Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

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ANNO 2020

 

LA CULTURA

 

ED I MEDIA

 

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

In Montagna si invecchia prima.

I Nemici della Scienza.

Scienza e fede religiosa.

La contestazione…

E se il Big Bang non fosse mai esistito?

L’estinzione di massa.

Gli Ufo.

Fuori di…Terra.

Il Futuro nel Passato.

Il computer quantico.

Le Telecomunicazioni.

L’uso del Cellulare.

Un microchip sottopelle.

Cos'è un algoritmo.

Il concetto di Isocronismo.

Giaccio Bollente.

La Sfida della Scopa.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Mente sana in Corpo sano.

Il Cervello che invecchia.

Il Toccasana del Cervello.

L’Odio per i Geni.

L’Idiozia.

Il Pessimismo.

La cura dell’Ottimismo.

Passo Dyatlov. La teoria della “tempesta perfetta”: «Impazzirono per infrasuoni».

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ignoranti …e basta!

La Scuola dalla A alla Z.

La scuola degli strafalcioni.

La Laurea Negata.

Laurea…non c’è.

Cervelli in Fuga.

Studenti in fuga.

La scuola dirupata.

Concorso docenti, il grande business dei crediti e le ombre sul Concorsone.

Più bidelli che carabinieri.

Eccellenze e Metodi.

L'Università Telematica.

Università Private: Affari ed Inchieste.

I Compiti a Casa.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

"Dio, Patria, Famiglia" contro "Uomo, Mondo, Sesso".

Falsi sin dagli albori.

La crisi dei competenti.

Non è vero che…

La saggezza degli animali.

La Libertà dell’Occidente.

La Memoria: tra passato e futuro.

La prossima egemonia culturale.

Il Buonismo.

La Dolce Vita.

Gli anni Ottanta.

Il Grande Fratello.

Il Galateo.

Siamo egolatri. Ergo: Egoisti e Narcisisti.

Lo Snobbismo.

Il nostro Accento.

«Ma che dici?»

Chi uccide la Lingua italiana?

Oltre ogni ragionevole dubbio.

La libertà: uno Stato di Fatto che non è di questa Italia.

I Radical Chic.

I Tabù.

Emozione ed Amore.

Il Pianto.

Il Romanticismo contemporaneo.

Quell’irrefrenabile bisogno di costruire il nemico.

L'anziano tolga il disturbo.

Hikikomori, il fenomeno dei ragazzi che vivono al contrario e si isolano.

Gioventù del “Cazzo”.

Un popolo di Maleducati.

Fascista!

L’Odio, il Rancore, l'Invidia, l’Ingratitudine.

La Fiducia.

Gli Amici.

V per Vendetta.

Il perdono.

C’era una volta la vergogna.

Etica dell’onore.  

La Cultura di Destra.

Le Figure Retoriche.

Data Palindroma.

Il 2020 è bisestile, la leggenda dietro al 29 febbraio.

I Collezionisti di…

Ladri di Cultura.

La caccia ai tesori delle navi perdute.

Per tutti Kalashnikov, per i tecnici AK-47.

La paura della “Rete”.

L'Era Digitale.

Quando si scriveva con la penna.

Le Scoperte utili ed inutili.

Fenomeno Panini.

Fenomeno Sneakers.

Il Pac-Man.

Gli Hot-Pants.

La “Gran Moda”.

La Peluria. Spettinati sopra e sotto.

Il Nome dei Marchi.

Le Righe diaboliche.

Il Mastercheff dell'800.

Cinema: Trucco ed Inganno.

Il Doppiaggio.

Il Fotoromanzo.

L'Arte e la Conoscenza.

La Storia da conoscere.

Musei. Colosseo, Uffizi e Pompei sul podio.

Arte: le 15 mostre da non perdere nel 2020.

L’Arte Nera.

I Pinocchio.

Il Mito di Zorro.

Buon compleanno, Pippi Calzelunghe.

James Bond.

I Simpson.

Artisti Anticonformisti.

Letteratura. Dal Figlio al Foglio. Il Figlio come ispirazione.

La Cultura Contemporanea? Il trash-pop-cult berlusconiano.

I Social. Lo spazio all'orda degli imbecilli.

Scrittori da Social.

Editoria: Roba mia…

Giangrande e Morselli. Quando gli editori non editano.

Cultura e /o Propaganda?

La Grafologia.

I premi Nobel.

Albert Einstein.

Alberto Arbasino.

Alberto Moravia.

Aldo Nove.

Alessandro Manzoni.

Alessandro Michele.

Andy Warhol.

Angelo Cruciani.

Antonio Ligabue.

Antonio Pennacchi.

Bansky.

Betony Vernon.

Boris Pasternak.

Bruno Bozzetto.

Charles Bukowski.

Carlo Levi.

Cechov.

Cecilia Mangini.

Cesare Pavese.

Dan Brown.

Dante Alighieri.

Diego Dalla Palma.

Dolce e Gabbana.

Donatella Versace.

Donatien-Alphonse-François de Sade.

Eduardo e Peppino De Filippo.

Emanuele Trevi.

Ennio Flaiano.

Erno Rubik ed il Cubo.

Eugenio Montale.

Eva Cantarella.

Federico Moccia.

Gabriel Matzneff.

Geco.

George Orwell.

Giacomo Leopardi.

Giampiero Mughini.

Gianni Rodari.

Gianni Vattimo.

Giordano Bruno.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini.

Giuseppe Peri.

Giuseppe Ungaretti.

Giuseppe Verdi.

Goffredo Fofi.

Hans Christian Andersen.

J. K. Rowling.

Johann Wolfgang von Goethe.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Pisano Bogollo, noto a tutti come Fibonacci.

Leonardo Sciascia.

Ludovica Ripa di Meana.

Luigi Mascheroni.

Luigi Pirandello.

Louis-Ferdinand Céline.

Malcom Pagani.

Marcella Pedone, vita da fotografa.

Marco Lodola.

Maurizio Cattelan.

Mauro Corona.

Natalia Aspesi.

Oliviero Toscani.

Oscar Wilde.

Patrizia Cavalli.

Patrizia Valduga.

Pier Filippo d’Acquarone.

Piero ed Alberto Angela.

Primo Levi.

Robert Schumann.

Roberto Capucci.

Roberto Cavalli.

Sergio Lepri.

Sibilla Aleramo.

Steinback e Silone, i punti in comune di due cantori diseredati.

Thomas Mann.

Totò.

Valentino.

Van Gogh, il modernissimo.

Vittorino Andreoli.

Vittorio Sgarbi.

Zadie Smith.

Mai dire Influencer.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Morte dell’informazione.

Siete sicuri che è informazione?

“Professione: Odio”.

La Stampa condannata.

Il quarto grado a Quarto Grado.

Il nefasto Politicamente corretto partigiano.

La Doppia Morale.

La Censura.

Ecco la Tv del nulla.

Gli Opinionisti.

Tv-Truffa: Nulla è come appare.

Sulle spalle dei contribuenti.

Le Fake News.

L’Albo della Gloria.

Le redazioni partigiane.

Emmy Awards & Company 2020. I premi dei partigiani.

La Cnn e la tv del futuro.

Dicembre 1975, così nacque Radio Radicale.

La rivoluzione mancata di TeleBiella.

Novella 2000: 100 anni.

L'Espresso, 65 anni: partigiano.

Il decimo anno di Instagram.

Il metodo Iene.

Le "signorine buonasera".

Alda D' Eusanio.

Alessandra Ghisleri.

Alessio Orsingher e Pierluigi Diaco.

Alessio Viola.

Andrea Scanzi.

Anna Billò.

Augusto Del Noce.

Barbara Palombelli.

Bernardo Valli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Vespa.

Daria Bignardi.

Emilio Fede.

Fabio Fazio.

Fausto Biloslavo.

Federica Sciarelli.

Franca Leosini.

Francesca Baraghini.

Furio Colombo.

Gad Lerner.

Gavino Sanna.

Gianni Minà.

Giovanna Botteri.

Giovanni Floris.

Giovanni Minoli.

Giuseppe Cruciani.

Josephine Alessio.

Ilaria D'Amico.

Luca Abete.

Mario Giordano.

Maurizio Costanzo.

Michele Santoro.

Mimosa Martini.

Monica Maggioni.

Nicola Porro.

Paolo Brosio.

Paolo Del Debbio.

Paolo Guzzanti.

Roberto D’Agostino.

Rino Barillari.

Selvaggia Lucarelli.

Veronica Gentili.

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        In Montagna si invecchia prima.

Il tempo scorre a ritmi irregolari. E in montagna si invecchia prima. Il tempo accelera a mano a mano che ci si allontana da un oggetto con grande massa. Per questo in cima a un monte, quando si è più lontani dal centro della terra, gli orologi corrono più velocemente. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 13/09/2020 su Il Giornale. Di una cosa siamo certi: in montagna si invecchia più che al mare. E questo nonostante si dica che la salsedine e il sole rovinino la pelle, mentre l’aria fresca faccia bene. Si invecchia più velocemente sui monti perché lì il tempo scorre più velocemente che al mare. E non perché in vetta ci si diverta di più, ma perché gli orologi, tutti gli orologi, ticchettano più velocemente. Come possiamo essere certi di un fatto così strabiliante e apparentemente contrario alla nostra intuizione? Un’intuizione vecchia cent’anni di un certo Albert Einstein aprì una straordinaria rivoluzione nella scienza e nel pensiero in generale. Contraddicendo nientepopodimeno che Newton, Einstein capì che il tempo non è qualcosa di assoluto e che gli orologi non battono tutti alla stessa velocità. Lo capì già quando presentò al mondo la teoria della relatività ristretta: se mi muovo il mio orologio va più veloce rispetto allo stesso se rimanessi fermo. Incredibile. Un decennio più tardi, con la teoria della relatività generale, aggiunse che il tempo rallenta a mano a mano che ci si avvicina ad un oggetto con grande massa: maggiore è l’attrazione gravitazionale subita, più lento scorre il tempo. Ecco spiegato allora perché ad una altitudine elevata il tempo scorre più velocemente che al livello del mare: in montagna sono più lontano dal centro della Terra, sento meno la sua attrazione gravitazionale, quindi l’orologio corre più rapidamente. E io invecchio prima. Per quanto eleganti, geniali e risolutive fossero le sue teorie, anche Einstein ha fatto errori nella carriera di fisico più famoso di tutti i tempi e dunque la sua parola non è abbastanza per essere sicuri di fatti così controintuitivi. Nel 1971 un fisico ed un astronomo presero quindi alcuni orologi tra i più precisi dell’epoca, orologi atomici grandi quanto comodini. Ne lasciarono alcuni a Washington, mentre altri li portarono come bagagli (un po’ ingombranti) su aerei di linea con i quali fecero il giro del Mondo, una volta verso Est e una volta verso Ovest. Quando, tornati a Washington, confrontarono gli orologi viaggiatori con quelli casalinghi, trovarono che i primi indicavano un tempo maggiore dei secondi. Non erano più sincronizzati. E la differenza era in accordo con quanto predetto da Einstein: quando ci si muove veloci, o se si va in montagna, il tempo scorre più velocemente. Nei 50 anni successivi, esperimenti del genere sono stati ripetuti e confermati diverse volte. Con la precisione raggiunta dagli orologi attuali, che tra l’altro non sono più grandi come comodini, possiamo misurare sperimentalmente la differenza dello scorrere del tempo tra orologi distanti poche decine di centimetri l’uno dall’altro! In altre parole, sappiamo determinare sperimentalmente quanto i vostri capelli siano più vecchi dei vostri piedi. Ovviamente di poco, molto poco, un nanosecondo ogni anno, quindi non è una buona idea vivere facendo la verticale per mantenere la mente giovane. Sono differenze delle quali non possiamo renderci conto. Ma se l’uomo riuscisse a distinguere differenze di tempo così piccole, come percepirebbe lo scorrere diverso del tempo? Per semplicità, immaginiamo di riuscire a distinguere differenze di tempo di un diecimilionesimo di secondo ogni anno (mille volte più del nanosecondo del paragrafo precedente). Questo non basterebbe a distinguere la differenza tra testa e piedi, ma sarebbe sufficiente per distinguere per esempio quella che c’è tra le pendici e la cima del Monte Bianco (quasi 5 Km di dislivello). Alleniamoci a dovere e cominciamo a scalare la cima, tenendo al polso il nostro nuovissimo orologio atomico. Cosa succederebbe? Sentiremmo il ticchettio piano piano accelerare? La risposta è negativa. L’orologio non è altro che lo strumento di misura del tempo. E se il tempo cambia il ritmo via via che saliamo il Monte Bianco, anche la nostra percezione del ticchettio dell’orologio cambia con esso. Questo vale anche per i processi fisici come l’invecchiamento o il pensiero: per noi non cambierebbe nulla. Ci sembrerebbe come se tutto stesse continuando allo stesso ritmo. Solo una volta tornati a valle dopo aver raggiunto la vetta ci accorgeremmo che qualcosa è cambiato. Confrontando il nostro orologio con quello del barista con cui avevamo parlato prima di partire, scopriremmo che il nostro tempo è scivolato via più velocemente che al bar. E ci accorgeremmo di essere invecchiati un po’ di più di lui. In tutti gli esperimenti che abbiamo descritto nei paragrafi precedenti, infatti, gli orologi in gioco sono stati sincronizzati insieme nello stesso posto, portati in posti diversi o a velocità diverse, e poi riportati insieme per essere confrontati. Con l'introduzione della Relatività Generale, il tempo perde i connotati di assolutezza che aveva assunto con le idee newtoniane. L'Universo non balla tutto sullo stesso ritmo cadenzato e preciso. Ogni punto dello spazio e ogni momento ha il suo scorrere del tempo che è mutevole, cambia in maniera intimamente legata all'interazione gravitazionale di quel punto in quel momento. Con esso danzano a ritmi diversi le stelle, i buchi neri e noi stessi.

·        I Nemici della Scienza.

A chi serve rinnegare la scienza. Michele Marsonet il 4 Febbraio 2020 su Il Dubbio. Nel corso degli ultimi tempi siamo passati da una fiducia illimitata nel progresso a pulsioni anti-scientifiche. Gli studi Karl Popper possono aiutarci a uscire dall’impasse. Verità scientifica e verità mediatica. Nel corso degli ultimi tempi siamo passati da una fiducia illimitata nel progresso della scienza a un clima di diffidenza e di sospetto, che spesso dà vita a pulsioni anti- scientifiche. Si è insomma manifestato un atteggiamento di ostilità più o mena aperta, che porta a prendere in considerazione soltanto gli aspetti negativi dello sviluppo scientifico. Si tratta di una reazione allo scientismo positivista il quale proclama che soltanto in ambito scientifico si ottiene vera conoscenza, mentre tutti gli altri campi del sapere umano debbono appunto avere la scienza quale punto di riferimento imprescindibile. Di qui il successo dell’anti- scienza, che giudica lo sviluppo scientifico quale minaccia sia a una corretta organizzazione della società, sia a una crescita armonica e non unilaterale dell’individuo. Il fatto è che entrambi questi approcci, come spesso accade alle posizioni di tipo estremista, sono essenzialmente irragionevoli. Ecco, quindi, che l’atteggiamento scientista tende ad attribuire a presunti agenti “esterni” le conseguenze negative che talora ( ma non sempre, e non automaticamente) accompagnano il progresso scientifico e tecnologico. L’atteggiamento anti- scientifico procede in direzione specularmente opposta, scaricando su scienza e tecnica tutte le colpe degli eventuali effetti negativi. Si dovrebbe tuttavia rammentare che è insita nella stessa impresa scientifica la dimensione del rischio: conoscere in modo più approfondito la realtà aumenta da un lato il nostro potere sulla natura, e dall’altro può far sì che tale accresciuto potere dia vita a conseguenze indesiderate. Ma il rischio fa parte della costituzione dell’uomo e della sua storia. Si pensi a cosa saremmo oggi se i nostri antenati non avessero voluto correre rischi, preferendo la tranquillità al dinamismo. Solo gli utopisti pensano che un ritorno al passato ci farebbe rivivere una mitica “età dell’oro” che non è mai esistita. Uno dei grandi insegnamenti dell’epistemologia di Karl Popper è che, nella scienza, occorre sempre essere aperti alla possibilità che le proprie tesi vengano falsificate. Esiste la verità ma occorre anche rendersi conto che essa va conquistata con fatica e, soprattutto, che la pretesa di averla raggiunta una volta per tutte è un’illusione, come del resto dimostra la storia della scienza stessa. Occorre però chiedersi cosa succede se l’attività scientifica non è governata da alcuna regola metodologica. Gli scienziati di professione possono in fondo ignorare la questione, certi che la loro ricerca progredisce in ogni caso. Non possono invece ignorarla i filosofi e tutti coloro che attribuiscono alla scienza un ruolo decisivo nel progresso della conoscenza umana. E’ facile rendersi conto che, oggi, la questione di cui sopra ha un’importanza cruciale ed è pure gravida di conseguenze pratiche. Se la scienza avanza in modo anarchico e senza regole di sorta, allora il suo valore conoscitivo può essere revocato in dubbio. Non solo. La scienza diventa una prateria aperta a scorrerie di ogni tipo. Molti hanno rilevato che la scienza non può essere per sua natura democratica. Per parlare con cognizione di causa al suo interno occorre, innanzitutto, acquisire competenze tecniche molto complesse, e poi sottoporre le proprie tesi al vaglio di specialisti con competenze tecniche almeno pari a quelle di chi le propone. In caso contrario abbiamo soltanto chiacchiere inutili, poiché si dà spazio a chi interviene senza sapere. Ed è proprio ciò che sta accadendo ai nostri giorni. Internet ha fornito a ognuno il diritto di intervenire su qualsiasi problema, indipendentemente dal grado di conoscenza posseduto. Il problema si pone anche quando questioni di tipo scientifico vengono discusse in tribunale. Per restare agli ultimi fatti, ha fatto scalpore una recente sentenza in cui i giudici hanno sentenziato che vi è dipendenza causale tra l’uso del telefono cellulare e l’insorgenza di un certo tipo di tumore. Tutto ciò senza tenere conto che studi specialistici già effettuati e pareri di organismi scientifici internazionali hanno invece negato che esista una correlazione di quel tipo. Sembra di capire, in sostanza, che in casi simili le sentenze si basino, più che sull’esame per l’appunto scientifico dei dati, sulle discussioni politiche, giudiziarie o addirittura filosofiche che proliferano come funghi nella Rete, quasi sempre senza un controllo serio delle opinioni che vengono postate da utenti spesso organizzati in gruppi di opinione. Si tratta di una tendenza pericolosa perché fa dipendere la verità sul mondo fisico che ci circonda dal dibattito in Internet, dimenticando che la Rete e il mondo reale non sono affatto la stessa cosa.

·        Scienza e fede religiosa.

Scienza e fede religiosa non sono inconciliabili. Weber fu netto: o Dio o progresso del sapere. Ma il conflitto, secondo Scheler, era sanabile. Dario Antiseri, Domenica 09/08/2020 su Il Giornale. È stato Max Weber ad affermare ne La scienza come professione (1919) che «la tensione tra la sfera dei valori della scienza e quella della salvezza religiosa è insanabile». Il progresso scientifico dice Weber «è una frazione, e senza dubbio la più importante, di quel processo di intellettualizzazione al quale andiamo soggetti da secoli». E tale «progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione» sta a significare che «la coscienza o la fede che basta soltanto volere, per potere, ogni cosa in linea di principio può essere dominata con la ragione. Il che significa il disincantamento del mondo. Non occorre più ricorrere alla magia per dominare o per ingraziarsi gli spiriti come fa il selvaggio per il quale esistono simili potenze. A ciò sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici. È soprattutto questo il significato della intellettualizzazione come tale». Insomma: «È il destino dell'epoca nostra, con la sua caratteristica razionalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo disincantamento del mondo, che proprio i valori supremi e sublimi sian divenuti estranei al gran pubblico per rifugiarsi nel regno extramondano della vita mistica o nella fraternità dei rapporti immediati e diretti tra i singoli». Per Weber, dunque, è quello di un aut-aut il rapporto tra la sfera dei valori della scienza e quella dei valori religiosi. Ma la situazione è proprio questa? Un mondo disincantato dalla scienza, letto cioè dalle teorie scientifiche, è un mondo che implica di necessità la negazione di un Creatore oppure è un mondo in cui dalla fede del credente vengono strappate via le croste di ataviche superstizioni? Un mondo senza ninfe dietro a una sorgente o senza un irritato Giove che lancia fulmini sugli uomini è davvero un universo in grado di proibire senza appello ogni traccia di Trascendenza? E poi questione di maggior rilievo è la scienza che desacralizza il mondo ovvero il mondo, per essere investigato scientificamente, dev'essere un mondo già desacralizzato, disincantato? Ecco, a tal riguardo, la fondamentale proposta di Max Scheler in Sociologia del sapere (1924): «Bisogna, innanzi tutto, farla finita con l'errore molto condiviso che la scienza positiva (e il suo movimento progressivo) abbia mai potuto e mai possa, fintanto che essa rimane nei suoi limiti essenziali, torcere un sol capello alla religione. Questa tesi, sia essa sostenuta da credenti o da increduli, è sempre ugualmente falsa». Falsa, per la ragione che «i tabù, che le religioni hanno impresso ai più diversi ambiti della conoscenza umana, dichiarando le rispettive cose come sacre e come articoli di fede, debbono perdere questo carattere di tabù per motivi religiosi o metafisici propri, e tornare a essere oggetti di scienza. Finché la natura è colma, per un dato gruppo, di forze personali e demoniache, essa è nella misura in cui lo è, esattamente ancora un tabù per la scienza. Chi considera le stelle come divinità visibili, non è ancora maturo per una astronomia scientifica». Di seguito la tesi di fondo proposta da Scheler: «Il monoteismo creazionistico giudaico-cristiano e la sua vittoria sulla religione e sulla metafisica del mondo antico fu senza dubbio la prima fondamentale possibilità per porre in libertà la ricerca sistematica della natura. Fu un mettere in libertà la natura per la scienza in un ordine di grandezza che forse oltrepassa tutto ciò che fino a oggi è accaduto in Occidente». E tutto ciò per la ragione che «il Dio spirituale di volontà e di lavoro, il Creatore che nessun greco e nessun romano, nessun Platone e Aristotele conobbe, è stato la maggior santificazione dell'idea del lavoro e del dominio sopra le cose infraumane; e nel medesimo tempo operò la più grande disanimazione, mortificazione, distanziazione e razionalizzazione della natura, che abbia mai avuto luogo, in rapporto alle culture asiatiche e all'antichità». Una proposta, dunque, questa di Scheler che rovescia la tesi weberiana di un mondo disincantato senza Dio, proponendo un diverso rapporto tra ricerca scientifica e monoteismo creazionistico giudaico-cristiano.

·        La contestazione…

Processiamo il Pi greco e altre formule ma i veri colpevoli siamo noi umani. Il matematico Matt Parker ci porta nel cuore degli errori di calcolo che stravolgono le nostre vite. Matteo Sacchi, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Siamo tutti sempre capaci di fare due più due? Mica tanto a dar retta a Matt Parker, matematico della Queen Mary University di Londra. Questo australiano specialista nella divulgazione dei numeri, e soprattutto nello spiegare ai comuni mortali gli algoritmi dei computer, ha dedicato un intero libro agli sbagli di calcolo. Ora arriva in Italia per i tipi di Rizzoli con il titolo: Processo al pi greco. Equivoci, disastri e altri errori matematici (pagg. 366, euro 21). Matt Parker parte da un assunto interessante e che viene particolarmente utile in questo periodo dove, causa Coronavirus in corso e crisi economica incombente, siamo bombardati di cifre e grafici. Il cervello umano sulle grandi cifre tende ad andare in palla... Dopo un po' le appiattisce sul molto. E tutti i molto gli sembrano uguali. Ma non è affatto così. E non è un problema che affligge solo noi tapini che facciamo fatica a gestire anche le più semplici equazioni di grado superiore al secondo. Qualche esempio? Il 14 settembre 2004 ottocento aerei che stavano volando nel cielo sopra la California si trovarono abbandonati a loro stessi: il sistema informatico dell'aeroporto di Los Angeles aveva smesso di funzionare. Fu un vero miracolo se non ci furono incidenti. Come era potuto capitare? Il sistema informatico funzionava su un contatore di tempo macchina (un computer deve distribuire attività nel corso del tempo) che conteggiava i millisecondi. Essendo un sistema a 32bit poteva conteggiare un numero enorme di millisecondi: per la precisione 4294967295. A nessun progettista era venuto in mente che quel numero enorme di millisecondi potesse non bastare. Il contatore però smette di funzionare in 49 giorni, 17 ore, due minuti, 47 secondi e spiccioli. Non è più così tanto grande questo lasso di tempo, vero? Qualcuno all'aeroporto di Los Angeles dimenticò di riavviare le macchine per far ripartire il conto... Il problema esiste su un sacco di macchine informatiche. Tanto che si rischia un bug di misurazione del tempo in corrispondenza del 2038. Certo c'è tempo (scusate il gioco di parole), magari le avremo cambiate tutte per allora... Questa è solo una delle trappole di calcolo in cui cadiamo. C'è chi si scorda che costruendo un grattacielo con i vetri riflettenti si crea un gigantesco specchio ustorio che incendia le macchine dei vicini, chi non calcola cosa succede se in un palazzo c'è una palestra e la gente salta assieme ad un dato ritmo... Non parliamo poi di quando si tratta di calcoli probabilistici e curve, lì l'errore è sempre in agguato. Lo sappiamo intuitivamente dai sondaggi politici ma quanto si possa sbagliare con la statistica facendo calcoli su presupposti fallaci fa impressione. C'è il caso britannico di una donna che a momenti veniva condannata per duplice omicidio (dei suoi due figli neonati) perché alla giuria erano stati presentati dati sballati sulla probabilità della sindrome da morte in culla... Per fortuna poi Parker vi insegna un sacco di trucchetti che possono essere usati per alleggerirvi il portafoglio nei giochi d'azzardo quando calcolate male le probabilità. Il che è meno macabro. Ma è solo l'inizio, vi farà vedere errori di conversione tra misure che schiantano sonde spaziali, statistiche inesistenti, banche che sbagliano conti da milioni... Però vi dirà anche di non spaventarvi. Matematica è sbagliare e cercare di capire il perché. Il problema è che gli umani vorrebbero solo conti facili. Ci si riesce al massimo restando alle dita delle mani. Ma Parker vi farà venire dubbi anche su quello.

Il giallo del mini-dinosauro: è stata contestata la scoperta di «Nature». Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. Non è un dinosauro, non è un uccello ma un esemplare giovanile di 99 milioni di anni fa di un rettile simile alle lucertole. Ha suscitato molto interesse l’articolo di Nature sulla scoperta, dentro in un ciottolo di ambra di 3 centimetri, di un cranio di circa 1 centimetro attribuito a un dinosauro. Non a un dinosauro qualunque, ma al più piccolo dinosauro mai trovato. L’esemplare doveva pesare al massimo 2 grammi e somigliare a un colibrì. Cambierebbe la storia evolutiva degli uccelli. Solo che l’Oculudentavis khaungraae, questo il suo nome, non è un dinosauro a forma di colibrì. Ne è sicuro Andrea Cau, paleontologo dei vertebrati, tra i massimi esperti europei di dinosauri e in particolare degli animali al passaggio tra rettili e uccelli. Contattato dal Corriere, il ricercatore esprime dubbi sullo studio di Nature. «Ho sentito stamattina (giovedì, ndr) molti colleghi internazionali specializzati che manifestavano riserve e le argomentavano nei blog settoriali». Tanti, a suo dire, i punti controversi che gli autori stessi citano più volte. «Il giacimento di ambra è conosciuto dai paleontologi, ma non ha mai restituito dinosauri o uccelli così piccoli, invece ha dato una grande quantità di lucertole di varie specie», spiega Cau, che studia da 20 anni questo settore di nicchia della paleontologia del Mesozoico e ha «battezzato» otto specie di dinosauri. «Gli stessi autori se ne rendono conto e avvertono della stranezza, ma vanno avanti a discutere del cranio del dinosauro-colibrì. Chi conosce bene la materia sa che il cranio di esemplari giovanili di rettili, come i coccodrilli, somiglia a quello degli uccelli moderni. Penso che l’errore sia dei revisori di Nature, che forse non erano del tutto competenti su una materia così specialistica. Se mi avessero mandato l’articolo per un controllo prima di pubblicare avrei posto il veto a meno che gli autori non avessero portato prove più convincenti». Poi c’è un problema etico. «Il giacimento di ambra è al confine tra Myanmar e Cina, una zona di guerriglia dove questi sassi di resina fossile sono venduti al mercato nero per finanziare i miliziani e per estrarli vengono utilizzati minori in condizioni di semi-schiavitù. Il mondo scientifico ha chiesto più volte di non usare questi reperti. Gli autori stessi, in fondo all’articolo, hanno messo una nota in cui assicurano che sono venuti in possesso dell’esemplare in modo “pulito”». Come finirà la questione? «Non mi meraviglierei se tra sei mesi uscisse un articolo in cui si ammette l’errore — assicura Cau —. Se poi salta fuori un altro ciottolo con un pezzo di ala di uccello assieme a un cranio similare, sono pronto a scusarmi. Ma non succederà».

·        E se il Big Bang non fosse mai esistito?

Così l'Universo forgia l'oro grazie ai cadaveri delle stelle. Un'altra protagonista nella creazione della materia: la forza debole, l'interazione responsabile dei decadimenti. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Nell’ultima serie di articoli siamo andati giù fino all’infinitesimamente piccolo delle particelle elementari. Abbiamo poi parlato di come la forza forte tenga insieme alcune di queste, i quark, per creare protoni e neutroni e di come riesca a vincere la repulsione elettromagnetica tra protoni per tenerli insieme a formare nuclei. Abbiamo accennato anche a come la stessa forza elettromagnetica fa invece sì che gli elettroni possano orbitare intorno ai nuclei a formare gli atomi degli elementi della tavola periodica, e quindi di tutta la materia che conosciamo. Ma non vi abbiamo ancora raccontato, e lo faremo oggi, dove, come e quando sono stati forgiati questi elementi. Nel nostro racconto interverrà una protagonista inaspettata, l’unica forza di cui non abbiamo ancora parlato, e forse la più sconosciuta ai più: la forza debole. Ma andiamo con ordine, partendo dalle origini dell’Universo. Subito dopo il Big Bang (o Big Bounce, leggi qui) l’Universo era popolato da una zuppa incandescente di particelle elementari, tra cui i quark. Per gli scopi di questo articolo, potete immaginarvi queste particelle con energie altissime, scontrarsi come pazze. Dopo pochi minuti, la zuppa si è raffreddata —per modo di dire, stiamo comunque parlando di miliardi di gradi, ma sempre molto meno dei miliardi di miliardi di miliardi di gradi dei primi istanti di vita—. Questo raffreddamento ha consentito ai quark, in quel processo che viene tecnicamente chiamato “nucleosintesi primordiale”, di unirsi a formare protoni (che poi sono nuclei di idrogeno), neutroni e i primi atomi composti come deuterio (un protone e un neutrone) e elio (due protoni e due neutroni). Nei miliardi di anni successivi, questi elementi hanno cominciato ad agglomerarsi formando stelle, all’interno delle quali sono stati e ancora vengono creati altri elementi più “pesanti”, cioè con un numero maggiore di protoni nel nucleo. Le stelle riescono a formare nuclei pesanti “fondendo” tra loro i nuclei degli elementi più leggeri, ricavando inoltre da questi processi di fusione l’energia con cui brillano. Questo processo di nucleosintesi stellare è responsabile della creazione ad esempio del carbonio, elemento chiave della vita sulla Terra. Riesce però a creare solo atomi che contengono fino ad un certo numero di protoni. Oltre il ferro (26 protoni), infatti, la repulsione elettromagnetica dei protoni dei nuclei da fondere è tale da scongiurare la loro fusione. Eppure forse indossate un anello d’oro (79 protoni) o argento (47), misurate la febbre con un termometro al mercurio (80), e se non avete la fibra diretta starete probabilmente usando una connessione trasportata da cavi in rame (29). Se le stelle riescono a creare atomi contenenti al più 26 protoni, da dove vengono tutti questi altri atomi? Ci sono diverse teorie, non mutuamente esclusive. Una delle più accreditate è che si formino attraverso un processo chiamato “processo di cattura veloce di neutroni”, per gli amici “r-process”. Questo avverrebbe durante eventi astrofisici estremi come lo scontro di due stelle di neutroni, cioè i “cadaveri” di stelle molto massive formati (quasi) interamente di neutroni. Da questi scontri si formerebbero e verrebbero espulsi nello spazio interstellare agglomerati di un numero altissimo di neutroni. E a noi che ci interessa, penserete, visto che è il numero di protoni, e non quello di neutroni, a caratterizzare un elemento? È giunto allora il momento di presentarvi la quarta forza della Natura: la forza debole. Quest’ultima è una forza sui-generis e molto affascinante. Non è una forza che tiene insieme cose, come la gravità (che ci tiene ancorati al suolo) come la forza elettromagnetica (che tiene gli elettroni attaccati ai nuclei) o come la forza forte (che tiene insieme i nuclei e i quark). Non è neanche una forza che repelle (come fa la forza elettromagnetica con le cariche di stesso segno). È invece una forza con la caratteristica unica e spettacolare di saper trasformare una particella in un’altra, seguendo certe regole. Per esempio un muone si trasforma in elettrone, quark di un tipo possono diventare quark di un altro tipo, e soprattutto un neutrone può diventare un protone. In poche parole, la forza debole è l’interazione responsabile dei decadimenti. Grazie ad essa, quindi, alcuni neutroni degli agglomerati creati dallo scontro tra stelle di neutroni si trasformerebbero in protoni creando così elementi pesanti e arricchendo la tavola periodica con oro, argento e platino. Due estati fa è arrivata una prova sperimentale in favore di questa teoria. Il 17 Agosto 2017 l’esperimento LIGO negli States e VIRGO a Cascina (Pisa) hanno osservato il segnale delle onde gravitazionali emesse da due stelle di neutroni che “spiraleggiano” una intorno all’altra fino a scontrarsi. In pochi secondi è stato inviato un avviso a tanti altri esperimenti per puntare i loro telescopi verso la parte di cielo da cui è arrivata l’onda gravitazionale. Attraverso una misurazione precisa dello spettro della luce emessa dal prodotto di questo incredibile scontro, questi esperimenti riescono a sapere quali elementi sono riusciti a formarsi. In questo modo abbiamo visto per la prima volta l’Universo forgiare metalli preziosi!

Il tempo assoluto non esiste perché le masse lo curvano. In relatività generale non esistono più lo spazio e il tempo, esistono stelle, asteroidi, persone ed oggetti che interagiscono con lo spaziotempo. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 25/10/2020 su Il Giornale. Il tempo assoluto tanto caro a Newton e che ci sembra tanto naturale non esiste. Le teorie della relatività, ristretta prima e generale poi, ci hanno insegnato, teoricamente prima e a suon di esperimenti poi, che il tempo corre in maniera totalmente diversa a seconda di dove mi trovo, di come mi muovo, e di cosa c’è intorno a me. Al mare scorre più lentamente che in montagna e addirittura si fermerebbe se riuscissi a raggiungere e “cavalcare” un buco nero. Soffermiamoci un po’ di più su questo punto: che cosa vuol dire che il tempo scorre diversamente a seconda di dove sono, di come mi muovo e di cosa succede attorno a me? Vuol dire che l’intervallo temporale tra due eventi è diverso a seconda di dove sono, di come mi muovo e di cosa succede attorno a me tra quei due stessi eventi. Se durante una gara di velocità tra lumache, noi rimaniamo a sonnecchiare a bordo pista fino alla fine, mentre tu, stufo di aspettare, ti fai un giro in macchina nei monti vicini per tornare solo allo “sprint finale”, l’intervallo temporale tra l’inizio e la fine della gara sarà diverso per noi e per te. Il nostro intervallo temporale sarà minore del tuo, ovvero per noi sarà passato meno tempo e tu sarai invecchiato di più. La lumaca sulla quale avevamo puntato tutto potrebbe aver battuto il record della pista per noi, ma non per te. L’unità di tempo, il secondo, per una persona sulla Terra non è un secondo per una persona sulla stazione spaziale internazionale. Il metro temporale, quindi, non è unico e si modifica in maniera dinamica a seconda di quanto vicino io sia ad una massa, di quanto veloce mi muova e di come masse ed energia si muovono attorno a me. Questo è la grande rivoluzione sull’idea di tempo cominciata un secolo fa. E lo spazio? Beh lo sappiamo: la relatività generale ci dice che una grande massa lo curva. È anche facile da capire e da immaginare, basta mettere un peso su di un tappeto elastico ed ecco che quest’ultimo si curva. Muovo quella massa, o ne aggiungo un’altra facendole danzare una intorno alla prima, ed ecco che la curvatura del tappeto cambia continuamente, anche producendo onde (l’equivalente delle onde gravitazionali). Le cose in realtà non sono poi così semplici. L’esempio del tappeto ha infatti i suoi grandi meriti per aiutarci a visualizzare la curvatura dello spazio, ma bisogna stare attenti: lo spazio tridimensionale infatti si curva senza andare ad occupare una quarta dimensione spaziale (che fino a prova contraria non esiste) come invece fa il tappeto bidimensionale invadendo la terza dimensione. In termini tecnici lo spazio si curva intrinsecamente e non estrinsecamente. Non entriamo in ulteriori dettagli perché proprio sulla curvatura dello spazio è interamente dedicato il nostro precedente articolo. Ricapitoliamo: la relatività generale ha preso il tempo e lo spazio assoluti newtoniani che tanto ci piacciono e ci sembrano intuitivi, e li ha resi concetti fluidi, cangevoli e apparentemente controintuitivi. Sotto l’effetto di grandi masse ed energie lo spazio viene curvato (con le dovute accortezze di cui sopra), e il metro temporale perde la sua unicità, dilatandosi e restringendosi. Bene. Più o meno chiaro? Ottimo, allora riconfondiamoci le idee. Avrete sicuramente sentito dire, infatti, che nella rivoluzione einsteiniana dell’inizio del secolo scorso spazio e tempo smettono di essere entità distinte. Essi si fondono a formare lo spaziotempo, il tessuto quadridimensionale che, modificandosi sotto la presenza di masse ed energia, produce quello che noi chiamiamo attrazione gravitazionale. Abbiamo visto infatti che il tempo si modifica a seconda di dove sono nello spazio, così come lo spazio si modifica dinamicamente nel tempo, rendendo i due totalmente interconnessi e sullo stesso piano. In relatività generale non esistono più lo spazio e il tempo, esistono stelle, asteroidi, persone ed oggetti che interagiscono con lo spaziotempo, si muovono nello spaziotempo, modificano lo spaziotempo, e vengono tirati e strattonati dallo spaziotempo. Se quindi spazio e tempo sono così interconnessi, come è possibile che il loro modificarsi a causa della presenza di grandi masse sia così diverso? La risposta è che modifiche nella curvatura intrinseca e modifiche del metro sono in realtà due facce della stessa medaglia. Così come spazio e tempo sono entità inscindibili, così lo sono il metro temporale e quello spaziale: assieme formano il metro spazio-temporale. Più precisamente, formano l’oggetto fisico fondamentale del quale la relatività generale descrive la dinamica, ovvero la metrica spazio-temporale che definisce le distanze (spaziali e temporali) tra due eventi. Ricordate che a scuola vi hanno insegnato che la distanza tra due punti di coordinate (x1,y1,z1) e (x2,y2,z2) nello spazio è √[(x1 - x2)² + (y1 - y2)² + (z1 - z2)²]? Questa è la distanza definita dalla comune metrica euclidea. Se cambia la metrica cambiano le distanze tra i due punti con le stesse coordinate. Se ci aggiungo la dimensione temporale, ecco che avrò ottenuto una metrica spazio-temporale in grado di definirmi distanze spazio-temporali. Il punto è che matematicamente la curvatura intrinseca è totalmente determinata dalla metrica. Se cambia la metrica cambia la curvatura, e se la curvatura cambia, allora vuol dire che è cambiata la metrica. Quello che abbiamo capito quindi è che la relatività generale dice che l'effetto della presenza e del moto di masse ed energia sullo spaziotempo è quello di cambiare dinamicamente la metrica spaziotemporale. E questo implica che lo spaziotempo si curva, nel senso che la curvatura intrinseca del tessuto quadridimensionale cambia di conseguenza.

Così si curva lo spaziotempo. Lo spaziotempo è curvo. Ma cosa vuol dire? La differenza tra curvatura intrinseca e curvatura estrinseca. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 11/10/2020 su Il Giornale. Sì, lo sappiamo: è giunto il momento di affrontare l’annosa questione dello spaziotempo che si curva. Lo abbiamo accennato in molti degli articoli passati, rimandando a tempi migliori una spiegazione più approfondita. Quei tempi migliori sono arrivati. Lo spaziotempo, dicevamo, è curvo. Il quanto e il come si curva o si appiattisce, cioè la sua curvatura, dipende dalle masse ed energia presenti, cambia in continuazione qua vicino a noi, così come là vicino a due buchi neri che ballano, e addirittura si propaga sotto forma di onde. “Si, ok, state nuovamente sorvolando, cercate di confonderci parlando di buchi neri e onde gravitazionali”, penserete. “Ma che diavolo vuol dire che lo spaziotempo è curvo?” Avete ragione. Che lo spazio si curvi si può anche capire. Ma il tempo? Andiamo allora con ordine e per ora dimentichiamoci del tempo per concentrarci solo sullo spazio. Che in realtà, come vedremo, non è così semplice da capire come uno potrebbe immaginare. Uno spazio curvo possiamo immaginarlo e sappiamo cos’è (oltre al titolo di questa rubrica): la superficie di un pallone da basket, per esempio, è curva (in particolare è sferica). E sappiamo anche visualizzare come una massa possa curvare lo spazio sfruttando il classico esempio del telo elastico: se sopra un bel telo elastico piatto appoggio un pallone, il primo si deforma curvandosi sotto il peso della palla a spicchi. Più grande è la massa, maggiore sarà la deformazione. Ora prendiamo una piccola pallina di polistirolo. Se la lanciassimo sopra un telo piatto, questa correrebbe dritta senza esitazioni. Ma se la lanciamo sul telo “deformato” di cui sopra, allora seguirà una rotta diversa, orbitando magari intorno al pallone da basket per poi andarci a sbattere contro. È in questo modo che si spiega l’attrazione gravitazionale attraverso la curvatura dello spazio: due masse (la palla da basket e la pallina) non si attraggono tra loro perché tirate da una forza che agisce nello spazio, come diceva Newton, ma “cadono” l’una sull’altra scivolando sul tappeto deformato dalle loro stesse masse. Per usare le 12 parole con cui John Wheeler riassumeva la relatività generale di Einstein: Space-time tells matter how to move, matter tells space-time how to curve, ovvero “lo spaziotempo dice alla materia come muoversi, la materia dice allo spaziotempo come curvarsi”. Benissimo, non sembra nemmeno così difficile. Se ci pensiamo un po’ meglio, però, il telo dell’esempio, che è bidimensionale, si deforma andando ad occupare la terza dimensione disponibile. Nell'Universo però non funziona esattamente così. Secondo la relatività generale, infatti, massa ed energia curvano lo spazio tridimensionale nella sua interezza. Curvano cioè tutto l’Universo. E allora in cosa lo curvano? In cosa lo deformano? Cosa può andare ad occupare lo spazio se non è immerso in nient’altro? Per spiegarlo, torniamo a pensare al pallone da basket che, come detto, è curvo. Poniamoci questa domanda: come facciamo a sapere che la palla è curva? La risposta più semplice sarebbe: "Beh, si vede, no?". Ma ora immaginiamo, un po’ come in Flatlandia di Edwin Abbott Abbott (se non lo avete fatto, leggetelo, è geniale!), che la superficie del pallone sia abitata da esseri pensanti, bidimensionali anch’essi, i quali non siano consapevoli dell’esistenza di una terza dimensione. Per questa popolazione, che chiameremo gli Smilzi, l’intero universo è la superficie bidimensionale del pallone e non esiste altro, essendo essi inglobati nella superficie stessa, senza un “sopra” né un “sotto”. Secondo voi, ArchiSmilzo, il più intelligente tra la popolazione della palla a spicchi, può sapere se l’universo in cui vive è curvo oppure no? Per lui quel “Beh, si vede” non è più una spiegazione valida: ArchiSmilzo infatti non vede il pallone “da fuori” immerso nel mondo tridimensionale come noi. Anche riuscissimo a comunicare con lui e provassimo a spiegargli che noi vediamo una sfera, difficilmente riusciremmo a convincerlo. Il nostro geniale amico, però, scopre che se lascia il suo cane bidimensionale passeggiare sempre dritto senza mai fermarsi, ad un certo punto lo vedrà tornare al punto di partenza, spuntando alle sue spalle. ArchiSmilzo, che ha seguito attentamente le lezioni del grande SmilzEuclide, ricorda che in un mondo piatto questo non è possibile, e deduce quindi che lo spazio in cui lui vive in realtà è curvo. Non lo “vede” da fuori, ma lo deduce. In termini matematici, questa è la differenza tra i concetti di curvatura estrinseca e curvatura intrinseca. La curvatura estrinseca di una superficie è quella che “si vede” se guardiamo la superficie stessa immersa in uno spazio che possiede una dimensione in più. (Ad esempio: la superficie della sfera, che come detto è bidimensionale, noi umani possiamo vederla perché è immersa nel nostro mondo tridimensionale). La curvatura intrinseca, invece, è, come dice il nome stesso, una proprietà unicamente della superficie, indipendentemente dal fatto che sia immersa o meno in uno spazio esterno. La si deduce osservando le stranezze che possono accadere su di una superficie curva: cani che tornano indietro, linee parallele che si incontrano, ed altre ancora. E la si definisce e quantifica precisamente grazie a concetti e strumenti matematici molto più sofisticati di lasciare il proprio cane camminare sempre dritto. Attenzione: la sfera è curva sia intrensicamente che estrensicamente, ma i due concetti sono totalmente indipendenti. In particolare, si può pensare una superficie con curvatura instrinseca che non sia immersa in nessuno spazio, e che per la quale non ha proprio senso definire la curvatura estrinseca. Quella che sembra un'ulteriore complicazione, è in realtà la soluzione alle domande che ci eravamo posti qualche riga fa riguardo alla relatività generale. Avevamo detto infatti che una massa curva lo spazio nella sua interezza. E ci chiedevamo in “cosa” lo deforma visto che non è immerso in nient’altro. La soluzione quindi è che la presenza di massa ed energia cambia la curvatura intrinseca dello spazio che la circonda senza necessariamente andare ad invadere una quarta dimensione spaziale. La storia della masse che non si attraggono tirate da una forza, ma scivolano nello spazio curvo, con le dovute accortezze, rimane dunque valido. È solo maledettamente più difficile da visualizzare e digerire perché è difficile visualizzare la curvatura intrinseca di una superficie. Noi esseri umani tridimensionali siamo gli Smilzi nel nostro Universo tridimensionale. Con la differenza che una quarta dimensione spaziale proprio non esiste… Fino a prova contraria.

Il mistero dei buchi neri. Il Nobel della Fisica a Penrose, Genzel e Ghez per i loro studi sui "giganti cosmici". Vittorio Macioce, Mercoledì 07/10/2020 su Il Giornale. Buchi neri. Due parole per battezzare qualcosa che adesso ci sembra perfino familiare. Il merito è della scienza e un po' anche della fantascienza. Solo che si fa perfino fatica a immaginarli. È qualcosa che ha una massa così densa da curvare lo spazio-tempo, come una palla oscura su quel tappeto che per brevità chiamiamo universo. Se fosse possibile avvicinarsi restando in bilico sul confine, sull'orizzonte degli eventi, l'unica cosa che vedremmo è questa sfera buia che si mangia qualsiasi cosa, compresa la luce. Non sappiamo cosa ci sia lì dentro, di certo massa così concentrata da attirare tutto ciò che ci gira intorno. Una volta caduti al suo interno le leggi della fisica che conosciamo non valgono più. È un mistero. L'esistenza dei buchi neri era stata prevista da Albert Einstein nella Relatività generale, solo che perfino lui stentava a crederci. La sua teoria li prevedeva, ma la sua immaginazione restava scettica. Il nome Black Hole, adesso così popolare, ha solo 53 anni. È il 1967 quando il fisico statunitense John Wheeler, durante una conferenza, trova un nome semplice e suggestivo. L'indagine e le teorie sui buchi neri è chiaramente precedente. A scommettere davvero sull'esistenza dei buchi neri è stato però il fisico e matematico Sir Roger Penrose. Metà del Nobel 2020 della fisica è suo. Ci ha messo un po' di tempo ad arrivare, visto che ha 89 anni, ma il tempo come si sa è relativo. Penrose sostiene in Dal Big Bang all'eternità che la materia e l'energia si dissolveranno in una grande buco nero, ma da questo universo freddo e disfatto si ripartirà con un nuovo Big Bang. È la teoria dell'eterno universo. L'altra metà del Nobel va al tedesco Reinhard Genzel e alla statunitense Andrea Ghez. Hanno scoperto qualcosa di straordinario che ci riguarda in qualche modo da vicino. Al centro della nostra galassia, nel cuore della via Lattea, di cui il nostro sole è una sperduta periferia, c'è un oggetto invisibile ed estremamente pesante che governa le orbite di stelle e pianeti. È un buco nero supermassiccio.

La corsa dei buchi neri: da oggetti misteriosi a superstar dei Nobel. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 7 ottobre 2020. Come lo scorso anno, anche nel 2020 il riconoscimento è assegnato all’astrofisica: trionfano il britannico Roger Penrose, il tedesco Reinhard Genzel e l’americana Andrea Gez. Finalmente i buchi neri. Dopo oltre mezzo secolo di ricerche, teorie e modelli matematici, gli oggetti più misteriosi (e più spaventosi) del cosmo sono le superstar dei Nobel per la fisica. Come lo scorso anno, quando furono premiati James Peebels, Michel Mayor e Didier Queloz per le scoperte sui pianeti extra solari, anche nel 2020 il riconoscimento è assegnato all’astrofisica e a un eccezionale trio studiosi, In primis al grande matematico britannico Roger Penrose, 89 anni e autentico pioniere nel suo campo. Il suo instancabile lavoro, come si legge nelle tributo degli accademici svedesi, «è una robusta predizione della teoria generale della relatività», e le sue sofisticate equazioni non solo hanno dimostrato che i buchi neri sono oggetti possibili, ma che sono necessari, ossia non possono non esistere. Assieme a quello di Stephen Hawking (con il quale ha condiviso tutti i suoi lavori) il suo è senz’altro il più importante contributo alla relatività dopo ovviamente quello di Albert Einstein che è l’inventore della rivoluzionaria concezione. In un famoso articolo pubblicato nel lontano 1965 dal titolo “Il crollo gravitazionale” Penrose scrisse che l’implosione delle stelle più grandi doveva generare un oggetto che non risponde più alle normali leggi che regolano la materia il cui campo gravitazionale tende all’infinito, in quel punto a “dimensione zero” la stessa struttura geometrica della spazio- tempo non esiste più: si tratta di una “singolarità gravitazionale”, ossia un buco nero. Una mente sublime ed eclettica che ha partorito idee affascinanti come ad esempio il mitico “triangolo di Penrose”, «un oggetto impossibile nella sua forma pura» che ha influenzato non solo fisici e matematici ma anche artisti visivi come l’olandese Martius Cornelis Escher. L’altra metà del Nobel è andata a due astronomi particolarmente brillanti e tenaci nel “cacciare” i misteriosi oggetti in giro per lo spazio e a scovarli tra le coltri di polveri interstellari: il tedesco Reinhard Genzel ( 68 anni) e l’americana Andrea Gez (55 anni). Si deve a loro la scoperta di un massiccio buco nero che campeggia al centro della nostra galassia (la Via lattea), lo hanno cercato per 16 anni e grazie a telescopi sempre più potenti alla fine lo hanno trovato battezzandolo “Sagitarius A”. Si tratta della prima evidenza sperimentale dopo decenni di aspro confronto tra gli scienziati. Nel 2016 lo strumento di osservazione a infrarossi Ligo (Laser Interferometer Gravitational-Wave observatory) ne aveva colto un piccolo “frammento” registrando un’onda gravitazionale spiegabile solo come il risultato di una collisione di buchi neri avvenuta oltre un miliardo di anni fa. Ma è solo grazie all’immagine di Genzel e Gez se oggi possiamo affermare con certezza la loro esistenza. È stata una complessa caccia al tesoro, perché non stiamo parlando di corpi celesti visibili: non emettendo alcuna radiazione luminosa possiamo carpirli soltanto “per contrasto” ovvero misurarne gli effetti gravitazionali su altri corpi celesti. In particolare la grande forza che esercitano sul movimento delle stelle come nel caso di “Sagitarius A”, che possiede una massa quattro milioni di volte superiore a quella del nostro Sole concentrata in un volume piccolissimo rispetto a quello di una stella media. Si tratta di ammassi di spazio-tempo il cui limite, il cosiddetto orizzonte degli eventi, non viene descritto in termini spaziali ma per l’apponto temporali tanto le dimensioni sono interconnesse. Ci vuole una grande immaginazione scientifica per concepire entità esotiche e poco intuitive come i buchi neri senza l’aiuto di strumenti adatti a individuali, E fino a qualche anno fa la loro esistenza era un argomento controverso nella comunità accademica, una mera ipotesi secondo i più scettici. Piacevano soprattutto agli scrittori di fantascienza e ai registi di Hollywood, che in quei grandi divoratori cosmici vedevano delle intriganti suggestioni per le loro storie e le loro avventure. Nel corso del tempo, grazie soprattutto alla costanza di Hawking e Penrose e allo sviluppo della tecnologia di osservazione sono davvero rimasti in pochi a dubitare della loro esistenza. C’è da dire che Einstein non li ha mai amati e non ha mai sentito l’esigenza di nominarli, tanto che all’epoca non si chiamavano neanche così. Per corroborare la Relatività generale aveva ipotizzato l’esistenza di corpi celesti supermassicci e privi di luce in grado di curvare lo spazio tempo, ma per il geniale fisico tedesco non erano altro che “stratagemmi matematici”, utili soprattutto alla soluzione delle complesse equazioni che sorreggono la sua teoria. Si trattava di spazzare via la legge di gravitazione universale di Newton e la sua “costante cosmologica”, perfetta per descrivere i fenomeni terrestri ma spuntata per rendere conto del funzionamento di universo dinamico, continuamente piegato e curvato dalla gravità. Il “Dio orologiaio” del fisico inglese governa in tal senso un universo eterno e soprattutto statico che non può far altro che collassare su se stesso mentre l’immagine della fisica moderna post-ensteiniana ( in particolare le ricerche dell’astronomo statunitense Edwin Hubble) è quella di un universo in continua espansione in cui le proprietà dello spazio sono alterate dalla presenza dei campi gravitazionali ( moto di allontanamento delle galassie), e la luce stessa ne viene deviata. Come ha ricordato Andrea Gez, quarta donna a ricevere il Nobel per la fisica, «in pochi capiscono cosa sia e come funzioni un buco nero, gli stessi astronomi non hanno alcuna idea di cosa contengano al loro interno, le leggi della fisica che operano attorno alla sua massa sono completamente diverse da quelle che osserviamo sul nostro pianeta, e spingono ai limiti massimi la nostra comprensione».

"Viaggiare nel tempo o in un buco nero? Niente è impossibile". La fantascienza immagina cose strabilianti, ma non è solo fantasia. Il fisico spiega perché. Eleonora Barbieri, Sabato 19/09/2020 su Il Giornale. Cosimo Bambi, fiorentino, classe 1980, cervello fuggito a Shanghai dove insegna Fisica all'Università di Fudan, e dove spera di tornare in ottobre («ero rientrato per la pausa invernale, non sono più ripartito...»), in Cina fa soprattutto ricerca in ambito astrofisico: «Mi occupo di buchi neri e di test di relatività generale, per vedere se ci siano evidenze di deviazioni dalla teoria». Ci sono? «No» dice, ricordando che «sono sessant'anni che noi fisici ci proviamo» e, quindi, «prima o poi qualcuno troverà un'anomalia». In attesa di realizzare questo sogno, che «potrebbe essere l'inizio di un nuovo filone di ricerca», Bambi si è dedicato ai sogni fantascientifici diventati realtà, ma solo nei film di fantascienza: dalla vita su altri pianeti alle astronavi che viaggiano alla velocità della luce, dalla possibilità di entrare in un buco nero a quella di viaggiare avanti e indietro nel tempo. È arrivato alla conclusione che Niente è impossibile (ilSaggiatore, pagg. 198, euro 17), o quasi...

Come le è venuta l'idea di occuparsi dell'impossibile?

«La relatività generale e teorie fisiche affini si sentono in molti film, e sono anche un po' miticizzate, ma spesso non è chiaro quali siano le previsioni della teoria, e quale la parte di fantasia. Serviva una specie di bilancio tra fisica e fantascienza, anche se tante cose poi non sono né l'una né l'altra, perché tante cose non si conoscono».

Una soluzione diplomatica?

«No, questo è il modo in cui i fisici stessi procedono, consideri tanti scenari e poi vai a vedere le osservazioni. La fisica del '900 è strana, e certe cose sono controintuitive per la fisica percepita nella vita di tutti i giorni».

Per esempio che il tempo non scorra in modo uguale per tutti e quindi qualcuno possa invecchiare più velocemente di un altro, come in Navigator o Interstellar.

«Il tempo scorre a velocità diverse a seconda del moto o del campo gravitazionale mentre, per come lo percepiamo noi, dovrebbe essere assoluto. Ma questa non è fantascienza, è vero. La prova è nei satelliti gps che, ogni giorno, misurano queste piccole differenze rispetto agli orologi sulla Terra e, infatti, devono continuamente essere sincronizzati».

Si parla perfino di extradimensioni temporali.

«Dal punto di vista matematico è stata considerata anche questa possibilità però, di solito, quando si parla di extradimensioni si pensa allo spazio».

Esistono altre dimensioni?

«Personalmente sono scettico, però tanti miei colleghi la considerano un'ipotesi molto seria. E quello che non si può escludere, non si esclude».

Saremmo come gli abitanti di Flatlandia, che non si accorgono delle altre dimensioni?

«Non si sa perché non le percepiremmo, però sì, potremmo essere come loro. Magari esiste anche un'extradimensione in cui viaggiare molto più velocemente».

Per muoverci avanti e indietro nell'universo?

«In Star Trek l'astronave viaggia velocissima grazie alla propulsione a curvatura, in Star Wars c'è l'iperspazio: sono situazioni in cui ci si può muovere velocemente da una parte all'altra della galassia, delle scorciatoie, modelli che potrebbero essere possibili oltre la relatività generale».

Ma di fatto?

«Li vedo improbabili. In Interstellar c'è il wormhole, un cunicolo, un buco che ci fa entrare da una parte dell'universo e uscire da un'altra, molto più lontana, senza bisogno di viaggiare alla velocità della luce. I wormhole non sono esclusi dalla relatività generale, anche se non sappiamo se ci siano davvero».

Un wormhole sarebbe possibile?

«Diciamo che, senza eccessi, un wormhole sarebbe utile, una strategia semplice per andare da una parte all'altra dell'universo. Non a caso, in Interstellar il wormhole è vicino a Saturno, per poter andare in un'altra galassia. E non può essere escluso».

Che cos'altro non è escluso?

«Viaggiare nel tempo. Detto così sembra folle, ma la relatività generale ha soluzioni in cui si può andare indietro nel tempo e poi tornare al punto di partenza. Questo non significa che sia possibile...»

Come in Ritorno al futuro? Non si viola il principio di causalità?

«Dal punto di vista della relatività generale si può. Per quanto riguarda la causalità, un principio è un principio, poi un giorno ci si accorge che può essere violato, e allora diciamo che ci si sbagliava... Comunque c'è uno stratagemma, il multiverso, universi paralleli in cui si può viaggiare nel tempo senza violare la causalità dell'altro universo».

Nei film non mancano mai alieni e buchi neri.

«Il buco nero piace nei film, ma piace anche ai fisici. Perché è una cosa strana, estrema: che cosa ci sia dentro, beh, lascia spazio a tanti scenari, può esserci un altro universo, o qualcosa di perfino più strambo, che non possiamo immaginare, perché le previsioni della relatività generale sono poco plausibili dove c'è una singolarità. Come non possiamo immaginare la nascita dell'universo».

E gli alieni? C'è vita intelligente su altri pianeti?

«Non è improbabile, ma il problema è la distanza: l'universo non pullula di vita intelligente, se siamo sparsi qua e là potremmo rimanere per sempre disconnessi, un po' come nel Medioevo».

Servirebbe l'astronave di Star Trek?

«Questi stratagemmi li vedo difficili da realizzare, ma chi lo sa. Nessuno sa che cosa sia la fisica, bisogna esplorarla».

Individuato un enorme buco nero nell'Universo primordiale. Pubblicato venerdì, 03 luglio 2020 da La Repubblica.it. Poniua'ena, ovvero "sorgente rotante invisibile della creazione", è il nome hawaiano del secondo quasar più lontano mai osservato dall'uomo. Si trova a circa 13,1 miliardi di anni luce di distanza e contiene al suo interno un enorme buco nero. La scoperta, descritta in un articolo pubblicato sulla rivista Astrophysical Journal Letters dagli esperti dell'Università dell'Arizona, è stata effettuata grazie a tre osservatori hawaiani: il WM Keck Observatory, l'International Gemini Observatory e lo United Kingdom Infrared Telescope (UKIRT) di proprietà dell'Università dell'Hawaii. "Poniua'ena - spiega Jinyi Yang, dello Steward Observatory dell'Università dell'Arizona - è solo il secondo quasar rilevato a una distanza così elevata e risalente all'Universo primordiale. Il sistema ospita un buco nero di dimensioni doppie rispetto al precedente oggetto simile conosciuto", prosegue l'esperto, precisando che i quasar sono caratterizzata dai livelli più alti di energia e da quando sono stati scoperti gli astronomi si interrogano sulle loro origini. "Le osservazioni spettroscopiche - continua Yang - mostrano che il buco nero che alimenta Poniuàena ha una massa di circa 1,5 miliardi di volte quella del Sole e si è formato circa 700 milioni di anni dopo il Big Bang". Il team sostiene che le dimensioni del buco nero rappresentano una sfida per la comprensione attuale dell'Universo, dato che una singolarità così estesa richiederebbe molto più tempo per formarsi. "Secondo la teoria attuale - ricorda Xiaohui Fan, docente presso il Dipartimento di Astronomia dell'Università dell'Arizona - le stelle e le galassie avrebbero iniziato a formarsi circa 400 milioni di anni dopo il Big Bang, così come i primi buchi neri, ma le dimensioni di Poniua'ena indicano che la singolarità avrebbe richiesto almeno 300 milioni di anni in più, il che significa che avrebbe dovuto iniziare a formarsi circa 100 milioni di anni dopo il Big Bang". Stando alle dichiarazioni degli scienziati, dunque, Poniuàena porrebbe nuovi interrogativi sulla nostra comprensione di fenomeni particolari. "Questa scoperta - commenta Joseph Hennawi dell'Università della California Santa Barbara e terza firma dell'articolo - è davvero emozionante. Siamo davvero entusiasti di continuare le osservazioni e speriamo di trovare delle risposte agli interrogativi che abbiamo sollevato grazie a Poniua'ena", conclude.

Misteriosa scoperta nel Gran Sasso: in dubbio la legge di Newton o le galassie sono formate da materia oscura. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista il 21 Giugno 2020. Leonardo da Vinci aveva un cruccio, una cosa proprio non gli andava giù. Aristotele insegnava che ogni oggetto ha il suo luogo naturale, in cui risiede, o in cui vuole tornare se per qualche ragione ne è stato allontanato. I corpi solidi e massicci riposano a terra, quelli leggeri e aeriformi salgono in cielo. Nella rudimentale esperienza scientifica che poteva fare ai suoi tempi – non era ancora arrivato Galileo a spiegare come si esegue correttamente un esperimento – questa regola non sembrava tollerare eccezioni. Sasso? Massiccio, a terra. Fuoco? Etereo, in cielo. E così via per tutto ciò che si poteva osservare. O quasi… Scrive Leonardo nei suoi appunti: «La Luna, densa e grave, densa e grave! Come sta la Luna?». Immaginiamo il tormento del genio: la Luna è roccia, ne abbiamo tante prove, solida roccia. Ma… allora, come fa a stare lassù? Perché non cade sulla Terra, come farebbe ogni roccia che si rispetti? È vero, anche la polvere solida talvolta è sollevata da un turbine. Tuttavia non può restare indefinitamente in aria e, quando cessa l’azione del vento, ricade nel posto che gli compete, al suolo. Invece la Luna, enormemente più grande di una minuta particella di polvere e, quindi, alla stregua di un masso, insensibile anche alle folate più intense, resta sospesa nel cielo. Che abbia ragione chi afferma che sono gli angeli del Primo Cielo Mobile a sostenerla e spingerla intorno alla Terra? Leonardo non era tipo da credere a influssi mistici sulla materia inerte, però, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a trovare una valida spiegazione alternativa. Sono certo che avrebbe scambiato con gioia il castello di Amboise per poter parlare un quarto d’ora con Galileo o Keplero. Per certi uomini, una parola di verità vale più di tutti i beni venali del mondo. Sì, ma che c’entra con la materia oscura? Abbiate dieci righe di pazienza e lo saprete. Perché Leonardo era così angustiato? Perché credeva fermamente che la legge che regola il moto dei corpi dovesse essere universale. La Luna non poteva perciò fare eccezione. La legge aristotelica a cui si ispirava era sbagliata, ma più che la fede sulla correttezza di questa legge, Leonardo aveva fede nell’esistenza di una legge. Se gli avessero proposto una legge diversa da quella di Aristotele, che abbracciasse rocce e polvere, aria e fuoco – e la Luna – e desse conto di tutti i loro comportamenti, l’avrebbe sicuramente accolta con entusiasmo. L’importante era che ci fosse una sola legge: la legge di Dio nell’alto dei cieli, la legge degli uomini nei tribunali, la legge di Natura nel mondo della materia bruta. I fisici moderni condividono con Leonardo l’aspirazione e la fiducia che tutti i fenomeni dello stesso tipo siano governati da un’unica legge universale, ovvero, in termini moderni, da una sola equazione che esprime tale legge. Per l’attrazione reciproca dei corpi, terreni o celesti, e per il loro movimento è la legge di gravitazione universale di Newton. Niente più luoghi di elezione come voleva Aristotele e niente più angeli, come proclamavano i mistici, ma solo una regola generale che descrive il moto dei corpi massivi dovuto alla loro reciproca attrazione. Einstein perfezionò in seguito questa equazione, ma a quasi tutti gli effetti pratici, le correzioni che apportò sono poco rilevanti. Ed ecco che un bel giorno, anzi un brutto giorno, dopo quasi mezzo millennio, gli astronomi sono ripiombati nell’incubo di Leonardo. Stavolta a turbare le loro certezze non era il movimento della Luna, ma quello delle galassie a spirale. Le galassie a spirale sono come dei giganteschi gorghi di stelle: riempite il lavandino di acqua, togliete il tappo e l’acqua comincerà a girare intorno ad un asse centrale che passa per il buco dello scarico, formando un vortice. Come avremo notato tutti, ruoterà più velocemente al centro, in prossimità dell’asse e più lentamente man mano che ci si allontana dal centro. E fin qui tutto regolare: la velocità di rotazione diminuisce allontanandosi dal centro, in un modo ben definito. Ad esempio, raddoppiando la distanza si dimezza la velocità (è solo un esempio). Ma cosa diremmo se, stappando alcuni lavandini, questa velocità, anziché dimezzarsi, restasse invariata? Sarebbe un bel problema…Ed è proprio il problema in cui si sono impantanati astronomi ed astrofisici. Nei vortici delle galassie a spirale, le stelle che sono nella periferia della galassia ruotano più rapidamente di quanto non dovrebbero! A questo punto ci sono due spiegazioni possibili: o la legge di Newton non vale in tutto l’universo, oppure le galassie sono in realtà formate da più materia rispetto a quella che vediamo. Tale materia in eccesso imprimerebbe una velocità di rotazione superiore alla velocità che ci aspetteremmo. Materia in eccesso che non vediamo? Aspetta un attimo, ho il nome adatto. Chiamiamola “materia oscura”! Quando l’evidenza conta più della fantasia…Esaminiamo le due ipotesi alternative. La prima è che la legge di gravitazione universale non sia davvero universale. La cosa ci turberebbe parecchio. Non è impossibile, ma molto improbabile, perché gli innumerevoli casi in cui funziona perfettamente sarebbero da attribuire a una fortuna sfacciata, a cui lo scienziato medio è poco propenso a credere. La seconda ipotesi, ovvero che esista effettivamente della materia oscura di cui non sappiamo nulla, ci turba pure, ma un po’ meno della precedente. Potremmo farcene una ragione.  E allora cerchiamola questa materia oscura ed evanescente. Come sì fa? Per prima cosa, ce ne andiamo sotto il Gran Sasso, nei laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, che sono protetti da uno strato di oltre un chilometro di roccia. In questo modo, si ha uno schermo efficace per bloccare le altre particelle che vagano nel cosmo e che, essendo enormemente più abbondanti, accecherebbero il rivelatore, come uno che volesse trovare una lucciola in pieno giorno. Anche se ci fosse, la sua luce sarebbe sovrastata da quella del sole. Il rivelatore, chiamato Xenon1T, è un grande serbatoio dentro il quale ci sono tanti atomi che, se sono accidentalmente urtati da una particella che riesce a trapassare la montagna, reagiscono emettendo un lampo di luce. Siccome, nonostante lo schermo della roccia, qualche particella esterna – insieme ad altre particelle prodotte all’interno del laboratorio stesso – arriva comunque nel rivelatore, i lampi ci sono sempre. La notizia che ha suscitato molta sensazione è che nell’ultimo periodo si sono contati più lampi di quelli che si prevedevano. I lampi previsti sono attribuibili alle particelle note, ma quelli in eccesso? Se ci assistesse quella fortuna in cui, d’altronde, non confidiamo, potrebbero essere dovuti all’ingresso nel rivelatore di particelle di materia oscura. È presto, prestissimo, per mettere in fresco lo spumante e in testa i cappellini di carta. Troppo spesso ricerche egregie sono state screditate da annunci prematuri. Ma se, e sottolineo se, ulteriori dati, esperimenti e verifiche dovessero confermare che si tratta di quello che vorremmo fosse, al capoprogetto di Xenon1T il premio Nobel per la Fisica non lo strappa dalle mani neanche il campione del mondo di scippo acrobatico.

Possono essere i quark instabili a formare la materia oscura? Le risposte ai lettori sulla fisica delle particelle, i quark e la materia oscura. La nuova analisi dell'esperimento XENON. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 21/06/2020 su Il Giornale. Sembra proprio che la fisica delle particelle vi abbia coinvolto, e abbia stimolato la vostra curiosità. Purtroppo non possiamo rispondere a tutte le vostre (tante) domande, e oggi ne abbiamo scelta una che ci ha colpito particolarmente perché cerca di collegare l’ultima serie di articoli con alcuni di qualche settimana fa.

Ci chiedete, infatti, se i quark di generazione II e III possono spiegare la materia oscura. Concedeteci prima un piccolo riassunto (per maggiori dettagli potete leggere qui e qui): l’85% della materia che costituisce il nostro Universo è invisibile ai nostri più sofisticati strumenti di misura. Sappiamo che esiste perchè vediamo come interagisce gravitazionalmente con la materia che vediamo, ma non riusciamo a vederla e non sappiamo di cosa è fatta. Non interagisce con la forza elettromagnetica, né con la forza forte di cui abbiamo parlato nell’ultimo articolo (leggi qui). Questo rende particolarmente difficile il compito di studiarla sperimentalmente. È quindi assente dal Modello Standard, la nostra teoria più avanzata per spiegare la materia e le sue interazioni, e rimane uno dei misteri più grandi per la fisica. Sono state proposte una moltitudine di ipotesi per spiegare la materia oscura, molte delle quali richiedono l’introduzione di nuove particelle e forze che non conosciamo. L’ipotesi del lettore invece rientra tra quelle che cercano di spiegare la materia oscura con particelle che già conosciamo. Nel Modello Standard, le particelle di materia conosciuta sono divise in tre famiglie, dette generazioni (vedi immagine sotto). Solo la prima generazione forma particelle stabili, tra cui neutroni e protoni. Le altre sono altamente instabili e si possono osservare solo in esperimenti ad alte energie o nei raggi cosmici (leggi qui). Ma non è che da qualche parte nell’Universo le condizioni sono tali che le particelle fondamentali di famiglie diverse dalla prima riescono ad unirsi a formare materia stabile? E se così fosse, non è che è proprio questo tipo di materia a costituire quello che non conosciamo e chiamiamo materia oscura? Ipotesi interessante. Proviamo ad approfondire, procedendo per gradi. Il primo punto da chiarire è il seguente: se abbiamo detto che i quark di generazione superiore alla prima sono instabili, come possono mai formare materia stabile? In realtà particelle che sono instabili quando libere da legami, possono diventare stabili se legate ad altre particelle. E di questo fatto ne facciamo esperienza ogni giorno. Un neutrone libero, infatti, è instabile e decade mediamente nel giro di 15 minuti. Quando legato ad altri neutroni ed a protoni, invece, diventa stabile e permette di formare tutti i nuclei degli elementi della tavola periodica, fino addirittura stelle composte quasi solo di neutroni. Non abbiamo però evidenza al momento di particelle stabili composte da quark di seconda e terza generazione. Secondo punto: la fisica con la quale descriviamo la Natura standocene qui sulla Terra, o al massimo con esperimenti nel sistema solare, funziona altrettanto bene in parti dell’Universo lontane miliardi di anni luce? Non lo sappiamo con certezza. Quello che sappiamo è che assumendo che sia così, le nostre teorie sembrano funzionare molto bene. Senza questa assunzione l’astronomia e la cosmologia non esisterebbero come scienze. Bene, accettiamo quindi questa assunzione. Sotto questa condizione, allora, possiamo dire che no, nell’Universo vicino e remoto, non ci sono al momento evidenze di materia stabile formata da quark diversi da quelli della prima generazione. Tra le varie ipotesi per la materia oscura, l’unica di cui siamo a conoscenza che coinvolge materia di generazioni diverse dalla prima, prende il nome di “stangelet”. Sono ipotetiche particelle formate da un numero uguale di quark up, down e strange. Dobbiamo essere sinceri, non sappiamo molto su questa ipotesi, ma sicuramente è, come tutte le altre, molto difficile da testare sperimentalmente. La natura ultima della materia oscura è infatti una delle grandi domande ancora irrisolte della fisica. Questo tipo di problemi sono linfa vitale per la ricerca in fisica perché ci costringono a spingere all’estremo la nostra immaginazione così come le nostre tecniche matematiche e sperimentali. Allo stesso tempo sono spesso accompagnate da un numero esiguo di dati e osservazioni diretti che rende molto difficile discernere tra le varie ipotesi matematicamente plausibili. Ogni piccola, anche indiretta, evidenza può essere fondamentale per indirizzare e guidare la nostra comprensione. Pochi giorni fa, il 17 Giugno, la collaborazione internazionale di scienziati che lavora all’esperimento XENON con base ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso, ha presentato una nuova analisi dei loro dati dalle conseguenze possibilmente molto interessanti. L’esperimento è considerato il più sofisticato e sensibile al mondo per la ricerca diretta della materia oscura, e ogni annuncio da parte della collaborazione desta comprensibilmente molto scalpore. La notizia è che i dati presentano una piccola anomalia rispetto a quello che ci aspetteremmo con la fisica che conosciamo. E tale anomalia è compatibile con l’esistenza di un tipo di nuove particelle ipotizzate chiamate “assioni solari”. Ora, il collegamento con la materia oscura è indiretta. Gli assioni solari infatti non sono considerati possibili componenti della materia oscura. La loro conferma, però, darebbe credito all’esistenza anche di altri tipi di assioni, non prodotti nel sole, ma prodotti nelle prime fasi di vita dell’Universo. E questi sì sono una delle ipotesi per spiegare questo 85% di materia invisibile! Ci sono, purtroppo, alcuni “però”. Innanzitutto l’articolo scientifico deve ancora passare tutti gli step di controllo e review per la pubblicazione ufficiale in una rivista scientifica: in termini tecnici è ancora allo stato di pre-print. Ma questo è probabilmente solo questione di tempo. Il grande “però” è un altro. Gli scienziati, soprattutto su risultati che potrebbero avere un grande impatto su grandi problemi aperti della fisica, sono solitamente molto prudenti e cercano di tenere in considerazione tutti i possibili fattori che potrebbero influenzare il risultato. Nel caso di XENON, lo stesso articolo fa notare che l’anomalia non è solo compatibile con l’esistenza degli assioni solari, ma anche con la presenza di piccolissime impurità (piccolissime quantità di trizio) nell’apparato sperimentale. Allo stato attuale, quest’ultima sembra, purtroppo, l’ipotesi più plausibile. A meno che non si riesca ad escludere in maniera indipendente la presenza di trizio in XENON, l’attesa per evidenze sperimentali anche indirette che favoriscano un’ipotesi sopra le altre per spiegare il mistero della materia oscura continua.

