico come la regina. Questa cosa le è piaciuta. Con gli anni era diventata ambiziosa, amava i vestiti. Ne aveva 47 miei. Una volta mi chiese di fargliene uno in sei giorni. Impossibile, non poteva mettere quello che le avevo fatto un mese prima? Rispose: "Me l' hanno visto"».
Come le dive del cinema. La sua musa è stata Silvana Mangano.
«Era di una bellezza che mi rimbambiva. La conobbi quando Pasolini mi chiamò per i costumi di Teorema. Per giorni provammo nel più assoluto silenzio. Poi Pasolini mi suggerì di essere il primo a rompere il ghiaccio: "Scoprirà una donna unica al mondo". Ed era vero. Dopo di lei non ho voluto vestire nessun' altra attrice».
Nessuna?
«Solo le amiche, come Franca Valeri. Ci conosciamo da 64 anni! L' ultimo vestito gliel' ho fatto cinque anni fa. "Franchina, te lo faccio rosso, che porta bene". Ma lei lo voleva fucsia come la sciarpa indiana che avevo al collo: "Se l' hai comprata vuol dire che quella tinta ti piace molto"».
È celebre il suo no ad Anna Magnani.
«Un' attrice immensa, con un brutto carattere. Me la portò Valentina Cortese; arrivò tutta spettinata con in braccio la sua bassottina, che doveva fare incrociare con il cane di mia sorella, un bassotto campione d' Italia. Avevo cinque vendeuse, tutte figlie di ambasciatori, chignon tirato e fili di perle. Le squadrò con cattiveria, a me neanche mi salutò. Ordinò cinque vestiti, ma non li feci, era un rapporto nato male».
Oggi chi vestirebbe?
«Nessuno Le veline? Le politiche? Non ho mai avuto rapporti con quel mondo. Mio padre era un proprietario terriero romagnolo, ma detestava il fascismo, non andava d' accordo col fratello più piccolo, che era podestà. Mi chiamava "caruccio bello". È morto che avevo 13 anni, ricordo quando mi prendeva sulle ginocchia per ascoltare le opere al grammofono».
Ora c' è Spotify, non la incuriosisce il presente?
«È un mondo che non mi appartiene. Non so neppure accendere il telefonino. O la tv: me l' apre la cameriera».
C' è qualcosa che vorrebbe cambiare?
«Nulla, ho avuto una vita bella, piena di riconoscimenti. Ogni tanto penso al passato e viene una specie di dolore, poi passa. E ora sono arrivato anche alla meravigliosa follia del balletto; proprio io che a ballare non sono mai andato oltre il twist».
· Roberto Cavalli.
Gianluca Lovetro per “la Stampa” il 5 novembre 2020. Si commuove alle lacrime più volte: prende pause di riflessione, parla delle sue sofferenze alle quali è incline, ride, sospira e sottolinea il valore delle strette di mano «nelle quali c' è la nostra vita, l' amicizia, l' amore...». Il 15 novembre Roberto Cavalli compie 80 anni e accetta di raccontarsi. A febbraio era stato ricoverato al Policlinico fiorentino di Careggi, ora sta bene. Vive in simbiosi da 13 anni con la compagna Sandra Nilsson nel suo loft tra il verde della tenuta di famiglia a Firenze Sud. Anche la seconda moglie Eva Duringer, miss Universo nel '77, suo braccio destro negli anni del boom, gli telefona tutti i giorni, tenendo i rapporti con le celebrities che la stanno chiamando per gli auguri: da Lenny Kravitz a Cindy Crawford. I più, con superficialità, associano Cavalli alla "riccanza" degli Anni '90/2000: alle feste faraoniche, ai red carpet con le celeb mondiali, al gommone zebrato con idromassaggio. Ma Cavalli è molto di più. Nipote del pittore macchiaiolo Giuseppe Rossi, le cui opere sono esposte alla Galleria degli Uffizi, Cavalli ha ereditato dal nonno il gene dell' arte che ha espresso sulle stampe dei vestiti: fantasie iper-realiste, tratte da sue foto, dove si fondono vegetazione, animalier e oggetti come il dettaglio di un accendino usa e getta.
Come festeggerà?
«Con un pranzo in famiglia. Non so su quale torta metteranno 80 candeline. Se ne faranno due».
Una famiglia allargata, con cinque figli avuti da due mogli...
«Allargata? Ma non è mica un elastico il mio rapporto è molto rigido con tutti loro. Compreso quello con le mie ex mogli che ho amato, amo e amerò per sempre. Sono le mamme dei miei figli coi loro bambini, i miei nipoti adorati ai quali voglio trasferire le esperienze che ho maturato. Senza dimenticare Sandra, la compagna che vive al mio fianco venti ore al giorno».
Come vive questo momento complesso?
«Sono triste, mi sento abbandonato. Come tutti, credo Vorrei viaggiare perché resto un avventuriero. Le spedizioni per me costituiscono una ragione di vita. Ma sono trattenuto. Ho trascorso molto tempo disegnando, riavvicinandomi alle mie idee e ai miei desideri».
Ha paura?
«Timore, direi. Sto chiuso in casa. Scrivo e lavoro al computer. A volte le giornate sono troppo lunghe, altre troppo corte. Il guaio è che non credo molto nella politica e non do fiducia a chi ci comanda».
Suo padre Giorgio nel '44 venne fucilato dalla Wehrmacht.
«Non ho avuto un' infanzia facile. Era geometra, lavorava per una miniera del Valdarno. Avevo solo 4 anni. Sono antifascista, al massimo e non solo per questo mio dolore. Lo sarò sino alla morte».
Che cosa pensa di Trump?
«Lo conosco molto bene. In certi momenti l' ho considerato quasi simpatico. Resta indimenticabile la notte nella quale con la mia compagna Sandra l' ho accompagnato al fianco di Melania a un concerto dell' amico Bocelli».
Chi avrebbe votato negli Usa?
«Diciamo che non sarei andato a votare».
Come vede la catastrofe ambientale?
«Mi vergogno di vivere in un momento in cui nessuno ha fatto niente per il pianeta, compreso il sottoscritto».
Vive ancora tra gli animali?
«Sono i miei "bambini". Ho tre pappagalli, un merlo indiano che mi fa il verso. Poi, 4 gattini, 2 yorkshire e il cane lupo sempre attaccato a me. In giardino invece, razzolano galline di razza e pavoni. La mattina mi sveglio col canto del gallo e quello del pavone. Mi viene più facile concedere l' amicizia a loro, più che agli uomini».
Chi sono oggi i suoi amici?
«Le persone più vere e pure. Ma tante non mi danno l' amore che io ho dato loro».
Lo stuolo di celeb che la circondava?
«Non esistono nella mia vita».
Un ricordo indelebile di una celeb?
«Nei primi anni del 2000 venne da me Michael Jackson dicendomi che voleva cambiare look . Iniziò ordinandomi 10 paia di stivali neri come i miei. Poi gli disegnai anche una giacca. Ci impiegai decine di giorni...ma durante il concerto del 2006 a Londra c' erano 40 gradi e lui si tolse il blazer lanciandolo sul pubblico che la fece a brandelli. Una sera andammo a cena a Las Vegas. Mi colpì la sua vocina e la sua parrucca nera, dietro penso nascondesse una gran timidezza e una grande fragilità. L' ho sentito dieci giorni prima che morisse».
Le manca il lavoro?
«Terribilmente. Soprattutto la fase creativa. Per sentirmi vivo e per chi stima il mio operato».
Cosa pensa della moda di oggi?
«Perché, c' è una moda?».
E delle influencer?
«Non le noto. Vedo solo persone che cercano di approfittare della loro capacità di apparire. "Affarine"».
Progetti per il futuro?
«Sto preparando una personale a Dubai. Ma soprattutto un produttore americano sta girando un film sulla mia vita. Tutto top secret per ora. Ha capito ciò che ho nella testa e non sono ancora riuscito a esprimere. Di certo, ambisco all' Oscar. Non sono mai stato un mediocre. Il successo banale, l' ho già avuto».
Ha paura di invecchiare?
«Temo di farlo nella maniera sbagliata: in quello che penso che vivo... nel rapporto coi miei figli».
E la morte?
«Non la temo. Tanto dobbiamo morire tutti. Vorrei piuttosto l' eternità, l' infinito. Ho ancora tanti pensieri da esprimere».
· Sergio Lepri.
Sergio Lepri (ex direttore Ansa): «Io, dal Duce alle Sardine. E a 101 anni scrivo ancora online». Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. Il giornalista, ex portavoce di Fanfani: guidò l’agenzia dal 1961 al 1990. «Renzi continua a fare molti errori, ma non condivido la demonizzazione che ne viene fatta, Salvini è peggio».
Sergio Lepri, lei va per i 101 anni. Qual è il segreto della longevità?
«Poco cibo, un bicchiere di vino rosso, molto sport».
Sport?
«A 71 anni ho scalato il Cervino. Ho sciato fino a 96 anni, fino a quando camminando con gli scarponi sono scivolato e mi sono rotto la testa. Ho continuato per altri sei mesi a giocare a tennis, poi ho dovuto smettere».
Ora come si tiene in forma?
«Un’ora di passeggiata al mattino, un’altra al pomeriggio. Se piove, faccio sei volte le scale di casa. Ma la cosa più importante è continuare a scrivere. In rete, ovviamente».
La rete non sta uccidendo il giornalismo?
«Al contrario. La rete è una straordinaria opportunità per arricchire l’informazione, e anche per verificarla. Certo, ci sono pure pericoli. La rete cambia tutto a una velocità fino a ieri impensabile. Anche il nostro modo di pensare».
Cioè?
«Ogni giorno leggo l’edizione digitale di Corriere, Repubblica e Stampa, che è ancora una lettura tradizionale, a due dimensioni. Poi vado sui siti, dove la lettura è invece tridimensionale: ci sono i video, ma soprattutto i link, che ti portano vicino o lontano, prima o dopo. Una volta leggevamo come mucche, muovendo gli occhi da sinistra a destra; ora siamo come stambecchi, che saltano qua e là. La rete annulla la dimensione temporale».
Il passato non esiste.
«E la Seconda guerra mondiale è come la seconda guerra punica».
Lei la guerra l’ha fatta.
«Mi laureai — tesi sull’estetica di Croce — il mattino del 10 giugno 1940. Nel pomeriggio Mussolini dichiarò guerra».
Che ricordo ha del fascismo?
«I silenzi di mio padre Angiolo. C’era chi gridava “viva il Duce”, ma nessuno poteva gridare “abbasso il Duce”: finivi in questura e poi al confino o in galera. Si dissentiva tacendo».
E la guerra?
«Come laureato avrei dovuto fare il corso allievi ufficiali. Ma l’altezza minima, che prima era un metro e 54 come quella del re, era stata portata a un metro e 60; e io ero un metro e 59 e otto millimetri».
Per due millimetri...
«Mi mandarono al reggimento. Caporale, caporalmaggiore, sergente: ufficio operazioni comando della Quinta Armata. E posso dire che la storia dell’armistizio a sorpresa e dell’esercito lasciato senza ordini è un po’ una leggenda autoassolutoria: già nella notte tra l’11 e il 12 agosto arrivò l’ordine per le divisioni costiere di ruotare l’artiglieria di 180 gradi. I cannoni non erano più puntati sul mare in funzione antisbarco; perché gli Alleati non erano più nemici».
Lei cosa fece l’8 settembre?
«Scappai a piedi, da Firenze a Reggello. Mi nascosi nella villa di un amico, anche lui disertore. Venne il maresciallo dei carabinieri a dirci: “Ho l’ordine di arrestare tutti i giovani sbandati. Ma sono le 5 del pomeriggio, e ho molto da fare. Tornerò domattina”. Era un chiaro invito a sparire. Così salimmo sul Pratomagno, la montagna nell’ansa dell’Arno, un posto bellissimo. Ogni quindici giorni un poliziotto passava da mia madre Ida a chiedere dove fossi».
E lei?
«Mamma era facile al pianto. Ogni volta scoppiava in lacrime: “Non lo so dov’è Sergio...”. Ovviamente lo sapeva benissimo. Ma quando la divisione Goering iniziò i rastrellamenti, non avendo armi per batterci, tornammo di nascosto a Firenze».
E lei divenne giornalista. Subito direttore.
«Ero iscritto al partito d’Azione — l’unica tessera che abbia mai avuto —, ma accettai di dirigere il giornale clandestino dei liberali, L’Opinione. A Firenze la guerra civile aveva una sua moderazione. Fino a quando non fucilarono cinque renitenti alla leva, e i partigiani risposero uccidendo Giovanni Gentile».
Un crimine? O un atto di guerra?
«Un episodio della guerra partigiana. Deciso a Firenze, non ordinato da Togliatti. Come studente di filosofia ammiravo Gentile, ma aborrivo le sue idee politiche. Fu un grande maestro; ma fu un cattivo maestro».
Incontrò mai Croce?
«Sì; e mi deluse. Aveva architettato una complessa proposta per salvare la monarchia: il re avrebbe dovuto affidare la luogotenenza non al figlio Umberto, ma al nipote Vittorio Emanuele — che si sarebbe poi rivelato uno sciagurato —, sotto l’egida di De Nicola. Mi pareva un pasticcio. Io ero per la Repubblica. Così lasciai il Pli per la Concentrazione democratica repubblicana, guidata da Ferruccio Parri e Ugo La Malfa. Avevamo grandi aspettative; ma alla Costituente furono eletti soltanto loro due».
Cosa votava?
«All’inizio, Pri. Negli anni 70 e 80, scheda bianca. Poi l’Ulivo».
Dopo la Liberazione lei passò al «Giornale del Mattino» di Firenze, direttore Ettore Bernabei.
«Fu il primo giornale moderno: grandi foto, titoli secchi, inserto della domenica, pagina dei ragazzi, e pure il cruciverba. L’editore non era la Dc ma Montini, il futuro Papa: era stato lui a trovare i soldi; però collaboravano laici come Manlio Cancogni e Carlo Cassola. Io ero il caporedattore, mi affidavano anche lunghe inchieste. Nel 1952 passai tre mesi negli Stati Uniti, evitando con cura New York e la California. Mandai 26 articoli, tutti dall’America sconosciuta: il Kentucky, l’Illinois. Lavorai per due settimane al quotidiano di Florence, Alabama. Mi chiesero un articolo su Firenze e lo misero in prima pagina, con la mia foto: il mattino dopo, per strada mi salutavano tutti. Poi mi chiesero un articolo sulla loro città».
E lei cosa scrisse?
«Che le ragazze erano tutte belle ma tutte uguali: stessi sorrisi, stessa pettinatura, stesse scarpe da tennis bianche con striscia colorata... Il mattino dopo per strada la gente si voltava dall’altra parte. Dovetti andare nell’aula magna del college a chiedere scusa alle studentesse».
Come mai si offesero?
«C’era un non detto: i neri erano invisibili. Segregati nelle loro chiese e nelle loro scuole. Ma al Nord se la passavano pure peggio».
È stato anche in Unione sovietica?
«Altri tre mesi. Fu Giorgio La Pira a farmi avere il visto. La guida era ovviamente un agente segreto, quindi inutile. Giravo da solo nei mercati kolchoziani, nelle poche chiese rimaste aperte, nei cimiteri».
Perché nei cimiteri?
«Il comunismo annunciava l’avvento dell’uomo nuovo; e io volevo capire come moriva, quest’uomo nuovo. Nei cimiteri c’era moltissima gente. Le tombe erano interrate, e attorno c’erano sedie su cui vedove e orfani passavano intere giornate, a far compagnia al defunto; siccome non si trovavano fiori, portavano quelli di carta. Non parlavo il russo; ma tanto loro non dicevano nulla. Restavano lì. E mi sembravano uguali a noi uomini vecchi».
Poi Fanfani la volle come portavoce.
«Lo avvisai che non votavo Dc. Lui rispose: “Le ho chiesto di diventare mio collaboratore, non le ho chiesto le sue idee politiche”».
Era così tollerante?
«Molto. A volte però si infuriava. Stava per morire Pio XII: l’accordo era che, quando fosse accaduto, un sacerdote avrebbe sventolato un fazzoletto bianco alla finestra. Il redattore dell’Agi, l’Agenzia Italia, vide o credette di vedere un fazzoletto, e diede la notizia. La France Presse la riprese. Ma il Papa era ancora vivo. La sera Fanfani entrò nel mio ufficio e intimò: “Faccia licenziare il direttore dell’Agi ed espellere quello della France Presse!”. Gli suggerii di aspettare il mattino dopo. Uscì adirato sbattendo la porta. Ma il mattino dopo cambiò idea».
Montanelli lo chiamava il Rieccolo.
«Era diventato presidente del Consiglio; ma la Chiesa e la Confindustria non volevano il centrosinistra, e i franchi tiratori lo silurarono. Quando tornò in sella, Fanfani mi chiese di ricominciare. Dissi di no: non avevo la necessaria passione politica».
E lui?
«Mi domandò: ma un posto ce l’hai?».
Ce l’aveva?
«No. Però avevo una mezza proposta del consigliere delegato dell’Ansa: la poltrona da direttore era vacante da due anni. Non la voleva nessuno: lo stipendio era basso, la redazione piccola».
Lei ha diretto l’Ansa dal 1961 al 1990.
«Ho assunto più di seicento giornalisti. Diventammo la quarta agenzia al mondo, davanti alla Dpa tedesca e all’Efe spagnola, con corrispondenti da tutte le capitali».
I politici telefonavano?
«Solo i primi due anni. Non fu difficile farli smettere: bastava dire di no».
Celebre una telefonata di Aldo Moro.
«Mi chiese se avrei dato la notizia dell’attacco di Malagodi al centrosinistra. Risposi che l’avrei fatto di sicuro. Seguì un lungo silenzio. Pensavo avesse riattaccato. Invece Moro disse: “Mi rendo conto”. Appena tre parole, ma importanti. La politica si rendeva conto che le notizie non si potevano censurare. Allora nessuno pensava di poterle manipolare o inventare, come fanno i politici di oggi».
Come ricorda gli Anni Sessanta?
«Un’era di grandi e positivi cambiamenti. Prima si viveva ancora secondo gli schemi dell’Ottocento. Nel 1961 la Corte Costituzionale confermò che l’adulterio femminile — ma non quello maschile — era reato. Meno di dieci anni dopo avevamo il divorzio».
È vero che ebbe uno scontro con Nilde Iotti?
«Lei voleva essere definita il presidente della Camera, ma io avevo dato disposizione di scrivere la presidente. Si adattò. Susanna Agnelli invece venne a protestare: “Sono il senatore Agnelli, non la senatrice!”. Risposi che senatore era suo nonno. Se ne andò senza salutare».
Pansa o Bocca?
«Due grandi giornalisti. Ma ho riserve su entrambi. Non so se tutto quello che scrivesse Bocca fosse veritiero. Quanto a Pansa, ha passato la vita a elogiare la Resistenza, per poi scrivere certi libri...».
Ha letto «Il sangue dei vinti»?
«Non l’ho letto e non mi è piaciuto».
Montanelli o Scalfari?
«Montanelli è stato un grandissimo. Prediligeva il verosimile, ed era talmente bravo da renderlo vero. Scalfari è come me: un superstite. Tra i giornalisti della Liberazione sono rimasto solo io. Dell’ondata successiva restano Arrigo Levi, Sergio Zavoli ed Eugenio Scalfari; che scrive ancora».
Lei disse di Renzi: «Non lo giudico, ma se fallisce sarà il disastro». Direi che ci siamo.
«Sono arrivate le Sardine però. Renzi ha fatto e continua a fare molti errori, ma non condivido la demonizzazione che ne viene fatta. Salvini è peggio».
Perché?
«Mi fa paura. Sono un liberale; non mi piace la democrazia illiberale».
Il fascismo può tornare?
«Nulla torna. Tutto muta: anche la morale, i valori. La storia cambia ogni giorno. E va scritta con la “s” minuscola: perché è la storia di tutti noi, dei miliardi di esseri umani che abitano la Terra».
Lei crede in Dio?
«No, non per motivi religiosi ma filosofici: non credo nella trascendenza. L’unica realtà è l’individuo. Sopra e al di là dell’individuo non c’è nulla».
E dopo la morte cosa c’è?
«Niente».
Chi è la signora che sorride da tutte le foto esposte in questa casa?
«Mia moglie Laura. Se ne è andata nel sonno, nove anni fa. L’ho amata per tutta la vita e la amerò per sempre. Laura, come vede, è ancora con me. Abbiamo avuto tre figli: Stefano, Paolo e Maria».
E di noi cosa resta?
«L’aspetto straordinario della rete è l’immortalità. I nostri articoli di carta venivano gettati via dopo poche ore. Il mio sito resterà anche dopo la mia morte».
· Sibilla Aleramo.
Chi era Sibilla Aleramo, la scrittrice che anticipò i temi del femminismo. Lea Melandri il 29 Dicembre 2019 su Il Riformista. Buona profetessa della riscoperta che il femminismo farà del suo singolare percorso di vita e di scrittura, Sibilla Aleramo così annota nelle ultime pagine del suo Diario: «Tutto getto di me, chi mai se n’è accorto? Nessuno realmente quando il libro uscì. Fra venti, cinquanta, cent’anni chi farà giustizia alla donna che in queste pagine, e in tante altre, s’è così immolata?». «Chi leggerà tutte queste pagine, dopo la mia morte? Deciderà di distruggerle tutte? O potrà ricavarne qualche frammento di lucida intuizione?». Avendola letta a più riprese, trascrivendo ogni volta passaggi che arrivano come schegge di folgorante consapevolezza, non ho potuto fare a meno di fantasticare che avesse previsto anche me e l’appassionato interesse che le avevo dedicato per anni. Certa di rappresentare “qualcosa di raro nella storia del sentimento umano”, è Sibilla stessa a dare alle migliaia di pagine che aveva scritto per “narrarsi e spiegarsi”, il significato che più le premeva consegnare al futuro: «Niente letteratura, e niente anche, o pochissima arte. Ma un flusso irrefrenabile di vita». Ciò che è arrivato effettivamente fino a noi, mezzo secolo fa, e che torna a riattualizzarsi per nuove generazioni di donne, è il lascito di una straordinaria coscienza femminile anticipatrice, il «pudore selvaggio» e la «selvaggia nudità» con cui ha «calato nella mischia» la più intima e insieme la più universale delle passioni umane: il sogno d’amore, «il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso». Attraverso una scrittura, che corre parallela alla vita, e che al medesimo tempo la costruisce e la interroga, Sibilla arriva a intuire un nodo essenziale della storia degli umani: il prolungarsi dell’infanzia, del legame originario con la madre, nella relazione amorosa adulta, quel «lungo sonno» da cui è difficile svegliarsi, perché vivere vuol dire accettare la singolarità di ogni individuo, la malinconia di una libertà che si desidera, ma che è faticosa da sopportare. Nel romanzo Una donna Sibilla, che ha avuto il coraggio di sottrarsi all’immolazione materna, ha ancora bisogno di celebrare la propria rinascita come «moderna asceta», «l’Umanità stessa, schiava e ribelle alle proprie leggi», forza rigeneratrice della sterile civiltà dell’uomo. Ma, a margine del suo slancio quasi mistico , ci sono già «migliaia di foglietti», di note prese, come lei dice, soltanto per necessità di riconoscersi, “al di là” dello stesso libro che scriveva. È in questi scritti apparentemente marginali che si fa strada la consapevolezza della centralità dell’uomo e della sua visione del mondo, la sua incuranza per l’anima femminile, la riduzione della donna al corpo che lo nutre e lo riscalda. «Come era così passato dalla sua cupa negazione umana a tanta ferma fede? Non per la bellezza dell’anima mia, ch’egli non la sentiva, come sentiva invece ogni sera ed ogni mattina il mio corpo, ché gli era, questo sì davvero, simile al pezzo di terra che ci sostenta». «Sensazione costante della donna moderna della propria sopravvivenza: esteriore aggraziato che implica debolezza e schiavitù, impulsi intimi di dedizione, compiacenza nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria». A un certo punto, tuttavia, i due percorsi finiscono per convergere. È nei Diari che, abbandonata l’autobiografia come costruzione di una immagine ideale di sé, il “narrarsi” diventa una sorta di autoanalisi, uno svelamento continuo: «Veli tutti da sollevare». La ricerca di autonomia dell’essere femminile urta, nella lucida intuizione di Sibilla, contro una «rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa e poi compresa per virtù di analisi». L’attenzione ai modelli imposti dalla cultura maschile e incorporati dalle donne stesse, sarà al centro delle teorie e delle pratiche del femminismo degli anni Settanta, ma mentre i gruppi di autocoscienza si occuperanno della sessualità, Sibilla si sofferma quasi esclusivamente sul sogno d’amore. Portata alla luce – attraverso la “ridda” dei suoi amori – l’illusione amorosa si lascia guardare, analizzare, e quello che si può vedere è che l’idea di felicità agisce su piani diversi. Non impronta solo la relazione d’amore, ma anche l’idea di interezza del proprio essere – sensi e ragione -, e la rappresentazione del fare creativo. Appare chiaro, soprattutto, che il sogno d’amore, se poggia per un verso sull’esperienza dell’infanzia, è comunque dalla storia dell’uomo che prende forma, come ricomposizione sul polo maschile dei dualismi che essa stessa ha prodotto. Ciò spiega perché Sibilla arrivi a dire di sé di essere come Adamo che aspetta «che gli sorga a fianco Eva», perché il suo «incessante sforzo auto creativo» diventi ogni volta travaso di energie per far crescere l’individualità dell’altro. Un’affermazione sorprendente, a cui farà seguito una verità che ancora oggi le donne stentano a riconoscere: «Era necessario ch’io mi foggiassi illudendomi di foggiare altrui, ch’io mi accanissi a costruire su sabbia mobili: cercavo unicamente me stessa… Il mio potere era questo: far trovare buona la vita… La mia forza era di conservare tal potere, anche se dal mio canto perdessi ogni miraggio. Amore senza perché. Senza soggetto quasi». Lo “svelamento” avviene nella vita, nella coscienza di sé, ma è la scrittura che lo prepara nell’andirivieni incessante tra “estasi” e “gelo”, rapimento e lucidità di analisi, smarrimento nell’altro e «fastidioso obbligo di vivere per sé». Mentre sta scrivendo i Diari, Sibilla si rende conto che sta perdendo la sua ispirazione poetica e che c’è in lei una «sotterranea seconda vita, corrente tacita di pensieri e sentimenti», che non può tradurre in poesia «se non violentandomi, disumanandomi, forse uccidendomi». Occorreva, per questo, un’altra scrittura, quella stessa che già stava facendo con le sue annotazioni quotidiane, e che le veniva rimproverata come «chiacchiere sulla carta». Anticipatrice, rispetto alle intuizioni radicali e agli sviluppi del movimento delle donne degli anni Settanta, Sibilla lo è stata anche nel giudizio che dà delle battaglie di emancipazione di inizio Novecento. Il femminismo, osserva Sibilla, nasce dalla coscienza di un «malessere diffuso e oscuro», ma subito per fretta e per paura sceglie altre strade.
Sibilla Aleramo, la donna che Pavese definì “il fiore di Torino”. Biagio Castaldo su Il Riformista il 29 Dicembre 2019. Nomen omen è la locuzione latina per designare “il presagio nel nome”. Lo pseudonimo scelto da Rina Pierangeli Faccio, Sibilla Aleramo, è un nomen omen: il destino di una donna trascritto fin dal debutto letterario da una celebrazione della sua terra natia. Difatti, la sua derivazione etimologica, “il suol d’Aleramo”, da un verso della poesia del Carducci, Piemonte, è un’ode di strofe saffiche che rimandava all’Alessandria piemontese di fine Ottocento in cui era nata. Sibilla trascorse la sua adolescenza istruendosi da autodidatta su Manzoni, Serao, Hugo e Dumas e visse nel solco di una madre reclusa nella condizione domestica, che tentò invano il suicidio. Fu drasticamente iniziata alla vita sessuale da uno stupro, cedendo poi alla proposta matrimoniale “di riparazione” del suo violentatore e padre di suo figlio. Nel 1987 Aleramo arrischiò il suicidio con il laudano, prima di trovare la catarsi nella letteratura. L’esordio da scrittrice arriva nel 1906 con il romanzo Una donna, pubblicato dalla casa editrice torinese Sten, dopo la cecità dei rifiuti da Baldini e Castoldi e da Treves. Tradotto in sette lingue in soli due anni, non si limitò ad essere un fenomeno editoriale, bensì segnò l’inizio di un nuovo corso letterario. Un romanzo sfacciatamente autobiografico, imbevuto di socialismo ed emancipazione, che si lesse come un nuovo modo di pensarsi donne, poiché metteva in crisi lo stereotipo della dedizione materna e la subalternità del “secondo sesso”. Una donna aveva subìto il fascino della seduzione delle parole «eternità, progresso, universo, coscienza» e le aveva sublimate in un documento di attestazione storica di proto-femminismo, che due anni più tardi vide ospitare a Milano il primo congresso nazionale delle donne italiane. Sibilla Aleramo preconizzò la figura della scrittrice professionista, abbandonando suo figlio, pur di perseguire la sua vocazione letteraria. Una scelta polarizzante, disprezzata da molte femministe, che spostarono l’attenzione sulla vera vittima del romanzo (e della vita dell’autrice), ossia il figlio, martire di una sottrazione della donna-madre dal suo sacrificio estremo, quello di restare. Nella realtà, quel gesto avrebbe dovuto suffragare l’idea che una donna che disponesse di propri mezzi per vivere potesse coltivare anche una sua individualità. Il romanzo attirò l’attenzione di Pirandello che, in una celebre recensione sulla “Gazzetta del Popolo”, espresse la sua ammirazione verso l’autrice, pur contestandole il fine personalistico dell’opera. Pirandello mosse una critica di intenti: quel romanzo, specie nel finale, tradiva gli ideali puramente artistici della letteratura e si piegava, compromettendosi, a intenti espliciti di vita. Lo scrittore siciliano aveva confutato, nel suo saggio su L’umorismo, «gli ideali della vita per se stessi, (perché) non hanno nulla da vedere con l’arte», e l’appello al figlio che chiude Una donna, per Pirandello strumentalizza l’ideale romanzesco e sfugge alla relativizzazione dei rapporti e dei valori che questi stava mettendo in scena, proprio negli stessi anni. È un caso, quello di Sibilla Aleramo, in cui autrice e testo si sovrappongono e si contaminano vicendevolmente: per Giacomo de Benedetti, Sibilla viveva «autobiograficamente» e Piero Gobetti, suo grande amico, considerava «la sua vita un romanzo, viziato anch’esso da una monotonia fisiologica». Sono gli anni in cui D’Annunzio promuoveva il mito del “vivere inimitabile” e coltivava il principio estetico del capolavoro della sua vita; Angelo Conti, l’asceta della bellezza, discuteva del connubio dell’Arte con la vita e intanto Aleramo tesseva il vissuto col romanzesco. Una donna non fu immune da censure e manipolazioni. Il racconto della smania di un amante lontano, che nella realtà fu il poeta Felice Damiani, al quale Sibilla era legata da un rapporto amoroso, subì la violenza censoria di Giovanni Cena, direttore della rivista “Nuova Antologia” e suo compagno dal 1902, che amputò quelle pagine. Aleramo era già stata consacrata nell’alveo dei circoli intellettuali più avanguardistici: si avvicinò al Futurismo con Boccioni, intrattenne rapporti con Vincenzo Cardarelli e poi l’appassionato ma brutale amore di Dino Campana. La sua vita randagia dalle feroci passioni è stata puntualmente registrata nella produzione letteraria: nel 1919 esce Il passaggio, un romanzo “di ricerca” che insegue ciò che aveva taciuto in Una donna, e l’anno seguente Endimione, una riflessione poetica con echi dannunziani, dedicato al poeta vate. Sibilla Aleramo non fu indenne da contraddizioni. Sebbene nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, divenne in seguito sostenitrice del fascismo. Il duce (che i più freudiani interpretarono come l’ennesima ricerca edipica del padre) le riconobbe una piccola pensione di mille lire mensili e un premio dall’Accademia d’Italia, che la portò nel ’33 a iscriversi all’Associazione nazionale fascista donne artiste e laureate. Ma, all’indomani della guerra, nel 1946 aderì al Partito comunista e intrattenne un rapporto epistolare con l’allora segretario, Palmiro Togliatti, che confluì in pagine di carteggi indimenticabili, acquistati poi da Feltrinelli. Fu allora che ricevette la visita di Cesare Pavese, comparendo nel suo prezioso diario, pubblicato postumo con il titolo Il mestiere di vivere, all’interno del quale Pavese la ricorda come «il fiore di Torino». Il suo vorace temperamento continuò a manifestarsi nella raccolta di poesie del 1947, Selva d’amore, nell’antologia delle prose, Gioie d’occasione e altre ancora (1954), e due anni dopo in Luci della mia sera, che comparve con una prefazione di Sergio Solmi. L’ultima delle romantiche moriva il 13 gennaio 1960, lasciando una caterva di pagine di diario e lettere d’amore. Eugenio Montale, che si sottrasse alla colletta per Sibilla Aleramo, quando abbandonò Giovanni Cena (avvalorando altresì la leggenda sulla sua proverbiale parsimonia), all’indomani della morte dell’autrice, ne descrisse la nobiltà del portamento e quella sua resistenza di fronte alle avversità con lo sguardo di chi è «sopravvissuta a tante tempeste».