I segreti della "forza forte" che tiene coesi i nuclei atomici. I protoni possono stare gli uni vicini agli altri, anche se positivi. Perché? Come funziona una delle quattro forze fondamentali della natura. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 14/06/2020 su Il Giornale. Gli opposti si attraggono e questo, almeno per l'elettromagnetismo, è vero e permette ai nuclei degli atomi, carichi positivamente, di tenersi stretti gli elettroni, carichi negativamente. Ma cosa tiene insieme i nucleoni, ovvero i protoni e i neutroni che costituiscono il nucleo? Vi siete mai chiesti come i protoni, tutti positivi, riescano a stare gli uni vicini agli altri? In effetti, se l’elettromagnetismo fosse l’unica forza in gioco, la repulsione tra gli protoni sarebbe talmente potente da spararli via a una velocità relativa di circa 12000 km al secondo. Deve quindi esistere un altro meccanismo, un’altra forza così forte da sovrastare la repulsione elettromagnetica e tenere i nuclei insieme. Questa forza esiste, è una delle quattro forze fondamentali della natura che conosciamo e si chiama, rullo di tamburi e applausi per la fantasia, “forza forte”. Se questa forza è così potente da tenere due protoni insieme sovrastando la repulsione elettromagnetica, perché allora non abbiamo atomi con tantissimi protoni? Anzi, perché tutti i protoni dell’universo non si sono uniti in un unico nucleo gigante? Il fatto è che la forza forte che tiene uniti i protoni, detta forza nucleare forte, agisce solo su brevissime distanze. Immaginate due strisce di velcro: stanno unite quando sono a contatto, ma una volta separate non sentono alcuna attrazione reciproca. È una forza a corto raggio. La forza elettromagnetica invece agisce anche a distanze molto maggiori. Quindi, mentre i protoni di un grosso atomo sentono solo l’attrazione forte dei nucleoni che gli sono più vicini, subiscono invece la repulsione elettromagnetica di tutti i protoni. Oltre un certo numero di protoni, quindi, la forza elettromagnetica torna ad essere preponderante, impedendo ai nucleoni di formare assembramenti troppo grandi. Ed è per questo che la tavola periodica non contiene atomi con numero di protoni arbitrariamente grande, o che l’Universo non è popolato da un solo enorme nucleo fluttuante, bensì da stelle, pianeti, buchi neri, ecc. Negli scorsi tre articoli abbiamo visto come i nucleoni stessi siano composti da particelle più elementari: i quark, che insieme all’elettrone e i suoi fratelli più pesanti, ai neutrini e ai bosoni mediatori delle interazioni, sono gli ingredienti fondamentali che costituiscono tutta la materia visibile che conosciamo. Il protone, per esempio, è formato da due quark up e un down. Con uno sguardo più attento alla “moderna tavola periodica degli elementi” (vedi l’immagine sopra), scopriamo scritto in piccolo che la carica del quark up è positiva (+2/3) e quella del quark down negativa (-⅓). Anche in questo caso, la sola forza elettromagnetica porterebbe i due quark up a separarsi l’uno dall’altro. E anche in questo caso, viene in nostro aiuto la protagonista di questo articolo: la forza forte. Essa, infatti, agisce sui quark tenendoli insieme a formare tutte le particelle non elementari che conosciamo. Lo fa attraverso lo scambio di alcune particelle che trasportano questa forza, i gluoni, dall’inglese glue che vuol dire colla. I quark e i gluoni sono le uniche particelle elementari conosciute che sentono la forza forte. La forza elettromagnetica la conosciamo tutti, e sappiamo che gli oggetti che interagiscono elettromagneticamente possono essere di due tipi, che chiamiamo carichi positivamente o carichi negativamente. Le cariche relative alla forza forte, invece, sono tre, e il loro comportamento è tale che sono state chiamate in analogia con i colori fondamentali dell’ottica: quark e gluoni possono essere verdi, rossi e blu. Ovviamente questa è solo un’analogia, le particelle non hanno un colore in senso ottico. Come l’elettrone ha carica elettrica negativa, così un quark può avere “carica di colore” (cosi si dice) blu. La scelta di questa analogia non è casuale, permettendoci infatti di capire in modo semplice come i quark possono unirsi a formare particelle come i protoni e i neutroni, ma anche altre più esotiche (dello zoo delle particelle abbiamo parlato qui). La regola è molto semplice: possono esistere isolate solo particelle “bianche”. Un singolo quark, quindi, avendo un suo “colore” giallo, rosso o verde, non può essere osservato da solo. Però quark di tre colori diversi possono combinarsi per formare una particella “bianca”, così unendo luce gialla, rossa e verde in ottica otteniamo la luce bianca. Le particelle ottenute con tre quark, come protoni e neutroni appunto, sono chiamate “barioni”. C’è un altro modo per ottenere particelle bianche: unire un quark con un anti-quark, le antiparticelle dei quark. Le antiparticelle, infatti, sono particelle identiche alle loro sorelle particelle, ma con cariche opposte (ne abbiamo parlato qui). Possono quindi avere cariche di colore opposte, o anti-colore. Unendo quark di un certo colore con col relativo anti-colore otteniamo particelle bianche chiamate “mesoni”. Esistono anche combinazioni, più rare, di più di tre quark, sempre uniti in modo da dare una particella bianca. Tutti questi giochi di colori sono descritti matematicamente da una bellissima teoria fisica che prende il nome di “cromodinamica quantistica”, la teoria che descrive e definisce l'interazione forte e che è parte di quella strabiliante teoria del quasi-tutto che è il Modello Standard delle interazioni fondamentali (leggi qui). Concludiamo con un’ultima curiosità: ricordate gli stati della materia che abbiamo studiato a scuola, solido, liquido e gassoso? Alzare la temperatura allenta i legami tra le molecole di un solido rendendolo liquido. Un ulteriore aumento della temperatura rompe del tutto i legami molecolari portandolo allo stato gassoso. Abbiamo raccontato qui come alzare ancora la temperatura permetta di rompere i legami all’interno della molecola e degli stessi atomi portando al quarto stato della materia, il plasma, in cui nuclei ed elettroni si muovono liberamente gli uni rispetto agli altri. Fin qua abbiamo parlato di legami tra molecole, atomi, protoni e nucleo, cioè legami elettromagnetici. Adesso potremmo chiederci, raggiungendo temperatura ancora più alte è possibile rompere i legami all’interno di protoni e neutroni, cioè i legami di forza forte? La risposta è sì. Ad inimmaginabili temperature di milioni di miliardi di gradi, i legami forti si rompono a formare un nuovo stato della materia chiamato “quark-gluon plasma”. Non è fantascienza. È stato infatti prodotto in laboratorio e si ipotizza che il nostro Universo fosse formato da quark-gluon plasma nelle primissime fasi della sua vita.

Esistono elementi indivisibili? I quark e lo "zoo di particelle". Dalla tavola periodida degli elementi al Modello standard in fisica. Gli studi per rispondere al dilemma di Aristotele e Democrito. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 24/05/2020 su Il Giornale. Prendiamo un oggetto qualunque, per esempio la tazzina nella quale avete preso il caffè dopo pranzo (o bicchierino monouso se siete andati al bar in questo periodo), e dividiamola a metà, poi ancora a metà, e così via. Possiamo continuare all’infinito, come sosteneva Aristotele, o ad un certo punto incontreremo dei “mattoncini”, cioè degli ingredienti essenziali indivisibili, come nella “teoria atomica” di Democrito? La corsa moderna per rispondere a questa domanda comincia intorno alla fine del 1700. Gli studi di elettrochimica introdotti negli anni precedenti portarono ad un’impennata nella scoperta di nuovi elementi chimici: cobalto, idrogeno, ossigeno, azoto, cloro sono solo alcuni di quelli scoperti nel 1700. Chimici e scienziati d’Europa cominciarono inoltre a capire che tutti questi potevano essere raggruppati ed ordinati secondo alcune proprietà. Per esempio ferro e potassio sono metalli, mentre ossigeno e carbone no. Ci sono elementi soffici, reattivi, inerti… e ciascun elemento può avere più caratteristiche contemporaneamente. I tentativi di mettere ordine tra tutti questi elementi si evolsero dalla creazione di piccoli gruppi di tre, quattro o cinque elementi per certi versi “simili” tra loro fino alla poderosa opera di Mendeleev che alla fine del diciannovesimo secolo propose la tavola periodica degli elementi, molto simile a quella che usiamo ancora oggi in chimica, ordinando gli elementi secondo il loro peso atomico. Gli elementi della tavola periodica erano ordinati secondo una logica così stringente da costringere Mendeleev a lasciare dei posti vuoti nella tavola. Immaginiamo di dare un mazzo carte da poker ad una persona che non ne conosce l’esistenza. Dopo un po’ di osservazione, questa persona comincerà probabilmente ad organizzarle secondo la caratteristica più evidente: le nere e le rosse. Poi caratteristiche più affinate, i cuori con i cuori, le picche con le picche e così via. E ancora a seconda del numero di fiori sulla carta, il numero di quadri, e via dicendo. Scoprendo così che le carte possono possedere più caratteristiche insieme: essere nero, picche e un due, così come c’è un altro due che è invece rosso e quadri. Immaginiamo ora di aver fatto uno scherzo rimuovendo dal mazzo il tre di cuori e il cinque di fiori. La classificazione fatta finora è talmente logica e consistente che la nostra persona sarà persuasa dal fatto che mancano delle carte dal mazzo. Non solo, sarà capace di dire precisamente che a mancare sono il tre di cuori e il cinque di fiori. Due carte che non sono nel mazzo che ha in mano, ma che devono esistere. Detto in termini scientifici, la teoria elaborata per descrivere le carte spiega così bene le osservazioni, ed è così logica e consistente, che predice l’esistenza e le caratteristiche esatte di due nuove carte. Nel caso della tavola periodica, quei posti lasciati vuoti predissero l’esistenza di elementi sconosciuti che sarebbero stati infatti osservati nei decenni a venire. La logica stringente usata da Mendeleev, inoltre, scaturiva da un fatto non ancora noto all’epoca e che decretò un ulteriore step nella nostra comprensione della materia: i diversi elementi chimici non sono affatto così elementari. Non servono decine e decine di mattoncini diversi per costruire tutta la materia che conosciamo. Infatti, anche se è vero che ad ogni elemento chimico corrisponde un atomo diverso, l’atomo, contrariamente a quello che dice il nome stesso, non è affatto indivisibile. È a sua volta costituito da tre tipi di particelle. Protoni e neutroni si stringono insieme a formare il nucleo intorno al quale orbitano gli elettroni. Con sole tre particelle, dette subatomiche, possiamo formare tutti i 118 elementi della tavola periodica, e in base al numero e posizionamento delle stesse possiamo spiegare come variano le proprietà degli elementi chimici da un casella all’altra. Una potente teoria più fondamentale capace di spiegare l’ordine e la classificazione precedentemente proposti. Ma è la fine della storia? Se così fosse questo articolo sarebbe solo un ripasso di quanto studiato a scuola. Ripasso che invece ci introduce e ci facilita la comprensione dell’attuale risposta della fisica alla domanda posta all’inizio. Il più raffinato modello che abbiamo oggi per classificare le particelle che conosciamo, nonché una delle teorie fisiche più studiate e confermate sperimentalmente: il cosiddetto Modello Standard delle Interazioni Fondamentali. Ma l’articolo è già lungo. Perciò ecco un assaggio, e nelle prossime settimane vedremo la ricetta completa. L’osservazione diretta delle tre particelle subatomiche venne completata negli anni trenta. A partire dallo stesso decennio, grazie all’uso di acceleratori di particelle e allo studio dei raggi cosmici, gli scienziati cominciarono però ad osservare nuove particelle “elementari” mai viste prima, ciascuna con le sue caratteristiche, e alle quali diedero nomi bizzarri come muoni, pioni, kaoni, lambda o sigma. Decine di nuove particelle si aggiungevano alla lista, tanto da spingere Enrico Fermi ad affermare che "se mi ricordassi il nome di tutte queste particelle, sarei un botanico". Uno “zoo delle particelle” simile allo zoo di elementi chimici della fine del 1700, e che caratterizzò un periodo molto caotico per la comprensione della fisica delle particelle. Come per gli elementi chimici, l’idea di ordinare le nuove particelle secondo alcune caratteristiche si rivelò quella vincente. Vari fisici cominciarono a cercare relazioni tra queste particelle, neutroni e protoni inclusi, partendo dal presupposto che non fossero in realtà elementari. Il criterio giusto fu trovato indipendentemente da due fisici, Murray Gell-Mann e George Zweig. Emersero organizzazioni descrivibili con strutture geometriche come triangoli ed esagoni, tutte contenenti motivi triangolari (vedi immagine). Di nuovo, come per la tavola periodica, queste organizzazioni permise a Gell-Mann di anticipare la scoperta di una nuova particella non ancora osservata: all’appello, infatti, mancava il vertice di un triangolo, il quale sarebbe stato presto riempito dalla scoperta sperimentale di una nuova particella, chiamata Ω-, con le proprietà predette dal modello stesso. E di nuovo come nel caso della tavola periodica, queste strutture geometriche scaturivano in realtà da proprietà della materia ancora più fondamentali. I due fisici intuirono e proposero indipendentemente nel 1964 che le particelle da loro organizzate dovessero essere composte da tre particelle elementari, particelle che Gell-Mann chiamò “quark”. Bel nome, penserete, chissà quale complicato significato matematico e fisico nasconde? Beh, in realtà Gell-Mann lo prese in prestito da una novella di James Joyce, in cui il protagonista sogna di servire da bere ad un gabbiano ubriaco. Il volatile, invece di chiedere ‘tre quarti’ (‘three quarts’) di birra ne chiede ‘tre quarki’ (‘three quarks’). Questo è solo uno dei nomi fantasiosi inventati dai fisici delle particelle per descrivere nuove proprietà e particelle: stranezza, colore, bellezza, top, down, gluone… . Ma entreremo più nel dettaglio la prossima settimana.

Ecco perché senza studiare i quark non avreste avuto internet. Le risposte alle domande sul "modello standard". Come possiamo vedere le particelle? A cosa serve studiarle? Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 07/06/2020 su Il Giornale. Se foste entrati in uno zoo di animali e vi avessero detto che all’interno di una gabbia apparentemente vuota ci sono delle bestie, ma che non potete vederle se non grazie ad alcuni complicatissimi esperimenti, giustamente avreste chiesto indietro il prezzo del biglietto. Nelle ultime due settimane abbiamo parlato di uno “zoo di particelle”, particelle ritenute fondamentali scoperte in grandi quantità all’inizio del secolo scorso. Abbiamo visto come lo sforzo per trovare loro un’organizzazione portò a scoprire l’esistenza di particelle ancora più fondamentali: quark, leptoni e bosoni di interazione, a loro volta ordinati in quella “strabiliante teoria del quasi tutto”, il “modello standard”. E fin qui, vale il prezzo dell’ingresso. Sappiamo però che per formare gli atomi della materia stabile che conosciamo servono solo elettroni, quark “up” e quelli “down” (per un ripasso, leggete qui), mentre tutte le altre particelle possono essere osservate solo in esperimenti ad alte energie (come al CERN) o nei raggi cosmici. A questo è punto è lecito chiedersi: possibile che queste particelle siano visibili solo in esperimenti di collisioni ad alta energia e non anche in qualche altra parte dell’Universo? Detto in altre parole: lo zoo di particelle può essere osservato nella sua interezza, oppure dobbiamo chiedere indietro il prezzo del biglietto? Molto prima dell’avvento dei moderni acceleratori di particelle (uno dei primi grandi esperimenti, lo SLAC, è del 1966), lo zoo di particelle cominciò a popolarsi grazie alla scoperta e allo studio dei raggi cosmici. Scoperti nel 1912 grazie a un pazzo che portò un rilevatore di radiazione a più di 5000 m di altezza su di una mongolfiera, i raggi cosmici sono particelle (prevalentemente neutroni, ma anche atomi di elio) che arrivano sulla terra prodotti da eventi galattici ad altissime energie. La loro interazione con gli elementi che compongono l’atmosfera terrestre produce quella che in gergo si chiama una “doccia di particelle”: vengono prodotte particelle che poi a loro volta interagiscono con altre particelle o decadono creando prodotti secondari, terziari e via dicendo, nella classica forma “a doccia” illustrata in figura. Fra queste particelle fu possibile osservare per la prima volta il muone, il “fratello” di seconda generazione dell’elettrone, e particelle chiamate “kaoni”, che decine di anni dopo con l’introduzione del modello dei quark, si capì fossero particelle composte da quarks up o down legati al quark strange. Sia il muone che il quark strange sono entrambi particelle della colonna 2. La risposta alla domanda è quindi sì, non le vediamo solo negli acceleratori di particelle, e nemmeno in qualche parte remota dell’Universo conosciuto, ma qui sulla Terra. Pensate che, se ci avete messo 30 secondi a leggere fino a qui, la vostra testa sarà stata attraversata in media da 30 muoni! E quelli della terza colonna, vi chiederete? In questo caso è ipotizzata la possibilità di osservarli in raggi cosmici di altissima energia. Tuttavia, il flusso di raggi cosmici diminuisce al crescere dell’energia degli stessi, e inoltre più energetici sono più è difficile osservarli. Quindi per ora non abbiamo evidenze al di fuori degli esperimenti di collissioni di particelle per le particelle della terza colonna. Con un’eccezione: il neutrino tauonico. Lo studio dei raggi cosmici ha infatti confermato sperimentalmente per la prima volta l’esistenza di un fenomeno chiamato “oscillazione dei neutrini”. In poche parole, visto che ne parleremo in un articolo dedicato, un neutrino di una generazione può trasformarsi in uno di un’altra generazione senza fare nessun decadimento o senza interagire con altre particelle. Un neutrino muonico prodotto nella doccia di un raggio cosmico, quindi, può diventare un neutrino tauonico prima di venire “visto” dai nostri “telescopi” per neutrini. Arriviamo allora ad un’altra delle vostre domande. Eravamo partiti dal dilemma di Aristotele e Democrito, cioè se a forza di scoprire particelle sempre più elementari andremo avanti all’infinito oppure un giorno incontreremo dei mattoncini essenziali indivisibili. Per ora una risposta non c’è, e chissà mai se il dilemma potrà essere risolto. Forse no. Per questo qualcuno di voi si è chiesto: ma è davvero necessario spendere tutte queste risorse per rispondere a Democrito se per comprendere e sfruttare i fenomeni più familiari bastano e avanzano tre particelle: elettroni, protoni e neutroni? “Tutto il resto è filosofia”.

Esistono elementi indivisibili? I quark e lo "zoo di particelle". Ci pare insomma vi stiate chiedendo: a che serve la ricerca in fisica delle particelle, al di là ovviamente di ampliare la nostra conoscenza sugli oggetti più piccoli del nostro mondo, insomma ampliare la cultura dell’umanità? Quali sono le applicazioni nella nostra vita quotidiana? Beh, molte più di quello che vi aspettate. Vi basti pensare che è grazie a questo tipo di ricerca se riuscite a leggere questo articolo. Ma procediamo con ordine. Se consideriamo le applicazioni che fanno direttamente uso delle nuove particelle scoperte, al di là di neutroni, protoni ed elettroni, queste sono ancora limitate. Una, la Tomografia ad Emissione di Positroni, l’abbiamo descritta qui. Chiaramente ci vorrà del tempo per sviluppare applicazioni di queste scoperte recenti, così come ci è voluto tempo per sfruttare la conoscenza acquisita con le ricerche antesignane alla moderna fisica delle particelle, come quella sulla radioattività e poi su neutroni, protoni ed elettroni. Eppure, la nostra vita quotidiana è già intrisa di tecnologie che sono state sviluppate sotto la spinta della ricerca in fisica delle particelle ad alte energie. La realizzazione di esperimenti per osservare le particelle, infatti, ha posto e continua a porre moltissime sfide: sono necessarie tecnologie in grado di accelerare e dirigere i fasci di particelle e per rilevare le particelle prodotte nelle collisioni; servono strumenti e tecniche per controllare gli esperimenti e per immagazzinare, analizzare e visualizzare quantità di dati esorbitanti; ed è necessario riuscire a condividere queste informazioni rapidamente tra laboratori sparsi nel mondo che collaborano agli stessi studi. E tutti questi strumenti non possono essere ordinati scegliendo da un catalogo, ma devono essere sviluppati di volta in volta spingendo i limiti delle nostre tecnologie sempre un po’ più in là. Le nuove invenzioni trovano poi tantissime applicazioni al di là di questi esperimenti.

La strabiliante teoria del Quasi Tutto. Giusto per citare alcuni esempi: i materiali superconduttori sviluppati per dirigere i fasci di particelle da far collidere negli acceleratori sono fondamentali in medicina per il funzionamento della Risonanza Magnetica, o nei treni a levitazione magnetica; gli acceleratori di particelle vengono utilizzati nel trattamento di diversi tipi di tumori con una stima di circa 30 milioni di pazienti che hanno ad oggi usufruito di queste tecnologie, ma anche nello studio della struttura delle proteine o dei virus per lo sviluppo di nuovi medicinali; i rilevatori di particelle sviluppati per gli esperimenti in fisica vengono utilizzati in strumenti di diagnosi medica, ma anche per monitorare il corretto funzionamento e la sicurezza dei reattori nucleari. Una soluzione intelligente sviluppata al CERN per poter controllare grossi esperimenti ha portato all’invenzione del touchscreen; mentre la necessità di registrare e immagazzinare una mole di dati enorme (1 secondo di collisioni generano 1 Petabyte, cioè 1000000000 GB di dati) ha accelerato lo sviluppo di hard disk più sofisticati e grossi server. E per finire, “last but not least”, la necessità di condividere velocemente le informazioni sugli esperimenti ha spinto i ricercatori del CERN a sviluppare una tecnologia che miliardi di persone usano giornalmente, continuamente, e che state usando anche voi in questo momento il World Wide Web. Senza “l’inutile” studio delle particelle, insomma, non avremmo internet.

La prima immagine di un pianeta che nasce. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Matteo Marini su La Repubblica.it Scattata con lo strumento Sphere dell'Eso, in Cile, mostra la zona in cui la materia si addensa e prende la forma di una piccola spirale dentro la nuvola di gas e polveri della sua giovane stella: AB Aurigae a 520 anni luce da noi. Per la prima volta possiamo vedere, in un angolo del cielo, un pianeta che sta nascendo. Raccoglie, ammassa materia, gas e polveri, si addensano in una piccola spirale che orbita attorno alla sua giovane stella madre. È una delle fasi primordiali che danno forma a un nuovo mondo. Questo embrione planetario non ha ancora un nome ma la sua stella sì: AB Aurigae si trova a circa 520 anni luce da noi.

Nella culla di nuovi pianeti. I pianeti nascono dalla concentrazione di materia all’interno di un “disco protoplanetario” che circonda le giovani stelle. Da tempo gli astronomi hanno notato gran movimento attorno ad AB Aurigae (nella costellazione dell’Auriga, visibile anche dal nostro emisfero). La tengono d’occhio perché ha appena qualche milione di anni e per questo è circondata da una densa nuvola di gas e polveri. È anche piuttosto vicina (non visibile a occhio nudo, ma basta un binocolo): un’occasione per ‘spiare’ quello che succede lì attorno. Accadde la stessa cosa quattro miliardi di anni fa nei pressi del nostro Sole che si era appena acceso: “Dobbiamo osservare sistemi molto giovani per catturare il momento in cui davvero si formano i pianeti” spiegaAnthony Boccaletti dell’Observatoire de Paris, prima firma dello studio pubblicato su Astronomy & Astrophysics. Qualche anno fa, uno strumento dello European southern observatory (Eso), Alma, permise di visualizzare per la prima volta i due grandi bracci che avvolgono con la loro spirale, la stella. La nube di gas e polveri attorno ad AB Aurigae. A destra lo zoom nella parte interna dove si trova la zona nella quale sta nascendo un nuovo pianeta. Con lo strumento Sphere del Very large telescope (Vlt) sempre dell’Eso, questa volta si è riusciti a zoomare tra le volute di quel caos e scoperto una zona anomala. Un piccolo ‘grumo’, un un gomitolo di materia che ha tutta l’aria di essere una concentrazione che si sta accrescendo, sotto la spinta della sua stessa gravità. È un nuovo mondo, un nuovo “posto” nell’Universo che prende forma. Sphere, specializzato proprio nel dare la caccia e fotografare pianeti extrasolari, ha catturato il debole bagliore (soprattutto confrontato con le emissioni della stella) che viene dalla parte interna di quella nube, nelle lunghezze d’onda dell’infrarosso.

Onde di gas. Il team internazionale guidato da Boccaletti ha descritto ciò che ha visto. Un “disturbo” all’interno quel disco di gas che si estende ben oltre le 150 Ua (una unità astronomica è pari alla distanza media della Terra dal Sole). L’effetto è quello di un’onda, che innesca la nascita dei pianeti. Quel puntino luminoso, dove si concentra la materia, è una di quelle zone, scrivono gli scienziati, dove le ‘acque’ si sono agitate e hanno dato vita a due più piccoli bracci a spirale: “È previsto da alcuni modelli teorici di formazione planetaria - dice Anne Dutrey, del Laboratoire d’Astrophysique de Bordeaux, coautrice dello studio - uno che si avvolge verso l’interno e l’altro che si espande verso fuori e che si incontrano nella zona del pianeta. E permettono a gas e polveri di aggregarsi nel pianeta che si sta formando e di farlo crescere”. Anche se pare molto vicino alla stella, in questa fotografia, quel ‘gomitolo’ di materia si trova alla stessa distanza dal suo astro che ha Nettuno (il pianeta più lontano del nostro Sistema solare) rispetto al Sole: 30 unità astronomiche: 4,5 miliardi di chilometri. Ma siamo ancora nella parte interna del disco, dove la materia è più densa e ha più probabilità di aggregarsi. Il disco nero al centro è il posto che occupa la stella, oscurata come con un parasole per riuscire a distinguere i dettagli più deboli, delle emissioni dalle zone circostanti. Così è nata quella che gli scienziati considerano la prima immagine di un pianeta che sta nascendo. L’occhio di Sphere non è nuovo a questo tipo di scoperte. Nel 2018 scattò la prima istantanea di un pianeta appena formato attorno alla stella Pds 70, possiamo definirlo un neonato, in confronto al quale quello che orbita attorno ad AB Aurigae è un embrione. E chissà quanti ancora stanno crescendo lì attorno. Quando sarà pronto, l’Elt, l’Extremely large telescope, che sarà il più grande del mondo, raccoglierà il testimone di Alma e Sphere per scoprire dettagli sempre più nitidi. Scrutando anche molto più vicino alla stella, per trovare nuovi indizi e riscontri su come nascono i nuovi mondi e di come, qualche miliardo di anni fa, è nato e cresciuto anche il nostro.

Spazio, i due «boomerang» che escono dal buco nero. L’ultimo mistero che affascina la scienza. Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su Corriere.it da Giovanni Caprara. I buchi neri sono ancora scrigni ricchi di mistero per il loro comportamento e non solo. Il grande Stephen Hawking aveva proposto delle idee (tra queste che potessero pure evaporare) e solo in parte condivise dalla comunità scientifica. Studiarli non è facile anche se finalmente una prima foto di un «mostro cosmico» era stata raccolta l’anno scorso. In realtà si trattava dell’effetto generato nel circondario perché il buco nero è stato chiamato proprio così perché la tremenda forza di gravità che lo caratterizza non consente nemmeno alla luce di uscire. Ora gli astrofisici, pur avendone nei decenni spiegato le caratteristiche (tra i più illustri scienziati protagonisti c’era Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica) si trovano talvolta davanti a manifestazioni che non riescono a spiegare. L’ultima l’hanno raccolta gli astronomi del National Radio Astronomy Observatory negli Stati Uniti e ne hanno riferito sulla rivista della Royal Astronomical Society formulando solo ipotesi perché la vera ragione non è stata ancora decifrata. Scrutando con la rete dei radiotelescopi americani la vecchia galassia ellittica «PKS 2014-55» distante 800 milioni di anni luce nella costellazione Telescopium i ricercatori hanno scoperto che dalla grande isola stellare uscivano due getti ciascuno dalla forma di un boomerang che insieme formavano una gigantesca X. Ormai si è constatato che quasi tutte le galassie, compresa la nostra Via Lattea ai cui confini noi abitiamo, hanno nel loro cuore centrale uno o più buchi neri dai quali talvolta escono dei getti di materia dai due lati opposti frutto dell’interazione tra il buco nero e la materia circostante che divora. Ma in questo caso i getti formano due imponenti strutture arcuate mai viste simili, appunto, a due boomerang. Quindi gli astronomi si sono chiesti che cosa avesse provocato lo strano fenomeno che rappresenta una vistosa anomalia rispetto a quanto osservato in passato. La risposta definitiva non l’hanno ancora trovata e finora hanno avanzato tre ipotesi sulla possibile causa dello strano fuoco d’artificio cosmico. Forse lo strano effetto è determinato dal fatto che il buco nero non è stabile e oscilla lanciando getti in diverse direzioni ? Forse è il frutto dello scontro di due massicci buchi neri ? Ma c’è pure una terza ipotesi più complicata e affascinante avanzata da un altro gruppo di astronomi del South African radio telescope MeerKAT. Il fenomeno — dicono — può essere paragonato ad una fontana di Las Vegas dove i potenti zampilli si alzano e si abbassano andando in diverse direzioni formando delle figure analoghe. La galassia lancerebbe i suoi getti di gas supercaldo sino a 2,5 milioni di anni luce nello spazio intergalattico dove c’è del gas che bloccherebbe i getti facendoli rimbalzare verso il centro creando l’affascinante gioco rilevato dai radiotelescopi. Occorrerà tempo per trovare risposta certa che magari non ha niente a che fare con le ipotesi. Potrebbe trattarsi di un fenomeno sconosciuto mai incontrato prima d’ora? Questo è il bello scienza: cercare per scoprire.

C'è, ma non possiamo vederla. Il mistero della "materia oscura". Contrariamente alla materia ordinaria sembra non interagire con la radiazione elettromagnetica: cioè non emette e non assorbe luce. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 10/05/2020 su Il Giornale. Diverse email che abbiamo ricevuto ci chiedevano di spiegare cosa fosse la materia oscura. Eccoci qui allora a parlare di quella che costituisce l'85% della materia presente nel nostro Universo, di gran lunga il tipo di materia più diffuso nel cosmo. Questa affermazione, dopo due articoli spesi dicendo che "lo stato della materia più comune è il plasma" potrebbe, giustamente, spiazzarvi e confondervi. Se spulciate i due pezzi precedenti, tuttavia, noterete che in realtà abbiamo definito il plasma il più comune stato della materia "ordinaria". Proprio questo aggettivo, passato volutamente in sordina, ci consente oggi di introdurre la materia oscura, "dark matter" in inglese. Cerchiamo di andare in ordine, partendo da un esempio. Immaginiamo di avere una scatola rivestita al suo interno di un bel velluto nero e riempita di palline. Ne misuriamo il peso, sottraiamo la tara, ovvero il peso della scatola, e troviamo così il peso totale del suo contenuto che ammonta a 100 grammi. Aprendo la scatola ecco la sorpresa: all'interno troviamo 15 delle nostre palline preferite, palline gialle di cui conosciamo quasi tutto, tra cui il fatto che pesano 1 grammo l’una. In totale, quindi, nella scatola ci sono 15 grammi di palline. "Come è possibile?", vi chiederete: se il contenuto pesava 100 grammi, che fine hanno fatto gli 85 grammi che mancano all’appello? La prima possibilità è che la nostra misura iniziale di peso sia falsata da una bilancia difettosa. Ripetiamo allora la misura con diverse bilance, magari più precise, o con diversi metodi. Ma la misura è confermata: 100 grammi di contenuto. Un'altra ipotesi è che potremmo non conoscere con precisione il peso delle nostre palline preferite, studiate e ri-studiate negli anni. Possibile? Forse sì, anche se improbabile. E comunque è praticamente impossibile che possano pesare così tanto in più da giustificare quegli 85 grammi mancanti. Mentre ci grattiamo la testa per venire a capo dell'enigma ci ritroviamo a scuotere la scatola aperta come un setaccio. Le palline gialle, ovviamente, si muovono, si scontrano tra di loro e rimbalzano sulle pareti. Ma accade anche qualcosa di strano: a volte cambiano direzione "dal nulla", come se rimbalzassero contro palline nere che si mimetizzano perfettamente nel velluto della nostra scatola. Ed è proprio questo particolare che ci consiglia l'ipotesi che può risolvere l'enigma: gli 85 grammi mancanti sarebbero il peso delle palline che non possiamo vedere e che chiameremo "palline oscure". Ora, con le dovute complicazioni del caso, usiamo questo esempio per capire come funziona la realtà. La scatola è il nostro Universo osservabile e le palline gialle sono invece la materia ordinaria presente in esso: stelle, galassie, pianeti, nubi interstellari, ecc. In altre parole, tutta la materia che vediamo e di cui - come abbiamo detto - lo stato di plasma è quello più comune (leggi qui). Bene. Con esperimenti piuttosto complessi, molto più che usare una semplice bilancia, siamo in grado stimare quanta materia dovrebbe essere presente nel cosmo (per la precisione la densità totale di materia nell’Universo) e quanta siamo in grado di vederne: come nel caso della scatola, i nostri strumenti sono in grado di misurare solo il 15% del totale della materia dell'Universo. Il restante 85% è invisibile ai nostri strumenti. Come nel caso della scatola, allora, ipotizziamo la presenza di nuovo tipo di materia: la materia oscura. Vi chiederete: perché non riusciamo a vederla? Il motivo è che, contrariamente alla materia ordinaria, questa sembra non interagire con la radiazione elettromagnetica: cioè non emette e non assorbe luce. Allo stesso tempo, tuttavia, è influenzata ed influenza con la sua massa la forza di gravità e quindi possiamo vederne gli effetti osservando alcune anomalie nel comportamento della materia ordinaria. Nel nostro esempio della scatola, abbiamo ipotizzato la presenza delle palline oscure osservando il comportamento delle palline gialle che rimbalzano in maniera anomala. Nel caso della materia ordinaria nell’Universo, l’esempio di anomalia osservata più famoso, oltre che storicamente il primo ad essere scoperto, è la cosiddetta "anomalia nelle velocità di rotazione delle galassie". Le galassie sono enormi ammassi di stelle, le quali ruotano intorno al buco nero che ne occupa il centro. Girano da miliardi di anni ad una velocità che dipende dalla loro distanza dal centro stesso. Da un punto di vista teorico, questa dipendenza può essere calcolata ipotizzando che la forza centrifuga, che tende a far scappare le stelle per la tangente, sia controbilanciata dall'attrazione gravitazionale, che le tira invece verso il centro. Il risultato è che la velocità di rotazione aumenta via via che ci si allontana dal centro, raggiunge un massimo, e poi comincia a diminuire di nuovo (vedi il video qui sopra). Tuttavia, gli strumenti degli astronomi misurano che in realtà le stelle alla periferia della galassia si muovono a velocità molto più alte di quelle predette dalla teoria. Come è possibile? È sbagliata la teoria o sono errate le misurazioni? Probabilmente, nessuna delle due opzioni. Osservazioni e teoria, infatti, tornano a coincidere se nel calcolo dell’attrazione gravitazionale che tira le stelle verso il centro viene ipotizzato il contributo dovuto a un nuovo tipo di materia invisibile e sconosciuta che costituisce l'85% della materia totale: cioè la materia oscura. Cosa sia esattamente questa materia oscura, e se la sua esistenza sia l’unico modo per “far tornare i conti”, rimangono temi ancora oggi dibattuti. Insieme alla scomparsa dell'antimateria (ne abbiamo parlato qui), alla gravità quantistica (accennata qui), e altre che avremo modo di affrontare nei prossimi articoli, queste domande costituiscono i grandi problemi irrisolti della fisica contemporanea. Noi intanto vi diamo appuntamento a domenica prossima dove cercheremo di presentare alcune delle ipotesi più interessanti per far luce sulla natura della materia oscura.

Foto: Rappresentazione artistica della distribuzione di materia oscura prevista intorno alla Via Lattea. Questa rappresentazione artistica mostra la Via Lattea. L'alone blu di materia che circonda la galassia indica la distribuzione prevista per la misteriosa materia oscura, inizialmente introdotta dagli astronomi per spiegare le proprietà di rotazione delle galassie e ora anche ingrediente essenziale nelle attuali teorie di formazione ed evoluzione delle galassie. Nuove misure mostrano che la quantità di materia oscura in una vasta regione intorno al Sole è molto più piccola del previsto e indicano che nelle nostra vicinanze non si vede nessuna quantità significativa di materia oscura. 

Uno dei più grandi misteri del cosmo: chi ha rubato l'antimateria? L'antimateria esiste, ma è "scomparsa" dal nostro Universo. Perché? I fisici al lavoro su diverse teorie. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 19/04/2020 su Il Giornale. Nel precedente articolo di Spazio Curvo avevamo accennato a come la scomparsa dell'antimateria dal nostro Universo ci ponga davanti ad uno dei più grandi misteri ancora irrisolti della fisica. Oggi allora proveremo a fare un passo in avanti e a capire di cosa si tratta. Innanzitutto ricapitoliamo quanto già sappiamo. L'antimateria esiste, e non è poi così diversa dalla materia: non è governata da strane leggi sconosciute o, come si chiedeva un lettore, dal tempo che scorre all'indietro. Pensate che, grazie al decadimento del potassio di cui è ricca, la banana nel vostro cesto della frutta emette un positrone, l'antiparticella dell'elettrone, ogni ora e un quarto circa. La famosa equazione di Einstein, E = m c^2, inoltre, ci dice che l'energia si può trasformare in massa e viceversa. L'energia è trasportata dai fotoni, il cui secondo nome è infatti "quanti di energia". Essi possono quindi trasformarsi in particelle con massa. La meccanica quantistica gli impone tuttavia di trasformarsi sempre in una coppia di particelle: una particella di materia e la relativa antiparticella, ovvero una particella con la stessa massa ma carica opposta. Se la particella e la sua antiparticella si incontrano, si annichilano: cioè scompaiono lasciando posto ai fotoni. In pratica, si tratta del processo contrario a quello descritto prima, entrambi osservati innumerevoli volte in esperimenti come quelli svolti al Cern. Ora, se particelle ed antiparticelle vengono create sempre in coppia, ci aspettiamo che, nei primi istanti di vita, il nostro Universo sia stato popolato da una ugual numero di particelle ed antiparticelle che, incontrandosi nuovamente, si sono riconvertite in energia. In questo modo la formazione di strutture complesse come atomi e molecole sarebbe molto improbabile. In altre parole, noi non esisteremmo. Eppure siamo qui e sappiamo anche che tutte le strutture complesse che riusciamo ad osservare nell'Universo sono fatte solo di materia. Com’è possibile? Chi ha rubato l’antimateria? Come detto prima, nessuno lo sa, ma ci sono alcune ipotesi su cui i fisici stanno lavorando. Una possibilità è che in realtà esistono in effetti uguali quantità di materia e antimateria, ma vivono in regioni separate dell'Universo e noi, con tutta la parte di Universo che riusciamo ad osservare, ci troviamo in una regione di sola materia. È la teoria della gravità inversa, secondo la quale la forza gravitazionale tra materia ed antimateria sarebbe repulsiva e questo avrebbe portato al confinamento dell’antimateria in una regione dell'Universo lontana da noi. Un'altra ipotesi, più conservativa e verificabile, è che esista un meccanismo che nelle condizioni estreme successive al Big Bang abbia favorito leggermente la creazione di materia rispetto all'antimateria, così che per ogni miliardo di antiparticelle sarebbero nate un miliardo e una particelle. Tutte le antiparticelle si sarebbero poi annichilite con le particelle, e le particelle superstiti si sarebbero poi aggregate in atomi, molecole, e così via fino a galassie ed esseri viventi. Ma da dove viene questa asimmetria iniziale? Esistono meccanismi conosciuti che potrebbero spiegarla? Tutto è composto dalla materia. Ma sapete cosa è l'antimateria?

Il Modello Standard, ovvero l'attuale teoria fisica che descrive tutte le particelle conosciute e le loro interazioni ad eccezione della forza di gravità, ammette la presenza di una asimmetria, conosciuta come violazione della simmetria CP. Questa violazione di simmetria fa in modo che la materia si comporti in maniera leggermente diversa dall'antimateria, come confermato sperimentalmente per alcuni tipi di particelle. Quello che ancora non sappiamo è se questa diversità è sufficiente a risolvere l’enigma della scomparsa dell’antimateria. Al momento, diversi laboratori nel mondo stanno cercando di stimare la portata di questi effetti. Per esempio, è di soli quattro giorni fa la notizia, pubblicata su Nature, che i ricercatori della collaborazione T2K in Giappone hanno compiuto un importante passo in avanti nella determinazione della violazione CP per neutrini ed antineutrini. Se dovessimo scoprire che queste differenze non sono sufficienti, allora significherebbe che il Modello Standard è incompleto e deve essere integrato con quello che in gergo chiamiamo "nuova fisica": forse esistono particelle sconosciute che riusciremo a vedere con acceleratori più potenti, o forse abbiamo bisogno di nuove teorie che non riusciamo ancora nemmeno ad immaginare. Può sembrare, come ogni tanto dice qualche lettore a proposito degli argomenti che trattiamo, che stiamo "parlando del sesso degli angeli" e "di cose che non avranno applicazione prima di mille anni". In realtà, anche se è vero che molte applicazioni di questi oggetti di studio arriveranno solo in futuro, oltre al desiderio di conoscenza in sé, ci sono tante applicazioni dirette o indirette di queste ricerche che già utilizziamo. Torniamo allora con i piedi per Terra. L'antimateria non solo esiste, ma ha un ruolo chiave in uno strumento di indagine medica: la PET, tomografia ad emissione di positroni. Funziona iniettando al paziente una sostanza normalmente presente nel corpo con funzioni metaboliche (per esempio, uno zucchero), con l'aggiunta di un isotopo radioattivo. Quest'ultimo decade in breve tempo emettendo un positrone. Dopo un breve percorso il positrone incontra un elettrone producendo una coppia di fotoni che viaggiano in direzione opposta e hanno una ben precisa energia. Osservando i due fotoni e misurandone energia, direzione e tempi di arrivo allo scanner della PET, è possibile ricostruire con precisione la posizione in cui la coppia ha avuto origine. La PET ci permette quindi di sapere come la sostanza con funzione metaboliche si distribuisce nel corpo, il che dipende dal funzionamento (o non funzionamento) dei vari tessuti. Viene utilizzata in diversi ambiti tra cui la cardiologia, la neurologia, e, in particolare l’oncologia. Le cellule tumorali, infatti, hanno un metabolismo alterato, fino a 200 volte maggiore a quello delle cellule sane, che altera la distribuzione delle sostanze metaboliche rilevabile della PET. Se il positrone, e quindi l'antimateria, non esistesse, non avremmo un prezioso strumento per identificare i tumori e osservarne la risposta agli interventi terapeutici.

Tutto è composto dalla materia. Ma sapete cosa è l'antimateria? Ognuna delle 17 particelle elementari ha un compagno di antimateria: ma le antiparticelle non formano atomi o strutture macroscopiche. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 12/04/2020 su Il Giornale. Qualcuno di voi avrà letto (o visto) Angeli e Demoni, secondo romanzo di Dan Brown, dopo “Il Codice da Vinci”. Tutta la storia ruota attorno ad un contenitore che grazie ad alcuni elettromagneti mantiene dell'antimateria confinata in sospensione, evitando che si trasformi nella più potente arma mai creata dall'uomo. Una bomba dalla potenza distruttiva superiore agli ordigni atomici all'uranio, al plutonio o all'idrogeno. Evitando eventuali spoiler, diremo solo che i protagonisti temono che la sua esplosione possa distruggere l'intero Vaticano, cuore dell'Urbe. È solo un romanzo, certo, e con molte incongruenze scientifiche. Eppure come in ogni racconto inventato, qualcosa di reale c'è. L'antimateria infatti esiste, e molti di voi ci hanno già domandato cosa sia "o non sia". In questo articolo proveremo a spiegare cos'è. Spiegheremo come l'antimateria non abbia veramente nulla di speciale rispetto alla materia. La cosa potrebbe apparire noiosa. Ma spiegheremo anche che, allo stesso tempo, l'esistenza dell'antimateria ci pone davanti a una delle domande alle quali la fisica moderna non ha ancora dato una risposta. E questo è tutt'altro che noioso.

Partiamo dalle basi: cos'è l’antimateria? Dopo aver detto che il termine "espansione dell’Universo" è fuorviante, che i buchi neri non sono proprio "buchi", ci tocca anche dire che il termine "antimateria" può confondere. Può infatti suggerire che essa sia qualcosa di completamente diverso dalla materia, come quel prefisso "anti" potrebbe far pensare. Invece no. Il primo concetto da portare a casa è proprio questo: l'antimateria è governata dalle stesse leggi della fisica che governano la materia. In altre parole, l'antimateria risente dell'influenza delle quattro interazioni fondamentali della Natura: l'interazione elettromagnetica, quella forte, quella debole e l'interazione gravitazionale. E le equazioni che descrivono la dinamica indotta da queste interazioni sono le stesse sia per la materia che per l'antimateria.

Facciamo così: parliamo un po' di materia, così ci aiuterà a capire da dove viene quel prefisso "anti". Tutta la materia che conosciamo è formata dall’interazione di 17 particelle elementari (di cui avremo modo di parlare più in dettaglio in un altro articolo). Fra queste sicuramente conoscerete o avrete sentito parlare per esempio dell'elettrone, dei neutrini e del bosone di Higgs. Bene. Ognuna di queste particelle elementari ha un compagno di antimateria. Prendiamo l'elettrone, una particella con massa molto piccola e carica elettrica negativa. Negli anni trenta, alcuni esperimenti mostrarono l'esistenza di una particella con la stessa massa dell'elettrone, ma carica elettrica positiva. Questa particella fu battezzata "positrone" ed è il compagno dell'elettrone, nonché la prima particella di antimateria scoperta sperimentalmente. Dal punto di vista teorico, l'esistenza dell'antimateria era infatti stata predetta qualche anno prima da Paul Dirac, come conseguenza delle equazioni della meccanica quantistica. Più in generale per ogni particella di materia esiste una particella con la stessa massa e con cariche di segno opposto. Abbiamo scritto cariche al plurale perché le particelle elementari non differiscono solo per massa e carica elettrica, ma anche per altre proprietà, che in termini tecnici si chiamano numeri quantici. Ancora più in generale, quindi, per ogni particella elementare esiste una particella con stessa massa, ma alcuni numeri quantici di segno opposto: l'antiparticella corrispondente. Da qui il famigerato prefisso anti, che sta un po’ banalmente per "di cariche opposte". Ma perché allora queste particelle non vengono semplicemente annoverate tra quelle che chiamiamo particelle elementari? Il motivo è presto detto: stelle, galassie, pianeti, così come piante o batteri sono formati solo da particelle di materia. Sembra che la materia sia riuscita a mettersi insieme formando atomi e conseguenti strutture macroscopiche, mentre l'antimateria no. Le antiparticelle possiamo vederle in alcuni fenomeni naturali come raggi cosmici o alcuni decadimenti radioattivi, e vengono anche prodotte appositamente in esperimenti come quelli del CERN. Ma anche formare un solo atomo di antimateria è molto difficile. Il perché di questa asimmetria diventa ancora più sorprendente se consideriamo che le equazioni della meccanica quantistica dicono che ogni volta che una particella di materia si crea in un processo, si crea anche una corrispondente antiparticella. Anche questo fatto è stato confermato sperimentalmente innumerevoli volte. Cosa ha causato quindi questa asimmetria del nostro Universo? Perché l'antimateria sembra essere scomparsa? La risposta è semplice: non lo sappiamo! È uno degli affascinanti open-problems, dei problemi ancora aperti, della fisica moderna.

Concludiamo da dove siamo partiti: perché in "Angeli e demoni" l'antimateria è considerata così pericolosa? Il motivo risiede nel fatto che ogni volta che una particella elementare incontra una sua antiparticella, le due si annichilano a vicenda, rilasciando energia. Quanta energia ce lo dice la famosa equazione E = m c^2. Se un protone si annichila con un antiprotone, l'energia rilasciata è un decimiliardesimo di Joule, praticamente niente. Nel film in questione, però, dal CERN veniva rubato un contenitore con un chiletto di antimateria. Se una tale quantità venisse in contatto con materia ordinaria, l'energia sprigionata sarebbe pari a migliaia di volte quella sprigionata dalle bombe atomiche sganciate sul Giappone durante la seconda guerra mondiale. Più che sufficiente per spazzare via il Vaticano e non solo, anche dall'altezza alla quale il camerlengo riesce a portarla prima che l'annichilazione avvenga. Vabbè è pur sempre science fiction. Ah, se qualcuno se lo stesse chiedendo: sì, al CERN producono antimateria, ma no, non ne immagazzinano chili per conquistare il mondo. Perché è praticamente impossibile farlo, lo spiega benissimo questo articolo al quale rimandiamo i più curiosi.

E se il buco nero nello spazio non fosse davvero un "buco"? Le risposte di Spazio Curvo alle domande dei lettori sui buchi neri: il vuoto interstellare, il continuum spazio-temporale e i neutrini. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 05/04/2020 Il Giornale. Fermi tutti. Lo sappiamo: non si può certo pensare di aver soddisfatto ogni curiosità riguardo ai buchi neri. Questa piccola, breve, serie di tre puntate è servita a dare qualche spiegazione e suggerire spunti a voi lettori. In fondo è per questo che è nato Spazio Curvo. Ma visto che ci avete posto diverse domande, ci sembra giusto provare a fornire qualche risposta. Un'immagine che ci ha colpito e fatto sorridere è quella proposta da qualcuno di voi, che ha immaginato i buchi neri come dei moderni robot aspirapolvere cosmologici. La domanda è: i buchi neri si muovono nello spazio, aspirando tutto quello che incontrano? La risposta non è così semplice: le definizioni di "essere fermi" o "in movimento" hanno senso solo se definite rispetto a cosa le stiamo valutando. Abbiamo spiegato (leggi qui) che le galassie si muovono nel senso che la loro distanza rispetto a noi sulla Terra aumenta (leggi qui). Bene: ogni galassia ha al centro un buco nero, quindi possiamo dire che il buco nero si muove rispetto a noi. Tuttavia è contornato da miliardi di stelle e corpi celesti che vi orbitano intorno nella classica forma a galassia, quindi è difficile immaginarlo come un robottino. E non ci sono neppure evidenze di buchi neri più piccoli che vanno in giro risucchiando pianeti e stelle.

​Perché i buchi neri sono neri? Ecco cos'è l'orizzonte degli eventi. Nel nostro primo articolo della serie (leggi qui) ci siamo concentrati sull'orizzonte degli eventi: la superficie immateriale che definisce il buco nero. Nel terzo, invece, abbiamo provato a spiegarvi cosa accade all’interno di esso. Alcuni di voi lettori hanno sollevato delle perplessità, in particolare sul fatto che una volta superato l'orizzonte degli eventi, le leggi del moto definite dalla relatività generale continuino a valere indisturbate. "Oltre l'orizzonte degli eventi - avete scritto - si entra in un campo gravitazionale dal quale nulla può più sfuggire e il tessuto spazio-temporale è così fortemente deformato (direi sconvolto) che tutto ciò che viene risucchiato viene successivamente spaghettizzato". Dunque la domanda: come si possono considerare ancora valide le equazioni di moto classiche, se non sappiamo nulla sullo spazio-tempo che esiste oltre l'orizzonte degli eventi? In realtà non succede nulla di veramente speciale all’orizzonte degli eventi. 

Nulla può uscire da un buco nero. Ma che cosa succede lì dentro? È come nell'esempio che avevamo proposto, nel quale avevamo paragonato l’orizzonte degli eventi alla distanza oltre la quale un nuotatore non riesce più a sfuggire alla forza attrattiva di un vortice, costringendolo a finirci dentro. Il malcapitato rimane immerso nell’acqua, e la forza attrattiva del vortice non subisce nessun cambiamento improvviso. Ma è un incremento graduale che porta, ad un certo punto, il nuotatore a non farcela più a scappare. Per il buco nero è la stessa cosa. L’attrazione gravitazionale aumenta in maniera graduale e continua. Aumenta moltissimo, ma senza nessun cambiamento improvviso. Il processo di "spaghettizazione" è un modo molto pittoresco per dire che se fossimo immersi in un campo gravitazionale molto forte, i nostri piedi sarebbero attratti molto più della testa, e saremmo quindi "allungati" come spaghetti. Questo fenomeno non avviene se si passa l'orizzonte degli eventi, bensì può succedere anche fuori, o mentre si supera l’orizzonte. E soprattutto, punto importante per rispondere alla domanda dalla quale siamo partiti, la spaghettizazione è un effetto previsto dalle stesse leggi del moto della relatività generale. In conclusione, da immediatamente di qua a immediatamente di là dall'orizzonte degli eventi non succede veramente nulla di speciale, come nell'esempio del nuotatore.

Reazioni nucleari, crash stellari. Ecco come nasce un buco nero. In un certo senso è il nome "buco" ad essere un po' fuorviante. Affermiamo che c'è un buco in un tavolo, infatti, quando manca del legno in qualche punto, o un buco nel nostro calzino quando manca il tessuto dove toccherebbe l'alluce. Una pallina che rotola sul tavolo cadrà dentro al buco quando non avrà più il materiale legnoso sotto di sé, e si ritroverà per aria. Nel caso dei buchi neri, invece, non c’è nessun cambiamento da qualche materiale (come il legno) ad un altro (come l'aria). Siamo immersi nel vuoto interstellare e rimaniamo immersi in esso. La stessa risposta vale per chi si è chiesto cosa ci sia tra l'orizzonte degli eventi e la singolarità dove tutto si concentra: c'è lo spazio-tempo, il continuum spazio-temporale. Esattamente come fuori. Molto molto vicino alla singolarità ci aspettiamo che accada qualcosa di nuovo rispetto a quello che dice la relatività generale. Ci aspettiamo che effetti di gravità quantistica modifichino radicalmente la fisica gravitazionale in quelle regioni così estreme, ma siamo ancora lontani dall'avere totale chiarezza sui dettagli. Un'altra curiosità sorta è questa: se la stella che entra nel buco nero ha una densità infinita, può viaggiare più veloce della luce? No, perché densità infinita significa che è una massa finita concentrata in un volume nullo. Ma comunque ha una massa, quindi non può viaggiare più veloce della luce. Arriviamo, infine, ai neutrini. Vi siete chiesti qual è l’influenza esercitata dai buchi neri sui neutrini, che qualcuno di voi ha definito "senza massa". In realtà, va detto che i neutrini una massa ce l’hanno, anche se piccolissima. Sono i fotoni a non avere massa, eppure anche loro subiscono l'effetto della gravità. Proprio la deflessione della luce da parte dei pianeti fu una delle prime conferme sperimentali della relatività generale. Quello che succede è che i fotoni, invece di andare dritti, vengono deviati leggermente dal campo gravitazionale del pianeta. E la deviazione dovuta ai pianeti è niente in confronto a quella dovuta al campo gravitazionale di un buco nero. Passando relativamente vicino all’orizzonte degli eventi un fotone può essere catturato e cominciare a orbitare intorno ad esso. La deviazione della luce è un fenomeno che la gravità Newtoniana non riesce a spiegare, visto che il potenziale gravitazionale è proporzionale alla massa e inversamente proporzionale alla distanza. Oggetti di massa nulla, quindi, non "sentono" la gravità proprio come particelle senza carica elettrica non "sentono" un campo elettromagnetico. La relatività generale corregge questa mancanza della teoria Newtoniana, descrivendo l'attrazione gravitazionale come curvatura dello spazio-tempo. E nello spazio-tempo curvo, anche i fotoni non viaggiano su linee rette.  

Nulla può uscire da un buco nero. Ma che cosa succede lì dentro? Il mistero oltre l'orizzonte degli eventi. La stella si comprime all'interno buco nero formando la "singolarità" spazio-temporale. E tutto il resto? Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. Se siete arrivati fin qui, dovreste aver letto i due capitoli precedenti di questa piccola saga. Il primo (leggi) vi spiega perché il buco nero è "nero" e cosa è l’orizzonte degli eventi che lo definisce. Il secondo (leggi) analizza i tre processi di formazione dei buchi neri nello spazio interstellare per rispondere alle domande di chi si chiede come nascono questi corpi celesti. Ripartiamo allora dall’ultimo capitolo. Se escludiamo i "buchi neri primordiali", frutto delle fluttuazioni di densità dei primi istanti di vita dell'Universo, in due casi su tre un buco nero deriva dalle stelle. Nel primo scenario, una stella molto grande arriva alla fine della sua vita: se quello che rimane, il nocciolo, ha una massa 3 volte quella del sole, esso collassa sotto il suo peso fino a formare un buco nero. Nel secondo scenario, invece, due stelle di neutroni (che sono noccioli di stelle di massa inferiore alle 3 masse solari), "spiraleggiano" attraendosi l'una con l’altra fino a scontrarsi. Da questo "crash cosmico" nasce una nuova stella di neutroni abbastanza pesante da comprimersi oltre il proprio orizzonte degli eventi. Ci eravamo quindi lasciati con una domanda: che fine fa la stella che è collassata oltre l'orizzonte degli eventi, così come tutto quello che cade in buco nero e non può più uscirne? Abbiamo detto che l'orizzonte degli eventi possiamo "vederlo" riconoscendo l'effetto della sua attrazione gravitazionale su altri corpi celesti che vi orbitano intorno. Ma tutto ciò che supera questa barriera di non ritorno diventa invisibile per sempre a noi che siamo fuori. Per sapere cosa succede dentro un buco nero dobbiamo allora fidarci delle equazioni della relatività generale. In che senso? Ecco un esempio. Immaginate di avere un telo nero oltre il quale non riuscite a vedere nulla. Sapete solo che dall'altra parte c'è, ad una precisa distanza, un bersaglio. Lanciate una bella freccetta di quelle professionali di metallo. Essa bucherà il telo senza problemi e si andrà ad infilzare nel bersaglio. Dato che il telo è nero, non potete sapere se vi conviene esultare per un centro o giustificarvi goffamente per aver a malapena colpito il bersaglio. Un modo in realtà lo avreste, anche se non certo immediato: conoscendo la velocità e la direzione di partenza della freccetta dalla vostra mano, le equazioni del moto parabolico vi dicono esattamente quanti punti vi ha portato il tiro. Questo perché vi siete basati su un assunto molto ragionevole: che le equazioni che governano il moto della freccetta al di là del telo nero sono le stesse di quelle al di qua.

​Perché i buchi neri sono neri? Ecco cos'è l'orizzonte degli eventi. Per il buco nero possiamo fare una cosa simile. Come nei precedenti articoli abbiamo provato a spiegarvi, l'orizzonte degli eventi è una superficie immateriale: un pianeta che viene risucchiato dal buco nero non si schianta sull'orizzonte degli eventi e non si accorge nemmeno di averlo superato. Sembra ragionevole allora assumere che le equazioni che governano il moto degli oggetti fuori dal buco nero continuino a farlo anche dentro. Queste sono le equazioni della relatività generale. Quello che ci dicono è che qualsiasi oggetto che viaggia a velocità inferiore o uguale a quella della luce (e quindi tutto, leggi qui), non solo non può più uscire dall'orizzonte degli eventi, ma non può nemmeno starsene lì dentro a godere del meritato riposo, o andare a farsi un viaggio più al centro e poi "risalire" verso l'orizzonte degli eventi. È costretto invece a continuare a cadere fino ad essere schiacciato in un volume nullo al centro del buco nero! Consideriamo allora una stella che forma un buco nero, diciamo con una massa 100 volte superiore a quella del sole. Quando, collassando, supera il suo stesso orizzonte degli eventi, questa stella è già compressa in una sfera di raggio pari a circa 300 km. Stiamo parlando di 100 volte la massa del Sole compressa nella distanza tra Firenze e Roma! O, se volete, la stessa densità che avreste comprimendo tutta la Terra in una sferetta di mezzo millimetro. Nel suo viaggio oltre l'orizzonte degli eventi, la stella è costretta a continuare a collassare raggiungendo in un millesimo di secondo una densità infinita, comprimendosi in un volume nullo al centro del buco nero e formando quella che in gergo tecnico si chiama "singolarità" spazio-temporale.

Reazioni nucleari, crash stellari. Ecco come nasce un buco nero. Per i lettori che ci hanno seguito sin dal nostro primo articolo, questo termine potrebbe risultare familiare. In quell’articolo iniziale, infatti, vi avevamo raccontato che la relatività generale predice l’esistenza di una singolarità anche all’inizio della vita dell’Universo: il famoso Big Bang. Vi avevamo poi raccontato che quando ci troviamo davanti a densità di energia estreme, ci aspettiamo che la relatività generale non sia più valida, dovendo essere rimpiazzata da una teoria che includa anche la meccanica quantistica. Abbiamo diverse proposte per una teoria completa e consistente di tale "gravità quantistica", ma nessuna è ancora perfetta. Molte di esse, però, sembrano dirci che le equazioni della relatività generale perdono validità poco prima che la singolarità si formi e che in realtà l'Universo attuale sia il risultato del "rimbalzo" ("Big Bounce") da una precedente fase di contrazione delle distanze. Ci aspettiamo che la gravità quantistica entri in gioco anche nel caso della stella che sta per formare la singolarità all’interno del buco nero. Il suo effetto potrebbe essere quello di fermare il collasso della stella, facendole raggiungere un nuovo stato di equilibrio a queste densità estreme. Potrebbe causare anche un rimbalzo in stile Universo, riportando la stella fuori dal suo orizzonte degli eventi? Forse, ma solo se gli effetti della gravità quantistica si propagano anche lontano da queste densità altissime. Altrimenti, come abbiamo detto, niente potrà "risalire" verso l'orizzonte degli eventi. Oppure, e questa è un'altra ipotesi, potrebbe anche rimbalzare, ma in un Universo parallelo non accessibile a noi che siamo fuori dal buco nero.

Perché i "buchi neri" sono neri? Ecco cosa è l'orizzonte degli eventi. I buchi neri sono corpi celesti con una superficie sferica non composta di materia. Tutto ciò che supera l'orizzonte degli eventi viene assorbito. Anche la luce. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 15/03/2020 su Il Giornale. Tutti ormai hanno sentito parlare almeno una volta di buchi neri. Ci sono film dove vengono usati come macchine del tempo, video che li simulano mentre fagocitano una stella, articoli su come i buchi neri dimostrino che Einstein aveva ragione, o su come Einstein aveva torto, e via dicendo. Lo scorso anno abbiamo anche visto la prima vera foto di un buco nero. Noi oggi vorremmo fare uno step-back, un passo indietro, e spiegarvi in dettaglio cosa sono questi buchi neri, e perché sono così affascinanti. Ormai lo sappiamo, potreste dire: sono regioni dello spazio-tempo con un’attrazione gravitazionale talmente grande da non lasciar uscire nulla, nemmeno la luce. Corretto, ma un po’ sbrigativo. Fatevi dare qualche dettaglio in più. Partiamo dalle basi: i buchi neri sono corpi celesti come stelle e pianeti. Presentano però una differenza fondamentale. Se pensiamo a stelle e pianeti, pensiamo ad oggetti materiali più o meno sferici. Essi hanno una superficie esterna, che sia solida, gassosa o allo stato di plasma, che possiamo chiaramente distinguere dal vuoto dello spazio interstellare perché composta di materia. Insomma, possiamo far atterrare una navicella spaziale sulla superficie di un pianeta, o, in linea di principio, possiamo spedire una navicella a sciogliersi sulla superficie solare. Quando parliamo di un buco nero, invece, la superficie a cui ci riferiamo per definirlo è il cosiddetto "orizzonte degli eventi". Quest'ultimo è sì una superficie più o meno sferica, ma non è composta di materia. Anche qualora riuscissimo ad avvicinarci, non potremmo atterrare sull'orizzonte degli eventi di un buco nero. Questo perché esso è una barriera immateriale nello spazio oltre la quale succede qualcosa di particolare.

Buchi neri e pianeti. Per capire cosa succede immaginiamo di nuotare in mare aperto e di imbatterci in un vortice, con l’acqua che turbina verso il suo interno. Se ci accorgiamo del pericolo in tempo, possiamo invertire direzione e fuggire. Più siamo vicini al vortice, tuttavia, più forte sarà la corrente che ci trascina verso il centro e più difficile sarà riuscire a fare dietro-front e scappare dal pericolo. Ad una certa distanza, poi, sfuggire sarà impossibile e verremo trascinati inesorabilmente all’interno del vortice. Questa distanza-limite definisce un cerchio intorno al centro del vortice oltre il quale, anche usando tutte le nostre forze, non riusciremo più a uscire. Sostituiamo ora l'acqua con lo spazio-tempo e la forza del turbine con l'attrazione gravitazionale. Quel cerchio che delimita il vortice nell'acqua, nel caso di un buco nero corrisponde ad una superficie sferica chiamata “orizzonte degli eventi”. È una superficie immateriale che definisce il buco nero stesso, oltre la quale niente può più sfuggire, nemmeno la luce. Per riuscire a fare dietro front servirebbe un'energia infinita, impossibile da raggiungere: tutto ciò che entra nell'orizzonte degli eventi è dunque destinato a muoversi verso il centro. Compresa la luce. Per questo motivo si chiamano "buchi neri". Le stelle, infatti, le vediamo perché emettono la luce prodotta dalle reazioni nucleari che avvengono al loro interno. I pianeti li vediamo perché la luce delle stelle si riflette sulla loro superficie, arrivando a noi. I buchi neri invece non producono luce, e la luce che supera l'orizzonte degli eventi non riesce più ad uscirne; in altre parole un buco nero non riflette la luce, ma la assorbe completamente. Per questo motivo non possiamo vederli nel senso stretto del termine: sono completamente neri immersi nel nero dello spazio interstellare. Vi starete chiedendo: e allora come possiamo dire che esistono? Per capirlo, dovete solo pazientare fino a domenica prossima.

Reazioni nucleari, crash stellari. Ecco come nasce un buco nero. Tre processi spiegano la nascita dei buchi neri. Così possiamo "fotografarli" e osservare la loro formazione nello spazio interstellare. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 22/03/2020 su Il Giornale. Immaginate di rinchiudervi dentro un armadio. È tutto buio, totalmente nero. Di fronte a voi avete una camicia, nera pure questa. Se vi chiedessimo di descriverla, la reazione sarebbe scontata: "Come si fa? Non si vede". Risposta logica. La scorsa settimana (leggi qui) ci eravamo lasciati con questo assunto: i buchi neri sono corpi celesti completamente neri, immersi nello spazio interstellare (nero pure lui). Sono insomma la camicia nel nostro armadio. Eppure, pur non potendo "vederli", possiamo affermare che esistono. Come è possibile?

​Perché i "buchi neri" sono neri? Ecco cosa è l'orizzonte degli eventi. La spiegazione si trova nelle equazioni della relatività generale, attraverso le quali possiamo simulare i movimenti di stelle e altri oggetti intorno ad un buco nero. Osservando movimenti compatibili con queste equazioni, si può concludere che lì al centro è presente un buco nero. Stiamo cioè "vedendo" il buco nero perché riconosciamo l'effetto della sua attrazione gravitazionale sugli oggetti che passano nei paraggi. In un certo senso è simile a chiederci: come facciamo a sapere se un oggetto è un magnete o meno? La teoria del magnetismo dice che se avviciniamo un oggetto metallico ad un magnete, esso viene attratto. Ecco, così come scopriamo che un oggetto è un magnete "vedendo" l'effetto del suo campo magnetico su oggetti metallici, così scopriamo che in una certa regione dello spazio c’è un buco nero "vedendo" l'effetto del suo campo gravitazionale su corpi celesti. La differenza è che il magnete possiamo vederlo anche con i nostri occhi, mentre il buco nero no, visto che - oltre a non averne (fortunatamente) uno appeso al frigorifero - essi si confondono con lo spazio interstellare. Come abbiamo detto nel precedente articolo, infatti, un buco nero non produce luce come le stelle, né la riflette come i pianeti. Nonostante ciò, quasi un anno fa, è stata annunciata al mondo la "prima foto di un buco nero" (guarda). Questo strabiliante risultato è frutto di anni e anni di lavoro di una collaborazione mondiale di scienziati che va sotto il nome di "Event Horizon Telescope", il telescopio per fotografare l'orizzonte degli eventi. Ma se il buco nero non emette luce, quale luce è stata impressa sulla "pellicola" del telescopio? Anche in questo caso,stiamo parlando della luce emessa da qualcosa che orbita intorno al buco nero. Ma ciò che rende questa foto così importante e strabiliante, è che la luce catturata è quella emessa dal plasma che si forma molto vicino all'orizzonte degli eventi. Così vicino che nell'immagine possiamo veramente vedere un cerchio nero contornato dal plasma. Quel cerchio nero è l'orizzonte degli eventi del buco nero al centro di M87, una galassia che dista 53 milioni di anni luce dalla Terra! Il buco nero fotografato ha una massa pari a 6 miliardi di volte quella del sole! Numeri pazzeschi! Un altro strumento a disposizione per osservare i buchi neri è quello delle onde gravitazionali. Per spiegare bene cosa sono ci servirebbe un intero articolo. Quello che è interessante accennare, però, è che osservando le onde gravitazionali si è "visto" per la prima volta un buco nero formarsi. E questo ci porta ad un altro quesito interessante: come nasce un buco nero? I processi possibili che conosciamo sono essenzialmente tre. Nel primo, il buco nero è il prodotto finale della vita di una stella molto grande. Vediamo come. Ogni corpo celeste, a causa della gravitazione, tende a collassare su se stesso. Ad una stella non succede perché le reazioni nucleari che avvengono al suo interno tendono a farla esplodere, contro-bilanciando il collasso gravitazionale. Quando però il carburante (l'idrogeno) finisce, la stella non brucia più e inizia a collassare finché, per una reazione particolare, esplode espellendo gran parte del materiale esterno. Resta dunque solo il nocciolo, incapace di produrre nuove reazioni nucleari. A seconda della sua massa, il nocciolo andrà a formare tipi diversi di corpi celesti di grandissima densità: nane bianche, stelle di neutroni o pulsar. Se la massa è superiore a circa 3 volte la massa del sole, il nocciolo collasserà sotto al suo peso fino a superare la famosa barriera di sola andata per formare un orizzonte degli eventi e, quindi, un buco nero. Il secondo scenario è dovuto a fluttuazioni di densità nei primi istanti di vita dell’Universo: questi si chiamano buchi neri primordiali, ma ne sappiamo molto poco per approfondirli in questa sede. Il terzo processo, che è quello dal quale è partito questo detour, è dato da due stelle di neutroni che “spiraleggiano” una intorno all’altra fino a scontrarsi. Il prodotto di questo spettacolare scontro è una stella di neutroni molto pesante (più di 3 masse solari) che collassa quasi istantaneamente a formare un buco nero. Nel 2017 gli esperimenti LIGO in America e VIRGO a Cascina (Pisa) hanno rilevato il primo segnale di onde gravitazionali compatibile con questo processo di formazione. Nel primo articolo di questa nuova serie abbiamo capito che quello che definisce un buco nero è il suo orizzonte degli eventi, una superficie sferica immateriale oltre la quale anche la luce è destinata a muoversi verso il centro. Oggi abbiamo capito che un buco nero si forma dal collasso di stelle di grande massa, o dallo scontro di stelle di neutroni che non avrebbero formato un buco nero da sole. La domanda che potrebbe sorgere è: ma che fine fa la stella che è collassata oltre l'orizzonte degli eventi, così come tutto quello che cade in buco nero e non può più uscirne? O in altre parole, cosa c’è dentro un buco nero? Come direbbero nelle migliori serie: lo saprete nella prossima puntata.

La realtà non è come vi sembra. Ecco perché tuffarsi nella fisica. Parte la rubrica di fisica e scienza del Giornale.it. Le domande (e le risposte) alle leggi che regolano l'Universo. Andrea Indini, Sabato 11/01/2020, su Il Giornale. Spesso ci relazioniamo alla fisica, o alla scienza in generale, con la stessa incertezza con cui si tenta un'avance ad una bella donna. Ci affascina, ma "è troppo per me, non mi guarderà neppure". Meglio rinunciare e lasciare che altri provino al nostro posto. Il paragone potrà apparire poco aulico, ma è veritiero. Quante volte vi sarà capitato di domandarvi il "perché" di tante cose, senza trovare una risposta dettagliata, ma di semplice comprensione. Avrete (forse) studiato a scuola che il tempo scorre al mare più veloce che in montagna, avrete sentito dire che esistono dei "buchi neri" dove tutto quello che ci finisce dentro, luce compresa, non esce più. Magari conoscete la gravità, senza però andare molto oltre la mela che cade dall'albero. E siete convinti che il mondo sia nato dal Big Bang, mentre gli scienziati sono già andati oltre sostituendo quella teoria con un'altra. Il problema, come con quella bella donna, è che capire la scienza fino in fondo non è cosa da comuni mortali. Forse neppure il Nobel per la fisica potrà dire di aver compreso nel dettaglio tutto quello che l’Universo può dirci. Ma è anche vero che un'idea delle leggi che lo muovono può riuscire ad averla anche chi non ha due lauree e un paio di master alle spalle. Basta che qualcuno le spieghi in modo accessibile. Questa nuova rubrica del Giornale.it dedicata alla fisica (e alla scienza) nasce per questo. Per permettere al lettore di "intuire" fatti, regole, teorie che regolano l'Universo. Non sono cose "dell’altro mondo", ma di questo mondo. Più complicate di un romanzo, certo. E forse la matematica che le sostiene le fa apparire inaccessibili, ma è solo questione di allenamento (e di allenatore). Non è un caso, forse, se le "Sette brevi lezioni di fisica" di Carlo Rovelli sono diventate un caso editoriale in Italia. La voglia di comprendere c'è, serve solo il supporto giusto. La rubrica si intitolerà "Spazio curvo". Un luogo - o meglio uno "spazio" - dove porsi delle domande e provare a dare delle risposte corrette, chiare ma accessibili su come la scienza regola l'Universo (e quindi le nostre vite). La cureranno Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, marito e moglie, due "cervelli" italiani trapiantati all'estero. Lui, perugino, è laureato in fisica, ha lavorato nel gruppo di Rovelli (inserito tra i 100 migliori pensatori del mondo) ed è ora ricercatore negli Stati Uniti. Si occupa di buchi neri e onde gravitazionali. Lei, invece, è catanese, neuroscienziata e ha studiato come la matematica e la fisica possono applicarsi al trattamento dell'epilessia. A loro due potrete anche chiedere (scrivendo alla mail: spaziocurvo@ilgiornale-web.it) di rispondere alle vostre curiosità sui segreti della fisica. Proveranno a farvi avvicinare a quella bella donna che è la scienza.

L'Universo si sta espandendo, ma senza occupare altro spazio. Secondo la relatività generale, la metrica spazio-temporale cambia con il tempo: il metro cosmologico si restringe e di conseguenza la distanza tra le galassie aumenta. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. Anche Einstein ha fatto i suoi errori. Il più grande di tutti? Stando alle sue parole, l'essersi attaccato all'idea che l'Universo debba essere statico, contrariamente a quanto predetto dalla sua stessa teoria, la relatività generale. Oggi abbiamo numerose prove teoriche e sperimentali del fatto che l'Universo sia in realtà in una fase di espansione. "Ma in cosa si espande?". È proprio con questa domanda, menzionata anche nel nostro primo articolo (clicca qui per leggerlo), che è nata l'idea di creare questa rubrica. "Gasp, è una delle cose più difficili da raccontare", ha risposto Carlo Rovelli quando gli abbiamo chiesto come lui proverebbe a spiegarlo. Abbiamo fatto lo stesso con altri tre stimati fisici della gravitazione e amici: Abhay Ashtekar, Alejandro Perez ed Eugenio Bianchi. Il risultato? Quattro risposte diverse, a conferma della complessità dell'argomento. Non avendo spazio per proporle tutte, prendiamo spunto da esse per spiegarlo con parole nostre. Il punto in comune di tutte le risposte, cruciale per capire il problema, è che è il termine "espansione" a non essere propriamente corretto, e quindi ad indurre confusione. Infatti, quando si pensa a una cosa che si espande, si immagina quella cosa immersa in uno spazio esterno, e che con il passare del tempo occupa una parte sempre più grande di tale spazio. Nel caso dell'Universo, però, esso è lo spazio stesso, e non è quindi contenuto in nessun altro spazio esterno. Come può quindi espandersi? Per capirlo, facciamo un passo indietro e partiamo dai dati sperimentali. Nel 1929 Edwin Hubble osservò che le galassie si allontanano l’una dall’altra, o meglio, che la distanza tra di esse aumenta col passare del tempo. L'Universo si sta quindi espandendo nel senso comune del termine, potremmo concludere. Ma è questa l'unica spiegazione possibile di questi dati? Ecco un esempio. Immaginate di essere dentro una stanza, per semplicità quadrata, e avere un metro per misurare la distanza tra le pareti. Il primo giorno effettuate la misura e la stanza risulta lunga 2 metri. Il secondo giorno 2 metri e 40 centimetri. Il terzo 3 metri, e così via. O la stanza si sta espandendo invadendo il soggiorno o... il metro si sta rimpicciolendo! Per quanto assurda possa suonare questa seconda opzione, questo è proprio quello che accade nell'Universo. Secondo la relatività generale, infatti, il "metro" con cui misuriamo le distanze tra le galassie, in termini tecnici la metrica spazio-temporale, cambia con il tempo. È come avere un metro elastico che si può estendere o restringere così che le tacche su di esso diventano più rade o più fitte. Il metro cosmologico si sta restringendo, e di conseguenza la distanza tra le galassie sta aumentando. In questo senso l'Universo si "espande", e lo può fare senza andare ad occupare alcuno spazio esterno. 

Ecco perché nulla nell'Universo può andare più veloce della luce. È un pilastro della fisica moderna. Le caratteristiche strutturali dello spazio tempo impongono un limite alla velocità di qualsiasi oggetto nel cosmo: quella della luce. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 26/01/2020, su Il Giornale. Forse ricorderete di quando nel 2011 i fisici dei laboratori nazionali del Gran Sasso annunciarono la sconcertante scoperta che i neutrini, particelle con massa piccolissima, viaggiano più veloci della luce. La scoperta sconvolse e allarmò la comunità scientifica, e non solo. Se confermata, infatti, avrebbe falsificato un pilastro della fisica moderna, ovvero che niente può andare più veloce della luce. L'allarme rientrò quando si capì che il curioso fenomeno era dovuto ad un malfunzionamento dell'apparato sperimentale. I neutrini non fanno quindi eccezione, e viaggiano ad una velocità inferiore a quella della luce. Proviamo allora a capire perché questo limite non può essere superato, cominciando con un'analogia. Immaginate di correre, partendo da fermi. Inizialmente aumentare la propria velocità è un gioco da ragazzi. Per arrivare a 5 km/h basta semplicemente camminare. Man mano che la velocità cresce, però, diventa sempre più difficile aumentarla ancora. È necessario un bello sforzo per passare da 20 a 25 km/h (ammesso di arrivarci), molto più di quello necessario per passare da 0 a 5 km/h. Non importa quanto talento, allenamento ed energia ci mettiamo: esiste una velocità limite oltre la quale l'uomo non può correre per via delle caratteristiche strutturali del suo fisico. Un nuovo campione potrebbe superare i 45 km/h toccati da Usain Bolt, ma non raggiungerà mai i 120 km/h del ghepardo. Allo stesso modo, le caratteristiche strutturali dello spazio tempo impongono un limite alla velocità di un qualunque oggetto nell'Universo. Questo limite è di circa 300 mila km/s, ovvero la velocità della luce nel vuoto, di solito indicata con la lettera "c". Quindi, anche salendo su un aereo o sul più futuristico razzo, non supereremmo mai la velocità "c" e non riusciremmo neanche a raggiungerla. Questa è una conseguenza della teoria della relatività ristretta di Einstein. Essa dice infatti che più un oggetto va veloce, più energia serve per fargli aumentare ancora la velocità. Proprio come quando correndo passiamo da 0 a 5 km/h o da 20 a 25 km/h. Al punto che, affinché questo oggetto raggiunga la velocità della luce, servirebbe una quantità infinita di energia. Inoltre, oggetti più leggeri possono raggiungere più facilmente velocità più elevate. Fino ad arrivare ad una particella con massa zero, il fotone, che è il costituente della luce stessa e viaggia, appunto, a velocità "c". Ma perché c'è bisogno della relatività ristretta? E perché la luce gioca questo ruolo chiave nelle sue equazioni? La risposta sta in una delle principali motivazioni che portò Einstein a formulare, nel 1905, la sua teoria. Qualche anno prima, infatti, Michelson e Morley in Ohio portarono a termine un esperimento sui fasci di luce dal risultato sorprendente. Se Bolt e un ghepardo si corressero incontro, ognuno vedrebbe l'altro avvicinarsi ad una velocità relativa data dalla somma delle loro velocità: 45+120=165 km/h. L’esperimento mostrò che se a scontrarsi sono invece due fasci di luce, l'impatto non avviene a velocità c+c=2c, ma sempre a c! Per poter spiegare questo controintuitivo fatto sperimentale, Einstein riscrisse le leggi del moto dando vita alla relatività ristretta. In questa teoria le velocità di due oggetti che si vengono incontro non si sommano più secondo le classiche regole dell'addizione, ma seguono una formula più complicata, che trovate in immagine (clicca qui), nella quale entra in gioco proprio c. Per Bolt e il ghepardo, così come per tutte le velocità di cui facciamo esperienza nella vita quotidiana, la differenza rispetto alla classica addizione è impercettibile. Ma l’effetto diventa molto importante negli esperimenti con particelle velocissime come per esempio quelle accelerate nei laboratori del CERN di Ginevra. Provate a sostituire v_1 = c e v_2 = c nella formula: quanto risulta essere la velocità relativa? Si, esatto, due fasci di luce si scontrano a velocità relativa c, e non 2c. Ma cosa accadrebbe se, per assurdo, la velocità limite potesse essere superata? Allora diverrebbero possibili eventi paradossali, si potrebbe invertire lo scorrere del tempo e potremmo percepire gli effetti prima delle loro cause. Ma questa è, fino a prova contraria, solo fantascienza.

Quel respiro cosmico dell'Universo che si espande e (forse) ri-collassa. Le risposte ai lettori alle domande su Big Bang e Big Bounce: dal collasso dell'Universo alla completezza delle teorie sulla nascita del cosmo. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale. Forse non ci avremmo messo la mano sul fuoco, ma la speranza - si sa - è l’ultima a morire. I fatti ci hanno confermato che Spazio Curvo ha attirato l'interesse di voi lettori e attivato il desiderio di conoscere qualcosa in più sull'affascinante mondo della fisica. Ci avete scritto, in tanti, chiedendo spiegazioni, approfondimenti, curiosità. Legittimo: l'origine del nostro Universo non è tema che possa essere sviscerato interamente in un unico articolo, e non ne avevamo la pretesa. Per questo abbiamo pensato fosse utile rispondere, dove possibile, ad alcune delle vostre domande sull'argomento.

Perché l’Universo dovrebbe ri-collassare? La teoria del Big Bounce è, al momento, una delle alternative più affascinanti per spiegare la vita del cosmo. Piccolo riassunto: se tornassimo a 15 miliardi di anni fa, vedremmo l'Universo contrarsi per un miliardo di anni, rimbalzare e ri-espandersi nell'Universo che viviamo oggi. Questa è l’essenza del Big Bounce e il messaggio principale del nostro articolo (potete leggerlo qui). Nello scrivere il pezzo, ci eravamo poi spinti oltre, immaginando, come speculato da alcuni ricercatori, che a un certo punto l'Universo in espansione smetta di crescere e inizi a contrarsi, fino a rimbalzare ancora e ricominciare, in un eterno ciclo di espansioni, contrazioni e rimbalzi. Una sorta di affascinante “respiro cosmico o battito cosmico”, come avete scritto. Qualcuno di voi però si è chiesto: ma se Hubble scoprì che l'Universo va espandendosi, non dovrebbe ragionevolmente continuare a farlo all'infinito per poi "morire"? Perché invece dovrebbe ri-contrarsi e poi rimbalzare? Si tratta di una giusta osservazione. In effetti, per quanto ne sappiamo oggi, l'ipotesi che l’espansione rallenti fino a invertirsi e che l'Universo si ri-contragga è solo una delle possibilità. Non l’unica. Ovviamente è possibile che esso cresca all'infinito, oppure che arrivi ad una fase stazionaria nella quale non si espanderà più. Nulla è da escludere, per ora.

Ma la teoria del Big Bounce è completa? Vi avevamo spiegato che la teoria normalmente studiata a scuola, quella del Big Bang (grande esplosione), è in realtà "incompleta". La sua incompletezza deriva dalla incompletezza della teoria della relatività generale quando viene usata per descrivere enormi masse compresse in piccolissimi volumi, come accadde per l’Universo 14 miliardi di anni fa. Per questo i ricercatori stanno sviluppando teorie più complete che incorporino effetti quantistici, che ci aspettiamo essere importanti in tali regimi estremi. Le teorie della gravità quantistica predicono che il Big Bang sia rimpiazzato dal Big Bounce. Ora, giustamente qualcuno di voi si è chiesto: ma chi ci assicura che la teoria del Big Bounce sia "completa"? Risposta semplice: nessuno. Il Big Bounce non è la risposta finale ad un problema complesso come l'origine dell’Universo. Ma è proprio questo il bello della scienza. Ogni scoperta apre nuove domande e nuovi orizzonti, spingendo lo studioso a non soddisfare mai la sete di conoscenza. Più nello specifico, tutte le teorie della gravità quantistica sono ancora in fase di sviluppo, e nessuna di esse è ad oggi perfettamente coerente dal punto di vista matematico. Tuttavia ci sono dei risultati comuni a (quasi) tutte queste teorie: uno di questi è la rimozione delle singolarità, e quindi il superamento del Big Bang in favore del Big Bounce.

Come possiamo usare teorie incomplete? Il legittimo dubbio che può sorgere, e che in effetti qualcuno di voi ha sollevato, è che la scienza possa apparire come "un cimitero di teorie sbagliate". Se il Big Bang è "incompleto", se le teorie della gravità quantistica non sono ancora coerenti dal punto di vista matematico e se non v'è certezza neppure sul Big Bounce, come ci si può fidare? Ad esempio: come facciamo ad "utilizzare" la relatività generale ogni volta che usiamo il GPS, se si tratta di una teoria incompleta? Sembra assurdo, certo. In realtà, come anche accennato sopra, ogni teoria fisica, come quella della relatività generale, ha dei regimi di applicabilità e uno spettro di domande alle quali può rispondere. In questo senso ogni teoria è incompleta. Ma se in alcuni regimi, come quelli vicini alla singolarità, presenta delle incongruenze, questo non inficia la sua piena validità in regimi lontano dalle singolarità. In questi sistemi la relatività generale funziona perfettamente, superando tantissime evidenze sperimentali. Ed è in questi regimi che viene usata nei calcoli per la geolocalizzazione, quindi il GPS. La scelta dello strumento da usare, in questo caso la teoria, dipende quindi dalla domanda alla quale vogliamo rispondere. Se volessi dipingere una miniatura mi servirebbero pennelli piccoli e precisi. Per imbiancare una parete, invece, va bene usare un rullo da imbianchino. Certo, se avessi molto tempo da perdere potrei lanciarmi nell'impresa di imbiancare casa con un pennello molto piccolo, ma sarebbe ostico e non otterrei risultati migliori. Viceversa, invece, se tentassi di creare la miniatura col rullo otterrei un risultato sicuramente sbagliato. In questa analogia applicata alla cosmologia, la relatività generale è il rullo da imbianchino, che funziona perfettamente per dipingere l'evoluzione del nostro Universo quando il suo volume è sufficientemente grande. Potremmo usare la gravità quantistica, ma complicherebbe inutilmente i nostri calcoli. Usare questo pennello da miniatura (la relatività quantistica) risulta invece essenziale per descrivere i primi istanti dell’Universo. Allo stesso modo, se volessimo calcolare la traiettoria di un disco lanciato alle Olimpiadi, converrebbe usare la teoria Newtoniana. Usare la teoria più completa, ovvero la relatività generale, darebbe comunque risultati esatti, ma introdurrebbe complicazioni inutili. Ogni domanda e sistema da studiare richiede uno strumento adatto per farlo, e nuove domande possono richiedere lo sviluppo di strumenti innovativi che sono le nuove teorie scientifiche.

E se il Big Bang non fosse mai esistito? Si studia a scuola, tutti lo conoscono. Ma per la fisica è una teoria "incompleta". Un'alternativa? Il Big Bounce: un eterno ciclo di espansioni, contrazioni e rimbalzi. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 12/01/2020, su Il Giornale. Eh si, ci tocca cominciare questa rubrica scientifica dandovi una brutta notizia: avete presente la teoria del "Big Bang" (grande esplosione) da cui prende il nome la famosa serie televisiva? Probabilmente è sbagliata! La buona contro-notizia è che l’alternativa è ancora più affascinante: si tratta della teoria del "Big Bounce" o grande rimbalzo.

Di seguito proviamo a spiegarvi in cosa consiste. Cominciamo con una precisazione: cosa si intende qui per "sbagliata"? Ecco un esempio: nel 1687 Isaac Newton presentò al mondo una fantastica teoria della gravitazione che spiega una vasta quantità di fenomeni, come le mele che cadono dagli alberi e la terra che gira intorno al sole. Fallisce però nel rendere conto di altre osservazioni come, per esempio, la deviazione della luce dovuta all'attrazione gravitazionale dei pianeti. La teoria di Newton è quindi sbagliata? No, è incompleta! Ci ha pensato la relatività generale di Einstein a completarla: è praticamente identica alla teoria Newtoniana quando vogliamo sapere perché gli oggetti cadono in terra o come i pianeti orbitano intorno al sole, ma descrive anche altri fenomeni che rimanevano inspiegabili. La relatività generale è l’odierna teoria della gravitazione, con implicazioni spettacolari come l’esistenza dei buchi neri. La usiamo ogni giorno anche noi, ogni volta che attiviamo il GPS del nostro smartphone. Come la teoria di Newton, anche la teoria del Big Bang è incompleta. E la sua incompletezza è una diretta conseguenza dell’incompletezza della teoria della relatività generale. Aspetta, penserete, non ci avete appena detto che la relatività generale completa la teoria Newtoniana? Si, e fino ad ora non c’è nessun fenomeno osservato che non sia in accordo con la teoria di Einstein. Tuttavia, essa presenta delle incongruenze interne. Predice infatti l’esistenza di "singolarità spazio-temporali", cioè punti dello spazio-tempo in cui la teoria stessa non è più valida. Proprio una di queste singolarità è all’origine del Big Bang. Come?

La teoria del Big Bang. Nel 1929 Edwin Hubble fece una sconcertante scoperta: l’universo si sta espandendo. “In cosa si espande” sarà argomento di un prossimo articolo, quindi per ora non pensateci. Questa espansione è perfettamente spiegata dalle equazioni matematiche della relatività generale, che ci dicono anche che se riavvolgessimo il nastro del film della vita dell'Universo, lo vedremmo contrarsi per circa 14 miliardi di anni. A quel punto tutto l’universo sarebbe concentrato in un solo punto: la singolarità primordiale, nota a tutti come Big Bang! E qui sorge il problema: al Big Bang le equazioni non sono più valide e non possiamo usarle per sapere quale è il prequel del nostro film. Potremmo fermarci qui, accontentarci della teoria del Big Bang e pensare che è così che il nostro universo ha avuto origine: da un'esplosione di un punto originata da non si sa cosa e non si sa perché. Un'intrigante ipotesi, però, è che le equazioni della relatività generale diventino incomplete (poco) prima che l’universo si comprima in un punto. Quando l’enorme massa dell'Universo si contrae in un volume molto piccolo, infatti, ci aspettiamo che entri in gioco anche la meccanica quantistica, la teoria usata per descrivere le forze microscopiche, come quella che tiene l’elettrone intorno al nucleo.

La teoria del Big Bounce. Per spiegare come è nato l'Universo, quindi, serve una nuova teoria che completi la relatività generale, incorporando la gravità con la meccanica quantistica. Alcune delle pretendenti, tra cui in particolare la "gravità quantistica a loop", predicono la comparsa di una sorta di nuova forza repulsiva che ferma la contrazione dell’universo, facendolo rimbalzare verso una nuova era di espansione. L’universo non può quindi contrarsi in un punto e il Big Bang è rimpiazzato dal Big Bounce. È come quando schiacciamo una palla di spugna con la mano: la palla si contrae fino a quando le forze elastiche delle fibre sono tali da renderci incapaci di schiacciarla ulteriormente. La gravità quantistica produce un effetto equivalente a queste forze elastiche, ed è così forte che la nostra mano è costretta a riaprirsi e lasciare la palla espandersi nuovamente. La gravità quantistica dirige quindi il prequel del nostro film. Immaginiamo allora di guardare il film partendo da 15 miliardi di anni fa, un miliardo di anni prima del Big Bounce. Quello che vedremmo è l'Universo che si contrae per un miliardo di anni, rimbalza quando è piccolo come un protone, e si ri-espande, venendo popolato da stelle, galassie, pianeti e da noi stessi. Ad un certo punto potrebbe smettere di espandersi, cominciare a contrarsi, fino a rimbalzare ancora e ricominciare, in un eterno ciclo di espansioni, contrazioni e rimbalzi. Non ci resta che sperare di avere il prima possibile dati sperimentali che confermino o meno questa affascinante ipotesi.

·        L’estinzione di massa.

Scoperta l’estinzione di massa di 233 milioni di anni fa. Il Dubbio il 16 Settembre 2020.

In un articolo pubblicato oggi sulla prestigiosa rivista "Science Advances", un team internazionale di geologi e paleontologi descrive un nuovo evento di estinzione, avvenuto circa 233 milioni di anni fa, e chiamato Episodio pluviale Carnico. Non capita spesso venga identificata una nuova estinzione di massa, un evento di sconvolgimento degli ecosistemi globali così intenso da lasciare traccia indelebile nella storia della vita. In un articolo pubblicato oggi sulla prestigiosa rivista "Science Advances", un team internazionale di geologi e paleontologi descrive un nuovo evento di estinzione, avvenuto circa 233 milioni di anni fa, e chiamato Episodio pluviale Carnico. La ricerca è stata condotta da un team guidato da Jacopo Dal Corso della China University of Geosciences, di cui fanno parte anche ricercatori delle Università di Padova e Ferrara, del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), del Museo delle scienze di Trento (Muse) e del Museo di scienze naturali dell’Alto Adige. Gli studiosi – si legge in una nota congiunta – hanno esaminato prove geologiche e paleontologiche raccolte in decenni di rilievi sul campo, analisi di laboratorio e modellizzazioni derivandone un quadro completo delle cause, delle dinamiche e degli effetti dell’Episodio pluviale Carnico. Le cause sono state messe in relazione con massicce eruzioni vulcaniche nella provincia di Wrangellia, di cui abbiamo oggi testimonianze in Canada occidentale ed in Alaska. “Nel Carnico vi fu un’enorme eruzione vulcanica che produsse circa un milione di chilometri cubi di magma”, afferma Andrea Marzoli dell’Università di Padova. Le eruzioni iniettarono in atmosfera enormi quantità di gas serra come l’anidride carbonica, che portarono ad un riscaldamento globale. Questa fase di riscaldamento globale fu associata ad un forte aumento delle precipitazioni. Di qui il riferimento ad un periodo ‘pluviale’ che durò circa un milione di anni. Questo improvviso cambiamento climatico – segnalano gli studiosi – causò una grave perdita di biodiversità negli oceani e sulle terre emerse, tanto da poter essere catalogata da Dal Corso e colleghi tra le più profonde fasi di estinzione nell’intera storia della vita. Subito dopo l’evento di estinzione nuovi gruppi fecero la loro comparsa o si diversificarono rapidamente, come ad esempio i dinosauri, contribuendo all’origine di nuovi ecosistemi. “Molti gruppi di piante e animali si diversificarono in questo momento, tra cui alcune delle prime tartarughe, i coccodrilli, le lucertole, i primi mammiferi e le prime moderne foreste di conifere”, sottolinea Jacopo dal Corso. “L’Episodio pluviale Carnico ebbe un profondo impatto anche sulla vita marina e nella chimica degli oceani. Questo è documentato, per esempio, nelle Dolomiti, dove la crisi del Carnico è visibile in modo spettacolare nella morfologia del paesaggio, con le celebri pareti di dolomia che vengono interrotte da rocce poco resistenti che si sono deposte proprio durante questo evento, quando gli ecosistemi collassarono”, aggiunge Piero Gianolla dell’Università di Ferrara. Negli ultimi decenni i paleontologi hanno identificato cinque grandi estinzioni di massa nella storia della vita, e numerose estinzioni di minore grandezza, ma pur sempre catastrofiche. I risultati di questo nuovo studio identificano una nuova estinzione nel Carnico, che agì come un motore importante per l’evoluzione della vita. “Sentiamo spesso parlare di estinzioni di specie in conseguenza delle profonde alterazioni climatiche e ambientali in atto. La storia scritta nelle rocce e nei fossili ci mostra quanto intense e perduranti siano le conseguenze di grandi eventi di estinzione – aggiunge Massimo Bernardi, paleontologo del Muse di Trento -. Questi eventi sono segnati da crisi e, contemporaneamente, da rinnovamento della vita, e mostrano altissima contingenza: è difficile prevedere chi si troverà dalla parte dei vinti e chi dei vincitori”. Un’interpretazione che, rileggendo il concetto di estinzione, suggerisce speranza ma anche grande cautela a chi si trovi a vivere nel bel mezzo di una nuova crisi ecosistemica planetaria. Come noi.

Scoperta l'estinzione di massa che ha plasmato il mondo così com'è ora. Pubblicato mercoledì, 16 settembre 2020 da Giacomo Talignani su La Repubblica.it. La sesta, che si aggiunge alle cinque finora conosciute, sarebbe stata scatenata da una eruzione vulcanica. Ipotizzata grazie all'esame di prove geologiche e paleontologiche raccolte in anni di lavoro e analizzate grazie alle nuove tecnologie. La scoperta porta la firma italiana. Una sesta estinzione di massa mai individuata prima. Il mondo come è ora, potrebbe essere stato influenzato da questo evento avvenuto circa 233 milioni di anni fa. Si tratta di una estinzione (cinque quelle "grandi" e note) finora sconosciuta e chiamata "Episodio pluviale carinco". Sarebbe stata scatenata da una eruzione vulcanica, ipotizzata grazie all'esame di prove geologiche e paleontologiche raccolte in anni di lavoro e analizzate grazie alle nuove tecnologie.  La scoperta porta la firma italiana: la ricerca è stata infatti coordinata da Jacopo Dal Corso, della China University of Geosciences, insieme al Museo delle Scienze di Trento (Muse), le Università di Ferrara e Padova, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) e il Museo di Scienze Naturali dell'Alto Adige. Pubblicata sulla rivista scientifica Science Advances, la ricerca racconta i dettagli dell'eruzione che portò alla sesta estinzione che si inserisce dunque fra quelle già note e studiate, ovvero l'Ordoviciano-Siluriano (circa 450 milioni di anni fa), Devoniano superiore (circa 375 milioni di anni fa), Permiano-Triassico (circa 250 milioni di anni fa), Triassico-Giurassico (circa 200 milioni di anni fa) e Cretaceo-Paleocene (o Cretaceo-Terziario, circa 65 milioni di anni fa). Come le altre transizioni biotiche, dal carattere disastroso, anche la sesta appena individuata fu caratterizzata da eventi catastrofici e distruttivi che cambiarono per sempre il Pianeta: l'eruzione vulcanica iniettò in atmosfera enormi quantità di gas serra come l'anidride carbonica, che portarono a un riscaldamento globale associato a un forte aumento delle precipitazioni  e che durò circa un milione di anni. L'improvviso cambiamento climatico ha accelerato la perdita di biodiversità negli oceani e sulle terre emerse e subito dopo l'evento di estinzione , ipotizzano gli studiosi,  nuovi gruppi fecero la loro comparsa o si diversificarono rapidamente. Fra questi ad esempio anche  i dinosauri, contribuendo all'origine di nuovi ecosistemi. In questo periodo, comunemente,  viene definita "sesta estinzione di massa" a livello globale quella in corso che sta portando alla scomparsa di tantissime specie animali e vegetali e alla perdita di biodiversità a causa della crisi climatica e dell'azione umana.   Secondo Andrea Marzoli, dell'Università di Padova, "nel Carnico ci fu un'enorme eruzione vulcanica, che produsse circa un milione di chilometri cubi di magma".  "L'estinzione nel Carnico agì come un motore importante per l'evoluzione della vita" aggiunge Massimo Bernardi, paleontologo del Muse. "La storia scritta nelle rocce e nei fossili - continua l'esperto - ci mostra quanto intense siano le conseguenze di grandi eventi di estinzione. Questi eventi sono segnati da crisi e, contemporaneamente, da rinnovamento della vita, in cui - conclude - è difficile prevedere chi si troverà dalla parte dei vinti e chi, invece, tra i vincitori".

Asta record a New York: Stan, il T-Rex, venduto per 31,8 milioni di dollari. Clarissa Cancelli l'8 ottobre 2020 su La Repubblica. Lo scheletro di tirannosauro messo all'asta da Christie's è stato venduto per 31,8 milioni di dollari: una cifra che ha superato di quattro volte quella di partenza. L'asta per aggiudicarsi Stan - nome dato al T-Rex in onore del paleontologo che ha scoperto le sue ossa - è stata seguita in streaming da 280mila spettatori. Lo scheletro sarà visibile dalle vetrine del Rockefeller Center di  New York 24 ore su 24 fino al 21 ottobre, quando il misterioso acquirente andrà a ritirarlo.

Paolo Virtuani per il "Corriere della Sera" il 6 ottobre 2020. Nome: T-Rex (Stan per gli amici). Altezza: quasi 4 metri. Lunghezza: 12 metri. Denti: 58, lunghi e ben affilati. Età: 67 milioni di anni. Professione: terrore delle terre emerse. In serata da Christie' s a New York andrà all'asta uno scheletro di Tirannosauro tra i più completi mai scoperti. Chi si aggiudicherà le 199 imponenti ossa di Stan (così soprannominato in onore del suo scopritore, il paleontologo dilettante Stan Sacrison) dovrà sborsare una cifra tra i 6 e gli 8 milioni di dollari (5,1-6,8 milioni di euro). «Non dimenticherò mai il momento in cui ci siamo trovati faccia a faccia», ha detto James Hyslop, capo della sezione cimeli naturali della casa d'aste: «Era più grande e più feroce di quanto mi ero immaginato». Dopo Jurassic Park , i dinosauri hanno conosciuto un boom di interesse senza precedenti. Se prima erano confinati in qualche polverosa sala dei musei di storia naturale, ora i loro resti vengono contesi alle istituzioni scientifiche da miliardari che a colpi di rilanci da infarto non vogliono perdere l'occasione di esibire uno scheletro gigantesco nei giardini delle loro ville. E Stan non farà eccezioni. La sua storia è già degna di un film. Morto probabilmente circa un milione di anni prima della grande estinzione alla fine del Cretaceo dovuta all'asteroide che colpì la Terra e che spazzò via il 75% delle specie viventi, i primi frammenti delle sue ossa furono visti nel 1987 non lontano da Buffalo, nel Sud Dakota, tra le rocce di Hell Creek, una formazione che già aveva restituito fossili eccezionali. Stan Sacrison in realtà non stava cercando dinosauri, ma reperti vegetali quando si imbattè lungo i fianchi di una collina nelle ossa della cintura pelvica di un esemplare che classificò come un Triceratopo. Gli scavi iniziarono solo cinque anni dopo, l'11 luglio 1992, sotto la guida di Peter Larson, uno dei maggiori esperti mondiali del settore. Dapprima con una scavatrice per rimuovere il grosso degli strati superiori, poi con sempre maggiore cura fino ad utilizzare pinzette e pennelli da barbiere per non rovinare i reperti. Subito però si capì che le ossa appartenevano al principe dei dinosauri: il Tyrannosaurus rex. Lo scavo, la rimozione e la successiva composizione dello scheletro pezzo per pezzo hanno richiesto 30 mila ore di lavoro. La straordinaria completezza del teschio e l'ottimo stato di conservazione hanno permesso agli studiosi di affinare le conoscenze su uno dei più grandi carnivori mai apparsi sul pianeta. Stan quasi sicuramente era un esemplare maschio che nel corso della sua vita dovette affrontare molte battaglie per la sopravvivenza, testimoniate dalle ferite sulla parte posteriore della testa e su una costa dovute all'attacco di un altro T-Rex. Un ulteriore segno alla base del cranio fa ipotizzare che subì un altro colpo, due vertebre si saldarono e gli provocarono una perdita di mobilità e forti dolori per il resto della sua vita. Sono state fatte varie stime del suo peso che si aggirava intorno alle 8 tonnellate. Dei suoi reperti sono state fatte una sessantina di copie, che ora sono distribuite nei musei di tutto il mondo. Le cause della sua morte sono sconosciute, forse avvenne per una malattia oppure le ferite e i dolori alle ossa gli impedirono in tarda età di andare a caccia di adrosauri, rettili con il becco ad anatra di cui era ghiotto. Ora però è diventato una star e la sua sarà la prima asta di Christie' s a essere commentata in diretta streaming con collegamenti da Londra e Hong Kong.

·        Gli Ufo.

Ex generale israeliano: “Siamo in contatto con gli alieni e Trump stava per dirlo”. Le iene News l'11 dicembre 2020. Le dichiarazioni choc del generale Haim Eshed, ex capo del programma di sicurezza spaziale israeliano, fanno il giro del mondo con particolari da pura fantascienza, compreso un contratto tra Stati Uniti e Federazione Intergalattica e una base comune su Marte. Martedì scorso vi abbiamo parlato con Niccolò Torielli dei misteri attorno agli avvistamenti di Ufo, tra chi dice che è tutto una copertura per nuove armi terrestri create per militarizzare lo spazio e chi teme davvero l'invasione degli alieni. “Gli alieni esistono, c'è una base americana su Marte, esiste un accordo tra Stati Uniti e extraterrestri. E Donald Trump stava per raccontare ogni cosa”. Lascia quanto meno sorpresi, e parecchio increduli, l'intervista rilasciata al quotidiano Yediot Ahronot da Haim Eshed, ex numero uno dal 1981 al 2010 del programma di sicurezza spaziale israeliano. Martedì scorso con Niccolò Torielli vi abbiamo parlato in onda, nel servizio qui sopra, dei misteri attorno agli avvistamenti di Ufo tra chi dice che è tutto una copertura per nuove armi terrestri create per militarizzare lo spazio e chi teme davvero l'invasione degli alieni. Lo abbiamo fatto partendo da tre video che mostrano oggetti non identificati, girati da aerei militari Usa e dichiarati autentici dalla Marina americana. Per la gioia di cospirazionisti e ufologi, le frasi di Haim Eshed sono state riprese in inglese dal Jerusalem Post e stanno facendo il giro del mondo. Il generale israeliano, oggi 87enne, parla addirittura dell’esistenza di una ''Federazione Galattica'' e sostiene che Israele e Usa hanno contatti con gli alieni da anni. La collaborazione prevederebbe anche la creazione di una base sotto la superficie di Marte, dove ci sarebbero contatti tra rappresentanti alieni e statunitensi. Non poteva mancare Donald Trump: sapeva tutto e stava per rivelare tutto. “Non è un caso se durante il suo mandato ha inaugurato una forza armata spaziale”: Trump nel dicembre 2019 ha in effetti firmato lanciato la Us Space Force per difendere gli asset americani nello spazio. Non si parlava però di alieni. Gli extraterrestri non vorrebbero che la loro esistenza e i contatti vengano rivelati ancora ufficialmente perché gli esseri umani “devono evolversi e arrivare a un livello tale da comprendere cosa siano lo spazio e le navi spaziali". Sarebbero però curiosi dell'umanità e stanno cercando di capire "il tessuto dell'universo": "C'è un accordo tra il governo degli Stati Uniti e gli alieni. Hanno firmato un contratto con noi per fare esperimenti qui". Perché il generale racconta ora tutta questa storia (che sembra ovviamente davvero poco credibile)? "Se avessi detto cinque anni fa quello che sto dicendo, mi avrebbero ricoverato. Oggi non ho niente da perdere: ho avuto i miei riconoscimenti, i miei meriti sono riconosciuti anche all'estero in ambito accademico". Un indizio sul perché di queste sue dichiarazioni potrebbe essere trovarsi nel contemporaneo lancio del suo nuovo libro “L'universo oltre l'orizzonte”.

Gerry Freda per "ilgiornale.it" il 18 giugno 2020. Una recente ricerca scientifica ha realizzato una stima delle civiltà extraterrestri attive nell’universo, giungendo alla conclusione che il loro numero sarebbe pari a 36 e che le stesse sarebbero in comunicazione radio con noi. Il calcolo in questione è stato fatto dagli esperti dell’università di Nottingham basandosi sull’assunto che la vita intelligente si evolva su altri pianeti esattamente come si è perfezionata sulla Terra. Le popolazioni aliene considerate dallo studio in questione sono state chiamate dai ricercatori britannici Communicating Extra-Terrestrial Intelligent civilisations (Ceti), in quanto civiltà caratterizzate dalla capacità di trasmettere onde radio. La ricerca citata è stata pubblicata lunedì sulla rivista The Astrophysical Journal. Quella trentina di comunità aliene è stata stimata dagli accademici di Nottingham, puntualizza Askanews, pur non essendo mai stata trovata alcuna prova dell’esistenza di vita extraterrestre. Ciononostante, gli accademici, impostando un parallelo tra l’evoluzione della vita sulla Terra e un analogo sviluppo biologico andato in scena sugli altri copri celesti della Via Lattea, sono pervenuti alla teoria per cui si dovrebbero cercare nella nostra galassia almeno 36 civiltà aliene specializzate, come noi, nell’invio di segnali radio nello spazio. Queste probabili civiltà sono state calcolate dagli studiosi, precisa l’agenzia di stampa, mediante stime conservatrici, dando contestualmente per buona l’ipotesi per cui le Ceti durino non più di 100 anni, ossia il periodo in cui la specie umana ha trasmesso onde radio. Quelle 36 civiltà extraterrestri rappresentano, a detta degli esperti che hanno preso parte allo studio di Nottingham, il limite astrobiologico copernicano. Maggiori dettagli sui calcoli effettuati dai ricercatori sono stati forniti, fa sapere l’organo di informazione italiano, da Christopher Conselice, astrofisico dell’ateneo britannico: “Dovrebbero esserci poche decine di civiltà attive nella nostra galassia sulla base dell’assunto che ci vogliono cinque miliardi di anni perché la vita intelligente si formi su altri pianeti. L’idea è di guardare all’evoluzione, ma su scala cosmica. Chiamiamo questo calcolo il limite astrobiologico copernicano”. In particolare, l’individuazione del limite citato deriva dall’assunto per cui nei pianeti che, come la Terra, si trovano nell’orbita abitabile di una stella e hanno la giusta distribuzione di elementi, la vita intelligente comunicante via radio si evolva tra i 4,5 e i 5,5 miliardi di anni dopo la formazione del pianeta. Le 36 Ceti, prosegue Askanews attenendosi ai risultati dello studio, sarebbero disseminate in maniera uniforme nella Via Lattea. Tuttavia, gli stessi accademici hanno subito provveduto a smorzare i facili entusiasmi circa imminenti “incontri ravvicinati del terzo tipo”. La civiltà aliena più vicina a noi, alla luce delle stime appena pubblicate, si troverebbe a 17mila anni luce dalla Terra, rendendo di conseguenza impossibile ogni comunicazione radio tra il corpo celeste sconosciuto e il nostro pianeta. Le medesime probabili popolazioni extraterrestri, inoltre, vivrebbero su corpi celesti ubicati vicino a delle nane rosse, ossia a delle stelle completamente diverse dal nostro Sole, in quanto molto meno potenti e altamente instabili. Di conseguenza, conclude l’agenzia rifacendosi sempre alla ricerca di Nottingham, è elevata la probabilità che, nei fatti, la nostra sia l’unica civiltà attiva nella Via Lattea.

Trump rivela qualcosa sull'ufo caduto a Roswell: "Ho notizie interessanti". Trump ha accennato ai dettagli in suo possesso sul presunto schianto Ufo di Roswell nel corso di una conversazione con il figlio Donald Jr.. Gerry Freda, Sabato 20/06/2020 su Il Giornale. Donald Trump ha ultimamente accennato al fatto di essere a conoscenza di “dettagli interessanti” sui fatti di Roswell, cittadina del Nuovo Messico in cui si sarebbe schiantata al suolo, nel 1947, una presunta navicella aliena. Da quell’anno, l’episodio ha continuato ad appassionare gli ufologi di tutto il mondo, nonché ad alimentare teorie del complotto. Il tycoon si è lasciato sfuggire tale indiscrezione nel corso di un’intervista con il suo figlio maggiore Donald Jr., realizzata in vista dell’imminente festa del papà, che negli Usa si celebra quest’anno il 21 giugno. Durante la conversazione con il suo rampollo, prodotta e diffusa giovedì dallo staff della campagna elettorale per la rielezione di The Donald, l’inquilino della Casa Bianca, riferisce Fox News, affronta insieme al proprio erede diversi temi, compresi i segreti custoditi dal governo di Washington riguardo alla vita extraterrestre. Trump Jr., nel video dell’intervista citata, chiede a questo punto al padre: “Prima che scada il tuo mandato, ci farai scoprire se gli alieni esistono? Perché questa è l’unica cosa che vorrei davvero sapere. Voglio sapere quello che sta succedendo. Autorizzerai alla fine gli accessi a Roswell, facendoci conoscere cosa sta avvenendo lì?”. Su queste ultime parole del figlio maggiore del magnate, l’emittente fornisce subito una precisazione, rimarcando che Roswell sarebbe in realtà visitabile da chiunque e che, anzi, l’economia cittadina sarebbe attualmente incentrata proprio sul turismo ufologico di massa. Il presidente americano risponde quindi alle sollecitazioni del figlio accennando ad alcune informazioni importanti che sarebbero in suo possesso proprio circa i fatti avvenuti oltre 70 anni fa in Nuovo Messico: “Tante persone mi fanno questa domanda. Ci sono milioni e milioni di persone che vogliono andare lì, che vogliono andare a vederci chiaro. Non ti dirò i particolari che conosco su Roswell, ma ti assicuro che sono molto interessanti. Roswell rimane comunque un posto molto attraente, con un sacco di gente desiderosa di andare a vedere cosa accade lì”. Pressato in seguito dal rampollo riguardo alla possibilità di desegretare i documenti governativi sull’episodio verificatosi nel 1947, il tycoon si trae d’impaccio, sempre nell’intervista riportata da Fox News, con un “ci penserò”. La chiacchierata tra i due si sposta poi su questioni più leggere, come “le barbe” di Donald Jr. e di alcuni senatori repubblicani, che il presidente ha bollato come inestetiche. La conversazione termina con l’erede che domanda al padre se verrà concessa la grazia presidenziale a Joseph Maldonado-Passage, ex candidato alla Casa Bianca nelle file del Partito libertario e attualmente in carcere con una condanna a 22 anni per omicidio su commissione. Il leader del Gop reagisce allora alle pressioni del figlio limitandosi a definire il caso giudiziario citato come una “faccenda strana”, senza sbilanciarsi sull’eventualità di graziare il detenuto. Tornando alla questione-Ufo, importanti passi in avanti sono stati compiuti di recente dalle istituzioni federali sul piano della trasparenza. Ad esempio, il Pentagono, ad aprile, ha reso di pubblico dominio alcune riprese, effettuate da piloti della Marina, che mostrano appunto oggetti volanti non ancora identificati.

Ora il Pentagono "svela" gli Ufo: ecco i video degli avvistamenti. A detta della Difesa Usa, i video, benché mostrino oggetti ancora non identificati, non apporterebbero elementi significativi alle tante indagini sugli Ufo. Gerry Freda, Martedì 28/04/2020 su Il Giornale.  Nuovi video sugli Ufo sono stati oggi resi pubblici dalla Difesa Usa, con l'autorizzazione del Pentagono alla diffusione di tre filmati realtivi a oggetti volanti non identificati. I video in questione erano stati però, precisa AdnKronos, già lasciati filtrare al pubblico di tutto il mondo anni addietro. I medesimi file, inoltre, erano desegretati. I tre video il cui rilascio è stato concesso oggi in via definitiva dai vertici militari americani, puntualizza The Hill, sono stati girati in anni diversi: uno nel 2004 e gli altri due nel 2015. I filmati erano stati appunto già sottoposti all'analisi del pubblico, spiega un comunicato del dipartimento della Difesa a stelle e strisce, una prima volta nel 2007 e poi di nuovo nel 2017. La stessa nota fa sapere inoltre che i video in questione sono stati girati da piloti in forza alla Marina degli Stati Uniti e che immortalano fenomeni nel cielo che ad oggi restano ancora "non identificati". Tuttavia, pur essendoci ancora dubbi circa la natura degli oggetti avvistati dai piloti e ripresi da quei tre filmati, il Pentagono ha oggi chiarito che gli stessi non forniscono comunque alcuna rivelazione sull'esistenza di capacità o sistemi di particolare importanza. Né aggiungono elementi significativi alle tante indagini in corso sugli Ufo. La diffusione dei tre file, inoltre, è stata oggi presentata dalla Difesa di Washington, riferisce The Hill, come intesa a "fugare le speculazioni del pubblico" sulle informazioni riguardo agli avvistamenti di oggetti misteriosi contenute negli archivi governativi americani. La recente operazione- verità condotta dalle forze armate Usa mediante la divulgazione dei tre video è stata subito elogiata, fa sapere la testata statunitense, da Harry Reid, ex capogruppo democratico al Senato. Egli ha però contestualmente indicato le prove rese pubbliche oggi dal Pentagono come nient'altro che "la superficie" della grande quantità di materiale sugli Ufo che, a suo dire, sarebbe attualmente custodito in territorio Usa.

Alessandra Spinelli per "ilmessaggero.it" il 28 aprile 2020. Le immagini in bianco e nero sono davvero mozzafiato: oggetti volanti che si muovono velocemente nello spazio e che cambiano direzione come una pallina da ping pong. Le riprese di tre brevi video sono riferiti  a vari anni fa ma solo oggi il  Pentagono ha autorizzato ufficialmente la divulgazione di quelle immagini riguardanti Ufo, Unidentified flying objects. Immagini già filtrate al pubblico lo scorso anno e già riconosciute come veritiere dalla Marina. Ora il Dipartimento alla Difesa ha però concesso la divulgazione ufficiale di quei tre filmati non secretati, uno dei quali registrato nel novembre 2004 e gli altri due nel gennaio 2015 «Dopo un'attenta revisione, il dipartimento ha stabilito che il rilascio autorizzato di questi video non classificati non rivela alcuna capacità o sistema sensibile - ha dichiarato la portavoce  Susan L. Gough in una nota - e non ostacola le successive indagini sulle incursioni dello spazio aereo militare da parte di  fenomeni aerei non identificati». Insomma nessun pericolo per la sicurezza Usa e un punto fermo sulla veridicità dei video.  l video, come riporta la Cnn, mostrano quelli che sembrano essere oggetti volanti non identificati che si muovono rapidamente mentre vengono registrati dalle telecamere a infrarossi. In due di questi si sentono le voci dei piloti Usa che reagiscono meravigliati dalla rapidità con cui si muovono gli oggetti. Una voce ipotizza che potrebbe trattarsi di droni di nuova concezione. I video della Marina sono stati mostrati per la prima volta tra il dicembre 2017 e il marzo 2018 da To The Stars Academy of Arts & Sciences, una compagnia co-fondata dall'ex musicista dei Blink-182 Tom DeLonge, appassionato allo studio degli Ufo.  Nel 2017, uno dei piloti che aveva visto uno degli oggetti non identificati nel 2004 aveva dichiarato alla Cnn che si muoveva in modi che non poteva spiegare.  «Mentre mi avvicinavo ... accelerò rapidamente a sud e scomparve in meno di due secondi -, ha dichiarato David Fravor, pilota della Marina statunitense in pensione - Questo è stato estremamente brusco, come una pallina da ping pong, che rimbalza contro un muro. Colpisce e va da un'altra parte» 

Identificati in Italia 140 Ufo in 18 anni, l'ultimo il 18 gennaio nell'Ossola. Le Iene News il 20 gennaio 2020. L'Aeronautica Militare Italiana: tra il 2001 e 2019 sono stati identificati in Italia 140 Ufo, ovvero “oggetti volanti non identificati”. Sabato 18 gennaio l’ultimo avvistamento. L'Aeronautica Militare Italiana ha pubblicato un dossier con i dati dei 140 Ufo identificati in Italia negli ultimi 18 anni. E vengono catalogati come Ovni, ovvero “Oggetti volanti non identificati”. Insomma non stiamo parlando per forza di veicoli alieni: potrebbe trattarsi anche solo di fenomeni naturali o di droni e altri velivoli militari. Noi de Le Iene ne abbiamo parlato e abbiamo incontrato con Enrico Lucci anche gli adepti del culto raeliano, convinti di aver incontrato da tempo gli extraterrestri. Il più recente Ufo è quello dei cieli di Val d’Ossola al confine con Canton Ticino. Si tratterebbero di Starlink, i satelliti del magnate Elon Musk lanciati in orbita il 7 gennaio. Lo confermerebbe il sito di tracciamento satellitare Heavens Above. Gli oggetti avvistati insomma farebbero parte di un progetto nato per creare una costellazione di piccoli satelliti a banda larga e per fornire così agli utenti di tutto il mondo un accesso a Internet ad alta velocità. Tornando al database dell'Aeronautica, in testa alla classifica degli Ufo identificati troviamo la Campania con 20 segnalazioni “strane”, ancora non spiegate. Al secondo posto c’è la Lombardia con 19 avvistamenti, seguono la Toscana con 16 oggetti non identificati, il Lazio con 14, l’Emilia-Romagna con 13 e il Veneto con 10 oggetti. All’ultimo posto c’è Sicilia con 9 Ufo. I dischi volanti non sembrano amare invece i cieli di Val d’Aosta, Molise, Umbria e Sardegna, come riportato da La Stampa. Qualcuno sarà sicuramente contento di questo annuncio e starà magari speculando su questi dati. Con Enrico Lucci siamo andati a parlare, nel servizio che potete vedere qui sopra, con i raeliani, seguaci di un culto secondo cui alcuni extraterrestri scientificamente avanzati, chiamati Elohim, avrebbero creato la vita sulla Terra attraverso l'ingegneria genetica. “Ho visto degli Ufo durante alcuni incontri raeliani”, racconta Marco Franceschini, uno dei 90mila raeliani presenti nel mondo. I nostri creatori sono buonissimi. “Hanno la pelle olivastra”, spiega un altro adepto a Le Iene, “e sono alti circa 1 metro e 25”.

Marcello Giordani per “la Stampa” il 20 gennaio 2020. Sono 140 i casi di oggetti volanti non identificati che tra il 2001 e il 2019 hanno coinvolto il territorio italiano e non hanno trovato una spiegazione scientifica. Non lo dicono gli appassionati di Star Trek o i patiti di X-Files, ma l' Aeronautica Militare Italiana, che ha pubblicato il dossier sugli avvistamenti che sfuggono a ogni spiegazione naturale o tecnica. L'Aeronautica non dice che quella sfera che girava a velocità incredibile a 200 metri di quota e sparava luci rosse sopra il condominio fosse un velivolo alieno, si limita a precisare che dopo accertamenti per capire se ci fosse qualche correlazione con eventi umani o fenomeni naturali, non è stato trovato nessun riscontro: l' episodio va classificato come Ovni, oggetto volante non identificato. A promuovere un controllo statele sugli ufo era stato nel 1978 Giulio Andreotti: il presidente del Consiglio era stato sollecitato a occuparsene a fronte di apparizioni sempre più frequenti. L'Aeronautica era stata designata quale organismo istituzionale deputato a raccogliere, verificare e monitorare le segnalazioni. Da quella data gli ufo non hanno più smesso di atterrare su Montecitorio. Interrogazioni e dibattiti si sono moltiplicati: celebre il battibecco nel 2000 alla Camera fra il sottosegretario alla Difesa, Gianni Rivera, e il deputato di An, Sandro del Mastro dalle Vedove. L'ex golden boy aveva liquidato l'argomento sostenendo che la raccolta dati dell'Aeronautica aveva solo finalità statistica e che l'attività di monitoraggio non era coordinata con gli alleati. Nel 2012 erano stati due esponenti dell' Italia dei Valori, Giuseppe Vatinno e Francesco Barbato, a chiedere ai ministri della Difesa e degli Esteri cosa ne sapesse il governo in tema di ufo, e se non era il caso di bussare alla Casa Bianca per saperne di più sull' Area 51. Adesso un primo catalogo di avvistamenti che non trovano spiegazione c'è: l' Aeronautica assicura che presto verranno diffusi i dati precedenti al 2001, in fase di elaborazione. Intanto si può consultare una striscia di avvistamenti lunga 18 anni. Dei 140 casi irrisolti la Campania è in testa alla classifica con 20 avvistamenti rimasti inspiegati, seguita da Lombardia (19), Toscana (16), Lazio (14), Emilia-Romagna (13), Veneto (10) e Sicilia (9). I dischi volanti non sfrecciano nei cieli di Valle d' Aosta, Umbria, Molise e Sardegna, rimaste a zero. Il 2010 l' anno con più avvistamenti misteriosi, 27, nel 2017 nessun velivolo anomalo. Di ogni evento il dossier fornisce la scheda schematica, che si conclude con un laconico «dai dati raccolti l' evento non è stato associato ad attività di volo o di radiosondaggio ed è stato pertanto catalogato con Ovni». Di ufo ce n' è per tutti i gusti: un rombo di 10 metri verde, luminoso, come quello che viaggiava a 10-20 metri dal suolo a Monzuno di Bologna il 26 dicembre 2005, i tre oggetti circolari, arancio, che il 20 aprile 2011 volavano a Burrida di Pordenone a 300 metri di quota, o le tre sfere rosso-arancione che il 28 settembre 2014 sorvolano il cielo di Corniolo, frazione di Santa Sofia, in Romagna. Mentre studiosi e Aeronautica aggiornano il database, gli ufo non smettono di volare: sabato nei cieli dell' Ossola avvistate decine di punti luminosi al confine col Canton Ticino. Non erano i velivoli della pattuglia acrobatica svizzera in addestramento notturno, né le riprese del nuovo Indipendence Day: la spiegazione è più prosaica. Il sito di tracciamento satellitare Heavens Above sostiene si sia trattato degli Starlink, i satelliti di Elon Musk lanciati in orbita il 7 gennaio. Mr.Tesla vuol creare una costellazione di satelliti a banda larga per fornire agli utenti Internet ad alta velocità.

·        Fuori di…Terra.

Solar Orbiter, sonda svela per la prima volta il Sole e i suoi falò. L'operazione era stata lanciata lo scorso 10 febbraio per catturare quante più informazioni possibili sul Sole. Adesso sono state rilasciate le prime immagini. Federico Giuliani, Giovedì 16/07/2020 su Il Giornale. Sembrano quasi delle piccole eruzioni, ma in realtà sono bagliori solari in miniatura. Le immagini di Solar Orbiter, la nuova missione di osservazione dell'Esa (Agenzia spaziale europea) e della Nasa, ci hanno consentito di osservare, per la prima volta e a una distanza simile, cosa succede sulla superficie del Sole. L'operazione era stata lanciata lo scorso 10 febbraio per catturare quante più informazioni possibili sul conto della stella più conosciuta dell'universo. La sonda inviata nello spazio si è affidata a dieci strumenti, tre dei quali made in Italy e realizzati da Agenzia Spaziale Italiana (Asi), Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), Thales Alenia Space (Thales-Leonardo), Università di Firenze e Genova. Nonostante la pandemia di Covid la missione non è stata interrotta. Anzi: a metà giugno è stata completata la prima fase di messa in servizio della sonda, che ha così potuto eseguire il suo primo avvicinamento al Sole.

L'importanza della missione. L'Asi ha fatto sapere che la navicella ha potuto contare anche (e soprattutto) sul cronografo italiano Metis, fondamentale per osservare i falò solari. ''Le prime immagini sono uniche, nessuna altra immagine del Sole è stata presa da una distanza così ravvicinata'', ha spiegato l'Agenzia. Già, perché Metis, come ha riferito AdnKronos citando Marco Romoli dell'Università di Firenze e Principal Investigator dello strumento, è il primo cronografo capace di misurare l'emissione ultravioletta dell'idrogeno nella corona solare "simultaneamente l'emissione in banda visibile con una risoluzione spaziale e temporale mai raggiunta da un coronografo sia spaziale sia terrestre". Le osservazioni ottenute da Metis consentiranno agli scienziati di studiare le strutture e i fenomeni collegabili al Sole, tra cui le citate eruzioni di massa coronale. Anche perché fino a oggi nessun altra immagine raffigurante la nostra stella era mai stata ripresa da una distanza così ravvicinata così come quelle acquisite dalla suite di strumenti a bordo di Solar Orbiter.

I prossimi passi. Durante il suo primo perielio, ha evidenziato ancora AdnKronos, il punto in cui l'orbita ellittica della navetta spaziale è più vicino al Sole, Solar Orbiter si è avvicinato fino a 77 milioni di chilometri dalla superficie della stella, circa la metà della distanza tra il Sole e la Terra. Alla fine la navicella si avvicinerà anche di più. La sonda è ora nella sua fase di crociera, e aggiusta gradualmente la sua orbita intorno al Sole. Una volta entrata nella fase scientifica, che comincerà a fine 2021, il veicolo spaziale si avvicinerà a ben 42 milioni di chilometri dalla superficie del Sole, più vicino del pianeta Mercurio. Gli operatori del veicolo spaziale inclineranno gradualmente l'orbita di Solar Orbiter per permettere alla sonda di ottenere la prima veduta corretta dei poli del Sole.

Da video.lastampa.it il 28 giugno 2020. Il 23 giugno il team SpaceX di Elon Musk ha condotto un test di pressione criogenica sul prototipo della Starship SN7, l'astronave che sarà in grado di trasportare un centinaio di passeggeri in viaggi di lunga durata sulla Luna, su Marte e oltre. Durante il test la SN7 è stato riempita con azoto liquido sub-raffreddato ed è stato intenzionalmente pressurizzato al massimo  fino a quando non è scoppiato ed è crollato su un lato. Il test è stato eseguito per determinare se l'acciaio inossidabile 304L è più resistente dell'acciaio inossidabile 301. L'astronave deve essere in grado di resistere a una forza di pressione di 8,6 bar, per trasportare a bordo gli astronauti. Un gruppo di appassionati che hanno installato delle telecamere live nel centro di sperimentazione hanno catturato durante il test qualcosa di insolito: Spot,  il cane robot della Boston Dynamics. Il quattro zampe robotizzato acquistato da SpaceX e chiamato "Zeus" dallo staff di Musk è stato visto camminare sulla piattaforma di lancio ispezionando le conseguenze del crollo dell'astronave e vagare attraverso le spesse nuvole bianche di azoto. La scorsa settimana, i robot Boston Dynamics Spot sono stati messi ufficialmente in vendita al pubblico e SpaceX ne ha acquistato uno. Il cane robot "Zeus" può essere uno strumento utile per l'azienda di Musk perché presenta sensori in grado di raccogliere una grande varietà di dati. Il sito web di Boston Dynamics descrive in dettaglio i diversi usi di Spot alcune utili per SpaceX: telecamere panoramiche a 360° per tenere sotto controllo la piattaforma di lancio, rilevamento di anomalie sonore, ispezione termica, il rilevamento di perdite e può essere utilizzato per ispezionare i prototipi di astronavi.

 (ANSA il 24 giugno 2020) - Dalle onde gravitazionali il segnale che indica un oggetto misterioso e dalla massa insolita che circa 800 milioni di anni fa si è fuso con un buco nero. Descritto su The Astrophysical Journal Letter, il segnale è stato catturato dai rivelatori Advanced Virgo, dell'Osservatorio Gravitazionale Europeo (Eso) e al quale l'Italia collabora con l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), e Advanced Ligo, negli Stati Uniti. Il segnale, arrivato a Terra il 14 agosto 2019, è stato generato dalla fusione di un oggetto cosmico dalla massa insolita, pari a 2,6 volte quella del Sole, che si è fuso con un buco nero dalla massa superiore di 23 volte quella solare. Il risultato è stata la formazione di un buco nero dalla massa di circa 25 volte quella del Sole. "Ancora una volta le osservazioni delle onde gravitazionali contribuiscono a far luce su aspetti ignoti del nostro universo: l'oggetto più leggero in questo sistema binario ha una massa mai osservata finora", rileva il responsabile della collaborazione Virgo, Giovanni Losurdo, dell'Infn. E' infatti una massa intermedia fra quella della stella di neutroni più pesante e quella del buco nero più leggero mai osservati: un intervallo che costituisce l'area grigia che gli astrofisici chiamano 'mass gap' e che da tempo è un vero e proprio rompicapo. Non appena i ricercatori degli osservatori Ligo e Virgo hanno ricevuto il segnale, hanno allertato gli astronomi di tutto il mondo e molti telescopi, terrestri e spaziali, sono stati puntati sulla zona di provenienza del segnale per osservare quella porzione di cielo con altri tipi di segnali, primo fra tutti la luce visibile. E' stato però inutile, probabilmente perché l'evento è avvenuta a una grande distanza e perché se il piccolo oggetto fosse stato una stella di neutroni, il buco nero nove volte più massiccio l'avrebbe 'ingoiata in un sol boccone' senza emettere luce. La scoperta è una sfida per gli astrofisici e dimostra che è ancora poco quello che si sa sulla storia dell'universo e la sua evoluzione. Alcune risposte potrebbero arrivare proprio da Virgo e dai due rivelatori dell'osservatorio Ligo, che "a breve entreranno in una nuova fase del loro programma di miglioramento", ha detto Viviana Fafone, responsabile nazionale di Virgo per l'Infn. "Questo - ha aggiunto - consentirà di osservare un numero sempre maggiore di sorgenti".

SpaceX, la storia è scritta: lanciata la navicella Crew Dragon. La capsula americana Crew Dragon spicca il volo. Il nuovo tentativo della Nasa, dopo il rinvio per maltempo di mercoledì, va a buon fine. Federico Giuliani, Sabato 30/05/2020 su Il Giornale. La navicella della SpaceX di Elon Musk, la Crew Dragon, con a bordo i due astronauti della Nasa, Doug Hurley e Bob Behnken, è partita dal Kennedy Space Center a Cape Canaveral, in Florida, per raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale. Il lancio, rinviato nei giorni scorsi a causa del maltempo, è avvenuto dalla rampa 39/A. Fino all'ultimo il lancio era in dubbio per via delle cattive condizioni meteo, poi migliorate. Una decina di minuti prima del conto alla rovescia arriva il messaggio che tutti aspettavano. "Weather is go for launch": la Nasa concede il via libera. Tre, due, uno: decollo. Alle 15:23 ora locale (le 21:23 in Italia) la capsula americana Crew Dragon - destinata a riportare per la prima volta l'uomo nello spazio dal suolo americano dopo la fine del programma Shuttle nove anni fa - spicca così il volo. Il nuovo tentativo della Nasa, dopo il rinvio per maltempo di mercoledì, va a buon fine. La storia può essere scritta. E pensare che fin dalle prime ore del pomeriggio italiano fonti ufficiali mettevano le mani avanti, annunciando l’eventualità di un nuovo stop. "Stiamo andando avanti con il lancio oggi. La probabilità di cancellazione a causa dei problemi meteo è del 50%", spiegava l'ad della Nasa, Jim Bridenstine. Il rischio, infatti, era che, a causa del maltempo, il lancio potesse scalare a domani. Tutto è invece filato liscio senza alcun intoppo. Pochi secondi dopo il lancio della navicella, la Nasa ha scritto un tweet per rimarcare il successo ottenuto: "Lancio avvenuto. Fatta la storia con il lancio di astronauti della Nasa dal Kennedy Space Center per la prima volta in nove anni sulla Crew Dragon di SpaceX". A bordo della Crew Dragon DM-2, sottolinea l’agenzia Adnkronos, ci sono i due astronauti Hurley e Behnken, entrambi selezionati dalla Nasa nel 2000 per questa storica missione che cambia verso ai voli spaziali umani. A terra, tra i presenti, il presidente statunitense Donald Trump e la moglie Melania. "È incredibile", ha commentato a caldo l'inquilino della Casa Bianca. Hurley e Behnken hanno al loro attivo l'esperienza di due voli Shuttle a testa ed è previsto che rimangano fino agli ultimi giorni del prossimo agosto sulla Iss entrando così a far parte dell'Expedition 63. Una volta partita, il viaggio della capsula verso la Stazione Spaziale Internazionale durerà qualche ora. Ricordiamo che sia la capsula che il vettore a due stadi Falcon 9 sono stati progettati e prodotti dalla società privata americana SpaceX, di proprietà dell'imprenditore visionario Elon Musk. E la missione sta già entrando nella storia perché è la prima volta che una navicella di un privato porta uomini nello spazio.

Crew Dragon, abbraccio nello spazio: gli astronauti sono a bordo dell’Iss. Redazione de Il Riformista il 31 Maggio 2020. Abbraccio storico tra gli astronauti presenti sulla Stazione Spaziale Internazionale e gli astronauti della Nasa Robert Behnken e Douglas Hurley. Il permesso per l’ingresso nell’Iss è stato accordato alle 19:23 ai due astronauti della Nasa che ieri erano partiti a bordo della navicella Crew Dragon. Il programma spaziale è stato realizzato per la prima volta nella storia in collaborazione con un’azienda privata, la Space X di Elon Musk, ceo di Tesla e ideatore del sistema di pagamento online Paypal. I due astronauti sono entrati dopo aver completato le procedure di sicurezza e controllo sulla decompressione. Il razzo era partito alle 21.22 di ieri da Cape Canaveral, in Florida: non succedeva dal 2011, anno in cui terminò il programma Space Shuttle. La navicella Crew Dragon ha raggiunto la Stazione spaziale internazionale con la missione battezzata Demo-2 dopo circa 20 ore, in leggero anticipo sulla tabella di marcia. A bordo della Iss, i due veterani Nasa hanno trovato l’americano Chris Cassidy e i russi Anatoli Ivanishin e Ivan Vagner. L’attracco della capsula alla Stazione spaziale internazionale è avvenuto alle 16:16 ora italiana, a 422 chilometri dalla Terra all’altezza del confine tra Cina settentrionale e Mongolia. Seguirà un’ora di controlli per verificare che tutto sia andato per il verso giusto.

La "missione" di Crew Dragon: attracco alla Stazione spaziale. La navicella Crew Dragon ha terminato il suo viaggio intorno alla Terra. Alle 16:16, ora italiana, i due astronauti americani si sono agganciati all’Iss. Michele Di Lollo, Domenica 31/05/2020 su Il Giornale.  Il viaggio dei primi uomini lanciati in cielo, nello spazio, da una compagnia privata è finito. La Crew Dragon, la navicella della SpaceX di Elon Musk, con a bordo i due astronauti della Nasa, Doug Hurley e Bob Behnken, si è agganciata in leggero anticipo alla Stazione spaziale internazionale (Iss), dove si trovano l’americano Chris Cassidy e i russi Anatoli Ivanishin e Ivan Vagner. L’attracco della capsula alla Stazione spaziale internazionale è avvenuto alle 16:16 ora italiana, a 422 chilometri dalla Terra all’altezza del confine tra Cina settentrionale e Mongolia. Seguirà un’ora di controlli per verificare che tutto sia andato per il verso giusto. Dopo otto ore di sonno, seguite alla lunga giornata del lancio avvenuto alle 21,22 italiane del 30 maggio, i due astronauti sono stati risvegliati dal centro di controlla a Terra con la canzone dei Black Sabbath "Planet Caravan". Sempre in mattinata i due hanno voluto dare un nome simbolico alla loro missione Demo2: l’hanno chiamata Endeavour, in onore di uno degli Space Shuttle e del modulo di comando dell’Apollo 15. La Nasa trasmetterà in streaming anche il momento in cui i due astronauti saliranno a bordo, dove saranno accolti dal connazionale Christopher J. Cassidy e, come dettto, dai due cosmonauti russi Anatoly Ivanishin e Ivan Vagner. Behnken e Hurley dovrebbero rimanere sulla stazione per alcune settimane. Alle 21.22 del 30 maggio – ora italiana – il razzo Falcon 9 è partito dalla rampa di lancio 39A di Cape Canaveral (Florida) e ha spinto in orbita la capsula Crew Dragon con dentro gli astronauti per lanciarli verso la Stazione spaziale internazionale (Iss) a 450 chilometri di distanza. Non succedeva da quasi dieci anni che un equipaggio venisse portato in orbita negli Stati Uniti ed è la prima volta in assoluto che avviene con una società privata. Il lancio è riuscito senza nessun problema. Dopo meno di dieci minuti di volo la Crew Dragon è entrata in microgravità mentre il razzo Falcon 9 è atterrato sulla rampa che era pronta ad accoglierlo. La base di Cape Canaveral è un luogo fondamentale per l’esplorazione spaziale statunitense. Da qui nel 1961 era partito il primo astronauta americano. Oltre ad essere la prima missione privata diretta verso la Stazione spaziale internazionale, Crew Dragon doveva essere anche la prima missione in cui il razzo che sostiene la spinta per la fase del lancio doveva tornare a terra. E così è stato. Il primo stadio del razzo Falcon 9 è atterrato sulla piattaforma "Of couse I still love you", frase romantica per un ritorno a casa. Certo, le simulazioni fatte erano state tante: 73 per la precisione. Tutto, per ora, è filato liscio.

"C'è un topo nella navicella": svelato il "mistero" di SpaceX. Sui social network è diventato virale un video della navicella della SpaceX di Elon Musk, la Crew Dragon, dove si vedrebbe un misterioso "topolino" sopra il motore principale. Ma c'è una spiegazione scientifica. Roberto Vivaldelli Lunedì 01/06/2020 su Il Giornale.  Milioni di persone in tutto il mondo hanno assistito in tv il lancio della navicella della SpaceX di Elon Musk, la Crew Dragon, con a bordo i due astronauti della Nasa, Doug Hurley e Bob Behnken, partita dal Kennedy Space Center a Cape Canaveral, in Florida, per raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale. Alle 15:23 ora locale (le 21:23 di sabato 30 maggio, in Italia) la capsula americana Crew Dragon - destinata a riportare per la prima volta l'uomo nello spazio dal suolo americano dopo la fine del programma Shuttle nove anni fa - ha spiccato il volo, destinazione spazio. Il nuovo tentativo della Nasa, dopo il rinvio per maltempo di mercoledì, è andato a buon fine. L’attracco della capsula alla Stazione spaziale internazionale è avvenuto alle 16:16 ora italiana di domenica pomeriggio, a 422 chilometri dalla Terra all’altezza del confine tra Cina settentrionale e Mongolia.

Un topolino a bordo della SpaceX? No, ossigeno solido. Nel frattempo sui social media è diventato virale un video nel quale, al minuto 4.13, si vedrebbe, poco sopra il motore principale, "un piccolo roditore": l'accusa implicita dei "complottisti" è che il lancio della navicella sia un falso, una montatura costruita ad arte per ingannare il mondo. "Elon Musk è un imbroglione" scrive un utente, mentre un altro ancora osserva: "Incredibile che ingannino ancora le persone con questa finta spazzatura". Trattasi - ovviamente - di una bufala. Come spiega questo sito web specializzato, è ossigeno solido, che si forma quando le navicelle sono nello spazio. Un affascinante spettacolo di fisica spaziale, ma certamente non un topo: un effetto ottico che può trarre in inganno, tuttavia, dato che l'ossigeno sembra assumere le sembianze di un roditore. I motori a delle navicelle spaziali, infatti, usano tonnellate di idrogeno e ossigeno liquidi, il propellente più efficiente, che diventa solido quando viene rilasciato nell'atmosfera spaziale. L'ossigeno solido si forma a pressione normale ad una temperatura inferiore a 54.36 K (-218.79 °C): a pressioni elevate, l'ossigeno solido passa da uno stato di isolante ad uno stato metallico, e a temperature molto basse diventa un superconduttore.

Elon Musk, il "visionario" nel mirino dei complottisti. Nel condividere e commentare il video del misterioso roditore astronauta, molti utenti su Twitter si sono scagliati contro Elon Musk, il fondatore della società privata che secondo un recente studio di Morgan Stanley potrebbe presto valere 120 miliardi di dollari entro dieci anni. L’idea di Musk di creare un business nel campo spaziale, ricorda TgCom24, vide la luce quando venne licenziato da PayPal, la sua seconda startup, mentre era in luna di miele con la moglie a Sydney. A 30 anni si presentò in Russia con una valigetta con dentro 20 milioni di euro, per ultimare l’acquisto dei razzi, ma i russi pretendevano otto milioni di dollari per ognuno di loro e Musk non era disposto a spendere quella cifra. Sull’aereo di ritorno l’illuminazione: prende il suo pc e inizia a progettare dei razzi spaziali, accorgendosi di poterne costruirne molti e a prezzi più contenuti. Da qui la decisione di trasferirsi a Los Angeles, la patria dell’industria spaziale, per reclutare le menti più brillanti degli Stati Uniti. Un genio visionario finito nel mirino dell'ala cospirazionista del web: tanto che, in passato, fu accusato di nascondere l'esistenza degli alieni.

Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 31 maggio 2020. Quella capsula che ricorda un uovo, bianca e piena di bulloni, sulla rampa di lancio di Cape Canaveral, nella piattaforma 39/A del Kennedy Space Center. Nove anni dopo l' ultimo shuttle, che è andato in pensione nel 2011. La prima navicella privata, che una bandiera ce l' ha pure stampata su, ed è quella americana. Ma unicamente perché la Nasa è entrata in affari con la società di Elon Musk, la Space X. L'agenzia spaziale a stelle e strisce mica è la mente dell' intero progetto. Solo un visionario poteva pensarci. Solo un folle poteva riuscirci. A star lì, con il nasino all' insù nel cielo della soleggiata Florida, in una giornata di fine maggio, con gli occhi del mondo puntati addosso perché non capita mica tutti i giorni di puntare alle stelle. Quelle vere. A bordo ci sono Douglas Hurley e Robert Behnken, due che l' esperienza se la sono fatta sul serio, sul campo. Cioè oltre la stratosfera. Hai detto niente. Sugli spalti arriva il presidente Usa, Donald Trump. Piove. Tre, due, uno. Sono le 21.22, il razzo si stacca dal suolo, si fa sempre più piccolo. A terra applaudono, tutti col fiato sospeso sperando che il lancio sia perfetto. Ci vogliono dieci minuti perché gli astronauti arrivino in orbita. Una scena epocale. Tra gli spettatori c' è lui, Elon. Il genio pazzo che se l' è proprio messo in testa, di portarci su Marte. E chi può fargli cambiare idea, adesso?

Le origini. Figlio di una modella canadese e di un ingegnere elettromeccanico sudafricano. La nonna paterna britannica e il nonno materno statunitense: a uno così, è ovvio che il mondo gli va stretto. Sempre in giro, sempre in viaggio. E infatti, Elon, dal cilindro ha tirato fuori prima la Tesla Motors (la casa produttrice di veicoli elettrici e pannelli solari più famosa del pianeta) e poi Hyperloop, un progetto per il trasporto ad alta velocità di merci e passeggeri dentro tubi a bassa pressione. Ha il pallino, lui, degli spostamenti. Quarantanove anni ancora da compiere, gli occhietti vispi che non stanno fermi un attimo e quell' aria da ragazzino che se si ferma è perduto sul serio. C' è chi lo ammira e basta e chi lo definisce una delle menti più brillanti del Ventunesimo secolo. Sono almeno vent' anni che Elon ne tira fuori una delle sue e sbaraglia lo sbaragliabile. Mica solo Tesla, mica solo Hyperloop. Dove ha messo le mani lui, è venuto fuori oro. Sul serio. S' è fatto da solo, come tutti i nerd che perdono diottrie davanti agli schermi dei computer. Lui, però, ha iniziato con il mitico Commodore Vic-20. Altri tempi, altri geni. A 12 anni ha creato il suo primo videogioco, gli han dato 500 dollari per il codice basic con cui l' aveva fatto: era il 1983. Cinquecento dollari, per un adolescente di Pretoria, nel 1983 erano un bel gruzzoletto. Su internet, quel gioco esiste ancora: tanto per dire, la lungimiranza. Vittima di bullismo a scuola, si è naturalizzato cittadino Usa nel 2002. Ma è negli anni Novanta che ha trovato la sua America. Quando con il fratello ha fondato Zip2, la sua prima azienda di software web. Venduta quattro anni dopo per la modica cifra di 307 milioni di dollari (messi sul tavolo cash, banconota dopo banconota) e 34 milioni di stock option. Poteva fermarsi lì e vivere tranquillo il resto dei suoi giorni. Ma uno come Elon non si ferma neanche se lo leghi.

Oltre X.com, PayPal (chi è che non conosce PayPal?), SolarCity. Tutta roba sua. Oggi, nel mondo dell' imprenditoria che conta, se fai il nome di Elon Musk si zittiscono tutti. Anche perché il ragazzo non si fa mancare le bizzarrie da gossip sfrenato. Ha chiamato suo figlio (nato il 4 maggio scorso) X Æ A-12. Come si pronunci, lo sa solo lui. E adesso ha deciso di mettere in vendita tutte le sue megaville perché «voglio disfarmi dei miei beni fisici, il possesso ti appesantisce». Detto fatto, tra l' altro: ché Elon mica ci tentenna, è uno di parola. Quotazione complessiva: 137 milioni di dollari, tra gli immobili c' è anche un castello di 1.500 metri quadrati. È ovvio che uno così non si fa di certo intimidire da due gocce di acqua. Mercoledì il primo lancio (con equipaggio) della sua navetta Crew Dragon è stato annullato all' ultimo minuto causa maltempo. Che sarà mai. Basta riprovarci. Ed è successo ieri sera alle 21.22 ora italiana. Il razzo Falcon 9 è partito dalla base di Cape Canaveral. Non potevano certo fermarlo due gocce di pioggia. «Fatta la storia», è stato il commento della Nasa.

Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 10 aprile 2020. Un fallimento da ricordare? Mentre Trump ordina di scavare miniere sulla luna, sulla Terra ricorre l' anniversario di uno smacco di successo. L' 11 aprile del 1970 dalla base di Cape Canaveral partiva l' Apollo 13: tre uomini, tre americani, tornavano lassù a neanche un anno dallo storico «primo passo» di Neil Armstrong. Ma al secondo giorno ci fu un' esplosione a bordo. Luna addio. Fu già un miracolo se i tre riuscirono a tornare a casa. Il comandante James A. Lovell parlò di un fallimento, «anche se mi piace pensare un fallimento riuscito». In fumo 375 milioni di dollari, ma nessuna vita. Da quell' odissea nacque un film mozzafiato, con Tom Hanks nella parte del comandante. Pochi ricordano la causa prima dell' incidente (un serbatoio d' ossigeno aveva subito un danno durante le prove a terra, ma non venne sostituito per non ritardare «la finestra di lancio»). Quasi tutti conosciamo una battuta, cinque parole: «Houston, abbiamo un problema». È diventato l' annuncio (per antonomasia) di qualcosa che sta andando storto, un' emergenza che non sappiamo come finirà, un certo stile nel reagire. Pacatezza nell' incertezza. «Houston, we have a problem». E pazienza se non furono le parole esatte che arrivarono sulla Terra, da una voce distante 300 mila km. Fu Jack Swigert, pilota del modulo di comando (morì a 51 anni nel 1982), a comunicare con la base Nasa in Texas: «Okay, Houston, qui abbiamo avuto un problema». Da giù chiesero di ripetere, e il comandante Lovell confermò: «Abbiamo avuto un problema». Venticinque anni dopo, lo sceneggiatore di Ron Howard decise di mettere il verbo al presente. E niente «okay». Più forte, più drammatico. «Houston, we have a problem». Forse, nello spazio, il passato suonava più confortante, come se il problema fosse già risolto. In realtà l' incubo era appena cominciato. Si concluse quattro giorno dopo, con un tuffo salvifico nell' oceano Pacifico. «Houston» non fu l' unica frase «infedele» del film. Nella realtà il direttore della missione, Gene Kranz, non disse mai ai suoi uomini (che nell' open space tenevano gli occhi sui monitor e le orecchie puntate sugli astronauti): «Failure is not an option». Lo ha ricordato lui stesso in questi giorni, in occasione dei 50 anni dalla missione. Lui disse: «Questo equipaggio torna a casa. Dovete crederci. E faremo in modo che accada». A Kranz non piace la frase che gli hanno messo in bocca gli sceneggiatori. «Il fallimento non è un' opzione»: un' espressione forse più vicina al vocabolario super-vincente del minatore lunare Donald Trump piuttosto che a quello di un soccorritore da remoto. Allora come oggi ci sono uomini da salvare, non insuccessi da scongiurare: è una differenza sottile, di linguaggio e prospettiva, che in tempi di coronavirus vale la pena di ricordare.

Colpito e ucciso da un meteorite nel 1888 in Iraq. E' il primo caso documentato. Nell'archivio dell'impero Ottomano tre scienziati hanno trovato delle lettere di autorità locali in Iraq che riferivano di una pioggia di meteoriti. Ogni anno ne cadono sulla Terra circa 6.000. Ma le possibilità che uccidano un essere umano sono sono infinitesimali. Matteo Marini il 23 aprile 2020 su La Repubblica. In passato qualcuno ha provato a farci della statistica: quante sono le possibilità che qualsiasi persona ha di essere colpita e uccisa da un meteorite? Le risposte sono varie, ma diciamo che si parla di una su diversi milioni o miliardi. A seconda di come si fanno i calcoli. Anche questo spiega perché, fino a oggi, non si sia mai avuta prova che qualcuno abbia perso la vita per essere stato colpito da un oggetto piovuto dallo spazio. La storia di un tizio parecchio sfortunato è emersa però dagli archivi dell'impero Ottomano. Colpito e ucciso da un meteorite, precisamente a Sulaymaniyah, nell'odierno Iraq. È il primo caso che possiamo considerare confermato di un evento di questo tipo.

Fuoco dal cielo. Era il 22 agosto 1888 quando una pioggia di meteoriti infuocò il cielo nel nord dell'attuale Iraq. Tre lettere, inviate dalle autorità locali a Istanbul, riferivano dell'evento straordinario. In una di queste si riportava il decesso di un uomo colpito da uno dei detriti e di un altro rimasto paralizzato. La scoperta si deve a tre scienziati, il fisico Ozan Unsalan e l'archeologo Altay Bayatli della Trakya University turca, e al "cacciatore di meteoriti" olandese Peter Jenniskens, dell'Ames research center della Nasa. I documenti, scrivono i ricercatori nello studio pubblicato su Meteoritics & Planetary Science, riportano anche di campi incendiati dalla caduta dei frammenti infuocati e le testimonianze di avvistamenti da una città vicina suggeriscono che la direzione dalla quale proveniva fosse sud-est.