· Steinback e Silone, i punti in comune di due cantori diseredati.
Steinback e Silone, i punti in comune di due cantori diseredati. Filippo La Porta il 9 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il più bel romanzo sui migranti? Furore di John Steinbeck, del 1939 (The grapes of Wrath: mai titolo fu più diverso dall’originale ma forse più potente). L’ho ritrovato in una edizione Bompiani del 1968, che ovviamente mette in copertina Henry Fonda, protagonista del film (anch’esso stupendo, che John Ford ricavò dal romanzo, ma per l’occasione cito anche il cd che gli dedicò Bruce Springsteen). Vi suggerisco un esperimento. Immergetevi nell’opera di John Steinbeck. E poi provate ad accostarla a quella di Ignazio Silone, nato due anni prima, nel maggio del 1900, e morto dieci anni dopo, nel 1978. Dico subito i significativi punti di convergenza:
1) Si tratta dei due ultimi cantori dei diseredati, delle popolazioni rurali arretrate, dei contadini e braccianti del Sud (di un Sud del mondo vagamente decentrato: in un caso – la Salinas Valley – nella California settentrionale, nell’altro una regione dell’Italia centrale): scrivono i loro capolavori entrambi negli anni 30 e sono un po’ gli ultimi scrittori populisti d’Occidente (cantano i lavoratori che amano il proprio mestiere, e anche tutti gli utopisti e sognatori falliti…). Silone diceva sempre che tutti i cafoni del mondo si intendono tra loro: il suo romanzo Fontamara, tradotto in 27 lingue, venne scambiato in Croazia per una narrazione del folklore locale… E poi i suoi braccianti e quelli di Steinbeck, che pure hanno ovviamente differenti abitudini alimentari, mangiano entrambi fagioli…
2) Hanno avuto evidente simpatie per il comunismo (uno è stato dirigente del Pci negli anni 20, l’altro aveva aderito a un movimento di opinione filocomunista promosso da Dos Passos sulla rivista “New Masses” nel 1930), ma entrambi si distaccheranno dal comunismo (anche sulla scia – un’altra coincidenza – di un viaggio nell’Unione Sovietica…) e non su posizioni conservatrici, almeno nell’immediato (sappiamo invece che in vecchiaia Steinbeck, come Dos Passos, giunse a posizioni reazionarie, come il sostegno all’intervento americano in Vietnam, dove andò insieme a John Wayne!). La loro posizione etico-politica assomiglia a un individualismo libertario con venature socialisteggianti e cristiane. In particolare non potevano soffrire il pathos collettivistico – e fatalmente autoritario – della tradizione comunista: nell’introduzione a una sceneggiatura su Zapata Steinbeck precisa che l’originario sistema sociale degli indios del Mexico era comunitario e non comunista: la terra non poteva essere trasmessa ereditariamente però per la durata di una vita apparteneva soltanto a chi era capace di farla fruttare! E poi secondo lui lo stesso Zapata era «un simbolo dell’individuo che si oppone alla collettivizzazione dettata da entrambe le ideologie» (destra e sinistra).
3) Non tanto idealizzano i loro cafoni di cui vedono anche l’ignoranza, la rozzezza, quanto odiano entrambi una certa rispettabilità borghese, ipocrita, attaccata alla forma, sostanzialmente immorale, che non esita a cancellare l’altro pur di autoriprodursi, con tutti i propri privilegi.
4) Immettono di tanto in tanto nel loro universo tragico-epico elementi di sobrio umorismo, legati a una tradizione popolare.
5) Tendono narrativamente al genere del feuilleton, del melodramma popolare, sfiorando a volte il midcult (la trattazione un po’ divulgativa di temi universali, di contenuti sublimi), tanto che su Furore il critico Harold Bloom ha sempre un po’ arricciato il naso.
6) Scrivono in età matura due opere quasi equivalenti: L’avventura di un povero cristiano (su papa Celestino V) e Il breve regno di Pipino IV (The short reign of Pippin IV, 1957), in cui c’è un protagonista che accetta di diventare re (o papa) ma quando scopre di non poter cambiare molto le cose abbandona il potere.
· Thomas Mann.
Biografia e opere dello scrittore Thomas Mann, autore del romanzo "Doctor Faustus". Megghi Pucciarelli su Donnemagazine.it.
Ha vinto il Premio Nobel per la letteratura nel 1929 dopo aver pubblicato opere che hanno segnato la letteratura mondiale come Tonio Kroger, I Buddenbrock e La montagna incantata: parliamo dello scrittore e saggista tedesco Thomas Mann.
Thomas Mann. Lo scrittore Paul Thomas Mann è nato a Lubecca, in Germania, il 6 giugno 1875 da una famiglia facoltosa. La sua creatività e la sua vivida immaginazione lo portano a leggere molti libri al di fuori dell’ambito scolastico e a scrivere le sue prime poesie e racconti già durante l’adolescenza. Continua a scrivere anche sui giornali quando viene assunto in una compagnia assicurativa, ma dopo un anno decide di dedicarsi pienamente alla scrittura dopo il successo del suo primo racconto pubblicato. Si iscrive quindi all’università per diventare giornalista. Si trasferisce per un anno a Roma, dove vive il fratello Heinrich anche lui scrittore. Tornato in patria, pubblicherà il suo racconto Il piccolo signor Friedemann, seguito dal suo primo romanzo I Buddenbrook che avrà grande successo. In seguito viene assunto da un periodico satirico dove lavora come correttore di bozze. Il 1929 è l’anno in cui gli viene conferito il prestigioso Premio Nobel per la letteratura, con la seguente motivazione: “principalmente per i suoi grandi romanzi I Buddenbrook e La montagna incantata”. Nel 1933, durante una conferenza, Thomas Mann critica aspramente il nazismo durante l’ascesa di Adolf Hitler: per evitare gravi conseguenze fu costretto all’esilio prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti d’America. Nel 1955 lo scrittore morirà a causa di un’arteriosclerosi.
Thomas Mann opere. Il primo famosissimo romanzo di Thomas Mann è stato I Buddenbrock ed aveva chiari riferimenti autobiografici, dato che narra la storia e le vicende attraverso le generazioni di una famiglia di commercianti. Analizza nei dettagli la psicologia dei personaggi e la società con la sua evoluzione attraverso le epoche. Nel 1924 esce La montagna incantata, che insieme a I Buddenbrock valse a Mann il Premio Nobel. Questo lavoro ha come protagonista il giovane ingegnere Hans Castorp ed è un romanzo di formazione, cioè segue le vicende psicologiche e non attraverso le quali il protagonista si forma e diventa adulto. Altre opere importanti dello scrittore tedesco sono: i racconti Tonio Kroger e La morte a Venezia; la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli; Carlotta a Weimar pubblicato nel 1939 e soprattutto il Doctor Faustus, uscito nel 1947.
Vita privata. Nel 1905 Thomas Mann si unisce in matrimonio con Katharina Pringsheim, figlia del famoso matematico Alfred nonché laureata in chimica. Da lei avrà ben sei figli, che si cimentarono tutti come il padre nella carriera letteraria. Erika, la primogenita nata nel 1905 diventa saggista e scrittrice; il secondogenito Klaus, nato nel 1906 diventerà critico teatrale e autore; Golo, venuto al mondo nel 1909, inizierà una prolifica carriera da storico e filosofo. Poi ci sono le ultime figlie Monika, nata nel 1910 e diventata scrittrice ed Elisabeth, venuta al mondo nel 1918 che diventò scrittrice e sposò il critico letterario italiano Giuseppe Borgese. Infine l’ultimo figlio, Michael, è venuto al mondo nel 1919 ed è diventato un musicista e letterato.
· Totò.
Walter Veltroni per il Corriere della Sera il 14 novembre 2020. «Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l' amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate, alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza del pubblico senza educazione. Insomma, non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita». Queste parole del Principe Antonio de Curtis, in arte Totò, pubblicate in un' intervista del 1958 su «Oggi» potrebbero essere l' epigrafe più sincera del singolare e affascinante volume che uno dei più emeriti storici dell' Italia del Novecento, il professor Emilio Gentile, ha dedicato al rapporto tra il grande attore napoletano e la storia. Caporali tanti, uomini pochissimi si intitola il libro, pubblicato da Laterza. «Nata durante la mia prima giovinezza, mi è sempre servita come sistema metrico decimale per misurare la statura morale degli uomini, e mi è servita, nuovo entomologo, per classificare l' umanità in due grandi categorie». Così il Principe de Curtis racconta la sua chiave interpretativa degli umani, la loro divisione in uomini o caporali, il cui racconto attraverso la storia egli affida alla sua maschera, il comico Totò. Gentile racconta da dove trae origine la teoria dei comportamenti del Principe: dalla vita militare, in cui il giovane Totò ebbe la ventura di incontrare una di quelle persone che hanno, chissà perché, un' autorità e la esercitano con spietatezza e inutile ferocia. «Caporali, vede, sono quelli che vogliono essere capi. C' è un partito e sono capi. C' è la guerra e sono capi. C' è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l' adulazione, i ringraziamenti». Per Totò i caporali, in fondo, sono il potere, qualunque potere. C' è un fondo poeticamente anarchico nel Principe detentore, secondo una sentenza del Tribunale di Napoli del luglio 1945, dei titoli di altezza imperiale, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, conte e duca di Drivasto e di Durazzo. L' anarchia del clown o del cartone animato. E proprio essere un cartone animato era il maximum delle aspirazioni di Totò. Lui era lieve, in effetti. La sua comicità, figlia della fatica di esibire un corpo spigoloso e degli spettacoli recitati con in prima fila i feriti di guerra, era sempre ispirata a una profonda, inusuale, leggerezza.
Totò ha sofferto, «ha fatto la guerra con la vita». Dalla nascita, figlio del grembo di una ragazza di 16 anni abbandonata dall' uomo, un marchese spiantato, che l' aveva messa incinta, ai primi anni in uno dei bassi del rione sanità. E poi le difficoltà scolastiche, il tentativo di fuga nel sacerdozio o nella marina. Fino alla scelta di farsi attore, con la sua faccia a punta e il suo corpo segaligno. In Totò la sofferenza, la fatica, la malinconia si vedevano tutte, sempre. E questo rendeva la sua comicità, veloce ed esplosiva, ancora più particolare, ancora più inimitabile. La storia gli è caduta addosso, con il suo rumore fragoroso e i suoi ingombranti calcinacci. La guerra, la prima, quando era un adolescente, il fascismo, la dittatura, poi il secondo conflitto, quando era un uomo adulto. In mezzo la costruzione di una maschera tanto forte da diventare eterna, moderno Pulcinella, moderno Arlecchino. Totò ha attraversato la storia raccontandola, ma senza schierarsi. Se non dalla pare degli uomini, sempre. Contro i caporali, sempre. Che fossero i gerarchi fascisti, tronfi e corrotti, che sbeffeggiava nei suoi spettacoli teatrali. Gentile riporta nel suo volume l' esilarante trascrizione della intercettazione telefonica di una conversazione su Totò, reo di aver preso per i fondelli l' introduzione del «voi» come obbligatorio. «Se tornasse Galileo Galivoi» aveva celiato l' attore, definito dal Duce: «Quel pagliaccio di Totò». Ma Totò fu deluso anche dalla nuova democrazia che gli sembrava, nei comportamenti e nelle persone, non molto diversa dal tempo precedente. Forse anche perché erano gli stessi «caporali» di prima, nell' Italia democristiana del dopoguerra, a censurare con dei vistosi segni rossi e blu i suoi testi teatrali. L' onorevole Cosimo Trombetta, vittima dei lazzi di Totò nella mitica scena del Wagon Lit, è l' incarnazione del nuovo potere che a Totò non piaceva. Anche loro gli sembravano dei caporali. Totò disse una volta, in Totò e i re di Roma , di fronte ad un arrogante usciere che vantava di essere stato nominato cavaliere: «Un usciere l' hanno fatto cavaliere! Io sono quindici anni che ho fatto la domanda!.. Poi dice che uno si butta a sinistra!». Forse Totò avrebbe potuto. In fondo in tutta la sua carriera, come ricorda Emilio Gentile, non ha mai sfottuto un operaio, un bracciante. Ha sempre preferito, come bersaglio, i potenti, interpretati o dileggiati. Ma il Principe de Curtis a sinistra non poteva certo andare. Era conservatore, senza essere di destra. Era un moderato, uno che amava il buon ordine della società. Quello stesso che poi l' iconoclasta Totò metteva a soqquadro. Pochi attori, come Totò, hanno raccontato la storia nazionale. La storia quando si mette scarpe e camicia, quando diventa vita pulsante, cuore e passioni di persone in carne ed ossa spesso strapazzate, umiliate, piegate o redente dalla storia con la esse maiuscola. Il libro di Emilio Gentile è un omaggio affettuoso a un eroe dello stesso autore. Totò è stato spesso, in vita, vilipeso. Gli spettatori dei suoi film, tra il 1947 e il 1967, erano stati 250 milioni, con un incasso di 93 milioni dell' odierno euro. Il che, specie per certa critica col sopracciglio alzato, era un capo di accusa. Diceva una grande verità, Totò: «Questo è un bellissimo Paese in cui uno però ha da morire per essere compreso». Infatti, pochi anni dopo la sua scomparsa, nel 1967, aiutati dal bel lavoro saggistico di Goffredo Fofi, uomini e caporali riscoprirono il talento immenso di un uomo malinconico che sapeva far ridere. Nell' Italia incerta del dopoguerra tra tanti critici che lo maltrattavano, compreso un genio come Ennio Flaiano, si stagliò la voce del poeta Aldo Palazzeschi: «Abbiamo attraversato ore di angoscia e di dolore, di umiliazione, privazioni e sofferenze fisiche d' ogni genere Totò è il richiamo all' ordine della civiltà... Totò è apparso all' orizzonte del cinema come arcobaleno dopo il temporale».
· Valentino.
Giancarlo Giammetti (il compagno di Valentino): «La moda, i litigi. Stare con Valentino? È un miracolo». Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 ‐ Corriere.it Candida Morvillo.
Chi era Giancarlo Giammetti quando una sera di luglio del 1960 conosce Valentino Garavani in via Veneto, a Roma?
«Un po’ un figlio di papà, iscritto ad Architettura, che frequentavo pochissimo. Quella sera, aspettavo l’apertura del Pipistrello Night Club seduto al Café de Paris, dove mio padre aveva il conto aperto. In quell’inizio di Dolce Vita, era difficile trovare posto, per cui si sono avvicinati tre ragazzi e si sono seduti con me. Uno era Valentino».
Nasce un sodalizio che crea un impero.
«È nato subito un rapporto personale. Lui incontrava difficoltà di gestione della sartoria. Ai tempi, non si chiamavano maison o company. Pur nell’incapacità dei miei 22 anni, mi è venuto naturale aiutarlo. Siamo nati insieme, lui ha chiuso le vecchie società, ne abbiamo aperta una nuova e tutto è cominciato. Con la delusione dei miei: nel ’60, la moda non era vista come carriera per un figlio».
Valentino ha detto che ha sempre sognato la bellezza e che da ragazzo fingeva di dormire e sognava le attrici: Judy Garland, Hedy Lamarr... Lei che sognava?
«Di viaggiare, andare a Parigi, a New York. Di divertirmi e di finire studi che detestavo».
In breve, lei e Valentino diventaste protagonisti della Dolce Vita.
«Perché iniziavamo a vestire le attrici. Liz Taylor, per girare Cleopatra, è stata mesi a Roma, nacque un’amicizia e l’abito scelto per la prima di Spartacus, in chiffon col bordo di struzzo, ci fece conoscere all’estero».
Quando arriva il sentore del successo?
«Nel ’62 i nostri abiti erano già sui giornali americani. Nel ’65-’66, vestivamo le donne più importanti di New York e Los Angeles. Diana Vreeland, direttrice di Vogue, ci aveva preso in simpatia. Ci chiamava “the boys”. A New York ci ha fatto vedere spettacoli straordinari: era una nuova cultura, utile da assorbire anche nel lavoro».
Il suo sogno di viaggiare e divertirsi si era realizzato?
«Non abbiamo mai pensato di essere arrivati, ma sempre che si poteva fare meglio. Però, dal 1977, tengo ogni giorno un diario. Scrivo non più di cinque righe, è come un’agenda delle cose belle fatte. Ho sempre pensato che stavo vivendo esperienze abbastanza uniche e non volevo dimenticarle con l’età».
Rilegge mai quei diari?
«Quest’estate volevo portarne in barca venti dei più vecchi, poi mi sono detto: sai che noia. A volte, però, riguardo le Polaroid. Negli anni 70, ne scattavo parecchie. Nella casa di Roma passava tanta gente: Andy Warhol, Diana Vreeland, Jerry Hall, Pat Cleveland, Marisa Berenson, Cat Stevens... Pranzavamo con Andy e la Polaroid stava al centro del tavolo, mentre lui registrava tutto con un microfono. Dopo faceva trascrivere le conversazioni. Era un maniaco dell’immortalare il momento: non voleva farselo sfuggire né dimenticarlo. È quello di cui soffro anch’io».
Quale luogo chiama casa?
«Sono molto in giro, ma forse Roma. Mi piacerebbe rivederla stimolante come tanti anni fa».
Quanto è stato forzato e tormentato l’addio all’operatività nel gennaio 2008?
«Già la vendita ad Hdp, nel ’98, era stata realizzata perché il mondo della moda stava cambiando, e questa è stata la stessa ragione per cui, dopo, Valentino ha lasciato. Stava diventando un mondo in cui non era più felice».
Un mondo in cui, per crescere, il conflitto era fra creatività e profitti?
«Non è che io e Valentino disprezziamo il denaro, ma non lo consideriamo così importante rispetto alla creatività. Negli ultimi anni dovevamo sempre discutere con i soci. Lo facevo io, poi riportavo a lui, ma questa è stata la principale ragione per cui, alla fine, lui ha detto basta».
Com’è stato il primo giorno in cui lui era solo il fondatore e lei solo il presidente onorario?
«Per me e per Valentino niente è più stato drammatico, da allora. Da quando eravamo ragazzi non avevamo mai avuto un minuto in cui non sapevamo cosa avremmo fatto un mese dopo. Ora possiamo decidere sul momento. La libertà è stata la più grande vittoria. Soprattutto per lui che, disegnando le collezioni, non aveva mai avuto un giorno in cui non lavorava».
Che effetto fa, oggi, assistere alle sfilate della Valentino?
«Il nervosismo c’è comunque, ma siamo più rilassati. E non possiamo dire di essere delusi da quel che vediamo».
Un bilancio del primo decennio di libertà?
«È stato interessante. Il mondo offre molto da scoprire. Ho lavorato su progetti divertenti che mi hanno tenuto molto impegnato senza necessità o angoscia dell’ora esatta in cui fare le cose. Non posso ancora annunciarlo, ma ci sarà un grosso avvenimento sul lavoro di Valentino e dei suoi successori, dal ’60 a oggi. È in preparazione negli Stati Uniti, infatti quest’anno sono state le nostre famiglie a raggiungerci a New York per Natale».
Parla al plurale: lei e Valentino vi vedete ancora tanto?
«Continuamente. Viaggiamo sempre insieme. Spesso, coi miei due pomerania e i suoi tre carlini».
Avete fatto coming out solo nel 2004, raccontando che eravate stati insieme per dodici anni. Perché così tardi?
«Perché nessuno, prima, ce l’ha mai chiesto. Se no, avremmo risposto onestamente. Non ci siamo mai nascosti. Poi, in Valentino - The Last Emperor, il nostro sentimento è diventato quasi protagonista. Quel film ha fatto capire che due persone dello stesso sesso potevano avere una vita di successo nel lavoro e nel loro sentimento. Che potevano progredire, fare il mestiere che amavano, imporre il loro stile. C’era chi mi fermava per ringraziare e dire che, attraverso il film, aveva trovato il coraggio di fare coming out».
Però, dopo la prima proiezione, chiamaste gli avvocati.
«La prima visione non ci era piaciuta: se fanno un film su di te, vedi cose che non vorresti aver detto, momenti che volevi tenere segreti. Sono stati i nipoti, all’epoca ventenni, a convincerci: dicevano che eravamo pazzi e che il film era straordinario. Poi, gentilmente, il regista ha tolto qualcosa».
Che cosa?
«Alcune scene sul rapporto personale o quando parlo con Valentino e ho la bocca piena. Dettagli di vanità, non di sostanza».
Nel film emerge un Valentino imperioso. Che qualità le è servita per stargli vicino per 50 anni?
«Non so se chiamarla qualità. Si chiama miracolo, forse. Devi avere molta pazienza. Però sapendo che gli scatti durano pochissimo. Dopo dieci minuti, non c’è più niente. Siamo famosi per liti, ma anche perché torniamo subito tranquilli come prima».
Liti dovute a che?
«Valentino non vuole tanto essere spinto a fare cose che non ha voglia di fare. Fare quello che vuole è stata la sua forza e parte del suo grande successo: è riuscito a imporre quello che voleva e io ho potuto solo agevolarlo».
Si narra anche che possa far volare i piatti all’aria se sono sbagliati di sale.
«Tanti ne sono volati, in effetti».
Lei cosa non sopporta?
«I leccapiedi».
Ne ha incontrati molti?
«Proprio per questo mi danno fastidio. Anche perché Valentino è rimasto estremamente naïf e, a volte, ci crede ancora. Per cui, devo proteggere anche lui e ho a che fare col doppio dei leccapiedi».
· Van Gogh, il modernissimo.
Van Gogh, il modernissimo. Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Stefano Bucci. Quella «soglia dell’eternità» che Julian Schnabel, un altro genio assai poco convenzionale dell’arte, lo invitava a superare, il «maledetto» Vincent van Gogh l’ha già oltrepassata da tempo, da molto prima del 2018, anno in cui Schnabel firma At Eternity’s Gate, storia degli ultimi e tormentati anni di Vincent, e lo presenta con grande successo alla Mostra del cinema di Venezia. Certo il volto dolente di William Defoe, che per questa sua interpretazione dell’artista olandese guadagnerà la Coppa Volpi al Festival di Venezia e due nomination per Golden Globe e Oscar, ha molto contribuito a rinverdire la fama dell’autore della Notte stellata. Ma si tratta, comunque, di una fama già da tempo acquisita (e i visitatori del Moma di New York perennemente assiepati davanti proprio a De sterrennacht lo dimostrano). Una fama legata all’unicità della sua pittura (pastosa e modernissima), alla drammaticità della sua vita (con tanto di auto-mutilazione di un orecchio con il rasoio e di suicidio), a un universo visivo fatto di campi di grano e di girasoli ma anche di mangiatori di patate, corvi e zoccoli consumati entrato nell’immaginario collettivo con una potenza che ha pochi eguali. Una fama legata molto venalmente anche ai prezzi esorbitanti raggiunti dai suoi quadri: 53,9 milioni di dollari per i Girasoli; 93,5 milioni per un suo Autoritratto; 99,7 milioni per il Ritratto di Joseph Roulin; 101,2 milioni per gli Iris; 134,6 milioni per il Ritratto del dottor Gachet. Sono cifre oggi «quasi normali» per van Gogh, ma certo all’epoca impensabili anche per suoi estimatori. Dopo la sua morte, Octave Mirbeau avrebbe scritto che si trattava «di una perdita infinitamente triste per l’arte» ma che «il popolo non si è affollato ad un magnifico funerale e il povero Vincent van Gogh, la cui morte comporta l’esaurirsi di una bella fiamma di genio, è morto in maniera tanto oscura e negletta come ha vissuto». Così le sue opere sarebbero precipitate in uno sfortunato destino mentre l’unico che avrebbe voluto-potuto aiutarlo, il fratello Théodorus detto Théo (che ora gli riposa accanto nel piccolo cimitero di Auvers, in Francia, a dividerli l’edera del giardino del dottor Gachet) sarebbe morto, solo pochi mesi dopo Vincent, nel gennaio 1891. La fortuna sarebbe comunque presto arrivata anche grazie al contributo di critici come Henk Bremmer (1871-1956): merito suo se, ad esempio, Helene Kröller-Müller si sarebbe avvicinata all’arte di Vincent, fondando quel Kröller-Müller Museum di Otterlo che oggi può contare sulla seconda collezione di opere dell’artista (la prima è quella del Van Gogh Museum di Amsterdam). Mentre Simon Schama nel suo saggio The Power of Art (2006) menziona un ampio numero di artisti «debitori» di van Gogh, da Willem de Kooning a Howard Hodgkin, a Jackson Pollock. A rendere concreta l’attualità di van Gogh sono però i numeri. Nel 2018 erano stati 446.218 i visitatori che avevano affollato la Basilica palladiana di Vicenza per la mostra Van Gogh tra il grano e il cielo. Un record già pronto per essere battuto da un’altra esposizione, curata sempre da Marco Goldin con la sua Linea d’ombra: Van Gogh. I colori della vita in programma dal 10 ottobre all’11 aprile 2021 a Padova, al Centro San Gaetano. Solo nel 2020 Van Gogh sarà poi (come protagonista assoluto o come «guest star») in mostre in programma alla Kunsthal di Rotterdam, all’Art Museum di Saint Louis, all’Albertina di Vienna, al National Museum of Western Art di Tokyo, al Detroit Institute of Arts, al National Museum of Art Osaka, al Didrichsen Museum di Helsinki, al Museum of Art di Santa Barbara, alla National Gallery of Australia di Canberra. Senza parlare del successo senza fine del Van Gogh Museum di Amsterdam: più di 2,1 milioni di visitatori da 108 nazioni, un milione di follower su Instagram, una mostra in corso (In the picture, fino al 24 maggio) che, partendo dall’Autoritratto con l’orecchio bendato (1889), fa il punto sulla «rappresentazione del sé» in coetanei di van Gogh come Munch e Millais; un’altra appena chiusa (360 mila passaggi) che ha puntato sulla «rappresentazione della natura», mettendola a confronto con quella di un altro maestro (moderno) come David Hockney che da van Gogh è stato profondamente ispirato: «Ciò che la gente ama dei suoi dipinti — aveva detto in occasione dell’inaugurazione — è che tutti i segni del pennello sono visibili e puoi vedere come sono dipinti». Che sia proprio questo il segreto della modernità senza tempo di Vincent van Gogh? Quella modernità che, prima di Schnabel, aveva conquistato Resnais, Minnelli (nel suo Lust for Life del 1956 van Gogh era Kirk Douglas e Gauguin Anthony Quinn), Altman e Kurosawa e che era finita in una puntata della serie tv cult Doctor Who. La modernità di una pittura vera, che non si nasconde e che non passa mai di moda. Come la vita. È l’olandese Vincent van Gogh (1853 - 1890), «artista intellettuale, contorto e sofferto» ad aprire la galleria di libri illustrati dedicati ai grandi maestri. Con il titolo I capolavori dell’arte andrà in edicola da martedì 10 con il «Corriere della Sera» (e dalla settimana successiva anche con «La Gazzetta dello Sport») una collana che raccoglie 40 monografie di grandi maestri dell’arte (qui a destra il piano dell’opera con i primi 20 titoli), introdotte da Philippe Daverio. La prima uscita, Van Gogh. Girasoli sarà in regalo in esclusiva per chi acquista il «Corriere» solo il primo giorno di uscita, cioè martedì 10 (i titoli a seguire saranno in edicola ogni martedì al costo di e 7,90 più il prezzo del quotidiano o della «Gazzetta»). Le monografie sono pensate per essere chiare e di facile consultazione: partendo dall’analisi di un capolavoro, ogni volume ripercorre la vita dell’artista attraverso le sue opere più significative e offre una panoramica sui suoi contemporanei. Ogni volume è arricchito da una sezione antologica, con testi degli artisti e contributi dei più importanti scrittori, pittori e storici dell’arte, come Giulio Carlo Argan ed Ernst Gombrich, Roberto Longhi e Carlo Levi, Lionello Venturi e Bernard Berenson. Nel primo volume saranno i celebri Girasoli (1888) ad aprire la serie, tela che — scrive Daverio — «riflette l’universo emotivo del pittore», nella sua assenza di chiaroscuri e di ombre. Non a caso la pittura per Vincent «sarà la sua salvezza, la sua condanna, la sua follia». Tra le prossime uscite: Caravaggio. Canestra di frutta (17 marzo); Botticelli. Nascita di Venere (24 marzo), Giotto. Compianto su Cristo morto(31 marzo). (j. ch.)
· Vittorino Andreoli.
Bruna Magi per “Libero quotidiano” il 31 gennaio 2020. Sarà capitato anche a voi di incontrare qualcuno che non vedevate da anni e di non riconoscerlo. Un amico, una compagna di scuola, magari lei era un po' seccata nel constatare che non riuscivate a metterla a fuoco. Le facce cambiano nel corso del tempo e della vita. Bisogna metterlo in preventivo, se si continua a vivere, prima o poi occorre ipotizzare l' arrivo della vecchiaia. Quindi sorridete alla sconosciuta, fingendo di ricordare, mentre lei elenca nomi di comune conoscenza che avevate relegato al cassetto dei ricordi, nel corso della vita se ne sono aggiunti tanti, in certi casi decine e decine, magari per ragioni professionali. Nel frattempo la poverina gode di tutta la vostra comprensione, sino al momento in cui lancia la frase fatale: «So che lavori ancora, scrivi. Ma non sei stanca? Io sono così felice di fare la nonna!». Discorsi del genere mi fanno infuriare. È realtà confermata anche sotto il profilo scientifico, che l' età anagrafica si è abbassata perlomeno di dieci anni. E conta prima di tutto l' età del cervello, cioè la sua efficienza e il nostro modo di vivere. Rilancio la teoria alla malcapitata, che se ne va quasi stupita, trattenendomi a stento dall' aggiungere che certe persone, come lei, non capiscono la situazione, non avendo mai posseduto un cervello neppure da giovani, ai tempi di scuola. Per fortuna ci supporta un libro sull' argomento decisamente interessante, titolo (che parte ironicamente da un concetto obsoleto e fastidioso) Una certa età-Per una nuova idea della vecchiaia (Solferino editore, 202 pagine, euro 17), autore Vittorino Andreoli, 80 anni, psichiatra, scrittore e poeta. Che parte dal concetto secondo il quale corriamo un grave rischio: non comprendere gli aspetti positivi di ogni trasformazione a partire dalla bellezza di invecchiare. E ci racconta la vecchiaia come capitolo originale dell' esistenza e non come un' età malata.
SALUTE E MALATTIA. Dice la presentazione: «Chi ha danzato a lungo con il tempo ha maggiori possibilità di sperimentare la gioia e considerare il piacere. Il piacere si lega alla tenerezza, a una nuova intimità, alla lentezza di un gioco che impegna tutto il corpo e che si fa sempre più creativo». In definitiva, Andreoli sostiene che solo recuperando il ruolo cruciale di quella "certa età", possiamo addirittura iniziare a riparare la società in cui viviamo, e aggiunge un nuovo termine, il "bendessere", per sostituire i concetti meccanici di salute e malattia. Lo inizia con una dedica magistrale «A tutti i giovani perché scoprano quanto è bello diventare vecchi», e lo conclude riferendosi al Nobel Albert Camus con il suo Il mito di Sisifo, dove l' uomo è condannato a spingere il masso della vita dalla valle alla sommità del monte, e ineluttabilmente ogni volta rotola in basso. Dieci anni dopo Camus aveva scritto La rivolta finalizzata a promuovere le condizioni per stare dignitosamente a questo mondo». Andreoli fa suo il concetto, scrivendo che gli piacerebbe che la disciplina del bendessere rappresentasse una rivolta scientifica per sconfiggere una concezione antica del termine "vecchio". Vorrebbe che diventasse «un Sisifo del tempo presente mentre, pur appesantito anche da questo limite (oltre ai limiti della condizione umana), potrebbe vivere "meglio"Naturalmente la disciplina del bendessere potrà portare risultati maggiori e risposte più ampie ai desideri di chi è entrato nel capitolo nuovo, e comunque straordinario, della terza età». A questa grande conclusione, Andreoli giunge dopo aver completato un cerchio intorno al tema, da ogni prospettiva (filosofica, medica, sociale) suddiviso per argomenti: il tempo che passa, l' anatomia della vecchiaia, i rischi di psicopatologia dell' anziano, le differenze di genere, la longevità, la nuova disciplina del "bendessere". Ragion per cui si indigna di fronte ai pensionamenti obbligati: «Ecco perché trovo ridicola una società che vuole definire "vecchia" una persona di 65 anni e decide di cacciarla in pensione come fosse inabile al lavoro anche se non lo è». Infatti ognuno dovrebbe poter andare in pensione quando più gli aggrada, non escludendo di essere anche nonno felice. E ci fa capire quanto può essere diverso, da persona a persona, lo scorrere del tempo: «Esiste un tempo cronologico e uno mentale. Il primo è meccanico: in questa espressione è implicata una monotonia fastidiosa, come il rumore d' estate delle cicale. Uno scorrere ossessivo di lancette Il tempo mentale (o psicologico) si definisce meglio come tempo vissuto Questo è il tempo dell' esistenza, questa è la dimensione della vita». Fondamentale che si parli anche del sesso. Andreoli scrive che ovviamente con il passare anni alcune espressioni della sessualità, che rimane il simbolo della vitalità, mutano. «Ciò significa semplicemente che è il tempo per scoprire e sperimentare una sessualità adeguata alla nuova condizione. Occorre indirizzarsi a una relazione sessuale che tenga conto della realtà e si accorga che l' amore non è legato a una formula, ma può esprimersi in forme, in giochi, in fantasie che realizzano questo bisogno senza riferimenti a modalità passate». Questa, aggiungiamo noi, è una straordinaria analisi dell' esistenza, una magnifica fonte di luce. Lucidissima.
· Vittorio Sgarbi.
Dagospia il 14 ottobre 2020. Da radio24.ilsole24ore.com. A la Zanzara su Radio 24 Vittorio Sgarbi parla della sua candidatura a sindaco di Roma: “Salvini ha dato il suo placet, ma d’altra parte Forza Italia non ha votato per me ad Aosta, è un mondo di morti che continua a morire. La Carfagna? Non esiste e non è mai esistita. Facciamo le primarie, e vediamo chi la spunta”. Tra le proposte Sgarbi dice: “Eliminazione dell’autovelox l’ho già detto, ci sta anche una sanatoria delle multe, tutto quello fatto apposta per rubare dei soldi alla gente. Tu non vai a lavorare per un mese perché ti hanno tolto dei punti. I punti? Nel culo se li mettono i punti. Ci cuciono il culo con i punti. La patente a punti te la vai a ricomprare, vogliono solo i soldi come per le mascherine. Sono sempre i soldi che guidano le scelte. Comunque parto dai punti: se li mettono nel culo”. “Dopo i musei gratis – dice Sgarbi – propongo anche la scuola alle dieci del mattino. Ma ti pare che i ragazzi debbano andare a scuola tutti incazzati come bisce che poi devono incontrare professori tutti addormentati che non fanno un cazzo…non devono rompere il cazzo, la scuola deve essere bella, piacevole, ingresso libero fino alle dieci”. Faresti delle zone a luci rosse?: “Questo sì, per evitare le puttane per strada. Magari si possono creare delle aree specifiche per chi vuole andare”. E i campi rom?: “Possiamo fare un grande campo rom per tutti i campi Rom. Bisogna eliminare gli attuali campi rom e concentrali in un’unica cittadina, nel Lazio. Inutile far convivere i rom con le persone normali. Devono essere isolati, per conto loro. Il Lazio è pieno di aree”. Poi parla della sua sessualità, dopo l’apparizione nel programma della D’Urso sulla storia con Franceska Pepe: “Io sono un rapace. Il mio metodo è identico a quello dei vecchi omosessuali che scopavano nei cinema e facevano pompini nei cessi. Non è amore. È sesso senza amore, rapinoso. Con questa Franceska e altre arrivo lì e vedo una che mi salta addosso con aria affettuosa e poi la porto con me. La prendo e la porto dentro la prima porta, il primo angolo, che nel caso specifico era quella del cesso. E siamo rimasti per diciotto minuti. Durante questi diciotto minuti abbiamo stabilito un rapporto affettivo. E’ irrilevante la penetrazione. Quello che importa nel rapporto con una donna è il punto di cedimento. Se vai a una festa e trovi quattro cinque persone disponibili non puoi portare tutte a letto, vai dietro un angolo, e inserisci la falange del dito medio nell’organo sessuale di lei, quella è registrata . Significa che ha dato la sua disponibilità, è una forma di seduzione, questo è il punto di cedimento. Tutto qui. Vuol dire che lei sarebbe disponibile. Questo è. Poi nel caso specifico lei poi non è voluta venire a dormire con me. Punto. Se fai una cosa sotto i venti minuti, Sabrina (Colle, ndr) non registra il fatto. In quei venti minuti puoi fare tanto. Tra me e questa Francescka c’era un’intesa palese. La punta del dito che entra è già una conquista. Come gli omosessuali quando erano nascosti, cessi da cinema, è una cosa animale, senza nessun altro rapporto.
Vittorio Sgarbi, retroscena privato: "Sesso con la mia fidanzata? Quando è finito". Libero Quotidiano il 30 giugno 2020. Vittorio Sgarbi ha rilasciato un’intervista a Sette in cui ha approfondito il rapporto con i suoi tre figli, avuti da tre donne diverse. Ha riconosciuto Carlo, il primogenito oggi 32enne, dopo anni di battaglie legali, poi sono arrivate Alba (22 anni) ed Evelina (21). “Io sono un padre preterintenzionale - ha dichiarato il noto critico d’arte - tuttavia, posso solo compiacermi che i figli siano nati. Alle madri, ho sempre detto: dovete comunque farli, io sono per la vita. Tuttavia, se li avessi voluti, avrei seguito i principi di mio padre, invece la mia libertà è di non avere né famiglia né figli”. Sgarbi si paragona a Gabriele D’Annunzio perché come lui “non ho ingombrato le loro vite con la mia presenza oppressiva. In questa logica di personalità prevalente non ho fatto nulla e i figli sono venuti benissimo”. La sua fidanzata, Sabrina Colle, gli ha chiesto un figlio in diverse occasioni: “Se l’avesse voluto, l’avrei ritenuto giusto, non ritengo di poter decidere io in tema di maternità. Io non voglio fare il padre, ma la dolcezza di Sabrina è tale… Fra noi, il sesso è finito nel ’99, ma abbiamo uno straordinario rapporto di anime, il punto più alto dell’amore”. Poi Sgarbi ha chiarito che il 1999 non è un modo di dire ma “una data esatta: letteralmente, risale al secolo scorso. L’ha deciso lei e la cosa non mi ha turbato: mi sono sentito libero di andare con chi mi pareva. Consiglio a tutti di avere con la moglie solo rapporti spirituali. Il sesso coniugale è incestuoso”.
Candida Morvillo per corriere.it il 30 giugno 2020. Vittorio Sgarbi ha tre figli da tre donne diverse. Ha riconosciuto Carlo, il primogenito oggi 32enne, dopo anni di battaglie legali e di udienze e convocazioni per test del Dna a cui non si presentava; Alba, 22 anni, e Evelina, 21, sono spuntate inattese nella sua biografia. Adesso, il video di Alba che si getta in mare per salvarlo dalle onde, su una spiaggia albanese, ha fatto il giro di tv e siti. Molti di noi ci siamo chiesti se il critico d’arte avesse letto nel salvataggio per mano della figlia un segno del destino, se si fosse ricreduto rispetto a quando diceva «quella del padre è una categoria a cui non ritengo di dover appartenere». Macché, «non ho corso un reale pericolo, è stata solo una pagina di letteratura sentimentale», confesserà lui in quest’intervista. Però, il termine «farsa» non rende giustizia a quello che, a suo modo, è stato un gesto d’amore paterno. Per capirne la logica, bisogna arrivarci coi suoi tempi e riavvolgere la conversazione da capo.
Sgarbi, proprio lei che non voleva figli è stato salvato da sua figlia. Cos’è: una beffa? Una lezione? Una nemesi della storia?
«Intanto, è una leggenda che io sia un padre maledetto. Io sono un padre preterintenzionale. Tuttavia, posso solo compiacermi che i figli siano nati. Alle madri, ho sempre detto: dovete comunque farli, io sono per la vita. Tuttavia, se li avessi voluti, avrei seguito i principi di mio papà: mi sarei sposato in chiesa, li avrei battezzati e non mi sarei mai separato. Invece, la mia libertà è di non avere né famiglia né figli».
Con una famiglia d’origine così tradizionale, come matura un’idea tanto lasca della paternità?
«Per chi è nato nel ‘52 e ha avuto la sua iniziazione amorosa nel ‘69, fa parte dell’aria dei tempi. Le letture proibite in collegio, di Pavese, Baudelaire, D’Annunzio, mi hanno convinto che ogni persona risponde solo di sé. Dopodiché, accade che i figli nascano e qui ho scelto un altro principio fondante della mia visione: che i figli sono delle madri. Io non rivendico e non chiedo nulla e queste donne hanno avuto da me ciò che desideravano: diventare mamme. Questo mi ha reso partecipe di un’armonia del mondo. Nella mia visione, poi, che qui è Ottocentesca, il padre deve esistere per contribuire utilmente ai figli, attraverso una casa e del danaro. E io, fra cause legali e mia volontà - a seconda dei diversi figli e situazioni - ho sempre contribuito».
Perché si è sempre sottratto ai test del Dna?
«L’attrito c’è stato solo con la prima madre. Evelina l’ho avuta da una storica torinese e l’ho riconosciuta senza problemi. Mentre la mamma di Alba, una cantante lirica albanese, era sposata e c’era l’ipotesi che il marito potesse essere il padre, poi, lei è rimasta vedova e Alba ha preso il mio cognome. Però, le verifiche di Dna non le ho mai fatte, perché io figli li riconosco dalle orecchie».
In che senso «dalle orecchie»?
«Se le hanno spigolose e taglienti come le figure rinascimentali del pittore ferrarese Cosmè Tura, le ritengo la prova genetica che siano figli miei».
Non le spiace non lasciare una traccia nella loro educazione?
«Come già Gabriele D’Annunzio, non ho ingombrato le loro vite con la mia presenza oppressiva. In questa logica di personalità prevalente, non ho fatto nulla e i figli sono venuti benissimo. In particolare mi compiaccio della ragazza albanese. L’ho sempre apprezzata, per carattere, timidezza, educazione e per le sue capacità, dato che ha vinto il concorso in Bocconi dove si laurea. L’altra, Evelina, è molto sveglia, molto furba, ma un po’ irritante perché ha un temperamento simile al mio».
Irritante perché?
«Qualche anno fa, ho scoperto che non andava a scuola, chiedo perché e lei: perché faccio il Cepu. Io sono testimonial di Cepu e non potevo lamentarmi, ma lei viene persino bocciata. Al che, mi lamento coi vertici Cepu e dico alla madre d’iscriverla alle scuole statali. Passa il tempo e scopro che la impertinente fa un’altra scuola privata, per la qualche chiede 1.200 euro al mese. Mi dice: perché così sto a casa. Insomma, lei abitava a Biella, ma la scuola stava a Ostia e lei ci andava una volta al mese per tre giorni. Pensi il deliro. Tiro fuori un po’ di autorità e dico: non farà la maturità a Ostia, trovate una scuola a Biella o a Torino».
E lì la sua autorità paterna viene soddisfatta?
«Macché. Per evitare che nella scuola statale trovasse un professore antipatizzante per colpa mia, chiedo al ministro Marco Bussetti di suggerirmi una buona scuola a Torino. Lui fa incontrare Evelina e la mamma con una sua direttrice generale addetta a “integrazione e partecipazione”. Insomma, la dirigente le vede, poi viene da me e mi dice: com’è intelligente Evelina, com’è sveglia, abbiamo fatto tutte le verifiche, la scuola migliore dove può andare è... Ostia».
Come è possibile?
«Evelina, bravissima, si era intortata la dirigente. Ne ho preso atto e si è diplomata a Ostia. Poi, si è iscritta a Design e Architettura e ha ottenuto, da me, l’appartamento a Torino e il computer più costosi del mondo. Sostanzialmente, sa farsi valere. Devo dire che mi sta molto simpatica. E, come vede, il padre serve: elargisco emolumenti mensili a due figli. Col maschio, ho chiuso il rapporto di dipendenza ai suoi 30 anni».
Patrizia Brenner, la stilista madre di Carlo, le aveva chiesto in tribunale 40 milioni di lire al mese.
«I rapporti più difficili sono con questo figlio, non solo perché sua madre mi riteneva più ricco di Agnelli. L’episodio iniziale con lui avviene quando la madre muore e io decido di fare il padre. Essendo Carlo 13enne e iscritto a scuola a Milano, gli propongo di venire a Roma da me, che ho una casa grande e comoda a Palazzo Pamphilj, dentro il campanile di Piazza Navona. Lui preferisce rimanere a Varese presso una specie di badante. Io ho pensato, sbagliando, che a 13 anni fosse in grado di decidere come me alla sua età. Lui questo me l’ha poi rimproverato».
Avete recuperato?
«Ho ricevuto un’imprevista riconoscenza quando l’ho aiutato a entrare nella riserva selezionata: militari volontari che fanno servizio alcuni mesi all’anno. Non era stato accettato e ho parlato con i Capi di Stato Maggiore della Marina e dei Carabinieri che hanno riparato all’ingiustizia o alla trascuratezza. Non è una raccomandazione, Carlo aveva tutti i titoli. Ora, ha preso il brevetto di paracadutista e guida l’aereo. Come vede, con ogni figlio ho un buon rapporto e, come padre, ci sono e sono protettivo».
Tornando alla prima domanda, che effetto le ha fatto essere salvato da sua figlia?
«Quello è un episodio legato all’affetto e alla considerazione che ho per Alba. Mi piaceva che uscisse l’immagine di una ragazza gentile e coraggiosa, che mi aveva seguito in acqua con i pantaloni. Pensi che era in pantaloni perché ha una sua pudicizia e non voleva fare il bagno in mutande».
Non perché si è gettata in acqua così com’era per salvarla?
«No no, stava già facendo il bagno così. Io, con la seconda onda, ho perso gli occhiali, ma non c’è stato un reale o drammatico allarme. Resta il fatto che lei è stata l’unica a venirmi incontro e io voluto farne una comunicazione che valorizzasse la sua sensibilità, soprattutto in Albania, dove è una piccola star, intervistata perché è mia figlia».
Insomma, era una farsa?
«La risacca era vera. Il resto è una pagina di letteratura sentimentale. Un racconto edificante. Col bel dettaglio della mano della figlia tesa al padre. Era una pubblicità che si meritava».
Anni fa, era comparso un altro figlio, tale Ruggero. Che fine ha fatto?
«Lì c’è un processo rovesciato. Ruggero era un bimbo molto carino, figlio di una mia ex. Nel 2002, lo portai coi miei tre bambini e le mamme a una festa dei Bonaccorsi Beccaria a Borgo di Castelluccio, vicino Noto. Lui mi chiamava papà. Da lì, l’equivoco».
Una volta, ha detto di avere forse 40 figli.
«Se ce ne fossero altri, si sarebbe vista la madre. Qualcuna ci ha provato, ma senza riscontro».
Le orecchie non corrispondevano?
«Quelle sono infallibili».
I tre figli si frequentano?
«Si vogliono bene, si sentono, ci vediamo tutti a Biella a Natale. Dopo che li ho messi in conflitto con Ruggero, hanno solidarizzato contro il figlio apocrifo».
E in vacanza coi figli ci va?
«L’unica volta fu a Borgo di Castelluccio».
Quante volte vi sentite?
«Una o due al mese».
Non è un po’ poco?
«Nel film che Pupi Avati girerà sui miei genitori, mi si vede soltanto in tv, con mio papà che dialoga con me attraverso lo schermo e mi dà sempre ragione. Il rapporto era più con la mia immagine televisiva che con me. Immagino che anche i miei figli non abbiano sentito la mancanza perché mi hanno visto in tv tutti i giorni».
La sua fidanzata Sabrina Colle ha detto che lei le ha chiesto un figlio e, per due volte, le ha portato a casa il ginecologo della fertilità Severino Antinori.
«Se l’avesse voluto, l’avrei ritenuto giusto, non ritengo di poter decidere io in tema di maternità. Io non voglio fare il padre, ma la dolcezza di Sabrina è tale... Fra noi, il sesso è finito nel ‘99, ma abbiamo uno straordinario rapporto di anime, il punto più alto dell’amore».
Il 1999 è un modo di dire?
«È una data esatta: letteralmente, risale al secolo scorso. L’ha deciso lei e la cosa non mi ha turbato: mi sono sentito libero di andare con chi mi pareva. Consiglio a tutti di avere con la moglie solo rapporti spirituali. Il sesso coniugale è incestuoso. Mi sento un uomo fortunato, ho figli splendidi e una fidanzata eccezionale, so che è difficile da capire per chi ha vite convenzionali. La gente fa la morale, ma fai mica la morale a Rimbaud?».
Espulsione dall'aula, Vittorio Sgarbi contro L'Amaca, e Michele Serra gli risponde. Pubblicato giovedì, 02 luglio 2020 da La Repubblica.it. È con grande amarezza che continuo a leggere su "Repubblica", in totale schizofrenia, a fianco di lusinghieri articoli che lodano le mie iniziative di intensa attività e produzione culturale, come la riapertura della Delizia di Schifanoia in qualità di Presidente di Ferrara Arte o le mostre a Sutri "da Giotto a Pasolini", le prediche moralistiche di alcuni bigotti opinionisti che, ignorando l'uso della provocazione nell'arte, nella letteratura e nello spettacolo del nostro tempo, si esibiscono in patetici rimbrotti scrivendo cose false e tristi malignità. Essendo avanti negli anni, si può dire di loro quello che scriveva La Rochefoucauld: "I vecchi danno buoni consigli perché non possono più dare cattivi esempi". Mi riferisco a Michele Serra e a Corrado Augias. Il primo lo capisco, essendo stato io, al tempo della condirezione di Tommaso Cerno, a suggerire di farlo scendere dall'amaca sulla testata del giornale per relegarlo alla ventottesima o alla trentottesima pagina, fino a farlo quasi uscire dall'orizzonte. Oggi eccolo lodare la Carfagna, fingendo di non ricordare il suo passato di "favorita" di Berlusconi, e scrivere di me come un fenomeno da baraccone ignorando la produzione di libri, mostre e spettacoli il cui largo seguito è noto anche per le positive recensioni di Repubblica. Per concludere, con sgradevoli insulti: "Sgarbi è un mostro costruito dal cinismo, (ben più mostruoso di lui) dei nostri anni.La sua maleducazione patologica, il suo imbarazzante narcisismo, la sua insopportabile maleducazione sono stati protetti e nutriti, per decenni, da conduttori e autori televisivi entusiasti di proporre allo spettabile pubblico, come fece Barnum con la Donna Barbuta, L'Uomo che Strilla. Nessuna indulgenza per me, per le tante lezioni di arte, anche in televisione, che hanno allargato la platea degli appassionati. E, naturalmente, nessuna preoccupazione o indignazione per le volgarità di Roberto Benigni che, in televisione, aggredì e cercò di spogliare Raffaella Carrà trattandola come una donna oggetto. Pur di attaccarmi, Serra è pronto ad ammirare la destra gentile e due esponenti di Forza Italia. E mentre 9/10 degli italiani, e tutti quelli che incontro e che mi scrivono, hanno trovata arbitraria e ingiusta la mia espulsione dall'aula di Montecitorio, Serra se ne compiace, credendo di interpretare un sentire popolare che invece si rqppresenta, a sua insaputa, con la battuta: "non molli!". Ecco un messaggio a me: "Egr. On.Prof. Sgarbi, i parlamentari in Italia dovrebbero essere tutti come Lei. Anche se non ci siamo conosciuti personalmente nutro una profonda stima nei suoi riguardi. Lei è una grande e vera persona, sono onorato anche soltanto di essere un suo sostenitori" (Marco Agrestini). L'altro contento della mia espulsione è Corrado Augias pronto a fare eco a uno scandalizzato signore che scrive, come molti, il falso, attribuendomi quello che non risulta dalla registrazione audio-visiva dell'aula di Montecitorio, cioè di aver insultato la deputata Bartolozzi che era intervenuta senza titolo a censurare un mio intervento perfettamente legittimo con la richiesta di una commissione parlamentare di inchiesta sulla magistratura, invocata due giorni dopo da tutta la Camera, in seguito alla sentenza che rovescia la condanna di Berlusconi per frode fiscale. Io non ho insultato nessuno e non ho fatto nessuna "ennesima bagarre". Risulta strano a questo signor Ferrante che io, come una quantità infinita di persone che hanno visto l'episodio, abbia osservato l'eccesso di essere stato prelevato, considerando anche la mia oggettiva condizione di "esponente più importante della cultura italiana presente in Parlamento" . Me ne vuole dire un altro il lettore di Augias? Il quale ribadisce, contro la verità, che "ciò che Sgarbi ha urlato alla Camera è imperdonabile", negando gli accostamenti con Raffaello e Caravaggio, vorticosamente girati sui social, e dimenticando che io non ho fatto alcuna resistenza. È dunque falsa la conclusione: "L'uomo che veniva espulso era un ossesso che aveva perso il controllo di se stesso". Ma peggio che falsa è l'insinuazione che io faccia uso di droghe, dimenticando la mia battuta tranchant: "Se incontro la cocaina , si eccita lei". È indegno di un giornalista serio e di un giornale rispettoso dei diritti . Il destino che è toccato a Augias, e ad altri che non hanno avuto popolarità, gli fa dire, come nella favola della volpe e l'uva, che io avrei capito "quanto fosse facile la strada della notorietà". Non è affatto facile, invece, richiede studio e lavoro come mostra la mia varietà e quantità di impegni nello scrivere, nell'organizzare mostre, nel fare spettacoli. Davanti all'evidenza e all'impegno verificabile, è inaccettabile l'insinuazione moralistica, e in contrasto con la sua stessa lettura dei miei libri più recenti, da lui commentati e lodati: "Da anni ormai Sgarbi non studia più, si limita a consumare il suo talento... avevamo un brillante storico dell'arte, abbiamo un iracondo 68enne". Acida conclusione. E falsa. La smentiscono le sue stesse parole e le interviste che egli mi fece, in particolare quella su Caravaggio il 26 febbraio 2017, nel programma ''Visionari", in cui, parlando dei miei eccessi in rapporto con Caravaggio e Pasolini, li riconobbe leciti e pertinenti con il mio carattere. Si metta d'accordo con se stesso Augias, e la smetta di fare il moralista. Io non ho mai finito di studiare. Parli per se stesso. Vittorio Sgarbi
Caravaggio incontra Pasolini. Storia di due «ragazzi di vita». Sgarbi inaugura una sorprendente esposizione ricca di scioccanti (ma fondati e illuminanti) accostamenti. Alessandro Gnocchi, Giovedì 08/10/2020 su Il Giornale. Sulle prime, l'osservatore si potrebbe chiedere: che c'entrano il Seppellimento di santa Lucia al Sepolcro e il cadavere di Pier Paolo Pasolini? Caravaggio e una foto proveniente dagli atti giudiziari del processo sulla morte dello scrittore? Il Seicento e il Novecento? Che c'entrano? Tutto. Lo racconta Vittorio Sgarbi, presidente del Mart di Rovereto (e storico collaboratore di queste pagine). Domani apre Caravaggio. Il contemporaneo. In dialogo con Burri e Pasolini (fino al 14 febbraio 2021; catalogo Silvana Editoriale). In mostra il capolavoro di Caravaggio, appunto il Seppellimento di Santa Lucia, opera dipinta nel 1608 per l'altare maggiore della Basilica di Santa Lucia al Sepolcro di Siracusa, attualmente collocata nella Santa Lucia «sbagliata», cioè Santa Lucia alla Badia della città siciliana. Il Mart ha patrocinato il restauro e la ricollocazione in sicurezza del quadro. In cambio, da domani lo espone a Rovereto, proponendo un confronto con dipinti, installazioni e documenti contemporanei. Alberto Burri, dunque, e le foto di Pier Paolo Pasolini, da quelle celebri nella Torre di Chia, scattate da Dino Pedriali, fino a quelle atroci della scena del crimine, il corpo straziato del poeta al centro. Ma ci sono anche Nicola Verlato, il quale da anni progetta un museo-mausoleo dedicato a Pasolini; e poi per affinità e risonanze segrete, Cagnaccio di San Pietro, Nicola Samorì, Luciano Ventrone, Hermann Nitsch, Margherita Manzelli, Gino Marotta, Massimo Siragusa (eccezionali foto del Grande Cretto di Gibellina di Burri) e Andrea Facco. Nel pacchetto «restauro» il Mart ha commissionato a Factum Arte una riproduzione/scansione del Caravaggio. Prima incredibile sorpresa. Quasi nessuno è in grado di distinguere la replica dall'originale (oggi provocatoriamente senza didascalie per sfidare gli esperti). Magari tra vent'anni, quando l'originale sarà invecchiato, al contrario della replica... Il ritratto di Dorian Caravaggio. E ora cediamo la parola a mr president, Vittorio Sgarbi: «Caravaggio è un artista contemporaneo. Nasce nel 1951 quando Roberto Longhi organizza una celebre esposizione a Milano, restituendo Caravaggio alla storia dopo secoli di sostanziale oblio, durante i quali era considerato moralmente riprovevole». Longhi non era mosso solo dal gusto, non essendo un dilettante ma il sommo critico d'arte del Novecento: «Ovviamente aveva fatto una scoperta decisiva. È Longhi a capire l'importanza capitale della scuola padana, da aggiungere alle due tradizionali, la veneta e la toscana. Il milanese Caravaggio era un testimone perfetto di questa illuminazione critica, almeno per il Seicento». Bene. Pasolini che c'entra? «Sai chi era il professore di Pasolini a Bologna?». Mi viene un sospetto: Roberto Longhi. «Esatto. In Caravaggio, Pasolini vedeva i ragazzi di vita. Li sentiva come fratelli, amici e anche partner. A Roma, lo scrittore praticava la sua omosessualità nel completo anonimato, nelle borgate, con uomini identici a quelli ritratti da Caravaggio secoli prima, nella stessa città. L'Amore vincitore di Caravaggio assomiglia in modo impressionante a Pino Pelosi, l'assassino di Pasolini». Inizia la visita dell'esposizione. «Osserva la parte superiore del Seppellimento di santa Lucia: non è dipinta. È una macchia che ci inghiotte. Ora girati e guarda il Ferro di Alberto Burri, opera del 1961». Accidenti, si assomigliano. «Entrambi hanno lavorato in Sicilia, il Grande Cretto di Burri è a Gibellina Vecchia, provincia di Trapani. Ora osserva la ferita del collo di Santa Lucia». Vista. «Ora dimmi se nel Ferro non vedi una ferita». Oddio, è vero. Sgarbi è assediato dalle televisioni, il pubblico prosegue il tour. Un'immagine continua nell'altra, diceva Sgarbi. Verissimo. Non vale solo per Burri. Vale anche per le sconvolgenti fotografie di Pasolini morto. Sopra al cadavere della santa, si erge un muro altissimo, che isola le figure umane. Quello spazio angosciante tra noi e il cielo, che neppure si intuisce, prosegue nel brullo «pratone» in fondo al quale, lontano, minuscolo nell'oscurità della notte, in eterna e irreparabile solitudine, intravediamo il corpo massacrato del poeta. Viene da piangere, sul serio. Non è solo un legame visivo, queste immagini ci parlano entrambe di martirio. Sulla morte di Pasolini si è detto di tutto, e ancora non è finita, anzi: preparatevi, nei prossimi mesi, ricchissimi dal punto di vista editoriale, a sentirne di ogni tipo. Niente però è assoluto quanto le fotografie in mostra a Rovereto, che scavalcano sentenze giudiziarie e ipotesi giornalistico-accademiche per andare dritte al cuore del problema, tutto umano. All'inizio di Petrolio, il suo testamento artistico e politico, Pasolini scrive queste parole perentorie, riferite a Carlo, protagonista del romanzo: «Non avrebbe mai accettato di fingere di essere uno se in realtà era spaccato in due. Avrebbe potuto anche lasciarsi ammazzare, pur di essere coerente con questa sua realtà». Pur di essere coerente, Pasolini, che era spaccato in due, lo scrittore e l'avventuriero, l'italiano e il friulano, l'intellettuale e il popolano, il comunista e il conservatore, si lasciò ammazzare davvero. A volte le cose piccole sono le più belle. Nell'esposizione del Mart ci sono in tutto una ventina di opere, che obbligano però a confrontarsi con i misteri e le domande più inquietanti: cos'è la morte, sicuro, ma anche cosa siamo disposti a rischiare per avere una vita coerente con la nostra vocazione, con i nostri desideri, con il nostro dovere.
La replica di Michele Serra. Gentile Vittorio Sgarbi, il direttore mi chiede di risponderle e lo faccio più per dovere che per piacere. Corrado Augias e io abbiamo scritto, in sedi diverse, più o meno la stessa cosa: lei è un buon critico d’arte e, al tempo stesso, una persona di madornale maleducazione. Difficile dire quale dei due aspetti sia stato più determinante nella sua brillante carriera. Lei è probabilmente certo di essere stato sospinto soprattutto dal suo valore culturale. Non sa quanto mi piacerebbe poterle dare ragione, ma temo, vivendo l’epoca e avendo lavorato a lungo in televisione, che la sua prolungata esposizione pubblica sia dovuta soprattutto al suo talento (assolutamente fenomenale) per la polemica violenta, la rissa, l’ingiuria, la sopraffazione di chi ha la sbadataggine di trovarsi sulla sua strada senza un paraorecchie che lo protegga dalle sua contumelie. Ora lei, a fronte del mio supposto moralismo, rivendica la legittimità della “provocazione artistica”, ma mi consenta di dirle che è solamente un alibi. Lei non è un artista. E’ un critico d’arte, un organizzatore culturale, un intellettuale, un parlamentare. Dunque non ha alcun titolo per accampare l’alibi della “provocazione artistica”. Le dirò di peggio. Io sono, a conti fatti, cento volte più artista di lei - ho scritto romanzi, racconti, monologhi teatrali, libretti d’opera, le risparmio la lista perché non esiste niente di più noioso e imbarazzante del narcisismo - eppure ho seri dubbi che questo mi autorizzi a mandare affanculo il mio prossimo, come a lei così spesso capita di fare. Sa, esistono perfino artisti educati. Infine, visto che cita come prova a discarico le lettere dei suoi ammiratori, sono costretto a dirle che dai lettori di Repubblica (giornale, come lei giustamente scrive, “rispettoso dei diritti”), ho ricevuto solo lettere (tante, e tantissime lungo gli anni) molto ostili nei suoi confronti. Perché, a proposito di sensibilità per i diritti, il diritto al rispetto non è tra i meno significativi. Rispetti le altre persone e riceverà rispetto. Continui a spregiarle e riceverà spregio. Lo capirebbe anche un bambino. Michele Serra
Vittorio Sgarbi contro la grillina Giulia Sarti: "Mi dà del maleducato? Proprio lei finita nello scandalo dei filmati a luci rosse". Andrea Valle su Libero Quotidiano il 30 giugno 2020. Il ritorno del reprobo. Oggi Vittorio Sgarbi riappare a Montecitorio, da dove la vicepresidente Mara Carfagna lo ha espulso la settimana scorsa per intemperanze. Il deputato si era scaldato sul tema giustizia e magistratura, accapigliandosi con i grillini, ed è stato a braccia fuori dall'Aula per ordine della bella e inflessibile parlamentare azzurra.
Sgarbi, oggi lei rientra in Parlamento dopo essere stato espulso, anzi portato via a peso, per gli insulti lanciati a due deputate. Chiede scusa?
«Di cosa? Prendo atto, piuttosto, di essere diventato un'opera d'arte. Per chi si occupa d'arte, in tutta la vita la cosa più agognata è la censura. La censura fa esistere ciò che altrimenti sfuggirebbe. Non è una presunzione. I performer, quelli che fanno le opere d'arte con il corpo, fanno diventare arte quello che fanno».
Mara Carfagna, ritornando sull'episodio, ha detto che non si possono lasciar correre «parolacce e insulti volgari». Lei, Sgarbi, ha definito «ridicola» l'onorevole Giusi Bartolozzi e «fascista» la Carfagna. Non crede di aver esagerato?
«Prima di tutto le registrazioni audiovisive non confermano le sue dichiarazioni e la bozza del resoconto stenografico registra, all'indirizzo di nessuno, un "vaffanculo", omaggio istituzionale a Grillo; e un "troia" da interpretarsi evidentemente come "troian" che, trattandosi di intercettazioni, era il tema della discussione.È incredibile, poi, che parlino di buona educazione, di "parolacce e insulti volgari" e invochino la loro condizione femminile, e non quella di persone, per di più "deputata", due donne che hanno usato il loro corpo in fotografie e calendari e oggi fanno la morale, parlano di buona educazione».
Le foto sui calendari o i video sono una libera scelta. Altro è l'insulto di cui si è vittima.
«Una esponente minore del M5S, partito che è fondato sul "vaffa**lo" e sugli insulti programmatici ("psiconano" a Berlusconi ,"cancronesi" a Umberto Veronesi) di Grillo, mi ha dato del maleducato, dicendo che non dovrei stare in Parlamento. Proprio lei che, dopo lo scandalo dei filmati hard (girati con il suo compagno), è stata allontanata dalla presidenza della Commissione giustizia della Camera dei deputati, tale Giulia Sarti. E poi c'è la Carfagna che è, documentatamente, la causa del declino di Berlusconi e della rivolta della moglie Veronica Lario che, per causa sua, chiese la separazione e ne denunciò la concezione "maschilista" (guarda un po') in due lettere su Repubblica».