La memoria sepolta. Si tratta, dunque, della prima (e finora unica) conferma storica di un meteorite che ha ucciso un essere umano. Sepolta nell'archivio di stato turco. Il perché sia emersa solo ora non è un mistero, lo sottolineano gli stessi ricercatori: "È scritto in una lingua diversa dall'inglese (il turco ottomano ndr) oppure non c'è abbastanza interesse nella registrazione degli eventi storici" che riguardano questo tipo di accadimenti. Come questo, dunque, anche altri episodi potrebbero essere stati notati e messi nero su bianco, e ancora non riportati alla luce. Ma potrebbe essere questione di tempo, visto che milioni di manoscritti e documenti sono stati digitalizzati.

Meteoriti e asteroidi. Sulla Terra piovono ogni giorno circa 50 tonnellate di materiali. La maggior parte finisce per vaporizzarsi in atmosfera con fiammate e scie di luce visibili anche o occhio nudo. Sono le meteore. Quando una meteora sopravvive all'ingresso in atmosfera, il sassolino che tocca il suolo prende il nome di meteorite. Alcuni studi hanno stimato che cadono sulla Terra oltre 6.000 meteoriti ogni anno. Ma spesso si tratta di piccolissimi oggetti, che possono passare inosservati perché attraversano il cielo di luoghi remoti o sugli oceani. I casi di persone colpite da un meteorite sono rarissimi. È raro infatti che un meteoroide (il "sasso" che viaggia nello spazio prima di entrare in atmosfera) riesca a raggiungere la superficie terrestre. Che è coperta, ricordiamo, per lo più da oceani e zone desertiche o molto scarsamente popolate. La probabilità che un essere umano sia centrato da uno di questi proiettili cosmici è davvero infinitesimale. Ma non è zero. Lo imparò a sue spese Ann Hodges, signora trentaduenne dell'Alabama. Il suo era l'unico caso, finora, di una persona colpita. Era il 30 novembre 1954, Ann si trovava a casa sua, sul divano, quando il meteorite sfondò il tetto della sua abitazione e la colpì, per fortuna di rimbalzo e di striscio, lasciandole comunque una vistosa bruciatura su un fianco. In un'altra vicenda, accaduta in India nel 2016, sembrava potesse essere un meteorite la causa della morte di un uomo. Circostanza però smentita da un'analisi della Nasa. Diverso è il caso di un meteorite davvero grosso. A Chelyabinsk, nel 2013, un meteorite esplose sopra la città russa. Non colpì nessuno ma l'onda d'urto fece esplodere migliaia di finestre ferendo centinaia di persone. Quello di Chelyabinsk era uno zuccherino, ovviamente, se comparato all'asteroide che provocò l'estinzione dei dinosauri. Il pericolo dunque dipende dalla taglia di quello che ci cade in testa.

Gli occhi dalla terra che scrutano i meteoriti. Un mantra che recitano in tanti, tra chi si occupa di protezione planetaria, dice: "Non è questione di se ma di quando". Il riferimento è a un "big one", un asteroide davvero grosso, in grado di spazzare via una città, devastare una regione, un continente o addirittura minacciare l'estinzione di gran parte della vita sulla Terra. Compresa l'umanità. È già accaduto in passato e non c'è motivo di pensare che non accadrà ancora. Per questo agenzie spaziali e vari enti in tutto il mondo scandagliano il cielo con una nutrita batteria di telescopi per scoprire sempre nuovi oggetti potenzialmente pericolosi che si avvicinano alla Terra. La buona notizia è che conosciamo praticamente tutti gli asteroidi con un diametro di almeno un chilometro e che in qualche modo possono avvicinarsi alla Terra. Il problema rimane per quelli di taglia inferiore. Dai 140 metri in su, infatti, gli effetti di un impatto possono essere catastrofici per città o intere regioni, e generare tsunami se precipitano in mare. Quelli più piccoli sono ancora più difficili da scovare. Il meteorite di Chelyabinsk era stimato avere appena 30 metri di diametro e nessuno lo aveva visto arrivare. Perché veniva dal lato diurno, quindi quasi impossibile da vedere perché gli strumenti erano "accecati dal Sole". Le incognite, dunque, sono davvero tante. Ma per evitare l'Armageddon ci si sta attrezzando. Con nuovi telescopi che sorveglieranno il cielo, uno dei quali, Flyeye sarà costruito in Sicilia, sul monte Mufara. E con piani di difesa planetaria più estremi. Nel 2021 decollerà la missione Dart della Nasa con a bordo anche un satellite italiano costruito da Argotec. Dart è un proiettile che andrà a colpire il "satellite" di un asteroide, per osservare gli effetti dell'impatto e iniziare a pensare a delle contromisure nel caso qualcosa di veramente pericoloso, un giorno, entri in rotta di collisione con la Terra.

Scoperto un pianeta su cui piove ferro fuso, ma solo di notte. Wasp-76b dista circa 390 anni luce da noi, è un pianeta "gioviano caldo", la faccia che rivolge alla sua stella tocca temperature oltre i 2.400°, tanto da vaporizzare i metalli. Il 'meteo' notturno invece prevede pioggia. È la prima volta che si notano queste differenze, grazie anche al contributo italiano dell'Inaf. Matteo Marini l'11 marzo 2020 su La Repubblica. Piove ferro fuso, su Wasp-76b, un pianeta a qualche passo astronomico da noi e che, a quanto pare, ha un meteo non proprio adatto a gite turistiche interstellari. Due facce come la Luna, una sempre rivolta verso la propria stella, l’altra sempre in ombra. Un’escursione termica di migliaia di gradi e, di conseguenza, correnti che spazzano tutto il pianeta. Una peculiarità, simile a quella di altri 'gioviani caldi' come lui: la temperatura non scende mai sotto i 1.500 gradi. Per la prima volta si è indagato quindi come cambia il 'tempo' dal giorno alla notte in un esopianeta. Gli astrofisici di un grande team internazionale sono riusciti a ricostruire, usando il grande Vlt (il Very large telescope) dell'Eso, in Cile, la composizione dell’atmosfera di questo “Giove” molto esotico. E le sue caratteristiche lasciano supporre che, nell’emisfero rivolto alla sua stella, faccia talmente caldo che anche il ferro lo si trova sotto forma di gas. Ma quando queste nuvole attraversano la linea della sera, nel lato notturno condensano per diventare pioggia metallica.

Metallo pesante. Per comprendere quello che accade su Wasp-76b dobbiamo pensare alla Luna, che rivolge sempre la stessa faccia alla Terra. Così anche quel pianeta nemmeno tanto lontano, circa 390 anni luce nella costellazione dei Pesci, per ruotare su sé stesso impiega lo stesso tempo che per orbitare attorno alla stella: meno di due giorni terrestri, è velocissimo, e quindi anche vicinissimo. Facile immaginare che faccia caldo, su quella faccia costantemente illuminata che raccoglie una radiazione migliaia di volte più alta rispetto a quella che la Terra riceve dal Sole. Ma difficile immaginare quanto: più di 2.400 gradi. Abbastanza, scrivono gli scienziati, per far evaporare anche i metalli, oltre che a scindere le molecole. Così, come sulla terra si generano nubi di vapore acqueo, su Wasp-76b le nubi sono di ferro. Usando lo spettrografo Espresso del Vlt, gli scienziati hanno analizzato la composizione dei gas ai confini della luce, ai due lati opposti del pianeta. In quello che hanno considerato come “il limitare della sera”, hanno misurato una forte presenza di ferro nelle nubi. La firma di questo elemento manca, invece, al confine del mattino. “La ragione è che sul lato notturno del pianeta piove ferro” sottolinea David Ehrenreich, professore all’Università di Ginevra e primo autore dello studio, pubblicato oggi su Nature. Ehrenreich ha guidato il team internazionale del quale fanno parte anche una trentina di studiosi dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e diverse università italiane. Insomma, da 2.400 a 1.500 Celsius il ferro condensa e cade.

I talenti di Espresso. Espresso era stato sviluppato per cercare pianeti simili alla Terra attorno a stelle simili al Sole. Ma si è subito dimostrato (erano le prime osservazioni scientifiche) un ottimo strumento per catturare la debole luce che filtra dall’atmosfera di un gigante gassoso e ci porta la “firma”, lo spettro, degli elementi che la compongono. Insomma, un esordio niente male. Lo spettrografo è stato costruito da un consorzio scientifico del quale fa parte l’Italia assieme a Portogallo, Svizzera, Spagna e lo stesso European southern Observatory. “Pur essendo nel campo da parecchi anni, sono sorpreso e meravigliato dalla rapidità dei progressi della precisione degli strumenti - riflette Stefano Cristiani, ricercatore dell’Inaf di Trieste e co-principal investigator di Espresso, tra gli autori dello studio - Espresso è stato ideato per trovare pianeti come la Terra che ruotano a stelle come il Sole, osservando effetti di spostamento della velocità a livelli piccolissimi, 10 centimetri al secondo. E grazie alla sua estrema precisione, per misurare se le costanti fondamentali della fisica sono uguali anche a miliardi di anni di distanza. Così per la prima volta siamo riusciti a trovare una differenza della chimica dell’atmosfera tra la notte e il giorno in un pianeta fuori dal nostro Sistema solare”. Indizi per studiare l’atmosfera di questi mondi lontani ed estremi. La vera notizia, a dirla tutta, è questa. Perché se su Wasp-76b piove ferro, è difficile anche immaginare dove possa “cadere”, visto che è un gigante gassoso e probabilmente un nucleo solido sul quale costruire un tetto, nemmeno ce l’ha.

Misterioso segnale radio regolare ricevuto da un’altra galassia. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. Nel gergo degli astrofisici si chiama Fast Radio Burst (Frb), lampo radio veloce. Durano millesimi di secondo, provengono dall’esterno della nostra galassia e vengono captati dai radiotelescopi in modo casuale. Ora per la prima è stato registrato un segnale (classificato come FRB 180916.J0158+65) che si è ripetuto secondo uno schema regolare. La notizia proviene dal Canada. Gli scienziati dell’esperimento Chime (Canadian Hydrogen Intensity Mapping Experiment) tra il 16 settembre 2018 e il 30 ottobre 2019 hanno identificato un segnale che aveva il seguente schema: nei primi quattro giorni arrivava una volta ogni ora, poi spariva e ritornava dodici giorni dopo con la stessa modalità. Gli Frb sono una manifestazione ancora non del tutto compresa: per alcuni sono dovuti ai buchi neri, per altri alle supernove, per altri ancora all’azione della materia oscura. Vennero identificati per la prima volta nel 2007 analizzando dati ricevuti nel 2001 e finora ne sono stati registrati alcune decine, anche se alcune stime ritengono che sulla Terra ne arrivino migliaia ogni giorno provenienti da ogni zona del cielo. Sono fenomeni di enorme energia, ma dopo aver attraversato l’Universo arrivano da noi con un impulso di potenza mille volte inferiore a quella di un cellulare posto alla distanza della Luna che invia un messaggio. Gli Frb sono stati ritenuti un mezzo per identificare eventuali civiltà aliene se fossero stati ricevuti con uno schema regolare, tale da ipotizzare un invio preciso e voluto. Ma gli stessi studiosi di Chime dicono che il segnale ricevuto è stato originato con un‘energia tra le più forti dell’intero universo, tale da rendere difficile immaginarlo dovuto a una civiltà anche estremamente avanzata. La provenienza, poi, 500 milioni di anni luce da una galassia a spirale, lo esclude da un’origine all’interno della Via Lattea. Resta però la domanda del motivo della regolarità dell’impulso. Forse una sorgente che ruota intorno a una stella in un sistema binario, oppure una stella di neutroni e una stella massiccia e molto calda. Concludono gli scienziati: servono ulteriori approfondimenti sugli Frb e in particolare su quello osservato.

Il Sole mai così vicino: le straordinarie foto del nuovo telescopio. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Giovannni Caprara. L’immagine ad alta definizione del «Daniel K. Inouye Solar Telescope». Sono stupefacenti le prime immagini del Sole raccolte dal nuovo «Daniel K. Inouye Solar Telescope» («Dkist») sulla vetta del vulcano Haleakala, sull’isola Maui, alle Hawaii, a tremila metri di altezza. Mostrano con un dettaglio impressionante di appena 30 chilometri la ribollente superficie dell’astro, la fotosfera. Una superfice gassosa, caldissima, che raggiunge i seimila gradi, tutta frammentata in «macchie» grandi come lo Stato americano del Texas, contornate da profili più scuri. Se ne sono misurate anche di 1800 chilometri di diametro e il fenomeno lo hanno battezzato granulazione. Queste macchie sono la faccia superiore di una corrente che sale dalle profondità e che poi si inabissa appunto lungo i bordi più scuri. Tutte insieme sono il volto esterno di quella centrale a fusione nucleare che è il nostro astro capace di trasformare ogni secondo circa 700 milioni di tonnellate di idrogeno in elio mentre 4 milioni di tonnellate di massa vengono convertite in radiazioni (raggi gamma e neutrini). La riserva di idrogeno gli consentirà di bruciare e riscaldarci per altri cinque miliardi di anni. Ma il Sole nonostante già Galileo Galilei incominciasse a studiarlo nel 1610 rivelando le macchie sulla sua superficie, rimane ancora una stella ricca di misteri. Il più grande riguarda la temperatura della sua atmosfera, la corona, che sale oltre i due milioni di gradi mentre la superfice rimane a seimila gradi.

Il Daniel K. Inouye Solar Telescope (Idom.com). Le indagini sono condotte da Terra e dallo spazio. Il nuovo telescopio solare Dkist con un diametro dello specchio primario di quattro metri è il più grande osservatorio terrestre finora installato. Numerosi satelliti già a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo hanno puntato i loro occhi verso l’astro distante 149 milioni di chilometri. Nel 2018 la Nasa ha lanciato la sonda Solar Parker che si avvicina per indagare soprattutto l’atmosfera e la prossima settimana partirà la sonda Solar Orbiter (Solo) realizzata assieme tra la Nasa e l’Esa europea, la quale, oltre ad avvicinarsi anch’essa sino a 42 milioni di chilometri, sorvolerà i poli solari, più in dettaglio di quanto non abbia fatto la sonda Ulisse lanciata nel 1990. E questo sarà prezioso per capire i meccanismi della stella che periodicamente con un ciclo di 11 anni oscilla tra un’attività massima e minima. Ora stiamo risalendo dal minimo. Le esplosioni che si osservano come macchie in superficie ora, pian piano, aumentano. Scatenate da potenti campi magnetici lanciano nello spazio fiumi di particelle (soprattutto elettroni e protoni). È il «vento solare» che viaggiando alla velocità di 700 chilometri al secondo investe anche la Terra scatenando delle tempeste magnetiche in grado di influire negativamente sulla nostra atmosfera disturbando le telecomunicazioni. Studiare il Sole sempre più in dettaglio è importante per la scienza astronomica al fine di capire meglio i segreti delle stelle, ma è altrettanto essenziale anche per gestire meglio gli effetti che provoca sul nostro pianeta e quindi sulla nostra vita quotidiana.

A caccia dei segreti del Sole con Metis, il coronografo creato in Italia. Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Caprara. Alle 5.03 (ora italiana) del 10 febbraio la sonda Solar Orbiter è partita da Cape Canaveral a bordo di vettore americano Atlas. Frutto di un programma congiunto dell’Esa e della Nasa volerà intorno al Sole per indagare da, abbastanza vicino (42 milioni di chilometri), alcuni dei misteri che l’astro continua a trattenere. Nonostante che da quasi cinquant’anni siano inviate sonde per studiarlo direttamente dallo spazio senza il filtro dell’atmosfera. Alla realizzazione e alle ricerche di Solar Orbiter contribuiscono gli scienziati italiani attraverso l’Agenzia Spaziale italiana Asi, l’Istituto nazionale di astrofisica Inaf, il Cnr e numerose università. E c’è soprattutto uno dei dieci strumenti di cui dispone, ad essere nato in Italia sotto la guida di Marco Romoli dell’Università di Firenze e costruito da un consorzio industriale formato da OHB Italia e Thales Alenia Space Italia. Ma altri contributi nazionali si trovano su ulteriori tre strumenti per indagare il vento solare, i raggi x e il plasma solare. Ma è soprattutto Metis che affronterà uno degli enigmi più intriganti. Metis è un coronografo che con un filtro oscurerà il cuore dell’astro per poter analizzare il suo circondario, cioè la corona. Succede infatti che la superficie dell’astro abbia una temperatura intorno a seimila gradi centigradi, ma l’atmosfera gassosa soprastante arriva a superare i due milioni di gradi. Attraverso quale processo si arriva al misterioso riscaldamento? si chiedono gli scienziati. «Ci sono delle ipotesi – precisa Marco Romoli , principal investigator di Metis – che ci portano a spiegare o straordinario riscaldamento del plasma solare per effetto del campo magnetico. Inoltre indagando questo fenomeno cerchiamo di decifrare i meccanismi in grado di accelerare il vento solare che proiettato nello spazio coinvolge anche la Terra con effetti talvolta negativi». Romoli da trent’anni studia il nostro Sole iniziando con la collaborazione al satellite Soho dell’Esa. «Ma c’è un altro aspetto innovativo - continua Romoli – caratteristico di Solar Orbiter. Essendo la sua orbita inclinata di 35 gradi rispetto al piano dell’eclittica ciò consentirà di scrutare i poli solari dove si originano molti fenomeni». Il Sole manifesta un ritmo con un ciclo di undici anni, durante il quale rivela un periodo di minima ed un altro di massima attività. Ora stiamo emergendo da una fase di quiete. Sulla sua superficie poche sono le macchie che mostrano la sua turbolenza esplosiva. Da queste esplosioni escono flussi di radiazioni e particelle (soprattutto protoni) che investono la nostra Terra causando delle tempeste magnetiche le quali possono portare danni alle reti elettriche (come è già capitato) e alle reti informatiche particolarmente vulnerabili. Ecco perché studiare il Sole è importante ed ora è un periodo favorevole. Da poco c’è in orbita un’altra sonda della Nasa, la Parker Solar Orbiter, che addirittura si avvicina a 25 milioni di chilometri dall’astro. Ma intorno alla Terra un’altra decina di satelliti scrutano l’astro. Alle Hawaii, inoltre, è entrato in attività un telescopio capace di trasmetterci fotografie della superficie solare con una definizione mai raggiunta. Tanti strumenti potenti da cui ci si aspettano nuovi risultati per difenderci dagli eventuali rischi che la nostra stella può presentare.

Lo stagista Nasa 17enne che ha scoperto un pianeta a 1.700 anni luce. Pubblicato giovedì, 23 gennaio 2020 su Corriere.it da Giovanni Caprara. Wolf Cukier, studente del terzo anno di una scuola superiore di New York: «Un’emozione incredibile. Ma non farei mai l’astronauta». «Quando mi sono reso conto di aver scoperto un nuovo pianeta ero emozionatissimo, non ci credevo». Ancora oggi Wolf Cukier, 17 anni, studente liceale a Scarsdale (New York) trasmette quell’eccitazione nelle parole. Il grande risultato lo ha annunciato nelle scorse settimane al congresso della società astronomica americana di Honolulu con gli scienziati del suo gruppo del centro Goddard della Nasa, delle Università di San Diego e Chicago. Ma è stato lui il vero protagonista e a lui, i grandi, hanno affidato la presentazione. «Già essere selezionato dalla Nasa per lo stage, l’estate scorsa, è stata una vittoria», racconta al Corriere. «Naturalmente speravo di trovare un nuovo corpo celeste, ma le aspettative erano scarse. Mi hanno affidato il compito di esaminare come le stelle binarie TOI 1338 della costellazione “Il pittore”, riprese dal satellite Tess, si eclissavano girando una attorno all’altra ogni 15 giorni. È stato un duro lavoro, poi mi sono accorto di una stranezza anche se non credevo ancora alla presenza di un pianeta. Mi sembrava impossibile. Con il satellite Kepler, tra i milioni di astri scrutati, solo dodici pianeti sono stati trovati intorno a stelle binarie». Wolf si è aggrappato proprio a quella stranezza che ha colto e l’ha approfondita. «Dopo tre giorni, confrontando tutti i dati a disposizione, mi sono reso conto che forse ero stato fortunato», continua Wolf. «I tempi delle eclissi erano diversi da come dovevano essere. Il segnale indicava che poteva esserci davvero un nuovo pianeta e ho consegnato il mio risultato ai professori». Per lunghe ore gli specialisti, impiegando il software «Eleanor» — dal nome della protagonista del romanzo Contactdi Carl Sagan — ideato per confermare i transiti, hanno esaminato le conclusioni dello studente. Aveva ragione: intorno alle due stelle di diversa grandezza, distanti 1.300 anni luce dal sistema solare, ruotava un pianeta gassoso (Toi 1338b) 6,9 volte più grande della Terra. Il primo del genere scoperto da Tess. «Si riesce a coglierne la presenza», precisa Wolf, «solo quando passa davanti all’astro maggiore, del 10% più massiccio del Sole, perché l’altro è troppo debole per mostrare l’affievolimento della luce provocato dal suo passaggio». Il nuovo corpo celeste strattonato dalle forze gravitazionali delle due stelle gira intorno a loro con tempi diversi, da 93 a 95 giorni garantendo tuttavia stabilità per i prossimi 10 milioni di anni. La scoperta è anche un successo della Citizen Science, cioè di quei progetti di ricerca nei quali i grandi centri coinvolgono i cittadini affidando loro analisi specifiche dove, in alcuni casi come questo, i computer hanno dei limiti. «Volevo collaborare», continua Wolf, «perché in astronomia c’è ancora tanto da scoprire. Sono entusiasta di essere in grado di compiere anch’io ricerche simili e di vedere come lavorano i ricercatori. Da grande non so ancora che cosa farò con precisione, penso lo scienziato». Adesso la Nasa si prepara per volare sulla Luna e poi su Marte. «Mi piace l’esplorazione dello spazio ma non farei mai l’astronauta», confessa. «Non sono abbastanza coraggioso per salire su un razzo. Se però potessi teletrasportarmi lì, allora sarebbe un’altra storia». Quando Wolf non guarda il cielo ci sono poi tante altre passioni: «Mi piace sciare e soprattutto mi alleno al karate».

Da "rainews.it" il 28 febbraio 2020. Un asteroide di circa 3 metri di diametro è stato "catturato" dalla Terra e attirato nella sua orbita. Da circa 3 anni si comporta come una mini-luna, ma la sua permanenza non è destinata a durare. La scoperta è avvenuta lo scorso 15 febbraio da parte degli astronomi Theodore Pruyne e Kacper Wierzchos presso il Mount Lemmon Observatory nell'ambito del Catalina Sky Survey, progetto dedicato alla ricerca di comete, asteroidi e oggetti prossimi alla Terra la cui orbita potrebbe intersecare quella del nostro pianeta. L'annuncio è stato dato dal Minor Planet Center (MPC) dello Smithsonian Astrophysical Observatory che, dopo una serie di osservazioni successive, ha escluso l'ipotesi che si possa trattare di un oggetto artificiale. Classificato come TCO (Temporarily Captured Object), l'asteroide rinominato 2020 CD3 è il secondo "satellite temporaneo" scoperto attorno alla Terra, dopo il 2006 RH120 rilevato dal Catalina Sky Survey nel 2006. Dalla ricostruzione della traiettoria delle sue orbite gli scienziati ritengono che la mini-luna potrebbe essere stata "catturata" dalla Terra tra il 2017 e il 2018 e vi dovrebbe restare fino alla fine di Aprile 2020. Il progetto Catalina è supportato dal Near-Earth Object (NEO) Observations Program della NASA, programma dedicato alla scoperta e al tracciamento di oggetti vicini alla Terra che potrebbero costituire un potenziale pericolo per il pianeta.

Ossigeno dalla polvere della Luna: ​l'esperimento dell'Esa. I ricercatori Esa hanno creato un prototipo, per estrarre ossigeno dalla regolite lunare: "Sarà utile per la respirazione sul satellite". Francesca Bernasconi, Sabato 25/01/2020, su Il Giornale. Ricavare ossigeno dalla polvere lunare. È l'ultimo esperimento dell'Esa, l'European space agency, che ha messo a punto un prototipo, negli spazi dell'Estec, per provare a estrarre ossigeno dalla regolite lunare. In assenza della materia prima, è stata usata una polvere fac-simile: "Avere una nostra struttura ci consente di concentrarci sulla produzione di ossigeno, misurandola con uno spettrometro di massa mentre viene estratto dal simulante regolitico", ha spiegato Beth Lomax, dell'Università di Glasgow. Se l'esperimento riuscisse, i "futuri coloni lunari" saranno in grado di ricavare ossigeno dalle risorse trovate sulla Luna: una procedura utile "sia per la respirazione che nella produzione locale di carburante". I campioni di plvere presi dalla superficie lunare hanno confermato la presenza di ossigeno nella regolite, per il 40-45%, rappresentando l'elemento maggiore. Ma, nella regolite, l'ossigeno "è legato chimicamente con ossidi sotto forma di minerali o vetro, quindi non è disponibile per l'uso immediato". Per poterlo usare, è necessario estrarlo. Grazie al prototipo creato dall'Esa, si sta sperimentando un metodo di estrazione, chiamato elettrolisi del sale fuso: la regolite viene posta in un cestino metallico insieme al sale di cloruro di calcio fuso, poi il tutto viene riscaldato a 950°C. Poi, facendo passare una corrente attraverso la regolite, si riesce ad estrarre l'ossigeno. "Come bonus- sottolinea l'Esa-questo processo converte anche la regolite in leghe metalliche utilizzabili". Il metodo di elettrolisi del sale fuso era stato sviluppato da una società britannica che produce leghe e metalli e l'idea dei ricercatori dell'Esa era si lavorare nell'azienda per studiare il processo. Ma nella società "l'ossigeno prodotto dal processo è un sottoprodotto indesiderato e viene invece rilasciato come biossido di carbonio e monossido di carbonio, il che significa che i reattori non sono progettati per resistere all'ossigeno stesso". Per questo "abbiamo dovuto riprogettare la versione Estec". L'obiettivo di questo esperimento sarebbe quello di creare un "impianto pilota", che possa funzionare sulla Luna: "L'Esa e la Nasa stanno tornando sulla Luna con missioni con equipaggio, questa volta al fine di rimanere", dicono i ricercatori. Per questo si sta pensanto a un modo per usare le risorse lunari sul luogo. "Ora abbiamo la struttura in funzione possiamo cercare di perfezionarla- ha spiegato il ricercatore Esa Alexander Meurisse- ad esempio riducendo la temperatura operativa, progettando infine una versione di questo sistema che potrebbe un giorno volare sulla Luna per essere utilizzato lì".

Scoperto in Australia il più antico cratere di impatto di asteroide. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Virtuani. È stata scoperta a Yarrabubba, in una remota regione desertica dell’Australia occidentale, una struttura che è stata interpretata dai ricercatori guidati da Timmons Erickson del Johnson Center della Nasa come la testimonianza del più antico impatto con un asteroide con la Terra. Con un avanzato sistema di datazione basato sugli isotopi di uranio e piombo contenuti in traccia nei cristalli di zircone e monazite, è stata stabilita l’epoca dell’impatto: 2,229 miliardi di anni fa, con un margine di errore di 5 milioni di anni in più o in meno. L’impatto australiano è di circa 200 milioni di anni precedente al più vecchio finora identificato, quello di Vredefort in Sudafrica, che è anche molto più grande. Ciò non significa che non sono avvenuti impatti con asteroidi in epoche più antiche. Anzi, gli scienziati ritengono che la Terra nei suoi primi 500-600 milioni di anni di vita passò attraverso diverse fasi in cui venne sottoposta a un autentico «bombardamento» da parte di comete e asteroidi di varie dimensioni. L’ultima fase, chiamata Late Heavy Bombardment, durò almeno 100 milioni di anni e terminò 3,9 miliardi di anni fa. Solo che le testimonianze di questi impatti antichi sono stati distrutti dall’erosione e dall’azione geologica. In Australia in verità non è stata rilevata nessuna struttura assimilabile e un cratere. Come è stato pubblicato Nature Communications, è stata notata un’anomalia in corrispondenza di una bassa collina di granito nel centro intorno alla quale sono stati ritrovati nei minerali che presentano delle particolari microstrutture che si possono formare solo se sottoposte al altissime pressioni e alte temperature tipiche di un grande impatto. Considerando questi e altri fattori, si è stati in grado di determinare il diametro del «buco» prodotto dall’impatto: 70 chilometri. L’asteroide che 66 milioni di anni fa probabilmente provocò l’estinzione dei dinosauri creò un cratere di 200 chilometri di diametro. L’impatto avvenne durante una fase di un’era (il Paleoproterozoico) in cui la Terra stava attraversando uno dei periodi più importanti della sua storia. A partire da circa 2,5 miliardi di anni fa, infatti, i primi batteri capaci di fotosintesi (cianobatteri) fecero innalzare il contenuto di ossigeno nell’atmosfera, prima praticamente inesistente. Ma questo grande evento ossidativo innescò anche una grande glaciazione in seguito a serie di reazione geochimiche. Quando colpì l’asteroide circa 2,23 miliardi di anni fa la Terra era un’intera palla di ghiaccio. Il gruppo di Erickson ha ipotizzato che sul luogo dell’impatto si trovava uno strato di ghiaccio spessa fino a 5 chilometri. Il colpo vaporizzò all’istante una quantità enorme di acqua: 500 miliardi di tonnellate. Nella zona non si rinvengono più tracce di una copertura glaciale per i successivi 400 milioni di anni. L’impatto fece finire un’era glaciale? Gli scienziati non si azzardano a dirlo, ma si limitano a considerarla un’ipotesi da verificare.

Parmitano è atterrato: così tornerà «terrestre» dopo 201 giorni nello Spazio. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Caprara. La navetta Soyuz Ms-13 è atterrata nella steppa del Kazakhstan. A bordo l’astronauta italiano Luca Parmitano dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), che porta a casa una collezione di record al termine della missione Beyond. Con lui rientrano i colleghi Christina Koch della Nasa, rimasta a bordo ben 328 giorni, e Alexander Skvortsov dell’agenzia spaziale russa Roscosmos. «La gratitudine che ho provato il primo giorno è cresciuta in questi 200 giorni: ognuno di voi mi ha insegnato molte lezioni». Luca Parmitano non è più il comandante della Stazione spaziale internazionale, ieri ha ringraziato il suo equipaggio e ha ceduto il testimone al russo Oleg Skripochka. E ora, dopo la missione dei record — primo comandante italiano della Iss, 4 passeggiate spaziali —, affronta il ritorno alla vita sulla Terra. Per il suo fisico questo rappresenterà una sfida altrettanto ardua, almeno nelle prime settimane. Astroluca, 42 anni, astronauta dell’Esa e ufficiale dell’Aeronautica militare, conosce le conseguenze di un lungo soggiorno nella casa cosmica dopo l’esperienza del 2013. La sua passione per lo sport lo aiuterà. Tuttavia, l’assenza di peso e le condizioni spaziali hanno alterato le sue condizioni e dovrà lottare per riportarle alla normalità. Secondo i medici del centro dei voli umani della Nasa a Houston, dove Luca sosterà dopo un transito da Colonia, occorre quasi un anno per un recupero totale. Intanto sarà sottoposto a esami medici e prelievi corporei per confrontarli con altri simili fatti sulla Iss. Il periodo più critico è rappresentato dalle prime tre-quattro settimane. Parmitano dovrà soprattutto riconquistare la piena capacità sensoriale (a partire dalla vista) rispetto all’ambiente circostante. Ecco perché gli sarà vietato, per esempio, di guidare l’auto. L’altro punto debole è l’equilibrio garantito dal sistema vestibolare regolato sulla Terra con la gravità: per non perderlo, rischiando di cadere, il nostro astronauta dovrà stare attento a ogni movimento. Nell’attesa che si riattivino anche i recettori della pianta dei piedi i quali, non essendo più usati da tempo, inviano al cervello segnali errati. Ma le nuove giornate terrestri di Astroluca saranno in particolare segnate da attività fisica per riportare la sua struttura muscolare all’efficienza. Persino il cuore, in assenza di peso, non facendo fatica a pompare il sangue per contrastare la gravità tende a ridursi fino a un terzo. «Il cuore — dice James Thomas della Nasa — non lavora duramente nello Spazio e questo causa la perdita della massa». La ginnastica, inoltre, aiuterà Parmitano a riportare alla normalità il sistema circolatorio alterato, tanto che in orbita sangue e liquidi affluiscono alla testa gonfiando i volti. Il movimento servirà pure a recuperare l’indebolimento delle ossa per la perdita del calcio (in media il 2%) che invece di fissarsi finiva nelle urine. Sulla stazione si effettuano esperimenti per contenere il problema dell’osteoporosi, che potrebbero avere ricadute preziose per gli anziani. Gli oculisti sottoporranno Astroluca ad esami perché il 60% degli astronauti manifesta difficoltà alla vista. Assenza di gravità, riduzione dell’ossigenazione dei tessuti, perdita di calore e radiazioni causano uno «stress ossidativo dei bulbi oculari» con rapido invecchiamento dell’occhio. Nei primi giorni Luca dovrà limitare i contatti con le persone perché il suo sistema immunitario indebolito in orbita lo espone alle malattie. Ma un aiuto arriverà dalla dieta più ricca, con integratori e antiossidanti, grazie all’assunzione di cibi freschi inesistenti sulla Iss. Servirà anche a ripristinare un equilibrio dei radicali liberi di cui in orbita si nota una superproduzione in momenti di stress. Insomma, per Luca la sfida continua.

Luca Parmitano torna a casa: l'arrivo della Soyuz in Kazakhistan. La Soyuz con a bordo l'astronauta italiano che rientra dopo 201 giorni nello spazio, l'americana Christina Koch e il russo Alexander Skvortsov, si è posata nella steppa alle 10.12. Matteo Marini il 06 febbraio 2020 su La Repubblica. Luca Parmitano è tornato a Terra, la Soyuz si è posata delicatamente con i paracadute e un ultimo colpo di retrorazzi che hanno ammorbidito il touchdown, avvenuto alle 10.12 nelle steppe del Kazakhistan, scendendo da un cielo immacolato. Con lui a bordo della capsula, che si è staccata dalla Stazione spaziale internazionale (Iss) quando in Italia erano le 6.15, l’americana Christina Koch e il russo Alexander Skvortsov. Ad  attenderli c’erano elicotteri che osservavano le ultime fasi della discesa per individuare l’esatto punto di atterraggio dove è accorso il personale del Roscosmos, l'agenzia spaziale russa. Li hanno estratti con cura dalla navetta e coperti per proteggerli dal gelo della steppa: alcuni gradi sottozero e neve al suolo, praticamente in mezzo al nulla. Il primo a uscire è stato il comandante della Soyuz, il russo Skvortsov pollici alzati al cielo a salutare i compagni rimasti lassù, a seguire Koch, luminoso sorriso ed entusiasmo quasi incontenibile, ancora mentre era seduta sul portello. Poi Parmitano, anche lui un largo sorriso, pugni e pollice alzati in un gesto di vittoria dopo il lungo viaggio. Il ritorno ad avvertire il peso sulla superficie terrestre è traumatico  dopo aver trascorso diversi mesi fluttuando in microgravità e sballottati durante la discesa. Ma i tre sono apparsi in ottime condizioni, in attesa dei primi controlli alla tenda medica dopo le foto di rito e la prima telefonata a casa.  "Siamo orgogliosi di come sia andata la missione ESA Beyond di Luca Parmitano, la 12esima di un astronauta italiano nello spazio. È stata una missione molto speciale, ricca di risultati importanti per il nostro Paese e per l’Europa, un successo oltre ogni aspettativa - ha dichiarato il presidente dell'Agenzia spaziale italiana, Giorgio Saccoccia - Luca è stato primo italiano a comandare la ISS a essere EVA leader in tre delle quattro attività extra veicolari che lo hanno visto protagonista di un  lavoro inedito per la riattivazione dell’esperimento AMS-02. Le attività della sua missione rappresentano un punto di svolta per capacità, leadership ed avanzamento delle conoscenze per la futura vita nello spazio. L’ASI è fiera di Luca che rappresenta la conferma della preparazione di tutti i nostri sette astronauti, donne e uomini che ci danno e dato molto lustro. Il bilancio della missione Beyond è, quindi, più che positivo e siamo davvero orgogliosi. Non resta che dire 'Bentornato a casa Luca', ora comincia per te un periodo importante di ripresa e di continuazione degli esperimenti a terra".  

"AstroLuca rappresenta  l’eccellenza dell’Italia nel settore, siamo orgogliosi di lui. Lo aspetto al più presto a Palazzo Chigi per lavorare insieme alle politiche spaziali del nostro Paese”. Lo dichiara Riccardo Fraccaro, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche spaziali.Grazie a lui anche l’Italia ha raggiunto un nuovo traguardo nel settore dello spazio. L’esperienza di AstroLuca ha dimostrato al mondo le grandissime capacità di leadership del nostro Paese nelle attività spaziali a tutti i livelli, da quello tecnico a quello scientifico e industriale. L’Italia è grata a Luca Parmitano per l’incredibile lavoro che ha svolto a bordo della Stazione spaziale internazionale, garantendo il successo della missione e dando prova di quanto lo spazio europeo e mondiale abbia bisogno del contributo del nostro Paese per svilupparsi al meglio. Al suo rientro in Italia, dopo il periodo di riabilitazione fisica alla quale dovrà sottoporsi, sarò felice - conclude Fraccaro - di ricevere Parmitano a Palazzo Chigi per collaborare al rilancio del settore spaziale che rappresenta il volano per l’innovazione, la competitività e la crescita del Paese". Parmitano (alla sua seconda missione) e Skvortsov (terza), partiti a luglio 2019, hanno passato 201 giorni in orbita. Christina Koch invece rientra dopo quasi un anno, record per una astronauta. I tre adesso prenderanno strade diverse: Parmitano sarà trasferito al centro Esa di Colonia, in Germania. A bordo della Iss sono rimasti il nuovo comandante, il russo Oleg Skripochka, il passaggio di consegne è avvenuto ieri, e gli americani Andrew Morgan e Jessica Meir.

La missione Beyond e il comando. A ottobre, Luca Parmitano ha preso il comando della Stazione spaziale, terzo europeo e primo italiano a ricoprire questo ruolo. La sua missione, denominata Beyond (“Oltre) lo ha visto impegnato in oltre 200 esperimenti in diversi campi di ricerca e applicazioni pratiche. Dallo studio degli effetti sul corpo umano nello spazio, nutrizionali e fisici, alle applicazioni mediche sulla nutrizione e movimento, per lo sviluppo di protesi di nuova generazione. Sei di questi esperimenti sono stati messi a punto e seguiti dall’Agenzia spaziale italiana (Asi). 

Le passeggiate spaziali. Parmitano ha condotto ben quattro Eva (Extra vehicular activity) durate questa sua seconda missione, attività molto impegnative per la manutenzione dell’Ams-02, un importante esperimento internazionale sistemato nel 2011 all’esterno della Iss, per catturare la pioggia di particelle che proviene dallo spazio, in particolare l’antimateria. Con queste, sono in tutto sei le “passeggiate spaziali” dell’astronauta italiano. Parmitano è diventato così l’astronauta europeo che ha trascorso più tempo fuori dalla Iss, nello spazio: 33 ore e 9 minuti.

Il record di Christina. Christina Koch ha trascorso quasi un anno nello spazio. Non era programmato, la sua missione è stata estesa arrivando a contare 328 giorni in orbita, è il record per la permanenza continuativa più lunga di una donna nello spazio, che apparteneva alla connazionale Peggy Whitson. L’estensione della sua missione permetterà di studiare, come era stato fatto per Scott Kelly, gli effetti sul corpo umano della microgravità per lunghi periodi. Fondamentale sia per missioni future lontano dalla Terra, sia per la ricerca scientifica e medica tout court.

Parmitano: "Lo spazio è casa, il miracolo di essere tutti sotto la stessa bandiera". AstroLuca racconta l'emozione di essere tornato nello spazio e del ritorno. Nella prima conferenza stampa a Colonia, indica l'importanza dell'esplorazione spaziale come esempio del perseguire gli obiettivi impossibili. A cominciare dalle sorti del Pianeta, che sono nelle nostre mani. Matteo Marini l'08 febbraio 2020 su La Repubblica. È rilassato AstroLuca, tornato sulla Terra dalle stelle. Il sorriso ampio e la camminata spedita, solo la voce un po' debole tradisce la stanchezza per il viaggio turbolento che lo ha riportato a Terra due giorni fa e per il trauma di avvertire di nuovo il proprio peso, dopo aver fluttuato per oltre sei mesi ("ho avuto 41 anni per abituarmi alla gravità terrestre"). Luca Parmitano si è presentato per il primo incontro con la stampa al centro astronauti dell'Esa di Colonia, dove sta affrontando la prima parte del recupero fisico. In platea ad ascoltarlo anche la collega Samantha Cristoforetti, che sarà la prossima a partire alla volta del laboratorio orbitante. 

La sua è stata una lezione di umanità e umanesimo. Nel dare merito non a sé stesso dei risultati raggiunti, ma a un grande lavoro di squadra in un vasto progetto di cui lui è una pedina al servizio di una causa più grande. Il sentimento del ritorno, commosso e felice, unito alla determinazione e consapevolezza del successo. Ci porta una lezione esemplare: se vuoi, puoi: "Il limite lo stabilisci tu". A cominciare dalle sorti del Pianeta, che sono nelle nostre mani, e le prime vittime potremo essere noi stessi.

Lo spazio è casa. Prima stempera l'emozione con una battuta: "Grazie per essere qui oggi, è sabato ed è ora di pranzo, vale doppio". Poi racconta delle sue emozioni, quelle di essere tornato a casa: "Cito una canzone dei King Crimson che amo: "Possiamo tutti sederci e ridere, ma temo che domani piangerò". Scusatemi se sono commosso, ma sono emozionato per molte ragioni". E racconta dello spazio: "La Iss è un posto di lavoro in cui ci sono persone che sono diventate amici, quando mi chiedono cosa preferisci dello spazio io dico che non c'è una cosa che preferisco. Lo spazio è casa, è come chiedere quale parte della vita preferisci. Io rispondo 'tutto'". Ma sulle immagini che porta a casa un ricordo supera gli altri: "Le nubi nottilucenti, che si vedono solo in certe condizioni sopra i poli. Un grande regalo che ho avuto il piacere di condividere con Jessica (Meir ndr). Abbiamo ogni giorno foto bellissime da satellite, ma la parte umana è mettere te stesso in quel ricordo, non solo la vista: c'è un po' di Luca in quella foto, di Jessica in quell'altra. Questo rende il volo umano nello spazio così speciale".

La lezione dello spazio. "È sempre difficile scegliere un evento su tutti gli altri per rappresentare tutta una missione, è ingiusto - continua il colonnello - ma voglio sottolineare l'aspetto umano come retaggio più importante della Iss. L'incredibile capacità, quasi vicina al miracolo, di unire sotto il grande sogno e la bandiera dell'esplorazione tecnologica e scientifica, persone con retaggi culturali diversi. Nei dieci giorni di transizione dalla expedition 60 alla 61, sulla Stazione spaziale c'era Hazza Al Mansouri, il primo astronauta degli Emirati Arabi, arrivato in volo con Jessica Meir che è di discendenza ebraica. Arrivano come individui comuni come tutti noi, lavorano come un equipaggio e rientrano come fratelli e sorelle. Questo è miracoloso in un periodo storico molto particolare, con tensioni che dividono e polarizzano. L'esplorazione non solo tecnologica ma umana, sotto l'egida del desiderio di evolvere ed essere migliori. Questo secondo me deve essere un esempio per il futuro". Forse l'impresa più emblematica della sua seconda missione nello spazio (201 giorni in orbita, durante i quali è diventato e quattro mesi al comando della Stazione spaziale internazionale (terzo europeo e primo italiano), sono state le quattro attività extra veicolari per riparare il "cacciatore di antimateria" AMS-02: "Le considero tra i momenti più alti della mia attività professionale - spiega rispondendo a una domanda - mi avevano contattato nel 2014 per sapere cosa pensavo della fattibilità di ripararlo. Dissi che si doveva trovare il modo. Le cose che vale la pena fare non sono quelle semplici. È stata una soddisfazione aver superato un ostacolo molto complesso, ma io non voglio prendermi il merito, perché ci sono state decine di persone che ci hanno lavorato e grazie a loro e all'addestramento a terra siamo riusciti a non perdere nemmeno una vite". "Quanto oltre vuoi andare?" La missione di Parmitano si chiama Beyond, "Oltre". A una giovanissima tra il pubblico che gli chiede "quanto oltre vuoi andare", lui risponde: "Tu scegli il limite. La tua generazione otterrà molto più della mia. Il tuo desiderio sarà il tuo motore che ti farà arrivare dove vuoi, Luna, Marte o altrove. Questo è quanto voglio arrivare lontano e quanto veloce". La sua missione è stata un passo in avanti verso questi obiettivi, racconta Parmitano, sia di conoscenza che tecnologici, soprattutto degli effetti del corpo umano nello spazio. Ma i benefici di questi progressi saranno anche per noi che siamo con i piedi sempre piantati a terra: "Siamo stati molto occupati a fare ricerca, ho riposato solo tre weekend in 201 giorni e stiamo ottenendo più della prima volta. Abbiamo fatto un sacco di esperimenti, uno ce l'ho addosso anche ora per monitorare i battiti cardiaci e il respiro. La tecnologia farà grandi passi avanti, come la possibilità di stampare tessuti organici. Ma ci sono molti più umani sulla Terra che nello spazio, l'impatto più alto sarà nella vita di tutti i giorni che per un viaggio interplanetario".

La Terra, un grande essere vivente. Non poteva non raccontare delle foto dallo spazio, del Pianeta che soffoca e dei cambiamenti climatici: "Si chiama 'overview effect' - spiega Parmitano - pensi di conoscere qualcosa e di esserne una parte integrante, poi lo vedi da lontano e ti rendi conto che quello che hai visto è una piccolissima parte del tutto. Il Pianeta è un enorme essere vivente, le nuvole sono il respiro che si muove con le correnti, le acque di fiumi mari sono il sangue. Da lassà sembrano fermi ma si vede da lontano questo respiro, questo moto interno. L'atmosfera è così sottile e fragile, la bellezza della natura che si ribella della sua capacità devastante di farci sentire piccoli può fare paura. Nei sette mesi in orbita ho assistito a uragani dall'intensità mai vista prima sulle Bahamas e Porto Rico; fuochi nella Foresta amazzonica, in Africa. In Australia ho iniziato a fotografarli a settembre, se ne continua a parlare a gennaio, un intero continente color rosso, coperto di polvere di cenere visibile per centinaia o migliaia di chilometri. Questo ci fa pensare all'elemento più fragile di tutto questo: siamo noi, perché la vita continuerà ben oltre alla capacità dell'uomo di resistere ai danni che stiamo facendo, la vita è perfettamente allineata con i principi fisici dell'Universo, in particolare l'entropia. La vita continuerà ma non è detto che ci sia l'uomo in questo sistema, quindi è il momento di agire".

Luca Fraioli per “la Repubblica” il 2 gennaio 2020. Dunque AstroSamantha vola via dall'Aeronautica Militare: la Cristoforetti svestirà la divisa azzurra da aviatore e i gradi di capitano con una spartana cerimonia nella base di Istrana, in provincia di Treviso. D' altra parte non c' è niente da festeggiare, perché è evidente come, pur nel silenzio dei diretti interessati, l' addio sia stato tutt'altro che indolore. L'Aeronautica Militare perde uno straordinario testimonial, un'astronauta che gode di una popolarità senza eguali. E più in generale ci perde il nostro Paese: con la rinuncia alle stellette, Samantha Cristoforetti infatti non ha più alcun legame "istituzionale" con l' Italia, rimarrà una astronauta a disposizione dell'Esa, l’Agenzia spaziale europea, nelle cui basi si sta già addestrando per tornare in orbita entro il 2022. AstroSamantha preferisce non rilasciare dichiarazioni. Sceglie il silenzio anche il presidente dell' Agenzia spaziale italiana Giorgio Saccoccia. Poco o nulla trapela anche dai vertici militari. E così finiscono per alimentarsi le voci più disparate. Ma se si parla con chi conosce bene la comunità spaziale italiana si ricostruisce uno scenario che, se non è all' origine dell' addio della Cristoforetti, certamente rende il gesto meno sorprendente. Il punto di partenza della vicenda (o meglio di arrivo, visto che risale a poche settimane fa) è la "ministeriale" del 27-28 novembre scorso. Una riunione dei ministri europei che ogni due o tre anni individua gli obiettivi della politica spaziale del Vecchio continente nel quinquennio successivo e le risorse economiche con cui perseguirli. La delegazione italiana si presenta alla "ministeriale 2019" di Siviglia con un assegno da 2,3 miliardi di euro. In cambio chiede all' Esa una nuova occasione di volo per un nostro astronauta. I candidati sono Samantha Cristoforetti, la donna dei record che è stata sulla Stazione spaziale internazionale per 199 giorni tra il novembre 2014 e il giugno 2015, e Walter Villadei. Chi era a Siviglia racconta di pressioni enormi da parte dei militari italiani perché a spuntarla fosse il secondo. Quarantasei anni, tenente colonnello dell' Aeronautica Militare, Villadei viene definito, anche dai nostri vertici militari, un cosmonauta, mutuando la terminologia russa. Perché in effetti l' ufficiale non ha mai superato il concorso dell' Agenzia spaziale europea (anni fa fu respinto in una fase molto preliminare delle selezioni). Tuttavia la Difesa ha continuato a investire (si parla di due milioni di euro) per la sua preparazione presso il Centro Addestramento Cosmonauti Yuri Gagarin di Mosca. L'ultima sessione due mesi fa, come informa il sito dello Stato Maggiore dell' Aeronautica: «Concluso in Russia l' addestramento di sopravvivenza in mare del tenente colonnello Villadei». La fonte è l' Ufficio Generale per lo Spazio, costituito nel 2017 presso lo Stato Maggiore dell' Aeronautica. Di cosa si occupa? «Di sviluppare la policy e le direttive per lo sviluppo delle capacità spaziali ed aerospaziali della Forza Armata. L'Aeronautica Militare, infatti, ambisce a divenire il principale abilitante per l' accesso allo spazio mediante lo sviluppo di competenze consolidate nel settore aerospaziale anche mediante la formazione e lo sviluppo di precorsi d' eccellenza del proprio personale». Insomma, individuare gli astronauti italiani del futuro. E chi fa parte dell' Ufficio Generale per lo Spazio? Villadei, che così si ritrova a essere al tempo stesso candidato e selezionatore. Gode naturalmente di grande stima e appoggio tra i militari. A cominciare da Roberto Vittori, astronauta che ha volato tre volte nello spazio tra il 2002 e il 2011, oggi generale dell' Aeronautica e addetto spaziale presso l' ambasciata italiana di Washington. E poi l' ammiraglio Carlo Massagli, segretario del Comitato interministeriale per lo spazio, istituito presso Palazzo Chigi quando il sottosegretario leghista Giorgetti era il playmaker della politica spaziale italiana. All'epoca il pressing a favore di Villadei indusse il premier Conte, leader della ex maggioranza gialloverde, a sponsorizzare nel suo incontro con Vladimir Putin una missione spaziale ad hoc finanziata interamente dall' Italia. Ci si fermò di fronte ai costi decisamente proibitivi: 60 milioni di euro. Dodici mesi dopo a Villadei e ai suoi sponsor militari è andata di nuovo male: l' Esa ha scelto ancora Samantha Cristoforetti. Sarà lei a volare sulla Stazione spaziale. E via dall' Aeronautica Militare.

L’addio di AstroSamantha  è un caso: «Disaccordi  con l’Aeronautica, ma non sono stata discriminata». Pubblicato venerdì, 03 gennaio 2020 da Corriere.it. Ha aspettato fino a sera per spiegarsi; ma poi, quando lo ha fatto, con un lungo testo pubblicato su Twitter, Samantha Cristoforetti ha aperto formalmente il caso riguardo il suo congedo a sorpresa dall’Aeronautica (ieri mattina il saluto alla bandiera nella base di Istrana). Già, perché la lettera di quattro pagine, con cui la prima astronauta italiana nello Spazio, tenta di «dare alcune brevi precisazioni» sulla propria vicenda, in realtà fa capire bene come l’uscita dal Corpo militare sia stata un processo tutt’altro che fisiologico. Ma altrettanto bene, dalle righe di Samantha, sembra comprendersi anche il motivo della rottura. Che non starebbe né in un «cambio di mestiere» — come afferma lei —, né tantomeno in una «discriminazione di genere», laddove si era pensato ad una predilezione degli alti vertici militari per un altro astronauta da sostenere al suo posto nella corsa allo Spazio. «Non ho motivo concreto di lamentare alcuna discriminazione di questo tipo — ha scritto Cristoforetti — e inoltre ho avuto il massimo supporto da parte della delegazione italiana alla Ministeriale Esa dello scorso novembre» (al termine della quale Roma ha avuto rassicurazioni su una nuova missione in orbita per Cristoforetti sotto le insegne dell’Agenzia spaziale europea). Dietro all’addio, vi sarebbe invece, una questione di compatibilità degli incarichi e quindi di interessi di crescita e carriera. AstroSamanhta inizia la lettera dicendo: «Dal 2009 sono impiegata in Esa in qualità di astronauta. Da Esa dipendo per l’impiego quotidiano e da Esa percepisco lo stipendio. L’appartenenza alla Forza Armata ha avuto negli ultimi dieci anni un valore simbolico e affettivo». E ancora: «Le Superiori Autorità hanno inoltre sempre saputo che non avevo anche per il futuro intenzione di lasciare il mio incarico in Esa. Per questo ho ritenuto poco utile interrompere le mie attività per svariati mesi per svolgere i corsi necessari all’avanzamento a Ufficiale Superiore e vi ho quindi rinunciato, rinunciando contestualmente di mia volontà all’avanzamento di grado». Quindi, la chiusa: «Era mia facoltà chiedere la cessazione del servizio da quando, nel settembre del 2019, ho concluso gli obblighi di ferma. In previsione di questa scadenza avevo informato i vertici dell’Aeronautica sul fatto che avrei riflettuto nel corso dell’anno sull’opportunità o meno di continuare la doppia dipendenza da Esa e dalla Forza Armata». Per questo, quando alla fine, AstroSamantha dice: «Ho avuto occasione di esprimere alla Forza Armata, nelle sedi appropriate, il mio disaccordo riguardo ad alcune situazioni e, contestualmente, ho ritenuto per coerenza e per mia serenità di congedarmi», si comprende che nell’ambiziosa corsa allo Spazio ormai i vincoli e gli impegni chiesti dall’Aeronautica — e chiesti a tutti i militari — erano diventati (per lei) un problema.

Leopoldo Benacchio per ilsole24ore.com il 5 gennaio 2020. Sembra un racconto di Italo Calvino e potrebbe intitolarsi «Il cosmonauta inesistente», ma è una storia terribilmente italiana. Andando per gradi: Samantha Cristoforetti non è più in forze all'aeronautica, dato che si è dimessa nei giorni scorsi approfittando di una finestra temporale permessa dalla normale burocrazia militare. Dice che la cosa era prevista da tempo e prima o dopo sarebbe successo. Prima o dopo, appunto. Resta comunque in forze al corpo europeo degli astronauti dell'Agenzia Spaziale Esa, ci mancherebbe altro.

Non solo testimonial. L'Arma azzurra perde così non solo una astronauta ma anche un testimonial importante, un esempio che la Cristoforetti stessa ha costruito in anni di duro lavoro e allenamento: prepararsi ad andare nello spazio per mesi non è uno scherzo. Lei stessa, in un circostanziato e generoso messaggio su Twitter, esclude qualsiasi problema legato al suo essere donna, saluta i colleghi e, togliendosi qualche virtuale sassolino dalle scarpe, ammette discussioni coi vertici dell'aeronautica. Volerà comunque di nuovo sulla Stazione Spaziale Internazionale, Iss, nel 2022, come astronauta europea, la vedremo quindi ancora all'opera e lei stessa potrà guardare di nuovo il nostro pianeta blu dal bow window della Stazione Spaziale internazionale, la splendida finestra sull'universo di costruzione italiana, un miracolo di ingegneria. Tutto questo è oramai storia più che cronaca e ha dato adito a varie ipotesi dietrologiche, come la pretesa guerra politica fra Grillini e leghisti pure nello spazio, ma proprio la Cristoforetti su questo ha tagliato corto nel suo comunicato via social. Comunque sia pare proprio che alla ministeriale di novembre a Siviglia le cose non siano andate per il verso giusto e la nostra unica astronauta in qualche modo abbia subito dei torti.

L'astronauta europeo impossibile. In campo ci sarebbe oltretutto, incomprensibilmente, un candidato risultato addirittura non idoneo, tempo fa, nelle selezioni per diventare astronauta europeo. Una storia che di fatto va avanti da anni, sa solo Iddio perché. Se uno viene dichiarato non idoneo infatti se ne fa una ragione e fa altro, è capitato a tanti e tante che avevano il desiderio di andare fuori dal nostro pianeta per un po', ma non per questa persona che, grazie al supporto di chissà chi, vuole rimanere in gioco. Ecco allora la scappatoia, tutta in salsa italiana, in senso ovviamente deteriore: lo si rivende come cosmonauta, ossia un navigatore dello spazio ma di area russa. Il tenente colonnello Walter Villadei, non essendo riuscito a superare le prime selezioni come astronauta europeo, non potrà mai arrivare alla ISS, la stazione spaziale internazionale, con questa etichetta, figurarsi quindi con NASA, e visto che lo si vuole far volare a tutti i costi, anche a scapito di reputazione internazionale ed esborso economico, si va in Russia dove, dietro lauto compenso, pare 2 milioni alla volta ma è difficile sapere la cifra esatta, si allena il Villadei stesso, come cosmonauta, così si chiamano da quelle parti.

Il volo della Virgtin Galactic. Lui stesso è previsto anche nell'equipaggio del molto futuribile, o molto prossimo a seconda dei pareri, volo della Virgin Galactic, che però nello spazio vero e proprio non va, dato che con lo SpaceShip 2 e relativa navetta si prevede di arrivare al massimo ai limiti convenzionali dell'atmosfera, sugli 80 chilometri. Per portarlo sulla Iss, a questo punto come un turista in divisa, pare che i russi abbiano chiesto al nostro governo altri 60 milioni, cifra abbastanza standard ma piuttosto alta comunque per un ritorno prossimo a zero se non negativo, con il pericolo che europei e americani non gli facciano toccare una vite, una volta arrivato a bordo. Insomma per il nostro aspirante astro-cosmo-nauta sembra valere il famoso detto di Alfieri «volli sempre volli, fortissimamente volli». Ma non «volai», almeno per il momento.

Astronauti europei. C' è da chiedersi perché da anni continuiamo a spendere soldi pubblici per questa impresa apparentemente nonsense. Vogliamo avere un astronauta solo italiano alla faccia dell'Unione Europea? Ci siamo dimenticati che non possiamo avere astronauti “nazionali” ma solo europei, per accordi sottoscritti con gli altri Paesi Esa? E per farne cosa, visto che gli altri non sono d'accordo, giustamente, dato che non ha superato neppure i primi gradini della selezione normale? Un ulteriore punto è anche che gli astronauti italiani sono meno delle dita di due mani, ma a volte hanno qualche discussione su chi deve volare, che si estende anche sopra l'Oceano, fin dentro alla nostra Ambasciata nella capitale Usa, e forse anche questo ha pesato. In questa vicenda, che più la si guarda e più sembra banalmente misera, la Cristoforetti poteva essere trattata assai meglio, anche se lei, da vera professionista, generosamente dice che non ha subito alcuna angheria. Il congedo, nella base di Istrana, ha avuto luogo fra frasi e sorrisi di circostanza, a giudicare dalle foto, e l'Aeronautica ha diffuso un comunicato in cui afferma che la Cristoforetti, grazie all’Arma azzurra, ha realizzato i suoi sogni. Col dovuto rispetto e amor di patria la frase pare un poco fuori luogo. Comunque tante ragazze italiane che con lei hanno sognato continueranno a vedere in “astrosamantha”, come viene chiamata con eccessiva confidenza, un modello da seguire e un esempio di successo, di quello che si raggiunge solo grazie all'impegno e alla dedizione. Speriamo di rivedere presto l'astronauta europea Samantha Cristoforetti all'opera aggiungendo alle 199 giornate passate nello spazio altri record. Certo avremmo preferito poterla rivedere con la bandiera italiana sulla tuta e non solo nel cuore.

Basta con gli astropiddini! Max Del Papa, 13 gennaio 2020 su Nicolaporro.it. C’era una volta Astrosamantha, con l’acca, al secolo terrestre Cristoforetti, la prima donna italiana a finire nello spazio, e vai di luogocomunismo in rosa, volto politicamente corretto e dunque banale di una missione epocale che avrebbe dovuto portare risultati storici nella ricerca spaziale, un piccolo passo per la donna, un grande passo per l’umanità. Al dunque, degli attesi – e promessi – riscontri scientifici nessuna traccia, nessuna comunicazione nota; al loro posto, la sponsorizzazione dalla capsula di una marca di riso e piselli, di un caffè liofilizzato, della Expo che si scriveva Expo ma si leggeva Pd, con un Renzi che moriva dalla voglia di arruolare l’eroina siderale una volta tornata alla base, a condire tutto gli strategici collegamenti via satellite col ciambellano organico, Fabio Fazio, lei che faceva le capriole, giocherellava con un microfonone sempre alzato per via dell’assenza di gravità, addirittura si tagliava i capelli ritti in testa. Un trionfo! Tornata tra noi, Astrosamantha ha fatto un figlio, un paio di libri, per grandi e per piccini ma comunque sempre su di lei medesima in quanto ella ha una opinione siderea di sè, una serie di sermoni petalosi sul potere delle donne ed altre faccende valoriali di stampo progressiste, cioè banale, ha orbitato attorno a una candidatura piddina (“ma io non ne so niente”, si schermiva lei), infine ha lasciato l’Aeronautica per una avviluppata storia di concorrenze e gelosie. Intanto l’aveva sostituita nello spazio AstroPaolo, senz’acca, ma un po’ come una meteora. Adesso c’è Astroluca, che continua la radiosa tradizione astronarcisistica: prima assicura che, dalla navicella, scorge i cambiamenti climatici (invidia luciferina di Greta, che, inchiodata a terra, al massimo riesce a “vedere la CO2”), poi, anche lui, tra un’acrobazia e l’altra si spreca in predicozzi stellari, numeri di prestigiditazione, collegamenti al massimo livello: Mattarella, Jovanotti, Juseppi, che sul piano intellettuale si equivalgono (gli ultimi due, almeno). Ma lo fa per la Scienza, con la maiuscola, come la pronuncia Piero Angela. Intanto che aspettiamo e che speriamo, vorremmo sommessamente dire che ‘sti astronomi ci hanno rotto un po’ i maroni: più li mandi su e più ti tirano giù, sono immancabili testimonial dei governi dalle 50 sfumature di rosso, si abbandonano a considerazioni di insostenibile leggerezza dell’essere antigravitazionali, al grado zero di profondità. Sarà l’altitudine, ma più li mandi su e più ti tornano su: più che astronomi, a volte paiono astrologhi. Sembra tutto un gioco e invece dietro s’intuiscono ragioni le più disparate: politicanti, euromilitanti, magnifiche e progressive, ma assai poco tecniche. La Scienza (maiuscolo, per la Madonna!) come foglia di fico, pretesto, mitopoiesi per mitopugnette: “Caro Astroluca”, “Caro Presidente”. Juseppi inanella figure barbine dal pianeta terra, e non gli rimane che rifugiarsi nella stratosfera e ancora più su, dove almeno il suo buco di governo viene inghiottito da quello nell’ozono. E i nostri Major Tom di boweiana memoria, sempre pronti a una capriola, un collegamento via satellite, un’alabarda spaziale da lanciargli come una scialuppa di simpatia. Ma cosa ha a che fare la ricerca scientifica con tutto questo circo spaziale? Cose dell’altro mondo! Anche nello spazio, la situazione è grave ma non seria, e il marziano a Roma, citofonare palazzo Chigi, ne profitta come può. Max Del Papa, 13 gennaio 2020

·        Il Futuro nel Passato.

DAGONEWS il 5 luglio 2020. Persone che usano piccoli dispositivi su cui scorrono immagini e vetture dotate di schermi. Se questo vi sembra normale è ovvio, siamo nel 2020. Ma queste immagini fanno parte di un cortometraggio francese del 1947 che prevedeva quello che sarebbe stato il futuro.  "Télévision: Oeil de Demain" si basa su un saggio di René Barjavel e prodotto da JK Raymond-Millet: si vedono uomini che camminano come automi guardando i loro dispositivi per strada, una donna che per ammazzare la noia mentre è seduta a un ristorante prende dalla sua borsetta il suo mini-schermo con una grande antenna che ricorda i primi cellulari. C’è anche un uomo alla guida di un’auto che, per guardare il notiziario su uno schermo, finisce per andare a sbattere. All’epoca tutto doveva sembrare uno scenario distopico: sono immagini incredibili non solo perché anticipano i nostri dispositivi moderni, ma captano anche il modo in cui gli umani del futuro si sarebbero rapportati a tali “diavolerie”.

·        Il computer quantico.

Anna Grassellino. Si occuperà di sviluppare anche nuovi sensori quantistici. Chi è Anna Grassellino, la scienziata italiana che progetterà il computer quantico più potente mai esistito. Redazione su Il Riformista il 31 Agosto 2020. Già premiata nel 2017 dall’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama con la più alta onorificenza che gli USA riconoscono ai giovani ricercatori nei campi della scienza e dell’ingegneria, la dottoressa Anna Grassellino guiderà il Superconducting Quantum Materials and Systems Center di Chicago per sviluppare il computer quantico più potente di sempre. Classe 1981, l’ingegnere Grassellino è considerata tra gli scienziati più giovani e importanti al mondo. Questo importante riconoscimento è solo la punta dell’iceberg di una carriera costellata di successi e sacrifici. Nata a Marsala, in Sicilia, la ricercatrice ha scalato le vette della ricerca ottenendo l’affidamento di 115 milioni da gestire e 200 scienziati da coordinare per costruire in 5 anni il computer quantico più evoluto mai esistito. In totale in tutti gli Stati Uniti ci sono cinque centri simili a quello capitanato dalla Grassellino, tutti guidati da uomini.

LA CARRIERA – Direttrice del SQMS, Superconducting Quantum Materials and System Center del Fermilab, la carriera della dottoressa Grassellino è costellata da premi e successi ottenuti in età giovanissima. Laureata presso l’Università di Pisa nel 2005 in Ingegneria Elettronica, ha poi proseguito gli studi con un dottorato in Fisica conseguito presso l’Università della Pennsylvania, e nel 2008 ha intrapreso la sua attività di ricerca. Dal 2012 opera al Fermilab, Fermi National Accelerator Laboratory di Chicago, prima nel ruolo di post-dottorato per poi diventare il group leader nel settore della fisica applicata e delle tecnologie dei superconduttori. Infatti da capogruppo nel 2014 è diventata Deputy Division Head nel 2016 e nel 2019 Deputy Chief Technology Officer. A soli 36 anni, tre anni fa le è stato conferito il Presidential Early Career Award for Scientist and Engineers, premio istituito nel 1996 da Bill Clinton per le sue scoperte inedite. Scoperte che la aiuteranno anche per il nuovo incarico che dovrà ricoprire implementando la ricerca sulla natura della materia oscura e di altre particelle subatomiche sfuggenti ai fini di sviluppare nuovi sensori quantistici, oltre che il super computer quantico.

IL PROGETTO – Mentre i computer tradizionali o i super computer utilizzano i bit, quelli quantistici si avvalgono del qubit. Se il bit può assumere solo due valori in quanto entità binaria 0/1, i qubit invece sono particelle subatomiche per cui ogni entità può trasportare un’informazione. In questo modo la potenza di calcolo sarà enormemente amplificata, consentendo sviluppi importantissimi nelle misurazioni nelle scienze di base, nella biologia, nella medicina e nella sicurezza nazionale. Attraverso il progetto di Anna Grassellino e dei professionisti del suo team, si potrebbero così ottenere delle scoperte scientifiche che potrebbero svoltare la scienza. Il traguardo raggiunto dall’ingegnere siciliana è stato valorizzato dai media, ma soprattutto sui social non si sono sprecati commenti di ammirazione misti a rammarico per la fuga di cervelli. La storia della Grassellino, infatti, ha così portato a galla oltre che il gap tra i generi anche la condizione precaria dei ricercatori italiani che sempre di più scelgono di emigrare all’estero per ottenere riconoscimenti e gratificazione per il loro lavoro.

·        Le Telecomunicazioni.

I dati di quasi 8 miliardi di persone passano nei cavi sottomarini. Chi li controlla? Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Fabio Savelli. Tutto il traffico voce e dati mondiale è in mano a Usa, Cina, Russia. In caso di guerra tecnologica l’Europa rischia il blacko. Stiamo parlando del sistema nervoso centrale delle telecomunicazioni globali. Il 99% di tutto il traffico internazionale voce e dati di 7,7 miliardi di persone passa per cavi lunghi migliaia di chilometri stesi sotto i fondali degli oceani. La proprietà di queste autostrade sottomarine è di chi le posa, mentre la gestione è nelle mani di chi le accende e ne fornisce i flussi di informazioni, ovvero le compagnie elettriche e telefoniche. La loro importanza deriva dal fatto che ricordano tutto ciò che su di essi transita, e interromperli, tagliarli di netto, significa mandare in tilt il sistema informatico di interi Paesi bloccando la fornitura di energia, i sistemi di trasmissione delle informazioni sensibili di ministeri ed istituzioni, le transazioni elettroniche, le comunicazioni via Internet. Il segnale che siamo entrati in una nuova era che rivoluziona la «geopolitica mondiale» sovrapponendola alla «geopolitica dei cavi», è scattato qualche mese fa, e sotto forma di campanello d’allarme. Il team Telecom della Casa Bianca ha detto no per la prima volta nella sua storia. Il comitato multi-agenzia del dipartimento di Giustizia Usa ha bloccato il progetto di realizzazione del Pacific Light Cable Network, un cavo di 12.800 chilometri che dovrebbe collegare direttamente, sotto l’oceano Pacifico, Los Angeles ad Hong Kong, ancora assediata dai tumulti anti-Cina. È il primo sistema di cavi composto da 240 canali in una singola coppia di fibre con una velocità di trasmissione di 120 terabytes al secondo. Gli americani parlano di rischi per la «sicurezza nazionale» perché dentro al consorzio che deve realizzare il progetto, insieme ai due colossi Usa, Google e Facebook, c’è anche la Dr Peng Telecom&Media group, ovvero il quarto operatore telecom di Pechino. Due anni fa è stata l’Australia, dietro la regia di Washington, a mettersi di traverso, bloccando la realizzazione di un collegamento della cinese Huawei Marine tra Sydney e le Isole Salomone. Non è un caso se dopo quel divieto il colosso di apparati tlc fondato da Ren Zhengfei abbia deciso di vendere il 51% della sua controllata alla connazionale Hengtong. L’obiettivo dello scorporo era quello di dimostrare che gli interessi tra chi fa apparati tlc e chi installa i cavi non coincidono. Una formalità, poiché a nessuna azienda cinese è permesso di «scorporarsi» dagli interessi del Partito. Nel frattempo la Cina ha steso miliardi di chilometri di fibra ottica e pesa per oltre il 60% della domanda globale, che si attesta sui 600 milioni di chilometri all’anno. Tra i primi sette operatori al mondo, cinque sono cinesi: Hengtong, Futong, Fiber Home, Ztt, Yofc.Le loro economie di scala non hanno concorrenti e hanno finito per terremotare il mercato dei cavi sottomarini, storicamente appannaggio occidentale. La neutralità delle connessioni fino a qualche anno fa è stata assicurata dal fatto che le infrastrutture sono state realizzate da società private occidentali o consorzi internazionali, sottoposti a regole di mercato e finanziati prevalentemente dalla Banca Mondiale e, per conto dell’Europa, dalla Banca europea degli Investimenti. Con il modello statalista di Pechino è lo stesso governo a realizzarle, anche per conto delle grandi big tech americane che stanno investendo massicciamente sui «submarine cable» complice l’esplosione del cloud computing. Questa convergenza di interessi con i colossi Usa – che hanno bisogno di un’incredibile quantità di fibre ottiche di nuova generazione per connettere in tempo reale oltre tre miliardi di dispositivi Android e IOs – preoccupa l’amministrazione Trump, che si trova in ritardo per competenze e investimenti. Google ha investito in 14 cavi, di 3 ne è proprietaria. Facebook ha investito in 10 progetti, Amazon in 3. La fondazione Itif calcola che nei prossimi due anni sono previsti più di 50 progetti in tutto il mondo, e Il mercato dei cavi sottomarini nel 2026 dovrebbe raggiungere gli oltre 30 miliardi di dollari, triplicando le dimensioni del 2017.Pechino ha appena «piazzato», in coerenza con la sua politica di espansione, un cavo di 6mila chilometri tra Brasile e Camerun e avviato il progetto del Pakistan&East Africa Connecting (12mila chilometri per collegare Europa, Asia e Africa), e un collegamento tra il Messico e il golfo della California. Ma anche Mosca è estremamente attiva. Un recente rapporto del think tank Policy Exchange ha avvertito che la Russia sta «operando aggressivamente» nell’Atlantico, dove i cavi collegano l’Europa e gli Stati Uniti. Nella prefazione l’ammiraglio della Marina statunitense James Stavridis ha rilevato come «le forze dei sottomarini russi hanno intrapreso attività di monitoraggio nelle vicinanze dell’infrastruttura di cavi sottomarini. Hanno la capacità di fare un colpo mirato, causando un danno potenzialmente catastrofico».In questo quadro preoccupa la sostanziale irrilevanza dell’Europa, che rischia il blackout tecnologico nel caso in cui Usa, Russia o Cina decidessero di tagliare uno dei cavi sottomarini su cui transitano miliardi di miliardi di dati, dalla fornitura di energia elettrica, telefonia, servizi privati, pubblici e governativi. Non abbiamo né un apparato tecnologico, né un player digitale in grado di competere con la cinese Huawei e con Google.

·        L’uso del Cellulare.

Smartphone, buon compleanno: 6 marzo 1983, il primo modello di cellulare. Libero Quotidiano il 06 marzo 2020. Era enorme ed ingombrante. Era difficile persino tenerlo in tasca. Ma poi tutto è cambiato. Improvvisamente. Oggi il telefono cellulare è diventato il nostro DNA digitale. Fate gli auguri al vostro smartphone: il 6 marzo del 1983 veniva venduto il primo modello di telefono cellulare. Appunto, strano come dicevamo all’inizio. A vederlo oggi sembra giunto da Marte. Quel Motorola DynaTAC stava per cambiare le abitudini dell’interno pianeta, mandando in pensione gettoni telefonici, schede e telefoni pubblici. Il prezzo di vendita negli USA in quegli anni? Vi rinfreschiamo la memoria: 4000 dollari (che oggi corrispondono ad oltre 9000 dollari). La storia, in quel 6 marzo 1983, stava per cambiare. Successivamente, nel 1994 viene prodotto il MicroTac e poi StarTac. Mettete le mani in tasca, oltre alle chiavi di casa, troverete di sicuro il telefono cellulare. Anzi lo smartphone. Che vi segue ovunque. Provare per credere. Perché con il suo arrivo è iniziata l’apocalisse digitale. Basta fare un clic per saperne di più.  Ovviamente fatelo dal vostro smartphone. Alessandro De Giuseppe è in Emilia per indagare su una presunta truffa sui finanziamenti pubblici per la ricostruzione dopo il terremoto dell’Emilia del 2012. “Abbiamo visto ruderi che prima del terremoto non erano abitati diventare palazzi, fienili diventare ville”, raccontano dal Comitato verifica ricostruzione. 20 maggio 2012: nel terremoto che colpisce l’Emilia Romagna, con le due scosse principali, muoiono 27 persone, e centinaia di edifici vengono danneggiati o completamente distrutti. I cittadini si rimboccano subito le maniche e lo Stato stanzia risarcimenti per ricostruire: 4.8 i miliardi per gli immobili dei privati e 750 milioni di euro per le opere pubbliche. La condizione per ottenere i finanziamenti? Che le strutture siano state danneggiate dal sisma e che fossero abitate prima del sisma stesso. Ma siamo davvero sicuri che i soldi della ricostruzione siano andati tutti per ristrutturare immobili danneggiati dal sisma?  Se lo chiede il nostro Alessandro De Giuseppe, che fa un lungo viaggio nella campagna emiliana. Quello che trova lascia letteralmente basiti. Come il caso di un immobile, che stando a google maps, nove anni prima del sisma aveva un buco nel tetto e non era neanche abitato. Un immobile che però avrebbe ricevuto 800mila euro di finanziamenti pubblici per la ricostruzione e che oggi è una bellissima villa di campagna”. Il proprietario spiega alla Iena: “La casa non era abitata, lo sapevano tutti. Io ne ho beneficiato, ma come me tanti altri. È stato costruito tantissimo”. O come la tettoia di campagna, un semplice fienile, che ha ottenuto oltre 620mila euro di fondi per la ricostruzione. Un tecnico esperto del settore fa davvero fatica a capire in che modo possano avere speso quei soldi, dato il risultato attuale: “Non trovo nessuna motivazione logica, è una struttura base e anche dal punto di vista impiantistico non appare nulla che possa giustificare un costo di questo tipo.” Un immobile per il quale, nella perizia servita a ottenere i finanziamenti, era stato scritto che “un’ampia porzione del solaio sarebbe crollata a seguito del sisma”. Peccato però che, come vi abbiamo detto, google maps già nel 2011 mostrava nelle sue immagini satellitari tracce di quel crollo. Andiamo a chiederlo al proprietario, che spiega di essere stato lui stesso sorpreso quando ha ottenuto quei 622 mila euro. “Il comune quando ha dato l’ok avrà ben visto , cioè io dico loro sono dei tecnici”. E poi racconta di quel buco al centro del tetto: “una tromba d’aria di alcuni anni prima”. L’uomo dice di avere detto queste stesse cose al suo tecnico ma che questi avrebbe comunque continuato a fare le pratiche per ottenere i risarcimenti. Soldi che adesso, ovviamente, il comune rivuole indietro per intero. Parliamo proprio con quel tecnico, che spiega ad Alessandro De Giuseppe: “Io sono arrivato che c’era il sisma e con una situazione di crollo quasi totale. Per me la procedura era quella di vedere se c’era il nesso di causalità. Il costo non è stabilito da noi, ma da una tabella dei costi dei lavori pubblici”. E non dice una cosa sbagliata, perché erano le stesse regole della ricostruzione a prevedere quei calcoli. Ce lo conferma il titolare dell’azienda che ha ricostruito il fienile: “Se tu facevi i lavori con una qualità superiore, ottenevi finanziamenti superiori”. Stessa storia per un altro fienile nella campagna emiliana, per la cui ricostruzione sono stati spesi 790mila euro! “Ci siamo sorpresi perché ne è uscita una casa”, spiega una vicina. “Ce ne sono state tante qui, io ho delle crepe e non ho neanche fatto la denuncia”. Uno degli architetti comunali, che dovevano controllare le perizie, racconta del possibile malcostume legato alla ricostruzione post terremoto: “Le persone tiravano tutte a fregare. Per me una perizia giurata è un documento di un tecnico che certifica una cosa, non è il documento di un ladro. Molto spesso queste perizie si sono rivelate documenti di ladri. Io non sono un carabiniere, sono un architetto”. Alessandro De Giuseppe gira per quelle campagne, in cerca di conferme dai residenti della zona. E a quanto pare, molti sapevano. “In campagna da dei ruderi venuti giù tanti anni fa han fatto dei lavori… è tutta una ladreria”. “Sono stai un po’ i geometri… un po’ tutti ci hanno mangiato”. “Abbiamo visto ruderi che prima del terremoto non erano abitati diventare palazzi, fienili diventare ville. Stimiamo in circa un miliardo di euro l’erogato non dovuto!”, spiega alla iena Marco Mattarelli, del Comitato verifica ricostruzione. La Iena affronta anche un altro caso eclatante. Ce ne parla un geometra incaricato delle pratiche per l’ottenimento dei finanziamenti: “Questo cliente ha una grossa azienda agricola con diversi fabbricati. Lui voleva chiaramente ricostruire tutto quello che aveva, a prescindere che fosse danneggiato, abitato o vuoto. Quando noi gli abbiamo detto ‘qua non si può fare niente’, ci ha chiaramente estromesso, ha ricostruito tutto a mio avviso sulla base di dichiarazioni non veritiere. Questo immobile non era neanche suo, l’ha ricostruito dopo il sisma. Il fabbricato era già notevolmente messo male. Quando abbiamo accatastato, la proprietaria che ha venduto a lui ha dichiarato che l’immobile era privo di allacciamenti alla rete dei servizi pubblici, privo di energia elettrica, privo di acqua, privo di gas e fatiscente. E ha comunque preso 218mila euro di contributi pubblici.” Quando, immagini alla mano, andiamo a trovare il proprietario di questo immobile, il figlio tiene a sottolineare: “È stato tutto fatto per vie giuste, l’abbiamo acquistato dopo il terremoto e non le so dire se era nello stato in cui dice lei”. E alla fine nega anche che quelle foto siano del 2011, nonostante, come vi mostriamo nel servizio, la data sia bene impressa sulle immagini. Ma poi aggiunge un dettaglio, a voler mostrare come il malcostume non sarebbe stato solo dei residenti: “I tecnici hanno battuto a tappeto, porta a porta, ne sono passati anche di qua, dicendo ‘È un magazzino? Te lo faccio ricostruire. Se vuoi ti facciamo avere accesso ai contribuiti’”. Poi raggiungiamo il padre, il proprietario, che spiega: “Per me sembravano tantissimi i soldi che spendevano ma i tecnici dicevano così. La Regione ci ha detto che era in regola. “ E ci spiega che quando ha contattato a una ditta privata per ricostruirlo, gli avevano chiesto 100 euro al metro quadrato. Sapete invece quanto lo Stato ha pagato quella ricostruzione? 1.000 euro a metro quadro! Abbiamo provato a raggiungere quel tecnico, ma non ha voluto incontrarci.

Bruno Ruffilli per “la Stampa” il 13 luglio 2020. Un clic, e sul computer compare Edward Snowden. È in collegamento da Mosca per la quarta edizione di Campus Party, quest' anno interamente online. Affabile e gentile, l'uomo che nel 2013 ha rivelato l'esistenza di sistemi di sorveglianza digitale che spiano mezzo mondo, parla di privacy e social network, di fake news e 5G con quattro giornalisti da diversi Paesi, tra cui La Stampa per l'Italia. Ma - visto che il tema della discussione è «Reboot the world», far ripartire il mondo, iniziamo dall'attualità: «Il lockdown per me è stato duro, ma non così diverso dalla vita di tutti i giorni negli ultimi sette anni», spiega.

Per milioni di persone il lockdown ha significato rimanere in casa e guardare la realtà attraverso uno schermo.

«Questo ha messo una distanza ancora maggiore tra noi e il mondo, siamo testimoni e non prendiamo parte a quello che succede. Ma è il momento di chiedersi se abbiamo mai detto di essere d'accordo con questa visione del futuro. In realtà la nostra risposta non importa a nessuno: i governi hanno le leggi, la polizia le pistole, Facebook dice solo "clicca Ok e continua". E se non lo fai, non puoi andare da nessuna parte, perché controllano le regole, e con queste le piattaforme, e con le piattaforme l'opinione pubblica. Così ci separano da quella che consideriamo una vita normale, e danno per scontato che ci stia bene la situazione attuale. La scelta è forzata, non abbiamo alternative, e i termini d'uso possono essere modificati unilateralmente senza preavviso, sia che si tratti di un social network che di un governo. Ma le persone stanno cominciando a capire che si può fare qualcosa per cambiare».

Cosa?

«Essere consapevoli di avere un peso nelle scelte che ci riguardano. Per personaggi come Trump, Orbán, Bolsonaro, i presidenti a vita di Cina e Russia, nulla è vietato o impossibile, mentre il minimo errore che una persona qualsiasi fa rimane cristallizzato per sempre in archivi che non ci appartengono. Dobbiamo lottare e fare sacrifici, il cambiamento non arriva dalle concessioni del potere, bisogna guadagnarselo, impegnandosi attivamente».

E con il coronavirus la situazione è cambiata?

«Mi pare che molti abbiano compreso il senso delle disposizioni a tutela della salute pubblica nei vari Paesi, in generale c'è stata empatia e attenzione al prossimo. Sono preoccupato però dall'ondata crescente di autoritarismo: più che imporre regole sarebbe stato giusto spiegarle. E poi vedo che spesso i pareri di scienziati ed esperti sono stati messi in discussione o ridicolizzati».

Il che ci porta al 5G, su cui la narrativa è assai variegata: da una parte chi dice che fa male alla salute, dall'altra chi lo considera un pericolo per la sicurezza nazionale. Ma Trump ha ragione a non fidarsi dei cinesi?

«La realtà non è mai bianca o nera: come ho spiegato nel 2013, Usa, Regno Unito, Australia Nuova Zelanda e Canada, hanno raccolto i dati di milioni di persone, con le reti 1G 2G, 3G e 4G. Alla NSA (National Security Agency, l'organismo del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d'America per il quale collaborava Snowden, ndr), non si può portare lo smartphone in ufficio: il timore è che qualcuno possa utilizzarlo per spiare. Noi lo facevamo, quindi anche altri potevano farlo. Il 5G è il nuovo standard mondiale di trasmissione dati, e i cinesi sono leader del mercato, con prodotti migliori e più economici. Come poi ci siano arrivati è un altro discorso. Se qualche agenzia di intelligence avesse le prove che Huawei spia le nostre comunicazioni, Paesi come Canada e Germania non sprecherebbero denaro per studiare la questione. Ma possiamo lasciare che l'infrastruttura digitale di una nazione sia controllata da un'azienda straniera? La risposta per la Cina è no. Ci fidiamo di Germania, Svezia, di altri, ma gli Usa non producono questi apparecchi in casa e quindi sono esposti a una certa vulnerabilità che aumenta con l'aumentare delle aziende e dei Paesi coinvolti. Così la narrativa su Huawei non è onesta, è chiaro che sarebbe più facile controllare la rete se questa fosse realizzata da aziende con cui gli Usa collaborano già da decenni: si tratta di potere più che di sicurezza».

A proposito di sicurezza, le app di tracciamento come l'italiana Immuni sono state presentate come un strumento tecnologico efficace per controllare la pandemia: ma una volta finita, non c'è il rischio che i dati che generano possano essere usati per altri scopi?

«Ho studiato i documenti della piattaforma Apple e Google (su cui è basata anche Immuni, ndr): non c'è una data di scadenza, ma devo dire che è migliore delle alternative nazionali; l'app di contact tracing australiana, ad esempio, è un incubo per la privacy, registra moltissimi dati e li invia ai server. Con Apple e Google le informazioni invece rimangono sullo smartphone, vengono condivise volontariamente e solo in caso di contagio; l'idea è rispettare le persone, dare a ciascuno il controllo dei suoi dati. Il modello è migliore del passato, ma possiamo fidarci? In questo caso, i giganti della tecnologia aiutano i governi, ma agiscono prima che ci siano delle leggi che impongono loro di farlo in un determinato modo, e questo è motivo di preoccupazione. Esistono già registri delle nostre attività ampi e dettagliati, e non credo che questo sia compatibile con una società libera, ma come facciamo a sapere se i dati di riconoscimento facciale di un'app non vengono trasmessi ad esempio alla Cina, che ha una tutela della privacy molto diversa dalla nostra? E infine, tornando al contact tracing, credo sia utile per piccoli focolai, ma se sono migliaia o decine di migliaia potrebbe essere troppo tardi».

Facebook è tra le aziende che più di tutte ha accesso ai nostri dati personali. Ma il dilemma che deve risolvere è un altro: il traffico arriva per la gran parte da fake news, discorsi di odio e opinioni radicali, esattamente quei contenuti che Zuckerberg dice di voler rimuovere. Possiamo credergli?

«Molti dei problemi di Facebook sono problemi dell'umanità, che si riflette nel social network: violenza, terrorismo, ignoranza, bugie. Non dobbiamo aver fiducia di Zuckerberg, ma nel senso che Facebook, YouTube, Google e altre piattaforme non devono decidere quello che noi possiamo dire e fare. I governi hanno le leggi per punire questi reati, quando ci sono, e invece lasciano la responsabilità alle piattaforme, che a loro volta la riversano sui governi. Oggi ognuno ha la possibilità di essere ascoltato, ma ad avere maggiore impatto sono quei messaggi che coinvolgono le emozioni. Internet non è più un bambino, è un adolescente in preda a sentimenti diversi, che fa ancora fatica a comprendere. Sono convinto che la tecnologia maturerà e che maturerà la nostra relazione con essa: un giorno cominceremo a ragionare, non sarà più l'emozione a farci cliccare un link. E ci renderemo finalmente conto del valore della nostra partecipazione».  

Tutta la verità sul 5G. Jaime D'Alessandro il 23 aprile 2020 su La Repubblica. Qualcuno sostiene che sia l'origine dei nuovi problemi del mondo ma non c'è un solo studio scientifico serio che lo dimostri. E spesso ci si concentra sulle onde millimetriche, "fonte di letalità" (tutta da dimostrare) che per ora nessuno adopera. Insomma, una storia infinita, dove la ricerca della verità è scarsa e la voglia di cospirazionismo è tanta. Vediamo perché. Il dottor Thomas Cowan nel 2018 ha pubblicato un saggio intitolato Vaccines, Autoimmunity, and the Changing Nature of Childhood Illness, che potremmo tradurre con “Vaccini, autoimmunità e natura mutevole della malattia infantile”, dove mette in dubbio l’efficacia dell’immunoprofilassi. Lo scorso anno ha dato invece alle stampe Cancer and the New Biology of Water, "Cancro e la nuova biologia dell'acqua", nel quale espone le sue idee in fatto di cure alternative ai tumori. Ma il 12 marzo Cowan, un passato nelle forze di pace ed esponente della antroposofia steineriana applicata alla medicina, ha deciso che era la volta di prendersela con il 5G. In un video pubblicato su YouTube, girato allo Health And Human Rights Summit a Tucson, sostiene l’esistenza di un rapporto di effetto e causa fra il Coronavirus e le nuove reti ultra veloci per le telecomunicazioni.

Il filmato che accusa rimosso da Google. “Storicamente ad ogni pandemia corrisponde un picco nell’elettrificazione del pianeta”, racconta in quel filmato - ora rimosso da Google - l’ex medico di San Francisco, sospeso dall’ordine della California il 10 maggio del 2017. Prima le onde radio, poi i radar, seguiti dai satelliti negli anni Sessanta e ora il Covid-19. E' esploso in una città cinese, Wuhan, dove il 5G è stato introdotto in una prima fase di test a settembre del 2019. Le epidemie sarebbero una risposta ad agenti carcerogeni: “Le cellule si ritrovano avvelenate e cercano di pulirsi eliminando i detriti, che chiamiamo virus” e la contagiosità elevata sarebbe riconducibile ai sistemi per le telecomunicazioni. Il video è stato visto da 660mila persone. Una volta condiviso su Facebook si sono però moltiplicate. I dieci filmati cospirazionisti più popolari sul 5G causa della pandemia, hanno superato sei milioni di visualizzazioni mentre la teoria tocca ormai 30 diversi Paesi, dall’Italia al Giappone.

Fuoco alle antenne. Nel weekend di Pasqua, in Gran Bretagna e poi Francia e Belgio, hanno iniziato a dare fuoco alle antenne 5G, con tecnici delle compagnie telefoniche presi di mira e insultati. “La maggior parte delle teorie cospirazioniste resta online, stavolta invece sta avendo un impatto reale sul mondo”, ha commentato amaro Alexandre Alaphilippe, a capo della DisinfoLab, ong di Bruxelles che si dedica a combattere la disinformazione.

Le stesse onde del 4G. “Io davvero non capisco: il 5G nella sua forma attuale usa le stesse onde del 4G”, spiega Nicola Blefari Melazzi, direttore del Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Telecomunicazioni (Cnit). “Di bande ne sfruttano diverse, ma quelle millimetriche che i complottisti sostengono essere nocive, non penetrano i muri. Servono a coprire aree aperte e affollate e in ogni caso nessuno le sta sfruttando ancora. Le torri date alle fiamme sono quelle che usano le frequenze 4G, che tutti noi usiamo da almeno sei anni”.

Le onde millimetriche. Già, le onde millimetriche, quelle che da sempre vengono additate come mortali, prima ancora che arrivasse il Covid-19. Il 5G ha una velocità teorica di gran lunga superiore rispetto alle reti del passato. Se con il 4G impieghiamo ad esempio circa 43 secondi per scaricare un film da un gigabyte, che erano ben quattro ore con il 3G, con la rete di quinta generazione il tempo di attesa scende sotto la soglia del secondo. Non solo. La latenza, quanto ci mette un segnale inviato dal nostro smartphone ad andare a destinazione e tornare indietro, si fa infinitesimale. Non significa solo il giocare online senza temere ritardi, ma soprattutto vuol dire poter connettere apparati produttivi che rispondono in tempo reale ai comandi o guidare veicoli anche a chilometri di distanza. Dall’industria all’agricoltura, dall’intrattenimento alle città smart, il 5G promette nel corso della sua evoluzione di cambiare le nostre vite. In prospettiva però.

Gli alberi abbattuti. Nel mondo ci sono appena 13 milioni di sim 5G su otto miliardi totali, 10 milioni delle quali in Cina, che possono sfruttare la rete più veloce solo dove è disponibile, nei Paesi dove è presente significa in genere nei centri delle maggiori città. Ericsson prevede che si arrivi a100 milioni di sim 5G attive entro fine 2020, quando il servizio sarà lanciato dal 20-25 per cento degli operatori nel mondo. Rispetto a quanto visto in passato, ha bisogno di più antenne con una potenza molto minore. In Italia è presente a macchia di leopardo ma anche da noi sospetti dietrologie e polemiche non mancano. C’è perfino chi vede il 5G dietro l’abbattimento di alberi nelle nostre città, abbattimenti a volte decisi da anni perché le piante sono malate o stanno distruggendo il manto stradale, e ormai sono circa 200 i comuni che hanno vietato l’istallazione di antenne sul proprio territorio.

Le invasioni aliene. Mentre sul Web si moltiplicavano le pagine che mettono in relazione la quinta generazione di reti mobili perfino con ipotetiche invasioni aliene, il network televisivo russo in lingua inglese RT America parla di “pericoloso esperimento sull’umanità”. E’ lo stesso canale che, come ricorda il New York Times, venne indicato dall’intelligence statunitense come fonte di continui tentativi di ingerenza nelle presidenziali del 2016. Più di recente, il 17 aprile, Luc Montagnier, premio Nobel per la medicina nel 2008 e già eletto eroe dai No Vax per le sue posizioni eterodosse, ha sostenuto durante un'intervista al canale francese CNews prima che il Coronavirus è il frutto di manipolazione umana, l'ibridazione con l'Hiv nel tentativo di trovare un vaccino per quest'ultimo, poi che il 5G a Wuhan avrebbe indebolito le difese immunitarie della popolazione aiutando la diffusione del virus. 

Radiofrequenze e tumori, legame improbabile. Musica per le orecchie di chi sostiene che le radiofrequenze, specie del 5G, siano cancerogene. Secondo l'Istituto superiore di sanità però, il legame fra queste e i tumori è improbabile. Tutte le indagini che hanno sostenuto un collegamento, senza provarlo, sono state condotte esponendo cavie a una dose massiccia e continuativa per diversi anni alle frequenze usate dal 2G e 3G. Compresa quella tossicologica del 2018 pubblicata dal Dipartimento della salute statunitense che spesso viene citata come esempio a supporto della tesi della pericolosità.

Ventottomila studi. Dagli anni 60 ad oggi sono stati prodotti oltre 28mila studi sul tema, senza dimenticare che se davvero le reti per le telecomunicazioni avessero una certa letalità, dovremmo vedere cadaveri per strada ogni giorno vista la diffusione capillare. “Anche se alcune ricerche suggeriscono una possibilità statistica di un aumento di rischio del cancro in chi usa di continuo il telefono, le evidenze non sono sufficienti per prendere misure precauzionali”, ha spiegato il dottor Frank De Vocht, consulente del Governo inglese in fatto di sicurezza delle reti mobili, all’indomani degli attacchi alle torri inglesi del 5G. Nel 2014 l’Organizzazione mondiale della sanità ha equiparato il pericolo a quello del mangiare verdure in salamoia che, per capirci, è nettamente inferiore al rischio legato al bere alcolici. Ci si concentra spesso sulle famose onde millimetriche, che nessuno ancora adopera, perché sarebbero le stesse dei forni a microonde. Se non fosse che i limiti stabiliti a livello internazionale, da noi sono per altro dieci volte più bassi, portano ad una possibile variazione della temperatura di qualche decimo di grado. “Davvero nulla rispetto a quel che può fare una batteria di uno smartphone durante un uso intenso”, prosegue Blefari Melazzi. “E poi le onde radio non sono ionizzanti: non hanno la forza di rompere in nostro Dna e causare danni a livello cellulare”.

Le verità scomode. Ma viene il dubbio che sia una guerra difficile da vincere malgrado le evidenze. In Italia, stando ai dati del Cnr, circa un quarto della popolazione crede che i canali ufficiali d’informazione nascondano verità scomode che invece sul Web trovano sbocco. E così si passa dal No Vax al No 5G, spesso cavalcati da politici in cerca di notorietà, fino alle teorie che lo vogliono causa della pandemia o a quelle che già accusano il vaccino anti Coronavirus, che non abbiamo ancora, di essere un veicolo per avvelenare l’umanità.

Dal 5G alla Terra piatta. Il riferimento culturale dell’ex dottore Thomas Cowan, come ricostruisce il blog Butac.it (Bufale Un Tanto Al Chilo) è L’arcobaleno invisibile di Arthur Firstenberg. Attivista newyorkese, classe 1950, è stato tra i primi a sostenere l’esistenza dell’elettrosensibilità. Aspirante medico, Firstenberg si è autodiagnosticato una nuova malattia: “ipersensività elettromagnetica”, che poi ha esposto per filo e per segno nel volume Microwaving Our Planet: The Environmental Impact of the Wireless Revolution del 2017. E’ da quel saggio che Cowan ha preso spunto per il suo video dove mette in relazione Wuhan, 5G e pandemia. Ma come Montagnier, omette di dire che le reti di nuova generazione sono state lanciate in contemporanea in altre quindici città cinesi. Così come da noi dove, oltre a Milano, nell’estate del 2019 sono apparse a Bari, Matera, L'Aquila, Prato e Roma. Anche l’origine dei "terrapiattisti", che negano la curvatura terrestre, viene fatta risalire dalla Texas Tech University ad un video di YouTube. Il 25 agosto del 2011 il comico americano canadese Matthew Boylan, in arte Marth Powerland, pubblicò un suo spettacolo del 2007 in francese dove poneva dubbi sulla corsa allo spazio della Nasa e in ultimo sul fatto che il nostro pianeta sia rotondo. Tre anni più tardi il suo canale TheNasaChannel era diventato il primo nucleo del terrapiattismo in chiave social. La fonte è di nuovo un testo misconosciuto ai più: Zetetic Astronomy: Earth Not a Globe che Samuel Birley Rowbotham pubblicò nel 1864. Rowbotham, un autodidatta, ebbe 14 figli, vendeva rimedi per varie malattie per vivere e brevettò diverse invenzioni tra le quali vale la pena ricordare il “vagone cilindrico su rotaia per la conservazione della vita”. Un corrispondente del Leeds Times di lui scrisse: “Una cose che aveva sicuramente dimostrato era che i dilettanti della scienza, non avvezzi a difendere una causa, non sono in grado di replicare a un ciarlatano intelligente e irremovibile nelle sue teorie che sa sfruttare le debolezze dei suoi avversari”.

Nuove linee guida per il 5G, nessun pericolo per la salute ma cautela con le alte frequenze. L'International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection a distanza di più di 20 anni ha aggiornato le linee guida per la protezione degli esseri umani dai campi elettromagnetici a radio frequenza. Nessuna rivoluzione, ma si consiglia cautela con le frequenze superiori ai 6 GHz. Dario D'Elia il 13 marzo 2020 su La Repubblica. "La cosa più importante che le persone devono ricordare è che quando queste nuove linee guida verranno rispettate le tecnologie 5G non saranno in grado di causare danni", ha assicurato il dottor Eric van Rongen, presidente dell'ICNIRP. L'International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection è una delle organizzazioni scientifiche non governative più prestigiose nel campo degli studi sulle radiazioni non-ionizzanti – quindi dalle emissioni solari, alle microoonde, fino ad arrivare alle emissioni radio. Mercoledì ha pubblicato le nuove linee guida per la protezione degli esseri umani dai campi elettromagnetici a radio frequenza; in pratica una serie di prescrizioni che dovrebbero proteggere popolazione e addetti ai lavori dai possibili rischi legati all'esposizione dei segnali 5G, 4G, 3G, radio AM e DAB, Wi-Fi e Bluetooth. 

Linee guida basate sulla letteratura scientifica. La principale novità riguarda indicazioni più dettagliate e rigorose nei confronti delle frequenze al di sopra dei 6 GHz, che verranno impiegate anche per la 5G. Da ricordare che in Italia, come in altri paesi europei, verranno impiegate le bande a 700 Mhz, a 3.700 MHz e 26 GHz. Proprio quest'ultima andrà gestita con maggiore cautela. "Sappiamo che parti della comunità sono preoccupate per la sicurezza del 5G e speriamo che le linee guida aggiornate aiutino le persone a sentirsi a proprio agio", ha aggiunto van Rongen. "Le linee guida sono state sviluppate dopo un'attenta revisione di tutta la letteratura scientifica, seminari e un ampio processo di consultazione pubblica. Le linee guida forniscono protezione  contro tutti gli effetti negativi sulla salute scientificamente provati dovuti all'esposizione a campi elettromagnetici nell'intervallo tra 100 kHz e 300 GHz". 

Poche novità, ma un occhio di riguardo per le alte frequenze. Nello specifico le principali novità riguardano l'inclusione di restrizioni per l'esposizione di tutto il corpo, di parti del corpo per meno di 6 minuti e di quella massima consentita su piccole porzioni del corpo. Si parla insomma di soglie minime da rispettare, che secondo gli esperti sono già soddisfatte dalle grandi antenne radio. Bisognerà invece assicurarsi che gli smartphone 5G – o altri dispositivi - compatibili con le frequenze superiori ai 6 GHz rispettino alcune indicazioni. Massimo rigore per l'esposizione di tutto il corpo e per piccole aree in caso di alta intensità di segnale. Da ricordare che i 26 GHz non hanno un grande raggio d'azione ma si caratterizzano per le alte prestazioni, la bassa latenza e una ridotta capacità di penetrazione delle mura. Uno scenario ideale di impiego potrebbe essere quello di uno stadio oppure una via del centro molto frequentata. GSMA, l'organizzazione mondiale che rappresenta le aziende della telefonia mobile, ha fatto sapere che gli smartphone 5G attualmente in commercio rientrano già nei limiti dei nuovi standard poiché l'industria ha giocato d'anticipo nella progettazione. "Venti anni di ricerca dovrebbero rassicurare le persone che non ci sono rischi per la salute dovuti ai loro dispositivi mobili o antenne 5G", ha confermato alla BBC il direttore generale dell'ICNIRP John Giusti. 

Conferme anche dall'Italia. L'anno scorso in diverse città italiane, fra cui Bologna e Torino, diversi comitati cittadini hanno sollevato perplessità sulla sicurezza della tecnologia 5G. Un legittimo timore che per ora non ha trovato adeguato riscontro scientifico. Lo stesso Istituto superiore della sanità a marzo 2019, in audizione alla Camera, ha assicurato che le antenne 5G e le relative emissioni che rispettano le linee guida internazionali (Iarc e Oms) non generano rischi per la salute.  Anche il discusso studio dell'Istituto Ramazzini (onlus) e quello del National Toxicology Program statunitense, che si sono concentrati sull'esposizione di ratti a frequenze 2G e 3G, sono stati ridimensionati dalla comunità scientifica per le potenze assorbite in gioco, nettamente superiori rispetto a quelle di un cellulare. Un'esposizione massiccia e prolungata a onde elettromagnetiche può essere dannosa, ma è proprio per questo motivo che esistono da decenni linee guida da rispettare. E l'ultima dell'ICNIRP prosegue nel solco di questa cautela. 

«L’uso prolungato del cellulare può causare il tumore»: la sentenza della Corte d’Appello a Torino. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Simona Lorenzetti. Esiste un nesso di causa tra l’uso intensivo e prolungato del telefono cellulare e l’insorgenza di alcune tipologie di tumore. A confermarlo è la Corte d’Appello di Torino, che sottolinea che «esiste una legge scientifica di copertura che supporta l’affermazione del nesso causale secondo i criteri probabilistici “più probabile che non”». Il caso pilota riguarda un torinese di 56 anni al quale i giudici hanno riconosciuto una rendita vitalizia di circa seimila euro l’anno, stabilendo che esiste una connessione tra il tumore cranico di cui l’uomo è affetto e l’uso continuato che ha fatto del cellulare per esigenze lavorative. La storia è quella di Roberto Romeo, dipendente Telecom, che nel 2010 all’improvviso ha scoperto di non sentire più nulla dall’orecchio destro. Gli accertamenti clinici hanno svelato la presenza di un cancro, benigno ma invalidante, alla base dell’orecchio. Ora l’Inail è stata condannata (in primo grado dal Tribunale di Ivrea nel 2017 e ora anche dalla Corte d’Appello di Torino): per i giudici il tumore è una malattia professionale che ha reso il dipendente Telecom invalido per il 23 per cento. Nella sua battaglia legale Romeo è stato assistito dallo studio legale Ambrosio e Commodo. «Speriamo che la sentenza spinga a una campagna di sensibilizzazione, che in Italia non c’è ancora — afferma l’avvocato Stefano Bertone —. Come studio abbiamo aperto il sito neurinomi.info, dove gli utenti possono trovare anche consigli sull’utilizzo corretto del telefonino». «Non voglio demonizzare l’uso del telefonino, ma credo sia necessario farne un uso consapevole», ha spiegato Romeo.

Cellulari, l’esperto del Cnr: «Non c’è evidenza  di rischio tumore  ma usateli con prudenza». Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. Moccaldi (Cnr): «Gli studi non hanno mai fornito elementi di pericolo».

Le onde elettromagnetiche del cellulare sono cancerogene, come sostiene la sentenza della Corte d’Appello di Torino?

«No, non c’è evidenza scientifica consolidata che questo possa accadere. I dati disponibili sulla base delle ricerche degli ultimi 30 anni suggeriscono che l’uso dei telefoni cellulari non sia associato all’aumento del rischio di tumori. Lo ha ribadito solo pochi mesi fa l’Istituto Superiore di Sanità in una metanalisi degli studi pubblicati tra il 1999 e il 2017. I miei autorevoli colleghi affermano che le radiofrequenze non possono causare neoplasie nelle zone più esposte del corpo durante le chiamate vocali».

Roberto Moccaldi è responsabile della medicina del lavoro al Cnr: da 30 anni si occupa di protezione dalle radiazioni ionizzanti e non ionizzanti, quelle appunto dei campi elettromagnetici.

Se le prove scientifiche mancano davvero, come mai i giudici torinesi hanno affermato il contrario?

«I consulenti tecnici del tribunale evidentemente hanno fatto riferimento ai pochi studi che dimostrano l’esistenza di rischi legati all’uso dei telefonini. Questi studi costituiscono la nettissima minoranza rispetto a una massa di informazioni che invece smentiscono l’ipotesi di pericolo per la salute. Siamo comunque l’unico Paese al mondo ad aver riconosciuto la malattia professionale da telefonino a dispetto dell’evidenza. Dopo aver seguito nel tempo i comportamenti di centinaia di migliaia di persone non abbiamo registrato nel complesso un aumentato rischio oncologico tra chi usa il cellulare e la popolazione non esposta alle onde elettromagnetiche».

I dati raccolti finora sono sufficienti?

«Altre ricerche sono in corso ma non ci aspettiamo sorprese. Sono convinto che confermeranno i risultati ».

Cosa altro dice il rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità?

«Chiarisce che i notevoli eccessi di rischio osservati in alcuni studi non sono coerenti con l’andamento temporale dei tassi di incidenza dei tumori cerebrali che non hanno risentito del rapido aumento dell’esposizione. Dopo decenni di studio non sono noti i meccanismi biologici che potrebbero causare la malattia tumorale da parte delle radiofrequenze».

E allora come mai il ministero di Salute la scorsa estate sul sito ufficiale ha avviato una campagna informativa sulle modalità di esposizione alle onde elettromagnetiche?

«È stata una disposizione del Tar a indicare che alcuni ministeri avrebbero dovuto adottare una campagna informativa sulle corrette modalità d’uso della telefonia mobile e sui rischi eventuali derivanti da un uso improprio degli apparecchi».

(La sentenza è quella che a gennaio 2019 ha accolto in parte un ricorso proposto dall’associazione per la prevenzione e la lotta all’elettrosmog, ndr).

Tenere il cellulare sul comodino o addirittura sotto al cuscino quando dormiamo è un’abitudine corretta?

«In attesa che la ricerca approfondisca ancora qualche aspetto può essere corretto raccomandare di tenere gli smartphone lontano dal corpo quando non vengono utilizzati. Tale consiglio diventa prescrizione per pazienti con pace maker o altri dispositivi impiantati. Niente cellulare sotto il cuscino, non se ne comprende il vantaggio una volta per tutte i dubbi. Le residue incertezze, scrive nel suo rapporto l’Iss, riguardano i tumori a più lenta crescita e l’uso nell’infanzia».

Altre precauzioni?

«Il ministero consiglia di applicare l’auricolare o il vivavoce, e di preferire l’invio di messaggi scritti o vocali alle conversazioni. Bisognerebbe parlare in condizione di buona ricezione del segnale. Viene poi spiegato che l’esposizione alle onde avviene solo se l’utente parla e non quando ascolta, quando trasmette i dati e non in ricezione».

Sono state ipotizzate interferenze con la fertilità maschile. Quindi sarebbe meglio non tenerlo in tasca?

«Rientra tra le misure cautelari diminuire l’esposizione. Per quanto riguarda l’interferenza con la fertilità maschile potrebbe essere legata al riscaldamento. da radiofrequenze, uno dei pochi effetti certi legati a queste fonti ma a livelli di intensità di campo di gran lunga superiori a quelli emessi dall’apparecchio. Il calore del cellulare oltretutto dipende dalle batterie».

Nei confronti dei bambini vanno adottate cautele maggiori rispetto agli adulti?

«Le cautele non riguardano certo il rischio. Bisognerebbe concentrare l’attenzione sulla smart addiction, vale a dire la dipendenza da telefonino in età infantile, patologia già descritta dai neuropsichiatri».

·        Un microchip sottopelle.

Silvia Natella per leggo.it il 20 febbraio 2020. Un microchip sottopelle che può aprire le porte di casa e dell'ufficio, consentire l'accesso a dispositivi digitali, mostrare il proprio titolo di viaggio sul treno e - perché no - pagare gli acquisti come già si fa oggi utilizzando una normale carta di credito contactless.

FUTURO A PORTATA DI MANO. Non è fantascienza ma è quello che sta per accadere grazie a Biohax, startup fondata dallo svedese Jowan Österlund nel 2013, che sta lavorando per creare accordi e fornire servizi di questo tipo anche nel nostro Paese. Mattia Franzoni, CEO Biohax Italia, è infatti tra i cento connazionali che hanno scelto di farsi impiantare il chip alla stregua di un piercing.

L'IMPIANTO. E se uno smartphone è un computer a portata di mano, il microchip lo è letteralmente tra le dita. «Me lo sono fatto impiantare quattro anni fa tra l'indice e il pollice e non ho mai avuto problemi. A una settimana dall'inserimento con una siringa, il corpo lo ingloba con il collagene. E dimentico di averlo», spiega Franzoni al BTO2020, evento leader dedicato al binomio turismo e tecnologia.

VITA SMART. La sua vita è diventata decisamente più smart: sblocca porte e dati sul pc avvicinando la mano e comunica con il chip sottocutaneo attraverso un'App. Anzi, a chi lo paragona ad un Cyborg, risponde: «Credo che il futuro vada in questa direzione, l'obiettivo è attivare il metodo di pagamento da qualsiasi Pos e negozio».

DALLA SVEZIA ALL'ITALIA. In Svezia - a fronte degli attuali tremila utenti - molte delle funzioni possibili sono una realtà, ma in Italia siamo pronti? Se si pensa che nell'ultimo anno il Belpaese si è collocato al 23esimo posto nella classifica delle transazioni con carta di credito, allora il chip sotto pelle appare davvero futuribile. E anche i più abituati al cash - free temono scenari alla Black Mirror o alla Matrix con corpi estranei nel proprio organismo: «In un mondo in cui si è continuamente connessi e in cui la tracciabilità è all'ordine del giorno, la possibilità di doverlo essere con lettori RFID sempre più invasivi mi sembra eccessiva».

GLI SCENARI. Ma gli scenari di sviluppo non suggeriscono proprio questo. «Alle persone spaventate - conclude Franzoni - posso dire che il chip non ha il GPS e viene alimentato quando viene letto dal lettore, quindi non può venire rintracciato e non emette frequenze elettromagnetiche. Il prossimo passo è diventare banca online». Il tutto per «comodità, sicurezza e praticità», in fondo per sbarazzarsene basta un piccolo taglio. Il video è su Leggo.it.

·        Cos'è un algoritmo.

Cos'è un algoritmo e cosa succede quando sbaglia. Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Andrea Marinelli. Dal reclutamento del personale alle assicurazioni sanitarie, sono tanti i casi di discriminazione da algoritmo: basta un per confonderne l’efficacia. L’ultimo esempio lo abbiamo avuto a inizio novembre, quando un noto sviluppatore di software danese, David Heinemeier Hansson, si è scagliato contro Apple Card: «Io e mia moglie facciamo la dichiarazione dei redditi congiunta, ma l’algoritmo di Apple è sessista, perché crede che io mi meriti una linea di credito 20 volte superiore alla sua». Il problema è che l’algoritmo in questione non agisce spontaneamente, ma è stato costruito su serie storiche di dati, che non tengono in considerazione i cambiamenti della società. «Se devi massimizzare il grado di solvibilità e guardi ai dati storici, storicamente gli uomini hanno sempre guadagnato più delle donne», ci spiega la professoressa della New York University Meredith Broussard, autrice del libro Artificial Unintelligence: How Computers Misunderstand the World. Dai dati, infatti, gli algoritmi imparano le regole per classificare un nuovo caso basandosi su quelli già etichettati, che si definiscono «gold truth» (una sorta di verità assoluta): l’algoritmo capisce come comportarsi in base ai dati di cui dispone, trasformando ogni caso in un insieme di variabili, e apprendendo quali di queste influenzano la classificazione. L’obiettivo è riprodurre la «gold truth», che però a volte può essere influenzata da un pregiudizio statistico che confonde l’apprendimento.Un caso analogo si è verificato con un algoritmo messo a punto da Amazon nel 2014 per selezionare le persone da assumere attraverso la scrematura dei curriculum ricevuti. Il programma si basava sui dati estrapolati dai curriculum delle persone assunte negli ultimi dieci anni — quasi esclusivamente uomini — e di conseguenza scartava automaticamente le donne. Quando l’ha capito, Amazon — i cui ruoli manageriali sono nel 74% dei casi ricoperti da uomini — ha abbandonato il progetto. Nonostante questo, secondo uno studio di Pwc, le organizzazioni internazionali americane, europee, e asiatiche continuano ad affidare agli algoritmi circa il 40% delle funzioni che riguardano le risorse umane.La discriminazione avviene spesso nei settori che si affidano alla tecnologia per automatizzare alcuni processi decisionali. Secondo uno studio della Brookings Institution, ad esempio, la valutazione dei rischi usata dai giudici americani per stabilire se rilasciare su cauzione un detenuto in attesa di processo (il programma Compas) discrimina di default gli afroamericani che, a parità di rischio con un detenuto bianco, si ritrovano cauzioni più alte e periodi più lunghi di detenzione. Se fino a qualche anno fa il giudice decideva valutando caso per caso, ora si affida ad un voto deciso da un algoritmo costruito su serie storiche di dati. Risultato: sono stati segnalati ad alto rischio, senza aver commesso nuovi crimini, il 44,9% degli afroamericani, contro il 23,5% dei bianchi. Sempre negli Stati Uniti, la rivista Science ha messo in evidenza come un algoritmo usato comunemente dalle assicurazioni sanitarie consideri i pazienti neri più sani di quelli bianchi: invece di basarsi sui dati clinici delle singole patologie, i programmatori hanno utilizzato come indicatore di riferimento i dollari spesi da ogni singolo paziente assicurato per curarsi. Quello bianco spende mediamente di più e quello nero di conseguenza viene considerato più sano, quindi le assicurazioni gli passano meno cure. Se non ci fosse un criterio di razza, i pazienti neri che ricevono trattamenti medici passerebbero dal 17,7% al 46,5%.Tutto questo succede perché gli algoritmi non hanno la flessibilità e la capacità di giudizio umana e, basandosi su modelli statistici e matematici di lungo periodo, finiscono per incentivare stereotipi o discriminazioni. Un allarme lo ha lanciato l’Osservatorio sulla povertà estrema delle Nazione Unite: la digitalizzazione selvaggia dei servizi sociali nella pubblica amministrazione — il cosiddetto «digital welfare state» — in molti casi aumenta le disuguaglianze e colpisce le fasce più povere della popolazione, sia nei Paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo, trasformando i bisogni dei cittadini in numeri. Proprio per questa ragione il 5 febbraio il tribunale dell’Aja ha disposto l’immediata sospensione dell’algoritmo Syri, adottato a partire dal 2014 dal ministero per gli Affari sociali olandesi. Incrociava i dati di 17 database — fra cui quelli fiscali, medici, dei servizi sociali e delle utenze — per capire se chi percepisce sussidi o altre forme di welfare poteva essere incline a commettere frodi, ma veniva utilizzato nei quartieri più poveri e ad alta densità di immigrati dei Paesi Bassi. Secondo il tribunale si trattava di una violazione dei diritti umani. «Una sentenza storica, che impedisce al Governo di spiare i poveri», ha commentato Philip Alston, il rappresentante speciale dell’Onu sulla povertà.In Italia l’algoritmo Isa che calcola quanto ogni cittadino deve al fisco è in corso di revisione, perché si è scoperto che era sbagliato: era stato programmato sulla dichiarazione dei redditi degli ultimi dieci anni senza considerare le variabili dell’anno sul quale paghi le tasse. Sull’utilizzo degli algoritmi si sono espressi sia il Tar del Lazio che il Consiglio di Stato: possono far parte del processo amministrativo, hanno scritto, ma a condizione che siano comprensibili e soggetti all’intervento umano. Secondo la professoressa Broussard, per vent’anni si è pensato che algoritmi fossero migliori dell’uomo, ma ora ci stiamo rendendo conto che non è così. E infatti sta nascendo una nuova industria di specialisti pagati per prevedere ed eludere le falle tecnologiche, come la O’Neil Risk Consulting & Algorithmic Auditing, che è stata la prima a sottoporre gli algoritmi a una revisione esterna. Valuta la trasparenza con la quale è costruito il software, l’equità, l’accuratezza, e aiuta i propri clienti a individuare le conseguenze dei propri algoritmi. Questa pratica è diventata un trend comune, al punto che anche colossi come Deloitte hanno un settore dedicato alla gestione dei rischi degli algoritmi dei loro clienti. A pagamento, ovviamente.

 L'incontro con i parlamentari. Intelligenza Artificiale e algoritmi vanno governati, o ci governeranno loro. Deborah Bergamini su Il Riformista il 29 Settembre 2020. Ieri una delegazione dell’Intergruppo parlamentare sull’Intelligenza Artificiale ha incontrato il premier Conte, c’ero anche io. La notizia c’è, perché di intelligenza artificiale i politici non amano molto parlare, né tantomeno pensarci su. Tema troppo complesso, tecnico, e globale. Eppure è tema di urgenza assoluta, se è vero che se ne parla come di una minaccia alla libertà individuale e se è vero che le nazioni rischiano di trovarsi definitivamente schiacciate dallo strapotere delle multinazionali che ne hanno di fatto il monopolio. E quindi è bene che il presidente del Consiglio italiano, che evoca spesso un nuovo Umanesimo, se ne faccia carico. Dobbiamo allora ricordarci di come andò quando internet esplose nelle nostre vite provocando la più straordinaria rivoluzione tecnologica della storia dell’uomo e consentendoci libertà che mai avremmo immaginato. Fu una nuova frontiera, ma anche un nuovo far west. La velocità tecnologica stordì governi e organismi sovranazionali, lenti nel fissare regole e paletti ad un fenomeno epocale. E ancora oggi, venticinque anni dopo, scontiamo gli effetti e le consuetudini prodotti da quel disallineamento fra sviluppo digitale e capacità di regolarlo. Da allora si procede in modo ondivago, con lassismi che sarebbero insensati per qualunque altro ambito e improvvise strette che disorientano il mercato. E di solito, quando il legislatore interviene, i buoi sono scappati. È successo così, per esempio, con le enormi quantità di dati e informazioni su di noi di cui cediamo proprietà e diritti ogni giorno ai vari Google, Facebook e Amazon. Nessuno ce li restituirà mai più, non saranno mai nostri. Possono essere utilizzati con pochissimi limiti a piacimento di chi ne dispone per sempre. In cambio, ci hanno dato un’illusoria libertà di espressione delle nostre opinioni e di informazione, oltre a servizi ormai divenuti essenziali per noi, irrinunciabili. Ora bisogna imparare la lezione ed evitare che la stessa cosa si ripeta con l’intelligenza artificiale, partendo subito dalla tutela dello Stato di diritto. Se è vero, infatti, che l’intelligenza artificiale rappresenta un’opportunità per le democrazie in termini di maggiore trasparenza e partecipazione, dall’altra comporta rischi importanti in termini di manipolazione e disinformazione. Va normata, non può essere lasciata all’autodeterminazione delle aziende globali che sviluppano gli algoritmi. Se oggi il fondatore di un partito di governo, Beppe Grillo, può dire tranquillamente – non come un cittadino comune, ma come leader democraticamente rappresentativo – che la nostra è una democrazia “zoppicante”, in cui ormai va a votare meno del 50% degli aventi diritto e che bisogna pensare ad un’estrazione a sorte dei rappresentanti, significa che siamo già in allarme rosso. «Andare a votare ogni quattro-cinque anni e mettersi la coscienza in pace è assurdo. Devi dare il voto tutti i giorni», ha detto Grillo. Ecco, la grande rivoluzione digitale, tra i suoi straordinari effetti, ha prodotto anche questo: l’urgenza di sostituire la democrazia rappresentativa con quella cosiddetta “diretta”, sicuramente più efficiente. C’è però un ma. Premesso che qualcuno che traduca poi la volontà dei cittadini in leggi, e che lo faccia con competenza e capacità esclusivamente umane di mediazione ci vorrà sempre, se prima di pensare alla democrazia diretta non si costruisce una governance globale degli algoritmi, il rischio è che il nostro voto, così come oggi i nostri dati, non sia più una cosa che ci riguarda. L’uso di algoritmi per l’intelligenza artificiale potrà – anzi lo sta già facendo – sostituire perfettamente gli umani e la loro volontà, essendo in grado di preordinarla. Essi infatti imparano da sé stessi, sviluppando, nel processare ed elaborare dati, capacità predittive tali da consentire di pre-formare il comportamento umano, i nostri gusti, le nostre priorità e le nostre scelte. Già oggi guidano le auto al posto nostro prevenendo un nostro possibile errore, prevedono i comportamenti di possibili criminali, prevenendo delitti. E orientano le nostre opinioni, mettendole al servizio del “bene comune” e prevenendo eccessi di autonomia od originalità del pensiero. Inscatolano l’umano, perché loro sono a loro volta inscatolati e solo quella dimensione conoscono. Così come Amazon ci persuade indirettamente ad orientarci verso certi acquisti o Google verso certe aree di interesse, altrettanto può già accadere per le nostre idee politiche e quindi per i nostri voti. E se abbiamo rinunciato alla proprietà dei nostri dati, perché mai dovremmo pretendere di essere proprietari delle nostre opinioni o del nostro libero esercizio democratico? La democrazia diretta allo stato attuale non è una fonte di libertà, ma di controllo, perché sottosta a regole preordinate non si sa da chi, secondo quali leggi, e per quali scopi. Non è sproporzionato dire che possono già essere oggi gli algoritmi a sostituire gli esseri umani anche nell’esercizio della democrazia e a disegnare assetti sociali dove davvero l’umano non potrà che essere suddito. Siamo sicuri che questa sia la nuova frontiera che vogliamo oltrepassare? Mentre ci decidiamo, sarebbe opportuno e necessario, da parte di legislatori, governi ed enti intergovernativi, stabilire regole d’ingaggio condivise e incontrovertibili sulla proprietà degli algoritmi, sul loro sviluppo, applicazione e commercializzazione e sulla tutela dei diritti dell’uomo, o meglio dell’umano.

·        Il concetto di Isocronismo.

Il concetto di isocronismo. Fabrizio Rinversi su Time Over.it il 5 ottobre 2020. Dopo aver analizzato con attenzione le componenti e il funzionamento del treno del tempo, con focus particolare sulla funzione primaria dello scappamento ad ancora svizzero, approfondiamo la conseguenza meccanica sui cui incide sostanzialmente l’efficacia dello scappamento, ossia l’Isocronismo, suddividendo l’intervento in due parti. Nel prossimo articolo, completeremo la trattazione. Il principio fisico che anima e determina il buon funzionamento dello scappamento è chiamato “Isocronismo”, individuato ed applicato all’orologio dal genio di Galileo Galilei, il quale formulò la sua teoria approssimativamente nella seconda metà del 1500: “Le oscillazioni del pendolo avvengono tutte nel medesimo tempo, a prescindere dalla loro ampiezza”. Ribaltando il concetto al nostro orologio da polso, il bilanciere oscilla spinto unitamente dalla forza trasmessa dalla ruota di scappamento e dall’azione di richiamo esercitata dalla spirale: l’insieme lascerà “scappare “ un dente alla volta della sopracitata  ruota, e tutto avverrà in un tempo ben determinato, che darà origine al conteggio dei secondi, dei minuti e delle ore. Esaminati i principali elementi che costituiscono lo scappamento ad ancora svizzero, vediamo il suo funzionamento. Sicuramente  nell’organo regolatore, ma anche nell’intero orologio, l’apparato costituito dalla coppia volantino/spirale, rappresenta la parte più delicata, nella manipolazione, che il tecnico deva affrontare durante gli interventi, sia di riparazione che di manutenzione ordinaria. I volantini standard, comunemente usati nella maggior parte dei calibri sono costruiti in nickel (più economici), oppure in Glucydur, lega formata principalmente da rame, ferro e berillio, le cui caratteristiche amagnetiche, basso coefficiente di dilatazione ed ottimo grado di lavorazione ne fanno un materiale ottimo ad assolvere il compito di regolatore. Di fondamentale importanza, poi, è il peso che viene dato al  volantino. Infatti, non solo determina l’inerzia che la forza motrice contrasta durante l’oscillazione, ma in fase costruttiva ogni punto della sua circonferenza deve essere perfettamente equilibrato in maniera da avere un peso esattamente identico. Osservando il bilanciere sottosopra noteremo una o più  “intacche” di alleggerimento, a riprova che una volta costruito, il volantino è sottoposto ad un accurato trattamento di rettifica del suo peso fino ad ottenere la totale precisione. Equilibratore con lamine in rubini: facendo ruotare lentamente il bilanciere con plateau montato, si controlla che il peso sia identico in tutti i suoi punti. Virola di tipo Greiner,  la sua tipica forma, come evidenziato dalla freccia, compensa parte delle deformazioni provocate dalla forza G. La duttilità della materia adoperata, se facilita la costruzione e la manutenzione, come ad esempio il cambio dell’asse, determina però anche una deformabilità elevata. Questo comporta che il cambiamento seppur minimo della sagoma, rispetto all’asse di rotazione, si trasforma in oscillazioni alterate ossia non “isocrone”. Chiariamo meglio questo concetto: il volantino è rivettato sul proprio asse di rotazione e nella parte superiore (quella a vista) si applica la spirale tramite la virola, mentre sull’estremità dell’ultima curva è montato il pitone: questo viene saldamente bloccato nella sua sede ricavata o nel  ponte (oggi più raro) oppure ancora, come sempre più frequentemente  accade, si alloggia nel porta-pitone mobile. Questo sistema consiste in una racchetta  montata a frizione sul ponte del bilanciere e facilita la messa in  repère (fase) dello scappamento. Nella parte sottostante del volantino si monta il doppio disco di sicurezza (plateau).  Il bilanciere, così completo, è vincolato con i perni nei rubini e  attraverso la spirale solidale al ponte. Tutto il sistema risulta così pronto a ricevere l’impulso dall’ancora tramite il rubino (ellipse) posto nel doppio disco. Prendendo un punto (immaginario) qualsiasi sulla circonferenza del volantino fermo, che chiameremo A,  dandogli la posizione α (Alfa), mettendo in moto il bilanciere, il punto A,  si muoverà fino a raggiungere la distanza massima consentitagli dall’impulso dell’ancora: questa posizione, che denomineremo β (Beta), rappresenta il percorso detto alternanza; sotto l’azione di richiamo della spirale, il bilanciere percorrerà successivamente la strada inversa, ed il punto A si troverà nuovamente nella posizione di origine α. Quest’azione che abbiamo descritto è detta oscillazione, e quindi, l’andata più il ritorno del punto A  in modo consecutivo rappresentano le oscillazioni che compie il bilanciere. Ma il dato importante è la somma dei due semi-percorsi: le alternanze compiute dal bilanciere, ovvero le rotazioni di sola andata e di solo ritorno, renderanno isocrone le oscillazioni solamente quando risulteranno  perfettamente identiche. Questa condizione di eguaglianza assume un valore così elevato, che sia le schede tecniche destinate ai professionisti, sia quelle solamente informative al pubblico, nel rilasciare i dati sul conteggio orario dei movimenti effettuati dal bilanciere, dichiarano sempre il numero di alternanze, usando appunto il simbolo A/h (alternanze orarie), a conferma del perfetto isocronismo raggiunto dalle oscillazioni del sistema regolatore.

Virola di tipo classico. Nei punti indicati, si notano le tacche di equilibratura praticate nella parte inferiore del volantino. L’equilibrio  nelle alternanze, però, non è un fattore statico, che una volta ottenuto rimane invariato, ma è mutabile nel tempo,  in relazione a vari fattori negativi che possono influenzare l’orologio. La principale causa di perdita d’isocronismo è imputabile alla discontinuità nell’erogazione di forza da parte della molla di carica, che inevitabilmente, attraverso il continuo moto di caricamento e scaricamento, all’interno del bariletto, nel tempo perde la sua costanza. Non è solamente un’alterazione del coefficiente elastico, ma anche una deformazione angolare, specialmente nella curvatura in prossimità del nocciolo (asse di rotazione del bariletto) a determinare tale difetto. Anche gli attriti, che aumentano con il deperimento del lubrificante, concorrono  a minare la regolarità delle alternanze. Non bisogna dimenticare, poi, che per quanto lo scappamento ad ancora svizzero, sia classificato come “libero”, l’impulso avviene tramite il contatto, seppur breve, con la forchetta dell‘ancora e dove quest’ultima non rilascia in egual misura la spinta, o di forza o di errato punto di repère, l’isocronismo decade. La spirale riveste anch’essa un importanza notevole: la sua concentricità deve essere impeccabile, poiché la resistenza elastica da vincere per ottenere un ottima oscillazione ne dipende fortemente. La più impercettibile  deformazione, sia di planarità che relativa all’equidistanza delle sue spire, comporta la perdita dell’isocronismo.  Vista la delicatissima natura della spirale, tale danno risulta spesso irreversibile.  Le alterazioni della spirale possono verificarsi anche a fronte dell’alta frequenza delle alternanze, come è accaduto  in tempi relativamente recenti, in cui alcuni scappamenti funzionanti a 28.800 A/h, dove il continuo battere della molla all’interno delle spinette inserite nella racchetta di registro piegava, deformandola, la spirale, alterando non solo l’isocronismo, ma anche la precisione di marcia. Tale inconveniente è stato risolto con un “trattamento termico” della curva terminale in prossimità del pitone. Non bisogna aggiungere all’elenco delle cause di alterazioni dell’isocronismo,  “l’errore posizionale”, dove  la modifica dei valori di oscillazione dovuti al cambiamento di posizione dell’orologio, dipende principalmente dagli effetti della forza di gravità e non da disfunzioni meccaniche del segnatempo. Anzi, tale problema, da sempre combattuto dai costruttori,  viene notevolmente attenuato con geniali soluzioni, portandolo a valori più che accettabili. Ad esempio le virole compensatrici come la “Greiner”. Moderno compasso “Ottocifre”, dove viene collocato il bilanciere: è fatto ruotare  ed attraverso un astina “di fede” se ne accerta la planarità e la centratura. 

Fabrizio Rinversi. Da circa 25 anni, giornalista specializzato in orologeria, ha lavorato per i più importanti magazine nazionali del settore con ruoli di responsabilità. Freelance, oggi è Watch Editor de Il Giornale e Vice Direttore di Revolution Italia

L’Isocronismo, parte seconda. Fabrizio Rinversi il 4 novembre 2020. su timeover.it. Nel precedente incontro tecnico su questo sito avevamo cominciato ad affrontare il tema dell’isocronismo, descrivendo dettagliatamente l’organo di scappamento, il concetto di alternanza del bilanciere, l’erogazione di energia del bariletto, le alterazioni della spirale, l’errore posizionale, cominciando ad accennare alle virole compensatrici. Proprio da qui riprendiamo il discorso…La tipologia di “virola” impiegata nel sistema di scappamento riveste un importanza fondamentale. Questa, infatti,  determina il punto di attacco, inizio polare, della spirale che, come ormai noto, non ha origine nel centro di rotazione del bilanciere, occupato dall’asse, ma è leggermente decentrato rispetto ad esso. Per quanto minimo, questo scarto influisce sensibilmente sull’eguaglianza delle alternanze del bilanciere, andando a comprometterne l’isocronismo dell’oscillazione. L’acuta mente di A.L. Breguet, nei primi del 1800, aveva risolto una simile problematica,  inventando e costruendo il famoso tourbillon, in cui l’intero blocco ruota di scappamento/ancora/bilanciere ruotano all’interno di una struttura, detta gabbia, che a sua volta gira su di un suo asse all’interno l’orologio. Tale soluzione fa sì che la coppia bilanciere/spirale non si trova mai in una posizione statica, poiché il continuo moto circolare dello scappamento su una circonferenza “virtuale”, attenua sensibilmente i ritardi e gli avanzamenti causati dal continuo cambio di posizione a cui è soggetto l’orologio e, ovviamente, contrasta l’effetto della gravità il cui effetto negativo si somma al decentramento della spirale. Peccato che il “giocattolo”, quando è applicato ad una meccanica, sia carica manuale che automatica, produce un prezzo finale decisamente elevato. L’alternativa “più accessibile”, quindi, ricade inevitabilmente sulla riduzione dell’errore di centratura, attraverso la sagoma della virola, che determina l’inizio della spirale: tale disposizione deve risultare la più accurata possibile, chiaramente data un’altissima qualità della molla. 

Virola classica. Giravirola, utensile che permette al riparatore di spostare la posizione del pitone rispetto all’angolo che si forma con l’ellipse. Dettaglio della curvatura “anomala” in una virola classica. Per inserire la spirale è necessario piegare la molla in pratica di 90° e spinarla con una coppiglia, aumentando l’errore di centratura. In origine, la virola, cosiddetta “classica”, ha una forma cilindrica con spessore di alcuni decimi di millimetro, in funzione delle dimensioni della spirale che deve sostenere. Nella circonferenza presenta un’interruzione –  “tacca” – profonda quanto la virola stessa: non è certo casuale, bensì il taglio serve per introdurre il dente di un utensile specifico, il “giravirola”, che permette al riparatore di spostare la posizione del pitone rispetto all’angolo che si forma con l’ellipse. Si tratta di un’operazione, molto delicata, che consente una messa in fase millimetrica nei calibri sprovvisti di porta-pitone mobile. Come si può osservare nel disegno 1, per inserire la spirale è necessario piegare la molla in pratica di 90° e spinarla con una coppiglia, aumentando l’errore di centratura. L’introduzione della virola “Greiner” ha migliorato sensibilmente il problema, soprattutto nella posizione verticale di oscillazione. La forma è triangolare con le estremità arrotondate, e la massa volutamente decentrata le conferisce un ottima equilibratura durante l’azione della spirale. Una scanalatura, all’estremità più stretta, permette di bloccare la spirale, con una pressione calibrata, facendole mantenere la sua curvatura. Questo principio di “non deformazione”, nella parte iniziale, viene ormai utilizzato anche nelle altre tipologie di virola, poiché stabilizza notevolmente l’andamento dello scappamento. Un ulteriore miglioramento lo si è ottenuto con l’introduzione della saldatura attraverso il  laser, dove non c’è apporto di materiale, ma i metalli si fondono tra loro direttamente: in questo modo il peso non aumenta e diminuisce  la superficie di contatto tra molla e virola. Una soluzione del genere, la vediamo nelle virole Nivatronic e Viroflex, dove la planarità ed il centraggio sono migliori e, inoltre, anche l’elasticità aumenta sensibilmente; ovviamente, come sempre, anche la spirale deve essere di ottima fattura e qualità sopraffina. Virola Greiner. La forma è triangolare con le estremità arrotondate, e la massa volutamente decentrata le conferisce un ottima equilibratura durante l’azione della spirale. Una scanalatura, all’estremità più stretta, permette di bloccare la spirale, con una pressione calibrata, facendole mantenere la sua curvatura. In evidenza il decentramento dello spessore della virola Greiner. Virole Nivatronic e Viroflex in cui la saldatura della spirale è avvenuta attraverso il laser. La planarità ed il centraggio sono migliori e, inoltre, anche l’elasticità aumenta sensibilmente.  

La spirale. Nel  corso dello sviluppo tecnico dell’orologio, molto è stato fatto proprio per migliorare sempre di più la qualità della spirale, a cui è affidato il gravoso compito di determinare la precisione di marcia del segnatempo, ottenuta, teoricamente, solamente quando le oscillazioni del bilanciere raggiungono uguali ampiezze nel medesimo tempo. Il materiale è l’elemento fondamentale per la costruzione di una molla che deve esercitare l’azione di richiamo del bilanciere; deve corrispondere a caratteristiche ben precise e di altissimo livello: 

Omogeneità degli elementi chimici; 

Debole attrito interno delle molecole che costituiscono la lamina; 

Resistenza alla corrosione;

A-magnetismo; 

Elasticità della lega;

Coefficiente termico leggermente positivo per compensare i ritardi dovuti alle deformazioni del volantino.

Nel 1500 si realizzavano degli orologi da tasca con scappamento a “Foliot”, dove il ritorno della barra, durante l’oscillazione, era affidato ad una setola di maiale, le cui caratteristiche di elasticità, costante e regolare,  costituivano un ottimo standard per l’epoca: ne rimane traccia nel termine inglese per indicare la spirale, ossia hairspring, letteralmente, setola/molla. Molto è stato fatto ed i successi ottenuti con materiali sempre più performanti si sono susseguiti. La scoperta dell’Invar, da parte di Eduard Guillaume e, in seguito, dell’Elinvar (elasticità-invariabile), gli valse il Nobel per la Fisica nel 1920. La lega è formata principalmente da ferro, e per il 36% da nickel, assicurando una deformazione termoplastica, alle normali temperature atmosferiche (-10°/+30°),  praticamente prossima allo zero. Un ulteriore progresso  è avvenuto con il Nivarox, in cui l’aggiunta del berillio ha reso ancora più stabile la  lega rispetto alle alterazioni del coefficiente elastico: Eduard Straumann creò questo materiale negli anni ’30, migliorandolo successivamente  con il Nivaflex, il cui 45% è costituito da cobalto. Non mancano casi particolari come la spirale Spiromax,  progettata e realizzata dalla Patek Philippe, ricavata da una “cialda” di silicio monocristallo, dove virola e spirale si fondono insieme in una struttura centrale unica, ed anche il pitone viene ricavato direttamente dalla medesima sagoma, alla fine di un ispessimento della curva terminale, producendo così il medesimo effetto di una spirale Breguet, pur rimanendo perfettamente in piano. Negli anni 2000, la Rolex sviluppa il progetto Parachrom, lega avente sigla  Nb-Zr, composta da niobio e zirconio, in cui il primo elemento conferisce al metallo la caratteristica colorazione blu. Spirale Spiromax, brevettata da Patek Philippe, ricavata da una “cialda” di silicio monocristallo dove virola e spirale si fondono insieme in una struttura centrale unica, ed anche il pitone viene ricavato direttamente dalla medesima sagoma. Spirale Parachrom, brevettata da Rolex. Ha fatto il suo esordio nel 2000, lega esclusiva di niobio, zirconio ed ossigeno. Il processo di modifica della superficie della spirale, messo a punto nel 2005, ne ha a migliorato la stabilità, conferendogli, nel contempo, il caratteristico colore blu. Risulta praticamente impossibile produrre spirali identiche: la loro forza è misurata, dopo la costruzione, e catalogata in circa 60 categorie. Analogamente, questo avviene anche per i volantini che vengono scelti in relazione al momento di inerzia, ottenuto nella loro realizzazione, ed accoppiati con la molla di miglior efficienza, tenendo conto dei margini di tolleranza previsti dal progetto. Per realizzare una spirale, una volta ottenuta la composizione desiderata, si parte da uno sbozzo, avente un diametro di circa 20 centimetri e un peso di 80 chilogrammi. Con appositi macchinari si comincia a ricavare un filamento dello spessore inferiore a quello di un capello, ovvero, 0,075 mm. Il filo così ottenuto passa alla lavorazione più delicata, la trasformazione della sezione tonda in lamina, dove la compressione deve essere assolutamente omogenea per non creare spessori differenti , alterando irrimediabilmente il lavoro della molla. 

Fabrizio Rinversi. Da circa 25 anni, giornalista specializzato in orologeria, ha lavorato per i più importanti magazine nazionali del settore con ruoli di responsabilità. Freelance, oggi è Watch Editor de Il Giornale e Vice Direttore di Revolution Italia.

·        Giaccio Bollente.

Mariella Bussolati per "it.businessinsider.com" il 14 agosto 2020. E’ istintivo, ma ce lo hanno anche detto più di una volta: se devi fare i cubetti di ghiaccio, prendi l’acqua più fredda che hai, perché altrimenti ci mette troppo tempo. In realtà Aristotele,  2.300 anni fa, aveva osservato che per raffreddare più velocemente l’acqua, bisognava metterla al sole. Grazie alla scienza scopriamo adesso che il filosofo greco aveva ragione: un gruppo di ricercatori dell’Università della British Columbia, Canada, hanno pubblicato su Nature uno studio sul raffreddamento esponenziale dei colloidi, come l’acqua del rubinetto che contiene varie particelle, dimostrando che per avere il ghiaccio in poco tempo, per il cocktail che si sta preparando per esempio, è meglio usare acqua bollente. Il fenomeno era già stato notato negli anni Sessanta e gli era stato dato il nome di effetto Mpemba, dal nome dello studente tanzaniano che lo aveva scoperto nel corso di una classe di cucina, facendo il gelato. Finora però non c’era consenso e non si era scoperta la ragione. Qualcuno aveva supposto che ciò fosse dovuto al contenitore che conduceva meglio la temperatura, altri pensavano che l’acqua calda evaporasse e poiché questo processo è endotermico, ovvero assorbe calore, il processo fosse più veloce. E ancora c’era chi pensava fosse tutto dovuto ai legami idrogeno che uniscono le molecole dell’acqua, i quali col calore si allentano, facendo in modo che i legami covalenti tra idrogeno e ossigeno si rinforzino e rilascino energia. L’effetto appare solo quando il raffreddamento è veloce, in pratica mettendo i cubetti nel freezer con accesa la funzione che accelera il congelamento. E solo ora è stato definitivamente dimostrato. L’acqua è molto particolare: diventa più densa man mano che raffredda, ma giunge a un massimo intorno ai 4 gradi, per poi tornare meno densa quando congela, che poi è il motivo per cui galleggia sui liquidi. Inoltre quando da calda viene raffreddata improvvisamente, non rimane in equilibrio termico, ma ha parti che si trovano a diverse temperature. Proprio questa la ragione per cui può congelare più velocemente. In questa situazione la transizione di fase, ovvero il passaggio da uno stato all’altro, avviene infatti più facilmente. Secondo gli studiosi questo potrebbe accadere non solo con l’acqua ma anche con altri liquidi. E potrebbe essere molto diffuso in natura.

·        La Sfida della Scopa.

LA SFIDA DELLA SCOPA. Andrea Cuomo per ilgiornale.it. A «spazzare» via ogni dubbio ci ha dovuto pensare niente meno che la Nasa, istituzione che ricordavamo autorevole, ma che nel giro di mezzo secolo è passata evidentemente dalla missione Apollo, alla missione «a pollo!». Essendo ovviamente i non acutissimi pennuti coloro che hanno davvero creduto alla bufala delle scope che stanno in piedi una volta l'anno. Si chiama #BroomstickChallenge ed è l'ultima scempiaggine globale social. Si tratta di una sfida a fotografare scope che restano in piedi e a postare le immagini con commenti increduli o entusiastici.  Il presupposto scientifico sarebbe che un giorno all'anno questi umili oggetti, che in realtà vantano un loro retroterra esoterico essendo utilizzate come mezzo di trasporto dalla Befana e da Harry Potter, siano dotati della capacità di restare in piedi come per magia. Chi ha deciso di sbeffeggiare la Rete con questa trovata si è anche inventato una forma di autorevolezza: un post della Nasa che avrebbe indicato la data del prodigio, il 10 febbraio 2020. Gli scienziati dell'agenzia governativa avrebbero anche sostenuto che il motivo è un allineamento dei pianeti che si verifica ogni 3500 anni e che ha influenza sulla legge di gravità. Ce n'era abbastanza per annusare la puzza della sòla. E invece la sfida è diventata virale quasi come il Covid-19. Molte persone hanno preso la loro fedele dispensatrice di pulizia domestica e hanno provato a farla stare in piedi. Riuscendoci! La bufala così ha preso piede e su Facebook, su Twitter, sui gruppi Whatsapp tutti hanno deciso di documentare il prodigio. Nel frattempo peraltro il 10 febbraio era passato da un pezzo ma questa trascurabile circostanza non ha insospettito nessuno. Ci mancavano gli scopapiedisti, nome che peraltro si presta a numerosi e salaci equivoci. Tutti noi abbiamo finito per ricevere dall'amico più suggestionabile una foto o un video con una Vileda rossa sull'attenti. Essendo noi in quarantena, e quindi pieni di tempo inservibile, ci siamo applicati a nostra volta nel cimento. In questo momento la nostra scopa troneggia al centro del salotto come un soldatino e ci guarda con l'aria di chi vorrebbe altrettanta attenzione quando polvere e molliche si depositano sul parquet. Anche le scope, nel loro piccolo, hanno le loro frustrazioni da casalinghe disperate. Poi, ieri, dopo che da sedici giorni era il 10 febbraio, nemmeno fosse il giorno della marmotta di quel film con Bill Murray, ci ha pensato la stessa Nasa a chiarire la faccenda. Spiegando che le scope restano in piedi ogni giorno se solo si ha la pazienza di trovare la posizione giusta. Il fatto è che hanno un baricentro molto basso e che quindi le setole rivestono grande importanza nel loro equilibrio. Se si riesce a ad appoggiarle a terra a mo' di treppiede il gioco e fatto e la scopa resterà in piedi a lungo. La nostra è là da stamattina e nemmeno lo spostamento d'aria provocato dal nostro continuo passarle accanto l'ha fatta cadere. Per toglierci l'ultimo dubbio i signori della Nasa hanno deciso di rinviare di un quarto d'ora la prossima missione spaziale per realizzare un video che dimostra l'arcano. Nel filmato si vedono un'astronauta seduta su una poltrona e uno scienziato in gilet - entrambi assai poco cinematografici - porre in atto l'esperimento e riuscirci in pochi secondi. «È fisica» commenta serafico lui. Naturalmente per ogni credulone social c'è almeno uno spiritosone. Così il #BroomstickChallenge è palestra per lazzi di ogni genere in rete, anche perché nessuna occasione di distrarsi dall'ansia da contagio deve andar sprecata. Molti quelli che non sanno resistere all'ambiguità della parola scopa e si lanciano in doppi sensi dei quali perfino Alvaro Vitali si sarebbe vergognato. Altri invece restano sul pubblicabile. «Appena inizia anche a fare le pulizie da sola avvertitemi» chiede uno. E un altro: «La Nasa dopo il #BroomistickChallenge lancia lo #useYourBrainChallenge». Quando si dice: bufale che non stanno in piedi. 

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Mente sana in Corpo sano.

Il segreto della palestra di Platone: così ci insegna a lottare. Per il filosofo greco anima e corpo erano legate. Per questo chiedeva che venissero allenate entrambe. In uno slancio ascetico. Matteo Carnieletto, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. I corpi si contorcono sotto il caldo sole di Grecia. Un giovane cade, atterrato da un colpo tremendo, e la sabbia - finissima - gli resta incollata addosso. Il ragazzo si rialza, barcollando un po'. Alza lo sguardo e pianta i piedi a terra. Ruota il proprio corpo e sferra un pugno micidiale. Il suo avversario crolla. Immobile. Poco distante, sotto un colonnato, un uomo guarda soddisfatto quei ragazzi allenarsi. E' Platone, il fondatore dell'Accademia. E' stato lui, qualche anno prima, a coniare il termine philosophia (amore per il sapere), dando così un nome a coloro che, mossi da un desiderio ardente, cercavano di comprendere prima il mondo e poi l'uomo. Per forgiare questo termine, Platone parte da philoponia (l'amore per la fatica), un concetto che aveva imparato e messo in pratica grazie al suo maestro di lotta. L'Accademia di Platone era questo: un luogo in cui chiunque lo volesse poteva migliorare se stesso. Nell'anima e nel corpo. L'amore per il sapere era mosso (e forse lo dovrebbe essere ancora) dal desiderio di essere sempre migliori. In poche parole, era una questione di ascesi, come spiega Simone Regazzoni in La palestra di Platone. Filosofia come allenamento (Ponte alle Grazie): "La filosofia come askesis, cura e allenamento integrale di sé, come trasformazione della vita (...). Askesis (da cui deriverà il termine "ascesi") significa, in greco antico, 'allenamento', in particolare fisico, 'esercizio ginnico' e anche, con riferimento a una forma di vita, 'vita dei lottatori'". I filosofi non sono persone che se ne stanno sedute a ragionare dei massimi sistemi, ma coloro che sono disposti a sacrificare se stessi per scoprirsi. A provare fatica, sofferenza e dolore, certi che tutto questo darà frutto. Sono loro a porsi una legge e a sottomettersi ad essa per un bene più grande. Come scrive Ortega y Gasset ne La ribellione delle masse: "Sono gli uomini selezionati, i nobili, gli unici attivi, e non solo reattivi, per i quali vivere è una perpetua tensione, un'incessante disciplina. Disciplina - askesis. Sono gli asceti". Il filosofo, ma potremmo anche dire l'uomo che vuol migliorare se stesso, si pone davanti alla vita come un soldato davanti a una battaglia o, se preferite, come un pugile sul ring. Gli stessi dialoghi scritti da Platone sono una forma di lotta. Aristocle (questo il vero nome del filosofo greco) vuole sconfiggere i suoi rivali e lo fa con la dialettica. I suoi Dialoghi sono pugni sferrati. La sua vita un'eterna lotta. Come lui anche Marco Aurelio, l'imperatore filosofo, che, nei Pensieri, scrive: "Vivere è un'arte che assomiglia più alla lotta che alla danza, perché bisogna sempre tenersi pronti e saldi contro i colpi che ci arrivano imprevisti". Come nota H. L. Reid, "il Ginnasio platonico era pensato per allenare anime belle in forti corpi atletici". Lì, le anime e i corpi potevano sfinirsi e ascendere: "Sfinir-si significa fare esperienza della fine come superamento di sé, trasformazione del limite in un passaggio ad altro da sé", scrive Regazzoni. Ogni prova rappresentava una sfida, della mente e del corpo. L'asticella si alzava ogni giorno di più. Perché, forse, è proprio questa l'essenza della filosofia: essere oggi migliore di ieri. Un po' come in Rocky: "Qui c'è ciò che conta:" - scrive Regazzoni - "scoprire il limite, incontrare la paura, sentire lo sforzo fino a cedere, e continuare a mettere un piede davanti all'altro. Lavorare da sé, su di sé, per elevare se stessi ed essere, così degni di ciò che accade". In Platone, Sparta e Atene si fondono. I filosofi diventano guerrieri. Le loro anime sono templi, i loro corpi mura altissime. Sono questi i segreti dell'Accademia di Platone. Chiusa agli ignavi, aperta a chiunque voglia migliorarsi.

·        Il Cervello che invecchia.

Da "tgcom24.mediaset.it" il 5 ottobre 2020. Pompei ed Ercolano non smettono di essere fonti di straordinarie scoperte, a duemila anni dall'eruzione del Vesuvio che le distrusse, consegnandole alla storia. Questa volta non in campo archeologico ma medico: un team multidisciplinare di studiosi italiani ha scoperto - nel cervello di una vittima di Ercolano - neuroni perfettamente conservati grazie alla vetrificazione del tessuto nervoso, causata dal rapido raffreddamento della cenere dopo l'eruzione del vulcano. Risoluzione inedita - Come spiega Pier Paolo Petrone, coordinatore del team di ricercatori, "ciò che è estremamente raro è la preservazione integrale di strutture neuronali di un sistema nervoso centrale di 2000 anni fa, nel nostro caso a una risoluzione senza precedenti", resa possibile dalle tecniche di microscopia elettronica di ultima generazione del Dipartimento di Scienze dell'Università di Roma Tre. Sviluppi interessanti - La scoperta apre nuove possibilità di studio sulla celebre eruzione: capire per quanto tempo le due città partenopee restarono esposte alle alte temperature e quando iniziò la fase di raffreddamento. Informazioni con ricadute importanti per il presente e soprattutto per il futuro, visto che riguardano il rischio vulcanico, sempre presente e la gestione delle emergenze nell'area vesuviana. 