Ma cosa dice? Sta facendo affermazioni gravi e non provate.
«Le prove ci sono. Mi assumo la responsabilità di quello che dico. La Carfagna è la promotrice della legge sulla prostituzione minorile che portò alla condanna di Berlusconi, consegnandolo ai giudici per lo stesso reato per cui fu assolto Pasolini. È lei alla origine delle indagini persecutorie su Berlusconi. E poi è indubbio che la crisi tra Silvio e Veronica divenne irrecuperabile quando lui dichiarò pubblicamente che, se fosse stato libero, avrebbe sposato Mara. Non sono battute sulle quali una moglie passa sopra».
Ma come mai ce l'ha tanto con Mara Carfagna?
«Io, diversamente da lei, ho iniziato a fare politica prima di Berlusconi, e l'ho difeso (anche da lei), come ho fatto con Gardini, con Craxi (contro Di Pietro) e con Andreotti (contro Caselli); e ho sempre pagato di persona, come attestano innumerevoli processi per aver detto la verità. Altroché opportunismo. In ogni caso, l'ipocrisia è diffusa».
A cosa si riferisce?
«A Castiglione Fiorentino è stata fatta una statua a Benigni. Io esorto gli italiani ad abbatterla. A fare quel che hanno fatto con Montanelli. Perché Benigni, come Montanelli, ha trattato la donna come un oggetto».
E chi?
«Raffaella Carrà».
Si riferisce alla celebre gag di Fantastico 12, anno 1991?
«Raffaella Carrà conduceva. A un certo punto arriva Benigni le salta addosso, la palpeggia, le dice di mostrare la passera. Dove siete voi che accusate Montanelli? Non è più grave di quello che ha fatto Benigni».
Montanelli si sposò con una bambina di 12 anni.
«In entrambi i casi la donna è usata come oggetto. Solo che Begningi ha la leggenda di essere un uomo di sinistra e gli si perdona tutto. Ma si comportato da maschio predatore, esattamente come Montanelli».
Federico Novella per ''la Verità'' il 29 giugno 2020.
«Non ho bisogno di difendermi da una colpa che non ho. Non solo non chiedo scusa, ma faccio partire le denunce». E conferma: «L' Anm è un' associazione eversiva». Le immagini di Vittorio Sgarbi trascinato via a forza dai commessi di Montecitorio resteranno negli annali. Comunque le si intenda giudicare. Ma lui non è affatto pentito: «Sono come il Cristo di Caravaggio: mi hanno trasformato in un' opera d' arte». Qualche giorno fa alla Camera il dibattito sulla giustizia, dopo le invettive di fuoco del critico d' arte, è degenerato in un principio di rissa. Fino all' espulsione rocambolesca di Sgarbi dal tempio della democrazia.
Onorevole Vittorio Sgarbi, dopo le parolacce, e la rimozione forzata dall' emiciclo di Montecitorio, alla fine si è scusato con le colleghe interessate?
«Non devo scusarmi di nulla. Non ho detto nulla. Anzi, aspetto che qualcuno si scusi con me».
E perché?
«Per avere commesso un atto prepotente nei miei confronti, espellendomi».
Gli insulti contro la deputata di Forza Italia Giusy Bartolozzi e contro la vicepresidente della Camera Mara Carfagna hanno fatto indignare un po' tutti. Stavolta ha esagerato.
«C'è un registrato d' aula. Invito ad andarlo ad ascoltare. Non c' è nessuna mia parolaccia».
In realtà sullo stenografato qualcosa di pesante c' è.
«C'è un "vaffa", che peraltro non si sa a chi è diretto. È lanciato nel vuoto, come un' imprecazione. E comunque è una dichiarazione politica, tanto è vero che fa parte del linguaggio politico dei grillini. Avrò pure il diritto di citarli, no?».
Diciamo che non è un vocabolario consono al consesso.
«Le parolacce le diceva anche Pasolini».
Il problema sono gli insulti sessisti, rivolti anche contro il banco della presidenza.
«Ho fatto solo imprecazioni grillesche, usando il "vaffa" come un' invettiva. Quanto agli insulti di genere: sono l' unico a essere contro i matrimoni gay, e anche contro i matrimoni tradizionali».
E allora?
«Il genere non mi interessa. Se me la prendo con un deputato, non me la prendo con le donne o con gli uomini, ma con le persone».
Però gli insulti sessisti li ha pronunciati.
«Non è vero, non ci sono da nessuna parte. Hanno usato il femminismo contro di me come una clava».
Addirittura?
«È una strumentalizzazione politica. Difatti ho denunciato Carfagna e Bartolozzi chiedendo che rinuncino all' immunità parlamentare, così ci penseranno i loro beneamati giudici».
Con quale accusa?
«Diffamazione. Se mi accusano di aver detto una cosa che non ho detto, mi stai diffamando. Io ho detto soltanto "fascista" a una e "ridicola" all' altra».
Nel verbale di seduta l' insulto contro le donne c' è. Come la mettiamo?
«Quella era solo una bozza. Andrò martedì mattina alla Camera per farla correggere, perché non corrisponde all' audio. Se ho detto qualcosa del genere, posso aver detto "trojan", riferendomi al meccanismo con cui hanno intercettato Palamara».
Onorevole, la prego.
«Si parlava di quello, del resto. Di riforma della giustizia e del caso Palamara».
Ma almeno non poteva uscire dall' aula sulle sue gambe?
«Ho detto: se volete, portatemi fuori. E non mi resi conto, lì per lì, di aver fatto il capolavoro della mia vita parlamentare».
Facendosi trascinare fuori?
Non è una profanazione della sacralità parlamentare?
«Delle persone coltivate hanno colto il nesso tra quello che io ho rappresentato, e Raffaello e Caravaggio».
Si riferisce ai fotomontaggi che la ritraggono come protagonista di alcuni celebri dipinti?
«Hanno postato delle immagini meravigliose. Sono diventato, da critico, un' opera d' arte».
Un' opera d' arte?
«Un performer, come Banksy. Ha sentito cosa ha scritto di me il finanziere Francesco Micheli? Glielo recito».
Sentiamo.
«Solo un genio come Sgarbi poteva rovesciare il tavolo mostrandosi come Cristo ritratto da Caravaggio».
Dice sul serio?
«Ecco, è successo esattamente questo, non sono più un uomo, ma un' opera d' arte. Il mio corpo mistico è stato come quello di Gesù. E a Gesù si dovrebbe chiedere scusa. Comunque, tra qualche giorno risorgerò».
Ha scritto che si difenderà in tribunale, poiché il Parlamento è diventato un luogo di «censure e restrizioni».
«Mi devo difendere dal fascismo della Carfagna, una che si faceva ritrarre incatenata sui calendari e poi è diventata ministro».
Ha detto in aula che l' Anm è un' associazione mafiosa. Ammetterà che si è lasciato prendere la mano. Forse si è espresso male?
«Se c' è una cosa che non sbaglio mai è la sintassi. Alla Camera nessuno ascoltava veramente il mio discorso. Io ho parlato di certi magistrati, non di tutta la magistratura. Se n'è accorto anche il pm Otello Lupacchini, che mi ha scritto parole di solidarietà».
Quindi conferma?
«Ho ripreso le stesse identiche parole del presidente Cossiga, cioè che l' Anm è un' associazione "tra il sovversivo e il mafioso". Avrò pure il diritto di citare un ex presidente della Repubblica? Quindi non ho attaccato tutti i magistrati, ma solo l' associazione».
Il procuratore generale della Cassazione ha chiesto l' azione disciplinare per l' ex presidente del Csm e altri cinque componenti. L'accusa ipotizzata è interferenza nell'esercizio di organi costituzionali. Le indagini che stanno interessando certa magistratura sono destinate a propagarsi?
«Considero Palamara come Mario Chiesa nel 1992, agli albori di Tangentopoli».
Quello che in principio era considerato solo la «mela marcia», e che poi si rivelò la scintilla che innescò il terremoto di Mani Pulite?
«Esatto. Proprio per questo, in aula, ho parlato di "Palamaropoli".
Resto convinto che occorra istituire una commissione parlamentare di inchiesta».
A che scopo?
«Nello scandalo della P2 si verificarono interferenze politiche, esattamente come quelle cui assistiamo oggi. E si sentì il bisogno di indagare».
Siamo in una situazione analoga?
«Sì, penso ai personaggi coinvolti, politici e magistrati, alle nomine basate sulle amicizie, all' ostilità contro Salvini. Sono tutte forme di interferenza della magistratura sul potere politico e viceversa».
Dunque?
«Dunque serve una commissione d' inchiesta per stabilire quelli che devono essere cacciati in quanto protagonisti, tra l' altro, di una forma di corruzione: quella di aiutare una toga solo perché appartenente a una certa corrente».
Storicamente le commissioni di inchiesta sono state risolutive?
«Non importa, l' importante è che si indaghi e se ne discuta».
Come andrebbe riformato il Csm, per contrastare lo strapotere delle correnti che dominano sul sistema delle nomine?
«Deve diventare un consiglio di non togati. Persone che abbiano una dimensione giuridica, scegliendo tra professori e politici».
Pensa che ci sia ancora molto da leggere sulla cupola delle toghe?
«Ho criticato sul piano dei comportamenti anche l' ex capo della procura di Roma, Pignatone, che ha inventato l' inchiesta Mafia capitale per diventare capo di una procura di serie A. D' altronde, per chi si occupa di mafia, Roma è una sede disagiata».
La Cassazione ha smontato il teorema.
«E per tre anni Roma ha subito un danno gravissimo di immagine, un insulto di una violenza inaudita».
Anche Nino Di Matteo è stato penalizzato dalle correnti togate?
«Ha inventato una trattativa Stato-mafia che non esiste. Ma tra le sue affermazioni c' è un richiamo alla componente mafiosa nella magistratura. E non posso che citarlo come una fonte autorevole».
Roberto Giachetti ha detto che si merita una denuncia da parte dei magistrati che ha attaccato.
«Parla così proprio lui, che ha fatto la sua carriera per anni nel partito radicale. Ricordiamoci cosa diceva Marco Pannella della magistratura: la definiva un associazione "golpistica" e "criminale"».
Dicono che lei si prende la licenza di dire qualunque cosa alla Camera, non potendo essere perseguito nell' esercizio delle funzioni.
«Questi sono pazzi. Io lo dico proprio alla Camera, proprio perché ho la garanzia di insindacabilità».
Michele Serra ha scritto che gli autori televisivi hanno trasformato Sgarbi da bravo critico d' arte a fenomeno da baraccone, un «maleducato patologico e narcisista».
«Anni fa feci in modo che la sua rubrica L' amaca venisse degradata dalla prima pagina all' interno, a pagina 28. Serra mi considera il suo killer: qualunque cosa scriva, io lo comprendo».
Gad Lerner dichiara orgogliosamente di non averla mai invitato nei suoi programmi tv.
«È la quindicesima volta che lo dice. E io rispondo che sono orgoglioso di non essere mai andato da lui. Alla fine, diciamocelo: io ho avuto un grandissimo successo, e lui è sparito».
Sgarbi, l’irrefrenabile arte di insegnare con i cattivi esempi. Angela Rizzica il 29 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Quello appena trascorso è stato un 25 giugno decisamente particolare per l’Onorevole Vittorio Sgarbi: dall’accesa discussione alla Camera in merito al Decreto giustizia a cui il critico ha opposto una commissione d’inchiesta per la nuova “Palamaropoli” culminata con la sua espulsione dalla seduta, all’inaugurazione come Sindaco della terza edizione degli “Incontri a Sutri, da Giotto a Pasolini”, un’esposizione ideata dallo stesso Sgarbi e progettata da Contemplazioni con la partnership di Intesa Sanpaolo che ha il merito di spaziare da “Il Grande Crocifisso” attribuito a Giotto ai “Korai” di Alessio Deli. La mostra, ora aperta al pubblico, si tiene all’interno di una cornice anch’essa opera d’arte come il Palazzo Doebbing sebbene, a dire il vero, tutta la Tuscia riesca a togliere letteralmente il fiato ai suoi avventori. E proprio nel cortile del celebre palazzo ci ha accolti per l’inaugurazione come un bravo padrone di casa Vittorio Sgarbi, fresco del trasporto coatto fuori dall’aula di Montecitorio (scena già divenuta celebre e trasformata nel “meme” del mese dal fantastico mondo degli internauti) e successivamente catapultatosi a Sutri per la mostra. Ca va sans dire, le polemiche non si sono di certo arrestate davanti ai battenti chiusi dell’emiciclo: tra chi sostiene che il suo gesto sia stato talmente memorabile da divenire icona della libertà di pensiero e d’espressione nel moderno Occidente e chi reputa, invece, i toni e le accuse mosse dal critico d’arte poco consoni rispetto al ruolo politico che Sgarbi va a ricoprire, l’attesa per una qualche forma di commento in merito da parte del Sindaco era decisamente palpabile e, in realtà, non è stata vana.
«Non faccio polemiche per aumentare il mio cachet, come qualcuno erroneamente sostiene» ha commentato l’onorevole, «sono così sin da ragazzo, sin da quando ero in collegio e già mi ribellavo alle verità rivelate o presunte tali, come oggi in Parlamento. Sin da quando, a nove anni, ho capito che sarei diventato un personaggio storico. La mia è sempre stata una posizione alla “uno contro tutti” che, col passare degli anni, comincia certamente a pesare e di queste posizioni controcorrente sono titolare, appunto, sin da bambino. Ognuno è libero di pensare ciò che crede ma è difficile, se non impossibile, ragionare con qualcuno che ti offende e si scandalizza per le parole usate pur sapendo che il Movimento 5 Stelle è entrato in Parlamento a suon di “vaffanculo”, salvo ora difendere le donne dalle offese di Sgarbi. È evidente che non faccio distinzione alcuna tra uomini e donne in merito ai toni che uso. Semplicemente ad un certo punto della mia vita mi sono trovato a verificare che l’azione dei Magistrati fosse, delle volte, più minacciosa della cattiva politica e non l’ho mai taciuto».
Una posizione, quindi, quella del deputato in contrasto con le “vulgate di verità”, un ribellismo che ha definito «non ideologico né politico».
Sgarbi, cosa pensa in merito all’emergenza Covid-19 e alla sua gestione?
«Spesso sono stato fermato per strada da persone che mi dicevano fossi l’unico a portare un po’ di speranza anche nel pieno della pandemia. Sono sempre stato portavoce di una minoranza silenziosa che poi, nel tempo e ogni volta, diventava maggioranza e questo si è ripetuto anche con riferimento all’emergenza sanitaria. Insomma, sono “l’uno” che rappresenta coloro che non hanno voce, con tutta la solitudine che questo comporta. Anche nel caso della mia posizione in merito al Covid-19 sono stato ampiamente offeso e criticato. È comunque di tutta evidenza come sia stata fatta una propaganda errata che ha mostrato al mondo un’Italia contagiosa e malata quando, evidentemente, l’emergenza doveva essere semplicemente gestita facendo le giuste differenze da regione a regione. La chiusura indiscriminata ha portato danni al turismo incalcolabili che, ad oggi, continuiamo a pagare. Il turismo straniero è fermo, Piazza Navona è deserta come anche Ortigia è semivuota nonostante ospitasse un capolavoro di Caravaggio. Se vai in giro a dire che il paradiso della bellezza è anche l’inferno della malattia, le persone non vengono a visitare l’Italia. Per questo, ora, ci troviamo a ripartire da un turismo autoctono, slegato dal mero piacere ma che si deve trasformare in un viaggio di cultura e perché no, magari cominciando proprio da qui, dalla Tuscia, alla riscoperta di una bellezza che già conosciamo. Ora non bisogna più spaventare, non bisogna continuare a parlare di questo virus che ci ha reso folli, bisogna rassicurare e confortare puntando sulle nostre risorse, sulla nostra arte».
E che in Tuscia si inciampi letteralmente nella bellezza è poco ma sicuro tanto che, come ha puntualizzato Vittorio Sgarbi, il celebre Pasolini – anch’esso tra i protagonisti della splendida mostra di Palazzo Doebbing – ha deciso di vivere quelli che sarebbero stati gli ultimi anni della sua vita nella Torre di Chia, poco lontano da Sutri. Proprio lì, ricorda Sgarbi, Pasolini venne ritratto nudo in una dimensione così intima da sfiorare il misticismo, cristallizzato nei celebri scatti dell’allora giovanissimo Dino Pedriali, appena due giorni prima della morte del poeta. E proprio quando il tramonto cala su Sutri enfatizzandone i tipici e antichi colori terrosi, Vittorio Sgarbi, mecenate prima ancora che politico e ritrattista del contrasto, comincia a parlare dei giovani.
Che cosa diciamo ai giovani artisti?
«I giovani sono sostanzialmente abbandonati. Ho sempre pensato che un critico non debba mandare avanti la sua squadra ma debba farsi venire incontro la realtà dell’arte ed essere in qualche misura intercettato. Nella Biennale di Venezia sono riuscito a portare circa 4000 artisti, restituendola, di fatto, ai legittimi proprietari. Questa ampiamente criticata restituzione è passata attraverso un procedimento molto sofisticato: a tutti i più grandi intellettuali di mia conoscenza chiesi di segnalarmi il migliore artista, a loro dire, degli ultimi dieci anni. Così, non ho scelto io chi dovesse accedere alla Biennale ma gli artisti sono stati selezionati direttamente dagli addetti ai lavori, fornendo in questo modo un trampolino di lancio prestigioso a molti giovani pieni di talento e sottraendone altrettanti all’anonimato».
E così, la frescura della sera ha infine accompagnato la risposta alla mia ultima domanda: quali consigli Vittorio Sgarbi intendesse dare ai giovani; parole quelle dell’Onorevole che ho accolto e che ora scrivo con un misto tra sincero divertimento e profondo sbigottimento per la saggezza che nascondono: “io non do consigli, do solo cattivi esempi, per riprendere le parole di Francois de La Rochefoucauld, prima, e di Fabrizio De André, poi. Quando smetterò di dare il cattivo esempio, vorrà dire che sarò diventato vecchio”.
Vittorio Sgarbi per “il Giornale” il 28 giugno 2020. Questa volta mi sono guardato, da fuori, e non mi sono limitato a vivere. Così come vivo, spericolatamente, trovandomi in situazioni difficili o conflittuali. Certo, non mi trattengo. Dopo tanti anni e tante cause combattute, potrei stare fermo, meditare, ritirarmi in campagna o vivere, semplicemente, nella mia casa di Roma in stanze spaziose o sulla terrazza, circondato di libri. «Il mio mestiere e la mia arte è vivere», scrive Montaigne. Certo, vivo: sono parlamentare e sindaco e presidente di diverse istituzioni e musei, e preparo mostre, e faccio spettacoli e conferenze. Il riscontro è sempre positivo e unanime. Preparo «Da Giotto a Pasolini», gli incontri a Sutri (e subito l'acuto occhio di Carlo Vulpio risponde con un articolo sul Corriere); restituisco la luce agli affreschi di Francesco Del Cossa a Palazzo Schifanoia a Ferrara (e Brunella Torresin riflette quella luce sulla Repubblica); scrivo un libro su Leonardo, Il genio dell'imperfezione (e risponde Furio Colombo con una bellissima recensione sul Fatto Quotidiano). Vasta e ammirata è l'opera del dottor Jekyll. Basterebbe Jekyll, per consentirmi una vita serena. Ma mister Hyde è in agguato. Il suo teatro sono l'attività politica, la televisione e i social, dove ciò che accade nel mondo e nella vita civile potrebbe anche passargli addosso senza farlo reagire, restando in sonno. E invece Hyde non resiste. E inventa situazioni pericolose, con grande imbarazzo più per gli altri che per lui. Così, dopo i frequenti interventi in Parlamento, si scaldano opposte tifoserie e può accadere, guarda caso il 25 aprile, giorno della Liberazione, che il suo inno alla libertà contro le restrizioni del governo sia visto e moltiplicato in tutto il mondo e tradotto in tutte le lingue, dall'arabo al russo, dallo spagnolo all'inglese, ottenendo circa 100 milioni di visualizzazioni, con la promozione di Elon Musk. Non avrei immaginato che la malattia da me maltrattata mi avrebbe innalzato sul palcoscenico internazionale più delle mostre organizzate e dei libri tradotti in molti Paesi del mondo. Fastidiose le critiche e le denunce dei vari Patti trasversali per la scienza, ma consolanti le parole di riconoscenza di quanti, nel buio e nella clausura, sottoposti, come ha ben detto Moni Ovadia, al martellamento e alle minacce del male misterioso e mortale, hanno sentito le mie parole di speranza nel costante richiamo a una ragione oscurata, umiliata, dimenticata. È stato un periodo difficile per tutti; per me un azzardo, una sfida, e anche la sensazione di essere sopraffatto e travolto da una forza terribile, maligna, che aveva il volto di virologi, infettivologi, scienziati, sadici narratori e predicatori di morte. Mi ritornavano alla memoria le parole di Adelchi nella tragedia manzoniana: «Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi Dritto: la man degli avi insanguinata seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno coltivata col sangue; e ormai la terra altra messe non dà». Io non volevo starci, sotto questa mano insanguinata, e ho gridato in Parlamento: «occorre essere uniti contro le dittature e uniti nella verità. Non facciamo di questa l'aula della menzogna». In questi mesi la mia personalità si è trasformata. Eppure, nella consueta attività parlamentare, fatta di interventi anche nel genere dell'invettiva, ho cominciato a riconoscermi come simbolo e riferimento di posizioni eretiche, peraltro con il conforto di pensatori importanti e particolarmente ammirati, anche loro fortemente vituperati in questo passaggio difficile: Giorgio Agamben, Giulio Giorello, Bernard-Henri Lévy, Tahar Ben Jelloun, Sabino Cassese, Elena Loewenthal, Gaetano Pesce, Pietrangelo Buttafuoco, Sergio Castellitto, Nicola Porro, Camillo Langone, Giordano Bruno Guerri. Tanti, sopraffatti dal triste coro delle mascherinanti alla Carfagna, con le loro ridicole regolette condivise dai troppi contagiati nelle loro fragili menti («Ce virus qui rend fou», scrive Lévy). A un certo punto ho avvertito che molti tentavano di liberarsi da quella ossessione. E intanto, nella mia trasformazione, cominciavo a vedermi in modo diverso, quasi un performer che si misurava con ruoli nuovi, e più spettacolari di quelli assunti negli interventi teatrali su Caravaggio, Michelangelo, Leonardo, Raffaello, come se stessi seguendo un copione con alcuni «quadri» obbligatori. Il destino era scritto quando, in un viaggio in Albania a Palase, vicino a Valona, il mare tempestoso stava per inghiottirmi, sotto le sue maestose onde, se il braccio gentile della mia giovane figlia non mi avesse offerto soccorso: un episodio banale diventato emozione nel racconto di un filmato che ha di nuovo fatto il giro del mondo mostrando me, come ogni uomo, nella fragilità, nella precarietà davanti alla potenza della natura. Con quelle immagini la trasformazione sembrava compiuta: non ero più un uomo ma un racconto, un apologo, fino ad esibirmi e a definirmi in uno stile critico che si fa opera. La strada era aperta. Così quando, giovedì scorso, in Parlamento, sono intervenuto in dichiarazione di voto sulle misure urgenti per le intercettazioni, nel momento in cui ho iniziato a parlare mi sono sentito tranquillo, determinato, nel tono solenne, presagendo che qualcosa sarebbe successo. Non potevo prevedere in quale misura, ma ricordo perfettamente che, durante tutto il breve discorso, alle mie spalle sentivo applausi dai banchi delle opposizioni, come non sempre accade e non era accaduto nei mesi del terrore sanitario. Ho denunciato la nuova Tangentopoli chiamandola Palamaropoli (come Paperopoli), invocando una commissione d'inchiesta con preciso riferimento alla forte dichiarazione di Francesco Cossiga, già presidente della Repubblica: «L'associazione nazionale magistrati è una associazione tra sovversiva e di stampo mafioso». Posso anche dire, nonostante le ridicole riserve dell'ex radicale Giachetti, che, al riparo di Cossiga, e dopo i numerosi interventi di Pannella sulla magistratura come «corpo eversivo e golpista, che calpesta giorno dopo giorno i diritti dei cittadini», e anche sulla Corte Costituzionale, come «cupola della mafiosità partitocratica», non avrei pensato a tanto scalpore e alle sciocche reazioni di chi ha voluto negare l'evidenza (ne è prova l'universale consenso ai miei argomenti del cosiddetto popolo del web). Come è accaduto, dunque, come si è potuta determinare una reazione così corale di tanti parlamentari (incapaci di interpretare il prevalente sentire collettivo), indignati, scandalizzati, in difesa della magistratura corrotta e di due deputate che cercavano di nascondersi dietro il genere femminile (come se uno «stronzo» a una donna fosse più grave che uno «stronzo» a un uomo)? Da quel momento parte il tempo di tempesta, che tutti hanno visto, e si prepara la mia premeditata esclusione dall'aula. E qui inizia il teatro, per istinto prima che per calcolo. Avvertendo io violati i miei diritti, nella perfetta legittimità delle mie parole, dietro lo scudo di Cossiga e di Pannella, protesto contro la scellerata difesa della magistratura (quando io mi ero riferito ai soli magistrati corrotti e ai metodi dei Csm nelle nomine, e dell'Associazione Nazionale Magistrati nelle garanzie per le posizioni politiche di alcuni, citando le intercettazioni di uno schieramento unanime di magistrati contro Salvini), e sento la stridula Carfagna minacciare la mia espulsione e confermarla mentre io respingo e smentisco, con veemenza ma senza insulti (non risultano nelle riprese d'aula, e il «Troia» che mi attribuisce il resoconto stenografico, non indirizzato a nessuno, è evidentemente «Troian», oggetto della discussione), che le riflessioni indebite di una magistrata/deputata mostrano che non ha capito o ha fatto finta di non capire le mie considerazioni. Il vento si alza di voce in voce, di deputato in deputato. Io mi rifiuto di uscire dall'Aula di Montecitorio spontaneamente. Arrivano così a portarmi via quattro commessi. E, di lì, io smetto di vivere, e mi vedo come immagine, interpretando una performance senza precedenti. Nessun deputato è stato mai portato fuori dall'Aula con la forza, e su sua richiesta. Lì inizia lo sdoppiamento, cominciano le immagini. E così, fra tante critiche ipocrite e vittimismi, fra tanti attestati di solidarietà (e non si capisce perché, come se il mio obbiettivo fossero polemiche personali e non istituzionali e relative agli accadimenti, come tanti altri sfoghi off-the-record, nelle sedute della Camera), mi rendo conto che non c'è più relazione fra l'episodio vissuto e la sua rappresentazione. Ed ecco nascere (in modo preterintenzionale o intenzionale?) l'immagine che resterà nella memoria del Parlamento. Ovviamente, un'immagine. E, subito, da menti gentili e coltivate, la composizione artistica del trasporto del mio corpo fuori dall'aula viene benignamente e sublimemente affiancata, anche con efficaci fotomontaggi, alla Deposizione di Raffaello alla Galleria Borghese e alla Deposizione di Caravaggio nei Musei Vaticani. In quell'accostamento ho il mio riscatto e la mia vittoria. Imprevisti. Inattesi. Mentre le due sciocche parlamentari e i loro petulanti sodali finiscono nel mormorio, in secondo piano, fino a sparire. Per loro l'oblio, per me la gloria. Autocelebrazione? Compiacimento? No. La seconda performance, dopo le onde albanesi, di un nuovo artista. Voi credete che qualcuno ricordi nome, volto e parole di tale Giuseppe De Filippi, controfigura di Maria, incapace di intendere la realtà trasfigurata in arte, che vede «il rito della coerenza più stupida, la coazione alla aggressività ostentata e il gusto pervicace per la pura e semplice violenza di parole e gesti» in «Vittorio sempre un po' più uguale a se stesso»? Poveretto. Sempre più leggendario, invece. Non pentito e pienamente soddisfatto. Potesse leggere gli infiniti messaggi che mi sono arrivati... Il critico d'arte Gianluca Marziani scrive: «hai fatto una strepitosa azione in Parlamento»; il produttore televisivo Stefano Rizzelli: «genio totale»; Annalisa Tatarella: «hai superato te stesso»; Sergio Castellitto: «Vittorio grande, è un vanto farsi cacciare da quell'aula in estasi di ipocrisia»; un sostenitore appassionato: «grazie per aver difeso la libertà di parola con coraggio leonino. Ormai è regime pieno»; Angelo Tumminelli: «quello che ti hanno fatto è vergognoso. Tu hai detto cose vere e condivisibili»; Peppe Musto: «il suo intervento alla Camera è stato un intervento da statista»; Costanza di Noto: «io sono sempre dalla tua parte e siamo in tanti. Grazie per quello che fai per questo paese»; Edoardo Carboni: «esteta fino alla fine, complimenti professore»; Bruno da Milano: «mitico professore, lei è eccezionale»;
Elena Bonelli: «sei stato fantastico in aula contro quelle merdacce»; Valentina Ughetto: «come stai? Mi dispiace molto per questo paese»; Carlo Raffaelli: «sei stato un grande!!!! La magistratura è la peggiore vergogna italiana, strumento politico per soggiogare la popolazione»; Luigi Migliorini: «Che tristezza vedere che dal parlamento viene espulsa una delle sue intelligenze migliori!»; Alessandra Tucci: «Sei un grande. E questo è un fatto, non un complimento»; Maria Monni: «siamo tutti con te!! Vogliono metterci il bavaglio ma non ci riusciranno. Sei onesto, schietto e fortissimo!»; Marco Landi: «grande Vittorio. La tua uscita dalla Camera è stata trionfale. Alla faccia di chi si sente nel giusto»;
Mario Verdi: «ho potuto assistere a un passaggio del tuo intervento alla Camera. Ti conferisco, con effetto immediato e a tutti gli effetti, l'onorificenza di EROE della Repubblica! Hai tutta la mia ammirazione. Non potevi esprimere meglio quello che tutti (cioè coloro che non sono del Pd e dei 5 stalle) pensiamo»; Maurizio Donadoni: «Caro Vittorio, in Parlamento ieri sei stato epocale. Davvero. Circondato da quei tartufi, l'unico con del coraggio: a dire quel che pensa e pensare quel che dice. A presto»; Patrizia Lori: «Non mollare mai e so che tua madre ti segue ed è orgogliosa di te, non ti abbandona... La tua forza è la sua... So che è sempre nel tuo cuore ed il ricordo di lei ti appare spesso... Vai avanti... il mondo ti guarda... e chi sta dalla parte della verità è con te... Ricorda che sei anche guidato... lo sei sempre stato...»;
Francesco Sansone: «Onorevole le siamo vicino. Questo governo non tollera le persone libere come lei. Grazie per la sua battaglia in Parlamento»; Francesca Ceci: «Io ti adoro. Tu sei l'ultimo baluardo di bellezza e libertà di questo paese»; Mario Occhiuto, sindaco di Cosenza: «Caro Vittorio, sei l'unico in Italia oltre al Presidente della Repubblica che può permettersi di dire la verità sui magistrati. Solo che il Presidente della Repubblica non lo fa. Sei un personaggio con tale autorità e prestigio, che nessuno può contrastarti individualmente.
E quindi li costringi a mettersi ipocritamente insieme. Dici le cose che tutti vorrebbero dire (e non dicono) in un paese dove tutto si dovrebbe liberamente poter dire (ma non si dice). Sei unico, e in tantissimi ammirano il tuo coraggio e la tua cultura»; Otello Lupacchini, procuratore della Repubblica: «Caro Professore, non so quali siano le parole irripetibili che avresti pronunciato e che avrebbero giustificato la Tua violenta espulsione dall'emiciclo della Camera.
Una cosa, però, ho percepito: Giusi Bartolozzi, per replicare, approfittando di un cavillo regolamentare, alla Tua richiesta di una Commissione d'inchiesta su Palamaropoli, ha travisato a bella posta le Tue parole e il Tuo pensiero, perché non può considerarsi rivolta all'intera magistratura la critica, quantunque forte, da Te rivolta ad un apparato quale è l'AMM, intesa non nel complesso dei suoi iscritti, ma come organo di vertice e di rappresentanza degli stessi. Non Ti curare dell'atteggiamento vomitevole degli omiciattoli tremebondi (di entrambi i sessi) che per timore o, peggio, speranzosi di ricavarne qualche miserabile prebenda, resteranno in silenzio di fronte all'inaudita violenza fisica da Te patita, pensa piuttosto a quel che raccomandava, qualche anno fa, un tal Aristotele: mai parlare col primo venuto, privo di capacità dialettiche: il discorso rischia di diventare agonistico e, allora, l'ultima parola, finisce sempre per averla il più forte (ovviamente non sul piano intellettuale). Un abbraccio solidale». Bastano? Dall'altra parte, la ridicola morale di una grillina sorpresa in filmati pornografici diffusi, indignata per le mie supposte parolacce, dopo essere stata eletta in forza di innumerevoli «vaffanculo». Poveretti, destinati a sparire e già inesistenti, mentre io vengo accostato a Raffaello e Caravaggio; anzi li interpreto, come Luigi Ontani. Scrive Carlo Benvenuto: «sei più grande di Raffaello, il nostro Raffaello, non ti fermare mai».