Bloccare l’invecchiamento del cervello? Forse si può…L'Arno-il Giornale l'8 ottobre 2020. Il tempo di reazione a uno stimolo è più veloce nei bambini e adolescenti e, mano a mano che si va avanti con l’età, aumenta sensibilmente. Questa normalissima dilatazione dei tempi è determinata dal cervello che diventa, per così dire, più lento e macchinoso, quasi fosse un vecchio pc che fatica a elaborare i dati dei nuovi programmi. Ora grazie a un gruppo di ricercatori del Laboratorio Bio@Sns della Scuola Normale di Pisa e del Dipartimento Neurofarba dell’Università di Firenze potrebbero aprirsi nuove frontiere in grado, forse, di rallentare o bloccare questo invecchiamento. Lo studio che individua come responsabile della perdita di plasticità del cervello una molecola di microRNA (miR-29). Se si blocca/inibisce la presenza di questa molecola nel soggetto adulto il cervello torna a mostrare la plasticità del giovane. Questa molecola, che può essere descritta a forma a forcina, si trova nelle cellule dei tessuti come cervello, cuore, muscolo, vasi, non solo nell’uomo ma anche in diversi animali, come ad esempio i topi e i pesci. Nel cervello dell’uomo, o meglio nella corteccia cerebrale, quando il bambino diventa adulto la concentrazione di miR-29 aumenta di 30 volte. Non c’è un’altra molecola, nella corteccia cerebrale, che presenti un incremento così elevato. “I nostri dati ci hanno suggerito che miR-29 controlla  la maturazione della corteccia cerebrale – spiega il professor Tommaso Pizzorusso (Università di Firenze) -. Inibendone l’azione abbiamo effettivamente verificato un aumento della plasticità neurale”. A questo il professor Alessandro Cellerino (Normale di Pisa) aggiunge che “una analisi molecolare approfondita condotta in collaborazione con l’Università della California a Irvine e con l’Istituto Leibniz di Jena per gli studi sull’invecchiamento ha dimostrato come i meccanismi di questa plasticità indotta siano identici a quelli che si osservano durante il periodo adolescenziale”. In altre parole riuscire a “comprendere i meccanismi che inducono la comparsa di questi freni molecolari potrebbe avere molteplici implicazioni: facilitando, ad esempio, il recupero delle funzioni cerebrali dopo traumi”. Per cercare di dimostrare la correttezza dell’ipotesi formulata i ricercatori hanno trattato dei topi adulti con una molecola che agisce da inibitore del miR-29. Lo studio vede come responsabile sperimentale la dottoressa Debora Napoli, perfezionanda in Neuroscienze della Scuola Normale Superiore, coaudiuvata dai perfezionandi Leonardo Lupori e Sara Bagnoli. Il team di ricerca, a livello internazionale, è stato coordinato dal professor Tommaso Pizzorusso del dipartimento Neurofarba dell’Università di Firenze e dal professor Alessandro Cellerino del Laboratorio di Biologia Bio@Sns della Scuola Normale di Pisa. La ricerca ha coinvolto anche il Dipartimento di Ricerca Traslazionale dell’Università di Pisa, l’Istituto di Neuroscienze del CNR e l’Università di Leeds, ed è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista EMBO Reports.

Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 29 aprile 2020. Le donne si beino di una consapevolezza che dà loro una marcia in più rispetto agli uomini: il loro cervello invecchia più tardi. A stabilirlo è uno studio condotto dall' Università di Washington e pubblicato sulla rivista dell' Accademia Nazionale della Scienza degli Stati Uniti. I ricercatori dell' ateneo, mossi dall' intenzione di trovare una risposta al perché gli uomini siano più esposti delle donne all' insorgenza di malattie neurodegenerative, hanno svolto accurati esami sul cervello di 205 volontari di entrambi i sessi (di cui 121 donne e 84 uomini di età compresa tra i 20 e gli 82 anni), giungendo ad una conclusione che ha dello strabiliante e che ha suscitato un ampio dibattito: l' encefalo femminile è in media 3,8 anni più giovane di quello maschile. Questo vantaggio non si renderebbe evidente solo in età avanzata, bensì dalla giovinezza; precisamente a partire dai 20 anni, e pare altresì motivare il divario di energia e brio tra fanciulle e ragazzi, soprattutto in quelle coppie in cui, a manifestare più dinamismo ed esuberanza, è sempre lei.

LA VITALITÀ. Quella vitalità prorompente non sarebbe un fortuito caso, bensì una vera e propria dote di natura che fa della donna una creatura ancora più irresistibile. Volete un esempio pratico? La vulcanicità di Sandra Mondaini è ancora leggenda. La chiave di cotanta resilienza risiederebbe nel metabolismo degli zuccheri: con il trascorrere degli anni, la capacità dell' encefalo di bruciarli diminuirebbe, ma questo avviene molto più lentamente nel gentil sesso, a beneficio di una presenza di spirito e lucidità conservate anche ad età improbabili.

L' INVECCHIAMENTO. Il Prof. Manu Goyal, coordinatore della ricerca, spiega: «Stiamo iniziando a capire come diversi fattori legati al sesso influenzino l' invecchiamento del cervello e la vulnerabilità alle malattie neurodegenerative. Analizzare il metabolismo del cervello potrebbe aiutarci a capire alcune delle differenze che appaiono tra uomini e donne quando si invecchia. Non è il cervello degli uomini a invecchiare più velocemente: in realtà gli uomini raggiungono l' età adulta circa tre anni dopo le donne e questa differenza persiste nel corso della vita. Non sappiamo ancora il significato di questa scoperta, ma penso che sia il motivo per cui le donne sono meno suscettibili al declino cognitivo in età avanzata: il loro cervello è effettivamente più giovane».

UOMINI RASSEGNATI. Donzelle, se quanto esposto non bastasse a compiacervi, vi sottoponiamo un' altra ricerca che, con buona pace degli uomini più supponenti, testimonia un altro punto a favore del vostro cervello: oltre ad essere ben equipaggiato contro l' invecchiamento, esso è anche più attivo. L' intuizione spetta al team della Amen Clinics di Newport (in California) che, attraverso uno studio (svolto su 119 volontari sani ed oltre ventiseimila persone con disturbi psichiatrici) pubblicato sul Journal of Alzheimer' s Disease, ha reso noto di come, nell' encefalo femminile, vi sia un maggiore afflusso di sangue di quanto ve ne sia in quello maschile. Risultato: le fanciulle appaiono meno predisposte a disagi quali deficit d' attenzione e disturbi comportamentali, ma più esposte al rischio di disturbi alimentari, ansia, depressione e di disturbi cerebrali quali Alzheimer. Inoltre, un' attività encefalica che si concentra soprattutto nella corteccia prefrontale e nel sistema limbico, fa della donna una creatura magnificamente predisposta all' empatia, all' autocontrollo e all' intuizione. Benché tutto ciò fosse già noto ai più, oggi gode perfino di una importante conferma scientifica: la donna, per sua natura, una buona parte delle conquiste l' ha già fatta alla nascita.

·        Il Toccasana del Cervello.

Ecco perché una stella che pulsa parla la lingua del tuo cervello. Le risposte a voi lettori dopo l'articolo sul Paziente Epilettico Virtuale: così la "teoria delle biforcazioni" è usata per descrivere moltissimi fenomeni. Tommaso De Lorenzo e Marisa Saggio, Domenica 16/02/2020 su Il Giornale. Per semplificare potremmo dire che l'Universo può parlare lo stesso linguaggio di un cervello. O meglio, che alcune domande sul cosmo e sull'organo più misterioso del corpo umano possono essere affrontate in maniera molto simile. C'è un motivo se Spazio Curvo la scorsa settimana si è dedicata non alle particelle, ai buchi neri o alla velocità della luce, ma a come la fisica influisca su uno degli aspetti più dolorosi della vita dell’uomo: la malattia. E per quanto qualcuno di voi abbia sostenuto il nostro essere andati "fuori tema", proviamo a spiegarvi perché non è così. Intanto bisogna sfatare un "mito": la fisica non si occupa solo di Universo e particelle. Certo, sono argomenti fondamentali. Forse quelli che più facilmente affascinano: la curvatura dello spazio tempo, l'espansione del cosmo, l'infinito, il bosone di Higgs. Ma in realtà la fisica studia tutti i fenomeni naturali quantificabili e misurabili. E lo fa producendo, con il linguaggio della matematica, dei modelli che tengono conto dei dati sperimentali e che possono essere usati per fare nuove previsioni. Questo è il cuore e lo scopo ultimo della fisica. Quali siano questi fenomeni quantificabili e misurabili, e che quindi possono essere oggetto di studio della fisica, dipende molto dalle conoscenze e delle tecnologie disponibili in grado di fornirci dati. Prima dell'invenzione del cannocchiale, le galassie non erano studio della fisica perché non eravamo in grado di vederle. Negli ultimi decenni, l'impennata dello sviluppo tecnologico ha trascinato molti nuovi affascinanti fenomeni nel campo applicabile della fisica: oggi gli istituti di fisica teorica, per esempio, si occupano di epidemiologia, meteorologia, neuroscienze teoriche e via dicendo. Tra questi, come vi abbiamo raccontato sette giorni fa (leggi qui l'articolo), c’è l'Epilessia. In questo campo, la possibilità di tralasciare la parte cognitiva e concentrarsi sulla propagazione del segnale elettrico nel cervello a larga scala rende la modellizzazione dell'epilessia perfetta per l'applicazione dei metodi della fisica. Tanto che ha portato al primo strumento al mondo sotto trial clinico per le neuroscienze teoriche: il paziente epilettico virtuale. Come detto nell’articolo, il modello matematico utilizzato per simulare l’evoluzione delle crisi si basa sulla cosiddetta "teoria delle biforcazioni". La stessa teoria matematica è usata per descrivere moltissimi fenomeni, tra cui la fluidodinamica dei plasmi, lo stato della materia di cui sono fatte, per esempio, le stelle! In generale, le biforcazioni si usano per descrivere cambi repentini nel comportamento qualitativo di un sistema che avvengono per piccolissime variazioni delle condizioni esterne. Questo avviene perché il sistema si trova vicino ad un'instabilità: è come quando il ghiaccio si scioglie a zero gradi diventando acqua e rimane nel nuovo stato anche se si aumenta la temperatura di quasi cento gradi, per poi, per una piccolissima variazione di temperatura, cambiare di nuovo stato e diventare gassoso (cioè vapore). Allo stesso modo, fenomeni diversi come una corda che si spezza sotto un carico eccessivo, il diffondersi di una malattia che all'improvviso diventa un'epidemia, o l'insorgere di oscillazioni in un sistema che prima era in 'quiete' (come quando una stella inizia a pulsare o una crisi epilettica si scatena), possono essere tutti descritti con il linguaggio della teoria delle biforcazioni.

A cosa si può applicare il Paziente Virtuale? Il Paziente Epilettico Virtuale (leggi qui per tutti i dettagli) è l'applicazione sofisticata di un progetto più generale chiamato Il Cervello Virtuale (The Virtual Brain), fondato da Jirsa in collaborazione con Randy McIntosh dell'Università di Toronto. I ricercatori stanno testando la possibilità di applicare questo approccio ad altri disturbi del cervello, come l'ictus, il tumore e l'Alzheimer, e sono già apparsi numerosi articoli su riviste scientifiche.

Perché non è stato testato sugli animali? Per provare i benefici di questo strumento non è stato necessario testare il Paziente Epilettico Virtuale sugli animali. Questo perché i ricercatori hanno avuto la possibilità di testare il metodo in maniera retrospettiva su un gran numero di pazienti operati per i quali erano disponibili i dati necessari (anatomici, morfologici, funzionali, clinici…) sia precedenti che posteriori all'intervento. In pratica, sono stati usati i dati precedenti all'operazione per costruire l'avatar del cervello del paziente e predire la strategia chirurgica migliore. È stata poi paragonata la strategia proposta dal cervello virtuale con la resezione realmente effettuata dai medici. Si è visto che un buon accordo tra le due era legato a buoni risultati postoperatori, in termine di eliminazione o riduzione delle crisi. Al contrario, forti discrepanze erano legate al fallimento dell'intervento. Per quanto riguarda i rischi, nessun paziente verrà operato sulla base esclusiva dei risultati del Paziente Epilettivo Virtuale che, invece, saranno a disposizione dell’equipe medica come ulteriore elemento nella valutazione del paziente. In particolare, risultati delle simulazioni in disaccordo con la strategia pensata dai medici serviranno come campanello di allarme per rivalutare il paziente ed effettuare ulteriori indagini pre-operatorie.

La 18enne che ha metà cervello (ma l’efficienza  è sopra la media). Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it da Anna Meldolesi. Strano ma vero: si può vivere bene anche con mezzo cervello. Anzi, si possono avere prestazioni cognitive superiori alla media. È il caso della paziente C1, una ragazza di 18 anni che, pur essendo nata senza l’emisfero sinistro, ha un quoziente intellettivo medio-alto e progetta di iscriversi all’università. La notizia diffusa da New Scientist ha fatto sobbalzare i lettori, ma per gli specialisti suona come una conferma. Il cervello ha il dono della plasticità e, se una parte viene a mancare, si riorganizza per svolgere i suoi compiti nel miglior modo possibile. «Non è una macchina a elementi fissi, che senza pezzi di ricambio smette di funzionare. È un set dinamico di reti neurali», commenta Salvatore Maria Aglioti dell’IIT di Genova e della Fondazione Santa Lucia di Roma. L’Università di Chicago ha seguito la paziente sin da piccola, confrontandola con coetanei sani e colpiti da ictus. I test indicano che il suo cervello si è adattato per compensare il deficit dovuto a una condizione molto rara detta emiidranencefalia. L’unico emisfero presente, insomma, si è fatto carico delle funzioni di quello mancante. Quando ascolta delle storie la sua attività cerebrale è simile a quella dell’emisfero sinistro dei ragazzi col cervello intatto. I pochissimi casi noti simili al suo non sono tutti così fortunati. Forse la paziente C1 deve dire grazie alla famiglia, che l’ha aiutata a sviluppare il proprio potenziale e le ha trasmesso una buona costellazione di geni per l’intelligenza. Il suo caso appare meno eccezionale se si pensa a quanti hanno dovuto rinunciare a mezzo cervello in sala chirurgica, per motivi medici. Grazie a loro sapevamo già che la rimozione di un emisfero non cambia la personalità dei pazienti e il recupero è migliore da giovani.

Dagospia il 9 febbraio 2020. Estratto del libro “Come cambiare la tua mente” di Michael Pollan pubblicato dal “Fatto quotidiano”. Albert Hofmann fu il chimico svizzero che nel 1943 si accorse fortuitamente d' aver scoperto (cinque anni prima) la molecola psicoattiva divenuta poi nota come lsd. () "La sola e unica gioiosa invenzione del XX secolo", come il suo amico Walter Vogt, poeta e medico svizzero, la definì. () Quando era un giovane chimico, Hofmann lavorava in un dipartimento dei laboratori della Sandoz che, per scoprire nuovi farmaci, isolava composti dalle piante medicinali: in particolare, aveva il compito di sintetizzare, una per una, le molecole contenute negli alcaloidi prodotti dall'ergot, un fungo che può infettare i cereali causando a volte, in chi consuma il pane che se ne ottiene, qualcosa di simile alla follia o alla possessione. () D'altra parte, le levatrici usavano da tempo questo fungo per indurre il travaglio e per fermare le emorragie post-partum, perciò la Sandoz sperava di isolare dagli alcaloidi dell'ergot un farmaco commerciabile. Nell'autunno del 1938 Hofmann sintetizzò la 25ª molecola della serie, denominandola "dietilamide dell'acido lisergico", o - più brevemente - lsd-25. I test preliminari effettuati somministrando il composto agli animali non ebbero esito promettente (gli animali diventavano irrequieti, ma nulla più) e quindi la formula fu accantonata. Così per cinque anni, fino a un giorno dell'aprile del 1943. () Quando Hofmann sintetizzò l'lsd-25 per la seconda volta, chissà come doveva averne assorbita un po' attraverso la pelle, e fu "costretto a interrompersi a causa di insolite sensazioni". Andò a casa, si sdraiò su un divano e "in una condizione simile al sogno, a occhi chiusi riuscivo a scorgere un flusso ininterrotto di forme straordinarie che rivelavano intensi giochi caleidoscopici di colore". E così, nella Svizzera neutrale, durante i giorni più bui della seconda guerra mondiale, ebbe luogo il primo trip di sempre con l' lsd: fu anche l' unico mai intrapreso in totale assenza di aspettative. Affascinato, qualche giorno dopo Hofmann decise di condurre un esperimento su se stesso. Procedendo con quella che pensava essere massima cautela, ingerì 0,25 mg (un mg è un millesimo di grammo) di lsd disciolta in acqua. Per qualsiasi altra sostanza, sarebbe stata una dose minima, ma - come emerse poi - l'lsd è uno dei composti psicoattivi più potenti mai scoperti. () Mentre Hofmann precipita in quella che crede essere sicuramente follia irreversibile, ha luogo il primo bad trip da acido della storia. Dice quindi al suo assistente che deve tornare a casa, e giacché in tempo di guerra l'uso delle automobili è limitato, in qualche modo pedala fino a casa in bicicletta e si stende su un divano, mentre l'assistente chiama il medico (). Hofmann racconta che "gli oggetti familiari e i mobili presero forme grottesche e sinistre. () Un demone mi aveva sopraffatto, aveva preso possesso del mio corpo, dei miei pensieri, della mia anima". Si convinse di essere sul punto di impazzire definitivamente, o forse addirittura di stare morendo. "Il mio io era sospeso da qualche parte nello spazio e vedevo il mio corpo giacere morto sul divano". Quando arrivò e lo visitò, il medico trovò tutti i segni vitali - polso, pressione del sangue e respiro - perfettamente normali. L'unica indicazione di qualcosa fuori posto erano le pupille, estremamente dilatate. Una volta esauritisi gli effetti acuti, Hofmann provò la "sensazione di benessere" che spesso fa seguito a un' esperienza psichedelica, l' esatto opposto dei postumi d' una sbornia alcolica. () La sua esperienza di oggetti familiari che prendono vita e di un mondo che pare "creato di recente" - lo stesso momento d'estasi adamica che Aldous Huxley avrebbe descritto una decina d' anni dopo in Le porte della percezione - sarebbe diventata un luogo comune dell' esperienza psichedelica. Fece ritorno dal suo trip , Hofmann, convinto in primo luogo che fosse stata l' lsd a scoprire lui e non viceversa; e, in secondo luogo, che un giorno quella sostanza si sarebbe rivelata preziosa per la medicina e soprattutto per la psichiatria, forse offrendo ai ricercatori un modello della schizofrenia. Non gli venne mai in mente che il suo "bambino difficile", come avrebbe poi finito per considerare l' lsd, sarebbe divenuto anche una "droga per così dire di piacere" e una sostanza d' abuso.

Davide Michelin per “Salute - la Repubblica” il 15 gennaio 2020. Otto orizzontale: passatempo da ombrellone; 11 verticale: fa bene al cervello. Numerosi studi scientifici hanno dimostrato i benefici di cruciverba e sudoku - e in generale dei giochi enigmistici - nel miglioramento a breve termine di alcune abilità cognitive. La cosiddetta ginnastica cerebrale non si limita ad allenare attenzione e concentrazione ma può stimolare anche memoria, capacità verbali e spaziali, ragionamento logico. Insomma, sono un vero e proprio toccasana, per giunta privo di effetti collaterali, tanto più prezioso quanto più passano gli anni. L' idea è che il nostro cervello è un muscolo come gli altri. «E come gli altri può essere allenato e potenziato - ragiona Simone Migliore, neuropsicologo - sia con programmi di training cognitivo con personale specializzato, sia con attività quotidiane. Come imparare a suonare uno strumento musicale, studiare una lingua straniera, allacciare le scarpe o abbottonarsi la camicia a occhi chiusi, pettinarsi o lavarsi i denti con la mano non dominante. Tutte attività che stimolano le nostre cellule cerebrali». Negli ultimi anni, addirittura alcuni atenei - ma anche comuni e associazioni - hanno iniziato a proporre corsi dedicati, strutturati in attività pratiche, che puntano a migliorare una o più funzioni cognitive dell' anziano. «Esistono percorsi adattivi, che lavorano su aspetti specifici come la memoria di lavoro, e altri più generici, spendibili nella vita quotidiana. I benefici si mantengono nel tempo, anche se andrebbero previsti incontri di richiamo», nota Elena Cavallini, ricercatrice del dipartimento di Scienze del sistema nervoso e del comportamento dell' università di Pavia. L' utilità di queste palestre mentali è la stessa di quelle che propongono pilates e aerobica: si viene seguiti da un istruttore qualificato, si socializza, ma soprattutto si è costretti a mantenere quei buoni propositi che nella comodità domestica finiscono sistematicamente per naufragare. Come l'adolescenza, l' ingresso nella terza età è infatti una fase di passaggio e bisogna farsi trovare preparati. Il rifiuto del declino cognitivo o la rassegnazione sono reazioni frequenti che sfociano nello scetticismo nei confronti di strategie e accorgimenti per contrastarlo. «Il primo passo sta nel riconoscere i propri limiti e le proprie capacità, imparando a distinguere l' invecchiamento fisiologico da quello patologico. Scordare un numero di cellulare è normale, smarrire la strada di casa non lo è», sottolinea Cavallini. Mantenere quotidianamente allenato il cervello contrasta l' inevitabile declino cognitivo e permette di rallentare, almeno in parte, l' evoluzione di malattie neurodegenerative. «Non a caso, uno dei principali fattori di protezione contro l' Alzheimer è la scolarità: chi ha una storia scolastica più lunga può contrastare più a lungo l' insorgere della malattia», ricorda Raffaella Rumiati, professoressa di Neuroscienze cognitive alla Sissa di Trieste. Se per il passato c' è poco da fare, per il presente non resta che rimboccarsi le maniche, cercando di mantenere il più a lungo possibile l' efficienza cognitiva. La ricetta per un invecchiamento di successo è complessa, e prevede un gran numero di ingredienti non ancora del tutto compresi. «Gli stili di vita possono migliorare la situazione. Una corretta alimentazione, e soprattutto l' attività fisica, hanno effetti positivi», prosegue Rumiati. Per certi versi, il cervello è come un muscolo: se non lo si usa finisce per atrofizzarsi. E l' esercizio di una certa funzione cognitiva, come la memoria, porta a migliorare le prestazioni. Tuttavia, i benefici di un allenamento di questo tipo su altre funzioni rimangono incerti. Ecco perché si deve variare, alternando per esempio compiti visuo-spaziali e verbali. Ma non solo. «Leggere, scrivere, fare conversazione, andare al teatro o al cinema: tutto contribuisce a tenere allenato il cervello. Purché ci si imponga di sforzare l' attenzione », riprende Cavallini. Uno studio recente coordinato da Drew Altschul, epidemiologo cognitiva all' università di Edimburgo, e pubblicato su Journals of Gerontology, evidenzia come i giochi da tavolo possano proteggere dal declino e perfino aumentare le funzioni cognitive negli anziani. Gli autori hanno monitorato per dieci anni un migliaio di anziani coinvolti, all' età di 11 anni, in una valutazione del quoziente intellettivo. Sebbene il declino cognitivo tra i 70 e i 79 anni abbia interessato tutti, esso è risultato significativamente ridotto, soprattutto in termini di memoria e velocità di esecuzione, nei giocatori assidui di scacchi, bingo e carte. La pratica di giochi diversi è stata associata a un minor declino delle funzioni cognitive complessive. Perfino il divano può trasformarsi in una palestra «se non ci si lascia trasportare passivamente dal film ma ci si concentra sullo sviluppo della trama e si provano ad associare gli scenari ai luoghi delle riprese oppure i personaggi ai nomi degli attori che li interpretano», chiarisce la psicologa. Gioca un ruolo importante anche il tipo di lavoro o le esperienze pregresse. Chi ha svolto professioni letterarie, per esempio, ottiene prestazioni migliori negli esercizi di memoria verbale, gli ingegneri nelle abilità visuo-spaziali (studio su Applied Cognitive Psychology). «I trascorsi personali sono importanti ma non bisogna generalizzare: ogni anziano è una storia a sé ed eventuali interventi di potenziamento cognitivo devono tenere conto di capacità e potenziale individuale - riprende la psicologa. Un po' come avviene nei programmi personalizzati per lo sviluppo della massa muscolare».

·        L’Odio per i Geni.

LUCIA ESPOSITO per Libero Quotidiano il 12 novembre 2020. Se avete la testa tra le nuvole lasciatela lì dov' è, sospesa tra terra e cielo. Se per il vostro pensiero l'unico concentrato possibile è quello di pomodoro, non dovete sentirvi dei perditempo improduttivi. E non distruggete più i vostri castelli in aria perché il saggio La potenza della distrazione di Alessandra Aloisi, (Il Mulino, 146 pp. euro 13) riabilita il bighellonare della mente che una lunga tradizione culturale ha denigrato privilegiando le dimensioni del raccoglimento e della concentrazione. Per i mistici medievali «distractus» era colui che distoglieva il suo pensiero da Dio e, ancora oggi, la psichiatria cura il disordine dell'attenzione. La filosofia occidentale ha spesso associato la distrazione al peccato, alla dispersione o all'improduttività. L'autrice di questo saggio, docente di letteratura francese all'Università di Oxford, attraverso i testi di grandi autori - Montaigne, Pascal, Leopardi, Locke, Bergson e Proust - dimostra che chi è distratto riesce a vedere ciò che sfugge agli altri. Quante volte capita di non ricordare un nome o una data? Stiamo lì ad arrovellarci senza riuscire a recuperare dal cassetto della nostra memoria quello che cerchiamo. Poi ci arrendiamo, pensiamo ad altro, ci distraiamo dal chiodo fisso che picchia in testa ed ecco che quel nome o quella data riaffiorano dalla messe di informazioni che abbiamo accumulato. Questa è una prova tangibile del grande potere della distrazione. Il saggio è un viaggio nella filosofia, nella letteratura ma anche nella storia alla ricerca degli effetti della distrazione sulla nostra mente. Come si legge nel libro VIII delle Confessioni se Agostino non si fosse lasciato distrarre dal canto di un bambino che proveniva da una casa accanto, non avrebbe mai aperto il libro di San Paolo che si trovava di fronte a lui. Pare che Descartes abbia inventato gli assi cartesiani grazie ad una mosca che svolazzava sul soffitto e attirò la sua attenzione distogliendolo dagli studi. Fu guardando l'insetto che gli venne l'idea di descrivere la traiettoria del suo volo prendendo come riferimento gli angoli delle pareti. Secondo Johannes Colerus uno dei passatempi preferiti del filosofo Spinoza era osservare i combattimenti dei ragni e delle mosche; infine, l'autrice ricorda che Archimede ha scoperto come misurare il volume di un solido irregolare - enigma su cui si scervellava da giorni - immergendosi nella vasca da bagno. Può accedere che un problema si risolva spostando l'attenzione su altro, come in una sorta di processo di maturazione delle idee, ma può anche succedere - come nel caso di Archimede - che proprio ciò che ci distrae (un bagno) «ci fornisce l'occasione di imbatterci insperatamente nella soluzione attraverso percorsi che saremmo stati incapaci di concepire razionalmente». Il matematico Poincaré confessò che alcune delle sue intuizioni sono avvenute durante circostanze improbabili: una volta nel momento esatto in cui poggia il piede su un predellino dell'autobus, un'altra durante una passeggiata al mare. Poincaré era convinto che per fare delle buone scoperte la capacità di distrazione è ben più utile dell'attenzione. Più o meno della stessa idea era anche Marcel Proust secondo cui è sempre distrattamente che ci imbattiamo nella realtà, Franz Kafka si spinse anche oltre definendo la vita «una perpetua distrazione». Nonostante molti grandi tra matematici e letterati abbiano indicato la distrazione come una necessità dello spirito oltre che del corpo, attorno ad essa aleggia la condanna morale e sociale non troppo diversa da quella che accompagnava la follia dal Seicento in poi. E ciò accade perché anche i distratti vengono considerati incompatibili con una società dominata dall'imperativo della produttività. Ma questo saggio dimostra come il tempo che sembra perso possa trasformarsi in tempo guadagnato. Ma non fatevi illusioni: scrollare compulsivamente i post di Facebook, sbirciare le foto di Instagram e cinguettare su Twitter non rientra nella distrazione come attività del pensiero. Su questo tema Il Saggiatore ha da pubblicato 8 secondi, viaggio nell'era della distrazione di massa di Lisa Iotti che racconta come con l'iperconnessione ai social la nostra capacità di concentrazione sia pari a otto secondi. Poco più di un soffio. «Più che produrre distrazione queste tecnologie sembrano fornici modi preconfezionati di usare il tempo», scrive Aloisi. I social non lasciano vagare il pensiero, ci impediscono di costruire castelli in aria e di sognare ad occhi aperti perché mettono le briglie alla nostra creatività. Se non siete ancora del tutto convinti del potere della distrazione, ricordatevi che Albert Einstein dimenticava perfino la strada di casa.

Elena Meli per il “Corriere della Sera - Salute” il 3 maggio 2020. A guardarsi intorno di questi tempi viene da pensare che essere intelligenti non sia la qualità principale per fare strada nella vita. Dubbio legittimo, perché perfino alcuni neuroscienziati si sono spinti a ipotizzare che l' intelligenza sia una dote sopravvalutata: uno studio dell' università svizzera di Losanna per esempio ha dimostrato, analizzando quasi quattrocento manager di aziende private europee, che essere molto intelligenti non rende leader migliori né sempre o per forza spiana la strada a carriere folgoranti. Chi infatti ha un quoziente intellettivo (QI) significativamente alto (oltre 120, la media della popolazione è 100) fa più fatica a comandare, secondo i ricercatori perché usa più spesso un linguaggio complesso, non riesce a semplificare le richieste ai suoi dipendenti e «soffre» quando gli altri trovano difficile quel che per lui o lei è banale. Ad aggiungere sospetti sulla reale utilità dell' intelligenza ci si sono poi messe ricerche che hanno stabilito come i cervelloni siano spesso persone più solitarie e con difficoltà relazionali: Satoshi Kanazawa della London School of Economics, per esempio, studiando oltre 15mila persone di 18 ai 28 anni ha dimostrato che le relazioni sociali ci rendono felici, ma solo se abbiamo un' intelligenza nella media. Chi ha un QI elevato non trae lo stesso piacere nell' avere molti amici e anzi, preferisce la solitudine: secondo la «teoria della felicità della savana» messa a punto da Kanazawa gli intelligenti sono più soli perché fin dalla preistoria sono stati un po' degli outsider. «Chi è molto intelligente esce per definizione dalla normalità e la normalità, per i nostri antenati, era sopravvivere grazie all' aiuto degli altri in gruppi-tribù di media grandezza. Il nostro cervello si è adattato a quel tipo di esistenza ed è naturale per noi cercare la compagnia ed essere felici stando con gli amici; non è così per i super-intelligenti, che invece sono sempre stati in grado di risolvere le sfide della vita senza l' aiuto degli altri», dice Kanazawa. «Così per esempio abbiamo osservato che i più intelligenti vivono più spesso in città che nei contesti rurali: i centri urbani sono "innaturali" per l' uomo, che si è evoluto per avere una cerchia di persone attorno pari a circa centocinquanta suoi simili, ma risultano essere luoghi meno ostili per chi ha un' intelligenza sopra la media e si adatta meglio a contesti più difficili». Anders Ericsson, docente di psicologia della Florida State University, confermando la tendenza all' introversione degli intelligentoni ha specificato che questi, oltre a bastarsi da soli, traggono vantaggi dalla solitudine perché non devono perdere tempo con le relazioni e possono così coltivare meglio la loro creatività. Se ancora ci fosse qualche dubbio sul fatto che essere super-intelligenti potrebbe non essere tutto rose e fiori, il recente volume di David Robson The Intelligence Trap (Norton) ci ricorda fin dal titolo che un quoziente intellettivo troppo alto può portarci fuori strada, facendo prendere decisioni sbagliate e poco razionali (per dire, chi ha un QI superiore a 140 svuota più degli altri la carta di credito e crede più spesso al paranormale). La tesi di fondo è che il QI non riesca a misurare tutto quel che serve per diventare saggi o scegliere sempre il meglio e anzi, secondo l' autore a volte essere plusdotati si può rivelare un fardello: Robson spiega per esempio che molti bimbi con un quoziente intellettivo fuori dal comune possono soffrire parecchio nella vita, e talvolta non raggiungere grandi obiettivi o sentirsi falliti, perché gli altri hanno aspettative troppo alte su di loro. Prima di pensare che l' intelligenza sia una maledizione, però, ricordiamoci che in tutti questi studi ci si riferisce a quella misurata con il test del QI, che è nato agli inizi del Novecento e valuta soprattutto l' intelligenza logico-matematica, al più quella verbale. L' intelligenza però non è una sola (si veda anche alle pagine seguenti, ndr ) e noi non siamo computer che elaborano le informazioni: il QI non basta a giudicarla, perché è intelligente chi viene a capo di un problema matematico complicato, ma pure chi in una giungla si ingegna per catturare una preda da mangiare. Allora per capire se e quanto ci sia utile essere intelligenti dovremmo forse tornare all' etimologia di intelligenza, parola che significa letteralmente «leggere dentro»: ovvero, saper comprendere avvenimenti, cose e persone e rispondervi di conseguenza. «Non c' è un' intelligenza sola, buona per tutto. Ognuno di noi può essere intelligente in qualche aspetto», osserva Gioacchino Tedeschi, presidente della Società Italiana di Neurologia e Direttore della I Clinica Neurologica e Neurofisiopatologia dell' università della Campania Luigi Vanvitelli di Napoli. «L' intelligenza infatti è il risultato di processi cognitivi che servono a pianificare e selezionare strategie adeguate, inibire risposte non adatte o che interferiscono con lo scopo, regolare il comportamento e le emozioni, essere cognitivamente flessibili: tutto questo garantisce un migliore adattamento all' ambiente e alla sua imprevedibilità, per cui è difficile dire che essere intelligenti sia d' intralcio perché si potrà essere "scarsi" in intelligenza interpersonale, e allora saremo più solitari, ma forti in un altro ambito. L' efficienza intellettiva quindi può cambiare nelle diverse situazioni e sarà maggiore nella risoluzione dei problemi che richiedono l' impiego delle attitudini intellettive più sviluppate in ciascuno». Lungi quindi dall' essere inutile, l' intelligenza è quel che serve per navigare al meglio nel mondo; semmai la questione è riuscire a definirla e misurarla davvero nel suo complesso. Così oggi i test di intelligenza sono un po' diversi, danno punteggi a vari gruppi di abilità (la fluidità di linguaggio, il pensiero tridimensionale e così via) e un punteggio riassuntivo a partire da quelli parziali; la teoria attuale, come spiega Tedeschi, è che «Il fattore di intelligenza generale, detto "fattore g" (si veda alle pagine successive, ndr ), sia quello che unifichi i disparati obiettivi dei diversi test. Corrisponde al concetto popolare di intelligenza e correla al QI per circa il 90 per cento: per questo viene usato in maniera interscambiabile». Pur con queste migliorie, però, l' intelligenza non si esaurisce in un numero. Perché come diceva un uomo dall' intelligenza al di sopra di ogni sospetto, Albert Einstein, «Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la vita a credersi stupido».

·        L’Idiozia.

Mirko Molteni per “Libero quotidiano” il 17 marzo 2020. Si fa presto a dire "stupido", poiché l' idiozia si presenta sotto infinite forme. Ci può essere l' irragionevole saccheggio dei supermercati a causa della psicosi di turno, cioè il coronavirus oggi, oppure la guerra del Golfo nel 1991. E c' è di molto peggio, come il lancio di sassi da un cavalcavia, imbecillità che conferma quel detto secondo cui «la madre dei cretini è sempre incinta». Nell' era di Internet e dei social network, poi, la demenza ha trovato nuovi canali, perniciosa epidemia che premia con migliaia di contatti o di "like" ciò che è abbastanza terra terra per attirare il maggior numero possibile di persone in una gara all' appiattimento generale verso il basso. Fenomeno che, per certi aspetti, era iniziato, ma solo in parte, con la televisione. Già il buon Giovanni Guareschi, morto nel 1968, aveva fatto in tempo a vedere abbastanza degli albori della tivù per profetizzare che il piccolo schermo rischiava di livellare verso il basso l' intelligenza di tutti, anziché innalzarla. Ciò perché la velocità delle immagini e del parlato soverchia la capacità di riflettere, allenata invece dallo sforzo della lettura. La profezia di Guareschi pare però compiuta più con l' abuso di Internet, su cui chiunque può postare scemenze, che non con la classica televisione, controllata dalla professionalità di registi, artisti e giornalisti. Dice il filosofo Pascal Engel: «La produzione di stronzate, che era endemica nella stampa, è diventata pandemica sui media, su internet e sui social network, che la diffondono in dose tale che è diventata una forza politica. Fa parte di quella che è stata chiamata l' era della post-verità, che sarebbe meglio chiamare l' era delle stronzate». Ma nemmeno definire la stupidità in modo univoco è facile. L' ultimo libro dedicato al tema, la Psicologia della stupidità edito dalla Nuova Ipsa di Palermo (304 pp., 24 euro), è stato scritto in coro da ben 28 studiosi, fra psicologi, filosofi come il citato Engel, e neurologi che, coordinati dal curatore Jean-François Marmion, si sono confrontati sul problema. Per Serge Ciccotti, psicologo dell' Université de Bretagne-Sud, la stupidità sarebbe una cecità a nuove informazioni, che nel vero cretino è permanente, mentre in ognuno di noi può verificarsi in singoli momenti di distrazione. Come esempio di innocente "stupidata" che capita a tutti, Ciccotti cita il guardare due volte in un secondo l' orologio: «Quando si vuol sapere l' ora, bisogna guardare l' orologio, è uno schema che si attiva meccanicamente, permette di mettere poca attenzione nel compito da svolgere. Per questo, dal momento che non si fa attenzione e che si pensa ad altro, cioè si guarda senza vedere, l' informazione non viene captata, e si è obbligati a leggere l' ora una seconda volta. Non vi pare stupido? Nel campo della ricerca sulle risorse attentive, gli psicologi hanno dimostrato che spesso siamo ciechi rispetto ai cambiamenti». Il neurologo Pierre Lemarquis spiega tali discrepanze con la lotta fra le diverse aree del cervello, sia i due emisferi, di cui il destro più poetico, sognatore, artistico, e il sinistro più freddo, razionale, calcolatore, sia i lobi, di cui quello frontale sarebbe la sede della maturità e dell' equilibrio, mentre i profondi talamo e ipotalamo restano sede degli istinti animali che sono il basamento della creatura. Poco diversa è la tesi di Daniel Kahneman, professore di psicologia all' università di Princeton e Premio Nobel 2002 per l' Economia. Ritiene che la mente umana funzioni con due sistemi paralleli, il Sistema 1, veloce, istintivo e automatico, e il Sistema 2, lento e razionale: «Il sistema 1 è quello delle emozioni, poiché queste ultime vengono prodotte automaticamente, senza intenzioni e rientrano nella pura soggettività. Il sistema 2 le può accettare o no. Ma attenzione, anche se il sistema 1 rappresenta l' emotività, è molto di più, è in relazione con l' interpretazione della vita, la percezione, con la maggior parte delle nostre azioni. E il sistema 2 fa molto di più che ragionare soltanto, poiché assicura una funzione di controllo che non è meno importante». Per Kahneman, alla peggio, se usassimo solo il Sistema 1 saremmo così impulsivi che «diremmo tutto ciò che ci passa per la testa come i bambini». È sulla necessità di equilibrare cuore e mente che pare insomma nascondersi il problema della stupidità, scaturita quando tale equilibrio va a farsi friggere. Il neuropsicologo portoghese Antonio Damasio, dell' Università della California del Sud, conclude infatti: «Non è possibile per un essere umano operare nel pieno delle proprie capacità solo con la razionalità, o solo con le emozioni. Sono entrambe necessarie. La razionalità si è evoluta sulla base delle emozioni, che rimangono in secondo piano per lasciarci coinvolgere da una situazione o tenercene alla larga». 

·        Il Pessimismo.

Stefania Medetti per "d.repubblica.it" il 16 marzo 2020. Se pensi sempre al peggio, non è solo questione di carattere. C’è una radice genetica nei nostri pensieri negativi. Prepararsi al peggio, infatti, è una forma di adattamento evolutivo che ci ha permesso di evitare i pericoli e reagire velocemente in caso di crisi. “Siamo costruiti per imparare di più dalle esperienze negative che da quelle positive”, ha scritto Rick Hanson, psicologo, autore di “Hardwiring Happiness: the new brain science of contentment, calm and confidence” (Costruire la felicità: la neuro-scienza dell’appagamento, della calma e della fiducia, ndr) e Senior Fellow al Greater Good Science Center, un centro di ricerca sulla compassione, la felicità e l’altruismo dell’Università della California, Berkeley. La nostra mente, dunque, è naturalmente portata in direzione di pensieri negativi, ma non è tutto. Questa propensione - stando a una ricerca dell’Università del Colorado - si manifesta maggiormente nelle donne. In certi casi, il loop di pensieri negativi sembra inarrestabile: più si cerca di arginarli, più si presentano con prepotenza. “Proprio per come siamo costruiti, cercare di fermare i pensieri controproducenti li alimenta”, rivela Hanson. Meglio, invece, diventarne deliberatamente consapevoli e trasformare il proprio discorso interiore. Da qui l’invito a passare da modalità tipo: “Devo smettere di pensare a quella promozione” a formule come: “Sto pensando troppo a quella promozione”. Un principio analogo alla mindfulness, in cui si osserva l’insorgere del pensiero, senza alimentarlo. C’è dell’altro, per quanto diverse siano le situazioni in cui ci troviamo, i pensieri negativi cadono in una serie di modalità definite. Ecco quali sono e come si disinnescano:

1) Considerare esiti diversi di una stessa situazione. Quando immaginiamo una situazione futura, tendiamo a riempire gli spazi vuoti. Proprio perché il futuro non si è ancora manifestato, abbiamo la possibilità di elaborare considerazioni negative o positive in proposito. Solitamente, utilizziamo le esperienze pregresse come una sorta di “canovaccio” per ipotizzare quello che succederà e, dunque, capita che scegliamo di eleborare considerazioni negative e di preoccuparci in anticipo senza una vera ragione.

La soluzione. “Per sviluppare l’abitudine a un modo di pensare più equilibrato, possiamo scrivere il pensiero che sorge spontaneo e poi quello diametralmente opposto”, suggerisce Indu Khurana, psicoterapista e life coach britannica. “In questo modo diamo al nostro cervello la possibilità di contemplare entrambe le prospettive, si soffermarsi su entrambe”. Per variare l’esercizio, si possono verbalizzare i pensieri: “In questo caso, ci servono due sedie, per cambiare fisicamente posizione. Ci sediamo sulla prima esprimendo il pensiero che abbiamo in mente e poi passiamo alla seconda per verbalizzare un punto di vista più equilibrato, proprio come farebbe un amico con noi”. 

2) Smetterla di pensare in termini di "doveri". Siamo abituati a una scansione “per tappe” dell’esistenza e questo, a volte, ci fa sentire inadeguate. Per esempio: tutte le nostre amiche hanno trovato un lavoro e noi no. La maggior parte delle persone che conosciamo ha dei figli e noi no. Le nostre conoscenze sembrano soddisfatte della loro carriere e noi no. Questo porta in automatico a vedere nero.

La soluzione. Invece di abbracciare ciecamente le aspettative della cultura di appartenenza, o di chi ci sta attorno (come i familiari) dovremmo prenderci del tempo per riflettere. “Chiediamoci cosa vogliamo nella vita e stiliamo la nostra personale lista di valori. Proprio perché le situazioni cambiano, e noi altrettanto, dobbiamo porci periodicamente queste domande”, fa notare la psicoterapeuta. Mettere a fuoco le nostre priorità quando ne sentiamo il bisogno, inoltre, è anche un modo per stabilire i nostri obiettivi sul breve e lungo termine.

3) Basta confrontarsi con parametri esterni. Non ci misuriamo solo su quello che la società prescrive, ma spesso ci intrappoliamo in confronti con altre persone che conosciamo o, addirittura, che non conosciamo e di cui leggiamo sui media. Un esercizio decisamente sbagliato.

La soluzione. Un modo per uscirne è trovare il proprio “mantra”. “Scegliamo una frase che ci ricorda l’unicità della nostra storia. Ognuno può trovare la propria affermazione da utilizzare al bisogno, va benissimo anche il semplice: Non è tutto oro ciò che luccica”. In alternativa, possiamo richiamare alla mente le volte in cui abbiamo sbagliato a confrontare situazioni diverse a prescindere. “Se vogliamo vedere risultati diversi, rispetto al pensare in negativo, dobbiamo partire facendo cose diverse da quelle cui siamo abituati. Iniziamo a smettere di confrontarci”, suggerisce la psicoterapeuta.

4) Poniamoci obiettivi vicini. Capita che alterniamo posizione fra il tutto e il niente. Ci convinciamo che se non otteniamo la promozione a cui aspiriamo, se non abbiamo la famiglia che ci siamo immaginate, se non facciamo quella vacanza che desideriamo, non valiamo nulla. Dimentichiamo, insomma, tutte le gradazioni che si trovano nel mezzo e che spesso il percorso per conquistare la meta è ricco di soddisfazioni ed esperienze che arricchiscono perfino più rispetto al raggiungimento della cima.

La soluzione. Proviamo a concentrarci per apprezzare il modo in cui lavoriamo per raggiungere i nostri obiettivi, anche se non li abbiamo raggiunti. Questo atteggiamento non solo ci mette al riparo da considerazioni giudicanti, ma ci dà la possibilità di scoprire aspetti di noi stesse che non immaginavamo, come la resilienza, la compassione, la fiducia. “Abbiamo sempre la possibilità di scegliere di abbracciare consapevolmente il nostro percorso”, suggerisce la psicologa. Farlo, concede immediato sollievo e benessere.

5) Distinguere le sensazioni dai fatti. Certe volte, infine, pensiamo in negativo perché non ci sentiamo bene al 100%. “Assicuriamoci che gli elementi base della buona salute siano presenti nella nostra vita: una dieta equilibrata, l’esercizio fisico, la giusta quantità di sonno e idratazione, le relazioni interpersonali”. Una volta in cui abbiamo “spuntato” questi elementi, stimoliamo pensieri positivi. Come? “Tenete un giornale della gratitudine. Scrivete cinque cose ogni giorno, partendo da elementi semplici come l’aria che respirate. Facendo questo esercizio ogni giorno, a poco a poco il vostro modo di pensare evolverà in una direzione più positiva”, conclude l’esperta.

·        La cura dell’Ottimismo.

Andrea Camprincoli per “Libero quotidiano” il 2 marzo 2020. «L' uomo sensuale ride spesso dove non c'è niente da ridere» diceva Johann Wolfgang Goethe aprendo nuovi scenari, perfino intriganti, su ciò che può suscitare una risata. «Seguendo l' intelletto, quasi tutto è ridicolo; seguendo la ragione, quasi niente lo è», continua Goethe ne Le affinità elettive, spiegandoci quante cose possiamo sapere sul carattere di una persona se capiamo ciò che essa trova ridicolo. Dimmi cosa ti fa ridere e ti dirò chi sei. «Si conosce un uomo dal modo in cui ride», scriveva Fedor Dostoevskij, indicando quanto sia profondamente umana la risata, come un bisogno primario. A spiegarci proprio tutto sul perché l' uomo abbia necessità di ridere fin dai primi vagiti è il bellissimo saggio Breve storia della risata (Il Saggiatore, pp. 189, euro 17) di Terry Eagleton (1943), critico letterario inglese, docente universitario che ha insegnato presso le università di Oxford e Manchester. Uno studio approfondito e molto colto ma anche brillante e versatile, che farà addirittura ridere, per le numerose barzellette e battute che contiene. Si leggono esempi concreti di risata insieme a spiegazioni di natura filosofica, artistica, storica, letteraria, scientifica, sociologica, umanistica ed evoluzionistica. Insomma, si conosceranno tutte le varie teorie sull' umorismo. Tra le quali una in particolare sembra scegliere l' autore indicandola come la più plausibile sul perché ridiamo, ed è la «teoria dell' incongruenza». Ovvero si ride quando non c' è niente da ridere ma capita qualcosa di strano, di fuori posto, come una nota stonata, un accidente inaspettato, che strappa una risata. Come in quella storiella in cui un uomo chiede di essere castrato nonostante i medici cerchino di dissuaderlo. Alla fine dell' intervento chiede al compagno di stanza di cosa sia stato operato, e quello risponde: «Circoncisione». Ed egli battendosi la fronte esclama disperato: «Ecco come si diceva». Oppure quando si ride ai funerali è un altro esempio di risata incongruente. Nel libro lo spiegano sia Kant che Schopenhauer che collegano la risata all' incongruenza. sorpresa emozionante Così come si leggerà, anche, Charles Darwin sostiene che la risata è causata da «qualcosa di incongruo o di inspiegabile, una sorpresa emozionante». Insomma, siamo nell' era dell' incongruo, della risata grottesca e dello humour nero, stando a questo libro, che insiste su certi autori come Samuel Beckett (Giorni Felici, ancora in scena all' Auditorium di Roma, nell' esilarante interpretazione di Nicoletta Braschi). A questo proposito c' è una scena grottesca, del film drammatico, premio Oscar di quest' anno e già Palma d' oro, Paraside, del sudcoreano Bong Joon-ho, in cui allo spettatore viene strappata una risata nel momento di massima della tensione emotiva, il punto più alto diventa l' anticlimax in cui la traiettoria dall' alto si sposta verso il basso, e la risata incontra la morte. Quella smorfia buffa sul volto dell'uomo che sta per ricevere il colpo fatale, fa ridere e quasi ci libera da quel dramma portandoci altrove. «L' essenza del grottesco - si legge nel libro - sta nell' esprimere la contraddittorietà e la pienezza bifronte della vita che ha in sé la negazione e la distruzione (morte di ciò che è vecchio) come momento indispensabile, inseparabile dall' affermazione, dalla nascita di qualcosa di nuovo e migliore». «La morte, solitamente incoronata con significati sinistri - spiega Terry Eagleton - viene momentaneamente disarmata, ridotta a farsa beckettiana, e l'energia che investiamo nel reprimere la certezza della nostra stessa mortalità può essere scaricata nelle risate». Si sa che in tempo di guerra, quando il popolo sta male, c' è più bisogno di ridere. Con la comicità si cerca di annullare la realtà, come nel periodo del carnevale si diventa, con la maschera, qualcosa di altro da se stessi. Spiega Freud che la risata ci libera dalla tirannia del "principio di realtà" ci fa ribellare al dispotismo e ci permette di accedere al "principio del piacere". Ovvero la barzelletta fa per gli adulti ciò che il gioco fa per i bambini.

Il potente disagio. Nel film Joker la risata è un simbolo potentissimo di disagio, della malattia mentale che viene negata dalla società. La risata di Joker è inconsapevole, portatrice di un dolore psichico profondo, un tic nervoso, che echeggia perfino dinanzi alle scene più tragiche di morte. Eppure, anche «se la risata è satanica», scriveva Charles Baudelaire, «è quindi profondamente umana». Come il nostro Joker povero diavolo, malato, antieroe, bisognoso di amore e di cure. Demoniaco è lo scoppio di risa beffarde, come commenta il diavolo nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, si tratta dell' elemento ribelle e deviato che impedisce al mondo di crollare sotto il peso della propria mitezza. L' inferno, tradizionalmente, risuona delle risate oscene. Per Aristotele la risata è una delle tre virtù sociali insieme all'amicizia e alla veridicità, ma questo tipo di verve richiede raffinatezza e educazione, come pure l' utilizzo dell' ironia. «Il riso abbonda nella bocca degli stolti», è il motto latino che ci ricorda che la Chiesa, durante il medioevo, aveva messo al bando la risata. Invece, ridere è la migliore medicina: «Dieci volte al giorno devi ridere ed essere allegro: altrimenti lo stomaco, che è il padre di ogni mestizia, ti disturberà nella notte», scriveva Friedrich Nietzsche.

Danilo Di Diodoro per “Salute - Corriere della Sera” il 20 dicembre 2019. Non sempre la vita è tutta rose e fiori, ma è comunque meglio restare ottimisti, e chi non lo è di natura dovrebbe sforzarsi di diventarlo anche solo un po'. Infatti una ricerca pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences indica che chi è ottimista ha maggiori probabilità di superare l' ambita soglia degli 85 anni, arrivandoci anche in discreta salute. Salute e longevità vanno infatti di pari passo, probabilmente attraverso un' azione della prima sulla seconda. La ricerca è stata realizzata da un gruppo di psichiatri ed epidemiologi di Boston guidati da Lewina Lee del Department of psychiatry della Boston University School of Medicine e ha preso in esame circa settantamila donne e 1500 uomini, rilevandone per decenni longevità, presenza o meno di ottimismo, più alcune variabili connesse allo stato di salute. Individuati anche i meccanismi psicologici attraverso i quali chi è ottimista arriva a godere di migliore salute e vita più lunga. «Gli ottimisti tendono ad avere qualche obiettivo preciso da raggiungere e hanno fiducia che riusciranno» dicono i ricercatori. «Seguono uno stile di vita sano e sanno frenare impulsi verso comportamenti potenzialmente insalubri, proprio per continuare a perseguire i propri obiettivi. Ma hanno anche modalità migliori per affrontare e risolvere i problemi, e ridefiniscono gli obiettivi irraggiungibili». E quando la vita presenta gli inevitabili eventi stressanti e le avversità, gli ottimisti se la cavano meglio di chi ottimista non è. Hanno risposte emotive negative di scala ridotta e tempi di recupero più brevi. «Di fronte alle difficoltà, gli ottimisti mostrano migliori abilità nel regolare le emozioni attraverso strategie cognitive, ad esempio riformulando potenziali minacce sotto forme di sfide» dicono ancora i ricercatori statunitensi. «Oppure, utilizzano strategie comportamentali, come saper resistere a soddisfazioni immediate a favore di obiettivi di lunga durata». Queste strategie cognitivo comportamentali fanno sì che chi è ottimista possa godere di profili biologici vantaggiosi, contribuendo a mantenere buoni livelli di salute cardiovascolare e polmonare, e un miglior funzionamento sia del metabolismo sia del sistema immunitario. Proprio niente da fare per i pessimisti? Anzi, c' è molto da fare, dato che, come qualunque altra strategia cognitivo comportamentale, anche l' ottimismo si può imparare. Probabilmente chi è pessimista di natura non avrà mai un approccio alla vita positivo quanto quello di chi è nato ottimista, ma diversi studi hanno dimostrato che è possibile imparare a vedere un po' più rosa. Una revisione sistematica, che ha messo insieme i risultati di una trentina di studi realizzati su circa tremila persone, è stata condotta da John Malouff e Nicola Schutte del Department of Psychology dell' University of New England di Armidale, in Australia. Da questa disamina è emerso che diversi interventi psicoterapici a orientamento cognitivo comportamentale possono rendere un po' più ottimisti, con ricadute positive sulla propria salute. Un' altra ricerca, pubblicata sulla rivista General Hospital Psychiatry , realizzata su persone con malattia coronarica, ha mostrato che una psicoterapia di gruppo di otto settimane può migliorare la visione del futuro. Una ventina di anni fa è stata messa a punto da Giovanni Fava, docente di psichiatria alla State University di New York di Buffalo, la Well-Being Therapy , psicoterapia che invece di focalizzarsi sul malessere, si basa sul monitoraggio del benessere psicologico, che il paziente impara a incrementare con tecniche specifiche. Ha una durata limitata, 8-10 sedute, finalizzate a individuare i fattori che impediscono lo sviluppo del benessere psicologico, provando nello stesso tempo a rimuoverli. «È una forma di autoterapia, in cui quello che conta è soprattutto quello che una persona fa tra una seduta e l' altra» dice Giovanni Fava, autore del libro Psicoterapia breve per il benessere psicologico (Cortina editore, 2017). «L' efficacia si basa su studi controllati. Può essere impiegata con persone che hanno episodi ripetuti di depressione. Altri studi hanno confermato la sua utilità nel trattamento degli stati di ansia generalizzata e degli sbalzi di umore frequenti». Una ricerca pubblicata sulla rivista Human Brain Mapping indica anche che nel cervello degli ottimisti è presente un più basso livello di attività neuronale a riposo nella zona della corteccia cerebrale orbitofrontale destra. Attività che risulta invece più alta in persone che soffrono di disturbi tipicamente accompagnati da una visione pessimistica della vita, come depressione, stati d' ansia e disturbo post-traumatico di stress. Ulteriori ricerche dovranno aiutare a capire quanto queste caratteristiche neurobiologiche di base possano cambiare in corso di trattamento e quanto rimangano stabili nel tempo, e quindi quale sia il rischio di ricadere in una visione più buia della vita.

·        Passo Dyatlov. La teoria della “tempesta perfetta”: «Impazzirono per infrasuoni».

Passo Dyatlov, la Russia riapre le indagini sul giallo degli studenti morti nel 1959. La teoria della “tempesta perfetta”: «Impazzirono per infrasuoni». Pubblicato giovedì, 02 gennaio 2020 su Corriere.it da Fabrizio Dragosei, Angela Geraci. Volevano attraversare gli Urali con gli sci. Li hanno trovati congelati, seminudi, con ferite sui corpi. Cos’è successo, cosa hanno visto? Sessant’anni dopo, in Russia si sono riaperte le indagini su uno dei grandi gialli della Guerra fredda. Avevano quasi tutti tra i venti e i venticinque anni. Dopo nove giorni di marcia nella neve in mezzo agli Urali, che dividono la Russia europea dalla Siberia, si accamparono sotto una montagna in una notte di febbraio del 1959. E non diedero più alcun segno di vita. Dopo mesi, i loro corpi vennero ritrovati sotto la coltre bianca, sparpagliati in un raggio di centinaia e centinaia di metri. Morti per ipotermia, qualcuno con il torace schiacciato da una forza sovrumana; due con il cranio fracassato. Con 26 gradi sotto zero, due ragazzi erano usciti dalla tenda a piedi nudi e in calzamaglia. Un mistero che si trascina ancora e che potrebbe forse trovare una soluzione in questo 2020 quando la Procura che ha deciso pochi mesi fa di riaprire le indagini farà conoscere le sue conclusioni. La pressione dei parenti delle vittime continua a farsi sentire: nelle ultime settimane hanno anche scritto direttamente al presidente Putin. Cosa o chi ha provocato la tragedia del passo Dyatlov? In sessant’anni le teorie più disparate si sono susseguite, ma nessuna è riuscita a spiegare pienamente l’accaduto. Un massacro eseguito da un gruppo di abitanti locali, i pacifici Mansi? Nell’area non furono trovate altre impronte oltre a quelle dei nove studenti. Una valanga? Gli investigatori che condussero l’indagine nel 1959 non trovarono alcun segno di un simile evento, non un albero abbattuto, niente; e poi in quel posto preciso non c’erano mai stati fenomeni del genere. L’attacco da parte di una specie di yeti siberiano di cui si è sempre favoleggiato? Nessuno ne ha mai visto né fotografato nemmeno le tracce. Un esperimento militare segreto? L’apertura di una nuova indagine sembra far escludere questa ipotesi, anche se molti ci credono ancora. Alla fine di gennaio i nove giovani si misero in marcia nella tajga. Provenivano tutti dall’istituto universitario di Ekaterinburg ai piedi degli Urali dove nel 1918 venne sterminata la famiglia imperiale (e che fino al crollo dell’Urss portava il nome di Sverdlovsk, il bolscevico che ordinò il massacro per conto di Lenin). Per giorni tutto procedette regolarmente, fino a quando nella notte del primo febbraio furono costretti ad accamparsi in fretta e furia a causa di una tempesta di vento e di neve. Sistemarono la loro base sotto una cima dal nome infausto, Kholatchakhl («montagna dei morti»). Poi solo supposizioni. La tenda venne trovata tagliata dall’interno, come se qualcuno avesse voluto fuggire di corsa. Due dei ragazzi furono ritrovati a quasi un chilometro di distanza scalzi e con indosso solo la biancheria termica. Morti di freddo. Poco più lontano Igor Dyatlov, lo studente che aveva organizzato il viaggio (al quale è stato intitolato il passo della tragedia) assieme ad altri due. Stavano forse tornando alla tenda, ma il gelo li aveva sopraffatti. Gli ultimi quattro erano finiti in un burrone. La Procura ha per ora escluso eventi straordinari. Si indaga solo su possibili cause naturali: una slavina, un uragano o una valanga di neve compressa. Ma così si riuscirà veramente a risolvere l’enigma?

Passo Dyatlov, la teoria della “tempesta perfetta” dietro il mistero: «Così morirono i 9 escursionisti russi». L’oscuro incidente sugli Urali e l’ipotesi in libro del 2014 che spiega cosa accadde la notte del 2 febbraio 1959. Adesso, a 60 anni dalla tragedia, la Russia riapre le indagini. Angela Geraci il 2 gennaio 2020 su Il Corriere della Sera. La notte del 2 febbraio di 55 anni fa successe qualcosa di molto strano sui monti Urali. Esattamente sul versante orientale del Cholat Sjachl, il Monte dei Morti. Qualcosa che da quel lontano 1959 è avvolto dal mistero, dalla paura e dalle più strane teorie. Fra quei boschi innevati, a meno 30 gradi centigradi, «una irresistibile forza sconosciuta» (così disse l’inchiesta) causò la morte di nove giovani escursionisti russi del politecnico degli Urali, sette ragazzi e due ragazze. Ventiquattro giorni dopo il misterioso incidente fu ritrovata la loro tenda: completamente sconquassata e lacerata dall’interno. Dai resti della tenda partivano delle orme . Seguendole, i volontari trovarono i primi cinque corpi dei ragazzi: alcuni completamente nudi, con le mani bruciate, altri solo con la biancheria intima, tutti senza segni esterni di violenza. Sparsi a poche centinaia di metri uno dall’altro, sotto un cedro. I cadaveri degli altri quattro furono invece rintracciati invece solo tre mesi dopo, sotto quattro metri di neve gelida. E con dei traumi inspiegabili e non prodotti da altri esseri umani per la loro potenza: cranio fracassato, cassa toracica compressa fino a spezzare le costole. E un corpo, quello di una ragazza, senza lingua. La storia che quei cadaveri potevano raccontare è rimasta incomprensibile per molti anni. Fino a quando l’americano Donnie Eichar -regista, produttore e autore per cinema e tv - nel 2014 ha lanciato una nuova teoria che spiegherebbe tutto. Dopo aver studiato per cinque anni tutte le carte e le testimonianze sull’incidente del Passo Dyatlov (chiamato così dal nome del capo della spedizione, il 23enne Igor Dyatlov), e aver anche ripercorso il viaggio dei nove escursionisti, Eichar sostiene di aver capito cosa successe la notte del 2 febbraio 1959. Una spiegazione scientifica che non tira in ballo né esercitazioni segrete dell’esercito sovietico né gli alieni o misteriose contaminazioni radioattive. Secondo l’autore i ragazzi si trovarono al posto sbagliato nel momento sbagliato: durante una “tempesta perfetta”. I venti, velocissimi, scontrandosi con la particolare forma a cupola della Montagna dei Morti diedero vita a dei furiosi vortici di aria che crearono dei mini tornado violentissimi nel passo dove c’era l’accampamento. Il rumore prodotto dal fenomeno doveva essere assordante. Ma c’è di più. Eichar dice anche che tormente come quella possono generare anche una gran quantità di infrasuoni (il contrario degli ultrasuoni) che, non udibili dagli uomini, sono capaci di avere effetti sul corpo umano: le vibrazioni prodotte da queste particolari onde sonore causano perdita del sonno, mancanza di respiro e, soprattutto, un panico indicibile e incontrollabile. Un terrore che, amplificato dal buio della notte e dal frastuono dei tornado, avrebbe insomma portato i nove ragazzi alla follia. E poi alla morte. Dai tempi dell’incidente sono state moltissime le teorie che hanno cercato di spiegare il mistero del Passo di Dyatlov. Le indagini si (non) chiusero ufficialmente nel maggio del 1959: nessun colpevole se non «una irresistibile forza sconosciuta» che avrebbe ucciso i giovani. Si disse che su alcuni brandelli di vestiti delle vittime c’erano alti livelli di radioattività. I ragazzi avevano trovato sul loro cammino qualcosa con cui non avrebbero mai dovuto venire in contatto? Un gruppo di escursionisti che si trovava poco distante dal gruppo riferì di aver visto nel cielo delle “sfere arancioni”. Cosa confermata in quei mesi anche da avvistamenti analoghi fatti dal servizio meteorologico e membri dell’esercito. Si scoprì più tardi che le «palle arancioni» erano lanci di missili balistici R-7. Quando poi negli anni Novanta i fascicoli dell’inchiesta furono desecretati, alcuni particolari furono pubblicati dalla stampa e ne venne fuori anche una teoria secondo cui le morti erano legate alla sperimentazione di un’arma segreta sovietica. Per ricordare le vittime dell’incidente è stata istituita a Ekaterinburg la Fondazione Dyatlov, che si propone anche di far riaprire il caso alle autorità russe. I ragazzi morti misteriosamente quella notte di 55 anni fa erano: Igor Dyatlov, capo 23enne della spedizione; Zinaida Kolmogorova, 22 anni; Ljudmila Dubinina, 23enne che fu trovata senza lingua; Aleksandr Kolevatov, 24 aani; Rustem Slobodin, 23 anni; Jurij Krivoniščenko, 24 anni; Jurij Dorošenko, 21; Nikolaj Tibo-Brin’ol’, 37 anni; Aleksandr Zolotarëv, che proprio quel 2 febbraio aveva compiuto 38 anni. Erano tutti innamorati della natura e della musica, spesso passavano la sera a cantare e una volta, durante una visita a una scuola in una tappa del loro viaggio, avevano conquistato con i loro racconti i bambini che poi li avevano voluti accompagnare alla stazione. Sono cose che ha raccontato un loro amico, prima di chiudersi nel silenzio per oltre 50 anni: Jurij Judin era partito insieme a loro il 23 gennaio per quella avventura ma poi cinque giorni dopo li aveva abbandonati. Stava infatti male fisicamente e non poteva proseguire la spedizione. È morto a 70 anni. 

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Ignoranti …e basta!

Alberto Caprotti per “Avvenire” il 6 settembre 2020. L’ultimo rapporto Istat boccia l’Italia riguardo il suo livello di istruzione: solo il 62,2% delle persone tra i 25 e i 64 anni nel nostro Paese possiede almeno il diploma. Nella Ue sono mediamente il 78,7%, e in alcuni Paesi la percentuale sale ancora: 86,6% in Germania, 80,4% in Francia e 81,1% nel Regno Unito. Solo Spagna, Malta e Portogallo hanno valori inferiori all’Italia. Non è una sentenza di condanna: ciascuno di noi conosce incolti straordinariamente brillanti e intelligenti, così come laureati insulsi e imbarazzanti. Ma è indubbio che un livello di istruzione così basso abbia creato una società superficiale, raggirabile ed emotiva. Soprattutto ha privato l’Italia di una opinione pubblica che sappia avere un’opinione. E ne ha fatto crescere un’altra che crede che il congiuntivo sia una malattia degli occhi. Gli italiani probabilmente sapevano mediamente poco anche cinquant’anni fa. Però forse erano più curiosi, e certamente più imbarazzati per la loro ignoranza. Non era grave. La cosa brutta è accaduta dopo, quando gli ignoranti sono rimasti ignoranti ma hanno smesso di vergognarsi per questo. Convinti, come sono molti oggi, che la cultura non serva a nulla, e che sia solo la vita a insegnare come si sta al mondo. Tesi legittima, ma i risultati che vediamo ogni giorno fanno pensare anche che sia leggermente errata.

Pietro Senaldi e la scuola: "Professori con i certificati per non andare al lavoro? Sospendeteli tutti". Libero Quotidiano il 29 agosto 2020. Mancano pochi giorni al 14 settembre e la riapertura delle scuole è ancora un caos. "C'è la triste notizia - spiega Pietro Senaldi - che circa 200mila professori hanno prodotto certificati medici che consentono loro di non presentarsi a scuola". Il motivo? "Condizioni precarie di salute - prosegue il direttore di Libero -, insomma, stanno a casa per non prendere il coronavirus". Per Senaldi la paura è legittima, però "i professori dovrebbero pensare anche ai loro studenti e al compito che hanno". In sostanza, "se gli infermieri si comportassero come loro, noi saremmo a terra e non saremmo ancora usciti dall'emergenza". E così sarebbe il caso per il direttore che questi professori vengano sospesi dal pagamento, "tanto non sarebbe una sciagura per la scuola, visto che questi professori hanno ben poco da insegnare agli studenti". 

Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 10 agosto 2020. Gallipoli, Lecce, estate 2020. "Il milanese imbruttito" intervista i bagnanti. «Perché è arrivato il Coronavirus in Italia?». «Per le multinagionali», risponde un ragazzo col ciuffo all'indietro e i capelli rasati ai lati. Un signore sulla cinquantina, zaino in spalla e Ray-Ban alla Top Gun, crede nel complotto: «Erano anni che stavano studiando questo attaccato all'umanità!». Chi lo stava studiando, le multinagionali? Cultura generale. «Chi è il presidente del Consiglio?». «Berlusconi», dice titubante una ragazza con le treccine nere e il marsupio che le cinge il costume intero. «Mattarella», tenta l'amica con l'avambraccio destro ricoperto di tatuaggi. «Ecchemenefreccamme!» taglia corto un ventenne dall'accento autoctono. Un giovanotto un po' ingobbito con gli occhiali da sole alzati sulla fronte e la canotta di Stephen Curry, asso dell'Nba dei Golden State Warriors, punta al sodo: «Basta che ce danno i sordi!». Stesso copione con protagonisti diversi a Riccione, Jesolo, Ibiza. Questa video-rubrica regala perle da anni. Ce n'è una gemella che si chiama "Il veneto imbruttito".

Ma in parlamento non è che le cose vadano meglio. C'è un ministro degli Esteri convinto che la Russia si affacci sul Mediterraneo e che Pinochet fosse venezuelano. Per il suo vice, Beirut è in Libia. L'ex ministro alle Infrastrutture vedeva tunnel inesistenti. Il sottosegretario all'Economia è Laura Castelli. Tutti grillini, tutti infervorati sostenitori dell'«uno vale uno», l'improvvisazione al potere. Alle ultime elezioni hanno preso il 33%. La stragrande maggioranza li ha votati proprio perché avevano promesso i «sordi».

19 aprile 2014, la senatrice Paola Taverna, sull'Espresso, asseriva: «Chi può escludere che esistano le scie chimiche?». Novembre 2013: Discovery Channel trasmette un fanta-documentario, scienza e fiction mescolate, che dovrebbe dimostrare l'esistenza delle sirene. L'allora deputato grillino Tatiana Basilio ci crede davvero, l'indomani parla di «prove schiaccianti» e denuncia la cospirazione: «Di cos' hanno paura? Perché non ammettere un fatto tanto evidente?».

Carlo Sibilia, ora sottosegretario all'Interno, cinque anni fa su Twitter dichiarava al mondo che l'allunaggio fu «una farsa». I dati dell'Istat sono impietosi: l'Italia è tra i Paesi più ignoranti d'Europa ed è a un passo dalla maglia nera per scolarizzazione. Dall'ultimo rapporto emerge che nel 2019, nei Paesi Ue, mediamente il 78,4% delle persone tra i 25 e i 64 anni aveva almeno un diploma secondario superiore. In Italia la percentuale è del 62,1.

Non che la scuola renda per forza intelligenti, ma in qualche caso aiuta. L'analfabetismo funzionale, ossia l'incapacità di leggere, scrivere o fare di calcolo in modo corretto, affligge il 47% della popolazione. Ma ben due milioni sono totalmente analfabeti, Più ignoranza significa meno democrazia. Oggi sono i social a farla da padrone. Per molti sono la Bibbia. Le conseguenze sono inevitabili. Il 18,6% degli italiani, altro dato Istat, l'anno scorso non ha mai letto un libro. La regione più analfabeta è la Basilicata (13,8%) seguita dalla Calabria (13,2) che però, stranamente, ha un tasso di laureati superiore alla Lombardia, al Piemonte, al Veneto e all'Emilia Romagna. La grande città con l'analfabetismo più elevato è Catania. Seguono Palermo, Bari e Napoli. La scuola non boccia quasi nessuno e in molte province del Paese la media dei voti di fine anno è elevatissima. Ciononostante, stando al Rapporto SDG (Sustainabile Development Goals), il 34,4% di chi frequenta la terza media «non raggiunge un livello sufficiente di competenza alfabetica». Gli studi condotti sulla base dei test Invalsi non lasciano margini d'interpretazione. Numerose ricerche economiche hanno dimostrato che le politiche educative influiscono sulla crescita e la capacità della società di innovarsi. «L'istruzione», si leggeva già una quindicina d'anni fa in un'analisi realizzata per la Banca Mondiale da due professori di Stanford e Monaco, «può innalzare i redditi individuali e il livello di sviluppo di un'economia soprattutto attraverso l'accelerazione impressa al progresso tecnologico». Esattamente ciò che non vogliono gli attuali occupanti di Palazzo Chigi per i quali la scuola è l'ultima ruota del carro. La situazione è tale che se l'unico problema fosse quello dei banchi con le rotelle del ministro Azzolina ci sarebbe di che esultare. La Azzolina si è dimostrata fin da subito totalmente inadeguata, ma non è che sia attorniata da scienziati, se non da quelli del comitato-tecnico scientifico secondo i quali il primo giugno ci sarebbero state 151 mila persone affette da Corona in terapia intensiva. «In tutto questo cosa c'entra Bill Gates?», chiede sulla battigia il "milanese imbruttito". «Può essere che è stato pure lui a emanare questo virus» replica un giovane con lo slip attillato dal quale sbucano il telefono e un pacchetto di sigarette. «Questi ci vogliono vaccinare perché così poi con le antenne 5G ci riducono alla morte».  

·        La Scuola dalla A alla Z.

Davide Desario per leggo.it il 22 aprile 2020.

Alunni. Sono l’anello debole della catena “istruzione a distanza” fatto di decreti, diritti costituzionalmente garantiti e doveri dei docenti. Pagano sulla loro pelle i disagi casalinghi, le difficoltà economiche e l’egoismo di certi prof. La Didattica a distanza è bella a dirsi ma, così com’è, nella pratica è un caos che non li aiuta. 

Bocciatura. Questa sconosciuta! L’anno si chiuderà con tutti promossi. A inizio settembre - chissà come - l’eventuale recupero degli apprendimenti dalla primaria all’ultimo anno del liceo. Dibattito spalancato sull’inizio delle lezioni. Sarà la Conferenza Stato-Regioni a decidere, tra pressioni di famiglie che non sanno dove lasciare i figli e misure anti-contagio. 

Concorsi. Non si capisce bene se si faranno o no. L’ordinario per la secondaria di I e di II grado, quello per infanzia e primaria, fondamentali per acquisire una abilitazione all’insegnamento non si sa se slitteranno di mesi. Il rischio di continuare a far insegnare personale poco formato c’è. Eccome. 

Didattica a Distanza. La chiamano DaD. Prima è stata «consigliata» poi «obbligata» dal ministero. Ma le norme e le direttive della ministra Azzolina sono vaghe per la gioia dei sindacati e di chi anche in questo momento di emergenza coronavirus pensa solo a se stesso. Quante ore minime devono seguire i ragazzi? Non si sa. Un caos senza precedenti tra scuole rimaste ai tempi della pietra, docenti che si appellano alla libertà di insegnamento (da quando la libertà di insegnamento decide l’organizzazione di una scuola?) e problemi di privacy. 

Esami. Per il primo ciclo, si ridurranno alla consegna di un elaborato del candidato (senza discussione orale?), e per la maturità a un unico colloquio interdisciplinare. Parole chiave sono la completezza e la congruità della valutazione nonché chiarezza per l’attribuzione del voto. Ma come si fa ad avere omogeneità? 

Famiglia. Sul web gira una battuta: «Maestre iniziate a raccogliere i soldi perché alla fine di quest’anno sarete voi a fare il regalo ai genitori». Ed è vero. Famiglie stipate in case troppo piccole, dove ci si contende pc e tablet, tra smart working dei genitori e DaD dei figli. Se sono fortunate, trovano una scuola che li aiuta. Quando va male, sono loro a dovere supplire ai docenti.

Graduatorie. È uno dei nodi fondamentali: i famosi punteggi che ogni tre anni - quelle di istituto - arrivano come Messia sceso in terra per ottenere il ruolo o una cattedra succulenta fino al 31 agosto. Nessun aggiornamento per il 2020/21. Si dovrà aspettare l’anno ancora dopo. Insomma, nonostante i proclami della Azzolina, sarà un altro anno con docenti non formati nelle classi. 

Handicap e disabilità. Sono gli alunni più fragili, quelli per cui si prevedono specifiche misure con il piano educativo individualizzato, il sostegno e l’assistenza. Con bravi docenti, l’inclusione è garantita anche a distanza. Altrimenti, sono più isolati che mai. E non è giusto.

Insegnanti. Qui si vede davvero chi è bravo e chi no. Chi lo fa con passione e con la voglia di formarsi sempre, e chi no. Il bravo docente non si tira indietro e fa di tutto per mantenere insieme classe, alunni e apprendimenti. Al di là di ciò che dice il contratto. Perché il momento storico lo impone. 