Nino Ippolito mi attribuisce la didascalia, sotto la Deposizione, che dà il pieno senso dello straniamento delle immagini: «Mi volevano deporre, ma mi hanno solo momentaneamente spostato». Francesco Micheli, il finanziere, apre i giochi: «Solo un genio come te poteva rovesciare il tavolo mostrandosi ritratto da Caravaggio addirittura nella figura del Cristo! Attendiamo la tua presenza in una Resurrezione... come si conviene al terzo giorno». Vincenzo Zingaro si spinge fino alla lettura critica: «Caro Prof. Sgarbi ha tutta la mia solidarietà per quanto è accaduto ieri alla Camera... la sua genialità ha saputo trasformare un gesto squallido (la sua forzata dipartita dall'aula ad opera di imbelli figuranti) in una pagina di storia dell'Arte, rendendo per un attimo la tela desolante del Parlamento un quadro di Raffaello, con una carica di simbolismo che resterà nella storia... nel suo essere trascinato via ha saputo trasfigurare la goffaggine dei commessi in un affresco vivente pieno di pathos, citando la deposizione del Cristo di Raffaello... in quel Cristo che in quel momento lei rappresentava, c'era un monito... c'era tutto il peso del sacrificio violento che l'Italia ha subìto con l'uccisione della giustizia e di ogni valore di trasparenza, equità e meritocrazia. Con stima».
Avete dunque assistito alla mia trasformazione in opera d'arte. Ormai non conta più l'episodio nella sua contingenza, la fotografia del trasporto nella cronaca del Corriere: «Alla fine i commessi della Camera l'hanno dovuto portare fuori di peso tra le urla e i cori di un'aula ridotta a una bolgia, una scena che ha pochi precedenti negli annali parlamentari»: quello è il residuo, l'occasione, per qualcosa che resterà nella memoria e, prima che nella storia del costume, nella storia dell'arte, nelle sue contaminazioni. Penso a Andy Warhol, penso a Banksy, penso alle serate futuriste. Cosa dire allora di parrucconi impotenti, distesi su amache repubblichine in ventottesima pagina, che scrivono autentiche banalità, con rivoltante moralismo, incapaci di intendere il gesto trasfigurato, il teatro della vita, e ammirano soltanto le sanzioni, nella loro mentalità da questurini? Scrivono «non perché sia stato sbagliato cacciarlo: è stato sacrosanto e tardivo (e siamo felici che a decidere l'espulsione sia stata Mara Carfagna, rara incarnazione di una destra liberale e gentile)».
Non riuscendo a intendere ciò che ha visto, l'amacato esiliato a pagina 28 della Repubblica depensa come l'ultimo grillino esautorato: «Sgarbi è un mostro costruito dal cinismo (ben più mostruoso di lui) dei nostri anni. La sua maleducazione patologica, il suo imbarazzante narcisismo, la sua insopportabile maleducazione sono stati protetti e nutriti, per decenni, da conduttori e autori televisivi entusiasti di proporre allo spettabile pubblico, come fece Barnum con la Donna Barbuta, L'Uomo che Strilla».
Tutti scemi, meno lui. L'acido commentatore, che non vede Raffaello e non vede Caravaggio, avanza con la sua morale precotta, triste, sfortunato, dimenticato. È compiaciuto, con il suo perbenismo malinconico e patetico che, chissà perché, non si applica a Vasco Rossi o a Grillo, o ad altri insultatori seriali che non hanno fatto niente per l'arte, che non hanno mai fatto conoscere il loro dottor Jekyll. Insopportabile è la presunzione da parte di chi non mi ha sentito parlare, davanti a migliaia di persone, di Michelangelo, Leonardo, Caravaggio, Raffaello, di affermare, mortificandole: «così un ragazzo intelligente e colto è diventato un fenomeno da baraccone e addirittura un leader politico, perché la nostra epoca, della cultura e della intelligenza, non sa che farsene». Poveretto, lui che si ritiene colto e intelligente, ed è sparito da tempo dagli occhi di tutti. Non ne resta che la polvere, a pagina 28. Io sono con Caravaggio e Raffaello.
Da ilmessaggero.it il 25 giugno 2020. Vittorio Sgarbi viene espulso dall'Aula di Montecitorio. «Non può offendere i suoi colleghi, non può pronunciare parolacce», gli ha detto la vicepresidente Mara Carfagna tra gli applausi unanimi. Sgarbi non voleva abbandonare l'Emiciclo: ha dovuto essere portato via dai commessi. «Vergogna, Vergogna!», hanno urlato diversi deputati mentre qualcuno gli diceva «pagliaccio» e Carfagna sottolineava che «ha trasformato quest'Aula in uno show, parolacce anche alle donne». Sgarbi è stato portato via letteralmente di peso fuori dall'Aula della Camera dopo che, espulso dalla vicepresidente Carfagna, si ostinava a non uscire dall'Emiciclo e, anzi, si produceva in improperi nei confronti di lei e della deputata di Fi Giusi Bartolozzi, come «Vaffanculo», «stronza», «troia» ed altre parole incomprensibili dalle tribune. Carfagna lo ha più volte invitato a uscire. Sgarbi si è invece seduto negli scranni di Fratelli d'Italia prima e poi della Lega. A quel punto quattro commessi lo hanno sollevato di peso, due per le gambe e due per le braccia, e lo hanno portato fuori.
Vittorio Sgarbi, ecco gli insulti per cui è stato cacciato: "Stronza, troia, vaffanculo". Libero Quotidiano il 25 giugno 2020. Vittorio Sgarbi espulso e portato via di peso da quattro deputati mentre veniva ricoperto di insulti. Succede anche questo alla Camera, dove il noto critico d’arte è stato cacciato fuori dalla vicepresidente Mara Carfagna per aver usato “parole inaccettabili contro di me, la deputata Bartolozzi e le donne”. La discussione è degenerata durante la replica dell’esponente di Fi alla richiesta di Sgarbi, che spinge per l'istituzione di una commissione d’inchiesta sulle vicende riguardanti Luca Palamara e la magistratura. Ma stavolta il critico d’arte è andato troppo oltre, soprattutto con le parole e gli insulti a Giusi Bartolozzi ed alla Carfagna: tra uno “stronza”, un “troia”, un “vaffa” e altri termini incomprensibili dalle tribune, Sgarbi ha superato ogni limite ed è stato portato via di forza, dopo aver risposto all’invito a uscire sedendosi negli scranni di Fdi e della Lega.
Sgarbi contro “l’Anm mafiosa”. Carfagna lo espelle, i commessi lo trascinano fuori dall’Aula. Il Dubbio il 25 giugno 2020. Vittorio Sgarbi insulta la deputata che difende i magistrati e la presidente della Camera lo “butta fuori”. Clima teso alla Camera prima del voto sul decreto legge relativo a intercettazioni, scarcerazioni e app Immuni. A innescare lo scontro l’intervento di Vittorio Sgarbi contro la magistratura e per chiedere una commissione d’inchiesta. Parole che hanno suscitato reazioni di esponenti di vari Gruppi, a cominciare da Giusi Bartolozzi di Forza Italia. Di qui ulteriori attacchi di Sgarbi, che hanno portato la vicepresidente, Mara Carfagna, presidente di turno dell’assemblea, dopo vari richiami, ad espellere Sgarbi, stigmatizzando le parole «inaccettabili contro Bartolozzi, contro di me» e le donne ingenerale. Altri esponenti hanno quindi espresso solidarietà a Bartolozzi e chiesto provvedimenti disciplinari nei riguardi di Sgarbi. «Che un criminale delinqua è normale, che lo faccia un magistrato è un terremoto istituzionale. Dopo le inaudite dichiarazioni contro di lei di un magistrato del Csm - ha affermato Sgarbi rivolgendosi al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede-dopo le inaudite dichiarazioni di Palamara contro l’onorevole Salvini, dobbiamo aprire una commissione di inchiesta contro la criminalità di magistrati che fanno l’opposto del loro lavoro, peggio dei criminali. Palamaropoli». Parole applaudite da parte dell’Aula, ma che hanno suscitato anche reazioni assai critiche, a cominciare da quelle di Giusi Bartolozzi, di Forza Italia, magistrato. «Sentire da un collega che la magistratura tutta è mafiosa, a me fa inorridire». «Non era tutta», ha replicato Sgarbi, ricordando che Francesco Cossiga aveva definito l’Anm «un’associazione mafiosa» e alzando particolarmente i toni, tanto da portare Carfagna ad espellerlo dall’Aula dopo i previsti richiami con i commessi che lo hanno trascinato via. «L’onorevole Sgarbi -ha quindi spiegato la vicepresidente che in quel momento presiedeva l’Assemblea – ha pronunciato parole irripetibili nei confronti dell’onorevole Bartolozzi e anche della presidenza. In quest’Aula il rispetto reciproco penso che sia dovuto. Non dico soprattutto quando si tratta di una donna, però ascoltare in quest’Aula degli insulti e delle offese ripetute nei confronti di una donna, credo che sia inaccettabile e credo che tutta l’Aula dovrebbe unirsi alla solidarietà nei confronti dell’onorevole Bartolozzi. Per quanto riguarda le parole pronunciate nei confronti dei magistrati, l’onorevole Sgarbi se ne assume la responsabilità, non c’è da parte della presidenza il dovere di stigmatizzarle».
Sgarbi espulso e portato di peso fuori dalla Camera, insulti irripetibili contro Carfagna e Bartolozzi. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Insulti, parolacce e toni decisamente sopra la norma. Ancora più sgradevoli perché rivolti – più volte – verso due colleghe, la deputata di Forza Italia, Giusi Bartolozzi, e la vice presidente della Camera, Mara Carfagna. Per questi motivi il parlamentare del gruppo Misto, Vittorio Sgarbi, è stato espulso dall’aula durante le fasi di votazione sul decreto Giustizia. “Parole irripetibili verso la collega Bartolozzi e verso di me”, ha spiegato Carfagna, specificando che “il rispetto reciproco in quest’aula è un dovere”. L’esponente di FI ha anche ribadito che “gli insulti, ripetuti, verso delle donne, sono inaccettabili”. Contro Sgarbi anche il presidente della Camera, Roberto Fico, che ha definito il comportamento del deputato “indecente e indegno”. “Ho dato mandato ai questori di aprire un’istruttoria per prendere gli opportuni provvedimenti. La mia piena solidarietà alla deputata Giusi Bartolozzi e alla vicepresidente Mara Carfagna”, ha aggiunto Fico. Poco prima degli insulti alle colleghe deputate, Sgarbi era intervenuto in aula nella discussione dedicata al voto sul decreto legge relativo a intercettazioni, scarcerazioni e app Immuni. Una occasione per il critico d’arte per scagliarsi contro le toghe: “Dobbiamo aprire una commissione d’inchiesta contro la criminalità di magistrati che fanno l’opposto del loro lavoro, peggio dei criminali”. Parole non condivise dalla Bartolozzi, deputata di Forza Italia e magistrato: “Sentire da un collega che la magistratura tutta è mafiosa, a me fa inorridire”. Secondo l’Ansa Sgarbi avrebbe pronunciato parole come “vaffanculo, stronza, troia” ed altre incomprensibili dalle tribune. nei confronti di Bartolozzi e Carfagna.
Mara Carfagna per “il Giornale” il 27 giugno 2020. Caro direttore, si dovrà pur decidere prima o poi se vogliamo riformare davvero la giustizia così come il fisco, la scuola, la burocrazia o usare la crisi del sistema Italia come palcoscenico per le vanità della politica. È la prima riflessione che mi è venuta in mente oggi, leggendo (dopo averlo vissuto) il resoconto sullo scontro d'Aula tra Vittorio Sgarbi e l'on. Giusi Bartolozzi, magistrato in aspettativa eletto nelle liste di Forza Italia, culminato con l'espulsione di Sgarbi e con la scena che tutti hanno visto del deputato portato fuori dall'emiciclo a braccia. L'espulsione era un atto dovuto da parte mia, peraltro dopo un doppio richiamo: nessuna presidenza, in nessuna legislatura, in nessuna circostanza, può lasciar correre parolacce e insulti volgari pronunciati per interrompere e intimidire chi parla e ben documentati anche dagli atti ufficiali dei resoconti parlamentari, oltre che ascoltati da numerosi testimoni. Tuttavia non voglio soffermarmi sull'abc dei regolamenti parlamentari (ma soprattutto della normale educazione). Le scrivo, piuttosto, per sottolineare come sia importante, ora che il caso Palamara ha svelato modalità di carriera in magistratura incompatibili con uno Stato di diritto, cogliere l'occasione per sottrarre questo dibattito all'invettiva generica e controproducente. Le antiche denunce sull'uso politico della giustizia, che Forza Italia ha portato avanti per un ventennio, spesso sbeffeggiata e offesa, hanno trovato una plastica dimostrazione nelle frasi contro Matteo Salvini che ricorrono nelle intercettazioni dell'ex presidente dell'Anm. Ma più oltre è emerso un sistema opaco di promozioni e avanzamenti che fa davvero venire i brividi: non oso immaginare l'effetto di quel do ut des sulle inchieste, sui processi, sulle sentenze pronunciate dai diretti interessati. Non ci serve tuttavia una «Palamaropoli» che demolisca l'intera categoria dei magistrati, come a suo tempo - anche se lo abbiamo scoperto molto dopo mostrò tutti i suoi limiti Tangentopoli, che criminalizzò non solo i corrotti, ma l'intera politica italiana, aprendo le porte al populismo antipolitico che sta demolendo il nostro Paese. Ci serve un cambiamento. Ci serve meno tifo da curva e più riflessione, anche più dialogo con la gran parte degli ottomila magistrati italiani che fanno il loro dovere, spesso corrono rischi, e hanno letto sconcertati come noi quelle parole e quelle intercettazioni. Personalmente sono stata in prima linea nella denuncia delle inchieste persecutorie aperte per anni contro il fondatore del nostro partito Silvio Berlusconi, mai tirandomi indietro anche sui media contro gli ultras del «partito delle manette» e i guru della giustizia ad personam. Ma ho ben chiara la differenza tra chi strumentalizza queste vicende per visibilità o opportunismo e chi veramente crede nel garantismo e nella giustizia giusta. Mara Carfagna.
Perché Vittorio Sgarbi è stato espulso dalla Camera. Redazione su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Stanno facendo il giro del web le immagini di Vittorio Sgarbi espulso e trascinato di peso fuori da Montecitorio, il Palazzo della Camera dei Deputati. Insulti, parolacce e toni forti sarebbero stati le cause dell’espulsione. Le immagini del deputato, al momento in forza al Gruppo Misto ma eletto con Forza Italia, sono diventate virali in poche ore. Alla Camera era in corso il voto sul decreto Giustizia. Destinatarie delle parole di Sgarbi sarebbero state la deputata di Forza Italia Giusi Bartolozzi e la vice presidente della Camera Mara Carfagna, sempre di Forza Italia. “Parole irripetibili verso la collega Bartolozzi e verso di me”, ha spiegato Carfagna affermando che “il rispetto reciproco in quest’aula è un dovere” e che “gli insulti, ripetuti, verso delle donne, sono inaccettabili”. Secondo l’Ansa Sgarbi avrebbe pronunciato parole come “vaffanculo, stronza, troia” ed altre espressioni incomprensibili dalle tribune nei confronti di Bartolozzi e Carfagna. Nelle ore successive Sgarbi ha replicato alle accuse che gli sono state rivolte. Al presidente della Camera, Roberto Fico, che aveva definito il comportamento del deputato “indecente e indegno” Sgarbi ha dedicato una lunga dichiarazione, condivisa sui social. “Di indecente e indegno c’è solo il comportamento di Fico che mi attribuisce cose mai dette ignorando che le persone e i deputati non si dividono per sessi, e io non ho detto nulla di diverso da quello che avrei detto a un deputato maschio. Si tratta di una ignobile strumentalizzazione. Alla Bartolozzi mi sono limitato a dire ‘sei ridicola’, e a evocare il nome di Berlusconi che l’ha fatta eleggere. Quanto alla Carfagna le ho detto ‘fascista’, com’era il suo atteggiamento avendomi impedito non solo di parlare ma di votare. Noto che anche una donna può essere fascista. Fico non troverà nelle registrazioni nessun insulto rivolto a una donna, ma solo invettive contro alcuni deputati. Dalla sua istruttoria uscirà sbugiardato. Un tempo – ha chiosato Sgarbi – il Parlamento era il posto della libertà di parola, oggi è il luogo della censura. E parla l’esponente (Fico) del partito che si è fatto strada con gli insulti, a colpi di “vaffanculo”. E che definì Veronesi “cancronesi”. Prima dell’espulsione Sgarbi era intervenuto nella discussione sul decreto legge relativo a intercettazioni, scarcerazioni e app Immuni. “Dobbiamo aprire una commissione d’inchiesta contro la criminalità di magistrati che fanno l’opposto del loro lavoro, peggio dei criminali“, aveva detto Sgarbi. Parole non condivise dalla Bartolozzi, deputata di Forza Italia e magistrato: “Sentire da un collega che la magistratura tutta è mafiosa, a me fa inorridire”.
Michele Serra per la Repubblica il 26 giugno 2020. La cacciata del deputato Sgarbi dal Parlamento, portato via come l'ultimo dei casseurs da commessi energici e sbigottiti, mette tristezza. Non perché sia stato sbagliato cacciarlo: è stato sacrosanto e tardivo (e siamo felici che a decidere l'espulsione sia stata Mara Carfagna, rara incarnazione di una destra liberale e gentile). Ma perché Sgarbi è un mostro costruito dal cinismo (ben più mostruoso di lui) dei nostri anni. La sua maleducazione patologica, il suo imbarazzante narcisismo, la sua aggressività insopportabile, sono stati protetti e nutriti, per decenni, da conduttori e autori televisivi entusiasti di proporre allo spettabile pubblico, come fece Barnum con la Donna Barbuta, l'Uomo che Strilla. Sono stati incentivati e premiati da sponsor politici convinti che l'arroganza e il disprezzo degli altri fossero manifestazioni di "libertà". E da elettori entusiasti di quell'idea, deprimente e fasulla, di "libertà". I veri autori di Sgarbi sono loro, non Sgarbi. Sgarbi è solo vittima dei loro applausi. Così un ragazzo intelligente e colto è diventato un fenomeno da baraccone, e addirittura un vice-leader politico, solamente perché la nostra epoca, della cultura e dell'intelligenza, non sa che farsene. E se ne frega dell'umiltà, della mitezza, della gentilezza, considerati segni di debolezza. Ignorare la forza d'animo e premiare gli energumeni, deridere chi parla a bassa voce ed esaltare i prepotenti, è in questa bolla nefasta che Sgarbi ha potuto diventare Sgarbi, senza che nessuno lo aiutasse, e gli volesse bene quel tanto che bastava per dirgli: smettila, ti rendi ridicolo, meriti di meglio.
Vittorio Sgarbi, lo sfogo dopo l'espulsione: "Pavidi, vigliacchi. Come avete ottenuto quel posto in Parlamento?" Libero Quotidiano il 26 giugno 2020. Una giornata di passione e follia, per Vittorio Sgarbi alla Camera, quella di ieri, giovedì 25 giugno, tra insulti, espulsione e l'essere trascinato via a peso morto dai commessi. Lo scontro con Mara Carfagna e la Bartolozzi di Forza Italia, poi con Roberto Fico. Risultato? Non arretra di un centimetro. Il critico d'arte, oltre che con una nota stampa, è ritornato all'attacco su Twitter, con un cinguettio carico di rabbia, senza nomi ma pieno zeppo di allusioni, in cui afferma: "Non appartengo alla categoria dei pavidi, dei vigliacchi, dei tornacontisti. Dico quel che penso. Ci metto sempre la faccia. Sto in Parlamento a testa alta. Chi mi attacca è solo perché ricordo loro cosa sono e sono stati, come hanno ottenuto quei posti e come verranno ricordati", conclude Vittorio Sgarbi. E chissà a chi fischiano le orecchie...
Vittorio Sgarbi, il deputato ha ragione nel volere indagare le toghe. Farina condanna la cacciata dall'Aula. Renato Farina su Libero Quotidiano il 27 giugno 2020. Vittorio Sgarbi - stavolta, e non è la prima volta - ha perfettamente ragione. Di più: è stato vittima di un rito barbarico nel cuore stesso della democrazia repubblicana. E con lui a essere stata matata in una arena di vigliaccheria è stato il diritto di dire la verità e il dovere di consentirlo. La cronaca è nota. Ma non è quella che è stata raccontata. Anche chi infatti è benevolo con il critico d'arte e parlamentare, trasferisce l'essenza dell'accaduto sul piano del costume. Come quando si litiga da Barbara D'Urso o da Lilli Gruber: un gioco dove non conta la tensione alla verità ma l'efficacia della battuta o la gravità dell'offesa. Bisogna saltar fuori dal pregiudizio negativo o positivo sul «solito Sgarbi». E osservare quello che ritengo non uno sketch, ma se è stato uno spettacolo appartiene al genere della tragedia. Esagero? Neanche un po'. La vergogna di quel che è accaduto mercoledì a Montecitorio non consiste affatto nelle parole e nei comportamenti di Vittorio Sgarbi, deputato nell'esercizio delle sue funzioni di rappresentante del popolo italiano. L'oscenità sta tutta nell'aver falsificato le sue parole, tramutandone il senso, e averlo perciò sbattuto fuori dall'aula impedendogli di votare un provvedimento infame che allarga all'infinito la possibilità per la magistratura di intercettare chiunque, dovunque e comunque, senza alcun controllo salvo quello della magistratura medesima. Il parlamentare di Ferrara aveva osato l'inosabile. Chiedere un'inchiesta parlamentare non contro la classe politica, o contro un delitto di 40 anni fa, bensì su «magistratopoli, palamaropoli», ovvero sullo scempio dell'onestà e della buona fede del popolo italiano ad opera di una cricca in toga che governa carriere e (a quanto si è udito) sentenze, e che è stata ai vertici dell'Associazione nazionale magistrati, quella che - ha citato correttamente Sgarbi - Cossiga definì «associazione mafiosa». Con una spudorata deformazione, senza avere alcun diritto di interloquire con un collega in dichiarazione di voto, l'onorevole di Forza Italia Giusi Bartolozzi, ex magistrato in Sicilia, ha attribuito a Sgarbi d'aver qualificato come criminali tutti i magistrati. Chi stava dalla parte di Sgarbi (buona parte del centrodestra) non ha contraddetto la deputata che mentiva, mentre grillini e sinistra unanime sono balzati in trecento contro uno addosso a Sgarbi che cercava di far udire il suo non-ho-detto-questo. Lo hanno sommerso di urla. Visto che non lo facevano replicare ed anzi lo inondavano di improperi, ha lanciato invettive, e ha pronunciato, oibò, un sonoro vaffanculo. Dicono anche si sia lasciato andare a parolacce e ingiurie che lui nega di aver profferito (nella registrazione però non si ode l'epiteto «troia» che gli è attribuita nello stenografico della Camera). Fatto sta che appena la canea ha cominciato ha scandire fuori-fuori, immediatamente la presidente Mara Carfagna, per la quale la mia stima resta intatta, ha obbedito e ha letteralmente ripetuto «fuori» cacciandolo dall'aula, con accompagnamento teatrale di commissari che lo tenevano per le mani e per i piedi. Ripeto. Si tende a trattare l'episodio come un fatto di cabaret, tifando alcuni pro e quasi tutti contro Sgarbi, riducendo la cosa a un accidente caratteriale. Si incolpa la sregolatezza linguistica del professore di Ferrara. Molto comodo. È il classico della censura. Usare un frase particolare, che si può vendere all'opinione pubblica come sgradevole, in nome del linguaggio tutto tè e pasticcini che sarebbe in voga in Italia (ma dai), per squalificare ed espellere dall'agorà democratica e civile una denuncia accorata e urgente. Guai a chi tocca il totem, a chi viola il tabù: la degenerazione della magistratura, nei suoi massimi organi rappresentativi (Anm) e di autogoverno (Csm) non può essere nominata. Sgarbi è il migliore - e di gran lunga - oratore a braccio di questa legislatura. Sa alternare e mescolare la raffinatezza al genere retorico dell'invettiva anche salace e veemente, tale da lacerare la camicia o lo chemisier degli avversari di oratoria. L'insulto però all'essenza del Parlamento è quello che è accaduto intorno a lui e contro di lui, per trafiggere e trascinare fuori il dissidente dal pensiero unico. Sgarbi ha avuto la temerarietà di indicare la nudità sporcacciona del re. Ha detto la verità sul potere sommo che si è seduto sull'Italia schiacciandola, e tiene sotto schiaffo minacciando - e quanto accaduto alla Camera ne è la prova - chi non si genuflette. Ci siamo capiti, l'ordine giudiziario ha in mano lo scettro anche in Parlamento. Con abilità mostruosa il centro della questione non è più se e quanto il malaffare sia diffuso nella magistratura, e se non sia il caso di investigarvi da parte di un soggetto terzo (il potere legislativo). Il cuore del problema italiano diventa il vaffa. Il filmato mostra il deputato del Pd Emanuele Fiano correre al banco della Carfagna e ripeterle piano con l'aria di chi ha udito la formula con cui Voldemort dissolve il mondo: «...ha detto "vaffanculo"!». Sul serio. Ho trascritto lo stenografico. Dio mio, ha detto vaffanculo! Qualcuno chiami De Luca con i lanciafiamme. Che razza di ipocrisia. Fiano e i suoi dem così pudichi sono alleati e governano con chi di questa sollecitazione al meretricio posteriore ha fatto l'essenza della sua politica. E adesso diventa pretesto per trasferire nel mondo delle parolacce un giudizio politico e morale sullo scandalo di una magistratura malata.
Sgarbi querela Carfagna e Bartolozzi: “Indignate a comando”. Notizie.it il 26/06/2020. Sgarbi annuncia querela per Carfagna e Bartolozzi dopo essere stato cacciato dal Parlamento. Il video di Vittorio Sgarbi trascinato via dal Parlamento è già diventato un capitolo di storia repubblicana assolutamente da dimenticare che ha indignato tutte le componenti politiche. Ma adesso, il parlamentare e critico d’arte annuncia di non voler restare a guardare ma, anzi, di passare alla controffensiva tanto da aver già comunicato l’intenzione di presentare querela per Mara Carfagna, vicepresidente della Camera, e Giusi Bartolozzi, collega forzista. Così, attraverso la sua pagina Facebook, Sgarbi smentisce le accuse in merito ai presunti insulti rivolti alle due parlamentari: “Le sole parole irripetibili che ho pronunciato all’indirizzo delle due indignate di comodo sono: ridicola alla Bartolozzi e fascista alla Carfagna. Parole perfettamente aderenti ai loro comportamenti”. Vittorio Sgarbi è un fiume in piena e promette guerra alle due parlamentari che lo hanno costretto ad abbandonare l’aula del Parlamento: “Quanto alla Bartolozzi, ex magistrato – continua il critico d’arte -, le ho anche evocato il nome di Berlusconi, solo per ricordarle che si trova in Parlamento proprio grazie alla generosità del Cavaliere, l’uomo più perseguitato d’Italia da certa magistratura”. Sgarbi fa riferimento a quella stessa magistratura che: “Io ho denunciato nel mio discorso alla Camera e che lei ha ciecamente difeso, come se lo scandalo delle chat di Palamara fosse una invenzione. Tra l’altro io a quei magistrati del caso Palamara ho fatto riferimento, e non genericamente alla categoria dei magistrati”. E non mancano le accuse agli indirizzi della Carfagna che Sgarbi definisce soubrette in catene: “Lo so, ricordare ciò che siamo stati è sempre un esercizio faticoso. Ma a lei ribadisco che impedirmi di parlare e votare è un atto fascista. Ma le due indignate a comando cosa fanno? Montano una ignobile strumentalizzazione politica mostrandosi come vittime. Evocano il sessismo pretendendo in quanto donne, una sorta di immunità alle critiche, esercitando, loro sì, una forma di intimidazione nei miei confronti”. Tutti questi motivi spingono Vittorio Sgarbi ad agire per via legali: “Vista la grave diffamazione consumata ai miei danni con accuse false, dovranno portare le prove in un tribunale, il solo luogo in cui si potrà parlare liberamente di ciò che ho detto, visto che il Parlamento è diventato un luogo di censura e di restrizioni. In quella sede si potrà anche ricostruire il percorso che ha portato la Bartolozzi e la Carfagna in Parlamento. In modo che, anche se con anni di ritardo, si possa poi dire: aveva ragione Sgarbi”.
Parla Vittorio Sgarbi: “Anm è mafia! Carfagna si è comportata da fascista, Bartolozzi è ridicola”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Giugno 2020. “Vaffanculo, stronza, troia”. Parole non nuove nel vocabolario di Vittorio Sgarbi, un lessico usato mille volte nei talk show che ne hanno costruito la popolarità, ma che ieri l’aula di Montecitorio ha recepito molto male. Il deputato, eletto con Forza Italia ancora nel 2018 e poi transitato al Misto, ha esorbitato ieri con un fallo di reazione che potrebbe costargli caro. Terminato il suo intervento nell’ambito della discussione sulla conversione del dl Giustizia, si è visto replicare con toni stizziti dall’onorevole Giusi Bartolozzi, magistrata eletta nelle file di Forza Italia. «Non tutti i magistrati sono così», ha detto. E Sgarbi non ci ha visto più. Secondo lo stenografico della Camera, del quale abbiamo chiesto conferma a diversi deputati presenti, le ha rivolto i coloriti epiteti di un repertorio già noto. Un’ondata da cui è stata investita anche la presidente di turno, Mara Carfagna, che ha disposto l’allontanamento coatto: di Sgarbi. Come in una deposizione caravaggesca, il corpo del critico d’arte viene issato da quattro commessi. Chi per le braccia, chi per le gambe, lo portano di peso fuori dall’emiciclo. E non è tutto: i questori della Camera, sollecitati da Roberto Fico, apriranno una procedura disciplinare. Dopo essere stato trascinato fuori, Sgarbi si sfoga con Il Riformista. «Ho detto che i magistrati sono dei fascisti e per tutta risposta mi hanno cacciato dall’aula. Anche Cossiga aveva detto che l’Anm è come la mafia, dopotutto. Ho svolto un intervento di passione civile, chiedendo di istituire una commissione di inchiesta su Palamaropoli e ho visto i tanti applausi che mi rivolgevano i banchi di Forza Italia, di Fdi e della Lega. Poi la replica di Giusi Bartolozzi, che non ho capito se ha chiaro il fatto che siede sui banchi dei garantisti e non dei giustizialisti».
Posizioni politiche, condite da parole forti.
«Sono tutti impazziti. Il Parlamento dovrebbe essere il luogo dove si parla liberamente, è diventato un tempio dove ognuno deve stare attento a quel che dice, perché se alzi i toni vieni espulso e se non ti alzi vieni sollevato di peso».
Ha detto “stronza”, “troia”…
«Direi di non averlo mai detto. Dovrei risentire l’audio. Se ho detto stronza a Mara Carfagna, non è alla persona che l’ho detto ma al comportamento che in quel momento stava tenendo, era un comportamento prevaricatore del mio diritto di parola».
Non le chiederebbe scusa?
«Ha usato un atteggiamento fascista, ha provato a imbavagliarmi. Le ripeterei che è stata censoria nei miei confronti. Io non mi faccio incatenare».
All’indirizzo dell’onorevole Bartolozzi, invece?
«Le ho urlato “ridicola”, e “Berlusconi”. Sono insulti? Direi di no. Le ho voluto richiamare quello che lei è o almeno dovrebbe rappresentare, essendo entrata in Parlamento con Forza Italia. Mi fa specie che lo abbia scambiato per un insulto. Berlusconi non è una parolaccia».
La si accusa di sessismo.
«Ma figuriamoci. Intanto vorrei dire che “stronza” non è un’offesa. E non è sessista. Vale per gli uomini come per le donne. E sei sei stronzo, qualcuno prima o poi te lo dice. Chiunque tu sia».
Alla fine il Dl Giustizia è passato.
«Era prevedibile, i numeri alla Camera non riservavano sorprese. Il solo valore aggiunto che si poteva apportare stava nella mia proposta di istituire una Commissione di inchiesta. Un progetto concreto e motivato dal più grande scandalo del sistema giustizia nella storia della Repubblica. Quando l’ho proposto, applausi da tutte le parti. Poi mi prendono di peso e mi portano via dall’aula a spalla. Una scena mai vista».
Questo caos è tra lei, Carfagna e Bartolozzi: tutti e tre eletti con Forza Italia.
«Ma io sono l’unico coerente, sono gli altri a essere in dissonanza con chi li ha fatti eleggere in Parlamento. Per questo ho ripetuto e urlato più volte “Berlusconi” in aula, perché so che lui la pensa come me».
Perché alla fine non si è allontanato volontariamente dall’aula?
«Perché non c’era ragione di allontanarmi. In democrazia non esiste che tu vieni messo a tacere in questo modo. Non ho insultato nessuno. Ho svolto un intervento nel merito. Ho parlato di Palamaropoli e detto che in Italia troppi magistrati mestano nel torbido. Appena sentite queste parole, è venuto giù tutto e due minuti dopo venivo sbattuto fuori a forza».
Dagospia il 12 giugno 2020. Da La Zanzara – Radio 24. “La Carfagna ha detto che ci sono seicentotrenta coglioni e uno solo intelligente, cioè io. Non ho reagito, ma credo fosse più o meno vero. Tolto qualche leghista, ci sono seicento coglioni con le maschere”. Lo dice Vittorio Sgarbi a La Zanzara su Radio 24: “Io me me la sono tolta, ma lei rompeva il cazzo ed insisteva. Mi è venuto in mente quando lei si è fatta vedere con le catene. Lei è abituata ad avere bavagli, catene, manette. Perché prima di diventare Ministro delle Pari Opportunità si è fatta fotografare da una rivista tipo Playboy completamente incatenata. Io la ricordo così, catene e bavagli, una dominata. Prova ad aprire internet e metti Carfagna incatenata, la vedi. La vedi con le catene al naso, alla bocca”. “A me – dice Sgarbi – la Carfagna sta sul cazzo, tecnicamente parlando. Poi trovo che un partito di un grande chiavatore con quattro donne al potere sia una follia, la Gelmini, la Ronzulli, la Bernini, solo donne dominano quel partito”. “E comunque – insiste Sgarbi – in Parlamento non si tolgono la maschera per non stare a discutere, però sanno benissimo che non serve a un cazzo la mascherina. Le distanze poi sono legate al mondo omosessuale perché se tu lo prendi da dietro, sei ad un metro di distanza. Quindi è stato fatto apposta per inclinare le persone a prenderlo nel culo. La distanza serve per quello”. “Berlusconi – prosegue – è sottomesso a queste donne, non c’è dubbio. Forza Italia è sparita, non dà più segni di vita. Però volevo leggervi, a proposito degli amici che portano la mascherina, il mitico Banksy: i più grandi crimini del mondo non sono commessi da uomini che infrangono le regole, ma da persone che seguono le regole. Sono persone che eseguono gli ordini che sganciano le bombe che massacrano i villaggi e sterminano gli ebrei. Regole del cazzo, nel buco del culo devi metterti le regole”. E quando bisogna mettere la mascherina?: “Quando vuoi chiavare una, così non la conosci. Va bene solo per chiavare, ma la maschera sugli occhi non sulla bocca”. Poi torna ad attaccare la Carfagna: “Siccome nessuno sa più chi è la Carfagna, si scontra con me per far sapere che esiste. Chi cazzo è la Carfagna? Qualcun sa chi è la Carfagna? E capisco che una che è stata legata con catene in ogni modo ed imbavagliata per fare un calendario erotico, sia favorevole a portare la mascherina. Io non faccio calendari erotici, quindi faccio quel cazzo che mi pare e non sono d’accordo su questa linea. Però la capisco. Se c’è una regola, la rispetti. Quindi se ti ordinano di uccidere dieci ebrei, lo fai. E’ un ordine, perché un ordine va rispettato”.
Vittorio Sgarbi soccorso in mare dalla figlia: ha rischiato di annegare. Debora Faravelli il 06/06/2020 su Notizie.it. Vittorio Sgarbi ha rischiato di annegare mentre si trovava al mare in Albania: avventuratosi tra le onde, è scomparso per alcuni istanti tra i flutti. Nel pomeriggio di venerdì 5 giugno 2020 Vittorio Sgarbi ha dovuto fare i conti con uno spiacevole episodio mentre si trovava in una spiaggia del litorale di Palas, località nel sud dell’Albania: entrato in mare nonostante il forte vento e le onde alte, il critico è stato sommerso da una di queste rischiando di annegare. A riportare la notizia è stato lo stesso ufficio stampa dell’ex esponente di Forza Italia che l’ha poi condivisa sui suoi profili social accompagnata da un video che testimonia quanto accaduto. Sgarbi era ospite nel resort Green Cost quando ha deciso di avventurarsi in mare insieme alla figlia. Ma mentre costei è rimasta vicino alla riva, il padre ha proseguito per diversi metri nonostante gli appelli di Alba a tornare indietro. Fino a quando la forza delle onde lo ha sorpreso e all’improvviso è scomparso tra i flutti. Dopo pochi secondi è riuscito a riemergere e subito la figlia, un bagnino presente nel resort e un altro uomo sono accorsi in suo aiuto aiutandolo ad uscire dall’acqua e accompagnandolo a riva. Durante i concitati momenti sott’acqua il critico d’arte ha anche perso i suoi occhiali. Fortunatamente l’episodio non ha avuto conseguenze ma soltanto paura e spavento. Insieme a Sgarbi c’era anche il sindaco di Valona, il medico Dritan Leli.
Dagospia il 15 maggio 2020. Da La Zanzara – Radio 24. A La Zanzara su Radio 24 lite furiosa Sgarbi-Parenzo su Silvia Romano, con Sgarbi che raggiunge il nuovo record di insulti: 96 in quindici minuti. Parenzo: "Questa volta ti sbagli, lei è una vittima. Vedi troppe serie tv". Sgarbi: "No, è complice dei terroristi, potrebbe indossare una cintura piena di dinamite". Poi il critico d'arte sbrocca: "Terrorista, imbecille, povero cretino, povero idiota, povero scemo, idiota, amico dei terroristi, finto ebreo, pompinaro di merda...". In quindici minuti di intervista a La Zanzara su Radio 24, Vittorio Sgarbi ha raggiunto il record mondiale di insulti. Ben 96 quelli rivolti a David Parenzo sulla vicenda di Silvia Romano. Sgarbi difendeva la sua tesi, cioè quella di “arrestare” la Romano per concorso esterno in terrorismo, “complice dei terroristi”. mentre Parenzo lo criticava. Per Sgarbi in questo momento lei (Silvia Romano, ndr) non è vittima, ma complice: “Se tu fai propaganda per loro, vuol dire che sei pronta a fare quello che ti chiedono, compreso mettersi una cintura di dinamite”. E ancora: "Bisogna fare prevenzione, c’è il rischio che venga utilizzata da una banda terroristica per mettere in difficoltà l’Italia”. Per il critico d’arte la conversione di Silvia Romano è "come andare a cena con Totò Riina e dire che è stato corretto, gli amici dei terroristi devono andare in galera". Parenzo a quel punto frena questo fiume in piena: "Stavolta ti è uscita male, Silvia Romano è vittima, non complice". Ma a questo punto Sgarbi, ormai partito in quarta, rincara la dose: "E tu sei un cretino, un finto ebreo". Quindi la sequela di attacchi, invettive e insulti rivolti a Parenzo.
Terrorista: 1
Imbecille: 1
Povero Cretino: 11
Povero idiota: 14
Povero scemo: 11
Idiota: 4
Cretino: 3
Incapace totale: 1
Povero deficiente: 3
Amico dei terroristi 11
Amico della mafia: 3
Povero terrorista coglione: 1
Falso ebreo/finto ebreo: 3
Leccaculo: 2
Delinquente: 1
Rinnegato: 7
Pompinaro di merda: 1
Ami prenderlo nel culo: 1
Ignorante: 3
Sei finito: 1
Fuori dai coglioni: 5
Vaffanculo: 1
Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 12 marzo 2020. Le affinità elettive e sentimentali. Un matrimonio - anacronistico in questi tempi di legami liquidi - lungo 65 anni. Un amore inesauribile per la donna amata, compagna e anima di tutta una vita, un legame che sopravvive anche alla morte. Sono questi i temi che hanno affascinato Pupi Avati che si prepara a girare un film sulla famiglia Sgarbi. Non Elisabetta e Vittorio, ma i loro genitori, Nino e Rina Cavallini. Il cuore della storia nasce dal libro scritto da Nino Sgarbi (ha debuttato come autore a 93 anni...) Lei mi parla ancora (che è anche il titolo provvisorio del film): «Una lettura che mi ha conquistato - racconta Avati -. Io che ho sempre saccheggiato la mia vita personale a piene mani in tutti i film che ho realizzato, mi trovo per la prima volta ad affrontare l' autobiografia di un altro. La chiave del film è anche nel rapporto che si instaura tra il ghost writer (interpretato da Fabrizio Gifuni) a cui Nino racconta la sua vita: è un uomo che all' improvviso rimane solo in questa grande villa che sembra il Vittoriale per le opere - di qualità e in quantità - accumulate. Si confronta con un giovane scrittore, sposato per soli tre anni e già separato, che ha della vita una visione diametralmente opposta: la diffidenza iniziale evapora negli insegnamenti che il "vecchio" saprà dargli». Anche se non è vita sua, Avati si riconosce: «Io ho avuto un' esperienza matrimoniale non esente da turbolenze, ma ho imparato che sulla lunga distanza è impagabile aver avuto a fianco una persona che ha condiviso il tuo intero percorso. Lo dico senza che lo senta mia moglie: nel suo sguardo ci sono tutte le età della mia vita, lei è l' hard disk che contiene tutti i file della mia esistenza e se sparisce quell' hard disk ti senti perso. Penso che gli uomini siano più impreparati alla perdita rispetto alle donne, si trovano sgomenti senza un punto di riferimento. In questo film racconto la bellezza di percorrere insieme una strada lunga, la poesia di mantenere fede a quel "per sempre" che non si promette più ed è uscito dal nostro lessico». Dunque la vera rivoluzione è resistere? «Il legame lungo è un investimento sul futuro». Rina Cavallini è interpretata da Stefania Sandrelli, nei panni di Giuseppe «Nino» Sgarbi c' è Massimo Boldi: «È una straordinaria storia d' amore raccontata in modo emozionante, commovente e delicato - spiega l' attore -; il tratto forte del racconto sta nel come una coppia possa rimanere unita anche dopo la morte di uno dei due. Con Pupi Avati ho già lavorato 25 anni fa in Festival , e mi ha convinto subito: mi ha detto che mi farà vincere l' Oscar. Ho sempre fatto cinepanettoni, questa volta spero di vincere almeno un piccolo premio». Con Vittorio Sgarbi si sentono spesso: «Ormai mi chiama papà...». Elisabetta Sgarbi ha collaborato con il regista condividendo con lui aneddoti e dettagli sulla vita di suo papà e sua mamma che hanno vissuto ininterrottamente dal 1950 a villa Cavallini Sgarbi (a Ro Ferrarese), dove saranno girate molte scene. «Boldi ha una vena molto spinta sul comico, mio padre invece aveva un' ironia sorniona, sulfurea, dolce - riflette l' anima della casa editrice La Nave di Teseo -: dovrà affrontare una trasformazione importante, ma Pupi da una vita scopre e trasforma attori. Sono sicura che sarà una sorpresa». Avati è il regista giusto per raccontare questa storia: «Mio padre si rivedeva in quella capacità che Pupi sempre mostra di trattenere la disperazione che la vita genera, trasformandola nei sentimenti più belli: la malinconia, l' innamoramento, il senso della natura. Non c' è dubbio che esista un' affinità segreta, che poi è il senso della poesia della vita». Vittorio Sgarbi vede in un amore «minimo» e «particolare» il racconto di un' epoca: «Penso che la loro storia sia la testimonianza di una generazione, di quelli nati nel primo quarto del Novecento, dove le liti coniugali si componevano sempre. Era una società diversa, il divorzio non c' era, prevaleva una cultura cristiana e sentimentale che allora non era affatto rara, per questo la loro storia è allo stesso tempo esemplare, ma non unica, perché rappresenta un' epoca: allora la stabilità sentimentale non era un' eccezione». Guardando a sé con ironia trova anche il lascito sentimentale dei suoi genitori: «Il loro lungo legame mi ha fatto capire che il matrimonio è meglio non praticarlo».
Ivan Buratti per tvblog.it il 24 febbraio 2020. Barbara d'Urso e Vittorio Sgarbi ai ferri corti. Durante l'ultima puntata di Live - Non è la d'Urso, la conduttrice campana e il critico d'arte si sono scontrati duramente durante lo spazio dedicato ai protagonisti dell'edizione appena conclusa de La pupa e il secchione e viceversa, reality show di Italia 1. La lite si è scatenata dopo alcune accuse lanciate da Vittorio Sgarbi nei confronti di una delle concorrenti del programma condotto da Paolo Ruffini, l'influencer Stella Manente. Secondo il critico d'arte, giudice anche di una puntata della trasmissione, Stella Manente sarebbe stata "raccomandata da Berlusconi", che lo avrebbe chiamato al telefono per segnalare la presenza di "una bella bionda". Barbara d'Urso si è subito dissociata dalle dichiarazioni dell'ospite, che ha rincarato presto la dose affermando che anche la stessa conduttrice avrebbe ottenuto un trattamento simile in passato dal presidente di Forza Italia. "Ma sai quanti calci nel culo che ti do, Vittorio Sgarbi? Finché si gioca, si gioca...", ha detto la conduttrice, alla quale Vittorio Sgarbi ha replicato: “Sei peggio della Mussolini (ndr, in riferimento alla celebre litigata avuta con l'ex parlamentare nel 2006, proprio a La pupa e il secchione), può un uomo raccomandare una donna, porca puttana? Mi ha detto che mi raccomandava una ragazza, saranno cazzi nostri o no? Vaffanculo, hai rotto il cazzo”. Di fronte ai toni accesi e al turpiloquio, Barbara D'Urso ha chiesto all'ospite di uscire dallo studio della trasmissione. Di tutta risposta, l'uomo non si è scollato dal divano e ha rilanciato l'invito ad abbandonare la scena alla padrona di casa. "Mi hai insultato, pensa alla tua vita inutile, non rompere i coglioni, capra incapace, non lascio niente perché sono ospite", le parole di Sgarbi, che non ha voluto rivolgere le scuse alla donna, con cui dieci anni fa era stato protagonista di un'altra durissima tele-rissa a Domenica 5. "Lui qua non vince", le ultime parole di Barbara d'Urso prima della pubblicità, profetiche: Sgarbi, infatti, ha ottenuto più "non mi piace" nel Live Sentiment, sistema di votazione tramite l'app Mediaset Play per scegliere i favoriti nei dibattiti di Live - Non è la d'Urso.
Da comingsoon.it il 24 febbraio 2020. Il duro scontro fra Vittorio Sgarbi e Barbara D'Urso, avvenuto durante l'ultima puntata di Live - Non è la d'Urso, pare destinato a continuare lontano dalle telecamere. Con un video caricato sui social, infatti, il critico d'arte ha rivelato di avere intenzione di denunciare la conduttrice partenopea. Nel corso dell'ultima diretta di Live-Non è la d'Urso, alcuni concorrenti dell’ultima edizione de La Pupa e il Secchione e viceversa si sono confrontati con le cinque sfere, una di queste occupata da Sgarbi. Proprio quest'ultimo si è lasciato andare a delle rivelazioni che hanno fatto letteralmente infuriare la conduttrice. Scendendo nel dettaglio, l’esperto di arte, ha rivelato che la pupa Stella Menente gli sarebbe stata raccomandata da Silvio Berlusconi: "Ce n’era una che era stata raccomandata...non so perché…Mi ha chiamato Berlusconi e mi ha detto: Guarda che c’è una bella ragazza, basta. Perché non lo devo dire? Mi ha detto anche di te, è una bella ragazza la D’Urso. [...] Sei peggio della Mussolini, può un uomo raccomandare una donna, porca puttana? Mi ha detto che mi raccomandava una ragazza, saranno cazzi nostri o no? Vaffanculo, hai rotto il cazzo. Non hai mai fatto un cazzo in vita tua. Capra, incapace". La lite furibonda tra Sgarbi e la D'Urso ha avuto un suo seguito questa mattina quando il critico d'arte ha pubblicato sui suoi profili social un video in cui parla dell’accaduto e dell’intenzione di denunciare la conduttrice partenopea: "Vengo invitato e mi mettono in una sfera, quando vedono che non prendo posizione vado sul divano con i ragazzi ospiti. La conduttrice, la signora, è maleducata ed evidentemente non in grado di condurre la trasmissione se non creando situazioni di conflitto inutile. Qualcuno mi ha raccomandato una ragazza, qualcuno mi ha detto che ci sarebbe stata una bella ragazza tra gli ospiti, basta. Su questo mi ha detto 'cafone, vai via!'. Ma come ti permetti? Ma chi sei? Vuoi imparare a condurre? Vuoi imparare la grammatica? Hai detto ti caccio a calci nel culo, io sono il tuo ospite. E insiste dicendo 'vattene, vattene, vattene!'. Berlusconi mi ha raccomandato anche te, cara D’Urso. Se non hai studiato, se non sei capace di controllarti e vuoi fare quella che moralizza il mondo, io ti denuncio perché mi hai dato nel cafone e mi hai minacciato di darmi calci nel culo. Un ospite non si caccia mai, impara l’educazione. Lo imparerai in tribunale. Raccomandato vuol dire che una persona è brava, studia! Cafone non lo dici ad un ospite e un ospite non lo cacci, chiaro?".
Vittorio Sgarbi, tempi duri. Mediaset lo punisce dopo la lite con Barbara D'Urso: decisione senza precedenti. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Vittorio Sgarbi stavolta tocca il fondo. E Mediaset, secondo le ultimissime indiscrezioni, gli chiude le porte. Brusco stop in tv dopo anni di risse. L’aggressione verbale a Barbara d’Urso, che l’aveva ospitato al Live durante un segmento della puntata su La pupa e il secchione, sembra che gli sia costata cara. Infatti, per Sgarbi sarebbero già saltate due ospitate su Rete 4. Per il deputato e critico d’arte sembrerebbe per davvero un brutto momento. La d’Urso, nella puntata di domenica sera, gli aveva chiesto il parere sul fortunato format La Pupa e il secchione (dove tra l’altro anni fa, Sgarbi fu protagonista di un agguerrito confronto con Alessandra Mussolini). Ma il critico d’arte ha iniziato a parlare di questioni personali su una ragazza - ospite in studio - presente nel programma condotto dalla Cipriani e Ruffini. Un atteggiamento forse evitabile. La d’Urso ha cercato di far ragionare Sgarbi che ha risposto con un’aggressione verbale senza precedenti, tirando in ballo, di nuovo, faccende personali che non corrispondono a verità. Nemmeno l’invito a lasciare lo studio o a chiedere scusa gli ha fatto cambiare idea. Ora, però, sembra che il Biscione abbia deciso di metterlo al palo. Non era mai accaduto.
Da "liberoquotidiano.it" il 27 febbraio 2020. "Ma stai scherzando?". Striscia la Notizia manda in onda il dietro le quinte dopo la rissa tra Barbara D'Urso e Vittorio Sgarbi a Live non è la D'Urso. Il critico, in collegamento, perde il controllo e manda letteralmente "a fare in culo" la conduttrice, dandole della "capra" e "pazza". La D'Urso lo caccia (Sgarbi risponde "vattene tu"...) e poi si va in pausa. Questo quello andato in onda. Fuori dalla diretta, Striscia mostra nella rubrica I nuovi mostri quanto accaduto in studio nei secondi successivi. La D'Urso, comprensibilmente sconvolta, se al prende con un autore che la invitava a fare pace con Sgarbi: "Mi ha detto vaffanculo, ma che sei matto? Ti prego. Ognuno reagisce come cavolo gli pare, io ho reagito così. Mi dice vaffanculo in diretta a me? O mi chiede scusa o lo fate uscire dallo studio. Andate a dirglielo". Pare, comunque, che dopo essere stato radiato da Mediaset per punizione, Sgarbi possa tornare domenica prossima al Live: pace in vista?
Massimo Falcioni per tvblog.it il 26 febbraio 2020. La guerra tra Vittorio Sgarbi e Barbara D’Urso potrebbe durare appena una settimana. Il critico d’arte ha infatti annunciato a La Zanzara la possibilità di tornare ospite a Live-Non è la D’Urso già domenica prossima. “Sento che stanno realizzando la possibilità di trovare un dialogo, su questo sono favorevolissimo”, ha detto Sgarbi. “Se lei mi consente di parlare, ci vado”. Lo scontro tra i due si era scatenato nel corso di un dibattito riguardante La pupa e il secchione e viceversa che vedeva la presenza dell’influencer Stella Manente. Parlando di quest’ultima, Sgarbi aveva fatto allusione ad una raccomandazione, facendo infuriare la padrona di casa. Da lì lo scoppio della lite furibonda, con l’invito a Sgarbi ad andarsene e il rifiuto dell’ospite, rimasto seduto al suo posto fino alla fine della puntata. “La nostra lite è l’unico argomento oltre il coronavirus”, ha ironizzato. “Non mi sono scusato di nulla, credo che domenica andrò a spiegare a lei quello che dice la Treccani. L’alternativa era andare da Giletti. Se raccomando Il Gattopardo, lo faccio pubblicare; è la segnalazione di una cosa notevole”. Quindi ha insistito: “Io non l’ho offesa, io ero un ospite, l’ospite è sacro”. L’episodio ha causato il momentaneo allontanamento di Sgarbi dai programmi Mediaset, a partire da Quarta Repubblica: “Improvvisamente non posso andare. La trasmissione di Porro l’ho inventata io”.
Lettera di Vittorio Sgarbi a il Giornale il 26 febbraio 2020. Gentile Direttore, la ricostruzione dello «scontro» con Barbara D' Urso indica una naturale propensione a interpretazioni unilaterali e forzate, anche senza invocare l' ironia, inesatte per una serie di ragioni che stemperano non solo la polemica ma anche il significato stesso del mio intervento, che non voleva essere né dissacratorio né provocatorio. Invitato per discutere del programma La Pupa e il Secchione, ho ricordato, come si è ben visto nella furibonda lite con Alessandra Mussolini, di essere stato il promotore e la «memoria storica» di un programma dove né io né la Mussolini eravamo concorrenti, bensì giudici. Dopo quattordici anni Mediaset pensa a una nuova edizione del programma e, in virtù di quell' episodio «storico», mi invita per un confronto con i giovani. Vado, simpatizzo con i ragazzi, e registro un intervento su Michelangelo. Mi intrattengo qualche ora, e attendo serenamente la messa in onda. Una volta decisa, si scopre che essa coincide con il periodo della «par condicio», con riferimento particolare alle elezioni regionali (in Emilia Romagna dove sono stato candidato ed eletto). Per questo, con molte scuse, la produzione e il conduttore Paolo Ruffini mi comunicano che sarò tagliato. Per rigore professionale me ne dispiace, e negozio con Alessandro Salem (direttore generale dei contenuti, che spero ci legga) che l' intervento sia mandato nell' ultima puntata. Non so se sia avvenuto, e non so neppure se il programma sia finito. Insomma, non ho nessun interesse diretto per La Pupa e il Secchione. Sono quindi invitato da Barbara D' Urso con Alessandra Mussolini per il facile divertimento di rimandare in onda quel celebre battibecco. Dopo il rito, non potevo dir nulla sulla nuova edizione, se non quello che qui ho scritto; e, pensando di scherzare, visto l' argomento (nel clima pesante di Coronavirus), ho aggiunto un particolare, forse frainteso, su una ragazza, che non ho identificato e di cui non ho detto il nome, dicendo che mi era stata «raccomandata». Intendo rivendicare, caro Direttore, il significato primario di raccomandazione, che è evidentemente malinteso o equivocato. «Raccomandare» è esattamente, come declina, in varie guise, la Treccani: raccomandare v. tr. 1. a. Affidare ad altri persona o cosa che sta molto a cuore, pregando o esortando caldamente di soccorrerla o proteggerla o custodirla, o di averne comunque la massima cura: «Sieti raccomandato il mio tesoro» (Dante); «Raccomandami al tuo figliuol, verace Omo e verace Dio» (Petrarca); «ti priego che, s' egli avviene che io muoia, che le mie cose ed ella ti sieno raccomandate» (Boccaccio). Vorremmo discutere Dante, Boccaccio, Petrarca, vorremmo ancora rimproverarmi di intendere e parlare la loro lingua? Nella sostanza, l' interpretazione malevola di «raccomandare» presuppone un potere superiore o diretto, che io non ho. Quindi nulla di male nel dire che mi era stata raccomandata, per la sua avvenenza o per la sua capacità, una ragazza (ripeto, da me non identificata), per nient' altro che per mostrarmi, da parte di una persona di cui non ricordo l' identità, interesse e affezione. Reagendo allo stupore e alla insistenza, pur di fronte a un fatto inconsistente e inoffensivo, della conduttrice, io ho fatto, in modo caricaturale, per celia, i nomi di Berlusconi e di Cairo. I quali non avrebbe avuto senso raccomandassero a me una ragazza, non essendo io né conduttore né autore né produttore né direttore; e non magari io a loro. Se poi non è stato capito, mi posso scusare di aver sottovalutato l' interpretazione negativa, ma comunque non logica, della parola «raccomandazione». Alcuni giornali equivocano, facendomi affermare, rivolto alla D' Urso: «Berlusconi mi ha raccomandato anche te». Una evidente insensatezza. Che senso avrebbe che Berlusconi raccomandasse la D' Urso a me? Per che cosa? E per attivare quali miei, inesistenti, poteri? Incomprensione totale. Berlusconi mi ha sempre parlato bene della D' Urso, sul piano umano e sulle capacità di lavoro, e io ho semplicemente condiviso. Mi ha raccomandato di apprezzarne il merito. Ho tentato di spiegare che quella «raccomandazione» era una lode, e non una richiesta; ma è stato impossibile. Posso dunque scusarmi di aver sottovalutato l' uso improprio e univoco del termine «raccomandazione», e l' accezione decisa, nonostante l' impossibilità degli effetti, da Barbara D' Urso. Spero di essere stato chiaro.
Vittorio Sgarbi dalla D'Urso con le rose rosse: "Mi spiace averti turbato". Ma lei lo mette in riga. Francesco Fredella Libero Quotidiano il 2 Marzo 2020. Mai visto un Vittorio Sgarbi così calmo. Tranquillo. Senza urlare. Entra in studio, da Barbara D'Urso, dopo lo scontro con un mazzo di rose (che porta il suo assistente). Si siede e chiede scusa alla regina di Cologno. La scorsa settimana è andata in scena una lite senza precedenti quando Sgarbi ha parlato di presunte raccomandazioni con toni alterati ed esasperati. Parole irripetibili. “Mi dispiace di aver turbato la tua anima”, dice Sgarbi che - da rumors circolate nei giorni scorsi - ha subito un brusco stop da Mediaset dopo la scenata di domenica scorsa. “Ho sempre combattuto le raccomandazioni. Da quando ero giovanissima. L’ho fatto per una vita. L’ho insegnato ai miei figli. Ho insegnato che esiste la meritocrazia”, dice la d’Urso. Che mette in riga Sgarbi. A suo modo, senza chiedere esplicitamente perdono, il critico d’arte sembra abbastanza pentito. Del resto, con le rose in mano non l’avevamo mai visto. Ma è accaduto.
Vittorio Sgarbi: “Voglio fondare il nuovo…P.C.I.” Emanuele Ricucci su Il Giornale Off il 20/01/2020. Sul numero di gennaio di CulturaIdentità l’intervista a Vittorio Sgarbi: “Nella banana di Cattelan c’è assenza di arte”. “Raffaello è il più grande interprete della bellezza”. Dal primo amore per Jacopo della Quercia, a Raffaello, il pittore che salverà la bellezza come missione civile, fino al concepimento di una visione: il Partito della Cultura. Vittorio Sgarbi, figura essenziale per il patrimonio italiano, ci racconta il suo punto di vista sul magmatico presente dell’arte.
Cosa abbiamo fatto di male per meritarci una banana appiccicata al muro con del nastro, ultima “opera” di Cattelan? Una roba del genere ha la dignità di una critica sociale o è semplice merda?
«Abbiamo legittimato per un intero secolo l’orinatoio di Duchamp. Con la banana di Cattelan non c’è nessuna differenza, si tratta di due espressioni della stessa assenza di aura dell’arte, in nome di una provocazione che trasforma il gesto dell’artista in un gesto sacro. Cattelan è un prolungamento del filone inaugurato da Duchamp».
Sei stato l’unico a tributare Leonardo nei cinquecento anni dalla morte con uno spettacolo che ha fatto più di 60mila spettatori e riempito centinaia di piazze e teatri italiani. Perché l’Italia si e dimenticata del suo genio?
«Sono state fatte alcune iniziative sporadiche e marginali a Venezia e a Firenze, senza avere, però, la forza della grande mostra; il comitato che doveva realizzarla, infatti, è stato insediato nel 2018, con un tempo troppo breve per concretizzare una mostra importante. Si è convenuto, di conseguenza, di fare un accordo sensato con la Francia che vedeva Leonardo celebrato al Louvre, il museo più importante del mondo, e Raffaello celebrato a Roma. Mi sembra un buon compresso, vista la situazione. Siccome io sono il più noto di quelli che si sono occupati di queste mostre, il mio spettacolo ha avuto larghissimo consenso e il mio libro (ndr, Leonardo. Il genio dell’imperfezione, La nave di Teseo) chiude l’anno, ma è semplicemente una testimonianza all’interno di una convezione internazionale. L’Italia si è mossa nei limiti delle piccole iniziative che hanno messo in calendario e che non sono memorabili».
La Bellezza non sembra più parte fondante della costruzione matura della vita sociale ed è percepita come fattore alieno ad essa. Se si dovesse ripartire da un grande pittore per stimolare la rinascita civile della Bellezza, da chi si potrebbe farlo?
«Da Raffaello, il più straordinario interprete della Bellezza che si possa immaginare, molto più di Leonardo. Si può ripartire dalle Scuderie del Quirinale e da Palazzo Ducale di Urbino, che ospiteranno le celebrazioni per i cinquecento anni dalla sua morte».
È sempre più necessario dare vita alla tua idea, quella di fondare il Partito della Cultura Italiana. Una battaglia che avevi condiviso anche con Cultura Identità quando firmasti l’editoriale del primo numero.
«L’idea del PCI o Civiltà Italiana, una denominazione che ho inventato io e che ho proposto alla Meloni, è quella di allargare Fratelli d’Italia con un nome nuovo, come l’Msi divenne Alleanza Nazionale. Essere, pertanto, la componente legata ai valori della politica della cultura all’interno di un polo abbastanza distratto, secondo i grandi modelli delle istituzioni di partito che erano legate a valori ideologici, ideali, è una cosa sicuramente importante da fare, in nome dei principi liberali, dei valori di identità. Io sono pronto a partire, con il vantaggio di essere un’icona pop. Avere una figura carismatica che si lega a dei principi condivisibili da molti, compone l’idea per cui io sono “evocato”. Metto a disposizione le mie qualità naturali che richiedono, però, anche una struttura organizzativa di base, come quella di un partito, con una serie di militanti e di riferimenti territoriali. Tutto quello che io, come solista, non sono in grado di fare. Non ho ancora trovato un partner come è stato Casaleggio per Grillo, una figura che dia una dimensione strutturata allo slancio emotivo che viene da un leader. Sto anche tentando di applicare le mie qualità nell’amministrazione, avendo fatto il sindaco, per dimostrare, con gli atti compiuti, di non essere solo una vox clamantis in deserto. Il PCI sarà bene che sia presente ai prossimi appuntamenti elettorali».
Qual è stato il primo artista che ti ha folgorato all’inizio della tua carriera?
«Lo scultore Jacopo della Quercia. Scrissi della sua memorabile scultura dedicata a Ilaria del Carretto, conservata a Lucca, il pezzo, forse, più intenso sulla letteratura critica, e su cui ho costruito un’interpretazione molto emotiva e partecipata».
Qual è stato il rapporto con i tuoi maestri?
«Tra i maestri cito, prima di tutti, mio zio Bruno Cavallini, insegnante e preside, che è stato il mio primo maestro di letteratura, e a cui ho dedicato un premio letterario a Pordenone. Poi all’università ho trovato, fortunatamente, Francesco Arcangeli, un grande letterato e un grande storico dell’arte, primo allievo di Roberto Longhi. Non sono riuscito a conoscere Longhi poiché è morto quando mi sono iscritto all’università, nel 1970, ma sono stato molto vicino ai suoi allievi come Briganti, Zeri, lo stesso Arcangeli, il primo di tutti loro per età, classe 1914. La tradizione longhiana, legata al suo percorso di riconoscimento delle opere come principio filologico di accertamento del vero, verum ipsum factum, la formula di Gian Battista Vico, è anche il metodo su cui si basa la critica d’arte che io ho coltivato. Inutile scrivere teorie generali se non si ha la coscienza e la certezza dell’opera, quindi il primo atto è quello del riconoscimento. Questa lezione di Roberto Longhi è stata interpretata in maniera efficace, e in parte autonoma, dai suoi allievi. Alcune cose di Longhi sono state perfettamente trasmesse da loro e altre sono state delle innovazioni, anche molto fertili, come quelle di Arcangeli, della Padanìa nata con Longhi, con l’idea di un tramando che va da Wiligelmo a Morandi, e che incarna una dimensione culturale, identitaria. Quella prima generazione di allievi di Roberto Longhi, la più vicina a lui, è quella nella quale io mi sono formato».