Licenziamento. È quello che si sono visti arrivare i supplenti quando il titolare della cattedra che era in malattia, aspettativa o permesso, dopo le vacanze pasquali è tornato miracolosamente in classe perché con la Dad può riprendersi lo stipendio pieno. Non aspettando il 30 aprile, data che permetterebbe comunque di mantenere la continuità didattica agli alunni con il supplente che li segue da mesi. 

Ministero dell’Istruzione. Si è messo in rete per aiutare la DaD. Ha fatto decreti spesso confusi, che non sciolgono i nodi. Si è reso (si spera!) conto che alle Scuole va dato molto più supporto e finanziamenti di quelli stanziati negli ultimi 30anni. 

Norme di comportamento online. Quelle che le scuole più efficienti hanno diffuso a famiglie e alunni, attingendo dal regolamento di Istituto e dal patto educativo. Norme che richiamano a decenza, educazione e ai principi di privacy. Per gli altri cyberbullismo a go-go a danni di insegnanti e compagni.

Orari. Sono lasciati all’organizzazione della scuola e ancora peggio, quando il dirigente non controlla, alla libertà del docente. Questo significa che ci sono alunni che fanno lezioni online e altri a cui vengono solo dati materiali da studiare e compiti. 

Presidi. Sono il perno su cui gira tutta l’organizzazione della DaD. Più autorevole sono, più la scuola funziona. Ma sono schiacciati tra il diritto allo studio degli alunni, le richieste delle famiglie, le lamentele di quei docenti che non hanno capito che devono lavorare visto che prendono un regolare stipendio e il personale Ata da governare. 

Quadrimestre. Un quadrimestre anomalo e inusuale. Si chiuderà come da calendario che è stato stabilito da ogni singola scuola.

Reclutamento. Non si sa come avverrà. Come inizierà la giostra delle supplenze il prossimo anno, tra graduatorie e Messe a disposizione (MAD). Se le graduatorie sono bloccate, potrebbero essere riconfermati i docenti in carica, almeno nelle prime settimane di scuola. Tradotto? Si salvi chi può. 

Specificità dell’apprendimento. Gli alunni con DSA, per intenderci. Garantiti i loro diritti, gli apprendimenti terranno conto del Piano Didattico Personalizzato, delle misure dispensative e degli strumenti compensativi. Ma anche qui, il diritto è pari alla bravura dei docenti. Altroché! 

Tutele. La miopia dei sindacati non è mai emersa come in questo periodo di emergenza per tutto il Paese. Puntano più allo stato di diritto che a quello dei doveri , per la gioia dei furbetti della cattedra. Illudendo e confondendo docenti più su quello che non sono tenuti a fare che su quello che devono fare. 

Url e il caos delle piattaforme. Registro elettronico, G Suite, Weschool, Zoom, Meet… una marea di app sono spuntate come funghi tra il divertimento degli alunni, il panico dei docenti e le imprecazioni delle famiglie. Servono programmi certi e uguali per tutti. 

Voti. Bella gatta da pelare. Soprattutto per i ricorsi che penderanno sulla testa delle scuole per eventuali voti che non piacciono. Perché sulla valutazione è tutto poco chiaro. Gli scrutini, considerato che la ministra ha detto che non si rientrerà quasi certamente a scuola, si faranno in via telematica. Ma a distanza come vanno valutate partecipazione e apprendimento?

Zaino. Dopo quest’anno non potrà più essere privo di ipad, tablet e tutto quello che di digitale ci possa essere. Speriamo che al ministero lo abbiano capito. E che lo abbiano capito pure i docenti. Senza se e senza ma.

·        La scuola degli strafalcioni.

Da huffingtonpost.it il 23 giugno 2020. Non c’è maturità che si rispetti senza il suo carico di strafalcioni. L’anomala edizione 2020 non fa eccezione. L’esame in forma ridotta – senza prove scritte ma con il solo colloquio orale – non ha, infatti, evitato che il catalogo degli ‘orrori’ si arricchisse di nuove perle. Così come le rigide norme di sicurezza, che limitavano l’accesso a scuola a pochissime persone, non hanno impedito che i selezionatissimi presenti aiutassero a diffondere i passi falsi degli studenti. Ecco i più clamorosi pronunciati durante le prime giornate di esami, raccolti dal sito Skuola.net. Tra le protagoniste del maxi orale c’è sicuramente la letteratura italiana. L’analisi del testo – in sostituzione del primo scritto - è uno dei passaggi obbligatori del colloquio. Impossibile che qualcuno non cadesse in modo rovinoso. Come quel ragazzo che ha attribuito “Se questo è un uomo” a Italo Calvino. Un dolore (postumo) in più per Primo Levi; proprio lui che ha vissuto direttamente quella tragica esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz. Meno fragoroso, ma ugualmente grave, lo scivolone di un altro maturando che era convinto che “Rosso Malpelo”, novella di Giovanni Verga, in realtà fosse stata scritta da Giovanni Pascoli. Lo avrà confuso il nome di battesimo? Ma non è tutto: scorrendo i resoconti della Maturità 2020 si scopre anche che la famosa Silvia non è stata oggetto delle attenzioni del solo Giacomo Leopardi, che le dedicò, appunto, l’ode “A Silvia”. Perché, secondo qualche studente, le stesse identiche parole d’amore sono state scritte sia da Francesco Petrarca sia, ancora una volta, da Pascoli. Difficile che si sia trattato della stessa fanciulla (tra gli ultimi due autori balla un intervallo di tempo di circa 500 anni). Più probabile, semmai, che il nome Silvia sia fonte di particolare ispirazione per i poeti di ogni epoca. Ma la triste realtà è un’altra: è stato un gigantesco abbaglio. A volte, poi, lo smarrimento diventa totale. Sfiorando la gag comica. C’è chi, ad esempio, ha detto che Pirandello era un esponente della pittura espressionista. Chi il titolo della poesia “X Agosto” di Pascoli lo ha letto esattamente com’è scritto: “Ics Agosto” (a questo punto è chiaro che i maturandi si sono messi d’accordo per accanirsi contro il povero Giovanni). Infine, l’immancabile classico di ogni esame di quinto: Gabriele D’Annunzio? Che domande, il caposcuola degli "estetisti" (e non degli "esteti"). Aiuto! Un posto d’onore nella classifica degli strafalcioni da Maturità riescono sempre a ritagliarselo gli sfondoni di storia. Più che una materia un campo minato, dal quale spesso i ragazzi non escono indenni. Stavolta i picchi si raggiungono quando si legge di studenti che sostengono che le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki sono state sganciate durante la Prima Guerra Mondiale o che, anche quando azzeccano il conflitto giusto (il Secondo), ne attribuiscono la paternità all’esercito nazista. E poi le date, vero tallone d’Achille di decine di maturandi. In molti casi l’errore può essere perdonato, in altri decisamente meno. Una breve rassegna riesce a spiegare meglio le proporzioni del disastro. Il crollo del Muro di Berlino? Nel 1948, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale (quando non era stato nemmeno costruito); l’entrata in vigore della Costituzione Italiana? Nel 1968 (vent’anni dopo rispetto a quanto c’è scritto sui libri); la caduta del fascismo? Nel 1973. Ma perché? Infine un po’ di "varie ed eventuali", probabilmente frutto di domande supplementari fatte dai professori. Dovendo parlare degli integrali, un candidato al diploma si è prodotto in una dissertazione sull’importanza di questi elementi nell’alimentazione, passando in un attimo dalla matematica alla dietistica; un percorso multidisciplinare che però dubitiamo sia piaciuto alla commissione. Lo stesso si può dire per quel ragazzo che, parlando dei suoi progetti per il futuro, si è detto orientato verso carriere "umanitarie": “Quindi vorresti fare il medico o il volontario”?, ha domandato l’ingenuo docente; “No, mi iscriverò alla facoltà di Lettere”, ha risposto lo studente. Ogni commento è superfluo.

·        La Laurea Negata.

Quando il Governo Letta penalizzò le Università del Sud per favorire quelle del Nord. Michele Eugenio Di Carlo su I Nuovi Vespri il 6 maggio 2020. La sottrazione di risorse alle Università povere (quelle del Sud) per favorire le università ricche (quelle del Nord, che non sono affatto le migliori) ha determinato la migrazione di studenti (e di risorse finanziarie) dal Sud al Nord. Una vergogna infinita e uno scandalo ignorato. Sentire che tanti nostri studenti universitari, e i propri familiari, in questi giorni si lamentano di dover pagare affitti mentre le università sono praticamente chiuse, mi fa proprio male e mi costringe a riferire quello di cui pochi sono a conoscenza. Fu un provvedimento del governo di Enrico Letta e della ministra dell’Istruzione di allora, Maria Grazia Carrozza, a penalizzare fortemente le università del Sud con una sorta di decreto ammazza università meridionali che ha dato soldi alle università ricche e li ha sottratti a quelle povere. Badate bene, non a quelle migliori, a quelle più ricche. Lo scrive peraltro l’amico Pino Aprile nel suo ultimo testo “L’Italia è finita”, come sempre una miniera di informazioni. Tanto che l’economista barese Gianfranco Viesti – ricordo che è anche cittadino onorario della città di Vieste – ne scrisse un libro di denuncia: “La laurea negata”, arrivando a dire che tanto valeva farle chiudere. Un decreto che andò a peggiorare le già antimeridionali norme dei precedenti ministri Profumo e Gelmini. Ora uno studente meridionale su due (8 su 10 in Basilicata) sceglie un università del Nord e questo comporta l’ennesimo esborso di miliardi che passano da Sud a Nord, quasi non bastasse la tristissima e abominevole emigrazione sanitaria. Questa politica di sottrazione di fondi e di risorse al Sud è stata condotta senza interruzione e indifferentemente da governi di tutti i colori, destra, centro e sinistra. Ma pochi di noi se ne sono accorti, perché la politica ormai è diventata il regno degli incapaci e degli ignoranti. La manipolazione politica-mediatica al servizio dei poteri finanziari e politici nord-centrici, quotidiana da almeno 35 anni (vedere i dati riportati dagli studiosi di processi comunicativi Cristante e Cremonesini) ci ha invece fatto credere che sia tutto normale. Non lo è affatto! Nonostante tutto, nonostante la continua e discriminante sottrazione di fondi, molte delle nostre università restano ad alti livelli. Vorrei inoltre ricordare che la prima, grande università italiana è stata la Federico II di Napoli da cui fino al 1861 uscivano la maggior parte dei laureati in Italia. Infatti la Federico II è nata nel 1224, mentre le tanto decantate “Politecnico di Milano” e la super propagandata “Bocconi” sono sorte rispettivamente nel 1863 e nel 1902. Non vi cito neppure poi quelle sorte durante la lunga parentesi leghista e nordista che abbiamo attraversato e da cui non siamo ancora usciti.

Recensioni - 23 Maggio 2018 “La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria” di Gianfranco Viesti. Recensione a: Gianfranco Viesti, La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria, Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 154, 12 euro (scheda libro). Scritto da Francesco Corti 28 maggio 2018. Un libro tascabile, come recita il nome della collana dell’editore Laterza che lo ha pubblicato, è la caratteristica principale dell’ultimo saggio di Gianfranco Viesti La laurea negata. Un testo che, nelle intenzioni rese subito esplicite dall’autore, ha, in primo luogo, l’obiettivo di essere divulgativo, di dare al vasto pubblico, quello lontano dalle università, alcune risposte a domande e interrogativi che spesso accompagnano il dibattito mediatico sul mondo accademico e sul suo rapporto con il mondo del lavoro e dell’amministrazione pubblica. Viesti presenta una rassegna dettagliata e precisa dei principali problemi che investono l’università italiana, riprendendo alcuni stereotipi ad essa connessi, dalla bassa qualità dei docenti alla scarsa competizione con le università all’estero. Per ognuno di questi temi, l’autore offre una presentazione sintetica ma, allo stesso tempo, esaustiva e soddisfacente, che stimola approfondimenti e nuove riflessioni. L’obiettivo principale del libro è chiaro: rompere i tabù e i luoghi comuni intorno all’università italiana, offrire un quadro d’insieme sulle evoluzioni più recenti del sistema accademico italiano e provare a lanciare alcuni stimoli per un tavolo di discussione sulle sfide a venire. Per fare questo, Viesti inizia la sua analisi offrendo una prospettiva storica, che muove da un’iniziale presentazione delle problematiche strutturali del sistema di educazione terziaria in Italia per poi concentrarsi, sulle più recenti evoluzioni. Il dato generale rilevato è allarmante. A partire dal 2010, anno della riforma Gelmini, e inizio della parabola discendente degli investimenti pubblici dell’Italia nell’università, il fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università statali è stato ridotto, in termini reali, di oltre il 20%. Contrariamente ad altri Paesi dell’Unione Europea, Germania in primis, che, invece, hanno aumentato la spesa per le università, l’Italia ha assistito ad una riduzione drastica del personale docente, attraverso il blocco del turnover e quindi delle assunzioni di giovani ricercatori, i quali hanno rinunciato a proseguire il percorso accademico in Italia o hanno rinunciato alla prospettiva accademica in via definitiva. Al taglio strutturale delle risorse, si è accompagnato un vistoso aumento della tassazione studentesca, mentre la politica per il diritto allo studio (borse, alloggi, servizi) è rimasta estremamente modesta. Questo disinvestimento nell’università ha evidentemente determinato, come conseguenze, maggiori difficoltà da parte delle famiglie a mantenere il percorso di studi dei figli, e conseguentemente una contrazione delle immatricolazioni.

Risparmiare sull’istruzione. Questa riduzione delle iscrizioni è stata ovviamente diversificata a seconda del settore disciplinare, con le materie di area umanistica che hanno osservato un calo ben superiore al 20% della media nazionale, e a seconda della provenienza geografica, con un effetto ben più marcato al Sud Italia rispetto al Nord. La mancanza di un sistema di infrastrutture e trasporti adeguato, specialmente nel Meridione e la conseguente necessità di trasferirsi per poter studiare, ha portato le famiglie che hanno potuto permetterselo a mandare i propri figli nelle università del Nord, considerate di migliore qualità e con maggiori possibilità di trovare un lavoro successivamente alla laurea. Anche in questo caso, spiega bene Viesti, la retorica delle università di serie A e di serie B non ha indubbiamente aiutato a contenere quello che, oggi, si è trasformato in un vero e proprio fenomeno di migrazione dal Sud al Nord Italia. L’esito è stato la creazione di un gruppo ristretto di università di “eccellenza” in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, mentre il resto delle università italiane (prevalentemente del Centro, del Sud e delle Isole, ma anche del Nord “periferico”) sono state lasciate a languire in una situazione di crescente carenza di risorse. La retorica dell’eccellenza, supportata da quella che Viesti chiama «una densa cortina di indicatori ed algoritmi», non ha però aiutato ad individuare i problemi strutturali presenti nelle regioni meno sviluppate e svantaggiate del paese. Al contrario, essa è stata utilizzata come giustificazione per l’attuazione di ulteriori disinvestimenti. Il tutto sotto il motto “meritocrazia virtuosismo valutazione”, che è stato fatto proprio dal vero nuovo giudice e deus ex machina della politica universitaria italiana: l’ANVUR. Nata come istituzione deputata ad assistere il Ministero nelle sue scelte, commenta Viesti, l’Agenzia ha assunto sempre più un ruolo del tutto improprio di decisore politico. I suoi commissari sono scelti nominativamente dal Ministro e non sono rappresentativi di tutte le componenti del sistema universitario. Il potere dell’ANVUR nella valutazione è pressoché totale tanto da poter ignorare, come già accaduto in passato, anche il parere dello stesso Parlamento. Solo il ministro ha il potere di controllarne l’operato ma, spesso, questo non succede. Per questo si lascia che un’agenzia decida, attraverso una serie di indicatori che si dicono essere “oggettivi”, la valutazione delle performance degli atenei e la destinazione dei finanziamenti. Taglio degli investimenti, de-responsabilizzazione politica e delegazione della valutazione delle performance degli atenei ad un gruppo ristretto di tecnici sono fattori che hanno determinato un cambio strutturale all’interno del mondo accademico italiano. A questo cambiamento nelle forme di finanziamento, nei meccanismi di governance e di controllo, come sottolinea bene Viesti, si è accompagnato anche un cambio di paradigma, a livello normativo. Insieme agli attori, si potrebbe dire, sono cambiate anche le idee. A partire dal 2008, infatti, nel clima delle riforme dettate dalle necessità di maggiore austerità, l’Italia si è sempre di più avvicinata ad un modello neo-liberale di finanziamento del sistema universitario, molto simile all’esempio anglosassone. Commenta Viesti: «L’idealizzazione di un centro riformatore, composto da pochi “illuminati” (n.d.r. l’ANVUR), in grado di assestare una severa punizione alle autonomie e di portare il sistema sulla strada giusta, ha mescolato l’idealizzazione della concorrenza di mercato applicata al sistema universitario con l’esercizio di un forte potere gerarchico». Troppi studenti, troppi professori, assunzioni facili, troppi costi, bassi standard internazionali, poca voglia di studiare, poco merito: questi sono stati gli argomenti che hanno accompagno la nuova retorica del merito, con la quale poi si sono giustificati, come necessari, i tagli indistinti ai finanziamenti. Indicatori “oggettivi” per premiare il “merito” e fermare gli “sprechi”: quale migliore argomento in tempi di austerità e crisi?

Il modello di università a cui dovremmo ambire secondo Viesti. Eppure, come mostra bene Viesti, nel suo saggio, le performance del sistema universitario italiano non sono al di sotto di quelle degli altri stati membri dell’UE, sia in termini di numero pubblicazioni sia in termini di qualità della ricerca. Addirittura se confrontati a parità di condizioni di partenza, l’università italiana avrebbe un potenziale anche maggiore. Il che sorprende se pensiamo che l’investimento italiano nel settore dell’educazione terziaria è di gran lunga inferiore agli altri stati membri dell’UE. Per dare un’idea, nel 2015 il finanziamento pubblico in Italia è stato di 7 miliardi, contro i 28,7 della Germania, dei 23,7 della Francia e dei 9,8 del Regno Unito, che prevalentemente si basa su un sistema di risorse private. Ancora, rapportando la spesa pubblica alla popolazione, si vede che nei Paesi Scandinavi la spesa media annua per l’educazione terziaria per abitante è di 600 euro, 350 in Germania e Francia, 150 nel regno unito e solo 110 in Italia. Se dunque la realtà dell’università non corrisponde all’immagine che se ne è voluto dare, cadono anche le giustificazioni retoriche che hanno accompagnato i tagli di questi ultimi anni. A meno che, chiaramente non si ritenga che, nonostante, tutta l’università non sia importante.  Su questo aspetto, non è mancata la retorica di chi ha voluto sottolineare l’assenza di un collegamento con il mondo del lavoro, l’incapacità delle università italiane di fornire ai propri studenti strumenti, capacità e competenze oltre che nozioni. Anche su questo punto, Viesti offre una prospettiva alternativa, che non nega il problema esistente relativamente al passaggio tra mondo dell’università e quello del lavoro, ma inserisce il dibattito in una cornice più complessa e meno semplicistica. Ad esempio, portando i dati riguardo l’indice di occupazione dei neo-laureati, che è di gran lunga maggiore rispetto ai non laureati, a prescindere dal tipo di settore disciplinare. Ma la riflessione del professore di economia, non si limita ad una semplice analisi dei costi benefici. L’argomentazione va ben oltre e si inserisce in un quadro più ampio di visione della politica e della società. Abbracciare, come è stato fatto in questi anni, un approccio all’università basato sui tagli e sull’investimento in presunti centri di eccellenza significa, infatti, perdere di vista la funzione politica dell’università, come motore di progresso sociale, emancipazione di luoghi e spazi geografici, creazione di idee e novità e culla di coscienza critica e partecipazione democratica. Ed è proprio questa riduzione dell’università ad una logica di mercato, ad un’analisi dei costi e benefici che Viesti critica. Non dovrebbe essere questo, infatti, il modello di università cui vorremmo ambire, secondo l’autore, che per questo, alla fine del suo saggio, prova ad offrirci un quadro alternativo e inizia ad abbozzare anche alcune prime risposte.

Scritto da Francesco Corti. Nato nel 1992. Dottorando in Studi Politici presso l'Università degli Studi di Milano, dove si occupa di Unione Europea e politiche sociali. Fa parte del team di ricerca "REScEU: Reconciling economic and social Europe" e della FEPS YAN. Ha lavorato al Parlamento Europeo e continua, tuttora, come prestatore di servizi.

“LA LAUREA NEGATA. LE POLITICHE CONTRO L’ISTRUZIONE UNIVERSITARIA”. Di Gianfranco Viesti su letture.org.

Prof. Gianfranco Viesti, Lei è autore del libro La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria edito da Laterza: qual è lo stato dell’università italiana?

«L’università italiana aveva problemi di quantità e di qualità. Era molto più piccola, in comparazione con gli altri paesi avanzati. Mostrava criticità nel suo funzionamento. Le riforme l’hanno portata in una direzione estremamente discutibile: l’hanno fatta diventare di dimensione inferiore, ma non di migliore qualità. Nel giro di pochi anni l’Italia ha percorso a grandi passi all’indietro il cammino verso un maggiore livello di istruzione superiore della sua popolazione. L’università italiana, per la prima volta nella sua storia, è diventata più piccola: di circa un quinto. La riduzione è stata molto maggiore di quanto non sia avvenuto negli altri comparti dell’intervento pubblico. Né ha paragoni negli altri Paesi colpiti dalla crisi. Va comparato con aumenti anche sensibili registrati altrove, a partire dalla Germania. Il fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università statali è stato ridotto, in termini reali, di oltre il 20%. Per tagliare così tanto la spesa si è ridotto il numero dei docenti (che rappresentano la principale voce di costo delle università) attraverso un prolungato blocco del turnover, cioè del ricambio del personale andato in pensione. I docenti sono diminuiti di quasi quindicimila (e il personale tecnico-amministrativo si è pure notevolmente ridotto). Le porte dell’università sono state chiuse a tutta una leva di giovani ricercatori. Una parte di essi si è dovuta accontentare di posizioni precarie, sottopagate e senza prospettive chiare di carriera. Un’altra parte ha preso la via dell’estero: ha avuto accesso ai sistemi universitari degli altri paesi, soprattutto europei, cui abbiamo regalato un “capitale umano” formato e di qualità. L’età media dei docenti, senza ricambio, è cresciuta molto. Al taglio draconiano delle risorse pubbliche è corrisposto un vistoso aumento della tassazione studentesca, mentre la politica per il diritto allo studio (borse, alloggi, servizi) è rimasta estremamente modesta. Ciò ha acuito le difficoltà economiche delle famiglie; non poche hanno rinunciato all’istruzione universitaria per i propri figli. Anche le immatricolazioni – già molto inferiori a quelle degli altri paesi europei – sono diminuite di circa un quinto rispetto ai livelli massimi del passato. Hanno rinunciato all’università più degli altri i diplomati degli istituti tecnici e professionali; quelli provenienti da famiglie a reddito più modesto; quelli del Mezzogiorno. I tagli non sono stati uguali per tutti: e il sistema, oltre che più piccolo è divenuto molto più differenziato al suo interno. Si sono ridotti molto di più gli insegnamenti di area umanistica. Si è teso a creare una netta suddivisione fra atenei di serie A, relativamente protetti, e atenei di serie B, su cui si sono concentrati i tagli. Si è creato un piccolo gruppo di università di serie A in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna; il grosso delle università italiane (del Nord “periferico”, del Centro e del Sud continentale) sono state lasciate a languire in una situazione di crescente carenza di risorse; gli atenei di Sicilia e Sardegna sono stati ridotti ai minimi termini. Si è deciso di disinvestire, per la prima volta nella storia unitaria, nella formazione superiore proprio nelle aree del paese in cui i livelli di istruzione sono più bassi (bassissimi in comparazione europea), e il ruolo delle università più importante. Sono state messe in atto una serie di misure che hanno favorito la migrazione degli studenti dal Mezzogiorno verso il resto del paese. Si è provato a mascherare questa scelta dietro una densa cortina di indicatori ed algoritmi, e dietro i ripetuti, onnipresenti, richiami al merito e all’eccellenza. In realtà si è operata una scelta politica esplicita, frutto della convinzione che sia bene concentrare le risorse sulle aree più forti del paese. La vita delle università e degli universitari è venuta sempre più ad essere dominata da un insieme minuzioso di regole e prescrizioni emanate dal Ministero, e, ancor più dall’Anvur. Nata come istituzione deputata ad assistere il Ministero nelle sue scelte, l’Agenzia ha assunto sempre più un ruolo del tutto improprio di decisore politico. Composta da Commissari scelti nominativamente dal Ministro, non rappresenta le diverse componenti del sistema universitario; non si cura di raccogliere e suscitare consenso intorno alle sue decisioni. È depositaria della verità: conosce tutti i problemi, e soprattutto tutte le soluzioni; e le mette in atto attraverso poteri coercitivi. Il sogno del riformatore illiberale: un gruppo di saggi, di “prescelti” che finalmente illumina la via, e costringe un sistema anarchico e irresponsabile a seguirla. In barba al Parlamento e al dibattito pubblico, l’Anvur ha fatto e fa una parte molto importante della politica della ricerca nel nostro paese. Stabilisce cosa è ricerca di qualità e non; quali sono i campi e le metodologie di indagine opportune e quali meno; e a tutto applica rigidi indicatori numerici. Vicende che potrebbero assumere anche connotanti divertenti, nelle loro dimensioni orwelliane, se non stessero plasmando a rigida indicazione di un ristretto numero di sapienti le dimensioni di istituzioni, che dovrebbero godere di autonomia ed essere fucina di saperi critici e confronto di opinioni».

Perché l’università è importante?

«In primo luogo perché il minore livello di istruzione della popolazione, e in particolare la scarsa diffusione degli studi universitari, è certamente uno dei fattori che ha ostacolato e ostacola il complessivo sviluppo economico del nostro paese. Quantomeno per mantenere il proprio posizionamento nel quadro internazionale del futuro, all’Italia serviranno nei prossimi lustri molti più laureati. Soprattutto considerando che la percentuale di laureati fra gli occupati italiani è oggi molto inferiore a quella degli altri paesi europei (circa la metà rispetto a Regno Unito, Francia, Spagna); lo stesso accade fra i manager e gli stessi imprenditori. Averli non garantisce di per sé la prosperità futura. È necessario che siano dei “buoni” laureati: con un elevato bagaglio di conoscenze, ma soprattutto con un processo formativo che consenta loro di acquisirne continuamente di nuove. È necessario che essi siano assunti dalle imprese e dalle amministrazioni pubbliche con contratti che garantiscano loro prospettive di impiego e di carriera, con stipendi che premino le loro capacità. Va favorita la loro possibilità di auto-impiego e di avvio di nuove imprese, attraverso lo sviluppo di canali finanziari specializzati e la riduzione degli ostacoli che essi trovano sul loro cammino. Una politica per l’istruzione richiede una buona politica industriale e dell’innovazione per produrre forti risultati economici. La disponibilità di molti buoni laureati è condizione necessaria ma non sufficiente. Ma, appunto, è necessaria. Ed è un investimento profittevole per la collettività. I calcoli dell’OCSE producono risultati indiscutibili: la circostanza che un cittadino italiano arrivi alla laurea invece che fermarsi al diploma determina un beneficio monetario pubblico intorno ai duecentomila dollari, sei volte superiore al costo pubblico dei suoi studi. L’accesso all’università è, e sarà sempre di più, una opportunità essenziale di realizzazione personale. Specie per chi proviene da famiglie senza rilevanti patrimoni o redditi elevati; per le donne; per chi nasce nelle regioni più deboli. La mobilità intergenerazionale in Italia è bassa: le disparità economiche e sociali si trasmettono molto dai genitori ai figli. La formazione universitaria continua a rappresentare un motore di mobilità: fra i laureati italiani solo tre su dieci hanno almeno un genitore laureato; solo due su dieci a Bari o a Cagliari; ancora meno in Basilicata: sono le percentuali più basse fra tutti i paesi avanzati. Offre la possibilità a chi proviene da condizioni economiche e sociali più modeste di modificare la propria collocazione sociale; di impedire, per quanto possibile, che le caratteristiche delle famiglie e dell’ambiente d’origine determinino lo status economico e sociale. Ci si riesce solo in parte: le probabilità di frequentare l’università resta ad esempio decisamente più alta per chi proviene da famiglie a maggior reddito. Motivo per estendere l’istruzione superiore a fasce più ampie di giovani, specie promuovendo strumenti che rendano concreto il diritto allo studio per chi ha minori possibilità economiche. Ma l’importanza dell’università non si ferma ai benefici per chi la frequenta. Come la scuola, svolge un ruolo fondamentale per lo sviluppo civile e sociale di un paese. Avere più laureati produce effetti positivi per l’intera collettività. Una popolazione con un maggiore livello di istruzione è in grado di badare meglio alla propria salute: è maggiore la consapevolezza dell’importanza della prevenzione, e del costo di comportamenti a rischio. Questo consente, oltre che un migliore benessere individuale, notevoli risparmi per i sistemi sanitari pubblici. Le tavole di mortalità per livello di istruzione mostrano che mediamente un laureato (maschio) ha una aspettativa di vita di 5,2 anni superiore rispetto ad un italiano con al più la licenza media. L’istruzione produce cittadini più attivi e responsabili, con una maggiore partecipazione alla vita politica e culturale: la presenza di università in una regione è collegata ad un atteggiamento favorevole ai valori democratici dei suoi cittadini. L’innalzamento del livello medio di scolarizzazione della popolazione implica una consistente riduzione della probabilità di commettere reati sia contro la persona che contro il patrimonio; l’istruzione riduce gli incentivi a delinquere perché ne riduce il guadagno aggiuntivo, aumenta le opportunità di socializzazione e rende meno probabili gli effetti imitativi devianti diffusi in comunità deprivate. Anche in Italia, gli ambiti sociali e le aree geografiche in cui è minore il livello di istruzione sono quelli in cui vi è maggiore diffusione della criminalità».

Quali politiche universitarie sono state adottate nel nostro Paese?

«L’Italia ha compiuto, a partire dal 2008, una delle scelte che più peseranno sul suo futuro: quella di comprimere e distorcere il proprio sistema universitario pubblico. Il processo è stato avviato prima delle politiche di austerità e dell’enfasi sulle “riforme strutturali”. Ma dal clima politico-culturale cui si è accennato ha tratto forte alimento. La volontà politica del Ministro Tremonti di colpire finanziariamente le università ha incontrato gli interessi di alcuni atenei a definire un sistema su più livelli di qualità, in cui essi fossero al vertice. Le parole d’ordine neo-liberali, derivate in particolare dall’esperienza del Regno Unito, sono penetrate anche in ambienti del centro-sinistra “moderno”. L’idealizzazione di un centro riformatore, composto da pochi “illuminati”, in grado di assestare una severa punizione alle autonomie e di portare il sistema sulla strada giusta, ha mescolato l’idealizzazione della concorrenza di mercato applicata al sistema universitario con l’esercizio di un forte potere gerarchico. Il sistema è stato radicalmente trasformato da una valanga di norme. Il Parlamento ha approvato una legge di riforma (la “Gelmini” del 2010) di portata piuttosto ampia, ai tempi del governo Berlusconi. Ma i suoi effetti sono stati amplificati e precisati da un vasto insieme di provvedimenti successivi. Cambiato il governo, non sono mutate per nulla le scelte politiche; anzi un filo coerente si è dipanato attraverso l’azione di esecutivi apparentemente di indirizzo ben diverso: da Berlusconi a Monti, a Letta, con forte slancio con Renzi. Come se questi governi avessero idee identiche sul presente e sul futuro di una istituzione così complessa e articolata come l’università. Come se non ci fossero più differenze sui grandi temi che le politiche universitarie coinvolgono: l’universalismo dei diritti, costi e benefici dei servizi pubblici, lo sviluppo territoriale, gli indirizzi per la ricerca. Condividendo un pensiero unico che ha attraversato tutto il decennio. Un pensiero che corrisponde a una narrazione sommaria: l’università italiana, come si vede dalle classifiche internazionali, è scadente e i suoi professori non sono promossi per merito; lavorano poco e in modo antiquato: fanno poca ricerca sugli standard internazionali; gli studenti sono troppi, e molti fra di essi sono pigri, “fuori corso” e vogliono studiare sotto casa. Non vale quanto costa allo Stato. È un prodotto dell’Italia del passato, della Prima Repubblica, della spesa pubblica e delle assunzioni facili. Occorre allora praticare la valutazione e premiare il merito; selezionare diversamente i docenti e incentivare gli studenti a muoversi e a frequentare gli atenei migliori; è necessario sostenere i corsi di laurea moderni e utili, legati direttamente al mondo del lavoro. Disboscare la rete delle università; concentrare le risorse finanziarie su alcune, di eccellenza e fare in modo che le altre costino molto meno alla collettività. Una comunicazione che a strizza l’occhio all’Italia preoccupata dalla crisi e attenta al proprio particolare. “Risparmio”, per tutelare il portafoglio del contribuente; “merito” al posto della spesa pubblica a pioggia del passato, per combattere i corrotti e i fannulloni; indicatori “oggettivi” e tecnici al posto di scelte politiche; la tutela degli interessi dei territori più forti. L’attuazione di questo pensiero è stato affidata ad una piccola élite: alcuni dei Ministri che si sono succeduti, specie quelli provenienti dalle fila delle università; alcuni dirigenti apicali del Ministero; alcuni consulenti della Presidenza del Consiglio; alcuni docenti chiamati a guidare la nuova Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca, l’Anvur. Come sta avvenendo per altre importanti politiche pubbliche (ad esempio i criteri di finanziamento degli enti locali), l’effettivo potere decisionale è stato di fatto sottratto alle rappresentanze parlamentari e concentrato nelle mani di pochi esperti. Essi, apparentemente, sono immuni dai condizionamenti deteriori della politica, sanno quel che serve al paese, operano in base a criteri oggettivi di efficienza e di merito. In realtà, sono orientati dalle proprie convinzioni politico-ideologiche, in ossequio alle quali costruiscono gli indicatori e le norme: che presentano però sempre come scelte tecniche, mascherandone i criteri di scelta e le conseguenze politiche».

Di quali riforme ha bisogno l’università italiana?

«Non si sfugge: serve un investimento pubblico molto più grande sull’università italiana; che ci avvicini progressivamente alla situazione degli altri paesi europei e inverta le tendenze delle politiche degli ultimi anni. Bisogna investire risorse pubbliche molto maggiori in primo luogo sul diritto allo studio, e in generale sui servizi per gli studenti per accrescere progressivamente i tassi di passaggio dalle superiori all’università, specie per i ragazzi e le ragazze di estrazione sociale più modesta e provenienti dai territori più deboli; per accompagnarli meglio nel loro percorso di studio, abbattere gli abbandoni e aumentare così il livello complessivo di istruzione. È necessario ricondurre la tassazione universitaria ad una funzione ancillare rispetto al finanziamento statale, ben delimitata e governata da principi condivisi: tetti invalicabili rispetto al finanziamento pubblico e interventi di esenzione validi per l’intero paese. Porsi questi obiettivi significa anche investire sulle città: intervenire sulla qualità della vita urbana, sui trasporti, sulla produzione e fruizione di cultura per i ragazzi. Investimenti proficui: città con più studenti non sono solo più vive e più belle: ma sono anche incubatori di idee, progetti, imprese. In secondo luogo l’investimento va mirato sui giovani studiosi: umiliati, vilipesi, tenuti al margine, spinti a fuggire. La politica degli ultimi anni ha chiuso le porte agli atenei e li ha resi un mondo sempre più anziano. È necessario un grande investimento per immettere progressivamente nelle università una nuova leva di studiosi, dare certezze a chi è precario, offrire una chance a chi è all’estero e accoglienza a giovani stranieri. Attraverso processi selettivi trasparenti, non bizantini né particolaristici; in cui siano valutate complessivamente capacità e conoscenze, abilità nell’insegnamento e qualità dei percorsi di ricerca dei candidati e non solo applicati algoritmi tanto complicati quanto distorsivi. Non servono regole dettagliate calate dell’alto: ma pochi principi e direttivi e una grande trasparenza. Un tema, quello del reclutamento, decisivo per ricreare fiducia nelle università e sulle università; e per renderle, grazie ad una nuova grande e qualificate leva di studiosi, un’infrastruttura culturale e scientifica di qualità sempre maggiore. L’investimento va fatto in tutto il paese. Anche in questo campo l’Italia deve guardare con attenzione molto più al modello tedesco che alle sirene del neoliberismo anglosassone. Un paese forte ha un sistema universitario diffuso e di buona qualità, presente sui territori, ricco di opportunità di collaborazione e con un’ampia mobilità, in tutte le direzioni, di docenti e ricercatori. Fra i frutti più avvelenati delle politiche degli ultimi anni vi sono certamente la grande incertezza della disponibilità di risorse, con la conseguente impossibilità di programmare; una sotterranea guerra fra sedi per spartirsi qualche briciola del finanziamento; l’attenzione al proprio particolare perdendo di vista l’interessa generale e del paese. Per raggiungere questo obiettivo, il sistema di finanziamento va semplificato e reso stabile. Il fondo di finanziamento ordinario potrebbe essere integralmente costruito sul costo standard, così come opportunamente, recentemente, riformulato dal Parlamento. Individuando così le risorse per ogni ateneo; e nella loro somma il fabbisogno complessivo di base del sistema da soddisfare. Meccanismo che, essendo parametrato al numero di studenti, stimola non poco le università a disegnare offerta formativa e servizi sempre migliori. La cosiddetta quota premiale, con i suoi meccanismi discrezionali e distorsivi andrebbe semplicemente abolita. Si dovrebbe saggiamente riconoscere di aver realizzato una lunga sperimentazione, ma con esiti molto negativi, e cambiare verso introducendo nel sistema altri schemi e meccanismi di governo, di incentivo e di premio per il miglioramento della qualità».

Gianfranco Viesti è Professore Ordinario di Economia Applicata presso l’Università degli studi di Bari Aldo Moro

·        Laurea…non c’è.

AlmaDiploma, i genitori «scelgono» le superiori e poi uno studente su due si pente. Pubblicato mercoledì, 29 gennaio 2020 da Corriere.it. Avere 19 anni ed essersi già pentiti della strada imboccata. Quasi metà dei ragazzi italiani che si sono diplomati l’anno scorso (44,7%) è convinta di aver «sbagliato scuola». Uno su tre (il 32,6%) potendo tornare indietro sceglierebbe un indirizzo di studi diverso; mentre un altro 12,1% ripeterebbe lo stesso corso, ma in una scuola differente per studiare altre materie o per prepararsi meglio al mondo del lavoro. Anche quest’anno la fotografia dei diplomati italiani contenuta nel rapporto AlmaDiploma è abbastanza sconsolante. Nonostante si faccia un gran parlare di orientamento, evidentemente qualcosa ancora non funziona nel passaggio delicatissimo dalle medie alle superiori se i ragazzi si fanno guidare più dai genitori che dai consigli dei loro prof: il parere di mamma e papà è considerato rilevante dal 65% degli studenti, mentre il 42% dà più peso ai giudizi orientativi espressi dai docenti. Pochissimi, a 14 anni, sono in grado di decidere di testa propria o comunque di non subire l’influenza dell’ambiente circostante. Non sorprende che, alla fine del percorso, in tanti si dichiarino pentiti.

Iscrizioni: «sbagliare la scelta delle superiori si paga per tutta la vita (lavorativa)». Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it. Scegliere la scuola superiore non è solo questione di attitudine. Il nuovo studio triennale «New Skills at Work», dell’ Università Bocconi e JP Morgan, dimostra come l’Italia paghi il «mismatch» tra competenze e richieste del mercato con una penalizzazione del 9% sulle retribuzioni. E dire che basterebbe una migliore qualità dell’informazione alle famiglie durante l’orientamento alla fine delle medie, per invertire questi risultati e fare la differenza per una intera generazione di ragazzi e ragazze. Alle radici del disallineamento tra le esigenze del mercato del lavoro e le competenze disponibili (il cosiddetto skill mismatch) c’è la scelta che centinaia di migliaia di giovani stanno compiendo in questi giorni: quella della scuola superiore e, più avanti, dell’università. A livello internazionale, si calcola che siano i giovani di Italia, Estonia e Irlanda a pagare il conto più alto. «Nella scelta della scuola superiore, le famiglie e i ragazzi sono troppo focalizzati su aspetti di breve termine, come il gradimento dello studente, l’impegno necessario e la qualità percepita dell’istituto, e troppo poco sugli aspetti di lungo periodo, come le prospettive in termini di mercato del lavoro o di accesso all’università», spiega Pamela Giustinelli, professoressa di Economia alla Bocconi, co-autrice di uno studio sulla scelta della scuola superiore. A fronte di un amplissimo ventaglio di proposte formative, la conoscenza delle scelte possibili da parte di studenti e genitori all’inizio della terza media è piuttosto limitata. Il processo di raccolta delle informazioni tende, inoltre, a concentrarsi su quelle che, già all’inizio, erano le alternative preferite. Tali alternative dipendono molto dal background socio-economico delle famiglie e, in parte, dai risultati ottenuti dallo studente. In particolare, gli studenti nelle condizioni più disagiate sembrano prendere in considerazione pochissime alternative. Nel caso in cui l’alternativa inizialmente preferita non fosse la più adatta allo studente, un percorso di raccolta delle informazioni così concentrato potrebbe impedire alle famiglie di ottenere consapevolezza delle alternative più adatte. In un altro studio dello stesso report, Massimo Anelli, altro professore della Bocconi, analizza la scelta universitaria attraverso una comparazione con la Germania, il grande paese europeo con la struttura produttiva più simile alla nostra. Entrambi i paesi registrano una percentuale di laureati molto più bassa che il resto d’Europa, ma negli ultimi 15 anni la disoccupazione dei laureati tedeschi nella fascia d’età 25-39 anni ha oscillato tra il 2 e il 4%, quella degli italiani tra l’8 e il 13%. «Alla base di questa situazione c’è anche un’informazione inadeguata sugli esiti lavorativi e retributivi delle diverse facoltà, che porta a una scelta basata sulle sole preferenze individuali per le diverse discipline», afferma Anelli. In particolare, la Germania laurea molti più giovani in informatica, ingegneria, economia e management, mentre l’Italia doppia la Germania per laureati in scienze sociali e discipline artistiche e umanistiche e il primo gruppo di lauree rende, in termini economici, tra il 70% e il 100% più del primo.

Nicola Borzi per “il Fatto Quotidiano” il 13 gennaio 2020. Era il 2 dicembre 2013 quando l'allora ministro dell' Interno albanese, Samjr Tahiri, annunciava che "una decina di studenti italiani" erano "indagati a Tirana per aver conseguito una laurea senza aver mai seguito le lezioni nelle università private albanesi". Tahiri aggiungeva che Renzo Bossi, figlio di Umberto fondatore della Lega Nord ed ex consigliere regionale lombardo, era "uno dei casi". La laurea del "Trota" all' università privata Kristal di Tirana era stata scoperta a maggio 2012 nella cassaforte dell' ex tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito, durante le indagini sulle presunte distrazioni dei fondi del Carroccio. Renzo Bossi disse non sapere nulla di quel pezzo di carta. Ma il figlio del Senatùr non è stato l' unico politico a finire sotto la lente per i soldi versati a università private. Il primo aprile 2017 un giudice Usa approvò la chiusura di una causa contro la fantomatica Trump University attiva dal 2005 al 2010. Furono pagati 25 milioni di dollari a studenti che avevano dichiarato di essere stati ingannati dall' attuale Presidente e dalla sua ormai estinta università che prometteva di svelare i "segreti del successo" nel settore immobiliare. I "seminari" erano costosi: un "apprendistato di un anno" costava 1.495 dollari, un "abbonamento" oltre 10mila e le classi "Gold Elite" 35mila. È solo la punta dell' iceberg del fenomeno mondiale delle lauree, master e dottorati falsi, tornato alla ribalta della cronaca nei mesi scorsi con la scoperta che la società pakistana Axact ha venduto per anni lauree false e incassato 140 milioni di dollari. Lo scandalo ha portato a 22 condanne di vent' anni ciascuna. Un mercato gigantesco che si basa sulla voglia di conquistare a ogni costo - anche violando la legge - il "pezzo di carta" necessario per intraprendere una professione e che sfrutta le differenze e i vuoti normativi tra Paesi diversi, grazie all' inventiva di criminali senza scrupoli. Un esperto in materia è Allen Ezell, ex agente dell' Fbi che nel 1980 diede il via all' Operazione Dipscam ("falsi diplomi") venduti dalla fantomatica Southeastern University di Greenville, nella Carolina del Sud. Dopo 12 anni di inchieste da parte di numerose istituzioni Usa, furono chiuse 39 false università che avevano venduto oltre 12.500 falsi attestati e incarcerati una ventina di truffatori. Ezell indica in oltre 5mila le università ancora oggi non riconosciute in tutto il mondo, molte delle quali false, vendono lauree, master, dottorati a chiunque, oltre a 1.500 "fabbriche di accreditamento" per sviare i controlli e oltre 500 siti web che vendono lauree. Nessuna nazione è immune, le indagini vanno avanti visto che spuntano come funghi. La maggiore tra queste "fabbriche di diplomi" era il Programma di laurea universitaria (Udp) attivo dal 1998 al 2003 con 22 false scuole in tutta Europa, gestito da due americani che utilizzavano due call center telefonici (a Bucarest e Gerusalemme) aperti 24 ore al giorno sette giorni su sette. Udp ha venduto oltre 250mila titoli e incassato almeno 435 milioni di dollari. Ezell stima che a fronte di 40-45mila dottorati autentici conseguiti ogni anno negli Usa, quelli falsi sono oltre 50mila l' anno. Un' indagine del 2003 del Gao, l' equivalente statunitense della Corte dei Conti, stimava che oltre 100mila dipendenti federali avevano comprato false lauree. Per dimostrare la facilità di comprare una laurea il Gao ne acquistò due a nome del deputato Claude Pepper e della senatrice Susan Collins, con tanto di "verifica" al numero telefonico della finta università. I titoli falsi rilasciati da "fabbriche di diplomi" esistono negli Usa almeno sin dal 1730. Nel 1880 il settore era fiorente. Nel 1924, il Senato di Washington tenne audizioni pubbliche sulla materia. Solo nel 2008, con la legge sull' educazione avanzata (Heao) gli Stati Uniti hanno dato una definizione di "fabbrica di titoli", in modo da poter agire in giudizio contro queste truffe. Ma le successive proposte di leggi federali di contrasto non sono mai state approvate. I diplomifici operano sempre più dal web e si avvantaggiano delle norme Usa sulla libertà religiosa: spesso queste attività sono schermate dietro la facciata di chiese o congregazioni. Nel 2008 il servizio segreto Usa fece saltare la truffa realizzata sin dal 2002 da criminali Usa per vendere false lauree dell' inesistente Università St. Regis. Con la creazione di un' altra falsa università, la Randolph Addison Davis Technical University, gli agenti si infiltrarono nello schema della St. Regis e delle sue 120 finte scuole, verificando il coinvolgimento di complici in Nigeria e di un alto funzionario dell' ambasciata liberiana a Washington. Si scoprì che la Radtu aveva venduto 10.815 diplomi a 9.612 clienti in 131 Paesi incassando più di 7,3 milioni di dollari. Furono arrestate e condannate otto persone. Il business spesso finanzia altre attività criminali: Anders Breivik, il neonazista norvegese che nel luglio 2011 ha ucciso 77 persone nelle stragi di Oslo e Utøya, ha pagato le sue armi con 630mila dollari ottenuti vendendo falsi diplomi sul web. Le vittime non si contano e non solo in campo medico. Gerald Morton Shirtcliff rubò l' identità e i titoli accademici dell' ingegnere civile londinese William Anthony Fisher, suo ex collega, e grazie a questi titoli falsi diresse la costruzione dei sette piani dell' edificio Ctv a Christchurch, in Nuova Zelanda. Il 22 febbraio 2011 un terremoto colpì la città: l' edificio crollò e uccise 115 persone.

·        Cervelli in Fuga.

Da “il Giornale” il 12 gennaio 2020. Se nel 2018 sono stati 62mila circa i cosiddetti «cervelli in fuga» che hanno lasciato l' Italia per trasferirsi all' estero, per contro, 598 mila giovani in età compresa tra i 18 e i 24 anni hanno abbandonato precocemente l' attività scolastica, rischiando di finire ai margini della nostra società. A dirlo è l' Ufficio studi della Cgia che con il suo coordinatore, Paolo Zabeo, afferma: «Premesso che perdere oltre 60mila giovani diplomati e laureati ogni anno costituisce un grave impoverimento culturale per il nostro Paese, è ancor più allarmante che quasi 600mila ragazzi decidano di lasciare gli studi anticipatamente. Un numero, quest' ultimo, 10 volte superiore al primo. Un problema, quello degli descolarizzati, che stiamo colpevolmente sottovalutando, visto che nei prossimi anni, anche a seguito della denatalità in atto, le imprese rischiano di non poter contare su nuove maestranze sufficientemente preparate professionalmente. Un problema che già oggi comincia a farsi sentire in molte aree produttive, soprattutto del Nord». Sebbene negli ultimi anni ci sia stata una contrazione del fenomeno, un elevato numero di giovani continua a lasciare prematuramente la scuola, anche dell' obbligo, concorrendo ad aumentare la disoccupazione giovanile, il rischio povertà ed esclusione sociale. Una persona che non ha un livello minimo di istruzione, infatti, è in genere destinata per tutta la vita ad un lavoro dequalificato, spesso precario e con un livello retributivo molto basso, rispetto a quello cui potrebbe aspirare, almeno potenzialmente, se possedesse un titolo di studio medio-alto. «Peraltro segnala il segretario della CGIA Renato Mason un Paese che aspira ad essere moderno, oltre a poter contare sull' utilizzo di tecnologie avanzate, è altrettanto importante che possa avvalersi di una manodopera qualificata».

·        Studenti in fuga.

Adattabili, globalizzati e versatili: il successo degli studenti con la valigia. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Emanuela Di Pasqua. Gli studenti che studiano all’estero si adattano meglio al mercato del lavoro. Non solo: lo scambio studentesco rende meno diffidenti verso gli altri e alla lunga agevola la costruzione della pace. L’apprendimento di una nuova lingua diventa alla fine una sola tra le tante ragioni per andare a studiare lontano da casa e fuori dal proprio Paese. Lo dice uno studio targato University of California-Merced che sottolinea come dai dati statistici che emergono gli studenti che studiano all’estero sono anche quelli che si sono inseriti meglio e più velocemente nella realtà lavorativa. Grazie a queste esperienze migliorano quelle che sono chiamate le «soft skill», cioè la capacità adattiva e la versatilità, la consapevolezza, l’emancipazione e molto altro. Si tratta di competenze trasversali tanto (e giustamente) richieste dalle aziende perché migliorano la capacità di lavorare in gruppo, la gestione dello stress, la fiducia in se stessi, l’autonomia, la capacità di adattamento, la capacità di comunicare e l’intraprendenza che vengono nutrite con particolare vigore dalle esperienze di mobilità (oltre a essere il risultato del background socio-culturale). In particolare negli Usa il 97 per cento dei ragazzi che vivono un’esperienza di studio oltre i confini del proprio Paese trova lavoro entro 12 mesi, rispetto al 49 per cento della popolazione complessiva. Persino i profili professionali sono più elevati e il guadagno risulta essere mediamente maggiore di 6000 dollari se comparato a chi si forma nel proprio Paese. C’è un’ulteriore riflessione da fare: chi viaggia e si inserisce in altre abitudini e contesti di vita diventa più facilmente tollerante verso usi e costumi differenti. Insomma, la partnership tra scuole del mondo contribuisce al processo di pace e avvicina le persone. In un mondo in cui gli studenti si spostano senza timori è probabile che la diffidenza verso l’altro smetta di esistere. I dati sono tutti americani, ma anche in Europa queste riflessioni trovano conferma. Proprio nei giorni in cui la Gran Bretagna dell’era Brexit fa la sua prima vittima e dice addio all’Erasmus, questi numeri fanno pensare. L’Italia (persino l’Italia) continua a registrare cifre da record nello studio fuori dai confini. Ultimamente il flusso della mobilità studentesca è aumentato sensibilmente. sia per lo sdoganamento di una cultura di carattere globale, favorita dai nuovi media e dai mezzi di interazione sociale, sia per una facilitazione del movimento sbloccata dai trattati e dai numerosi programmi di scambio culturale previsti per gli studenti europei. Negli ultimi dieci anni gli studenti italiani di scuole superiori impegnati in attività formative all’estero è triplicato e per quanto riguarda l’istruzione universitaria risulta che di tutti i laureati italiani una percentuale vicina al 10 per cento ha svolto un periodo di studi all'estero. Nonostante tutto l’America è avanti e in particolar modo queste conclusioni riguardano il rapporto con alcune nazioni, come la Cina, nei confronti delle quali la mobilità studentesca si sta trasformando anche in un potente strumento di dialogo (in tempi in cui se ne avverte un gran bisogno). Durante l’appuntamento di Washington dedicato all’education si sono distinte alcune realtà, come quella della Carlson School of Management at the University of Minnesota, che vanta un 100 per cento di iscritti che si forma fuori. «Vogliamo studenti adattabili, flessibili, felici di spostarsi in altri posti e curiosi di altre culture» ha dichiarato Sri Zaheer, della Carlson School. A proposito di soft skill.

Ragazze e studenti del Nord. Ecco chi lascia la scuola. Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 su Corriere.it da Federico Fubini. Eppure era già stato detto tutto nella Costituzione e nient’altro dovrebbe essere necessario aggiungere. All’articolo 34 si legge: «La scuola è aperta a tutti. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». E ancora: «La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Non potrebbe essere più chiaro. E se solo i costituenti potessero tornare fra noi, concluderebbero forse che le loro parole non sono cadute del tutto nel vuoto. Tre quarti di secolo dopo, l’analfabetismo in Italia è arretrato e l’istruzione superiore si è diffusa. Anche nelle distanze più brevi qualcosa si muove dato che l’Istat, l’istituto statistico, misura progressi su vari fronti: nell’ultimo anno registrato (2018) aumenta la quota delle persone fra 25 e 64 anni di età che hanno raggiunto un diploma delle superiori; la malattia sociale dei giovani che non studiano né lavorano resta endemica — quasi un quarto del totale — ma arretra un po’; quanto alla percentuale di giovani laureati, non era mai stata così alta. Su tutti questi fronti restiamo indietro rispetto alle medie europee e ancora di più rispetto a Francia o Germania, certo. Ma tutti stanno evolvendo — benché in ritardo — nella direzione indicata dai costituenti per portare l’Italia fuori dall’arretratezza e dall’umiliazione della dittatura. A maggior ragione, resta da capire perché qualcosa non sta funzionando. In una Repubblica appassionata dei propri misteri questo oggi è probabilmente il più inosservato e inspiegato: gli italiani tornano a distaccarsi dagli studi; sempre meno spesso li concludono. Abbandonano più di prima, anche quando proseguire sarebbe stato gratuito o quasi. Ragazze e ragazzi lasciano la scuola prima del diploma e, se ci arrivano, scelgono più raramente di proseguire visto che meno di uno su due — flussi in netto calo — si iscrive all’università dopo le superiori. È un’involuzione degli ultimi tempi, concentrata nei ceti più deboli secondo l’Anagrafe nazionale degli studenti del ministero dell’Istruzione. Eppure, in teoria, non ha molto a che fare con le profonde recessioni dell’economia di un decennio fa. I dati non lasciano molti dubbi. Nel 2017 e 2018 il tasso di abbandono delle scuole è tornato a peggiorare, in controtendenza con l’andamento dell’occupazione (che migliora) e dell’economia (che migliorava e ora almeno non peggiora). Il fenomeno della cosiddetta «uscita precoce dal sistema di istruzione» si muove in contraddizione, anche, con le tendenze della società italiana: la quota di studenti che gettano la spugna prima del diploma aumenta di più nelle regioni maggiormente sviluppate e, a livello nazionale, in particolare fra le ragazze che pure erano sempre rimaste più dei maschi fra i banchi di scuola. In effetti non si notava dall’inizio delle serie statistiche nel 2004 un simile rovesciamento: il tasso generale di abbandono scolastico in questo secolo era sempre sceso, ma ora risale dal 13,8% al 14,5% negli ultimi due anni fino al 2018 (la media europea è al 10,6%). Le recessioni, in precedenza, avevano spiegato i passi indietro in alcune regioni molto produttive. In Veneto si era avuta un’impennata degli abbandoni scolastici fra i ragazzi in coincidenza con la recessione del 2008-2009 e con quella del 2011. Nel 2017 e 2018 invece l’economia veneta è cresciuta del 3,4%, il doppio della media italiana, eppure gli abbandoni precoci della scuola risalgono anch’essi a un ritmo doppio sulle medie nazionali con un balzo del 4%. In Lombardia il tasso di abbandono maschile, che aveva tenuto durante le crisi di un decennio fa, è ripreso a salire nel 2017-2018 proprio quando la regione è cresciuta economicamente di oltre il 4%. Gli studenti maschi che lasciano le scuole prima del diploma risalgono di due punti al 16,4%, un livello superiore a Lazio, Abruzzo e Molise. Quanto alle ragazze, fra loro i nuovi aumenti in media nazionale dell’ultimo biennio (dell’uno per cento, al 12,3%) sono più forti che per i maschi e si concentrano molto in Piemonte e in Veneto. In Campania la quota delle ragazze che lasciano la scuola — da sempre inferiore, ovunque — supera quella dei ragazzi. Se n’è parlato molto nei giorni scorsi nel «Forum Education», un incontro organizzato dal direttore del Festival della Comunicazione di Camogli Danco Singer con – fra gli altri — il sindaco di Milano Giuseppe Sala, il presidente di Generali Gabriele Galateri, l’ex ministro dell’Istruzione e oggi direttore all’Unesco Stefania Giannini, l’economista Fabrizio Barca, l’ex magistrato Gherardo Colombo e il direttore nazionale delle prove Invalsi Roberto Ricci. Proprio Ricci sottolinea come il ritorno degli abbandoni scolastici in Italia in questi anni resti da decifrare, anche per gli specialisti. Di certo rimane un termometro della società, della capacità dei genitori di seguire i figli, delle scuole di stare in contatto con le famiglie (e viceversa), dei ragazzi di vedere un futuro attraverso la propria stessa educazione. A loro la scuola sembra sempre di meno un ascensore sociale, anche se il Paese non è in recessione. Ma dato che in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna gli studenti che gettano la spugna sono fra un quinto circa e un quarto del totale ogni anno — livelli record in Europa — Ricci di Invalsi conclude: «Non esiste nei fatti un sistema scolastico nazionale». Anche perché, aggiunge il direttore delle prove Invalsi, «il condizionamento sociale è così forte che dopo otto anni fra i banchi i figli di genitori laureati hanno un vantaggio medio sui figli di genitori con licenza elementare che equivale a un anno intero di scuola».

·        La scuola dirupata.

La denuncia degli studenti: in una classe su tre fa freddo. Sondaggio di Skuola.net su 10 mila alunni. In quasi 9 casi su 10 i caloriferi non funzionano come dovrebbero. Situazione più critica al al Sud. C'è chi porta stufe e coperte. La Repubblica il 13 gennaio 2020. In classe fa freddo, poche storie. E' quanto denuncia uno studente su tre tra i 10 mila intervistati da Skuola.net. Con il Sud che soffre ancora di più: qui è il 40% dei ragazzi a lamentare disagi. La causa di tanto gelo? In quasi 9 casi su 10 i caloriferi non funzionano come dovrebbero. Il 31% degli studenti alle prese con le aule fredde dice che i termosifoni riscaldano solo in alcune aree del proprio istituto. Subito dietro c'è l'accensione a singhiozzo, per risparmiare sui costi di gestione: nel 28% dei casi i caloriferi vengono azionati solo poche ore al giorno. Più di un ragazzo su 10 - il 12% - riporta che l'impianto è addirittura rotto. Ma i termosifoni non sono gli unici imputati. Ad alimentare il gelo delle scuole intervengono anche altri elementi strutturali: è così per il 13% degli intervistati, che parla soprattutto di porte e finestre che non chiudono bene, disperdendo il calore di impianti già affaticati di loro. Ma le lezioni, quasi per tutti, devono andare avanti; così ci si organizza: il 62% degli studenti, per evitare il congelamento, rimane con giubbini, guanti e cappelli per tutta la giornata; nei casi più estremi ci si aiuta con plaid, coperte e stufette elettriche. Qualcuno però non ci sta e rimane a casa (11%). Rarissimo che la scuola venga chiusa a causa del freddo (4%), che si spostino i ragazzi negli ambienti più caldi (4%) o che si proceda all'orario ridotto (2%). Il fatto che si tenti di far buon viso a cattivo gioco, però, non vuol dire che il popolo della scuola digerisca la situazione in modo passivo. In oltre la metà dei casi (57%) si sono levati cori di protesta, quasi sempre (34%) da parte dei soli studenti; ma non mancano gli episodi in cui si sono uniti a loro anche i professori (19%) o sono stati direttamente questi ultimi a farsi portavoce del malcontento (4%). Tra le forme di protesta, il 26% ha scritto una lettera alle istituzioni scolastiche, il 23% ha scioperato silenziosamente. In più di un caso su 4, però, si è passati alle vie di fatto: con assemblee straordinarie (8%), autogestioni (7%), manifestazioni (5%), occupazioni (4%) e sit-in (3%).  

La scuola di Pierino e di Azzolina. Giancristiano Desiderio, 13 gennaio 2020 su Nicolaporro.it. È facile notare che una volta i ministri dell’Istruzione si chiamavano Francesco De Sanctis, Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Gaetano Martino, Salvatore Valitutti mentre oggi, per restare solo agli ultimi due, si chiamano Lorenzo Fioramonti e Lucia Azzolina. Eppure, se la scuola italiana è un sistema storicamente e socialmente esaurito che nessuno sa rimettere in sesto perché nessuno conosce nei suoi fondamenti giuridico-istituzionali l’osservazione ha un suo significato. Ad una scuola finita non può che corrispondere, di volta in volta, un ministro finito. La cosa più intelligente da fare è lasciare la scuola senza ministro. Nessuno se ne accorgerebbe, giuro; e ci sarebbero anche benefici. Lucia Azzolina ora si ritrova nella bufera perché la sua tesi di abilitazione all’insegnamento per le scuole superiori sembra che sia stata copiata. La stessa Azzolina, pur commentando il fatto e pur replicando alla richiesta di dimissioni avanzata dall’opposizione, non ha smentito la notizia ossia che il testo riprende integralmente passi di altri autori e altre opere senza citare le fonti. È un altro brutto caso per il M5S che vede sconfessati i suoi ideali, primo fra tutti l’onestà, dai suoi stessi rappresentanti e ministri. Il “caso Azzolina”, poi, è anche più fastidioso perché il ministro dell’Istruzione dovrebbe essere un po’ una sorta di professore modello o di studente esemplare e, invece, sembra che sia stata sorpresa come il più classico Pierino con le mani nella marmellata. Provate a immaginare un po’ la scena del primo giorno del prossimo esame di Stato, la cosiddetta maturità. Il professore distribuisce le tracce del compito d’italiano e poi, raccomandandosi con gli studenti affinché non copino, partecipa loro gli auguri personali del ministro, Lucia Azzolina, che, stando alla notizia non smentita, avrebbe copiato la tesi di abilitazione. Non vi sembra che il tutto somigli più ad una commedia plautina o a una scena di un film di Pierino o alla satira del Bagaglino piuttosto che ad un esame di Stato? E non vi sembra che la somiglianza o il rispecchiamento che c’è tra cronaca scolastica e commedia dell’arte sia l’esatta situazione in cui versa il sistema scolastico italiano dal ministro a Pierino e da Pierino al ministro? Eppure, vi assicuro che la scuola di Pierino nella quale ci troviamo non migliorerebbe di una virgola anche se a viale Trastevere ci fosse la reincarnazione di Francesco De Sanctis. Non è un problema di ministro, ma di sistema. L’impianto scolastico italiano è napoleonico e questa tipologia di scuola è da molto tempo, ormai, giunta al capolinea. I ministri non ne hanno colpa. Ma il fatto che loro stessi non siano capaci di avvertire il problema è evidentemente parte attiva del dramma che viene ad ogni giro di giostra alimentato e trasformato nella farsa di sé stesso. Il problema-scuola non nasce oggi ma nel 1969 quando si passa dal sistema gentiliano alla scuola di massa e non ci si avvede che in quel momento era necessario riformare la scuola di Stato con il modello della scuola libera. Invece, tutto è ignorato – la voce di Valitutti è la classica vox clamantis in deserto – e la scuola di massa in cui tutti accedono a tutto diventa la distruzione del sistema gentiliano in cui tutto ruota intorno al valore legale del diploma che oggi è giunto al suo ultimo stadio: il diploma non vale il pezzo di carta che lo certifica. Per uscire da questa situazione drammatica che genera il suo stesso disastro non c’è altro da fare che smontare il sistema, invertirne la logica, abolire il valore legale del diploma, togliere gli esami in uscita e adottare gli esami in entrata, investire nelle scuole paritarie-libere, ridefinire il profilo professionale dei professori che oggi sono impiegati, usare il costo-standard che una studiosa e donna di scuola come Anna Monia ha calcolato alla perfezione e messo a disposizione del legislatore. Non è un programma, è una rivoluzione. O una rifondazione. Ma al punto in cui siamo non c’è altro da fare. A meno che, come disse una volta Valitutti, non si decida di chiudere per tre anni tutte le scuole di ogni ordine e grado per poi riaprirle su nuove basi. Il che è lo stesso. Giancristiano Desiderio, 13 gennaio 2020

·        Concorso docenti, il grande business dei crediti e le ombre sul Concorsone.

Concorso docenti, il grande business dei crediti: migliaia di euro alle università private. In palio ci sono decine di migliaia di posti da professore, ma per partecipare occorrono punti e certificazioni ottenibili pagando pacchetti già pronti agli atenei telematici. Che stanno facendo affari record. Francesca Sironi il 17 luglio 2020 su L'Espresso. Davide si è laureato nel 2009. Biologia alla Statale di Milano. Ha preso un master in cooperazione internazionale ed è partito con un progetto all’estero. Quando è tornato in Lombardia, a febbraio, ha saputo, insieme a migliaia di altri laureati precari, che la ministra Lucia Azzolina stava per indire un maxi-concorso pubblico per l’arruolamento di nuovi professori alle scuole medie e superiori. La sua categoria, scienze, è una delle più richieste, insieme a italiano e geografia per le medie, matematica, e soprattutto, sostegno. Così si è attivato. Per iscriversi al concorso doveva ottenere, secondo una legge del 2017 firmata dall’ex ministra all’Istruzione Valeria Fedeli, 24 crediti in ambiti specifici: pedagogia, psicologia, antropologia, metodologie didattiche. Lo spirito della legge era chiaro: garantire che i futuri docenti abbiano una preparazione di base sui nuovi approcci all’insegnamento. Il risultato però, più che una grande opera di aggiornamento professionale, sembra esser diventato un sukh di offerte a 500 euro a pacchetto, 790 tutto-incluso compreso un master che fa salire un po’ in graduatoria, pronta-consegna di esempi da cui imparare, esami ritagliati dai corsi di laurea per avere nel modo più diretto possibile tutte le condizioni previste all’abilitazione. Gli atenei privati, soprattutto telematici, si sono mossi per primi, nell’offrire le certificazioni necessarie ad iscriversi alla prova nazionale per vie efficaci e soprattutto flessibili. Gli esami sono diventati presto, così, cartelle di quiz a risposta multipla da preparare a casa e poi sostenere a distanza davanti a una telecamera. Monografico di Psicologia modello patente. Il tutto per cifre che partono da una base d’asta di 50 euro a “credito”, il valore base dei meccanismi dell’università per stabilire la consistenza (in termini di studio, solitamente) di ogni esame. «Ho cercato informazioni e risorse negli atenei pubblici all’inizio», racconta Davide: «La possibilità c’è, ma non con i tempi necessari a chi come me vuole partecipare al concorso 2020 e si è mosso dopo l’annuncio di febbraio: gli appelli delle università statali, che chiedono, penso giustamente, la partecipazione seppur in remoto a molte ore di studio, mi avrebbero fatto andare oltre la data del bando ministeriale». Allora ha cercato risposte fra gli atenei privati, dove invece i tempi tecnici sembrano esserci, eccome. In pochi minuti è stato travolto da una valanga di offerte, annunci, pacchetti di test a crocette e Iban per i versamenti dentro cui sono entrati in questi mesi migliaia di aspiranti professori. Basta cercare una volta informazioni a riguardo online per venire inseguiti dai cookies di messaggi sponsorizzati per i crediti a click. «Quand’ho chiamato l’ateneo telematico che avevo scelto i servizi di segreteria sono stati subito disponibili», conclude Davide: «Mi sono iscritto a fine maggio e continuavo a chiedere: ma ce la faccio con i tempi? Siete sicuri? E loro: ma sì non ti preoccupare! Figurati! Poi ho capito perché». Perché i 24 crediti che dovrebbero servire a garantire competenze pedagogiche ai futuri professori italiani sono diventati moneta che corre: beni da garantire con sempre nuovi appelli, nuove risorse, così da rispondere al bisogno dei “clienti” creati dalla legge del 2017, ovvero i laureati magistrali che devono completare in fretta il curriculum per accedere alle prove statali. Le aspettative, e le attese, sono ai massimi. I due concorsi previsti per dopo l’estate sono la riapertura di un accesso diretto all’insegnamento che era chiuso da tempo. Le procedure saranno due, distinte: un bando straordinario da 32mila posti per chi ha già tre anni di servizio dietro la cattedra; e un bando “ordinario” da 25mila posti aperto anche a chi non ha mai insegnato prima, purché in possesso di una laurea magistrale con le competenze previste per le diverse materie, e i famosi 24 crediti nelle discipline sociali, psicologiche e pedagogiche. Il concorso è pianificato a livello nazionale ma organizzato su base regionale, per far fronte ai buchi in organico che le scuole secondarie hanno presentato agli uffici scolastici. Ci si può iscrivere fino al 31 luglio, presentando domanda per accedere alle prove di pre-selezione che sbarreranno in parte l’ingresso al concorso vero e proprio. A Roma gli uffici si aspettano di essere sommersi di richieste. In molti ricordano, per dare delle proporzioni, il bando per “direttori dei servizi generali e amministrativi” nelle scuole indetto l’anno scorso: duemila posti. E 100mila partecipanti. Le iscrizioni saranno, insomma, centinaia di migliaia. Anche perché l’anno scorso il paese era sì in pre-stagnazione economica. Ma non c’era ancora stata la doppia crisi causata dal Covid. «Che ti devo dire? È ovvio che ho provo. Ho 45 anni, un’abilitazione in psicologia con laurea vecchio ordinamento, due meravigliose bambine e una carriera come responsabile delle relazioni pubbliche. Di eventi. Che il Covid ha spazzato via. Che faccio? Ci provo». Patrizia ha saputo del concorso dai social. «In tanti, mie colleghe come ingegneri disoccupati, hanno iniziato a scambiarsi informazioni», racconta: «Ci aiutiamo a vicenda per raccapezzarci fra le normative e i pagamenti». Patrizia di soldi ne ha dovuti versare parecchi. Il suo percorso di studi le garantiva già i famosi 24 crediti, ma le mancavano dei punti invece su altre materie. Ha dovuto così investire per dare degli esami singoli. Ha scelto Pegaso, una delle principali università telematiche d’Italia. Per tre materie ha speso circa mille euro, più 120 di iscrizione all’ateneo, 150 euro per prenotare un posto nella sede (virtuale, vista la pandemia) d’appello, e altri 50 euro per il certificato di conseguimento degli esami, da inviare al ministero con la domanda. In tutto quasi 1500 euro. Le cifre corrispondono a quelle indicate sul sito ufficiale dell’università, dove per gli esami singoli, si spiega, ogni credito vale 50 euro. «Sono stati assolutamente efficienti, non c’è che dire», ricorda Patrizia rispetto alle procedure. La prima università telematica è arrivata in Italia nel 2004. Da subito il settore si è esteso e oggi ne esistono 11. Le più note sono Pegaso e E-Campus. L’anno scorso il fondo d’investimento CVC Capital Partners ha rilevato il 50 per cento della holding di Pegaso, Multiversity, presieduta da Danilo Iervolino. Multiversity nel 2018 registrava 5,3 milioni di fatturato, royalties versate da UniPegaso e da “Certipass”, un ente di certificazione delle competenze digitali (molto richieste da aziende e amministrazioni pubbliche), che è un’altra partecipata della società. Multiversity controlla la Università Telematica Pegaso S.p.a, che a sua volta ha come «unica fonte di proventi», spiega il bilancio, l’Ateneo vero e proprio. La S.p.a ha con l’ente formativo un contratto di «promozione e sostenimento» che le ha portato introiti finanziari pari a 56,5 milioni di euro nel 2018. UniPegaso non ha voluto rispondere alle domande dell’Espresso sulle sue offerte relative ai 24 crediti. Le proposte per gli aspiranti docenti sono comunque rinvenibili sul sito: il pacchetto costa 500 euro. Si trova online anche la notizia della convenzione attivata dall’ateneo con “Eurosofia” e con il sindacato degli insegnanti Anief proprio per acquisire i crediti necessari all’abilitazione «senza stress, studiando attraverso una piattaforma e-learning, intuitiva, di semplice fruizione e avendo a disposizione i materiali didattici 24 ore su 24». L’altra principale università telematica italiana, E-Campus, fondata a Novedrate, in provincia di Como, guidata oggi da Enzo Siviero e dall’ex direttore generale della Rai Lorenza Lei, ha risposto invece alle domande dell’Espresso. Ha confermato che negli ultimi mesi l’ateneo digitale ha visto un aumento vorticoso delle richieste per i pacchetti a tema didattico-sociale in vista dell’abilitazione. Nell’ultimo anno, spiegano, hanno avuto 45mila iscritti solo per i 24 crediti, proposti anche da loro a 500 euro per quattro esami. «Visto il grande incremento di iscritti», raccontano: «abbiamo dovuto inserire numerosi appelli straordinari rispetto agli ordinari, inizialmente previsti e legati alle edizioni di lezioni presenziali». In media, scrivono, gli studenti terminano il percorso in tre mesi. A E-Campus sono convenzionati, concludono, 130 enti. Uno di questi è il titolare del sito web “Formadocenti” o “Eiform”, molto attivo in rete, dove si trovano due indirizzi fisici di riferimento: uno a Roma e uno a Milano. Entrambi corrispondono a business center che fra le altre cose offrono servizi di domiciliazione legale. Il codice fiscale invece rimanda all’associazione “Culturalmente” di Siderno, Reggio Calabria. Alla mail con le domande per questo articolo “Formadocenti” ha risposto con un form preimpostato di informazioni su come ottenere i 24 crediti, dove spiegano per esempio, le modalità d’esame - quello telematico avviene con 5 domande a risposta multipla, selezionate dal «set domande che si studia sulla piattaforma» - e dove ricordano che «gli esami per ogni materia possono essere svolti in unico giorno». L’ultima sessione è il 28 luglio. Nemmeno tre giorni prima della chiusura delle iscrizioni per il concorso docenti. Bisogna correre. Chiara scrive su Facebook: «Ciao! Oggi anch’io ho effettuato l’orale per i 24 cfu. Professore gentilissimo e puntuale, mi ha chiesto soltanto di approfondire una sola domanda dello scritto, in quanto avevo risposto a tutte le domande bene e poi mi ha confermato i voti. Il tutto terminato in 2 minuti. Tutto molto tranquillo!». Chiara ha sostenuto i crediti per l’abilitazione attraverso “Mnemosine”, un’agenzia convenzionata invece all’università per stranieri Dante Alighieri di Reggio Calabria. Mnemosine spiega che gli esami, orali, avvengono su “Google Meet”, e che ogni credito corrisponde a sei ore di lezione. Le offerte sono tante, insomma. Districarsi sembra difficile. Ma si può sempre usare il “comparatore di crediti” (esiste veramente) all’indirizzo web 24-cfu.it. È gestito dalla Dribe Srl, sede a San Marino, una specializzazione nella formazione docenti. Che a quanto pare è diventata un business redditizio.