A Sutri, dove sei sindaco, hai portato molti nomi illustri, hai creato un museo importante, hai condotto la città su tutta la stampa, ed ora, anche tra i borghi più belli d’Italia. Possiamo teorizzare un modello Sutri?
«Sutri è un’operazione titanica di un matto come sono io. Essendo piccolo il luogo, io esercito una specie di dominio dittatoriale, utile a contrastare la mediocrità della democrazia che permette a chiunque di candidarsi, e ovviamente vengo contestato. Sto facendo il possibile nel terreno più funesto e arido. La moglie di Borsellino, che venne a trovarmi a Salemi, mi disse che io incarnavo, come sindaco, la “funzione del missionario”. Io sono un missionario. A Salemi ho creato l’antimafia della Bellezza, ho fatto diventare San Severino Marche una città d’arte e ora, a Sutri, in un anno e mezzo, ho portato un’economia nuova con il Caffeina Christmas Village, ho condotto la città ad essere uno dei borghi più belli d’Italia, ho aperto un museo, Palazzo Doebbing, con opere di grandi maestri, insomma, ho fatto ciò che in cinquantanni nessun’altra sindacatura normale avrebbe fatto. Non scelgo luoghi per fare il sindaco che godono già di una loro forte identità, vado in territori inesplorati, sconosciuti, come un missionario, appunto, e li rendo noti e importanti. Eppure non sono soddisfatto. A Sutri sono troppo incrostate le posizioni politiche preesistenti a me; è un ‘impresa che abbiamo compiuto in condizioni atmosferiche pessime. Però le abbiamo compiute: una sola persona ha prevalso sull’inerzia di tutti gli altri. Sono stato costretto ad andare contro tutti, talvolta, ma per riuscire a governare in una situazione sommamente sfavorevole che abbiamo, comunque, cercato di contrastare».
Dagospia il 10 gennaio 2020. Da “la Zanzara - Radio24”. Nuovo record sgarbiano. A La Zanzara su Radio 24 Vittorio Sgarbi riesce a insultare per 59 volte in 12 minuti di intervista il malcapitato Alberto Gottardo che lo criticava per la candidatura in Emilia Romagna (Sgarbi è parlamentare e pure sindaco di Sutri). Questo il conto: 10 testa di cazzo, 7 coglione, 5 ignorante, 5 và a dar via il culo, 4 pezzo di merda, 3 qualunquista di merda, 3 minorato mentale, 2 coglione totale, 2 imbecille, 2 faccia di merda, 2 fallito, 2 ficcati l’eolico nel buco del culo, 1 coglione totale, 1 faccia da culo, 1 nullo, 1 merda, 1 plebeo, 1 povero mafioso di merda, 1 rotto in culo, 1 idiota, 1 incapace, 1 capra, 1 fazioso totale, 1 morto secco.
Da tusciaweb.eu il 10 gennaio 2020. Alla Zanzara in onda il 6 gennaio su Radio24 e condotta da Giuseppe Cruciani si parla di Vittorio Sgarbi e della sua assenza a Sutri nonostante sia il sindaco della città. Sgarbi viene attaccato da Alberto Gottardo e, quando contattato telefonicamente, lo travolge in un tripudio di insulti. “Pensa quanto sono contenti a Sutri – attacca Alberto Gottardo all’inizio della trasmissione – le ultime due battaglie di Sgarbone sono la schiuma da barba che gli hanno fregato a Verona e il fatto che, pur di non stare a Sutri, si candida in tutte le province dell’Emilia Romagna. Ma uno si potrà incazzare? Io se fossi un cittadino di Sutri mi incazzerei”. “No – risponde Parenzo – un cittadino di Sutri dovrebbe essere onorato del fatto di avere Sgarbi sindaco. Perché già il fatto che lui sia sindaco è un agitatore culturale”. Ma Gottardo non ci sta. Il sindaco è un sindaco e per lui deve essere presente alla vita e alla politica della città. “A Sutri ci sono le panchine che si rompono e Sgarbi dov’è? In Emilia Romagna – insiste Gottardo -. Riceverà un piccolo stipendio oppure no Sgarbi in quanto sindaco?”. Parenzo rimane sulla sua linea in difesa del primo cittadino: “Sgarbi ha rianimato la città”. Durante il botta e risposta in trasmissione fanno partire una registrazione di Sgarbi in cui parla delle elezioni in Emilia Romagna. “Ho il Corano in mano – dice Sgarbi -. Le elezioni in Emilia Romagna, vuole Maometto, le vincerà il centro destra”. Finalmente, a metà della trasmissione, dalla Zanzara riescono a contattare telefonicamente Vittorio Sgarbi e volano insulti nei confronti di Gottardo. “Ho portato 200mila euro per le mostre di palazzo Doebbing, ho fatto due serie di mostre importantissime, ho portato il Caffeina village che ha portato 12mila persone per Natale…” spiega Sgarbi ancora calmo. “Quindi non può fare un cazzo e andare in campagna elettorale perché tanto l’anno scorso ha già fatto delle altre cose – incalza Gottardo -. Ma almeno lo stipendio da sindaco lo dà indietro?” “Io non prendo lo stipendio, testa di cazzo – si spazientisce Sgarbi -. E’ diventato uno dei borghi più belli d’Italia, ho aperto un palazzo che non hai mai visto, testa di cazzo, vai a studiare prima di dire stronzate, coglione, non hai mai fatto un cazzo in vita tua. Ho aperto un museo bellissimo. Vai a dirlo a tutti i sindaci che non fanno niente, che scaldano il culo. Un sindaco non deve stare in un posto, deve fare delle cose”. “Ma se viene eletto in consiglio regionale – chiede Gottardo – fa così anche in Emilia Romagna? “Il consiglio regionale è un’altra cosa, non devo fare assolutamente nulla – dice Sgarbi -. Ho fatto l’assessore alla Cultura in Sicilia per tre mesi e ho fatto più che in trent’anni di chiunque altro. Vai a Sutri prima di parlare, vai a palazzo Doebbing, testa di cazzo, morto secco, è venuto anche Parenzo lì. Coglione, devono cacciarti a calci nel culo, perché ti pagheranno per dire queste stronzate a Radio 24″. Ma Gottardo non molla la presa e parla della Sicilia: “E allora l’eolico in Sicilia? E’ stato un fallimento. Lei ha perso una battaglia perché non c’era mai”. “Sei una capra comprata da questi imbecilli” taglia corto Sgarbi. “Per fare il sindaco – afferma Parenzo prendendo le parti del primo cittadino di Sutri – non c’è bisogno di stare fisicamente su una poltrona. Uno ha delle idee e le applica, anche se va una volta al mese. Diglielo Vittorio”. Ma Vittorio Sgarbi non risparmia nemmeno lui: “Guarda che quello lo chiami tu, ti tieni un minorato lì per fare i soldi tu. E’ un minorato mentale, un rotto in culo, imbecille, incapace e pagato da voi. Io non sono pagato, lui è pagato sicuramente per dire stronzate. Vada a Sutri, vada a palazzo Doebbing, al mitreo. Sei ignorante, un tipico qualunquista di merda, non chiamatemi più, non parlerò mai più con la Zanzara”. E ancora sulla sua candidatura in Emilia Romagna: “Io faccio quello che mi chiedono, faccio quello che ritengo giusto, non ho bisogno di nulla. Che mi dica chi è il sindaco di Nepi – dice rivolgendosi a Gottardo – quella faccia di merda, mi dica come si chiama, cosa fa e dove va. Dica come si chiama il sindaco di Viterbo. Dica qualcosa, parli di quello che non sa quella testa di cazzo”.
Natascia Grbic per fanpage.it il 10 gennaio 2020. Candita Pittoritto, ex collaboratrice di Vittorio Sgarbi durante la campagna elettorale per il sindaco di Sutri, ha denunciato il critico d'arte per le continue assenze in consiglio comunale. E chiesto la sua decadenza dalla carica, dato che da quando ricopre il ruolo di primo cittadino non ha mai partecipato a un consiglio comunale. E la sua assenza sta creando un vuoto in consiglio comunale che renderebbe impossibile governare la cittadina di Sutri, la cui amministrazione è politicamente allo sbando. La denuncia di Candida Pittoritto, presidente del movimento "Civiltà Italiana", ha inviato una lettera al Segretario comunale del Comune di Sutri, alla Prefettura di Viterbo e alla Corte dei Conti, per chiedere di indagare Vittorio Sgarbi ed eventualmente rimuoverlo dalla carica di sindaco di Sutri. "Il Comune di Sutri e gestito da un anno e mezzo circa senza un sindaco quasi mai presente sul territorio – si legge nella richiesta di decadenza presentata da Pittoritto – Un sindaco che non partecipa alle giunte, che non partecipa alla vita cittadina, trascinato in continue liti di maggioranza e di opposizione, in una situazione dove e difficile capire quale sia la maggioranza e quale invece sia l’opposizione, ma la cosa piu grave che il primo cittadino Vittorio Sgarbi essendo anche consigliere comunale, pertanto eletto dal popolo, in tutto questo periodo oltre a non essere presente in Giunta non e mai presente ai Consigli Comunali". Secondo quanto riportato da Pittoritto, dato che "nel comune regna il caos piu assoluto e in tali condizioni non si risolvono certamente i problemi di normale amministrazione, con le continue liti per un posto in Giunta, io come cittadina italiana e come presidente del Movimento Civilta Italiana, denuncio ed espongo che il sindaco di Sutri Vittorio Sgarbi sta violando l'articolo 273 comma 6 del decreto legislativo 267/2000, in quanto le sue ripetute assenze in consiglio comunale non sono dovute a giusta causa. Infatti il sindaco risulta essere sempre attivo altrove in altre sue attivita, lungo l’intera penisola, sia per i propri spettacoli, per le presenze televisive e quant’altro. Percio in base alla legge sunnominata chiedo di indagare ed eventualmente in caso di accertamento positivo, far decadere da consigliere comunale il sindaco Vittorio Sgarbi, conseguenza della quale sarebbe anche la sua decadenza dalla carica di primo cittadino". Attualmente non è arrivata nessuna risposta dal sindaco di Sutri, che non ha ancora commentato la richiesta di decadenza avanzata nei suoi confronti.
Sgarbi: «Voglio raddoppiare i voti per FI e diventare il sultano del partito». Pubblicato lunedì, 06 gennaio 2020 su Corriere.it da Paola Di Caro. Il deputato e la corsa in Emilia-Romagna: c’è spazio oltre a Salvini e Meloni. «Silvio ha la sua età, il voto a lui è commemorativo»
Onorevole Sgarbi, ma non aveva di meglio da fare che rischiare un flop alla guida della lista di Forza Italia in quell’Emilia-Romagna in cui i sondaggi mettono paura?
«Veramente sono deputato, sindaco di Sutri, prosindaco di Urbino, presidente del Mart di Rovereto, della Fondazione Canova, di Ferrara Arte, di...».
Capito, ha molto da fare: dunque perché imbarcarsi in questa impresa?
«Perché è una campagna elettorale breve e intensa, per amicizia con Silvio Berlusconi e perché politicamente è una sfida importante».
E ardua.
«Il mio obiettivo è raddoppiare i voti che ad oggi sono attribuiti a FI, e contribuire alla vittoria: in quel caso, il governo avrebbe i giorni contati».
E quindi lei non si troverebbe ad optare tra la Camera o il Consiglio regionale perché si andrebbe al voto?
«Esatto, ma la battaglia oggi è altra».
Raddoppiare i voti?
«E non solo sul piano regionale, ma nazionale. Con una FI al 10%, sulla linea di FdI, la coalizione supererebbe il 50%. E a quel punto potrei candidarmi alla leadership».
Prego?
«Perché no? Visto che non lo fanno le donne, che subiscono il ruolo del Sultano che è sempre stato Silvio e non colgono l’occasione...».
Che c’entrano le donne?
«Sono una delle ragioni del declino del partito: ossequiano il leader, non lo spronano, lo frenano, lo assediano. Avrebbero mille modi anche di combattere battaglie popolari, non lo fanno. Ne dico una: perché non prendono le parti di Rula Jebreal? Una donna che viene dal mondo islamico e ne denuncia la condizione: va sostenuta, ne va fatta una bandiera. Niente, silenzio».
E quindi si candida lei.
«Se si vuole un sultano, ci sono io. Voglio il voto delle donne, dei giovani — perché Silvio ha la sua età, il voto a lui è commemorativo —, dei tantissimi delusi del M5S, di chi mi ascolta e mi apprezza. A 67 anni piaccio moltissimo pure ai bambini: perché mando a quel paese tutti, perché dico “capra, capra, capra!”, mi riconoscono, mi seguono».
Sì, ma forse non basta per rilanciare FI, no?
«Ma io voglio farne il partito del bello, dell’arte, della cultura, della difesa della natura, della conoscenza, delle lotte libertarie, laiche: c’è tanto spazio per questi temi che né Salvini né la Meloni occupano. Voglio fare l’«Italia Nostra” della politica».
Fa campagna elettorale parlando di bellezza?
«Sì, molto: voglio andare dappertutto, indicare tutte le meraviglie nascoste di questa regione. Io sono di Ferrara, ho studiato a Bologna, conosco ogni gemma di qui. E di tutta Italia. Dobbiamo riscoprire il tesoro che c’è, valorizzarlo. Questo Paese ha bisogno che si parli di Michelangelo, di Leonardo, che ci si apra alla bellezza. E invece...».
Invece?
«Invece si battezzano i partiti con nomi orrendi, come le “Sardine”. O, come fa Bonaccini, si nascondono le proprie origini politiche creando una lista col proprio nome. E pensano davvero di vincere così le elezioni?».
Alessandro Gonzato per “Libero Quotidiano” il 5 gennaio 2020. «Mi sono candidato per la mia Emilia-Romagna e per assumere la guida di Forza Italia. D' altronde se Berlusconi nomina dall' alto come erede Tajani che prende 50mila voti alle Europee vuol dire che c' è qualcosa che non va. Il leader si misura sul campo. Se prenderò i voti che penso di prendere non ci sarà più ragione di indicare delfini o trote. Le dico una cosa. Ieri, a Trento, mi ha fermato una ragazza di 28 anni e mi ha detto: "L' Italia dovete salvarla in tre: lei, Vittorio Feltri e Morgan". Morgan peraltro vorrebbe fare il manager musicale di Berlusconi, portarlo a Sanremo e farlo cantare a X Factor». Vittorio Sgarbi, capolista di Forza Italia alle regionali emiliano-romagnole a Bologna, Parma e Ferrara - la sua Ferrara - è incontenibile fin dall' arrivo nel piazzale del Savoia Hotel Regency, nel capoluogo felsineo, dov' è in programma la presentazione delle liste degli "azzurri". Con lui c' è la senatrice Anna Maria Berini. Nello stesso albergo si sta svolgendo la prima edizione del "Concorso del Sacro Corano" organizzato dalla Confederazione Islamica Italiana. Due fedeli di Allah avvicinano Sgarbi per salutarlo e lui prende in mano la situazione: «Il centrodestra vincerà in Emilia-Romagna. Lo dice anche il Corano. Voi siete musulmani moderati, e Salvini non è che dica cose sbagliate». Gli risponde Younes, montatura degli occhiali pesante, doppio petto Principe di Galles e cravatta regimental: «Assolutamente no, nel senso che nei termini da usare bisogna essere moderati. Ma nei concetti». Sgarbi si fa dare una copia del libro sacro e comincia a sfogliarlo: «Altro che Bonaccini, il Corano a pagina 18 dice: "Come vuole Maometto vincerà il centrodestra: Sorelle d' Italia, Fratelli d' Italia, Lega islamica, Lega cristiana, Lega ebraica, Lega Salvini e Forza Italia. Si vincerà il 26 gennaio».
Allah dice anche che se vincerà Lucia Borgonzoni cadrà il governo?
«Certo: sarà così in nome di Dio misericordioso. I musulmani coi quali ho parlato mi hanno detto che Salvini piace un po' anche a loro».
Berlusconi, che nel 2001 la nominò sottosegretario ai Beni culturali e nel 2018 le ha dato la possibilità di tornare in parlamento, ora le ha chiesto ancora di scendere in campo. Lei però gli vuole sottrarre la leadership.
«No, non è così. Ne faccio una questione di buonsenso. Berlusconi ha un grandissimo passato ma per ragioni anagrafiche non ha un futuro politico lungo. A 83 anni non puoi stare sempre a contatto con la gente come invece faccio io che tre volte alla settimana riempio teatri con 1.500 persone: vengono per sentirmi parlare. Le cito una frase di Berthold Brecht».
Dica.
«"Se vuoi diventare una guida devi dubitare delle guide". Per troppo tempo in Forza Italia tutti sono stati ossequiosi nei confronti del capo. Ecco: io, Feltri e Morgan diciamo cose che gli altri non hanno il coraggio di dire».
Lei però è uscito da Forza Italia: a Montecitorio fa parte del gruppo misto.
«È stata una scelta di natura personale. Nel 2018 Romani e Ghedini mi tolsero le firme necessarie a presentarmi alle elezioni con Rinascimento, il mio movimento. Allora ho fatto un patto federativo con Forza Italia. Però poi mi sono trovato isolato in parlamento e così ho aderito al Misto, senza alcuna polemica. Io non posso essere un membro di Forza Italia: posso esserne solo il capo».
Bonaccini ha nascosto il simbolo del Pd dalla sua campagna elettorale.
«Bonaccini, che è un mio amico, rinnega ciò che è, ossia un comunista».
Cosa pensa delle "sardine"?
«Sono una sottospecie delle trote. Prima in politica c' erano Gobetti e Gramsci, ora ci sono loro. Come alternativa alle "sardine" ho proposto le "metope", capolavori che si trovano nei contrafforti del duomo di Modena».
In caso di successo del centrodestra le è stato chiesto di fare l' assessore regionale alla Cultura?
«Ancora non ufficialmente, ma potrei farlo. Dopo la vittoria del 26 gennaio le Camere verranno sciolte e quindi il problema dell' incompatibilità non ci sarà più. In ogni caso fare l' assessore è molto meglio che fare il deputato».
Ci dica qualche capolavoro artistico dell' Emilia-Romagna poco valorizzato.
«Gli affreschi di Parmigianino a Fontanellato nella Rocca San Vitale, quelli di scuola giottesca riminese a San Pietro in Sylvis, opere sublimi».
La sua prima rissa verbale televisiva risale al 23 marzo '89. Ospite del Maurizio Costanzo Show diede della «stronza» a un' insegnante che l' apostrofò «asino poetico» dopo che lei commentò negativamente una sua poesia. Da allora quante querele ha preso?
«Sono il primatista mondiale: 670, e ho vinto 540 cause, prescrizione inclusa».
· Zadie Smith.
Luca Mastrantonio per 7 - Corriere della Sera il 25 febbraio 2020. Chiamiamo Zadie Smith per l’intervista e risponde con un sms: «Quale intervista? Non ricordo, sono dal parrucchiere. Chiedo scusa». Dopo un’ora è tornata a casa, al Greenwich Village, dove vive con il marito Nick Laird, poeta nordirlandese, due figli e un cane (hanno lasciato Londra per New York anni fa). Le telefoniamo. La voce è sottile ma chiara, il tono oscilla tra gentilezza spontanea e scetticismo auto-ironico. Partiamo dal suo nuovo libro, Grand Union, una raccolta di racconti (Mondadori). La sua prima, dopo romanzi e saggi. C’è varietà di registri e soggetti: una festa di stili, temi e punti di vita. In un articolo su The New York Review of Books lei ha rivendicato l’incoerenza del suo carattere, la contraddittorietà, che la porta a immaginarsi nei panni degli altri: se pranza con uno zio devoto si immagina testimone di Geova, se la sua amica pakistana le trucca le mani, si pensa come sua sorella. «Sono una voyeuse delle pari opportunità: se entro in una casa immagino come sarebbe viverci dentro. Quando incontro le altre persone sembrano molto sicure di sé, più di me, forse è strano essere meno sicuri di sé. Ma io sono così».
Lei si è descritta come introversa/ estroversa. I timidi sono narcisi?
«Non penso di essere estroversa, però continuo a pubblicare e sembra un tentativo d’attirare l’attenzione. Entrambi gli aspetti sono veri. Mi piace esibirmi, ma in un’accezione diversa rispetto ai miei fratelli (Ben e Luke sono attori e musicisti, ndr). Non mi piace essere presente nel momento della performance. La scrittura è efficace in questo senso: ci si esibisce, ma non si è sul palco nel momento in cui si va in scena, è adatto al mio modo di essere».
Su «Brexit» ha criticato la demagogia dei populisti, ma pure la miopia dei progressisti. Ora la Brexit è realtà storica: cosa prova?
«Sono alle prese con i nostri disastri americani. Sento la Brexit molto lontana. Ho parlato con i parenti e so che tutti sono esausti, depressi. Ma per me è troppo tenere il passo con due apocalissi contemporaneamente... esiste il plurale di apocalisse? Apocalissi, non so».
Anni fa, quando ci sentimmo per «Swing Time», lei disse che suo marito era dipendente dalle news su Trump: è migliorato?
«Siamo tutti esausti per Trump. C’è un giornalismo Trump-demented, ossessionato: arte, film, libri. In particolare per gli uomini, le news danno dipendenza. Hanno lo stesso ruolo dell’idea di virilità: “Devi mantenere la tua area sicura e cacciare”. Vanno a caccia di informazioni, ma non cambia nulla».
Come difendersi?
«I figli aiutano. E la cultura. Già da bambina evadevo la realtà con libri e canzoni. Siamo andati a vedere American Utopia di David Byrne, che ha cantato le canzoni dei Talking Heads, bello, un’utopia svanita quando siamo usciti dal teatro, ma finché eravamo lì sembrava un’America diversa. Un sogno».
Ci racconta un sogno fatto?
«In uno c’è uno tsunami e vengo sopraffatta dalle onde: è ricorrente. Sempre uguale. Noioso, no?».
Di sicuro brutto. Un sogno bello?
«Circa 30 anni fa ho sognato di essere ad una festa in casa e di incontrare John Lennon, che era ancora giovane e mi dava un bacio».
Un british che si trasferì a New York. Cosa la colpisce di più degli americani rispetto agli inglesi?
«L’amore per gli animali; è forte anche in Inghilterra, ma qui è più intenso. Non ho mai visto la stampa animarsi tanto per le vittime durante la guerra in Iraq come quando un soldato ha gettato un cane da una rupe in Afghanistan. Migliaia di persone morte nel corso delle ultime guerre sciocca meno di un cane? C’è un amore forte per gli animali, certo, e pure tanta ipocrisia».
I paradossi della pet-therapy?
«Il governo americano è duro con i suoi cittadini, la vita è brutale: tre settimane di ferie in un anno, se si è fortunati, dopo un figlio si torna subito a lavoro. Allora gli animali sono un conforto: un gatto, un cane, un cucciolo è una tregua, una distrazione dal mondo».
Per questo ha dedicato il libro al suo cane, un carlino, Maud?
«Il suo nome mi piace molto, ma la cosa buffa è che Maud non è per niente interessata a me: è un po’ una piccola fascista, non è una persona piacevole. L’abbiamo preso ispirati da Beatrice von Rezzori, la baronessa (che organizza un Premio letterario per stranieri tradotti, ndr) che aveva molti carlini a Firenze. Maud ha radici italiane».
Si ricorda la nostra lingua?
«Un po’. Mi piace la parola “spaccare”. Mi tengo allenata guardando serie tv. Suburra, ma era troppo violenta, ho gettato la spugna, e Liberi sognatori, storie di persone che si sono opposte alla mafia e hanno fatto una brutta fine: della serie, si può essere brave persone, ma non funzionerà. C’è pure l’attore che fa il secondo ispettore di Montalbano: magro, capelli scuri, è molto bello, sembra un giovane cervo ( Peppino Mazzotta, ndr)».
Anche Luca Zingaretti è bello.
«Sì, è molto affascinante. Il fratello ( Nicola, ndr) meno».
Nel racconto Grand Union riavvolge la sua discendenza materna incontrando anche chi non c’è più. Lei chi vorrebbe rincontrare?
«Mi piacerebbe incontrare nuovamente mio padre. Per passeggiare insieme, con lui, ancora in Italia. Quando ero più giovane credevo di voler incontrare scrittori che avevo ammirato, come Virginia Woolf; ma ora a 44 anni conosco molti scrittori e so che il lato migliore di qualsiasi scrittore sono i libri».
Mi sono appuntato una frase da «L’uomo autografo». Il protagonista si sorprende che “quando si eliminano i litigi, ciò che resta è l’amore, una immensa quantità di amore, che trabocca fuori di te”. Come possiamo eliminare i litigi?
«Non mi ricordo di aver scritto quella frase, suona giovanile, di quando pensi che ogni problema si risolve con una conoscenza aforistica. È bella! Ma è difficile metterla in pratica, litigo con tutti su tutto: su vestiti, razza, politica. Perciò non uso Twitter, tirerebbe fuori la parte peggiore di me, sto lontana come un alcolista dalla vodka, i social accentuerebbero il mio narcisismo».
Con suo marito litiga molto?
«Tanto, come tutte le persone sposate. Però meno di prima. A volte, entrambi lasciamo perdere: un po’ per sfinimento e un po’ perché invecchiando si realizza che non c’è una vincita, né un vincitore? Chi o cosa si vince? O si è gentili ed empatici vicendevolmente o si accetta che entrambi si è un disastro. Da giovani si pensa ancora che prima o poi si esporrà l’argomentazione perfetta e l’altro dirà “Ah sì, hai completamente ragione”».
Sull’amore cita spesso suo marito. Le sue poesie la ispirano ancora?
«Ho usato per un mio libro il suo verso “il tempo è come spendi il tuo amore”. La sua poesia ha pazienza e mostra capacità di amare. Tutti vogliamo essere degni di essere amati, ma qualcuno deve occuparsi di amare, che è più difficile. L’amore è una specie di esercizio. I poeti sono molto attenti alle piccole cose, ai momenti, alla luce, a quello che succede, mentre gli autori di romanzi sono pieni di teorie sulla vita che poi vivi e scopri che non è così... Siamo pieni di ideali, ingenui, umili e questa cosa diverte i lettori, credo. La poesia è più capace di vivere, è questo che imparo da Nick: un’attitudine a vivere, piuttosto che a pontificare come sto facendo proprio ora. Della sua poesia mi piace il mix di mascolinità tradizionale e vulnerabilità preziosa, qualcosa che si può ritrovare nel mondo di Ted Hughes: ma spero di non finire come Sylvia Plath con la testa in un forno, Gesù Cristo!».
La sua ultima raccolta di saggi è «Feel free». Oggi cosa le fa sentire di essere libera?
«Nuotare mi fa sentire libera. Sono una newyorkese, quindi vado a correre, mi alleno, ritengo che anche queste forme di autopunizione possano portare gioia. Ma nuotare in mare è la cosa migliore che mi venga in mente. Anche le piscine sono belle. Non c’è lusso maggiore di avere una piscina: chi ha una piscina non dovrebbe chiedere di più dalla vita e invece lo fa».
Quand’è che invece sente la sua libertà minacciata, in pericolo?
«Passerò per luddista, ma sapere che prima o poi, attorno ai 13/14 anni, dovrò dare ai miei figli degli smartphone mi fa imbestialire. Ora resisto, ma non c’è via di uscita, sarebbero emarginati dal sistema scolastico e poi universitario. Odio questi telefoni, penso siano letali per lo sviluppo dei giovani: ti localizzano, sono progettati per creare dipendenza... come se un’intera società, un governo e un’istituzione privata mi dicessero: “A 14 anni tuo figlio deve assumere eroina, tutti sono dipendenti dall’eroina”. Lo trovo vergognoso! Ma non ho scelta ed è lesivo della mia libertà».
Oltre alla dipendenza, qual è il rischio principale di una vita digitalmente iperconnessa?
«Oggi si fa fatica a esercitare il proprio pensiero individuale, indipendente, l’oggetto che abbiamo in mano è strumento con cui si scrive, si pensa, si lavora, ci si nutre, si ama... e mira a rendere smart la nostra casa, la nostra vita, ma quello che è smart spesso per noi è stupido, perché ci sono algoritmi e automatismi più complessi di noi che ci stimolano e ci punzecchiano in continuazione. Così si è delusi da quello che si è scritto o fatto. I social creano una narrazione di noi che sembra dotata di senso, ma non è così. Sì, siamo sempre stati influenzati dalla cultura, dai media, dalla famiglia e dalla comunità: hanno un effetto calmante. Uno dei motivi per cui non corro nuda per strada è perché i miei cari e gli amici non approverebbero. Ma questa disapprovazione ha un carattere limitato, nella mia vita. Invece soprattutto per i più giovani oggi l’approvazione o disapprovazione sociale è totale, invasiva, rende schiavi».
Tre anni fa, disse che non lascia sua figlia più di 5 minuti davanti allo specchio: è ancora così?
«Ecco come il web fraintende. Parlavo di Tolstoj e della felicità familiare, dicevo che impiego circa 6-8 minuti per mettermi quello che mi metto in faccia e non vorrei sprecarlo e a mia figlia dico: “Perché dovresti fare qualcosa che tuo fratello non farebbe? È tempo che togli alla tua vita”. Mia figlia prenderà le sue decisioni sulla femminilità, ma io personalmente non ho tempo per questo. Mi dà fastidio dedicare tempo a depilarmi le gambe, lo faccio e mi odio perché lo faccio solo per non provare imbarazzo, ma so che non ci credo. Non credo dovrei preoccuparmi di depilarmi le gambe eppure lo faccio: è motivo di tedio e odio per me stessa».
Altri modi di tempo sprecato?
«Il baseball e i videogiochi! Ma è un assurdo fastidio materno: trovo giocare ai videogiochi una cosa senza scopo, ma io faccio lo stesso quando suono il pianoforte!».
Qual è stato l’argomento più difficile da trattare con i suoi figli?
«Perché Michael Jackson si è schiarito la pelle. Preferirei rispondere a qualsiasi domanda sulla sessualità piuttosto che rispondere a questa: è difficile spiegare l’odio per sé stessi, il disgusto verso la propria persona, e bisogna anche parlare di una società che addirittura lo incoraggiava in tal senso».
Con Michael Jackson e le ombre che lo avvolgono il rischio è confondere l’artista e la sua arte. Con Woody Allen, attaccato dal #MeToo, si corre lo stesso rischio?
«No, non penso. I difetti di Woody Allen come persona sono presenti anche nei suoi film. Da ragazza ero una grande fan, ma non mi ero resa conto che fosse un misogino impressionante, lo è sempre stato, i suoi film in parte ne parlano e Manhattan ne è l’esempio più classico: i difetti estetici e quelli etici sono gli stessi. Annie è un mezzo personaggio, perché lui capisce molto poco delle donne. Ma capisce molte cose, nei suoi primi film, circa la sua particolare forma di inadeguatezza, la tipologia di uomini sessualmente preoccupati, capisce molto di tante cose. E ci sono tante altre cose che non hanno alcuno spazio nelle sue opere. E una totale mancanza di valori morali nella sua vita. Ed è tutto qui. Il nostro giudizio, in un modo o nell’altro, non aggiunge nulla e non toglie nulla».
I suoi progetti per il futuro?
«Ho da scrivere due romanzi. Vorrei fare un viaggio in Giappone. E voglio tornare a Roma, invecchiare. Forse mi chiameranno “la Smith” (in italiano, ndr) come dicono quando una donna diventa vecchia e abbastanza sopra le righe per meritarsi anche il giusto articolo con il nome».
· Mai dire Influencer.
Aldo Grasso per corriere.it il 31 ottobre 2020. Guardando la lunga intervista che Kim Kardashian ha rilasciato a David Letterman nel suo talk show per Netflix, «Non c’è bisogno di presentazioni», la sensazione era quella di vedere due mondi a confronto. Con il suo entourage schierato tra il pubblico (le immancabili sorelle, la madre, il marito Kanye), Kardashian ha dato vita a un racconto godibile, suscitando al contempo anche qualche riflessione teorica. Non era la prima volta che i due s’incontravano davanti alle telecamere: Kim era già stata ospite da Letterman nel talk show quotidiano che il comico (definizione riduttiva per una simile personalità) ha condotto dal 1993 per oltre vent’anni anni su Cbs, vissuto negli Usa come un rito collettivo. All’epoca, Letterman non era andato leggero con lei: prendere in giro l’universo Kardashian, con tutti i suoi eccessi e cafonaggini, era una specie di sport nazionale. Ma di tempo ne è passato e oggi i toni sono sembrati molto diversi, come se anche i rapporti di potere tra i due si fossero in qualche modo ribaltati. Cos’è successo? Letterman è figlio di un’epoca in cui la tv occupava in modo indiscusso il centro dell’arena mediale, dettava l’agenda setting, costruiva e smontava celebrità. Non è un caso che la vera fama di Kim sia arrivata con il suo passaggio da «semplice» socialite di Beverly Hills a stella del reality tv «Al passo con i Kardashian», in cui si elevavano a storytelling le vicende normali di una famiglia famosa per il solo fatto di essere famosa (incomprensibile per un professionista come Letterman!). Poi sono arrivati i social e Kardashian è stata una delle prime a intuirne l’enorme posta in gioco: popolarità globale amplificata all’ennesima potenza rispetto a quella garantita dalla tv, denaro a sfare. Con l’operazione Netflix, Letterman si è reinventato, ma resta l’emblema di un’epoca mediale lontana, superata dall’impero di Kim e della sua lunga lista di eredi.
Allarme degli psicologi per le "bambine-star": "I social sono pericolosi". Il mondo dei social media sta facendo preoccupare alcuni psicologi per il fatto che la fama possa essere molto pericolosa per le "star bambine" e i nuovi giovani influencer. Alessandro Conte, Giovedì 28/05/2020 su Il Giornale. I social media sono un mondo in continua evoluzione, rapida e incessante, e fermarli sembra quasi impossibile. Da Facebook a Instagram, fino all'ultimo nato Tiktok, son tutti social frequentati da grandi e giovanissimi, raggiungibili tramite applicazioni facili da installare sul proprio cellulare. Proprio i più giovani sono i soggetti più a rischio, almeno secondo l'allarme lanciato da alcuni psicologi e riportato sul sito Insider. La preoccupazione maggiore riguarda la fama repentina che acquisiscono le cosiddette star bambine grazie a questi potenti mezzi. Gli esperti fanno notare come i giovani influencer siano posti dinanzi a grossi ostacoli dovuti alla popolarità sopraggiunta già in giovane età. Oltre a questo, bisogna considerare che milioni di persone popolano i social e vengono a contatto in tempo reale con video e post vari. L'aspetto ancora più importante sarebbe, secondo gli studiosi, la dipendenza che si instaura con la gratificazione derivante dalle notifiche e dai "mi piace" ricevuti. Dunque, grazie ai social network è cambiato l'accesso alla popolarità, sempre più facile. Tra gli psicologi che hanno affrontato la questione vi è Pamela Rutledge; parlando della fase della vita che viene prima dei 25 anni, l'esperta ha asserito: "La capacità di valutare il rischio, la capacità di formulare alcuni giudizi cognitivi per pianificare in anticipo, sono abilità cognitive che si sviluppano in quel periodo di tempo." Vivere la popolarità in età adolescenziale, sempre secondo la psicologa dei media, rende più difficile mantenere il controllo sulla realtà perché quel mondo non è reale. Questi nuovi influencer, dunque, sono a rischio al pari delle star bambine, famose grazie a Hollywood e al mondo del cinema. Proprio l'esperienza delle giovani star di Hollywood deve far riflettere, soprattutto se si pensa ai problemi che hanno dovuto affrontare a seguito della fama raggiunta. Tra i tanti problemi vi sono quelli relativi all'abuso di droghe e alcol, il sopraggiungere di malattie mentali e i problemi familiari. Secondo un rapporto di giugno 2019 della rivista medica World Psychiatry, l'attenzione dei vari social media può quantificare in maniera diretta il successo o il fallimento. Questo avviene a seguito dei "mi piace", dei follower e delle visualizzazioni avute. Sempre secondo il rapporto, il riscontro immediato mina l'autostima dei giovani e può avere, quindi, effetti negativi. Sempre su Insider lo psicologo Ciarán Mc Mahon ha detto: "Gli algoritmi che sono praticamente alla base di ogni servizio di social media ci costringono oggi a competere per la visibilità. In quanto tali, questi adolescenti possono ora sentirsi legati in modo straordinario - competere l'uno contro l'altro e contro gli algoritmi di newsfeed per mantenere la visibilità, una competizione in cui solo i servizi di social media hanno successo." Entrambi gli psicologi, sia Rutledge che Mc Mahon, spiegano come giovani star si rivolgono al consumo di droga o alcol a causa della necessità di soddisfare la dipendenza dalla fama, in particolare quando quest'ultima tende a scemare. Oggi sono migliaia gli adolescenti famosi sulle moderne piattaforme e molti non riusciranno a mantenere a lungo il peso della popolarità raggiunta. Ma in questo mondo pieno di pericoli, gli esperti citati precedentemente indicano una soluzione: usare la propria fama per degli scopi utili al mondo. Sono molti, infatti, gli influencer che si dedicano a cause umanitarie, aiutando il prossimo. Infine, l'ultimo suggerimento degli psicologi è rivolto ai genitori e al loro prezioso aiuto che deriva dal dialogo con il proprio figlio e, in ultima analisi, dall'intervento esterno di un terapista.
Micol Salfatti per il Corriere.it il 21 aprile 2020. «It’s the end of the world as we known it». È la fine del mondo come lo abbiamo conosciuto. Lo cantavano i Rem nel 1987, lo ripetiamo in questi giorni sospesi. Ci interroghiamo su quanto e come la pandemia ci cambierà. Nelle cose fondamentali, in primo luogo, e in quelle più leggere, perché persino l’effimero è stravolto dal coronavirus. Il mondo patinato dei social, governato da attori, cantanti, conduttori e da celebrità native digitali, gli influencer, ha già modificato i suoi stili, la sua grammatica. Tinelli al posto di party esclusivi, via i tacchi a spillo su le ciabatte, capelli arruffati, tute da ginnastica e pigiami. Ma la metamorfosi non è solo estetica. «Tra gli impatti sociali del coronavirus c’è il rapido smantellamento del culto della celebrità», ha scritto Amanda Hess sul New York Times. «I famosi sono ambasciatori della meritocrazia. Rappresentano la ricerca della ricchezza attraverso il talento, il fascino e il duro lavoro. Ma il sogno della mobilità di classe svanisce quando la società e l’economia si fermano, il conteggio dei morti cresce di giorno in giorno e il futuro di tutti è congelato. E allora è in questo momento che si vedono le differenze: c’è chi affronta la crisi in un monolocale sovraffollato e chi in un palazzo signorile».
I volti noti che pontificano dagli attici. Milioni di persone in tutto il mondo, chiuse nei loro appartamenti, sono state redarguite da volti noti che invitavano con grandi sorrisi a «restare a casa». Dimentichi, nella comodità dei loro attici, di chi vive in un’abitazione non troppo accogliente o di chi deve uscire per forza per andare a lavorare. Altri vip hanno motivato i follower a cogliere le opportunità dei giorni di quarantena: prendersi cura di sé, imparare a cucinare, guardare serie tv. Senza considerare che, per tanti dei loro fan, queste ore lunghe e vuote sono accompagnate da una clessidra che segna l’avvicinarsi di un futuro incerto. Jennifer Lopez posta un video dalla sua villa di Miami, un follower, portavoce di molti, risponde «Vi odiamo tutti». Madonna pontifica dalla sua. Il coronavirus sta stravolgendo anche lo stile di comunicazione sui social media. Cambia l’estetica, ma cambiano soprattutto i contenuti, mai così importanti per chi ha la responsabilità di rivolgersi a milioni di persone. In un momento difficile, star e influencer devono fare attenzione a non mostrare troppo i privilegi e a trasmettere messaggi adeguati. Invitare dalla propria villa chi vive in un monolocale o sta perdendo il lavoro a «restare a casa» genera rancore.
L’esibizione di sé non hanno più senso. Il rapporto tra le celebrità e il pubblico sta mutando. L’espressione e l’esibizione di sé non hanno più senso. Rimane chi sa intrattenere con intelligenza. O propone cose utili a tutti enorme vasca da bagno piena di rose su come Covid-19 renda tutti uguali e vulnerabili. In Italia la conduttrice Barbara D’Urso, che va in onda, come tutti i colleghi, da uno studio televisivo senza pubblico, condivide uno scatto con truccatore e parrucchiere a ben meno del metro di distanza imposto per evitare i contagi. Ci mette l’hashtag #iorestoacasa, segue un diluvio di commenti: «costringi a lavorare persone che non dovrebbero uscire», «non rispetti le regole». Il rapporto social tra follower e celebrità è cambiato. La fama, la bellezza, un’esistenza scintillante da spiare attraverso uno schermo non bastano più. La differenza sta nel saper davvero intrattenere. Poter offrire ai propri ammiratori uno svago di qualità, anche per pochi minuti, ha un valore in giorni angosciosi. Lo stesso vale per gli influencer, persone comuni, spesso molto giovani, diventate star dei social per la loro capacità di influenzare, appunto, stili di viti e consumi. Ma cosa si può vendere in settimane in cui si contano i morti e uscire a fare shopping è vietato per decreto?
Senza la socialità privilegiata, tocca reinventarsi. L’esibizione della propria vita, interessante perché punteggiata di eventi, condivisa in virtù di una socialità privilegiata perde senso e allora, anche in questo caso, tocca reinventarsi. O almeno seguire il momento, rispettarne i toni e l’umore, capire che la propria popolarità, certificata da milioni di follower, va usata con intelligenza. Il coronavirus ha messo in pausa — o forse addirittura cancellato — quella che i filosofi Maura Gancitano e Andrea Colamedici hanno definito, in un omonimo saggio, «Società della performance». Una società «che richiede costantemente opinioni, condivisioni ed esibizioni e ha paura del silenzio. Basata sull’espressione di sé e l’esibizione di sé». Qui sotto vi raccontiamo, in ordine sparso, chi, tra le stelle della Rete, si sta adattando a questi tempi e chi li sta sprecando. Chi ne sta traendo qualcosa di utile per gli altri e chi no.
Anthony Hopkins. Attore premio Oscar, classe 1937, compirà 83 anni il prossimo 31 dicembre. È stato apprezzato per ruoli inquietanti, su tutti quello dello psichiatra cannibale Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti, come per quelli delicati, indimenticabile il James Stevens di Quel che resta del giorno. Di recente ha vestito pure i panni papali di Benedetto XVI per il film I due papi. Ama la musica, suona e compone canzoni. Nei giorni di quarantena offre ai suoi follower Instagram, oltre un milione e ottocentomila, divertenti sketch, brevi monologhi, spunti intelligenti e garbati. Sfoggia coloratissime camicie e mostra orgoglioso i grandi quadri che dipinge. È irresistibile quando suona, e pure bene, il pianoforte per il suo gatto Niblo, ormai anche lui una star social. «Lui si assicura che io stia bene, in cambio lo intrattengo», spiega in un post. Per comunicare su un mezzo giovane, l’età, in fondo, non è importante. Quello che fa la differenza sono i contenuti. Nel caso di Anthony Hopkins sono sempre di grande qualità.
Chiara Ferragni. In questa emergenza la capostipite di tutte le influencer, per ora, non ha sbagliato un colpo. Invitava a rinunciare alle uscite superflue già prima del lockdown e ha ben compreso la responsabilità di poter parlare a oltre 18 milioni di seguaci. Grazie alla sua potenza comunicativa ha raccolto 3,8 milioni di euro per realizzare un nuovo reparto di terapia intensiva all’Ospedale San Raffaele di Milano. Non si è snaturata, resta un’imprenditrice, e, ogni tanto, promuove le tute da casa della sua linea «perfette in questi giorni» . Non la immaginiamo perdere le notti sul sito Inps per i 600 euro ma, come tutti, prova, legittimamente, a portare avanti i suoi affari.
Francesco Belardi. Il suo canale YouTube ha circa 400 mila iscritti, a cui se ne aggiungo 100 mila su Instagram. Purtroppo Francesco Belardi, 24enne abruzzese, in arte Social Boom, non ha usato al meglio la sua popolarità. Lo scorso 26 febbraio ha fatto credere ai suoi follower di avere violato la zona rossa, al tempo limitata alle aree del Lodigiano dove erano avvenuti i primi contagi. «Ho aggirato i controlli. Sono successe un sacco di cose assurde», raccontava in brevi video. «Nella zona rossa si può entrare in tranquillità, ma poi non si può più uscire per 15 giorni». Aveva pure lanciato un sondaggio: «Fatemi sapere se volete che torni per intervistare qualcuno». Non era vero niente, le immagini erano state girate fuori da Codogno, ma Francesco è stato denunciato d’ufficio per «Pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico».
Caterina Balivo. Il suo programma Vieni da me, in onda il pomeriggio su RaiUno, è stato sospeso, come molti altri, a causa dell’emergenza sanitaria. Caterina Balivo ha deciso di non abbandonare comunque i suoi spettatori e di intrattenerli con un nuovo format. Assieme al marito, l’esperto di Finanza e scrittore Guido Maria Brera, ha lanciato sul suo profilo Instagram My next book, uno spazio in diretta in cui, da lunedì al venerdì alle 15, un autore racconta un libro che ha scritto rivolgendosi a coloro che non lo hanno ancora letto. Tra gli ospiti Francesco Piccolo, Gian Arturo Ferrari, Sandro Veronesi. Balivo, di solito alla guida di trasmissioni di intrattenimento, ha trovato un modo nuovo e intelligente per parlare a tutti di libri e cultura. Argomenti che non fanno mai male.
Chiara Nasti. L’influencer Chiara Nasti ha una certa predisposizione per le uscite infelici, pericolose quando si è seguiti da oltre un milione di persone su Instagram. All’inizio dell’epidemia si lamenta e si lascia scappare una brutta gaffe. Dopo essersi fatta applicare sulla manicure uno sticker con l’emoticon del Virus, racconta ai suoi follower: «Io sono una persona super ipocondriaca e mi prendo male anche per un mal di testa, ma stavolta sono abbastanza tranquilla: quello che sarà, sarà. Prendiamo tutte le precauzioni possibili. Dovete vedere le unghiette che mi sono fatta, coi batteri ( in realtà un virus ndr). Fate finta che l’ho preso anche io il virus. È un macello ma supereremo anche questa». Poi tace, rispetta la quarantena, ma non rinuncia a postare foto sexy dalla sua bella casa, con didascalie non proprio incoraggianti ed empatiche. «Ho una f......a voglia di tornare alla mia vita, questa situazione ha veramente rotto i c.....i».
Kendall Jenner. All’inizio della pandemia la modella e celebrità da reality show Kendall Jenner, sorella delle altrettanto note Kylie Jenner e Kim Kardashian, non sembrava particolarmente turbata. Sul suo account Instagram da 126 milioni di follower postava grafici colorati provenienti da fonti ignote e invitava tutti a non farsi ossessionare da questo virus «poco più di un’influenza, la maggior parte dei casi ha sintomi lievi». A rintuzzarla è arrivata la già citata Chiara Ferragni: nelle sue stories Instagram l’ha invitata a correggere il tiro e le ha ricordato che un seguito enorme come il suo comporta responsabilità. Che sia merito o meno della “collega” italiana non è dato saperlo, ma Kendall si è ravveduta. Si è unita al coro del «restiamo a casa», posta foto con gli amici scrivendo, «più rispettiamo la quarantena, prima riusciremo a vederci». La sorella Kylie, 169 milioni di followers su Instagram, ha convertito la sua azienda di rossetti per produrre gel disinfettante per le mani da donare agli ospedali californiani.
Jovanotti. Una menzione d’onore va a quasi tutti i cantanti italiani che sui loro canali social non si sono risparmiati per intrattenere i fan con dirette, concerti casalinghi e persino presentazioni di canzoni inedite. Jovanotti è senz’altro uno dei più attivi. Ha trasformato i suoi Jova Beach Party, la serie di concerti sulle spiagge italiane, in Jova House Party. Ogni giorno ha suonato e ospitato nelle sue dirette Instagram, con l’amico Fiorello, personaggi di ogni tipo. Tra questi Paolo Sorrentino, Achille Lauro, Bebe Vio, Massimo Recalcati, Michelle Hunziker, Telmo Pievani, Checco Zalone, Federica Pellegrini e tanti altri. Uno spettacolo formato smartphone divertente, intelligente e di grande qualità.
Arielle Charnas. Agli italiani questo nome dirà poco — e non si perdono niente — ma negli Stati Uniti la signorina Charnas, fashion blogger e influencer, ha oltre un milione e 300 mila seguaci su Instagram. A loro ha raccontato con grande semplicità di essersi sentita poco bene e di avere ottenuto, grazie ai buoni uffici di un amico medico, pure lui molto social, la possibilità di fare un tampone. L’esame è ormai inaccessibile ai più anche a New York. Dopo i controlli medici, come se nulla fosse, ha postato un video in cui scartava un pacchetto regalo contenente costosissimi capi griffati. Charnas è poi risultata positiva al virus , ma si è comunque spostata da New York agli Hamptons, violando le norme. La rabbia dei suoi seguaci, a quel punto, è diventata incontenibile. Il New York Post ha bollato l’influencer come Covidiot, l’idiota del Covid-19.
Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 27 aprile 2020. Da recluse si sono scatenate ancora di più: il lockdown domiciliare ha eccitato loro e il pubblico di guardoni che le segue: di chi stiamo parlando? Il punto è questo, perché l' espressione influencer a questo punto non va più bene. Avevamo appena fatto in tempo a imparare il termine che già dobbiamo trovarne un altro per definire la massa di carne che si esibisce sul web e che si declina in donne anche mature, donnine, ragazzine, quasi-puttane, e poi ecco, nello stesso calderone però ci sono anche le influencer vere, che avrebbero anche il diritto di averne le scatole piene, di essere confuse con esibizioniste di primo pelo (rasate, più spesso) che l' unica cosa che possono influenzare è il movimento della mano dall' alto al basso (e viceversa).
Esempio. Da una parte Chiara Ferragni, che per mesi abbiamo faticato a capire che cosa facesse nella vita e poi abbiamo capito che movimenta milioni di dollari (tanti) vendendo e promuovendo prodotti suoi o di altri attraverso la rete, diventando poi anche testimonial di un sacco di prodotti. In questo è agli effetti un «personaggio popolare in Rete, che ha la capacità di influenzare i comportamenti e le scelte di un determinato gruppo di utenti e, in particolare, di potenziali consumatori, e viene utilizzato nell' àmbito delle strategie di comunicazione e di marketing» (Treccani). Ora prendete a paragone, chessò, la figlia di Ornella Muti, Naike Rivelli, 45 anni, una che non ha sfondato in nessun mestiere (attrice, cantante, modella) ma anche lei è definita «influencer», e in questi giorni sta «influenzando» mostrando le chiappe con le mani di un tizio che gliele strizza. Vale per chi era già famosa per qualcosa - per esempio l' attrice e showgirl Anna Falchi - e chi quindi si esibisce con scatti arrizza-popolo perché la loro merce è quella, non altra. Diletta Leotta, altro esempio, «vende» essenzialmente il suo culo (nel senso che avete capito) ma non sappiamo se pubblicizzi anche qualcosa: l' Authority ha fatto sapere che sulle immagini, in caso di pubblicità diretta o indiretta, deve comparire «#Adv» o «#advertising» o «#prodottofornitoda», roba così. Mettono la sigla Federica Nargi, Chiara Biasi, Chiara Ferragni e altre che potremmo definire «fashion blogger» per distinguerle da chi esibisce solo se stessa, come Elisabetta Gregoraci (due professioni: moglie ed ex moglie) o Laura Chiatti (attrice) o Asia Argento (attrice teorica) o altre come Rita Rusic, Romina Carrisi (professione figlia) o Sarah Altobello (professione: sosia di Melania Trump) o tante altre che si definiscono «influencer» e giungono a fingere di avere grandi sponsor alle spalle, nella speranza che si facciano vivi davvero. A parte una questione prettamente pedagogica (in rete ci sono frotte di 15enni che si atteggiano a zoccole e pensano che diventeranno ricche) c' è da chiedersi se l' influencer sia la versione moderna del vecchio opinion leader: la risposta è no, perché si salta l' intermediazione del media. Prima i media (giornali, tv) si concentravano su tizia che in questo modo influenzava le masse. Oggi tizia si rivolge direttamente alla massa che, in teoria, può interagire con lei, e i media vanno talvolta a inseguire o semplicemente a parlarne, come stiamo facendo noi.
Nota: i giornalisti formalmente possono essere influencer di idee, ma non di prodotti, perché sennò li radiano dall' Ordine; quando lo scrivente partecipò a un adventure game su Raidue nel 2015, "Montebianco", dovette coprire tutti i loghi dei vestiti che indossava; Giampiero Mughini accettò con serenità di lasciare l' Ordine dopo aver fatto da testimonial a favore di una linea di telefonini, lo stesso ha fatto Fabio Fazio per fare da testimonial pubblicitario di Tim. Vittorio Feltri e Gad Lerner hanno fatto uno spot per dei biscotti ma hanno devoluto in beneficenza il compenso, e questo è permesso. Se invece non sei giornalista puoi fare quello che vuoi: la dilettante a pagamento Selvaggia Lucarelli, che scrive sul Fatto Quotidiano, per esempio riceveva omaggi di vario genere di cui ovviamente parlava sui suoi social: dai capi d' abbigliamento alle creme. Ciò detto, come si misura il successo di un influencer? Il criterio è lo stesso che decreta quello di un giornale (le copie) o di un programma tv (l' auditel), ma tutto sommato è più affidabile e preciso: c' è una classifica (basata sui dati di Sharablee stilata da Sensemakers) che conteggia le interazioni che gli influencer hanno accumulato su Facebook, Instagram, Twitter e YouTube. I famigerati «click». E tanto per far capire come vecchi e nuovi media siano spesso poco comunicanti: lo scrivente menzionerà solo quelli che non ha mai sentito nominare: «Gli Autogol» (terzo posto) hanno 17,5 milioni di interazioni, la food blogger Benedetta Rossi (quarto posto) ha 7,7 milioni di interazioni, al nono c' è l' influencer amante degli animali Paola Turani, poi Alice Campello, moglie del calciatore spagnolo Alvaro Morata: che lo scrivente non sa chi sia, ma immagina che non sia brutta.
Social, sessiste e "carine". Ecco le influencer (modaiole) del libro. Parlano di titoli esclusivamente di donne E allestiscono set fra tazze, tovaglie e cestini. Massimiliano Parente, Mercoledì 08/01/2020, su Il Giornale. E poi dicono il sessismo. Prendiamo la cultura, prendiamo i libri, prendiamo una tizia che si chiama Carolina Capria, voi non saprete chi è ma su Instagram - l'account è @lhascrittounafemmina - ha quindicimila follower. Bret Easton Ellis, tanto per intenderci, ne ha solo tre volte di più. Questa Capria è una book influencer, una nuova meravigliosa professione del nulla, e parla solo di libri scritti da donne. Immaginatevi il contrario, se un critico, un giornalista, uno scrittore, dichiarasse di parlare solo di libri scritti da uomini. Come se quelli di Virginia Woolf fossero libri scritti per le donne e quelli di Proust o Joyce per gli uomini. (Non so, vorrei far vedere questo account al mio amico Vittorio Sgarbi e solo per fargli urlare: Capria, Capria, Capria!). Ma il punto dei book influencer è un altro, o meglio è sempre lo stesso anche fuori dalla Capria. È che sono tutte donne. Tipo Petunia Ollister, vero nome Stefania Soma. Quarantamila follower, più di Bret Easton Ellis. Influenza molto perché fa delle foto carine, ma così carine che non so descrivere. Prende i libri con delle copertine carine e li mette su un tavolo carino con un caffè carino, un cappuccino carino, una tovaglia carina, delle collanine carine, una teiera carina, tutti oggettini carini. Tant'è che lei stessa dice: «Tutto è iniziato nel 2015, la copertina del libro era bella, la tazza del cappuccino aveva lo stesso colore. Gli editori hanno cominciato a propormi titoli e le aziende di food prodotti». Donna Moderna (chi altri sennò, mica Alberto Arbasino) spiega: «Ha successo perché cura le foto in ogni dettaglio e allestisce un vero e proprio set, ha acquistato sfondi in pvc, tovaglie, piatti e tazze di grande effetto che abbina ai colori delle copertina». Sfoglio il suo Instagram e alla decima foto mi viene la nausea, mi viene perfino voglia di andarmi a rivedere i film accattoni di Pier Paolo Pasolini, che ho sempre odiato. Invece Giulia De Martini è conosciuta come Julie Demar. Ha sia un canale Youtube che un account Instagram. Molto carina, anche lei posta foto carine, anche lei quasi sempre libri con cappuccino o caffè accanto (ti viene il dubbio che i libri siano solo un pretesto e il vero sponsor sia la Lavazza), come se i libri fossero delle tovagliette, ultimo postato con didascalia: «scrittura tagliente, senza filtri e mai pesante», e tu senza vedere la foto pensi stia parlando di Céline, di Thomas Bernhard, di me, invece no, è l'ultimo di Elena Ferrante. Che però in effetti per appoggiarci la colazione va benissimo. Veronica Giuffré invece su Instagram è Icalzinispaiati, lei prende Elsa Morante e te la fotografa in un cesto di noci (carinissimo), prende un libro di Anna Folli e te lo piazza in un cesto di peperoncini (credo perché parla dell'amore tra Moravia e Morante, tutto studiatissimo, tutto carinissimo), Emanuele Trevi, toh, vicino a uno specchio d'epoca con cornice dorata, però su Paul Auster cade anche lei sulla tazza di caffè, comunque con una tovaglia sotto carinissima, e di tovaglie Veronica ne ha migliaia, tutte carinissime e intonate non solo ai libri ma anche alle tazze. Sua autodescrizione su Instagram: «Creator digitale. Faccio incontrare libri e persone. Sono molto social». A me sembra faccia incontrare libri, tazze e tovaglie, come tutte, però la seguono in tredicimila. Insomma, di queste book influencer di Instagram ne ho viste decine, poi mi sono rimesso a giocare con Gipi a Call of Duty. Prima però sono stato attratto da Libriamociblog, perché gli influencer sono due, Chiara Bonardi e Matteo Taino. Trentamila follower. Ho pensato: c'è un uomo, magari influenza l'influencer donna e viene fuori qualcosa di diverso. Dunque: fotina carina con libro di Marina Colacchi Simone (non so chi sia, sarà una loro amica) tra candele rosse e lucine di Natale, carinissima davvero. Ultimo post sull'ultimo libro di Donato Carrisi (Carrisi è presente ovunque in queste book influencer, è il loro preferito tra i pochi maschi), fotografato vicino a dei muffin, l'immancabile tazza di caffè, e perfino un quadro incorniciato con tazza di caffè gigante (il sospetto che tutto sia un'operazione di marketing della Lavazza o della Nescafè cresce sempre di più). Sul libro Le ricamatrici della regina comunque la Bonardi e la Taino (pardon, il Taino), hanno dato il massimo: tanti rocchetti colorati di filo da cucire, carinissimi, una rosa bianca, anch'essa carinissima, e una tazza, stavolta di the, colpo di scena. Morale della favola e consiglio rivolti a tutte le commesse e vetriniste d'Italia: se vi siete stancate del vostro lavoro, andate su Instagram e diventate delle book influencer.
7 influencer raccontano quanto paga Youtube per i loro video che raggiungono da 100mila a 150 milioni di views. Amanda Perelli su it.businessinsider.com il 23 gennaio 2020. Partner Program di YouTube consente agli influencer di guadagnare attraverso il proprio canale inserendo annunci pubblicitari nei video. Google piazza questi annunci e paga i creatori dei video sulla base di fattori come il tempo di visione, la durata e la composizione demografica di chi li guarda. Ecco quanto YouTube paga ai creatori per ogni video che raggiunge 100.000, 1 milione e 150 milioni di views, secondo alcuni influencer di primo piano.La quantità di soldi che YouTube paga a un creatore per un solo video dipende da vari fattori, ma uno dei più importanti è il numero delle views che ottiene. I creatori di video con 1.000 iscritti e 4.000 ore di visione dei loro contenuti hanno diritto ad aderire al Partner Program di YouTube iniziando a guadagnare grazie all’inserimento di annunci pubblicitari che sono filtrati da Google: quanto guadagna un creatore dipende dal tempo di visione di ogni video, dalla sua durata e tipologia e dalla composizione demografica di chi lo guarda, insieme ad altri fattori. Il Cpm (costo per migliaio di views) varia enormemente, e alcuni creatori di primo piano seguono strategie di ad placement per massimizzare i propri guadagni. Per esempio Andrei Jikh, influencer che si occupa di personal finance, ha detto a Business Insider di guadagnare più soldi grazie ai cosiddetti annunci midroll, cioè quelli che appaiono durante la visione delle clip. Questi annunci possono essere inseriti nei video che durano più di dieci minuti; il creatore può decidere se permettere o meno a chi guarda di saltarli e può inserirli manualmente o impostare YouTube in modo che lo faccia in automatico. Ci sono anche cose che un creatore può evitare per cercare di guadagnare di più. Alcuni video che contengono parolacce o musica coperta da diritti d’autore vengono “flaggati” da YouTube e demonetizzati, tanto che il rispettivo creatore finisce per guadagnare poco o niente.
Una delle più grandi star del sito, David Dobrik, ha dichiarato di recente in un’intervista di guadagnare circa 2.000 dollari al mese direttamente da YouTube, malgrado i suoi video settimanali ottengano in media 10 milioni di views. Dobrik realizza la maggior parte dei suoi guadagni grazie alle sponsorizzazioni, come la sua partnership con SeatGeek. Ecco quanto YouTube ha pagato ai creatori per una clip che ha raggiunto 100.000, 1 milione e 150 milioni di views, secondo alcuni famosi creatori di video.
Natalie Barbu ha creato il suo canale YouTube mentre frequentava le scuole superiori, all’incirca otto anni fa. Pubblicava video di moda e bellezza come hobby pomeridiano, molto tempo prima di sapere che avrebbe potuto guadagnare dei soldi grazie alla piattaforma, ha raccontato a Business Insider. Oggi gestisce un canale con 257.000 iscritti e pubblica video settimanali sulle sue esperienze di vita quotidiana. Afferma di guadagnare in media una somma compresa fra 500 e 1000 dollari per ogni video che ottiene circa 100.000 views, a seconda della quantità di annunci che pone al suo interno. Per esempio ha guadagnato solo 100 dollari grazie a un video di qualche anno fa che è arrivato a quel numero di views, perché aveva inserito solo un annuncio. Ci sono alcuni fattori fondamentali che possono contribuire a incrementare il fatturato pubblicitario di un video. Gli inserzionisti, ha spiegato Barbu, pagano di più per un video informativo legato al mondo delle imprese che per una clip in stile vlog. La tariffa ha anche un carattere stagionale, perché il Cpm (che in pratica corrisponde al budget pubblicitario) è più basso all’inizio dell’anno aumenta verso la fine. Alcuni creatori di video su YouTube hanno anche delle strategie specifiche che seguono per guadagnare più soldi possibili grazie agli annunci. Un video con 1 milione di views su YouTube non genera sempre lo stesso guadagno: può variare considerevolmente a seconda del creatore. Business Insider ha parlato con quattro influencer di YouTube con canali molto diversi — Marina Mogilko, Kevin David, Austen Alexander e Shelby Church — per sapere quanto hanno guadagnato grazie ai loro video che hanno superato 1 milione di views (senza però arrivare a 1,5 milioni).
Church (1,4 milioni di iscritti): fra 2000 e 5000 dollari.
Alexander (165.000 iscritti): 6000 dollari.
Mogilko (1,7 milioni di iscritti): 10000 dollari.
David (844.000 iscritti): 40000 dollari.
Tutti questi creatori hanno detto che il fatto di abilitare tutte le opzioni pubblicitarie — che comprendono i banner, gli annunci preroll (quelli che appaiono prima dell’inizio della clip) e i midroll — li ha aiutati a guadagnare di più. Trovano utile anche far durare i video più di 10 minuti.
Paul Kousky gira video per YouTube sui fucili giocattolo Nerf e ha 10,9 milioni di iscritti. Ha detto a Business Insider di guadagnare la maggioranza delle proprie entrate grazie agli annunci presenti sul suo canale, Pdk Films. Il video di Kousky che gli ha fatto guadagnare più soldi è uno che ha pubblicato nel febbraio 2018, intitolato “Nerf War: Tank Battle“, che è diventato virale nel mondo intero sei mesi dopo, ha raccontato. Quando ha raggiunto 150 milioni di views (views che oggi continuano ad aumentare), Kousky aveva guadagnato 97.000 dollari sotto forma di introiti pubblicitari tramite AdSense. Quando l’ha caricato per la prima volta è stato visto per il 50% circa da utenti statunitensi, che rappresentano il target di Kousky. Dopo la sua diffusione virale la percentuale è scesa, e oggi si aggira solo sul 5%.
A causa di tale diffusione globale, il video ha ottenuto views da Paesi con un Cpm inferiore. Se la maggioranza degli utenti che l’hanno visto fossero stati statunitensi Kousky avrebbe guadagnato di più, ha spiegato. La composizione demografica di chi vede i video è un fattore cruciale nel determinare il relativo Cpm.