"Tracce comprate, pressioni dei sindacati". Quelle ombre sul concorsone. La scuola riparte con gli esami, ma è caos al Miur. Si allarga il caso-concorsone. I candidati: "Qualcosa di allucinante". Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. “Noi credevamo che sarebbe uscito un secondo file di ammessi. Per un giorno intero non eravamo convinti che avessero potuto davvero prendere solo 200 persone”. La voce di Mirko, lo chiameremo così ma il nome è di fantasia, è decisa. Forse infuriata, anche se sempre composta. È uno tra gli oltre 800 candidati bocciati alle due prove scritte in Lombardia nel concorso per Direttori dei Servizi Generali e Amministrativi. Il grande caos del concorsone, di cui ha parlato ieri ilGiornale.it, continua a tenere banco e a smuovere le acque intorno al ministero guidato da Lucia Azzolina. Piccolo riassunto. Due anni fa il Miur pubblica un bando per assumere 2.004 direttori, più altri 601 posti riservati al personale interno con tutte le carte in regola (laurea magistrale in giurisprudenza, economia o scienze politiche). Gli oltre 100mila candidati sostengono una preselezione, poi 6mila di loro vengono ammessi agli scritti. La prova si svolge su base regionale. Il Covid rallenta un po’ le correzioni, poi a giugno i risultati: in quasi tutte le Regioni la percentuale di ammessi varia tra il 34% (Friuli) e l’86% (Campania), e quasi ovunque ci sono più candidati all’ultima prova che posti disponibili. Fa eccezione la Lombardia, dove passano lo scritto solo in 207, cioè il 15%. Talmente pochi che alla fine oltre metà dei posti resterà non assegnato. Come ovvio che sia, scoppia una bagarre infinita, tra rivendicazioni e accuse incrociate (leggi qui i dettagli) con i cosiddetti facenti funzione, persone che già svolgono quel ruolo ma che non hanno i titoli per poter partecipare al bando e vedersi riconosciuta la posizione. "Questa è l’Italia - dicevano dal Comitato Difendiamo il Concorso DSGA - un Paese che non è e non sarà mai in grado di staccarsi dai sotterfugi, dalle pretese illegittime di chi sa alzare di più la voce e da qualsivoglia forma di pressione politica e sindacale”. Un grande caos, appunto. Quel che è certo è ora che gli esclusi stanno “cercando elementi a livello di incompatibilità dei commissari o rapporti tra candidati e commissari che ci permettano di fare un ricorso collettivo” contro l’esito del concorso. “È qualcosa di allucinante”, dice Mirko. “Sono dati surreali. Noi ci eravamo addirittura sorpresi che le sei domande a risposta aperta fossero troppo facili. Possibile che ragazzi laureati, con il codice davanti, non siano riuscite ad ottenere nemmeno 21?”. Nelle chat interne tra candidati la temperatura è alle stelle. “Gli avvocati ci hanno detto di cercare quanto più materiale possibile. Stiamo inondando l’ufficio scolastico regionale con richieste di accesso agli atti”. Ci sono poi ipotesi, proteste, illazioni. “C’è una mail di origine sindacale - rivela Mirko - la quale anticipa le tracce che sarebbero dovute uscire e ne prende cinque su sei. Stiamo cercando di approfondire perché ci chiediamo se sia solo intuito o qualcosa di più”. Senza contare, poi, “una questione ancora più preoccupante”. “Ci sarebbe una ragazza - continua Mirko - che si sarebbe auto-denunciata dicendo che in 3-4 Regioni del Nord c’è stata una compravendita di compiti. Lei li avrebbe acquistati ma non avrebbe passato il concorso. E sarebbe a conoscenza di altre persone che invece avrebbero pagato per avere le tracce e avrebbero poi superato il concorso in alcune Regioni”. I candidati hanno conservato audio e chat, la faccenda è delicata. "Ovviamente ora non sappiamo bene se effettivamente c’è qualcosa di vero sotto, ma stiamo verificando per cercare di capire di più e valutare se ci sono i presupposti per fare un esposto alla Procura della Repubblica". Gli esclusi puntano diritti però anche al ministro Azzolina. “Se fossimo in un Paese democratico, dovrebbe aprire un’inchiesta su quanto successo, capire in che modo la commissione ha giudicato i compiti ed eventualmente valutare di nominarne una nuova per far ricorreggere gli elaborati dei ragazzi non ammessi”. Già, perché i dubbi si accavallano. “Qualche settimana fa - racconta Mirko - prima che uscissero gli esiti, a seguito di un’interrogazione parlamentare fatta da un onorevole su nostro sollecito, la Azzolina aveva detto che da settembre sarebbero stati assunti tutti i nuovi Dsga. Noi infatti temevamo che, non avendo le date per gli orali, saltasse un anno”. A posteriori i candidati si chiedono: non è che la spinta in avanti si è trasformata in un boomerang? “Visto che erano indietro, pur di finire in tempo e fare gli orali in poco tempo, secondo me e secondo tutti, hanno cestinato la maggior parte dei compiti mettendo l’insufficienza in modo da non perdere tempo a correggere la seconda”. A guardare le tabelle molti si chiedono: la mannaia è solo questione di merito - e la cosa sarebbe ovviamente lodevole - oppure dietro c’è qualcos’altro? “In Lombardia si permettono di fare gli orali in soli 10 giorni, mi sembra evidente che il fine fosse quello di togliersi un po' di lavoro per l’estate. Ma ci sono ragazzi, padri, madri, disoccupati che per due anni si sono messi dietro questo concorso. Se ci avessero detto che per finire a settembre avrebbero dovuto bocciare in massa, avremmo evitato di chiederlo”. Ma le domande alla Azzolina non finiscono qui. Ad esempio: che senso ha bandire un concorso per non riuscire ad assegnare tutti i posti disponibili? E poi: come verranno coperti i ruoli in eccesso che, a fine concorso, resteranno vacanti? Un'opzione è che continuino a “svolgere l’incarico i facenti funzione non laureati, ma molti di loro sono stati bocciati addirittura alla pre-selettiva”. “Quindi - dice Mirko - finisce che dai l’incarico a questi che non hanno superato nemmeno la pre-selettiva, mentre hai bocciato 900 persone che almeno l’avevano passata”. Intanto si sta muovendo anche la macchina parlamentare. Due ministri sembra abbiano promesso di presentare presto una interrogazione al ministro. E un altro onorevole è stato informato sulla questione. La faccenda si fa intricata.

·        Più bidelli che carabinieri.

FAUSTO CARIOTI per Libero Quotidiano il 30 giugno 2020. Tutto nello Stato, nulla al di fuori di esso. Con la stessa determinazione messa in campo per abbandonare a se stessa l'economia privata, i Cinque Stelle si dedicano all'aumento del numero di italiani stipendiati dallo Stato. Senza porsi la più ovvia delle domande: se tutti campano a carico delle casse pubbliche, queste chi le riempie? Il risveglio sarà dolorosissimo. L'ultima è l'infornata di bidelli e segretari - pardon, personale Ata, ovvero amministrativo, tecnico e ausiliario. L'ha promessa la solita Lucia Azzolina, intervistata sul Messaggero di ieri. «Ci sono tre cose da fare», ha detto al quotidiano romano, «per garantire il distanziamento: migliorare e recuperare spazio dentro agli istituti, individuare nuovi locali fuori da scuola, avere più docenti e personale Ata». Ha aggiunto che adesso «ci sono i soldi», nientemeno che 3,3 miliardi di euro, e le sue parole fanno capire che sa già come spendere quel "tesoretto": quasi tutto in nuovi stipendi e poco o nulla in investimenti, ovvero tecnologia, attrezzature e ammodernamenti destinati a durare. Un copione che la scuola italiana conosce bene. Notare che gli alunni sono in continua diminuzione, a causa del vecchio problema della denatalità. Nel prossimo anno scolastico sono previsti 85mila studenti in meno, che su un totale di 8,4 milioni (7,6 milioni alle statali, gli altri alle paritarie) significa un calo dell'1%. Nonostante ciò, a maggio Azzolina e il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, avevano messo per iscritto che il numero dei collaboratori scolastici, ovvero dei bidelli, sarebbe rimasto a quota 131.143, la stessa dell'anno 2017-18, quando c'erano 200mila iscritti in più. Questo prima delle ultime promesse, grazie alle quali l'organico dei non docenti farà un ulteriore balzo, poiché i nuovi arrivati non si limiteranno a rimpiazzare coloro che andranno in pensione a settembre. le richieste I sindacati sostengono che per seguire quel 15% di alunni che a causa delle regole post-Covid dovrà essere ricollocato serviranno 160mila docenti in più e altri 40mila dipendenti Ata, che in totale ora sono 203.360 e diventerebbero, dunque, quasi 245.000. La Azzolina non arriverà a tanto e dovrebbe limitarsi ad assumere 50mila persone in tutto, ma incrementerà comunque i ranghi di quello che già adesso è un esercito, nel vero senso della parola: il solo corpo dei bidelli conta 23.000 appartenenti in più rispetto all'Arma dei carabinieri, i quali sono 108.000 e vedono il loro numero ridursi negli anni, evidentemente perché ritenuti meno utili dei bidelli. Le solite, prevedibili differenze geografiche completano il quadro: nelle scuole statali lombarde e venete ci sono 16 bidelli ogni mille studenti, in quelle calabresi 22, e anche questo fa capire a cosa serve davvero la scuola statale, almeno per chi la gestisce. sfrattati Impegnati a pianificare assunzioni e a cercare d'ingraziarsi i dipendenti (ieri la Azzolina si è vantata perché il suo ministero ha accolto il 55% delle richieste di mobilità presentate dagli insegnanti), il ministro e i suoi collaboratori non hanno la minima idea di dove collocare i ragazzi, 1,2 milioni in tutto, che il 14 settembre saranno sfrattati a causa della necessità di mantenere un metro di distanza tra le «rime buccali». L'ultima pensata consiste nel ricavare aule provvisorie dalle palestre delle scuole: oltre a impedire lo svolgimento delle normali ore di educazione fisica, questo renderebbe impossibili gli allenamenti e le gare dei tanti atleti che nel pomeriggio usano quegli impianti. Fatti i primi calcoli, i presidi hanno avvertito che il 20-30% degli istituti necessita ristrutturazioni interne e hanno chiesto al governo «interventi tempestivi fin da subito». Di certo, in poche settimane, dovranno essere recuperati edifici dismessi, trovati e adeguati cinema, musei e teatri. Dovranno essere acquistati milioni di banchi singoli. Così, mentre la Francia ha già riaperto le scuole, in Italia ancora non si sa cosa accadrà. Ed è difficile non preoccuparsi quando la Azzolina annuncia che «a settembre si sperimenteranno forme di didattica innovative», perché «insegnare non è solo fare lezioni frontali e nozionismo». È proprio questa la mentalità che ha rovinato la scuola, ma si può sempre fare di peggio.

·        Eccellenze e Metodi.

Carlo, un italiano per la prima volta tra i dieci prof migliori del mondo. Pubblicato giovedì, 01 ottobre 2020 da Caterina Pasolini su La Repubblica.it. Mazzone, insegnante di informatica a Benevento, ha sfidato 12mila docenti di 140 paesi arrivando nella decina finale ai Global teacher prize. In palio, dalla Varkey Foundation, un milione di dollari da usare per progetti legati alla scuola. Un professore di italiano tra i dieci migliori professori del mondo. Carlo Mazzone, 55 anni di Ceppaloni, docente di informatica a Benevento, è il primo italiano a riuscire ad arrivare nella decina di finalisti che cercheranno di aggiudicarsi il Global Teacher prize. Il premio,  giunto alla sesta edizione, in collaborazione con l'Unesco,  e creato dalla Varkey Foundation,  ha visto quest'anno sfidarsi 12mila insegnanti di 140 paesi per aggiudicarsi il milione di dollari in palio che dovranno essere spesi in progetti per la scuola. "Io vorrei usare quei soldi per aiutare gli studenti a diventare imprenditori di loro stessi, per  combattere l'abbandono scolastico che al sud è drammatico. Perché per ogni ragazzo che abbandona gli studi, si perde un pezzo di futuro", dice Mazzone che da giovane era considerato la pecora nera di casa. Figlio e fratello di docenti, insegnanti, presidi, amanti di greco e latino, lui disdegnava le materie umanistiche. Voleva fare lo scienziato, amava l'elettronica, tanto da iscriversi di nascosto a radio Elettra leggendosi i fascicoli di nascosto, come giornalietti proibiti. Mancando volumi sulla sua materia, sui computer, negli anni ha cominciato a scriverli basandosi sulla sua esperienza prima nelle aziende e poi in classe, organizzando le lezioni in pratiche sfide tra gruppi di alunni per creare progetti. E molti sono stati premiati in concorsi europei. Fra i top 10 con Carlo Mazzone anche gli insegnanti Jamie Frost (Inghilterra), Mokhudu Cynthia Machaba (Sudafrica), Leah Juelke (Stati Uniti) e Yun Jeong-hyun (Corea del Sud).  La premiazione via web causa Covid avverrà il 3 dicembre a Londra dal Natural History Museum,  verrà anche annunciato anche un riconoscimento ad un eroe, che si è spinto oltre per far sì che i giovani continuino ad imparare durante la pandemia. "Il Global Teacher Prize è stato infatti creato per mettere in luce l’importante ruolo svolto dagli insegnanti nella società. Rendendo note migliaia di storie di eroi che hanno trasformato la vita dei più giovani, il premio mira a mettere in primo piano l’eccezionale lavoro degli insegnanti in tutto il mondo, quest'anno, più che mai, abbiamo visto gli insegnanti andare oltre per far sì che i giovani continuassero a imparare in tutto il mondo", ha sottolineato Sunny Varkey, imprenditore e filantropo che ha creato il premio. Sulla stessa linea l'Unesco. Le congratulazioni al professore di Ceppaloni le ha espresse Stefania Giannini, vicedirettore generale dell'Unesco, per il settore educazione. "Spero che la sua storia, scelta tra i tanti talentuosi e motivati docenti, ispiri chi vuole intraprendere la professione e metta in luce l'incredibile lavoro svolto quotidianamente dagli insegnanti in Italia e nel mondo. Il Global Teacher Prize aiuta a porre la voce degli insegnanti al centro della nostra missione, ovvero promuovere opportunità di insegnamento inclusive per i bambini e i ragazzi di tutto il mondo. Da quando è emersa la pandemia di coronavirus, 1,5 miliardi di studenti sono stati colpiti dalla chiusura di scuole e università. Non tutti allo stesso modo. I governi devono imparare da queste lezioni e agire con decisione per garantire che tutti i bambini ricevano un'istruzione di qualità nell'era del Covid e non solo".

Ecco i "mega atenei": la classifica delle migliori università. Tra i mega atenei, Bologna si conferma al primo posto. La pandemia influirà sulle scelte degli studenti: il rischio concreto è che si registri un crollo degli matricole. Gabriele Laganà, Lunedì 13/07/2020 su Il Giornale. Anche le università sono costrette a subire gli effetti nefasti del coronavirus. Non pochi saranno gli studenti che sceglieranno l’ateneo più vicino casa perché considerato "più sicuro", soprattutto al Sud. Altri, invece, guardano all’incerto futuro cercando di essere già pronti in caso di nuovo lockdown e per questo punteranno sulle università più attrezzate nella didattica digitale, mezzo di formazione che si rivelerà indispensabile in caso di seconda ondata. Qualcuno, purtroppo, vedrà spezzarsi il sogno di prendere una laurea o di rimandare gli studi a causa della crisi economica provocata dalla pandemia. "Si prevede un crollo delle immatricolazioni, è un timore realistico ed è un rischio da scongiurare perché i giovani sono già le vittime dirette di questa nuova crisi", ha spiegato Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis. Un intervento non casuale il suo ma che combacia con la pubblicazione della ventesima edizione della classifica delle università italiane. Questa volta, a differenza degli altri anni, la graduatoria tiene conto anche degli effetti dell’emergenza sanitaria. "Prevediamo comportamenti a geometria variabile- ha aggiunto ancora Valerii- percorsi più accidentati: chi si fermerà, chi rimanderà di uno o due anni gli studi universitari se la famiglia è in difficoltà. E si potrà fare meno affidamento sulla componente degli studenti esteri". Quindi nell’immediato futuro si prevede una calo, anche forte, delle immatricolazioni. E i dati provvisori, che riguardano il 2019-20, non lasciano presagire nulla di buono: si è già calcolato, infatti, un -0,7% che va ad interrompe l'andamento positivo degli ultimi cinque anni. Il timore è che il quadro possa peggiorare. Ma di certezze non ve ne sono mentre le incognite sono tante. La paura è un fattore che ha il suo rilievo nella questione. Ma a pesare sono anche i tanti dubbi che su cosa potrebbe accadere nei prossimi mesi. Del resto vale la pena di ricordare che con ogni probabilità lo stato di emergenza in Italia sarà prorogato fino al prossimo 31 dicembre. Inoltre, nel nostro Paese ci sono diversi focolai della malattia. "Questa però è una crisi diversa dal 2008, perché è molto concentrata. Per questo nel sostenere un figlio negli studi può scattare il ragionamento: aspettiamo un anno per vedere cosa succede", ha sottolineato Valerii che ha invocato misure fiscali per sostenere gli studi universitari. La spesa pubblica in università è l'1% del Pil. Un dato davvero basso: peggio di noi fanno solo Grecia, Bulgaria e Romania. Ma in attesa di capire cosa riserverà il futuro, il Censis ha diffuso la classifica delle università italiane. La graduatoria, su dati pre-Covid, misura gli atenei su sei voci: i servizi come mense e alloggi, le borse di studio, le strutture tra cui aule, biblioteche, laboratori, la comunicazione e i servizi digitali, i laureati occupati dopo un anno, l'internazionalizzazione. Diverse le riconferme ma anche qualche novità. Tutti gli atenei che già occupavano i primi posti vedono riconfermata la loro posizione: Bologna, Perugia, Trento, Camerino, politecnico di Milano e Bocconi guidano, come l'anno precedente, la classifica nelle rispettive categorie definite per numero di iscritti. Per quanto riguarda i cosiddetti "mega atenei", quelli che contano oltre 40mila iscritti, non ci sono molte novità. In testa l'università di Bologna, prima con un punteggio complessivo pari a 91,5, inseguita come lo scorso anno da Padova (88,5). Al terzo e al quarto posto ci sono Firenze e La Sapienza di Roma (rispettivamente con 86,2 e 85,7). Centro classifica sale di una posizione Pisa. Male la Federico II di Napoli, ultima, staccata da Bologna di quasi 19 punti.

Tra i "grandi atenei", che vantano da 20.000 a 40.000 iscritti, vi è qualche novità. Sale di due gradini Pavia (90,3), che passa dal quarto al secondo posto. Questo ateneo incrementa di 9 punti l'indicatore relativo alle strutture, di 6 quello della comunicazione e dei servizi digitali e di 7 quello dell'occupabilità. Dati positivi che compensano il calo per le borse di studio e gli altri servizi in favore degli studenti (-7 punti). Perde due posizioni l'Università della Calabria, preceduta da Parma che con 90 punti si conferma in terza posizione. Cagliari, invece, guadagna quattro posizioni: questo buon risultato è dovuto ad un incremento dell'indicatore delle borse di studio e degli altri interventi a favore degli studenti. Al sesto posto c’è Milano Bicocca (87,7) che avanza di due posizioni, precedendo Modena e Reggio Emilia (87,5 punti) e Salerno (87,3 punti), che scivolano, rispettivamente, dal quinto al settimo e dal sesto all'ottavo posto. Tra le new entry vi è Ferrara.

Gli "atenei medi", da 10.000 a 20.000 iscritti, Sassari sorpassa Siena mentre Trieste perde una posizione e Udine tre. Al quinto posto, stabile, vi è l'Università Politecnica delle Marche che vede crescere i valori di tutti gli indicatori tranne l'internazionalizzazione.

Tra i "piccoli atenei", fino a 10.000 iscritti, spicca il dato dell'università Mediterranea di Reggio Calabria che incrementa di 20 punti l'indicatore delle strutture e scala di quattro posizioni sorpassando l'Università di Foggia, quest'anno terza in classifica con 83,7 punti. Sale di una posizione l'Università di Teramo (82,3 punti) posizionandosi quarta. Al quinto posto si piazza l'Università dell'Insubria (81,0 punti) seguita dall'Università di Cassino e del Lazio Meridionale (80,8 punti). Quest’ultima, rispetto allo scorso anno, perde tre posizioni e scende dal terzo al sesto posto.

Tra i politecnici, invece, la classifica anche quest'anno è guidata da quello di Milano (94,3 punti). Al secondo posto sale lo Iuav di Venezia (91,2 punti) che fa retrocedere in terza posizione il Politecnico di Torino (89,5). Per quanto riguarda gli atenei non statali vi è un’altra suddivisione. Tra quelli considerati grandi, con oltre 10.000 iscritti, anche ques’anno è in prima posizione la Bocconi (98,2 punti), seguita dall'Università Cattolica (81,8). Tra i medi prima figura la Luiss (94,6), seguita dalla Lumsa (89,2), mentre lo Iulm (82,0 punti) è al terzo posto. Tra i piccoli, al vertice è la Libera Università di Bolzano (101,4), seguita dall'Università Roma Europea (90,6) che sorpassa la Liuc-Università Cattaneo (90).

Antonella De Gregorio per il “Corriere della Sera” il 4 marzo 2020. La Sapienza di Roma perde quest' anno il primato in Studi classici e Storia antica e lascia il posto a Oxford, ma è ottava anche in Archeologia. La Bocconi è al settimo posto per Business e Management, il Politecnico di Milano tra le migliori dieci in ben quattro materie: Design (sesto posto), Architettura (settimo), Ingegneria civile (settimo), Ingegneria meccanica (nono). E tra le nuove entrate nella top ten c' è anche la Normale per Studi classici che passa dal 22° all' ottavo posto. Sono 47 le università italiane (e 431 i corsi universitari) che rientrano nel «Qs World University Ranking 2020», una delle classifiche universitarie più consultate al mondo, che valuta oltre 13 mila corsi di 1.368 atenei di 83 Paesi. Il ranking è costruito sulla base di quattro parametri: reputazione accademica e presso i datori di lavoro, produzione scientifica e citazioni delle pubblicazioni. «Otto facoltà, due più dell' anno scorso, figurano tra le prime dieci del mondo nella loro area disciplinare», riassume Ben Sowter, responsabile Ricerca e Analisi di Qs. I nuovi ingressi sono quelli della Normale (con Studi classici e Storia antica), la Sapienza (con Archeologia) e il Politecnico di Milano (Architettura), mentre esce dall' empireo Tor Vergata che precipita dal settimo al 32° posto in Storia Antica. Se la Sapienza conserva la posizione più alta, è il Politecnico di Milano a fare il pieno con 4 dipartimenti al top, scalando tra l' altro ben 4 posizioni per Architettura, dove si piazza al settimo posto. Nella top ten globale si trova anche la Bocconi, che si conferma una delle migliori business school, al quarto posto in Europa nella macroarea Social Science and Management, dietro a un podio britannico: Lse, Oxford e Cambridge. Nelle singole discipline, è settima al mondo (terza in Europa) in Business & Management; e ben piazzata per Economia, Scienze sociali (16esima in entrambe) e Accounting (17esima). Ma l' Italia si conferma la meta migliore per «chi vuole studiare discipline umanistiche, che qui trova sei delle migliori opzioni al mondo - dice la ricerca -: oltre alla Sapienza e alla Normale, ci sono Bologna (19), Pisa (28), Tor Vergata (32) e Milano (39)». Se poi si allarga lo sguardo alle top 50 l' Italia conferma diverse eccellenze nelle scienze «dure»: Computer Science, al Politecnico di Milano, Fisica e Astronomia, alla Sapienza. Bene anche il Politecnico di Torino, presente con Ingegneria civile e meccanica, Architettura, Ingegneria elettronica, Design. C' è però una nota negativa, nell' analisi di Qs: il sistema italiano nel complesso non fa passi avanti. Ottantasei dei 431 corsi analizzati hanno peggiorato la propria posizione rispetto allo scorso anno e solo 67 sono migliorati. Un rallentamento dovuto allo scarso impatto della ricerca prodotta. Mentre a premiare i laureati in Italia sono i giudizi dei datori di lavoro. Se l' Italia complessivamente si piazza al quarto posto in Europa, l' università migliore al mondo si conferma, ancora una volta, il Mit di Boston, leader in 12 discipline. Harvard primeggia in 11, Oxford in 8. La Brexit non ha scalfito la potenza degli atenei del Regno Unito che soprattutto grazie alla voce «ricerca» registrano più guadagni (306 facoltà) che perdite (238).

In collegio con i nerd dell'umanesimo che parlano in latino da mattina a sera. Russi e americani. Asiatici e africani. Uniti dalla passione per la lingua di Cicerone. In un esperimento di campus globale dedicato alla cultura classica. Dalla poesia al teatro, dalla scienza alla filosofia. Angiola Codacci-Pisanelli il 4 febbraio 2020 su L'Espresso. Sebastian viene dalle «Civitates Foederatae Americae Septentrionalis», gli Usa. L’anno prossimo andrà a Princeton ma non ha ancora deciso che materie studiare. Am Dong, nazionalità «sinensis», si fa chiamare Serenus perché è la traduzione del suo nome. Ionut è «dacus», cioè viene dalla Romania. Chiacchierano e scherzano nell’atrio affrescato della Villa Falconieri di Frascati come farebbero tutti i diciottenni che vivono insieme in un collegio. Però questo gruppetto di ragazzi è unico al mondo: perché loro parlano in latino. Per gli allievi dell’Accademia Vivarium Novum la lingua dell’antica Roma non è solo materia di studio e di esercitazione ma strumento di vita quotidiana. Si comincia alle otto di mattina cantando carmi di Orazio o Catullo, si finisce alle nove o anche alle undici e mezzo di sera con uno spettacolo teatrale. E per tutto questo tempo, tra lezioni di lingua e di grammatica, di storia e di filosofia, di metrica e di musica, ma anche nelle ore di studio e ricreazione, in gita o nei concerti, durante i pasti e a merenda, l’unica lingua ammessa è il latino. Anche quando si studia il greco antico, su un testo “di lingua parlata” ideato ad Oxford o sulle odi musicate dall’ungherese Eusebio Tóth per il coro Tyrtarìon: «Il nome», spiega, «è un omaggio a due grandi poeti greci: Tirteo, cantore della guerra degli spartani, e Arìone, poeta della pace che addomesticava anche i delfini». Le regole del collegio sono severe: si ascolta solo musica classica, niente fumo, niente alcolici, cellulari soltanto in caso di necessità, ci si veste e ci si comporta senza eccessi anche quando si è fuori dalla villa. Quello della lingua è però un obbligo facile da far rispettare, perché il latino è l’unico idioma che hanno in comune questi ragazzi che vengono davvero da tutto il mondo: dall’Austria all’Australia, dal Tibet al Brasile. E anche da posti geograficamente vicini ma geopoliticamente lontani: quest’anno c’è chi arriva dalla Cina e chi da Taiwan, l’anno scorso un israeliano e un palestinese. L’atmosfera è distesa: «La cosa che mi piace di più qui è la possibilità di farmi amici in tutto il mondo», racconta Rosa, studentessa del liceo San Filippo di Mosca che ogni anno porta qui gli allievi per due stage full-immersion. «Tra noi c’è una grande familiarità», conferma Aanandavardhan, che è arrivato dal Nepal senza sapere una parola di latino e ancora non sa cosa ne farà in futuro. «Nescio», risponde laconico, e lo pronuncia “neskio”: qui sono ammesse tutte le pronunce del latino, sia quella scientifica sia quella della Chiesa, e anche quella dei paesi dell’Est, dove si direbbe «neszio». Non ci sono frontiere né limiti politici o religiosi e nemmeno economici in questo campus mondiale dell’umanesimo: tutti i giovani sono qui con una borsa di studio che copre le spese di lezioni e libri, vitto e alloggio, e anche di più per chi ne ha necessità. «Lo studio del latino non deve essere un lusso», spiega Luigi Miraglia, fondatore e anima del progetto, che ricorda con soddisfazione, tra i suoi ex allievi, i ragazzi affidati dal Tribunale dei minorenni di Napoli e portati alla laurea e un rifugiato del Malawi che ora fa un dottorato in Kentucky. «I giovani migranti vengono sempre avviati a studi pratici ma così si perdono potenzialità importanti», aggiunge. È il rischio che ha corso Duilio, ventiquattrenne albanese trapiantato a Genova che aveva lasciato la scuola per lavorare ma amava la filosofia. Cercando on line un testo di Seneca ha scoperto «questo posto che non pensavo davvero potesse esistere»: ora vive qui da tre anni e si prepara alla maturità. L’idea di quest’isola di latinisti in erba è nata su un’isola vera: si chiama Vivara, uno scampolo disabitato nel golfo di Napoli. Qui negli anni Settanta era approdato l’ecologista Giorgio Punzo, che organizzava soggiorni per mettere i ragazzi a contatto con la natura. «Io ero al ginnasio, studiavo latino e greco svogliatamente e con difficoltà», ricorda Miraglia. «Un giorno avevo con me sull’isola una versione di Tacito che proprio non riuscivo a fare. Punzo mi chiese il libro, lesse davanti a me il brano e lo tradusse senza fare la costruzione, senza usare un vocabolario. Mi spiegò che per lui il latino era una lingua parlata: l’aveva studiato così nel seminario gesuita che aveva frequentato prima della guerra. Gli ho chiesto di insegnare anche a me, e presto mi sono convinto che il metodo di insegnamento tradizionale è sbagliato, perché ci presenta la lingua come un cadavere fatto a pezzi». L’intuizione quindi è nata grazie a forme d’insegnamento antiche («la regola di Sant’Ignazio si ispirava ai metodi umanistici», ricorda Miraglia) ma si è unita poi agli esperimenti pedagogici più moderni: il metodo del danese Hans Henning Ørberg per parlare il latino ma anche quello dell’americano John Rassias per le lingue moderne. Il risultato è «un sistema di insegnamento che mi sarà molto utile in futuro, qualsiasi cosa io finisca per insegnare», assicura Caterina, liceale russa che di Frascati è un’habituée. Il sogno della comunità che parla latino si concretizza appoggiandosi a un’altra utopia che si andava realizzando negli stessi anni: quel rilancio dei filosofi antichi e moderni promosso a Napoli dall’Istituto per gli Studi Filosofici dell’avvocato Gerardo Marotta, con cui Miraglia ha collaborato per 35 anni. L’esperienza di Marotta, il sostegno suo e di Giovanni Pugliese Carratelli, che dell’Istituto era direttore, sono stati essenziali per realizzare il progetto di Miraglia. Dopo una serie di convegni e seminari negli anni Ottanta, il collegio muove i primi passi nel 1995 a Montella, nella campagna avellinese. Ma solo nel 2016, dopo un breve e burrascoso periodo di ospitalità in una sede messa a disposizione dai Legionari di Cristo, trova definitivamente casa a Frascati. «L’Accademia», spiega Miraglia, «riprende il nome del monastero medievale in cui Cassiodoro si dedicò a copiare i testi classici, quella “vasca per l’allevamento” dei libri che salvò la cultura europea. Ma è anche un omaggio alla mia esperienza a Vivara». Le stanze di Villa Falconieri possono ospitare fino a cento persone. Sono tutte piene per i corsi estivi, “full immersion” di latino aperte a tutti: «Abbiamo studenti e studentesse dagli undici agli ottantun anni», dice Miraglia. Gli incassi coprono circa un terzo delle spese di gestione. Un terzo viene dalla casa editrice: le edizioni Vivarium pubblicano quei testi del metodo Ørberg che quasi tutti i licei classici usano all’inizio dei corsi. Il resto delle spese lo coprono donazioni di privati e, soprattutto, lo Stato italiano. Che all’Accademia ha trovato una sede e presto, si spera, affiderà finalmente anche un edificio adatto a ospitare il dormitorio femminile. Finora infatti il collegio vero e proprio è solo maschile. Sono tante però le liceali che vengono con i loro professori per qualche settimana, oggi che i maschi al classico in Italia sono una rarità. Tutto questo è bellissimo, ma c’è un problema, che sta lì a dimostrare come in Italia si possono spendere soldi per la cultura bene, e finire lo stesso per sprecarli. Chi esce da qui infatti può iscriversi al secondo anno di lettere classiche a Oxford o in altre università che collaborano con Vivarium Novum ma non ha lo stesso riconoscimento in Italia. Nemmeno a Tor Vergata, la cui sede di rappresentanza, Villa Mondragone, è a otto minuti a piedi da qui. Per i pochi studenti italiani, quindi, la tentazione di unirsi alla “fuga dei cervelli” è grande. Se l’università italiana nicchia, i licei invece sono sempre più interessati a far vivere ai propri studenti un assaggio di questo esperimento. Il classico De Sanctis di Roma è riuscito a inserire nell’alternanza scuola-lavoro la preparazione di uno spettacolo in greco con il curatore della compagnia teatrale dell’Accademia, il messicano Gerardo Guzman. Ci sono anche studenti che scelgono di fare qui l’esperienza dell’“anno all’estero”. Lo ha fatto Luca, che è arrivato nel 2018 da Milano e si è fermato: quest’anno farà gli esami da privatista. Viene dallo scientifico, non conosceva il greco e ama molto la matematica. Ora fa scorrere sul video del computer un testo di Archimede stampato nel Cinquecento e lo legge senza vocabolario – lo legge in greco antico. Lo scarso entusiasmo delle università italiane verso Vivarium Novum nasconde una diffidenza di fondo verso il latino parlato, visto come una stranezza “da stranieri”. «È una diffidenza non del tutto immotivata», ammette Miraglia, «per colpa dei tentativi donchisciotteschi degli anni Cinquanta di trattare il latino come una lingua viva. Non lo è, ovviamente, anzi: il latino scritto si è allontanato da quello parlato già ai tempi di Cicerone, Orazio e Virgilio». Il latino che si impara a Frascati non vuole fare concorrenza alle lingue moderne ma solo permettere di leggere e capire senza vocabolario i testi più diversi. Solo questo, il resto viene da sé: il sogno di «trovare tra culture diverse i fondamenti comuni che possano creare una pace universale, e trasformare il globalismo mercantile in un cosmopolitismo che faccia appello a ciò che di grande e di bello le culture hanno portato alla natura umana». Un ideale di cui Miraglia può parlare per ore ma che riesce anche a condensare in progetti concreti: la candidatura all’Unesco di latino e greco come “patrimonio immateriale dell’umanità”, la creazione di un “Fondo mondiale per la rinascita dell’humanitas”, il progetto di un Centro di studi sule “due culture” da fondare su queste colline che uniscono il ricordo di Cicerone e i laboratori di fisica del Cnr passando per gli esperimenti di Galilei e Marconi. Le “due culture” al Vivarium si studiano già: il corso comprende non solo i classici dell’antica Roma ma anche Copernico e Galileo, Spinoza e Leibniz. «È un’esperienza che fa conoscere modelli interessanti, utili anche fuori dall’Europa», sottolinea Alain, che viene dalla Repubblica Democratica del Congo. Non a caso Vivarium Novum collabora con l’accademia neoconfuciana cinese Wenli vicina a Wengzhou, dedicata alla costruzione di una cultura che prenda il meglio da tutti, non solo Cina ma India e Occidente. La vita qui è così entusiasmante per questi “nerd dell’umanesimo” che qualcuno resta qui a lavorare condividendo un’esistenza quasi monastica, che non prevede uno stipendio ma solo vitto, alloggio e rimborso spese. Sono ex allievi i professori: Ignacio Armella che viene da Città del Messico,Claeys Bouuaert è belga, il brasiliano Carlos Do Nascimento si sta specializzando in musicologia al Dams. La maggior parte degli ex allievi però ha un futuro nelle università. Sono ormai molti gli ex-vivariani negli istituti di studi classici del mondo. Maria Luisa Aguilar García insegna latino parlato a Valencia. Alexey Belikov è ricercatore alla Lomonosov di Mosca, George Corbett al Trinity College di Cambridge, Patrick Owens in Wyoming. La messicana Sandra Olguin è diventata scrittrice, ma i due mesi passati al Vivarium nel 2013 le hanno cambiato la vita: «Non sapevo una parola di latino, e ho imparato a leggere Cicerone, Seneca, Virgilio. La bellezza delle loro idee, unita alla complessità della struttura linguistica mi hanno insegnato a scrivere meglio. Per me ora le parole non sono solo strumenti per raccontare una storia ma opere d’arte che racchiudono una quantità di significati che il latino fa conoscere. In più, al Vivarium ho incontrato mio marito!» Ora vive ad Anversa, ma il suo primo romanzo è un’Odissea trasportata in Messico. Di persone in grado di leggere in latino c’è particolarmente bisogno in Cina. «La loro storia ha due fonti», spiega Miraglia. «Le relazioni di stato, che sono in cinese ma erano controllate dal governo, e quelle dei missionari gesuiti, che sono in latino. Qui a Roma ci sono migliaia e migliaia di pagine che aspettano di essere studiate». Anche la strada per la conquista di Marte incrocia lo studio del latino: negli Usa c’è chi conta di trovare nei testi di Frontino sulla costruzione degli acquedotti idee per trasportare l’acqua sul Pianeta Rosso.

Martina sui libri con i sei figli  «Ci laureiamo tutti insieme». Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Agostino Gramigna. Li ha seguiti da Varese a Urbino. «Mi hanno detto: mamma, vieni qui anche tu». L a voce di mamma Martina s’incrina per un instante. Si commuove. Martina Hülser crede in Dio, è una fervente cattolica. Forse per questo è convinta che le cose non accadono per caso. Racconta: «Mi laureo in Lingue lo stesso giorno in cui molti anni fa nasceva e moriva una mia figlia». Ma le coincidenze non finiscono qui. La signora di 55 anni, nata a Duisburg, non sarà l’unica in famiglia a discutere la tesi all’Università di Urbino lunedì 10 febbraio. Con lei si laureeranno sei dei suoi sette figli (uno vive in Germania).Sembra una storia singolare. Di coincidenze appunto. Ma Martina crede in un disegno superiore. «Quando un docente ha capito che io ero la mamma degli studenti che facevano tutti di nome Bardelli, mi ha fermata: “Signora, scusi la curiosità ma una costellazione così è rara”». Martina Hülser ha sposato Antonio Bardelli. Dopo il matrimonio sono nati otto figli: tre maschi e cinque femmine. Hanno vissuto in un piccolo paese in provincia di Varese, come una famiglia molto unita. Un giorno Martina ha comunicato al marito che si sarebbe trasferita a Urbino per studiare. Lì c’erano già quasi tutti i suoi figli. Sono stati loro a convincerla. «A casa stavamo attraversando un periodo non facile, turbolento. Tra me e mio marito le cose non andavano bene. Le mie figlie hanno capito e mi hanno detto, “dai vieni con noi, ricomincia a studiare”. Così ho vissuto una delle più belle esperienze della mia vita. Non era scontato. Quando si sta troppo vicini o ci si riunisce davvero o tutto si spezza». Il marito alla fine s’è arreso. Anche se gli sarebbe mancata la moglie, il suo passato, i figli. «Papà non ha ripreso gli studi, no — dice Daniela, la terza nata —. Era già laureato. Ogni tanto si lamentava. Quando ci ritrovavamo tutti nella casa dove siamo nati eravamo sempre a ripetere la lezione, a interrogarci a vicenda ad alta voce. E lui sbottava: “Volete fare silenzio?”». A Urbino vivono in un collegio. Due per camera. Martina condivide la stanza con la figlia Daniela. «Non perché io vada più d’accordo con la mamma. La ripartizione degli alloggi è stata fatta in segreteria». La più secchiona del gruppo è Michelle, la primogenita. Studia con abnegazione, divora libri, ha scritto due romanzi ambientati nel Medioevo. Il periodo storico che affascina un po’ tutta la famiglia. Michelle dà l’esempio. Aiuta gli altri. Così Martina ha scoperto che la cooperazione stimola l’individuo a fare meglio. «Abbiamo creato una sorta di metodo collettivo. Qualcuno riassume una parte, poi a turno ognuno fa lo stesso con un altro argomento. Si lavora per conto proprio ma si ripete e si sintetizza assieme. Studiando così nessuno vuole restare indietro». Nella tesi di laurea Martina ha messo a confronto Parsifal e le Confessioni di Sant’Agostino. Per i Bardelli era strano sentire i loro cognomi ripetuti più volte durante l’appello. E anche per gli altri studenti, che poi ci hanno fatto l’abitudine. «I mie amici hanno trovato mia madre molto aperta, forse per questo l’hanno presa come una di loro — dice Sarah la secondogenita —. All’inizio la mamma aveva paura che vedendoci insieme ci avrebbero preso in giro. Invece la invitavano a uscire: “Dai vieni con noi». Fino a 18 anni Sarah ha fatto la modella. Lunedì discuterà una tesi su Ildegarda di Bingen, benedettina, compositrice e naturalista tedesca del XII secolo. Sarah è molto presa dal misticismo coniugato al femminile. «Abbiamo scoperto lati di mamma che ignoravamo. A Urbino è diventata per noi un po’ sorella, un po’ amica». 

Ecco il metodo più facile del mondo per imparare le tabelline. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 da Corriere.it. No, la bambina indiana che tiene le mani alzate sopra la testa non si è arresa. Al contrario: con quel semplice gesto sta aiutando la maestra a mostrare ai suoi compagni e alle sue compagne che non bisogna aver paura della matematica perché, se presa dal lato giusto, può essere molto meno ostica di come appaia. Questione di metodo. Volete imparare la tabellina del 9? Guardate questo video. La spiegazione è talmente facile che si capisce anche senza la traduzione in inglese. Potete provare voi stessi usando le vostre mani. Partiamo dal primo esempio: 9 X 4. Basta contare fino a quattro sulla punta delle dita della vostra mano sinistra. Quante dita vi restano a sinistra dell’anulare? 3. Quante a destra? 6 (una della mano sinistra più cinque della mano destra). Il risultato della moltiplicazione è 36. Provate a fare 9 X 5. Se contate fino a cinque vi restano 4 dita a sinistra del mignolo sinistro e dall’altra parte le cinque dita della mano destra. Risultato 45. E così via. La matematica così diventa davvero un gioco da ragazzi, anzi da bambini. Certo, bisogna avere la fortuna di trovare una maestra in gamba come quella di questa scuola. Non a caso la sua videolezione è stato rilanciata su Twitter dal Global Teacher Prize, il premio da un milione di dollari per il miglior prof del mondo. Ma in giro per il mondo ce ne sono tanti. Scorrete le prossime schede e scoprirete un trucco usato nelle scuole giapponesi per risolvere tutte le moltiplicazioni (non solo la tabellina del nove) attraverso un sistema fatto di linee e punti.

·        L'Università Telematica.

L'Università Telematica. Milena Gabanelli il 28 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. «Tutti possono essere come Cristiano Ronaldo». La promessa in questione campeggia sul sito dell’Università Telematica E-Campus, appartenente all’omonima Fondazione presieduta dall’imprenditore Francesco Polidori, alias Mr. Cepu. Ronaldo è un calciatore, mentre alla E-Campus ti prepari per diventare avvocato, professore, psicologo, dirigente d’azienda e tante altre cose che nulla hanno a che fare col calcio, ma evidentemente per gli ideatori dello spot il nesso era chiaro. «Preparati al successo», aggiunge il video promozionale che è più o meno quello che ti dicono quando vai a iscriverti. «Vuoi una laurea magistrale in Giurisprudenza? Non dovrai in alcun modo modificare le tue abitudini di vita – ci spiegano –. Puoi lavorare, uscire con gli amici. Noi ci inseriremo nel tempo che rimane». E ovviamente, se ne rimane poco, amen. Sarà che il materiale di studio, anche per un corso poderoso come Giurisprudenza, sarà reso molto più leggero dal tutor che ci verrà assegnato, il quale in pratica ci fornirà dei riassunti. Esami come Diritto Costituzionale e Diritto Privato, tanto per citare quelli previsti al primo anno, si danno in modalità risposta multipla e se accetti il 18, non devi nemmeno fare l’orale. Insomma, sembra una passeggiata. Costa oltre 7.000 euro l’anno, ma ci propongono uno sconto: da 35.000 euro a circa 28.000 se per i 5 anni di Giurisprudenza, paghiamo in un colpo solo.

Nascono nel 2003 e sono 11. È il mondo dell’università telematica: studi online e talvolta online sostieni anche le prove. Quello che il Covid ha reso necessario nel mondo della scuola e dell’università, per quelle telematiche è consuetudine dal 2003 quando, sotto il Governo Berlusconi con un decreto del ministro dell’Istruzione Letizia Moratti, viene istituito l’apprendimento a distanza per i corsi di laurea. In tre anni ricevono l’accredito ben 11 Università telematiche che vengono, pertanto, abilitate a rilasciare titoli completamente equivalenti a quelli conseguiti nelle università tradizionali. Al 2019 si conta un totale di oltre 110.000 iscritti in questi atenei, 6.977 nuovi immatricolati a fronte dei 283.880 immatricolati nelle università tradizionali, e un finanziamento da parte del ministero dell’Istruzione che nell’ultimo anno ammonta a 2 milioni di euro per 9 delle 11 università.

C’è una laurea quasi per tutto. Ci si può laureare online praticamente in tutto tranne medicina e chirurgia, veterinaria, odontoiatria. Il 23 dicembre del 2019, però, l’ex ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti firma un decreto e stabilisce che anche per altre facoltà (Scienze dell’Educazione e della Formazione, Psicologia, Servizio Sociale, Scienze Pedagociche) non è possibile laurearsi telematicamente. Monta la protesta e a marzo il decreto viene ritirato per alcuni rilievi dalla Corte dei Conti: irregolarità formali. Ma come stanno queste università?

Le criticità. L’unica radiografia completa viene fatta nel 2009 e pubblicata nel 2010: l’allora Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario (Cnvsu), ente alle dipendenze del ministero dell’Istruzione e oggi sostituito dall’Anvur, rileva per molte delle università telematiche accreditate criticità: numero limitato di iscritti, eccessivo ricorso a personale a tempo determinato, forte squilibrio fra il numero dei professori e quello dei ricercatori, limitato svolgimento di attività di ricerca. Nel 2013 viene istituita una Commissione di studio ad hoc e la relazione conclusiva conferma:

1) assenza di criteri determinati e chiari per valutare la qualità dell’offerta formativa;

2) assenza di regolamentazione rigida in merito all’istituzione dei corsi di laurea;

3) mancanza assoluta della definizione dei parametri di valutazione per l’attività di ricerca;

4) assenza di vincoli per il reclutamento del personale docente, rispetto anche alla possibilità di chiamata diretta ed eventuale passaggio poi alle università statali.

Si esprime anche il Consiglio Universitario Nazionale e aggiunge che spesso l’accreditamento avviene ex ante senza: verifica dell’attività di ricerca; idoneità delle modalità di svolgimento degli esami; idoneità nell’attribuzione dei crediti formativi; adeguatezza delle attività di laboratorio; verifica dei criteri di attribuzione di crediti per attività lavorative pregresse. Una panoramica così negativa da indurre la Commissione, sempre in quella relazione del 2013, a esprimersi chiaramente: «rilevata minore preparazione posseduta dai laureati nelle università telematiche rispetto a quella dei laureati nelle università tradizionali».

Tutte in fondo alla scala di valutazione. Dal 2013, sono passati 8 anni: cosa è cambiato? Non è chiaro perché di commissioni ad hoc non ce ne sono state altre, ma a leggere i rapporti di verifica dell’Anvur, ente pubblico vigilato dal Miur, la situazione non sembra rosea: su una scala di valutazione che va da A ad E, solo la Uninettuno ha preso B, altre tre C e le restanti D. Una invece non è stata ancora valutata: si tratta della «Leonardo Da Vinci», sede a Torrevecchia Teatina, pochi chilometri da Chieti. Istituita dalla Fondazione Gabriele D’Annunzio.

Una pioggia di finanziamenti. Alla E-Campus di Ronaldo, la cui richiesta di accredito presentata nel 2006 era stata bocciata dl Cnvsu, nell’ultima ispezione nel 2017 viene certificato che i sistemi di accessibilità non sono del tutto adeguati e che la governance dell’Ateneo non ha dato prova di possedere adeguata cultura della qualità. Manca una chiara e inequivocabile documentazione sulla sostenibilità dell’offerta formativa per una durata almeno pari a quella di un ciclo di corso di studio. Nessuna regolamentazione dell’attività di ricerca. Nessun monitoraggio sull’efficacia del percorso di formazione. Persino l’accesso ai vari corsi di laurea sarebbe non in linea con quanto previsto dai decreti ministeriali. Però ci sono anche aspetti positivi e così per il Miur è tutto a posto: finanziamento 2019 di euro 220.921.

Alla telematica Giustino Fortunato per iscriverci alla facoltà di Psicologia occorre fare un test di ingresso. Se non lo si supera, teoricamente, viene assegnato una sorta di «debito» che va recuperato entro un anno. Il problema però non sussiste perché, a quanto risulta dalle verifiche dell’Anvur, nessun aspirante iscritto alla Giustino Fortunato è mai entrato col debito. Se poi lo studente proviene da altri atenei e vuole passare al corso di laurea online, il test di ingresso non è nemmeno richiesto. Costo: 2.800 euro l’anno. Finanziamento del Miur: 292.526.

Anche alla telematica Mercatorum, dove un corso di laurea costa in media 3.000 euro, specificano che occorre sostenere un test d’ingresso, ma anche che se non si supera va bene uguale. Al corso di laurea in economia aziendale la commissione di valutazione segnala criticità fra i docenti a causa di poca coerenza fra l’insegnamento assegnato a un determinato professore e l’insegnamento proprio delle attività di ricerca di quello stesso docente.

Per la laurea in ingegneria civile alla telematica Guglielmo Marconi manca una definizione dei risultati di apprendimento: non sono indicate le modalità e gli strumenti didattici attraverso cui questi risultati vengono conseguiti e verificati. Il corso di studio non ha fornito evidenza documentale della coerenza fra le competenze dei docenti e gli obiettivi didattici degli insegnamenti. Solo pochi tutor posseggono un dottorato di ricerca. Costo del corso di laurea: 2.250 euro. Finanziamento Miur: 685.281.

Si paga dai 1.800 euro ai 2.200 alla Iul Italian University Line, con sede a Firenze, finanziata dal Miur con 15.445 euro nel 2019, anche se non tutte le verifiche finali appaiono congrue nel corso di laurea in innovazione educativa e apprendimento permanente, unico nel panorama italiano per diventare pedagogista o lavorare nei consultori, nelle carceri, nelle comunità.

«Servizi online non proprio adeguati» per l’università Niccolò Cusano. E poi: criticità relative ai materiali didattici disponibili da remoto; carenza generalizzata negli obiettivi formativi e nei risultati attesi del corso di studio; carente la descrizione esatta del modo in cui si svolge l’esame. Per il corso di laurea in ingegneria civile, la «valutazione dell’apprendimento» è stata giudicata «non approvata per criticità importanti». Il prezzo dei corsi di laurea viaggia sui 3.000 euro l’anno. Nel 2020 viene multata dall’Antitrust per 250.000 euro: gli studenti venivano costretti a pagare anche una volta effettuato il recesso e la stessa modalità di recesso era piuttosto complicata. Finanziamento Miur: 319.233.

Il finanziamento destinato alla San Raffaele di Roma è di 94.355 euro. Il costo per il corso di laurea in scienze dell’alimentazione è di 2.500 euro e il punteggio assegnato dall’Anvur è D.

Alla Pegaso e alla Uninettuno (finanziamento Miur: 481.556) ci promettono uno sconto se abbiamo parenti nelle forze armate.

All’Unitelma Sapienza pagheremmo 1.600 anziché 2.100 se noi o gli stessi parenti sono iscritti ai sindacati. Rispetto alla qualità della docenza servirebbero corsi di aggiornamento perché non risulta adeguata attenzione alla progettazione di corsi di e-learning e alla produzione di materiali didattici adeguati ad un corso di studio di livello universitario. Finanziamento Miur 99.327.

Regole meno rigide previste per legge. Le regole che le università telematiche devono osservare sono molto meno rigide di quelle imposte alle università tradizionali. A cominciare dal corpo docente: al 2017 nelle università telematiche i docenti di ruolo sono complessivamente 211, a fronte dei 47.130 impiegati nelle università tradizionali. Significa che c’è un docente di ruolo per più d’ogni 521 iscritti, contro 1 ogni 36 delle tradizionali dove, per un corso di laurea, il decreto ministeriale 6/2019 ha imposto 9 docenti di cui 5 di ruolo. Per un corso a distanza ne bastano complessivamente 7 di cui 3 di ruolo. Tutte queste lauree, ai fini concorsuali, valgono esattamente quanto quelle conseguita in qualsiasi altro ateneo. È giusto?

·        Università Private: Affari ed Inchieste.

UNIVERSITA’ PRIVATE & AFFARI. DALLA LINK ALLA UNINT, E’ RAFFICA DI INCHIESTE. Andrea Cinquegrani il 15 luglio 2020 su La Voce delle Voci.

Venti di bufera sulle università private. Fari puntati sulla Link Campus University, la creatura dell’ex ministro degli Interni Vincenzo Scotti. Da mesi è sotto i riflettori per via di alcune spy story, come è successo con il giallo del docente maltese Joseph Mifsud. Adesso è la volta di progetti taroccati per godere di crediti fiscali. Le Fiamme Gialle di Roma, infatti, hanno appena sequestrato carte e documenti bollenti che si riferiscono ad una serie di progetti fantasma, messi su dalla Link e dal “Consortium for Research on Intelligence and Security services” proprio allo scopo di ricevere consistenti benefici fiscali. 14 persone sono indagate. Un paio d’anni fa la Link salì alla ribalta delle cronache come una sorta di “scuola di formazione” per la dirigenza 5 Stelle, scatenando non poche (e giustificate) polemiche. Non solo l’università maltese, comunque, si trova in brutte acque.

IL MAXI PROGETTO FANTASMA. Perché, ad esempio, si trova impelagata in simili problemi l’Università degli Studi Internazionali di Roma, UNINT per gli aficionados. Il cui storico padre-padrone, Giovanni Bisogni, è stato appena raggiunto da una richiesta di rinvio a giudizio emessa dal pubblico ministero romano Mario Palazzi, uno dei magistrati di punta alla procura capitolina, avendo al suo attivo anche la maxi inchiesta CONSIP. Sentendo puzza di bruciato, si è dimesso dalla carica di presidente dell’università, lasciando la poltrona al figlio Fabio Bisogni, che già lavorava nel settore amministrativo di UNINT. Partiamo dalle news. E quindi dalla richiesta di rinvio a giudizio, formulata il 20 giugno da Palazzi. Come imputati figurano il calabrese Bisogni (è nato a Casabona, in provincia di Crotone) e la stesa UNINT. Il primo perché, in qualità di rappresentante legale di Unint, “con artifici e raggiri consistenti nell’avere, in relazione al progetto J88C13001010001, rendicontato fittiziamente al Ministero della Salute costi per personale non realmente impiegato nel progetto e costi del personale non previamente autorizzati in base agli accordi di collaborazione, induceva in errore il predetto dicastero, procurando all’Università degli Studi Internazionali di Roma un ingiusto profitto, con pari danno per l’Amministrazione”. Nella richiesta di rinvio a giudizio fa capolino anche un’altra sigla griffata Bisogni, ossia FORMIT. E cioè quando Palazzi fa riferimento “ai costi del personale formalmente contrattualizzato con Unint, ma che aveva prestato la propria opera per le ricerche effettuate da FORMIT”. Una “confusione” creata ad arte, un rapporto del tutto anomalo tra due sigle riconducibili allo stesso burattinaio, Bisogni. Con la seconda incaricata di “gestire” in pratica l’Università dopo uno scandalo scoppiato nel 2006, anche in seguito ad un pesante j’accuse di Report. Ma come nasce l’inchiesta? Circa un anno fa, sulla base delle segnalazioni di alcuni docenti, che mettono sul chi va là le Fiamme Gialle. Le quali, con un lavoro minuzioso e attraverso molti interrogatori, risalgono al fantomatico progetto per il Ministero della Salute, al quale sulla carta hanno lavorato decine e decine di docenti. Peccato tutto ciò sia successo “a loro insaputa”. Interrogati, i docenti sono tutti caduti dalle nuvole e hanno dichiarato a verbale di non saperne un cavolo di quel progetto farlocco: messo in piedi per puri scopi “fiscali”, e quindi lucrare sui fondi pubblici, tanto è vero che il Ministero della Salute si è costituito parte civile. Il raggiro ammonterebbe a circa 800 mila euro, dei quali 480 mila sono già stati immobilizzati in un “sequestro preventivo”. Ma c’è chi parla di giro complessivo di fondi pubblici ripartiti tra Unint e Formit che si aggirerebbe sui 4 milioni di euro. Ad elargire i fondi per il progetto fantasma è stato uno specifico settore del Ministero della Salute, ossia la “Direzione generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico”, all’epoca guidata da Marcella Marletta. Con la chiusura delle indagini, il pm Palazzi ha provveduto ad inoltrare all’Avvocatura della Stato una segnalazione, circa il danno patrimoniale causato al ministero. A questo punto sarà la Corte dei Conti a stabilire il quantum preciso del danno, ossia quanta parte del finanziamento pubblico sia stata ottenuta in modo fraudolento. Certo, le accuse sono pesanti: costi gonfiati, rendicontazioni del tutto approssimative, giustificativi di spesa mancanti, retribuzione figurativa di personale dipendente e collaboratori che non hanno svolto alcuna attività per il progetto. E il tutto finalizzato a far lievitare la quota di fondi riconosciuti dal ministero della Salute.

CAMBI DI SIGLA. Ma vediamo cosa è, in realtà, UNINT, che quest’anno lancia un “Corso di laurea sulla Sicurezza Internazionale”. Quando piccole Link crescono…Nasce quasi un quarto di secolo fa, nel 1996, come “Libera Università degli Studi San Pio V”, perché a fondarla era stato l’Istituto di studi politici San Pio V. Poi, nel 2010, si trasforma in Libera Università degli Stati per l’Innovazione e le Organizzazioni, ossia LUSPIO. Dopo le prime, forti polemiche sulla gestione dei fondi e gli scarsi controlli ministeriali, viene data in gestione alla Fondazione per la Ricerca sulla Migrazione e Integrazione delle Tecnologie (FORMIT). Una vera e propria pezza a colori, perché al timone dell’una e dell’altra c’è sempre lui, l’onnipresente Giovanni Bisogni. Il colpo, però, è duro. L’allora ministro dell’Istruzione, Fabio Mussi, decretò la cessazione delle convenzioni con gli istituti universitari sotto ispezione. Ma per la neo trasformata UNINT le cose ricominciano dopo non molto a girare per il verso giusto. Soprattutto grazie alle nuove convenzioni che sbocciano con le più svariate sigle, soprattutto di matrice sindacale. Una su tutte: il sindacato di destra UGL, nelle salde mai di Renata Polverini, che diventa presidente della Regione Lazio. E andrà tutto ok anche quando a prendere il posto della Polverini entra in campo Giovanni Centrella, il cui figlio, guarda caso, frequenta con successo l’Università. Il numero degli iscritti torna quindi di nuovo a crescere, fino ad un totale di circa 4 mila, che pagano rette intorno a 5 mila euro l’anno (ma c’è chi dice addirittura 8 mila). Qualche problema un anno e mezzo fa, quando l’Autorità Anticorruzione (ANAC) punta i riflettori ed invia una raccomandazione all’ateneo affinchè adotti “misure di trasparenza”. Nel mirino sempre gli anomali rapporti e intrecci tra UNINT e FORMIT, che poi saranno anche al centro della richiesta di rinvio a giudizio formulata da Palazzi. Avevamo fatto cenno a Bisogni junior, Fabio, che ora è diventato il numero uno dell’università, visto che il clima si sta facendo sempre più infuocato, per via dell’inchiesta della magistratura, e per la “ribellione” dei docenti, soprattutto quelli coinvolti nel progetto fantasma. Ma serve a qualcosa il passaggio del testimone dal padre al figlio? Non ha niente da dire il MIUR, ossia il Ministero per l’Università che fino ad oggi è stato del tutto assente nella delicata vicenda? Non parla il ministro Gaetano Manfredi? Non sa che – come fece il suo predecessore Mussi – esiste lo strumento della revoca? Oppure il commissariamento? Come mai tutti zitti e muti? Dicevamo della dinasty. Che può contare su un altro rampollo eccellente, Marco Bisogni, magistrato per anni in servizio a Siracusa.

LA DINASTY DEI BISOGNI. E al centro di un giallo giudiziario dall’esito rocambolesco. Con lo Stato italiano costretto a sborsare la bellezza di 8 milioni di euro per risarcire una società che – secondo il tribunale di Messina – aveva subito gravi torti e danni causati dal comportamento del pm. Ecco cosa ha scritto, nel 2016, “Diario 1984”: “Dai giudici del tribunale di Messina è stata rigettata la richiesta dell’Avvocatura dello Stato e dello stesso magistrato di annullare l’ammissibilità dell’azione di risarcimento dello Stato per le condotte del Pubblico Ministero Marco Bisogni, quando esercitava alla Procura di Siracusa. I giudici hanno condiviso le argomentazioni del difensore della società GIDA srl, con sede legale ad Augusta, avvocato Giuseppe Calafiore, che si era battuto per non far cancellare la dichiarazione di ammissibilità alla richiesta di risarcimento danni precedentemente stabilita dal tribunale collegiale di Messina. La GIDA ha chiesto la condanna dello stato a risarcire la somma di 8 milioni di euro. Il tribunale di Messina ha poi rimesso gli atti al giudice delegato dott. Pietro Miraglia per la istruzione sui danni che dovranno essere risarciti alla Gida srl”. E viene aggiunto. “Le accuse poste alla base dell’atto di citazione presentato dalla Gida srl sono sconvolgenti. E riguardano sia la violazione dei diritti dell’indagato, che la richiesta di sequestri da parte del pubblico ministero pur in presenza dell’offerta di pagamento e con riferimento ad importi ben superiori alla stessa imposta che si presumeva evasa”. L’avvocato Calafiore – va rammentato – è legato a filo doppio con un altro avvocato siciliano, Piero Amara, protagonista dello scandalo “ENI”. Amara, infatti, ha fatto di tutto per depistare le inchieste dei magistrati milanesi impegnati da anni sul fronte delle “corruzioni internazionali” griffate Eni. Una storia che potrà riservare ancora molte sorprese.

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 16 luglio 2020. Forse un equilibrio di poteri si è rotto, e a questo punto può succedere di tutto. Nel corso di un'inchiesta della Procura di Roma per una presunta frode fiscale, documenti contabili e extracontabili, agende, computer, server, documenti bancari, registrazioni di videoconferenze sono state acquisite ieri alla Link University, un luogo che è stato un vero snodo di apparati della stagione grillina al potere. L'inchiesta riguarda un meccanismo di illecito fiscale attraverso il quale la Link e il "Consortium for research on intelligence and security services" avrebbero finto di eseguire progetti di ricerca e sviluppo, cosa che consentiva di emettere fatture e godere di crediti fiscali, in realtà inesistenti, per un valore complessivo di 15 milioni. Ed è collegata a un'altra inchiesta di Firenze su una serie di presunti esami facili svolti nell'Università, che il 14 maggio aveva chiuso la fase preliminare indagando 71 persone per associazione a delinquere e falso. Abbiamo chiesto al presidente dell'ateneo, Vincenzo Scotti, se voleva commentare, non ci ha risposto. Gli indagati per frode fiscale a Roma sono 14, e tra loro ci sono il rettore Claudio Roveda e il membro del cda Carlo Maria Medaglia, ma poi anche la presidente della società di gestione «Gem», Vanna Fadini, e il direttore generale Pasquale Russo: due figure al centro di tanti intrecci che hanno riguardato l'Università in questi anni, compresa la vicenda di un aumento di capitale della Link che la stessa Fadini annunciò il 9 marzo 2018 - all'indomani della vittoria del M5S alle elezioni politiche - al suo direttore di banca, aumento poi non perfezionatosi, e che aveva al centro la figura di Stephan Roh, un avvocato svizzero-tedesco legato a diversi business russi (lui nega di esser connesso a due oligarchi russi), che deteneva il 5% della Gem. Quando la vicenda emerse, Roh - in piena rottura con Scotti - rilasciò dichiarazioni da prendere molto con le molle, sostenendo che il finanziamento doveva venire dall'Ucraina, non da Mosca. Queste storie non sono connesse all'inchiesta romana sui reati fiscali che ieri ha portato alle perquisizioni. Ma nei computer e nei server sequestrati possono esserci cose rilevanti su questi anni, perché la Link University è stato un luogo davvero non comune. Lì tenne un insegnamento il maltese Joseph Mifsud, poi scomparso nel nulla, "the professor", figura centrale nel Report di Robert Mueller da cui partì l'inchiesta del Fbi sulla Russia e Trump. Mifsud, quando il suo nome divenne pubblico, fu ospitato in una foresteria proprio della Link University, prima di sparire. Suoi movimenti e presunte coperture in Italia hanno portato la destra internazionale a sostenere la teoria che l'ateneo sia in realtà legato non alla Russia, ma ai servizi occidentali, impegnati a tramare contro l'elezione di Trump. Ed è così che la Link è diventata oggetto di grande interesse nella contro-inchiesta americana del procuratore John Duhram - voluta dal Guardasigili di Trump, Bill Barr. Nel giro del presidente americano sono convinti che attraverso l'ateneo romano di Casale San Pio V sia stato fatto avvenire l'incontro tra Mifsud e George Papadopoulos, il giovane consigliere della campagna Trump al quale il maltese avrebbe rivelato per primo l'esistenza del «dirt», il «materiale compromettente» su Hillary Clinton, nella forma di «migliaia di mail» hackerate. La teoria trumpiana del complotto dei democratici mondiali per impiantare il "Russiagate" non ha finora alcuna evidenza certa, è bene dirlo chiaramente. Ma può modificare gli equilibri italiani: propro Barr venne in Italia in due occasioni, l'estate del 2019, chiedendo al premier Conte (era ancora il Conte1) la collaborazione dei servizi italiani. La cosa fu concessa, in forme irrituali finite all'attenzione del Copasir. Gli americani chiesero ai servizi italiani proprio di Mifsud. E della Link University. 

·        I Compiti a Casa.

Tutti i compiti di mia figlia, così la scuola si fa odiare. Pubblicato giovedì, 26 dicembre 2019 su Corriere.it da Paolo Di Stefano. Una mole esagerata: deve risolvere espressioni e problemi, e poi fare ricerche, rispondere a questionari e studiare. La pessima abitudine di fare e disfare, cioè il vizio di rinunciare quasi per partito preso a ciò che ha stabilito il precedente governo, ha impedito a Lorenzo Fioramonti almeno di confermare quel poco di buono che aveva fatto (o detto) il suo predecessore Marco Bussetti esattamente un anno fa. Nel poco di buono auspicato dal ministro del precedente governo, c’era l’appello, rivolto ai docenti, a moderare il carico dei compiti e a ricordarsi che le vacanze sono vacanze anche per i ragazzi. Purtroppo, però, dodici mesi dopo, il buon proposito è rimasto lettera morta e i compiti natalizi continuano a incidere in modo imbarazzante sulle famiglie al punto da rendere complicato ogni sacrosanto programma alternativo, almeno per chi voglia prendere sul serio la tabella delle incombenze. Imbarazzante, per esempio, per un genitore come il sottoscritto, padre di una ragazzina di 13 anni: per il quale il normale senso del dovere da trasmettere alla figlia (i compiti si fanno) contrasta con l’evidenza del carico eccessivo, super eccessivo, a volte intollerabile. E ciò accade già nel weekend, ma soprattutto — estate a parte — accade nelle due settimane festive come quelle in corso. Ecco dunque l’esempio su cui sarebbe bene che riflettesse il prossimo ministro dell’Istruzione, chiunque egli sia, pentastellato ortodosso o scissionista, zingarettiano o renziano, articolouno o due o tre, augurandogli di arrivare sano e salvo fino alle prossime vacanze scolastiche (pasquali o estive). Senza immaginare di vietarli tout court per legge come fanno in certi Paesi, basterebbe evitare che si giungesse al colmo di avere una figlia di terza media che in 17 giorni liberi (si fa per dire) debba sbrigare una mole oggettivamente esagerata, per non dire oppressiva, di compiti assegnati da singoli prof ignari del diritto al riposo di cui dovrebbe godere ogni adolescente che si rispetti. Ecco qua un elenco molto realistico di compiti segnati in agenda per l’immediato dopo vacanze, compiti spesso più interessanti e fantasiosi di quelli che toccavano ai genitori ma incredibilmente accresciuti per numero, quasi una valanga: per geografia studiare una dozzina di pagine sulle risorse energetiche; scrivere almeno una mezza pagina di diario al giorno; per matematica risolvere 15 espressioni algebriche e sei problemi sul cerchio; leggere vari brani antologici di letteratura italiana con rispettivi 12 esercizi di comprensione; studiare 2 capitoli sul primo ‘900 per la verifica di Storia; eseguire 14 esercizi di grammatica inglese; studiare il capitolo sulla musica afro-americana per la verifica di musica; realizzare una ricerchina sull’arte floreale di fine ‘800; compilare il questionario di francese sull’energia nucleare e sempre per francese scrivere tre lettere a destinatari immaginari; studiare i casi, la prima declinazione, il verbo essere e una trentina di vocaboli per la (prima) verifica di latino; ripassare la vita di Manzoni e il capitolo sul Romanticismo; disegnare la tavola di assonometria e di proiezioni ortogonali per tecnologia. Ora, il super elenco natalizio sembra fatto apposta per istigare l’alunno a: 1) fregarsene e non fare quasi nulla; 2) lasciarsi prendere dall’ansia per fare tutto; 3) trovare escamotage per tirare a campare (WhatsApp può servire); 4) in ogni caso odiare la scuola. E i genitori di un alunno moderatamente diligente a riflettere: chi glielo dice che sarebbe bello dedicare un pomeriggio a visitare una mostra o un museo? O a leggere un libro?

Scuola e vacanze di Natale, i compiti servono solo se sono personalizzati. Pubblicato sabato, 28 dicembre 2019 su Corriere.it da Maurizio Tucci, Presidente del Laboratorio Adolescenza di Milano. Scuole chiuse per le fatidiche vacanze di Natale. Ma saranno una vera vacanza per tutti o ci sarà chi è sommerso dai compiti e quindi – come dice Tommaso, di un liceo romano – «tanto vale andare a scuola»? Come sempre capita, quando si parla di scuola, la situazione è molto disomogenea. Anche perché è raro che ci sia una indicazione generale di comportamento che viene dal dirigente o dal collegio docenti, per cui ogni prof fa un po’ come vuole. «In mancanza di un coordinamento tra gli insegnanti – evidenzia Paolo Albergati, insegnante di lettere al liceo Einstein di Milano – è necessario che ciascun di noi abbia la sensibilità di tener conto del fatto che non c’è solo la nostra materia. Altrimenti il rischio è davvero un carico di compiti eccessivo. Un conto è non abbandonare lo studio per due settimane, altro è passare tutti i pomeriggi a studiare». Come avrebbe detto Totò, «è la somma che fa il totale». Ed è un totale che non sta bene a Danila, liceo scientifico di Napoli: «Ogni prof moltiplica i compiti per i giorni di vacanza. E’ un delirio». Isabella, ultimo anno in un liceo classico milanese, riconosce che le cose sono un po’ migliorate nel corso degli anni: «Al ginnasio ci riempivano di compiti, al liceo meno, ma con due verifiche già fissate per la settimana del rientro devi comunque studiare molto per forza». Perché – Isabella non ha torto - oltre ai compiti assegnati in modo palese, ci sono anche i compiti «occulti» sotto forma di verifiche portate dalla Befana già il 7 gennaio. Elisabetta Grimaldi, insegnante di inglese al liceo Galilei Potenza, opta per i compiti «personalizzati». «Invece di assegnare in modo generalizzato compiti per le vacanze – suggerisce - è più produttivo identificare eventuali lacune emerse nella prima parte dell’anno scolastico e sollecitare lo studente a sfruttare questo periodo per compensarle». Soddisfatto di come vanno le cose, invece, è Davide (Istituto Tecnico Multimediale di Milano): «I compiti per le vacanze non sono molti e quelli che ci hanno assegnato sono tutti inerenti alle materie di nostro specifico interesse». Lui che studia scenografia e fotografia, ad esempio, ha come compito per le vacanze un servizio fotografico sul Natale. Molti insegnanti dicono di assegnare come compito per le vacanze di Natale la lettura di un libro, per sollecitare i ragazzi ad una frequentazione che purtroppo appare sempre più rara. Lo confermano i dati dell’indagine sugli stili di vita degli adolescenti, realizzata da Laboratorio Adolescenza e Istituto di ricerca IARD, da cui emerge che oltre il 40% dei teenager italiani legge al massimo un libro all’anno. Molti studenti confermano questa tendenza degli insegnanti, ma contestano il fatto che la lettura del libro spesso è assegnata non al posto di compiti «tradizionali», ma come un di più. Sarà «l’effetto intervista», ma insegnanti che hanno affermato di assegnare molti compiti per le vacanze di Natale non ne abbiamo trovati. Se ce ne sono, e probabilmente ce ne sono, saranno ben nascosti. Molto più uniforme e tranchant – al riguardo è il genitore-pensiero: «Troppi compiti».

I compiti delle vacanze e il dovere della scuola di insegnare la responsabilità. Pubblicato domenica, 29 dicembre 2019 da Corriere.it. Nei giorni scorsi, il «Corriere» ha pubblicato un articolo firmato da Paolo Di Stefano intitolato: «Tutti i compiti di mia figlia, così la scuola si fa odiare». L’autore raccontava la mole «esagerata» di «espressioni, problemi, ricerche, questionari», che si sommava alla richiesta di «tenere un diario» e studiare. L’articolo (che trovate qui) ha scatenato un intenso dibattito tra i lettori: genitori e docenti. Maurizio Tucci, presidente del Laboratorio adolescenza di Milano, è intervenuto sostenendo che l’utilità dei compiti è legata alla sua personalizzazione. Qui sotto altre due lettere.

Gentile Paolo Di Stefano e gentile direttore, c’è già troppo odio in giro perché un giornale serio come il Corriere della Sera ne istighi dell’ altro. Per di più contro un’istituzione come la scuola, sempre più indifesa e bersagliata. Sono un’ insegnante delle scuole medie e sono rimasta colpita dall’approccio del suo articolo sui compiti per le vacanze, perché fin dal titolo «Così la scuola si fa odiare» c’è un errore di fondo che, peraltro, è ricorrente non solo nei rapporti fra le famiglie e la scuola, ma in tutta la società: la contrapposizione invece che la collaborazione. E nemmeno una contrapposizione costruttiva, ma una che addirittura porta all’ odio, altro sentimento - ahinoi! - troppo ricorrente ai giorni nostri. La scuola non «si fa odiare», la scuola viene fatta odiare da una società che ne svilisce in continuazione l’ importanza e i valori (oltre ad aver depotenziato gli attori principali, noi professori, e averla impoverita a colpi di mannaia ad ogni finanziaria). Fra le righe del suo sfogo contro i compiti per le vacanze si percepisce la pretesa che l’istituzione si pieghi alle esigenze e ai capricci del cittadino. Pretesa tipica di questi tempi in cui ci si chiede solo e soltanto cosa può fare lo Stato per noi e, mai e poi mai, cosa possiamo fare noi per lo Stato. Il cruciale compito che ha la scuola, formare le nuove generazioni, viene sempre meno condiviso dalle famiglie che, in numero vieppiù crescente, invece di affiancare i professori, vi si contrappongono, stabilendo una controproducente alleanza con i figli. A questi si concede di credere che imparare non debba essere frutto di lavoro (che è, invece, l’ unica strada), si aprono loro scorciatoie ovunque possibile, si fa loro credere che la responsabile del loro cattivo rendimento non è la loro pigrizia, bensì una qualche colpa o difetto del professore. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. E proprio sul suo giornale leggo, molto spesso, importanti editorialisti che se ne lamentano: una diffusa ignoranza e una delle più alte percentuali di analfabetismo funzionale in Europa, che sono, infatti, due fattori che mettono in grave pericolo il futuro del nostro Paese e della stessa democrazia. Due malattie che si curano con un’unica medicina: l’istruzione. E l’istruzione passa anche dai compiti, compresi quelli delle vacanze che lei, con un espediente giornalistico, decontestualizza ed elenca in modo quasi fantozziano. A proposito, le chiedo: sicuro che i capitoli di storia siano da «studiare» e non solo da «ripassare»? Sicuro che i 14 esercizi di grammatica inglese siano così gravosi e, in realtà, non siano giusto un paio di pagine? Così come i «12 esercizi di comprensione del testo» che detti così sembrano il programma di Analisi 2, ma spesso sono 12 domande alle quali rispondere con una o due frasi. Detto ciò, può anche essere che i compiti siano troppi, ma la sede giusta per discuterne è il consiglio di classe, nel quale affiancare i professori e provare a costruire insieme un percorso per l’obiettivo comune di cui sopra: dare un futuro ai ragazzi che educate insieme. Anche perché, senza tirare in ballo l’odio (che è una parola bruttissima), basterebbe dialogare in modo più proficuo. Sono certa che se sua figlia non svolgesse uno dei compiti assegnati, giustificata da lei con il fatto di aver visitato un museo o letto un libro, i professori sarebbero assai indulgenti. Lo sarebbero di meno se il tempo guadagnato avendo schivato lo studio fosse trascorso davanti alla playstation o, peggio, a un social network. Altrimenti è poi completamente inutile che gli editorialisti di cui sopra si lamentino di una popolazione che crede ciecamente alla più becera propaganda politica via Facebook o Twitter. Francesca Bernasconi

Gentile Professoressa, tutt’ altro che odio. Nessuno nega l’utilità dei compiti. Come spiegavo nell’ articolo, il timore è esattamente l’ opposto: che dalla passione necessaria, o almeno auspicabile, si arrivi alla saturazione. L’ appello intendeva invitare a un po’ di misura e di comprensione per il sacrosanto riposo, non certo alla fannullaggine, né tanto meno all’ odio. La ringrazio dell’ attenzione. (P.DS.)

Gentile Professoressa Bernasconi, ho letto sia il Suo intervento sia la chiara risposta di Paolo Di Stefano. Oggetto di generale critica ai compiti a casa non è l’assegnazione, la carenza di senso della misura complessiva. Taluni insegnanti agiscono come se fossero unici e non ci fossero uguali disposizioni di altri docenti. L’esagerazione non è mai quell’equilibrio che la scuola dovrebbe pure insegnare. Sono un ex insegnante. Ho provato a fare tutti gli elaborati assegnati a mio nipote prima di scrivere queste righe . Impossibile con i tempi a disposizione. Nerio de Carlo